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PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca la discussione del disegno di legge: Conversione
in legge del decreto-legge 24 settembre 2002, n. 209, recante disposizioni urgenti in materia di razionalizzazione della base imponibile, di contrasto all'elusione fiscale, di crediti di imposta per le assunzioni, di detassazione per l'autotrasporto, di adempimenti per i concessionari della riscossione e di imposta di bollo.
Ricordo che nella seduta del 2 ottobre scorso sono state respinte le questioni pregiudiziali, presentate ai sensi dell'articolo 96-bis, comma 3, del regolamento.
PRESIDENTE. Dichiaro aperta la discussione sulle linee generali.
Informo che il presidente del gruppo parlamentare dei Democratici di sinistra-l'Ulivo ne ha chiesto l'ampliamento senza limitazioni nelle iscrizioni a parlare, ai sensi dell'articolo 83, comma 2, del regolamento.
Avverto che la VI Commissione (Finanze) si intende autorizzata a riferire oralmente.
Il relatore, onorevole Antonio Leone, ha facoltà di svolgere la relazione.
ANTONIO LEONE, Relatore. Signor Presidente, il provvedimento in discussione reca un complesso di disposizioni in materia tributaria riconducibili ad una duplice finalità. Per un verso, si tratta di disposizioni volte a garantire, già nel 2002, il rispetto degli impegni assunti con il patto di stabilità e di crescita per quanto concerne i saldi di finanza pubblica. Per altro verso, si apportano alcune modifiche alla disciplina tributaria vigente relativamente a specifici profili in ordine ai quali sono emerse carenze del dettato normativo tali da ingenerare comportamenti elusivi o comunque suscettibili di determinare una riduzione del gettito.
Quanto al primo profilo, il Governo ha inteso porre rimedio a un andamento dei saldi di finanza pubblica che negli ultimi mesi ha evidenziato diversi elementi di criticità: ciò vale, in particolare, per il fabbisogno di cassa, che registra una crescita non pienamente coerente con gli obiettivi stabiliti, essendosi attestato, alla fine del mese di settembre 2002, a 40.900 milioni di euro, a fronte dei 29.696 milioni di euro registrati nel medesimo mese dell'anno precedente. Merita al riguardo sottolineare che gli elementi di criticità emersi, come è stato segnalato anche dai rappresentanti delle categorie produttive intervenuti nel corso dell'esame del provvedimento presso la Commissione finanze, sono in larga parte riconducibili al peggioramento della situazione economica che ha investito l'Italia, analogamente a tutti i maggiori paesi europei, successivamente al settembre 2001. L'aggravamento della congiuntura ha, infatti, assunto dimensioni assolutamente inattese. Alla luce di questo fatto risultano, quindi, assolutamente pretestuose le accuse per cui il Governo si sarebbe reso responsabile di un ottimismo del tutto ingiustificato, salvo dover ammettere in tempi recenti la reale gravità della situazione. La revisione al ribasso delle previsioni macroeconomiche sull'andamento dei saldi di finanza pubblica che il Governo ha dovuto effettuare trova, infatti, pieno riscontro nell'analoga variazione delle stime effettuate dai più autorevoli organismi internazionali, a partire dal Fondo monetario internazionale.
Va peraltro rilevato che, a fronte del progressivo peggioramento degli scenari macroeconomici, Governo e maggioranza hanno mantenuto fede all'impegno - assunto nei confronti dei contribuenti - di evitare il ricorso a manovre correttive di stampo analogo a quelle adottate in diverse occasioni in passato, nonostante le ripetute sollecitazioni in tal senso provenienti da parte di ampi settori dell'opposizione.
La correttezza del Governo è stata, quindi, pienamente riconosciuta dalle competenti autorità comunitarie, le quali - anche recentemente - hanno espresso il loro apprezzamento per lo sforzo compiuto dal nostro paese al fine di rispettare gli impegni relativi al patto di stabilità e di crescita. Le stesse autorità comunitarie hanno giustamente ritenuto di dover prendere
atto dell'aggravamento della situazione economica determinatasi a livello internazionale accogliendo le richieste avanzate da più parti, anche dal Governo italiano, affinché venissero introdotti alcuni elementi di flessibilità nell'interpretazione del patto di stabilità e di crescita. Il differimento della data entro cui dovrà essere realizzato il pareggio di bilancio non smentisce l'impegno comune a proseguire il processo di risanamento della finanza pubblica; piuttosto, esso offre agli Stati membri la possibilità di non rinunciare alle riforme, in alcuni casi di carattere strutturale, necessarie per rivitalizzare le rispettive economie. In buona sostanza, si è evitato l'assurdo di obbligare i paesi europei ad adottare drastiche manovre correttive che avrebbero pregiudicato definitivamente le prospettive - a breve e medio termine - di una più consistente ripresa.
Il Governo italiano si è mosso in coerenza con le indicazioni e con gli indirizzi strategici concordati in sede europea, evitando l'adozione di provvedimenti diretti ad aumentare in maniera generalizzata la pressione fiscale, i quali avrebbero ulteriormente aggravato le condizioni dell'economia. Sono infatti stati definiti i provvedimenti necessari ad avviare le riforme strutturali indispensabili per far sì che il paese potesse recuperare competitività. Particolarmente significativi, in proposito, risultano il disegno di legge di delega per la riforma fiscale e le disposizioni volte ad accelerare la realizzazione di infrastrutture di primaria importanza. Va, inoltre, apprezzato il fatto che, anche grazie a quello sforzo di immaginazione che l'opposizione contesta al Governo, siano state individuate le risorse necessarie per avviare le riforme delineate, pur in presenza di una congiuntura difficile: in tal senso assumono particolare importanza la disciplina dello scudo fiscale e la creazione di Patrimonio dello Stato ed Infrastrutture Spa.
Il disegno di legge finanziaria già stanzia ingenti risorse per l'avvio della riforma fiscale, privilegiando i percettori di redditi medio-bassi sia per evidenti ragioni di perequazione sia allo scopo di promuovere una ripresa della domanda, in primo luogo di beni di consumo. Allo stesso tempo sono state poste in essere alcune misure correttive, tra le quali devono ricordarsi quelle inserite in alcuni provvedimenti d'urgenza, i decreti-legge n. 63 del 2002, n. 138 del 2002 e n. 194 del 2002, cui più recentemente si è aggiunto il provvedimento al nostro esame. Quest'ultimo si contraddistingue, rispetto ai precedenti, per la finalità di recuperare una parte del minor gettito registrato negli scorsi mesi tra quei soggetti che si sono più intensamente potuti avvalere di regimi agevolativi.
Va tuttavia osservato che le disposizioni contenute nel decreto-legge n. 209, pur assicurando un aumento significativo delle entrate tributarie, non possono assolutamente ricondursi alle manovre di tipo tradizionale. Infatti, esse non determinano un aumento dell'onere fiscale a carico della generalità dei contribuenti, ma recano alcuni interventi diretti a ridimensionare o ad eliminare condizioni di ingiustificato privilegio di cui si sono potute avvantaggiare specifiche categorie di operatori economici. Per questo motivo il decreto-legge, pur rispondendo ad evidenti ragioni di necessità ed urgenza che discendono - come detto in precedenza - in primo luogo dall'esigenza di correggere l'andamento dei saldi di finanza pubblica per l'anno in corso, non segna un'inversione di tendenza negli indirizzi di politica economica e finanziaria del Governo e della stessa maggioranza né smentisce gli impegni assunti per quanto concerne il settore tributario. Va, infatti, ricordato che l'eliminazione o il ridimensionamento di regimi in favore solo di alcune categorie risulta pienamente coerente con il complessivo disegno di riforma del sistema tributario che ispira il provvedimento già approvato in prima lettura alla Camera ed attualmente all'esame del Senato.
Per quanto riguarda, in particolare, la fiscalità delle imprese, il disegno di legge delega intende pervenire ad un assetto stabile e coerente che semplifichi la disciplina eliminando regimi speciali e derogatori, in modo tale da rimuovere quegli
elementi di distorsione, attualmente esistenti, che interferiscono ingiustificatamente nelle autonome scelte delle imprese. A tal fine, si prevede una rideterminazione della base imponibile diretta a ricomprendere cespiti che attualmente ne sono ingiustificatamente esclusi; allo stesso tempo, si prospetta una riduzione generalizzata dell'aliquota di cui potrebbero fruire tutte le imprese produttive. In questo modo si supererebbero le condizioni di incertezza e di differenziazione che attualmente si registrano, quanto al livello di tassazione effettivamente gravante sulle imprese, in ragione della possibilità di avvalersi di regimi speciali e di specifiche agevolazioni.
Il decreto-legge in esame non contraddice né differisce l'impegno del Governo a pervenire ad un assetto della tassazione delle società che sia più uniforme e meno discriminatorio e che, allo stesso tempo, riduca il peso complessivo della tassazione. Si tratta, piuttosto, come ho già detto in precedenza, di apportare alcune correzioni a specifiche situazioni cui può essere addebitato, sia pure parzialmente, l'andamento negativo delle entrate registrato negli ultimi mesi e proprio con particolare riferimento all'IRPEG. I dati più recenti trasmessi al Parlamento dal Ministero dell'economia e delle finanze evidenziano una vistosa contrazione del gettito IRPEG le cui dimensioni possono soltanto parzialmente essere ricondotte alla riduzione dei profitti in ragione del peggioramento delle condizioni economiche generali. A fronte di tale andamento si può, infatti, osservare che il gettito IVA segna un sia pur contenuto, anche se minimo, incremento. La divaricazione tra il dato relativo all'IRPEG e quello relativo all'IVA evidenzia che, pur in presenza di una fase critica, che si è tradotta in una forte decelerazione del processo di crescita dell'economia, sono intervenuti ulteriori fattori riconducibili ad alcuni difetti della normativa tributaria.
In effetti, la disciplina fiscale, a causa di alcune delle modifiche apportate nel corso della XIII legislatura, presenta rilevanti contraddizioni in quanto consente a taluni soggetti di imposta di avvalersi intensamente di misure di agevolazione fino al punto - direi aberrante - di abbattere drasticamente il carico tributario.
Queste considerazioni valgono, in particolare, per quanto concerne la disciplina DIT la quale presenta significativi elementi di sperequazione, al punto da determinare vere e proprie discriminazioni tra le diverse imprese. Non intendiamo contestare pregiudizialmente il meccanismo introdotto nel nostro ordinamento con il decreto legislativo n. 466 del 1997. In particolare, è evidente che l'obiettivo di incentivare il rafforzamento patrimoniale delle imprese è pienamente condivisibile. Allo stesso tempo, non si possono, tuttavia, ignorare alcuni dati oggettivi.
L'esperienza di questi anni dimostra che quel meccanismo può aver determinato effetti, in termini di riduzione del gettito, superiori a quelli preventivati, per di più avvantaggiando soltanto alcune imprese. Assumendo l'assoluta buona fede di coloro i quali vollero introdurre la disciplina DIT (i quali, certamente, non intendevano agevolare alcune imprese a scapito di altre), occorre rimediare ad alcune conseguenze indesiderate, che possono essersi verificate in sede di attuazione.
È proprio per questo motivo che il decreto-legge, lungi dal voler penalizzare il sistema produttivo, si ispira ad una logica di perequazione in base alla quale, stante la necessità di intervenire allo scopo di ricondurre l'andamento dei conti pubblici in linea con gli obiettivi stabiliti, si prendono in considerazione quelle categorie che hanno potuto giovarsi di più consistenti vantaggi.
Assai più grave sarebbe stato un intervento correttivo che avesse interessato la generalità delle imprese, ivi comprese quelle che, non potendosi avvalere di specifiche agevolazioni, sono attualmente gravate da un'aliquota più elevata.
Per quanto concerne nello specifico le modificazioni apportate con il decreto-legge in esame, si può osservare che il cosiddetto moltiplicatore non costituisce un elemento strutturale della logica ispiratrice della DIT, rappresentando, piuttosto,
una sorta di beneficio aggiuntivo non riconducibile ad effettive ragioni se non a quella di amplificare l'effetto incentivante della DIT stessa. Occorre, peraltro, rilevare che, nel corso dell'esame del provvedimento in Commissione, sono stati forniti alcuni interessanti elementi informativi quanto alla disposizione recata in materia di DIT alla lettera c) del comma 1 dell'articolo 1 del decreto-legge in discussione. Il dibattito che sulla questione si è svolto in Commissione è stato particolarmente approfondito e proficuo e ha suscitato notevole interesse non soltanto nei soggetti direttamente interessati e nella stampa specializzata. Il Governo ha avuto modo di ribadire che la disposizione inserita nel provvedimento non intende assolutamente penalizzare il sistema produttivo. In qualità di relatore ho manifestato piena disponibilità a valutare tutte le proposte che, senza stravolgere l'impianto del provvedimento e senza mettere in discussione la necessità di correggere l'andamento del gettito, si dimostrino più efficaci allo scopo di correggere le più palesi incongruenze del sistema DIT. Si può quindi lavorare - una volta acquisiti, anche grazie alle approfondite istruttorie svolte in Commissione, tutti gli elementi utili allo scopo - ad alcuni aggiustamenti della disposizione della lettera c) purché non si metta in discussione l'obiettivo di rimediare al drastico abbattimento del livello di tassazione di cui hanno beneficiato alcune imprese.
Nel prosieguo dell'esame, in accordo con il Governo, al quale spetta verificare la praticabilità delle eventuali modifiche da apportare sotto il profilo degli effetti sul gettito, si potrà valutare la possibilità di emendare parzialmente il testo. A questo proposito merita sottolineare, anche in risposta ad alcune critiche mosse all'operato del Governo, che i vantaggi che possono derivare da un ampio confronto e da un'accurata verifica con i soggetti interessati, anche in una fase preventiva alle predisposizioni dei provvedimenti legislativi, non esimono il Governo ed il Parlamento dall'assunzione della responsabilità che loro compete di adottare le decisioni che si ritengano opportune, specie in situazioni di oggettiva difficoltà. In queste circostanze, infatti, la tempestività dell'intervento è un presupposto imprescindibile per conseguire i risultati attesi.
Occorre, quindi, ribadire la competenza propria del legislatore su materie tanto delicate quali sono le modifiche da apportare al regime fiscale, materie su cui lo stesso legislatore si pronuncia assumendo una prospettiva più ampia in cui tutti gli interessi, e non solo quelli delle categorie più direttamente coinvolte, vengono ponderati. Il confronto con i vari interessi in campo non può, in altri termini, tradursi in una permanente contrattazione che pregiudicherebbe la capacità decisionale del Governo e dello stesso Parlamento.
Sempre in materia di fiscalità delle imprese ricordo che l'articolo 1, comma 2, introduce una norma concernente la misura della deducibilità degli accantonamenti in riserve tecniche delle compagnie di assicurazione. A questo riguardo occorre considerare che i dati forniti dai rappresentanti delle imprese del settore, intervenuti in audizione presso la Commissione finanze, hanno evidenziato che l'aumento dei premi registrato nel 2001 non è stato omogeneo tra i diversi rami e tra le diverse imprese. In particolare, si è registrato un incremento più marcato nel ramo vita. Ciò costituisce un elemento positivo che risponde all'obiettivo del Governo e della maggioranza di incentivare uno sviluppo del comparto anche ai fini della crescita della previdenza complementare.
Alla luce di tale elemento sembra opportuno ipotizzare una modifica al testo del decreto-legge che si muova nel senso di evitare l'adozione di disposizioni suscettibili di determinare discriminazioni fra le diverse imprese interessate, ferma restando la garanzia del risultato atteso in termini di maggior gettito. In particolare, si può valutare la possibilità di distinguere il regime da applicare al ramo danni, per il quale potrebbe restare sostanzialmente invariata la disciplina prevista dal decreto-legge, e quello da riferire al ramo vita. Per quest'ultimo si può prospettare l'applicazione
di un'imposta di importo contenuto da riferire alle riserve matematiche. Preannuncio, dunque, la presentazione, in qualità di relatore, di un emendamento che si muova in questo senso.
Le ulteriori disposizioni recate dal provvedimento sono riassumibili nei seguenti termini. Per quanto concerne il regime applicabile alle svalutazioni di partecipazioni, si dispone, in sostanza, l'esclusione della deducibilità nel caso di svalutazioni che dipendono da distribuzione di utili da parte della società partecipata ovvero dal fatto che quest'ultima abbia sostenuto costi ed oneri fiscalmente non deducibili.
Nel corso dell'esame in Commissione sono stati segnalati, in particolare dai rappresentanti del sistema delle imprese, intervenuti in audizione informale, alcuni delicati profili che attengono alle difficoltà di ordine pratico, che l'effettuazione di talune operazioni di valutazione comporterebbe, con conseguente rischio di ingenerare situazioni di incertezza. Ciò vale in primo luogo con specifico riferimento alle valutazioni che i soggetti interessati dovrebbero effettuare per quanto concerne le diminuzioni patrimoniali derivanti da costi, specie se soltanto parzialmente indeducibili. Analogamente sono state segnalate le difficoltà che implicherebbe l'applicazione del regime di cui all'articolo 127-bis del testo unico delle imposte sui redditi, relativamente alle partecipazioni detenute in società non residenti, soprattutto in considerazione della ristrettezza dei tempi a disposizione per la predisposizione delle dichiarazioni. Trattandosi di questioni di indubbio interesse, che meritano attenzione, è probabile che ad esse sia possibile dare un'adeguata risposta attraverso alcune limitate modifiche migliorative al testo del provvedimento.
La lettera b) del comma 1 prevede che le minusvalenze diverse da quelle realizzate non siano deducibili nello stesso esercizio in cui sono iscritte in bilancio. Si stabilisce infatti che la minusvalenza debba essere spalmata in cinque esercizi, a partire da quello in cui è stata iscritta.
Si prevede inoltre, all'articolo 1, comma 4, un monitoraggio delle minusvalenze di ammontare complessivo superiore a dieci milioni di euro, derivanti da cessioni di partecipazioni (anche a seguito di più atti di disposizione). Si stabilisce, infatti, l'obbligo di comunicare all'Agenzia delle entrate tali minusvalenze, ai fini della verifica di conformità delle operazioni che le hanno generate alla disposizione antielusiva di cui all'articolo 37-bis del decreto del Presidente della Repubblica n. 600 del 1973. L'omessa comunicazione è sanzionata con la indeducibilità delle minusvalenze.
L'articolo 1, comma 3, prevede che le disposizioni recate ai commi precedenti valgono già per gli acconti del prossimo novembre, che dunque dovranno essere calcolati assumendo le modifiche apportate alla normativa previgente. In questo modo si consegue il vantaggio di assicurare le maggiori entrate, attese già nell'anno in corso.
Nel corso dell'esame in Commissione, è stato approvato al comma 4 un emendamento diretto a disciplinare gli effetti conseguenti alla sentenza della Corte costituzionale n. 194 del 2002. Tale sentenza si riferiva alla copertura di posti vacanti dal quinto al nono livello dell'amministrazione finanziaria mediante ricorso, per una parte significativa dei posti stessi, a procedure di riqualificazione riservate al personale interno. La Corte ha, in particolare, dichiarato l'illegittimità delle disposizioni di cui alla legge n. 549 del 1995 e di cui alla legge n. 133 del 1999, che avevano introdotto tale procedura. Si tratta di una questione di indiscutibile rilievo, non soltanto per l'elevato numero di lavoratori interessati (circa 19 mila), ma anche per la stessa amministrazione finanziaria, la cui funzionalità può essere messa a repentaglio da una perdurante condizione di precarietà.
Desidero in proposito esprimere il mio compiacimento per il lavoro concordemente svolto in Commissione, anche grazie alla proficua collaborazione dei gruppi di opposizione, allo scopo di dare soluzione ad un problema che imponeva un intervento
del legislatore che si muovesse nel solco della pronuncia della Corte, provvedendo ad individuare il regime concretamente applicabile, in ogni caso senza intaccare l'autonomia contrattuale. Al riguardo, vorrei dire che è possibile vi sia un ritocco dell'emendamento approvato unanimemente dalla Commissione, allo scopo di eliminarne l'ultimo capoverso; ciò anche per dar corso ad un emendamento del collega Benevento, di cui ho già preso visione e che mi sembra si attagli alla questione in oggetto e sul quale già preannuncio il parere favorevole, proprio al fine di operare questa modifica, così come voluto anche dalle parti interessate.
Il comma 5 dell'articolo 1 introduce una sorta di scudo fiscale relativamente alle fusioni e alle scissioni di cui al decreto legislativo n. 358 del 1997, consentendo di affrancare i plusvalori iscritti in bilancio per effetto dell'imputazione dei disavanzi di fusione.
PRESIDENTE. Onorevole Antonio Leone, la invito a concludere.
ANTONIO LEONE, Relatore. Ho già concluso il tempo a mia disposizione, signor Presidente?
PRESIDENTE. Sì, onorevole Antonio Leone, lei ha esaurito i venti minuti di tempo a sua disposizione.
ANTONIO LEONE, Relatore. Concludo chiedendo l'autorizzazione alla pubblicazione, in calce al resoconto stenografico della seduta odierna, delle ulteriori considerazioni contenute nel testo scritto della mia relazione introduttiva.
Vorrei quindi terminare il mio intervento ringraziando nuovamente i componenti della Commissione. Credo peraltro che il lavoro che svolgeremo dopo questa discussione sulle linee generali sarà sicuramente proficuo e ben visto anche dai colleghi dell'opposizione (Applausi dei deputati del gruppo di Forza Italia).
PRESIDENTE. La Presidenza autorizza la pubblicazione sulla base dei consueti criteri.
Ha facoltà di parlare il rappresentante del Governo.
DANIELE MOLGORA, Sottosegretario di Stato per l'economia e le finanze. Il Governo si riserva di intervenire in sede di replica.
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Grandi. Ne ha facoltà.
ALFIERO GRANDI. Signor Presidente, vorrei mi ricordasse quanto tempo ho a disposizione, al fine di evitare eventuali «splafonamenti».
PRESIDENTE. Onorevole Grandi, ha a disposizione 30 minuti.
ALFIERO GRANDI. Grazie, Presidente.
Il relatore, onorevole Antonio Leone, ha sentito il bisogno di rispondere anticipatamente ad osservazioni e critiche. Evidentemente, se ha sentito tale bisogno, vuol dire che questo provvedimento - che fa parte di un insieme di provvedimenti che il Governo ha elaborato in rapida successione - merita o, quanto meno, rischia di meritare queste osservazioni e queste critiche.
Infatti, malgrado le giustificazioni sui rapidi aggiustamenti di cifre, avvenuti nel corso dei mesi sulla base dell'andamento delle condizioni economiche, sembra che al Governo sia stata estorta la verità.
Prima di avere dati reali, sono dovuti intervenire organi, non solo nazionali, organizzazioni imprenditoriali come la Confindustria, la Banca d'Italia - che, evidentemente, non è un'organizzazione, ma un'istituzione del nostro paese - nonché opinioni europee che, alla fine, hanno convinto il Governo che, di fronte all'esigenza di dare i numeri, non si potesse continuare a darli come si era fatto fino a quel momento.
Questa è la ragione per cui ci troviamo di fronte ad un provvedimento che dà l'impressione di certi giovanotti, non esattamente di ottimi costumi, che per ottenere qualcosa di più a livello personale non vedono di meglio che mettere le mani
nella cassa del genitore. Qui siamo di fronte a qualcosa che assomiglia molto a tale situazione: arraffare, portare a casa.
Fondamentalmente, il decreto taglia-spesa ha cercato e cerca di tagliare fuori il Parlamento dal suo ruolo, in quanto si attribuisce al Governo il diritto di intervenire sui provvedimenti nei termini che abbiamo già discusso quando si è affrontato questo provvedimento.
Questo decreto-legge di natura fiscale colpisce in modo indiscriminato e, purtroppo, colpisce male. Ho ascoltato attentamente l'onorevole Antonio Leone, il quale afferma che non ci può essere permanente contrattazione; basterebbe ci fosse concertazione, discussione, confronto! Ho ancora gli appunti del dottor Parisi che, quando è stato audito in Commissione, ha affermato che la Confindustria è sconcertata per misure adottate senza confronto, per interventi fatti in corso d'opera e per effetti che gettano gran parte del mondo delle imprese in condizioni difficilmente sostenibili. Naturalmente, la Confindustria farà la sua parte, per carità! Ho scoperto che adesso anche il ministro Tremonti, il Governo e autorevoli esponenti della maggioranza vedono la Confindustria in termini più realistici rispetto a quelli che venivano descritti tempo fa. Benissimo, è sempre un fatto positivo quando il principio di realtà va avanti.
Tuttavia, in questo caso, non siamo di fronte al pericolo di una permanente contrattazione, ma di decisioni unilaterali, che hanno destato sconcerto nella più importante organizzazione imprenditoriale, che ha firmato il patto per l'Italia e che si sente - diciamolo con un termine che rende l'idea - fregata.
Quindi, questo decreto-legge è parte decisiva della manovra; esso, tra l'altro, è sottovalutato nella dimensione delle entrate: si afferma che dovrebbe produrre determinati risultati ma poi i colloqui svolti con le diverse organizzazioni interessate fanno capire chiaramente che si tratta di un decreto-legge che vale molto più di quanto non sia indicato e, conseguentemente, è un provvedimento che ha pesanti ripercussioni sul sistema economico.
Questo pesante intervento sul sistema economico avviene in una fase che non è esattamente delle migliori. È una fase difficile; vi è una condizione economica che già era in forte rallentamento e, questa mattina, ho sentito i dati relativi all'aumento della produzione industriale nei settori legati all'esportazione, non tutti legati all'auto, che è sotto del 10 per cento. Tuttavia, è sotto quasi del 10 per cento anche il settore dell'abbigliamento, il cosiddetto made in Italy.
Di conseguenza, nonostante il piccolo accenno di ripresa della produzione industriale che si era manifestato alcuni mesi fa e che, evidentemente, aveva fatto ben sperare, in questo momento il segnale è completamente opposto. Le condizioni economiche, il trend economico è preoccupante, negativo e coincide, tra l'altro, con una situazione economica internazionale che, sicuramente, non aiuta. Ci troviamo dinanzi ad un intervento assolutamente sbagliato, che va nella direzione di aggravare le condizioni ed il rallentamento del sistema economico. È stato affermato che il Governo si è già distinto in questa direzione, anche in passato, in particolare con riguardo ai crediti di imposta per il Mezzogiorno: prima li ha tagliati, poi ci ha riflettuto e ha dovuto ammettere che, forse, erano persino e utili. Ha assunto alcuni impegni nel patto per l'Italia: bisogna ancora verificare se conseguiranno l'esito necessario. Dagli emendamenti presentati dall'onorevole Tabacci e da altri autorevoli esponenti della maggioranza, starei per affermare che ancora non ci siamo. Gli emendamenti presentati al disegno di legge finanziaria sembrano confermare che riguardo al Mezzogiorno qualche problema c'è. Anche il Vicepresidente del Consiglio dei ministri, Fini, adesso ritiene che la concertazione debba essere riesumata: meglio tardi che mai. Resta il fatto che, nell'insieme, questo decreto-legge interviene malamente, in modo sbagliato, con il rischio di conseguire effetti distruttivi sulle condizioni
dello sviluppo economico del nostro paese. In particolare, voglio soffermarmi su alcuni suoi aspetti.
Inizio dal blocco delle assunzioni. Come è noto, nel mese di luglio è stato approvato un provvedimento, un vero e proprio inganno nei confronti del Parlamento. Sono ancora stupito del fatto che i deputati della maggioranza non abbiano chiesto ragione al Governo per avere voluto l'approvazione di un provvedimento di principi, tenendo già nel cassetto il decreto che bloccava i crediti d'imposta per i nuovi assunti. Infatti, non deve essere mai dimenticato che, nello stesso giorno in cui è stata pubblicata, sulla Gazzetta Ufficiale, la legge di conversione del decreto-legge, contemporaneamente l'Agenzia delle entrate ha pubblicato il decreto che, constatata la mancanza di fondi per finanziare questa preziosissima misura, la bloccava e chiedeva, addirittura, la restituzione contra legem, di quanto le imprese avessero già ricevuto nel breve lasso di tempo intercorso tra l'approvazione del decreto-legge e l'entrata in vigore, il 7 luglio. È tanto vero che si è verificata una illegittimità, che vi è stata la cancellazione dal modello F24. Il Governo ha adottato un provvedimento confuso che ha condotto, il 16 dicembre, alla restituzione del denaro.
La Commissione finanze, praticamente all'unanimità, ha riconosciuto che le imprese che già avessero effettuato assunzioni dovessero ottenere il riconoscimento di quanto avevano fatto. Spero che questa norma sia confermata e che non ci siano arretramenti da parte del Governo, che potrebbero creare problemi molto seri. Naturalmente, il modo in cui questo decreto-legge dello scorso luglio è stato approvato non è tale da invogliare le imprese e i cittadini ad avere fiducia nel sistema fiscale nello Stato. Capisco che, in epoca di globalizzazione e di flessibilità, si ritenga normale che le decisioni siano assunte nel giro di minuti, se non di secondi. Tuttavia, una impresa, nel corso della sua vita, ha bisogno di sapere se una norma sia ancora in vigore o meno quando adotta un provvedimento. Date le modalità con le quali il Governo è intervenuto e con le quali, purtroppo, il Parlamento ha approvato a maggioranza tale provvedimento, le imprese non sono più sicure di nulla.
Vediamo poi in che modo, concretamente, sia stata affrontata la riparazione in questo decreto-legge. In pratica, quest'ultimo non ripara assolutamente nulla, perché lascia bloccato al 7 luglio scorso l'incremento degli occupati sul quale è possibile ottenere i crediti di imposta per favorire le assunzioni. Inoltre, rinvia a gennaio - al di là di una utilissima discussione dell'onorevole Conte - la possibilità per le imprese di ottenere, in tre rate costanti pari ad un terzo di quanto ad esse dovuto, quanto loro spetti.
Ma nulla è detto per il futuro (e nemmeno la legge finanziaria chiarisce), in particolare, per i prossimi mesi. La gravità di questo atteggiamento sta nel fatto che da alcuni settori sono venute analisi quanto mai puntuali sull'andamento dell'occupazione. Ce lo ha ripetuto il dottor Galli in sede di audizione per il quale l'analisi fatta dall'ufficio studi della Confindustria a luglio su aprile del trend occupazionale in Italia era diversa da quelle autentiche ubbie che erano state usate da alcuni esponenti del Governo e della maggioranza, i quali evidentemente non sanno nulla di dati occupazionali, visto che avevano addirittura preso l'incremento delle posizioni INAIL per aumento di occupati in Italia, parlando di cifre come 900 mila o un milione e chi più ne ha metta. In realtà, gli studi ci dicono che i poco meno di 300 mila occupati che si sono avuti, ad un anno di distanza, nel luglio scorso, stanno progressivamente calando, al punto tale che la previsione dell'ufficio studi di Confindustria è che questo trend porterebbe a dicembre ad un incremento occupazionale pari a zero: tutto questo prima del decreto-legge e, in particolare, prima della «non riparazione» che avviene con questo provvedimento e con la legge finanziaria. Aggiungiamo che nel frattempo è scoppiata la crisi della FIAT con gli effetti che riguardano l'indotto e i dati di incremento produttivo che prima ho ricordato. Di conseguenza, è
lecito nutrire enormi preoccupazioni sulle condizioni occupazionali di oggi e, in particolare, dei prossimi mesi. Ci vorrebbe un'iniziativa in grado di spingere nella direzione del massimo risultato occupazionale, per difendere i risultati faticosamente ottenuti nel corso di questi anni con incrementi occupazionali che hanno richiesto misure di sostegno all'occupazione molto rilevanti. Invece, in questo momento, in una situazione che va nella direzione opposta, si dà incertezza alle imprese e soprattutto vengono meno gli effetti di provvedimenti che sono stati decisivi nel creare buona occupazione, ossia nuovi occupati a tempo indeterminato.
Pertanto, visto che l'onorevole Leone ha giustamente messo insieme i provvedimenti - il «decreto tagliaspese», il decreto riguardante fondamentalmente le misure fiscali e la legge finanziaria -, va detto che in questo complesso di provvedimenti, caro onorevole Leone, non ci sono le garanzie necessarie per migliorare l'occupazione. Questa misura di sostegno all'occupazione è assolutamente indispensabile. Ad essa sono riferiti degli emendamenti anche diversi tra di loro: la maggioranza è sfidata a prenderne uno o a scriverne un altro. Ciò che noi non possiamo in alcun modo accettare (e non lasceremo nulla di intentato perché avvenga) è che queste misure perdano l'importante efficacia che hanno avuto negli incrementi di occupazione nel nostro paese.
Anche la DIT e la super DIT - che sicuramente rappresentano il cuore del problema solo dal lato della sottrazione di risorse al sistema delle imprese, naturalmente, perché prima di ogni altra cosa viene la qualità e l'occupazione - sono qui affrontate molto malamente. Ad esempio, un conto è analizzare gli effetti della DIT e della super DIT: mi riferisco alla tabella, già ampiamente nota, che ci è stata consegnata dal ministro Tremonti, con molta della prosopopea che gli è propria, nell'audizione che si è svolta dalle Commissioni bilancio e finanze. È del tutto evidente che la capitalizzazione incentivata da DIT e super DIT è fondamentalmente rivolta ad un'area di imprese: in questo caso, attorno alle 130 mila imprese e, in particolare, a quelle che hanno maggiormente capitalizzato. Si può ragionare sul fatto che sia necessario ripartire gli incrementi e gli incentivi di capitalizzazione su un arco di imprese maggiori e, soprattutto, che possa essere necessario costruire una sorta di DIT per le piccole aziende, poiché il sistema con cui si è operato fino ad oggi ha dimostrato che effettivamente esiste un problema di questo tipo. Questo sarebbe un modo per ragionare, per ridistribuire le risorse nell'ambito dei diversi comparti del sistema economico, in particolare fra grande e piccola impresa.
In ogni caso, per quanto attiene alla direzione in cui va il Governo, tra tagli contenuti in termini estremamente forti - non si tratta di azzeramento, ma si parla di due terzi di risorse in meno -, la scelta effettuata dalla legge finanziaria a favore di una misura indifferenziata, come la riduzione dell'IRPEG, francamente non ha senso. Quando le risorse sono poche, in genere, si interviene in modo mirato, si cerca di incentivare gli investimenti là dove serve, ad esempio, sostenendo le piccole aziende, i settori di punta, incentivando meglio alcuni aspetti rispetto ad altri; in questo caso, si sta facendo il contrario, ci troviamo di fronte al prelievo, al taglio delle risorse, al taglio di provvedimenti di sostegno al sistema economico.
Quindi, se due aspetti fondamentali come l'occupazione e gli incentivi agli investimenti hanno queste caratteristiche, caro onorevole relatore, caro rappresentante del Governo, l'unica cosa seria che potreste fare è prendere questo decreto-legge e buttarlo nel cestino. Si tratta di un provvedimento che va riscritto daccapo, è sbagliato e scritto seguendo una logica sbagliata, affannosa, inaccettabile. Che questo decreto-legge rappresenti un provvedimento da riscrivere da capo è tanto vero che ne siete convinti anche voi, infatti poco o tanto sarete i primi a riscriverlo. Non so se arriverete ad affermare, come ha fatto il Vicepresidente del Consiglio Fini, di voler riscrivere la legge finanziaria
per affrontare i problemi, ma credo che, grosso modo, siamo nello stesso ordine di idee.
Per favore, meno prosopopea, meno tracotanza, vediamo quali sono i problemi, guardate attentamente gli emendamenti che abbiamo presentato. Naturalmente, noi speriamo che i nostri emendamenti vengano esaminati ed accolti per un'unica ragione e, cioè, perché, per il bene dell'Italia, è necessario che questo provvedimento cambi radicalmente la sua fisionomia.
Badate che dal patto per l'Italia, dall'inizio di luglio ad oggi, sono passati veramente pochi giorni e, se non fosse per qualche malinteso senso dell'orgoglio di alcuni dei protagonisti che insistono a mantenere la firma, in realtà, si dovrebbe semplicemente ammettere che quel patto non esiste più, anzitutto per ammissione dei principali firmatari di parte imprenditoriale e sindacale. Del resto, il Governo manifesta chiaramente l'intenzione di non sentirsi legato più di tanto né nel metodo né nel merito; infatti, le osservazioni di Confindustria, naturalmente, non sono solo di metodo, ma vorrei ricordare che Parisi si riferiva anche al merito quando ricordava che con il ministro dell'economia si era concordato uno scambio - che io posso non condividere, anzi non lo condivido - tra DIT e IRAP; questa è l'interpretazione data da uno degli interlocutori principali di quel patto, che voi avete messo nel cestino, che voi avete contribuito per primi, prima a scrivere - cercando la divisione sindacale - e poi a buttarne i contenuti ed il metodo, non adempiendo agli impegni e non ascoltando le richieste.
Il vero problema è che oggi i provvedimenti che avete adottato sono sbagliati. Quindi, mi permetto di dire che aveva ragione chi non ha firmato il patto, la CGIL che, giustamente, ha condotto con i lavoratori che l'hanno seguita lo sciopero di venerdì scorso: uno sciopero importante che non potrà essere leso da nessun tipo di denigrazione e, se il Governo agisse di conseguenza, azzererebbe il patto per l'Italia, ripartirebbe da capo, rilanciando - in questo caso si potrebbe essere anche d'accordo con il Vicepresidente del Consiglio Fini - la concertazione e ridando, a tutti, il posto che gli spetta nella contrattazione e nella concertazione.
Se questo non farete, peggio per voi, vorrà dire che farete un altro passo avanti nel dimostrare che forse bisogna semplicemente lasciarvi fare, in quanto siete i migliori testimoni dell'opposizione (Applausi dei deputati del gruppo dei Democratici di sinistra-l'Ulivo).
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Benvenuto. Ne ha facoltà.
GIORGIO BENVENUTO. Signor Presidente, la ragione della nostra opposizione al provvedimento in esame non corrisponde, come potrei dire, ad un atteggiamento tradizionale.
Non è solo un'opposizione a prescindere: abbiamo formulato, infatti, una serie di osservazioni, di proposte e di rilievi, poiché riteniamo che il provvedimento al nostro esame sia sbagliato ed in controtendenza. Quest'ultimo, infatti, invece di aiutare il sistema delle imprese del nostro paese ad uscire da una situazione di stagnazione, lo mette in una situazione di particolare gravità.
Che le nostre osservazioni non siano a prescindere, è dimostrato dal fatto che, nel corso dell'indagine conoscitiva svolta in maniera informale in ufficio di presidenza, sono state formulate, da parte di tutti i soggetti auditi, una serie di osservazioni critiche precise e puntuali. La Confindustria e l'Assonime - lo voglio ricordare - ed anche le stesse rappresentanze delle piccole aziende, la Confapi, hanno espresso rilievi fondati, critiche e gravi preoccupazioni. Così è avvenuto da parte dell'ANIA, dell'ABI, delle categorie professionali ed, in maniera unanime, delle tre organizzazioni sindacali a cui si è aggiunta anche la UGL. È, quindi, un panorama di critiche severe mosse al provvedimento adottato dal Governo.
Anche nel corso del dibattito che si è svolto nelle altre Commissioni, ad esempio in Commissione attività produttive, sono
state espresse alcune osservazioni critiche. Addirittura, con riferimento al parere espresso da quest'ultima, il gruppo della Lega non ha condiviso il parere critico che la maggioranza ha formulato sul provvedimento al nostro esame ed, in particolare, sugli effetti che la pesante rimessa in discussione della DIT produrebbe sul nostro sistema. L'espressione di critiche severe ha, pertanto, fatto parte del dibattito in Commissione.
Tali critiche, a quanto sembra, sono state utili. Sono state utili quelle provenienti dalle forze sociali ed economiche, come le critiche e le proposte avanzate in Commissione, tant'è che - così risulta dall'intervento dell'onorevole Antonio Leone - il relatore e, quindi, il Governo si accingono a compiere un passo, un mezzo passo indietro, come mi pare di individuare, e a formulare alcune proposte di cambiamento che tengano conto delle preoccupazioni e delle osservazioni formulate.
In particolare, voglio richiamare l'attenzione della maggioranza e del Governo su due questioni fondamentali. La prima è che il Governo si smentisce con riferimento alla delega fiscale approvata alla Camera ed in corso di discussione al Senato.
Si assumono i principi dello statuto del contribuente come elemento base del futuro codice tributario. Con il provvedimento in esame si contraddice tale affermazione. Vengono adottati due atteggiamenti particolarmente gravi che possono portare all'attuazione scomposta della riforma fiscale che, per preoccupazioni di gettito, rimette in discussione i principi fondamentali con riferimento ai quali avevamo realizzato una grande intesa perché si poneva il sistema fiscale del nostro paese su una strada di civiltà e di correttezza nei rapporti tra il cittadino, il contribuente e lo Stato.
A cosa mi riferisco? A due gravi violazioni: la prima rappresentata dal fatto che viene ripristinato il principio della retroattività delle norme di carattere fiscale, così ledendo uno degli elementi cardine dello statuto del contribuente, mentre l'altra grave violazione deriva dal fatto che nello statuto del contribuente si è stabilito che, quando si apportano correzioni, tra il momento della decisione e quello dell'attuazione, devono intercorrere 60 giorni. Così non è, perché le nuove misure adottate, nonostante le modifiche che pure proporremo, comporteranno uno stress fortissimo per i contribuenti e per le imprese, quando questi dovranno definire, nel mese di novembre, l'acconto. Si tratta quindi di gravi violazioni sotto il profilo della tenuta e del rispetto dello statuto del contribuente.
Vorrei inoltre aggiungere che non siamo riusciti a trovare una soluzione nel corso del dibattito: questo provvedimento, ad avviso del Governo, prevede un gettito di 3,5 miliardi di euro, mentre, ad avviso delle imprese e dei diversi soggetti sociali auditi, si prevede un gettito di 8 miliardi di euro. Una differenza notevole, un vero e proprio salasso che si produce nei confronti del nostro sistema economico. Comprendo la prudenza del ministro dell'economia che, sulla scorta delle esperienze passate in cui abitualmente egli ha sovrastimato le entrate e sottostimato le uscite, intende probabilmente ora cambiare la propria politica. Credo tuttavia che questo elemento debba rappresentare un aspetto su cui riflettere, anche perché gli uffici della Camera, nel corso delle loro analisi, non quantificano il maggiore gettito ed anch'essi forniscono una valutazione che parla di una sottostima del gettito, così come prevede il Governo.
Penso che queste riflessioni abbiano probabilmente portato il relatore a proporre e ad indicare possibili modifiche al decreto-legge; penso inoltre sia stata molto opportuna l'osservazione che, nel corso del dibattito, ha svolto il presidente La Malfa. Infatti, nel delineare questa differenza nella valutazione del gettito, si osservava che, se il gettito dovesse essere così alto rispetto alle previsioni, non dovrebbero esserci eccessive difficoltà nel correggere un provvedimento che, in caso contrario, avrebbe un fortissimo peso sulla nostra economia. In pratica, esso comprometterebbe
ed azzopperebbe la nostra economia in un momento di particolare difficoltà.
Vorrei inoltre svolgere ulteriori osservazioni: abbiamo ascoltato diverse motivazioni, non soltanto quelle svolte dal relatore, ma anche quelle che, in più di una occasione, ha formulato il ministro dell'economia. Quest'ultimo ha infatti voluto giustificare questo provvedimento e lo ha fatto parlando di un improvviso calo del gettito riferito all'autotassazione, un calo di gettito avvenuto - secondo la politica propria del ministro Tremonti, ovvero quella dello scaricabarile - per gravi responsabilità e per una serie di provvedimenti di agevolazione fiscale che sarebbero stati adottati dai precedenti governi nella precedente legislatura.
Vorrei correggere questa interpretazione: in primo luogo, è singolare che il ministro dell'economia scopra improvvisamente che vi è una riduzione di gettito. Ci troviamo in una situazione completamente nuova, nella quale il ministro dell'economia sovraintende sia al controllo della spesa pubblica sia al controllo delle entrate erariali.
Quindi, se i conti sono precipitati, vuol dire che il ministro - che nella sua persona riunisce le due funzioni che, nella passata legislatura, appartenevano a due ministeri - non ha saputo monitorare il flusso del gettito fiscale e non ha saputo prevedere in tempo ciò che sarebbe avvenuto. Bisogna ricordarlo, perché questa improvvisa caduta del gettito e questo fallimento dell'autotassazione sono il risultato di una situazione molto più complessa: il sistema delle imprese, come anche la borsa e l'intera congiuntura economica, hanno attraversato un momento difficile che ha caratterizzato la fine del 2001 e, purtroppo, anche il 2002. Inoltre, non dimentichiamo che la rivalutazione dei beni aziendali, realizzata per allineare il valore delle nostre aziende alle nuove realtà dell'euro, è stata decisa dal precedente Governo, ma era stata prorogata anche da quello attuale.
Vorrei ancora ricordare che la Tremonti-bis e la riforma fiscale hanno fatto anticipare operazioni di svalutazione delle partecipazioni finanziarie, come suggeriva la stessa agenzia delle entrate, con una circolare del maggio 2002, e che nella caduta del gettito hanno certamente avuto un effetto particolare tutte le misure adottate di allentamento dell'attenzione nella lotta contro l'evasione e l'elusione fiscale, così come ha certamente avuto una sua influenza il fatto di aver parlato di condono fiscale, come tutti ricorderete, con emendamenti, presentati dalla maggioranza, già quando abbiamo discusso il provvedimento omnibus.
Vorrei ancora ricordare al Governo e al ministro dell'economia che nella relazione previsionale e programmatica si parlava di un incremento delle entrate IRPEG del 17 per cento e ancora nella relazione trimestrale di cassa all'inizio di quest'anno si parlava di un aumento di gettito dell'IRPEG del 7 per cento. Quindi, se ci sono errori, se c'è una situazione di difficoltà, questa è senz'altro ascrivibile ad un modo di affrontare la situazione economica del paese nel quale si gioca con le cifre, si alterano le cifre o si effettuano delle iniezioni di ottimismo che non hanno alcuna base e alcuna aderenza con la realtà, salvo poi, quando i nodi vengono al pettine, a dover prendere di tutta furia provvedimenti come quello al nostro esame.
Ancora alcune osservazioni, signor Presidente, sulle assicurazioni. Vedo anche qui, come sulle banche, un atteggiamento schizofrenico del Governo, che sottopone le assicurazioni a delle «docce scozzesi». Non posso dimenticare che all'inizio della legislatura, nel provvedimento dei cento giorni, si prevedeva di estendere la Tremonti-bis anche alle assicurazioni e alle banche. Poi sono stati adottati dei provvedimenti e, come ha ricordato il relatore nella sua relazione, mi auguro si giunga ad indicare dei correttivi e delle soluzioni, perché essi sono talmente eccessivi che finiscono per non tener conto neanche della natura, della struttura delle assicurazioni.
Noi abbiamo presentato degli emendamenti. Certo vorremmo che il Governo fosse più attento e più vigile nei confronti
delle assicurazioni sul problema delle RCauto e non assumesse invece atteggiamenti punitivi, come ha fatto, ad esempio, per quanto riguarda il ramo vita (nel caso in cui il decreto non venisse modificato).
Vorrei ancora aggiungere poche osservazioni. Vi sono degli elementi di crisi che vanno verificati, degli elementi importanti, legati alle svalutazioni connesse alle distribuzioni degli utili, alle svalutazioni connesse a costi ed oneri non deducibili ed alle svalutazioni di società partecipate estere nonché il problema importante dell'utilizzo fiscale della svalutazione - se ammessa - che adesso è prevista in cinque periodi.
Anche in questo caso, esistono problemi legati al merito, al contenuto ed alla possibilità di applicazione delle misure adottate.
Non condividiamo l'atteggiamento assunto dal Governo nei confronti della DIT. Non sappiamo se si tratta di un atteggiamento di carattere punitivo, anche perché non riusciamo a sapere dal Governo quali sono gli effetti della «Tremonti-bis». Sembra, tuttavia, dalle memorie consegnate in Commissione e delle osservazioni svolte dai soggetti auditi, che gli imprenditori abbiano preferito la DIT alla Tremonti-bis. Non vorrei che il provvedimento adottato rappresentasse una sorta di ritorsione, di vendetta, nei confronti degli imprenditori.
Vorrei ricordare che, nel corso delle audizioni, è stata clamorosamente smentita l'affermazione del ministro in base alla quale la norma introduttiva della DIT aveva favorito solamente le grandi aziende. Non è così! Finalmente, abbiamo ricevuto alcuni dati che correggono quest'impostazione; vi sono soprattutto le proposte della Confapi che ha sollevato l'importanza e la necessità che, con riferimento alla DIT, non vengano adottate misure negative. Nei confronti del sistema delle imprese si fa balenare, infatti, la possibilità, sempre più teorica, di rimettere in discussione l'IRAP. Nel frattempo, si anticipa la riforma nei suoi aspetti peggiori, rimettendo in discussione la DIT.
Mi avvio alla conclusione con due ultime considerazioni. La prima riguarda il problema relativo al credito di imposta, con riferimento al credito per l'occupazione e a quello per gli investimenti per il Mezzogiorno (ne ha già parlato il collega, onorevole Alfiero Grandi).
Ci siamo trovati di fronte ad un tormentone. Vi sono aspetti che non sono coerenti con le linee generali del sistema tributario e profili di scarsa equità. Il credito di imposta per le aree depresse da incentivo automatico è stato trasformato in incentivo sottoposto ad autorizzazione con un plafond predeterminato, ignorando il drammatico peggioramento della congiuntura interna e internazionale che avrà degli effetti particolari per il Mezzogiorno. Gli operatori, nel Mezzogiorno, si trovano di fronte ad una grande confusione ed al rischio che determinati provvedimenti che hanno avuto successo nel nostro paese vengano pesantemente rimessi in discussione.
Vorrei ricordare alcuni dati particolarmente significativi. Nel 2002 le compensazioni in milioni di euro che sono state fatte in tutta Italia sulle nuove assunzioni hanno raggiunto i 558 milioni per le regioni della Campania, della Puglia, della Sardegna, della Calabria e della Sicilia; lo ripeto: 558 milioni su 933; in testa vi è la Campania, subito dopo la Sicilia e ricordo all'onorevole Antonio Leone che vi è anche la Puglia. Vorrei fornire un ulteriore dato: i crediti di imposta per gli investimenti nelle aree svantaggiate hanno dato in quelle stesse regioni che ho precedentemente ricordato compensazioni pari a 1.249 milioni di euro su 1.519, con in testa la Campania, la Sicilia, la Puglia, la Calabria e la Sardegna. Trovo singolare che l'atteggiamento del Governo sia di rimettere in discussione meccanismi che hanno prodotto determinati risultati e che non si comprenda come il successo di tali misure fosse legato all'automaticità, alla semplicità, alla rapidità di funzionamento, all'immediata fruibilità che davamo all'operatore; ciò consentiva di investire nelle aree svantaggiate e di fare della buona - lo sottolineo - occupazione a tempo indeterminato.
Queste le osservazioni che abbiamo formulato con riferimento a questo decreto-legge e le proposte di modifica che, coerentemente, presenteremo.
Colgo l'occasione per dare atto al presidente della Commissione di averci consentito di fare un buon lavoro, nonostante la ristrettezza dei tempi e la particolare congiuntura del calendario dell'Assemblea: la discussione è stata di buon livello e, soprattutto, abbiamo potuto utilizzare opinioni, giudizi ed osservazioni che venivano anche dalle parti sociali. Do atto anche al relatore di aver favorito la discussione. Le nostre opinioni, naturalmente...
ANTONIO LEONE, Relatore. ...rimangono diverse!
GIORGIO BENVENUTO. Sono diverse, certo; del resto, non siamo in una fase di consociativismo!
Comunque, abbiamo potuto affrontare il merito dei problemi. In particolare, è importante aver contribuito, tutti insieme, a trovare una soluzione per quanto concerne le procedure di riqualificazione (dei pubblici dipendenti del Ministero dell'economia e delle finanze, nonché di quelli dei ministeri della giustizia e della difesa) espletate in diretta applicazione di disposizioni dichiarate illegittime da una recente sentenza della Corte costituzionale: prevedendo che, da un lato, continui ad essere corrisposto, in via provvisoria, il trattamento in godimento e, dall'altro, che gli stessi dipendenti continuino ad esplicare le relative funzioni, abbiamo evitato che quella sentenza avesse conseguenze negative sull'efficienza e sull'efficacia dell'azione amministrativa. Perciò, ringrazio anticipatamente il relatore per avere accettato l'emendamento che noi abbiamo proposto al fine di evitare il segnalato pregiudizio.
Terremo conto anche delle modifiche riguardanti la riscossione e degli emendamenti che il relatore ha preannunciato per quanto riguarda la DIT, se non ho capito male, e ...
ANTONIO LEONE, Relatore. Sì, le assicurazioni.
GIORGIO BENVENUTO. ...per quanto riguarda l'ANIA e le diminuzioni patrimoniali, con l'obiettivo di trovare una soluzione che renda questo provvedimento meno ostico per l'economia.
È fondamentale che il Governo proceda in maniera meno schizofrenica e meno episodica. Siamo sottoposti a misure che, inseguendosi e contraddicendosi, stanno rimettendo in discussione un dato che è fondamentale per ogni paese: la certezza del diritto. Se si vogliono favorire gli investimenti e se si vuole mantenere un clima costruttivo tra i diversi operatori, la certezza del diritto diventa basilare.
Quindi, occorre che il Governo la smetta di adottare provvedimenti improvvisati, che sono particolarmente onerosi per l'economia e largamente inadeguati se rapportati alla dimensione dei problemi che dobbiamo fronteggiare (Applausi dei deputati dei gruppi dei Democratici di sinistra-l'Ulivo e della Margherita, DL-l'Ulivo).
PRESIDENTE. È iscritta a parlare l'onorevole Pistone. Ne ha facoltà.
GABRIELLA PISTONE. Signor Presidente, penso sia chiaro a tutti noi che l'occupazione, l'economia ed il Mezzogiorno costituiscano, oggi, i problemi centrali di questo nostro paese. Si aggiunge, oggi, la gravissima crisi della FIAT, che aggrava tutti i problemi già esistenti, intrecciandosi strettamente con essi.
Penso che andrebbe riconosciuto, con molta onestà e con molta umiltà, che le scelte di tipo economico compiute da questo Governo fin dall'inizio del suo insediamento si sono rivelate fallimentari. Non voglio ricordare le affermazioni fatte, ancora poco tempo fa, dal ministro Tremonti (poi puntualmente smentite) sul fatto che l'economia, tutto sommato, procedeva bene e che i conti tornavano.
Penso che l'economia non vada bene: è sotto gli occhi di tutti che le entrate fiscali hanno subito un salasso. E non si può pensare di imputare tutto questo alla crisi internazionale, perché sappiamo perfettamente che così non è. La crisi internazionale
c'è, ma la nostra crisi non dipende strettamente e solo dalla crisi internazionale, è anche frutto di scelte economiche sbagliate, rispetto alle quali penso sarebbe stato molto più onesto dire: ci siamo sbagliati, abbiamo fatto delle scelte scellerate (compresa quella di aiutare alcune classi, sostanzialmente i grandi evasori), a cominciare dal rientro dei capitali per andare a finire al falso in bilancio e ad altri provvedimenti ad personam, dei quali non voglio continuamente ricordare a me stessa e agli altri l'esistenza.
Detto ciò, questo provvedimento mi sembra un'altra volta completamente sbagliato. Faccio salve le buone intenzioni del relatore Antonio Leone, che oggi ci è venuto in Assemblea dicendo che probabilmente ci saranno delle modifiche (non le abbiamo ancora viste; le aspettiamo), ma, visto che, di fronte ad un provvedimento di carattere esclusivamente tributario e fiscale, tutte le audizioni effettuate - dico tutte, nessuna esclusa - hanno dimostrato non solo l'inefficacia ma anche la gravità di tale provvedimento, io penso che un Governo che si rispetti dovrebbe trarre le dovute conseguenze. Questo è stato detto, come hanno già ricordato altri colleghi, da Confindustria, da Confapi, dalle tre organizzazioni sindacali, in aggiunta all'UGL, dalle categorie dei professionisti, dall'ANIA, cioè da tutti i soggetti che sono stati uditi. Allora, ritengo che la nostra economia, in questo momento, abbia davvero bisogno di sviluppo, di grande sviluppo, di forte sviluppo, di impulso, non di frenate; ed ha bisogno di sviluppo subito, non tra due, tre o cinque anni. Ecco perché io sono contro, non perché non siano utili, ma perché si tratta di provvedimenti a lunga scadenza. I lavori pubblici vanno bene, ma non si tratta di provvedimenti che hanno una valenza nell'immediato.
Allora, penso che, oggi come oggi, il sistema, che è sicuramente stagnante, abbia bisogno di impulsi; questo provvedimento invece di creare impulso e di dare speranza e certezza, cose di cui avrebbe bisogno l'economia del nostro paese, dà solo incertezza, produce sostanzialmente tagli alle imprese, che dovrebbero, invece, essere il motore propulsivo dello sviluppo di questi momenti. L'abbiamo dimostrato, l'abbiamo detto più volte, l'hanno detto i miei colleghi durante i vari interventi, non mi voglio ripetere. Si agisce con l'abolizione del credito d'imposta, con l'abolizione, di fatto, della DIT (adesso non so se verrà in qualche modo reinserita), perché si dice che tutto è andato a favore delle grandi imprese e niente a favore delle piccole. A parte che la Confapi ha criticato l'abolizione della DIT e, quindi, evidentemente, anche su questo argomento, c'è qualcosa che non torna, però penso che si tratti di un rapporto direttamente proporzionale: molto spesso le piccole imprese sono strettamente legate alle grandi imprese, perché tutto il lavoro dell'indotto è strettamente e fortemente connesso con le grandi imprese.
Quindi, se si colpiscono le grandi imprese, di conseguenza, si colpiscono, di fatto, anche le piccole. Non voglio certamente ergermi a paladina delle grandi imprese, tutt'altro, ma voglio capire quali scelte razionali e virtuose sia in grado di attuare questo Governo rispetto, lo ripeto, all'unica nostra preoccupazione: lo sviluppo del paese per dare occupazione e stabilità a tutti i nostri cittadini, soprattutto nel Mezzogiorno. Dunque ritengo che il provvedimento che, davvero, ha ricevuto molti schiaffi da tutte le parti, debba assolutamente essere modificato. Il collega Grandi diceva che sarebbe meglio che lo ritiraste ma non credo siate in grado di farlo e, poiché voglio rimanere con i piedi per terra, vi chiedo di cambiarlo radicalmente, di modificarlo: cambiatelo! Noi abbiamo presentato tutti gli emendamenti necessari e siete assolutamente in grado di farlo. Probabilmente, molte cose sono state già accettate nel senso che, evidentemente, anche voi vi rendete conto della situazione in cui vi siete cacciati e soprattutto in cui cacciate la nostra economia.
Intanto, il problema delle entrate è un problema serissimo che viene da voi stimato intorno ai 3,5 miliardi di euro mentre, da fonti varie e anche dal servizio studi che pure non formula una cifra
esatta, si capisce che si tratta di una cifra molto più elevata (si parla di 8 miliardi di euro da recupare). Altro che mazzate! E tutte alle imprese! Dunque, non ritengo che tutto ciò sia utile e conforme allo sviluppo.
Per quanto riguarda la Tremonti-bis non si è riusciti ad avere i dati sulle entrate fiscali; vi è poi - è stato già ricordato - il problema dello statuto del contribuente che è totalmente disatteso, prevedendosi, addirittura, la retroattività dei provvedimenti relativi al credito di imposta. Dunque, vi sono pesanti conseguenze sul nostro sistema economico: le imprese non ricevono alcun tipo di aiuto reale per poter davvero investire, soprattutto nel Mezzogiorno.
Ritengo che queste scelte debbano essere seriamente corrette nell'ottica di assicurare all'Italia, alla nostra economia, una vera e seria ripresa che può realizzarsi (in ogni paese, non solo nel nostro) soltanto quando a tutti (imprese, cittadini, famiglie) vengono date certezze. Non si può lavorare sul «giorno per giorno»; questo Governo ormai da un anno e mezzo continua a lavorare giorno per giorno, contraddicendosi con provvedimenti che, di volta in volta, sono differenti nelle loro destinazioni e, soprattutto, nelle loro modalità perché, evidentemente, come si dice in gergo nautico, si naviga a vista. Penso che bisognerebbe navigare non a vista ma con un minimo di lungimiranza. Vorrei che in mancanza di questa dote qualcuno di voi potesse suggerirla ai ministri dell'economia competenti che, francamente, a volte potrebbero anche ammettere di avere sbagliato.
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Tolotti. Ne ha facoltà.
FRANCESCO TOLOTTI. Signor Presidente, rappresentante del Governo. Anch'io, come i colleghi che mi hanno preceduto vorrei, brevemente, contestualizzare la discussione di oggi.
Il decreto-legge n. 209, così come il cosiddetto decreto taglia spese recentemente approvato dalla Camera, costituisce un pezzo consistente della manovra di finanza pubblica con la quale il Governo cerca di mettere a posto conti che sono abbondantemente fuori ordine, in parte certo a causa della congiuntura economica internazionale determinatasi successivamente all'11 settembre, ma in misura prevalente per effetto dei provvedimenti, ed in qualche caso per effetto dei mancati interventi, dello stesso esecutivo. Credo che, a titolo di esempio, sia sufficiente citare i problemi di copertura sollevati dalla legge Tremonti-bis, un provvedimento sui cui effetti attendiamo ancora, pur avendola sollecitata molte volte, una comunicazione esaustiva al Parlamento, nonché il clamoroso fallimento dei provvedimenti, più volti reiterati, per incentivare l'emersione dal sommerso, provvedimenti che avrebbero dovuto far affluire nelle casse dello Stato risorse significative e che, invece, non hanno prodotto i risultati attesi, rimanendo ben lontani dalle quote previste.
La discussione sul disegno di legge finanziaria sarà certo la sede più adeguata per svolgere discussioni più approfondite sugli scenari macroeconomici, anche alla luce dei reiterati, affannosi aggiustamenti che, dal documento di programmazione economico-finanziaria del 2001 alla nota di aggiornamento di ottobre, al documento di programmazione economico-finanziaria del 2002, hanno portato il Governo a rivedere le stime di crescita del PIL 2002 dal 3,1 per cento allo 0,6 per cento, il rapporto tra deficit e PIL dallo 0,5 al 2,1 per cento e, soprattutto, il rapporto tra debito e PIL da una previsione del 103,2 ad una stima del 109,4, il che, segnando un peggioramento di tale rapporto, costituisce una grave e preoccupante inversione di tendenza rispetto al costante calo registrato negli ultimi anni. Per terminare questo breve cenno sullo scenario macroeconomico ricordo anche che l'inflazione tendenziale, dalla stima originaria dell'1,8 contenuta nel documento di programmazione economico-finanziaria 2001, si attesta invece ad un valore pari al 2,4 per cento, con le ultime rilevazioni che
fanno addirittura ritenere più plausibile un ritocco verso l'alto, per arrivare ad un valore pari al 2,6 per cento.
Il decreto-legge in discussione oggi è per certi aspetti, lo ribadisco, parte integrante della manovra che si realizzerà con la legge finanziaria. Anzi, considerata la volatilità che sembra caratterizzare l'attuale stesura della finanziaria - un provvedimento che, ogni giorno che passa, sembra diventare orfano dei suoi estensori, che vede il primo ministro impegnato a parare le critiche provenienti da ogni parte promettendo modifiche all'insegna del «di tutto di più» ed il vicepremier Fini affermare, proprio ieri in conclusione di un convegno del suo partito sul Sud, che lo stesso dovrà essere cambiato grazie alla concertazione con i soggetti economici e sociali (si riscopre cioè la concertazione dopo aver contribuito fattivamente ad affossarla) - sarà proprio il provvedimento oggi in discussione a fornire alcuni indirizzi certi di governo in tema di fiscalità del sistema delle imprese. Questo è il terreno sul quale si concentrerà il mio intervento.
Allo stato dei fatti, ed in attesa di poter prendere visione dei nuovi emendamenti che il relatore e la maggioranza presenteranno e che noi valuteremo dapprima in seno al Comitato dei nove e poi in Commissione, le vicende che hanno caratterizzato la discussione in Commissione di questo decreto-legge non autorizzano facili ottimismi. Il provvedimento, come noto, secondo una prassi non commendevole ma ormai largamente invalsa, affronta, nei sette articoli che lo compongono, materie assai eterogenee, che spaziano dalla fiscalità di impresa alle accise sul gas, ai concessionari della riscossione, all'imposta di bollo.
A parte alcuni aspetti delicati connessi all'articolo 4 e, soprattutto, agli emendamenti 4.29 e 4.30 del relatore in tema di definizione delle controversie tra l'amministrazione ed i contribuenti e di annullamento dei procedimenti anteriori al 31 dicembre 1994, non vi è dubbio che il cuore del provvedimento sia costituito dagli articoli 1 e 2, relativi alla fiscalità di impresa, alle agevolazioni fiscali ed ai crediti di imposta per le assunzioni. Si tratta di tematiche determinanti per quanto concerne il profilo economico ed occupazionale del paese, senza tener conto del fatto che, in materia di alleggerimento del prelievo fiscale sulle imprese e di impulso e rilancio dell'occupazione, l'attuale Presidente del Consiglio ha speso parole e promesse impegnative, a partire da quando era candidato e siglò, con un'operazione propagandistica senza precedenti, il famoso contratto con gli italiani nel salotto TV di Vespa.
Proprio perché consapevoli dell'importanza delle tematiche su cui intervengono gli articoli 1 e 2, abbiamo chiesto con insistenza in Commissione che si potesse programmare una serie di audizioni con una pluralità di soggetti interessati, sia pure a titolo diverso, agli effetti di questo provvedimento.
Anch'io devo ringraziare la sensibilità del presidente La Malfa, che ha permesso di vincere una certa ritrosia della maggioranza orientata ad un programma di audizioni piuttosto ristretto e sbrigativo. Esso non prevedeva, ad esempio, la convocazione di Confapi, forse a partire dal presupposto (che si è poi rivelato errato) che l'abrogazione di fatto della DIT interessasse soltanto la grande impresa, tesi questa sostenuta con una certa enfasi propagandistica da autorevoli esponenti del Governo a partire dallo stesso superministro dell'economia e delle finanze.
In realtà, le audizioni informali si sono rivelate particolarmente interessanti su almeno due versanti. Un primo versante riguarda le questioni attinenti all'applicabilità del decreto-legge. Infatti, una serie di osservazioni e rilievi critici ha riguardato le difficoltà tecniche in ordine all'applicazione concreta del provvedimento, difficoltà aggravate dal fatto che si interviene, come ricordava in precedenza il collega Benvenuto, con effetto retroattivo e in deroga allo statuto del contribuente, incidendo su adempimenti che attengono all'esercizio fiscale in corso a partire dall'acconto di fine novembre.
L'ABI, in particolare, ha fatto notare, ad esempio, come le norme di cui all'articolo 1, comma primo, lettera a), che introducono limitazioni alla deducibilità delle svalutazioni relative alle società non quotate, comportino l'insorgere di rilevanti problemi in ordine alla necessità di sterilizzare nelle variazioni patrimoniali deducibili da parte della società partecipante quella quota di variazione che deriva da costi ed oneri di qualsiasi natura non fiscalmente deducibili, in tutto o in parte, in capo alla società partecipata.
In particolare, oltre a sottolineare come sia imprecisata la portata temporale dell'analisi patrimoniale che tale norma imporrebbe, l'ABI fa notare come sia oggettivamente difficile per la società partecipante la stessa acquisizione delle informazioni necessarie, considerato anche il ridotto margine di tempo. Peraltro, le difficoltà si accrescono, fino a rasentare l'impossibilità, nel caso si debbano rideterminare i valori patrimoniali della partecipata estera secondo la legislazione italiana.
Sempre sullo stesso tema, i dottori commercialisti hanno fatto rilevare come potrebbe essere praticamente impossibile per i soci di minoranza acquisire le informazioni patrimoniali sulla società partecipata che il decreto-legge richiede.
Su un'analoga falsariga si è mossa Assonime, che ha sostenuto che le misure in discussione (cito la lettera dell'audizione) pongono alle imprese problemi finanziari, economici e di certezza giuridica, oltre a presentare alcuni aspetti non coerenti con le linee generali del sistema tributario nonché profili di scarsa equità.
Tuttavia, vi è un altro versante di osservazioni, rilievi e critiche che è emerso nelle audizioni e che, a mio parere, è ancora più importante perché riguarda il merito del provvedimento. Oltre all'aspetto della dubbia efficacia procedurale e della difficile applicabilità delle norme, le audizioni, soprattutto quelle di ABI e di ANIA, ma anche di Confapi e Confindustria, hanno fatto emergere seri problemi sul merito del provvedimento con riferimento a due questioni chiave: la prima riguarda gli interventi di sterilizzazione della DIT e la seconda concerne le pesanti limitazioni riguardo al credito di imposta per le nuove assunzioni nelle aree svantaggiate.
Per quanto riguarda DIT e super DIT, l'audizione di Confapi e Confindustria, ma anche dichiarazioni ufficiali e formali di autorevoli dirigenti di queste organizzazioni (in proposito, mi rivolgo al sottosegretario Molgora che è bresciano come me: il presidente provinciale dell'API, il dottor Flavio Pasotti, ha indirizzato una lettera aperta a tutti i parlamentari bresciani su questo tema), fanno giustizia di uno stereotipo abusato: non è vero che la DIT sia uno strumento a beneficio esclusivo della grande impresa.
Ciò è dimostrato e confermato dagli stessi dati forniti dal Governo che evidenziano come dal 1999 al 2000 sia aumentato il numero delle aziende che hanno usufruito del provvedimento. Il Governo ci ha fornito una cifra complessiva di 126.626 contribuenti per l'anno fiscale 2000 ma anche la tabella di fonte Secit che ha presentato Confindustria in allegato alla sua audizione, tabella che ritocca leggermente verso l'alto il numero delle aziende interessate alla DIT, dimostra quanto segue: se si compiono analisi per classi di fatturato delle imprese ci si accorge che, in realtà, la stragrande maggioranza delle imprese avvalsesi della DIT si colloca nelle fasce di fatturato inferiori ai 5 milioni di euro. Più precisamente, il 31,7 delle aziende che si sono avvalse dei benefici della DIT sono nella fascia da 0 a 0,3 milioni di euro, il 28,3 per cento da 0,3 a 1,3 milioni di euro, il 23,8 per cento da 0,3 a 5 milioni di euro. In pratica, soltanto il 16,3 per cento del totale delle aziende avvalsesi dei benefici della DIT hanno un fatturato superiore ai 5 milioni di euro. Mi pare siano dati sufficientemente esaustivi per dimostrare che il luogo comune di un provvedimento iniquo ed a favore della grande impresa sia, appunto, un luogo comune.
Allo stesso modo il contenuto delle audizioni ha dimostrato la sostanziale infondatezza di valutazioni, che ha ripreso
anche oggi il relatore, onorevole Antonio Leone, secondo cui la DIT determinerebbe vere e proprie discriminazioni fra le imprese con l'evidente sottinteso che sarebbe la grande impresa ad avvantaggiarsi di tale sperequazione. In realtà, l'incentivo alla patrimonializzazione dell'impresa non rappresenta in alcun modo, come ha sostenuto qualcuno, un'indebita ingerenza nelle scelte autonome dell'impresa in ordine alla propria capitalizzazione, ma piuttosto il responsabile esercizio di un'attività di Governo volta a favorire, con interventi non coercitivi ma premiali, il rafforzamento ed il consolidamento economico-finanziario del nostro sistema produttivo e, in special modo, della piccola e media industria.
Non a caso Confapi ha sostenuto che la piccola e media industria, anche alla luce del quadro normativo che conseguirà alla revisione degli accordi di Basilea sul capitale di vigilanza delle banche, abbisogna fondamentalmente di tre requisiti: accrescere la trasparenza dei bilanci, rafforzare la politica di garanzia per migliorare l'accesso al credito, rafforzare la propria capitalizzazione anche con l'aiuto di politiche pubbliche che utilizzino in modo adeguato la leva fiscale. Questo era proprio il caso di misure come la DIT che sono, invece, state investite dalla furia iconoclasta di un ministro dell'economia e di un Governo che su questo terreno si muovono sulla base di pregiudizi ideologici piuttosto che di un'attenta considerazione della verità effettuale. Così è accaduto nel 2001 quando si è proceduto al congelamento della DIT ed ora nel 2002 si propone, di fatto, la sua sterilizzazione o, per meglio dire, la soppressione attraverso le misure previste dalla lettera c), comma 1, dell'articolo 1 del decreto-legge in esame. Mi riferisco all'abolizione del cosiddetto moltiplicatore ed all'abbassamento del coefficiente di remunerazione ordinaria dal 6 al 3 per cento.
Ancor più grave - come ho già accennato - è il fatto che tali interventi penalizzanti cadano ad esercizio fiscale in corso e con effetto retroattivo, di fatto cambiando le regole nel corso del gioco, scompaginando l'ordinata programmazione economico-finanziaria di tante imprese e violando palesemente lo statuto del contribuente, come il centrosinistra ha ampiamente dimostrato nelle pregiudiziali di costituzionalità presentate e come ha ricordato oggi il collega Benvenuto. Non vale a giustificare tale penalizzazione il richiamo alla necessità di far fronte ad un calo del gettito IRPEG che il Governo vorrebbe imputare, tra gli altri fattori, alla DIT mentre, come dimostrato dalla Confindustria nell'audizione dell'8 ottobre, si è trattato di un calo fisiologico in larga misura legato al crollo degli utili delle aziende del 2001 ed alla caduta delle borse e, soprattutto, di un calo prevedibile.
È un calo che però il Governo non ha saputo leggere tempestivamente anche per la sua perniciosa tendenza a sovrastimare i dati dell'economia (come abbiamo visto in relazione al quadro macroeconomico). Basta pensare, come ricordava prima l'onorevole Benvenuto, che la trimestrale di cassa dell'aprile 2002 prevedeva per lo stesso mese di aprile 2002 una crescita del gettito IRPEG del 7 per cento, laddove il centro studi della Confindustria prevedeva al riguardo un tasso di crescita del 3,1 per cento a dicembre del 2001, mentre addirittura un calo dell'1,1 per cento a giugno del 2002.
La verità è che con questo provvedimento il Governo interviene non per far fronte ad una difficile e imprevista situazione economico-finanziaria, bensì per cercare di rimediare a propri errori di programmazione di politica economica. Ed è particolarmente grave che intervenga - lo vorrei sottolineare - con misure strutturali di aumento della pressione fiscale, per di più introdotte improvvisamente, con effetti retroattivi. Ed è tanto più inaccettabile che agisca così un Governo, che viceversa ha predisposto una finanziaria fatta solo di misure congiunturali sul versante delle entrate: l'ennesima cartolarizzazione e un concordato fiscale destinato a diventare un condono tombale (misure di dubbia efficacia che - anche volendo sospendere il giudizio sul messaggio civico che con il condono si trasmette ai cittadini
che in questi anni hanno pagato regolarmente le tasse - ancora una volta rischiano di essere abbondantemente sovrastimate quanto ai loro effetti, con le ovvie conseguenze negative quando in sede di consuntivo si dovranno tirare i conti del 2003).
Gravi perplessità solleva anche il contenuto dell'articolo 2, sul quale il nostro giudizio è fortemente negativo. La disciplina del credito di imposta per le assunzioni si è rivelata - per chi voglia considerare la realtà dei fatti con animo scevro da pregiudizi ideologici - uno strumento efficace sul versante della crescita delle imprese e su quello occupazionale. In realtà anche questa misura ha rischiato di subire una sorte analoga a quella della DIT, per il solo fatto, temo, di recare in sé un peccato originale, un neo assolutamente inaccettabile agli occhi del ministro Tremonti: il fatto cioè di essere stata varata dal precedente Governo di centrosinistra.
Il provvedimento oggi in discussione si prefigge in qualche misura di riparare ai guasti del primo intervento del Governo Berlusconi su questa materia (con cui si fissava un tetto ai fondi per utilizzare l'agevolazione); tuttavia il «rattoppo» non è soddisfacente, perché la formulazione dell'articolo 2 blocca la misura massima del bonus per gli incrementi occupazionali che intervengono fra il 1o luglio e il 31 dicembre 2002 all'aumento del numero di lavoratori dipendenti rilevato alla data del 7 luglio (dell'anno in corso). Ciò significa che potranno essere tenute in conto, ai fini delle agevolazioni, solo nuove assunzioni che siano bilanciate da corrispondenti cessazioni di rapporto. Come si vede, non è garantito il ripristino dell'originaria formulazione del provvedimento e risulta francamente incomprensibile la fissazione di un limite arbitrario (quello del 7 luglio), così come appare discriminatoria l'esclusione dall'agevolazione di quelle imprese che vogliono accrescere il loro organico anche dopo tale data.
Il fatto che su DIT e credito di imposta la situazione sia delicata e complessa è dimostrato peraltro dal fatto che la Commissione non si è espressa, su richiesta del relatore Antonio Leone, sostenuta anche dal Governo, sugli emendamenti riferiti al commi 1, lettera a) e lettera c), e al comma 2 dell'articolo 1. Mi auguro che l'iter non rituale, per cui stiamo svolgendo ora la discussione sulle linee generali in aula e discuteremo solo in seguito (in Comitato dei nove e poi in Commissione) gli emendamenti relativi ai punti citati, valga almeno a produrre proposte di radicale modifica degli articoli 1 e 2 del provvedimento al nostro esame (al riguardo non credo che basterebbe il mezzo passo indietro, di cui parlava l'onorevole Benvenuto). Se così non fosse, non potrò che ribadire il mio giudizio fortemente negativo sul provvedimento in quanto tale, e più in generale sulla politica del Governo in materia di fiscalità di impresa. Diversi esponenti della maggioranza e del Governo hanno voluto sostenere che il decreto-legge n. 209 elimina alcune storture e ingiusti privilegi senza penalizzare il sistema delle imprese che invece sarebbe favorito dalle misure di sgravio previste in finanziaria.
Allora - concludendo e seguendo Salvatore Padula su Il Sole 24 Ore del 1o ottobre - proviamo a fare alcuni conti. La finanziaria prevede per le imprese una riduzione di due punti di IRPEG (dal 36 per cento al 34 per cento) - riduzione che, peraltro, assorbe una riduzione di un punto già prevista dalla legislazione vigente - che, per le stesse, si tradurrà in uno sgravio di circa 1,4 miliardi di euro; inoltre, è previsto uno sgravio per l'IRAP di 550 milioni di euro. Insomma, la finanziaria prevede uno sgravio complessivo di 2 miliardi di euro.
Tuttavia, il decreto-legge n. 209, con la manovra su DIT e stretta sulle svalutazioni, costerà - per stare alle cifre fornite dal Governo, senza prendere in considerazione quelle più pessimistiche - 3,4 miliardi di euro già nel 2002, altri 4 miliardi nel 2003 e 2,6 nel 2004. Come si vede, per le imprese il dare sopravanza clamorosamente l'avere e ciò è grave per le stesse imprese, ma lo è ancora di più se rapportato alle esigenze dell'intero sistema economico italiano e se si tengono in
considerazione i riflessi, estremamente negativi, che la penalizzazione delle imprese produrrà sull'occupazione, sui lavoratori e sulle loro famiglie.
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Lettieri. Ne ha facoltà.
MARIO LETTIERI. Signor Presidente, onorevole sottosegretario, va subito affermato con forza che questo decreto-legge costituisce una vera e propria stangata per le imprese italiane. Noi ci preoccupiamo delle imprese, abbiamo grande interesse alla loro solidità e vitalità in quanto, dietro le imprese, vi sono milioni di lavoratori, milioni di famiglie italiane.
Occorre sottolineare che il decreto - come evidenziato da altri colleghi - costituisce gran parte delle entrate della finanziaria; si parla di non meno di 10 mila miliardi di vecchie lire. Il provvedimento in esame contiene una serie di interventi eterogenei, che non rispondono ad una logica unitaria né alle ragioni di effettiva necessità ed urgenza che dovrebbero, in verità, giustificare un atto di decretazione.
Lo scopo del decreto-legge è chiaro: reperire risorse per ricondurre l'andamento dei saldi di finanza pubblica per l'anno in corso nei limiti previsti dal patto di stabilità. Si è in presenza, quindi, di una vera e propria manovra correttiva. Noi, come gruppo della Margherita, ne abbiamo reclamato l'adozione, come atto di necessità di fronte al disastro dei conti pubblici, ma il Governo continua a vantarsi di aver evitato il ricorso ad una manovra correttiva. Tuttavia, questo decreto, anche se disorganico, nella sostanza è una vera e propria manovra correttiva! D'altra parte, di falsificazioni della realtà, da parte del Governo, ce ne sono state tante, per cui questa, di natura sostanzialmente nominalistica, è sicuramente secondaria.
Invece, è molto grave aver nascosto per lungo tempo, al Parlamento e al paese, i dati reali sulla situazione dei conti pubblici e dell'economia. Non basta affermare che l'andamento negativo è determinato dalla congiuntura mondiale. È sicuramente vero che vi è un'incidenza, ma è soprattutto vero il fallimento della politica economica del Governo di centrodestra. Alcuni provvedimenti sono stati improvvidi e fallimentari, a partire da quelli dei tanto decantati primi 100 cento giorni.
Si ricordi un solo dato, il più emblematico: il Governo, che nel DPEF 2002-2006 annunciava il passaggio dal declino allo sviluppo, per il 2002 aveva previsto una crescita del 2,3 per cento, poi ribassata, nello scorso luglio, all'1,3 per cento. Ora, invece, tutti sanno, tutti sono convinti, che la crescita non supererà lo 0,5 o lo 0,6 per cento; siamo, quindi, ad un sostanziale ribaltamento dell'iniziale ottimistica previsione fatta dal ministro Tremonti.
Ma, diciamola tutta: il Governo ha puntato tutto sull'ottimismo e sulla fiducia. Certo, un clima di fiducia aiuta, ma non costituisce un elemento decisivo per spingere le imprese ad investire, ad innovare e le famiglie a spendere, a consumare. Il risultato è che gli investimenti industriali sono crollati e i consumi ristagnano, a causa di un'innegabile, quanto intollerabile, costo della vita.
Non sono un catastrofista ma la situazione economica e sociale del nostro paese, nei 16 mesi del Governo Berlusconi, si è notevolmente deteriorata. Si pensi alla crisi della FIAT e alle molte decine di migliaia di famiglie direttamente o indirettamente interessate. Si pensi anche alla situazione critica del sistema bancario, per il quale si parla di esuberi per circa 15 mila addetti, per non parlare del Mezzogiorno, che ha assistito al rallentamento del proprio trend di crescita che, con i governi del centrosinistra, era diventato superiore a quello delle altre parti del paese. Ora, invece, c'è il rischio concreto che il gap con il centro nord si aggravi e si accentui ulteriormente a causa delle scelte compiute nella legge finanziaria dello scorso anno e nel disegno di legge finanziaria di quest'anno, nonché per il blocco degli investimenti infrastrutturali.
Compiute queste preliminari considerazioni, vorrei brevemente indicare le ragioni
per le quali il gruppo della Margherita ritiene di non poter condividere né i tempi né le modalità né, tanto meno, i contenuti del decreto-legge in esame. Esso interviene a ridosso della approvazione della legge finanziaria, rivelandosi un grave e grottesco errore politico.
Proprio nel momento iniziale dell'esame del disegno di legge finanziaria, con questo decreto il Governo ha finito per cumulare tensioni e malumori diffusi nel paese tra gli operatori economici, tra i lavoratori ed anche in parti significative della stessa maggioranza. Le molte audizioni che si sono svolte in Commissione - cui i colleghi hanno fatto riferimento e per le quali desidero anch'io ringraziare il presidente La Malfa - hanno evidenziato critiche puntuali di merito. Sono stati auditi rappresentanti dell'ABI, della Confapi, dell'ANIA, dell'Assonime e del consiglio nazionale dei dottori commercialisti e dei ragionieri, ai quali va il nostro ringraziamento, perché il loro contributo è stato prezioso.
Oltre al reperimento di risorse, il decreto-legge, in molte sue norme, rivela la volontà di cancellare il più possibile gli elementi caratterizzanti l'assetto del sistema realizzato nella scorsa legislatura. C'è quasi una spasmodica ed ossessiva volontà distruttiva di tutto ciò che sia stato realizzato da altri. Ritengo che il paese abbia bisogno non di distruzioni ma di altro: se lo ricordi il ministro dell'economia! Le sue querelle con il suo predecessore non giovano a nessuno, tanto meno favoriscono il dialogo tra maggioranza e opposizione e neppure facilitano le necessarie convergenze. Senza consociativismo, le convergenze sono necessarie, quando si vogliono realizzare riforme serie e non peggiorative.
Il decreto-legge ha soprattutto l'intento di colpire il sistema imprenditoriale italiano. La stessa Confindustria - già è stato evidenziato - è accusata di aver mutato atteggiamento nei confronti del Governo al quale, evidentemente, aveva dato acritica e piena fiducia, progressivamente sgretolatasi a causa delle politiche attuate dall'esecutivo. L'atteggiamento del mondo imprenditoriale, a nostro avviso, è più che giustificato dal fallimento della politica economica governativa e dalla conseguente disillusione che ne è derivata per il nostro sistema produttivo, e non solo. Questo decreto assesta un duro colpo al sistema delle piccole come delle grandi imprese.
Con gli emendamenti presentati dal gruppo della Margherita e dell'Ulivo, si tenta di correggere le storture più vistose e di far emergere soluzioni alternative più adeguate. Voglio dare atto al relatore di una certa attenzione e di una certa disponibilità ad accogliere alcuni emendamenti, certamente non risolutivi, però... È stato fatto riferimento a quello relativo al recepimento del dispositivo della sentenza della Corte costituzionale n. 194 del 2002, relativa ai dipendenti pubblici che hanno svolto funzioni superiori: è certamente un fatto lodevole. Tuttavia, in Commissione, è stato accolto soltanto qualche emendamento, anche se non irrilevante, come quello relativo al bonus per l'occupazione riguardante le assunzioni effettuate ai sensi dell'articolo 7 della legge n. 388 del 2000.
L'emendamento presentato dall'Ulivo è stato fatto proprio da tutti gli altri componenti della Commissione; a mio avviso, era un atto dovuto, un atto riparatore, un atto di giustizia ma è poca cosa rispetto alla necessità di rifinanziare adeguatamente detta legge, ripristinando le originarie norme attuative e non dimenticando che essa è stata la più efficace legge di incentivazione per lo sviluppo e l'occupazione: infatti, nel Mezzogiorno è stata davvero efficace. A me pare che questo Governo voglia eliminare tutto quello che è efficace, che funziona e che dà risultati; anche per questo si sta caratterizzando questo Governo.
La discussione della legge finanziaria sarà certamente l'occasione per verificare la volontà di correggere l'attuale proposta del Governo rispetto alla legge n. 388 del 2000, alla legge n. 488 del 1999 e a tutte le altre leggi di incentivazione per il Mezzogiorno. Sarà l'occasione per verificare la serietà di intenti di coloro che nella maggioranza condividono le critiche e le proposte
da noi avanzate per il sud. Abbiamo letto le recenti dichiarazioni del Vicepresidente del Consiglio, Fini, che comunque - va sottolineato - rivelano quanto siano fondate le nostre critiche a questa legge finanziaria, ne sottolineano la debolezza strutturale e anche una certa fragilità politica di questa strana coalizione.
Le norme contenute nell'articolo 1 del decreto-legge in esame presentano almeno tre profili di criticità. In primo luogo, le misure previste colpiscono le imprese italiane proprio in un momento di grande difficoltà, con il rischio di penalizzare il sistema produttivo rispetto alla concorrenza internazionale. Infatti, lo si priva di quella liquidità che potrebbe essere utilizzata in questa fase per effettuare nuovi investimenti diretti ad ammodernare e rendere più competitive le aziende italiane; ciò è ancora più grave se si considera che nella legge finanziaria si prevede che il 50 per cento delle agevolazioni finora erogate in forma di contributo in conto capitale dovrebbe essere invece dato sotto forma di prestito agevolato. In secondo luogo, il provvedimento è stato concepito senza alcuna preventiva consultazione con le categorie destinatarie delle norme. Ciò spiega sia la presenza di errori tecnici, sia soprattutto la sottovalutazione dell'impatto in termini di costi fiscali ed amministrativi per le imprese.
Onorevole sottosegretario, non vorrei essere malizioso, ma non so quanto tale sottovalutazione possa essere stata determinata da errori di valutazione - a cui, in verità, ci ha abituati il suo ministro - e quanto invece sia stata determinata dalla volontà di nascondere le reali dimensioni della stangata che ne scaturisce per il sistema produttivo. L'ANIA e l'Assonime sostengono rispettivamente che il maggior prelievo fiscale a carico, per esempio, delle imprese di assicurazioni non sarebbe di 520 milioni di euro, come previsto dal Governo, bensì di 3.393 milioni di euro; inoltre, l'incremento delle riserve sarebbe del 14,4 per cento e non del 5 per cento, come stimato dal Governo. Come si vede, trattasi di differenze non da poco. Chi trucca le carte, queste associazioni o il Governo?
Il decreto-legge all'articolo 1 prevede anche l'applicabilità delle misure per il periodo di imposta in corso: in altre parole, si modificano le norme in vigore per l'anno in corso in aperta violazione del principio di non retroattività delle norme fiscali, in barba, quindi, alle disposizioni dello statuto del contribuente e anche alle solenni dichiarazioni del ministro fatte qualche mese fa in questa sede, in occasione dell'approvazione della delega fiscale. Si tratta di una scelta grave ed illegittima, lesiva dei diritti e della buona fede del contribuenti. È un vero e proprio vulnus dei principi fondamentali dell'ordinamento, in assenza dei quali cade la fiducia dei cittadini contribuenti. C'è da chiedersi il perché di tale scelta, di tale macroscopica violazione di una norma, quella della irretroattività, molto decantata appena qualche mese fa in quest'aula, come dicevo prima. La risposta a questo quesito non sta solo nella quotidiana capacità di questo Governo di rimangiarsi le promesse e gli impegni ma anche in quella di dire e di fare tutto e il contrario di tutto. Essa, a mio avviso, sta nel fatto che il Governo si è reso conto del rischio reale di chiudere il 2002 con un rapporto debito/PIL in crescita, con un indebitamento netto delle pubbliche amministrazioni che travalicherebbe il 3 per cento del PIL. Si badi bene, è la prima volta che questo si verifica dal 1994 e ciò mette davvero a rischio il patto di stabilità sottoscritto in sede europea.
Vi è da aggiungere che alle imprese non solo si chiede ingiustamente di pagare di più per il periodo di imposta in corso, ma si impone anche l'onere di provvedere a difficili e complessi adempimenti, soprattutto per quanto riguarda il calcolo dell'acconto IRPEG del prossimo novembre.
Si tratta di norme inique, onerose e vessatorie, che contrastano con la tanto declamata volontà di semplificare. Non basta lo slogan del ministro Tremonti che spesso ripete: «dal complesso al semplice»; per non complicare e rendere più
intellegibili e semplici le procedure, le norme, ci vuole invece oculatezza, chiarezza nello scriverle; sotto il profilo della formulazione letterale, l'articolo 1 di questo provvedimento, sicuramente non ha queste caratteristiche, non è né chiaro né semplice. Si introduce una serie di disposizioni che modificano a regime il testo unico delle imposte sui redditi, senza intervenire sulle disposizioni che sono oggetto di modifica. In merito, il Comitato per la legislazione, puntualmente ha fatto uno specifico rilievo ed un richiamo al dovere della novellazione. Ricordo interventi del Presidente del Consiglio dei ministri, del Presidente del Senato e dello stesso Presidente della Camera che, in verità, dinanzi a ripetute inadempienze per quanto riguarda il dovere di novellare, continua a tacere.
Circa il disposto dell'articolo 1, relativo al regime applicabile alle svalutazioni di partecipazioni, la lettera a) del comma 1 prevede l'esclusione della deducibilità nel caso di svalutazioni che dipendano da distribuzioni di utili da parte della società partecipata, o da costi anche in parte non deducibili. Tale disposizione risulta di difficile applicazione, soprattutto per quanto riguarda le partecipazioni in imprese localizzate all'estero. In sostanza, alle imprese italiane, ed in particolare ai gruppi, si impone di rideterminare, secondo la nostra legislazione, tutti i valori patrimoniali della partecipata estera, anche indiretta.
Il Governo, con l'intento di cancellare le innovazioni introdotte nella scorsa legislatura - questo aspetto è già stato sottolineato da qualche collega che mi ha preceduto ma mi preme farlo di nuovo -, anche attraverso questo provvedimento mira allo smantellamento della DIT: infatti, aumentando il prelievo a carico delle imprese, di conseguenza ne riduce i vantaggi.
Con la norma di cui alla lettera c) dell'articolo 1 si intende penalizzare a posteriori le imprese che avevano ritenuto di optare per la DIT piuttosto che per la Tremonti-bis; ovviamente, scelta fatta sulla base di una valutazione di convenienza circa il regime agevolativo preesistente all'entrata in vigore del decreto-legge. Perché si attua questa scelta? Io me lo domando, non so quale sia la vera risposta, ma una cosa è chiara; l'autorevole professor Guerra afferma che la DIT non è una agevolazione alle grandi società, ma è un sistema di tassazione generalizzato per tutte le imprese, volto a ridurre la penalizzazione fiscale di coloro che ricorrono al capitale proprio, anziché all'indebitamento. I dati fornitici dal Secit e da altri studiosi della materia dimostrano che è difficile sostenere - come ripetutamente, anche in quest'aula, ha fatto il ministro dell'economia - che la DIT sia stata un'agevolazione per pochi. Onorevoli colleghi, non si è trattato di un regalo del centrosinistra alle grandi imprese, è stata invece una scelta chiara, netta per favorire gli investimenti diretti, per limitare l'indebitamento delle imprese, per renderle più solide e vitali, perché l'interesse del nostro paese è avere un sistema produttivo solido, valido, non indebitato, per non ripetere le vicende drammatiche che hanno coinvolto la FIAT in questi giorni.
Forte criticità presenta anche la disposizione di cui al comma 2 dello stesso articolo 1 che limita la misura della deducibilità degli accantonamenti in riserve tecniche delle imprese di assicurazione che vengono assoggettate ad una sorta di prestito forzoso per nove anni. Questa, insieme a quella relativa alla DIT, è, a mio avviso, la norma più grave dell'intero provvedimento.
Il Governo dichiara e promette di voler ridurre i costi di gestione gravanti sulle compagnie di assicurazione in modo da consentire un ribasso o quanto meno delimitarne i danni. La norma, invece, colpisce in misura assai pesante le imprese di assicurazione, quelle che, avendo incrementato la raccolta premi e, quindi, sviluppato la propria attività, abbiano operato accantonamenti di gran lunga superiori al 98 per cento rispetto alla media del triennio precedente.
È un meccanismo che produce effetti distorsivi nel mercato assicurativo che finiranno per colpire, in ultima analisi, le
imprese italiane rispetto a quelle estere. È chiaro che, con tale salasso, le compagnie di assicurazione non saranno di certo incentivate a contenere i premi e, pertanto, a farne le spese saranno gli assicurati, vale a dire circa 20 milioni di cittadini italiani che non riusciranno ad ottenere polizze assicurative a costo contenuto ed equo. Noi abbiamo criticato tante volte e con decisione i comportamenti delle compagnie di assicurazione quando hanno aumentato, spesso in maniera ingiustificata ed intollerabile, le polizze assicurative, ma, in tale caso, mi pare che non abbiano tutti i torti perché sono sottoposte - lo ripeto - ad un vero e proprio salasso.
Non so se tali norme, in verità, siano state condivise dal ministro delle attività produttive, l'onorevole Marzano, al quale ricordo che, rebus sic stantibus, le compagnie, certamente, non potranno accettare la sua presunta moral suasion, annunciata tante volte in Commissione, per tentare di convincere le compagnie a ridurre le polizze.
Onorevoli colleghi, la valutazione negativa del provvedimento in esame non deriva da un nostro pregiudizio. Siamo preoccupati per gli effetti che quest'ultimo avrà sull'intera economia perché ad essere colpite saranno le imprese e, indirettamente, tutto ciò che ruota intorno al mondo imprenditoriale.
Il ministro dell'economia a luglio aveva promesso sostanziali riduzioni fiscali a favore delle imprese e sostanziali vantaggi, ma siamo dinanzi ad un'ulteriore promessa non mantenuta. Pertanto, questo Governo continua a perdere quotidianamente la sua credibilità (Applausi dei deputati del gruppo della Margherita, DL-l'Ulivo)!
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Alfonso Gianni. Ne ha facoltà.
ALFONSO GIANNI. Signor Presidente, signor sottosegretario, il provvedimento al nostro esame presenta, come spesso avviene per provvedimenti in materia finanziaria (non è una colpa specifica da questo punto di vista), una struttura abbastanza complicata ed arida cui è difficile appassionarsi obiettivamente. Forse, vale la pena, come d'altro canto mi pare abbiano fatto molto bene anche gli altri colleghi intervenuti in sede di discussione sulle linee generali (che peraltro disturba pochi, visto che in pochi siamo), fare riferimento più che al testo al contesto nel quale questo intervento intende agire ed avanzare alcune idee di proposta alternativa su cui, naturalmente, discuteremo domani, in sede di esame degli emendamenti presentati.
Già altri colleghi hanno sottolineato un dato sul quale personalmente ho anche insistito in diverse occasioni. Quando il superministro dell'economia Tremonti è stato in quest'aula, gli dicemmo una semplice verità, ovvero che l'economia va male, molto male perché c'è una pessima situazione internazionale che vede una recessione mondiale in atto; va male perché in casa nostra non vengono attuate politiche che possano avere l'ambizione di avere un effetto anticiclico rispetto a questo andamento recessivo dell'economia. Il Governo si è comportato per lungo tempo come una vispa Teresa giuliva, negando la verità dei fatti e su questo trascinando anche un «pezzo» delle organizzazioni sindacali, seppur minoritario, che hanno sottoscritto il patto per l'Italia, nella cui prima pagina vi è la condivisione degli scenari macroeconomici e microeconomici che il Governo ha delineato scenari che sono stati travolti e lo stesso Governo lo ha riconosciuto, non soltanto implicitamente, ma persino, per una parte, esplicitamente, quando ha presentato la nota di variazione di bilancio, nella quale tutte le cifre, a cominciare da quella fondamentale relativa alla crescita del prodotto interno lordo, non sono state solo riviste al ribasso, che è un'espressione eufemistica adoperata quando si scende al massimo di un punto, ma sono state addirittura ridotte di quattro quinti. Pertanto, questo è il contesto negativo. Naturalmente le responsabilità che hanno determinato questo contesto negativo non sono addebitabili solo a questo Governo; questa è tuttavia un'aggravante, perché un Governo deve
comprendere il contesto nel quale inserisce la propria iniziativa legislativa ed operativa. Se non fa questo, da un lato, fa una banale propaganda, se non addirittura della demagogia, e, dall'altro, molto più concretamente, determina disastri, perché assume iniziative che non hanno un nesso con i bisogni della realtà.
Di fronte a questa situazione noi intendiamo sollevare il problema di una politica fiscale radicalmente diversa. Siamo di fronte - se il rappresentante del Governo ascoltasse, ma questo non accadrà, e non fa niente - ad una situazione fiscale in cui il nostro paese presenta un differenziale negativo di un punto rispetto al contesto europeo. È singolare che questo problema continui ad essere glissato: siamo di fronte al fatto che l'evasione, l'elusione e le altre forme attraverso le quali ci si sottrae al fisco, mentre altrove sono nell'ordine del 4-5 per cento, in Italia sono intorno al 14-15 per cento, ovvero dieci punti in più. È inutile che continuiamo a fingere che questo problema non esista. Il dato dell'evasione, dell'elusione e dell'erosione fiscale è costitutivo della storia del capitalismo italiano. Guardo ad un uomo che in qualche misura fa parte della storia del capitalismo italiano, perché ne è stato interprete, come l'onorevole La Malfa. È possibile che una considerazione banale debba essere riproposta dalla sinistra - nel mio caso dall'estrema sinistra - e non essere riscontrata come un fatto obiettivo? Siamo di fronte ad un volume di evasione, elusione ed erosione fiscale, da parte della grande imprenditoria, delle piccole e medie imprese, da parte dei liberi professionisti e da parte di coloro che non hanno la possibilità di avere una ritenuta alla fonte, che è costitutiva della storia del nostro capitalismo.
Si può discutere poi se siamo di fronte ad un'imposizione fiscale eccessiva o meno: questa è una discussione che non solo si può, ma che si deve anche fare, a partire però dal fatto che in Italia abbiamo questo fenomeno che è di dieci punti superiore alla media europea! E un Governo serio deve partire da lì, non può parlare d'altro, deve partire da lì!
Allora, se noi guardiamo questa realtà, vediamo che il problema è evitare che questo fenomeno non solo si verifichi, ma dilaghi, ed evitare, ad esempio, che un ministro della Repubblica dichiari in sede processuale che lui, per carità, non è un corruttore, ma, al massimo, un evasore (ma di questo se ne occuperanno le aule del tribunale, per l'appunto). Bisognerebbe non allentare la pressione fiscale, ma riposizionarla, al contrario di quanto prevede il disegno di legge Tremonti, in misura proporzionalmente maggiore sui redditi alti e, soprattutto, darle operatività perché è inutile stabilire aliquote alte o nuove imposizioni o nuove forme di tassazione e poi non controllare, non verificare, non assicurarsi che queste imposizioni vengano effettivamente pagate. Questo è il punto della questione!
Non siamo in una situazione in cui ci sono tasse alte e il problema è ridurre queste tasse: l'idea che fosse possibile ridurre le tasse per rilanciare i meccanismi virtuosi del mercato era l'idea dei vari Laffer o dei consiglieri di altra natura di Reagan e non ha prodotto alcun risultato. Dobbiamo garantire una tassazione equa, progressiva secondo i principi costituzionali, che venga effettivamente applicata e i cui proventi servano alla creazione di uno Stato sociale all'altezza dei bisogni della nostra comunità.
Qui dentro ci sono poi mille determinazioni su cui il provvedimento del Governo interviene e su cui noi siamo fortemente critici. Però, visto che siamo in sede di discussione sulle linee generali, vorrei sollevare un problema, in alternativa a questo discorso e a questo provvedimento, problema che ha originato un emendamento da noi presentato - su cui la discussione in termini di ammissibilità mi auguro si concluda felicemente - il quale ripropone l'introduzione di una tassazione sulle transazioni internazionali di capitali secondo il modello della Tobin tax. A me pare una grande norma che tiene conto della realtà della globalizzazione, soprattutto sotto il profilo finanziario - realtà che nessuno respinge in quanto realtà, ma rispetto alla quale noi ci poniamo
in modo aspramente critico - e che, quindi, tiene conto della necessità di recuperare ciò che viene eluso fiscalmente dai movimenti di capitale o viene bypassato, non esistendo una legislazione atta a colpirlo fiscalmente.
Penso che questa proposta emendativa sia perfettamente conseguente alla materia del disegno di legge. Naturalmente, la filosofia è diversa: colpire coloro che hanno tanto, tantissimo, hanno cifre che è difficile dire e che è difficile scrivere. Dietro quelle cifre vi è tanta pena, tanta fame, tanta sofferenza nel mondo. Togliamo loro quelle cifre, sottosegretario, con una proposta moderata, tanto non muoiono di fame, anzi, staranno bene, saranno ugualmente ricchissimi, ma almeno interveniamo sulle transazioni puramente speculative di capitale. È possibile farlo.
Ricordo a me stesso e a lei - tanto male non le fa - che Keynes, nel 1936, nella celeberrima Teoria generale dell'occupazione, dell'interesse e della moneta, scriveva che l'introduzione di una forte imposta di trasferimento per tutte le negoziazioni potrebbe rivelarsi la riforma più utile allo scopo di mitigare il predominio della speculazione sull'intraprendenza. Quale migliore difesa del capitalismo in queste parole? È paradossale che le debba richiamare io! Tuttavia, è meglio il capitalismo dell'intraprendenza che il capitalismo della speculazione e delle forme più brutali di asservimento delle popolazioni, delle acque, delle terre, delle risorse del mondo intero.
Tutto questo è possibile farlo. Non c'è un'argomentazione che abbia sentito in un dibattito internazionale o nazionale che possa contrapporsi a questa semplice, oserei finanche dire banale idea. Certamente, un'idea non muove solo in ragione della sua ragionevolezza ed accettabilità dal punto di vista intellettuale. Purtroppo ci vuole altro. Ci vogliono rapporti di forza, la prevalenza di interessi più generali su interessi particolari di gruppi ristretti ed una grande battaglia. Noi cerchiamo di stare in questa grande battaglia, nella modestia delle nostre forze. Ribadiamo, quindi, l'esigenza, anche in un decreto-legge apparentemente così arido e marginale - anche se condivido le considerazioni degli onorevoli Lettieri ed Alfiero Grandi rispetto alla sua potenziale portata -, di prevedere anche una alternativa. Non si dica che questa opposizione è solamente quella dei «no». È un'opposizione che parte dal «no». La resistenza all'avversario, alle proposte che non si considerano positive, è un principio fondativo della democrazia, ma saper unire la resistenza alla proposta rappresenta un passo in avanti, proprio quello che vogliamo compiere.
Ripresentiamo i criteri di questa Tobin tax. Com'è noto, si tratta di una proposta avanzata ormai trent'anni fa - era il 1972 -, ribadita verso la fine degli anni settanta, in un periodo, dal mio punto di vista, storicamente significativo - secondo quelle povere cose che conosco della storia del mondo -, uno spartiacque della storia mondiale: il passaggio dalla cosiddetta epoca d'oro del capitalismo ad un qualcosa che richiede ancora di essere definita chiaramente ma che, tuttavia, si prospetta come un elemento di crisi. Siamo alla ricusazione di Bretton Woods, alla fine della convertibilità del dollaro in oro, alle soglie della grande crisi petrolifera, in una situazione di transizione mondiale. Siamo all'apertura di una nuova fase della globalizzazione, alla fine di un'epoca della produzione di massa per la massa, alla sostituzione dei meccanismi e delle organizzazioni produttive di tipo fordista in qualcosa di complessivamente diverso. Lo so, signor Presidente, è difficile dare una definizione, per questo si usa il termine «postfordista» per affermare che si tratta di un qualcosa che solo la storia definirà a posteriori. Certamente, è un periodo diverso rispetto a quello precedente, il che è già qualcosa dal punto di vista della consapevolezza dell'epoca storica in cui si vive, anche se non è sufficiente. Ora, quel tipo di proposta ha fatto dei passi in avanti ed anima un movimento di massa a livello mondiale!
Vorrei che tanti economisti e tanti econometristi brillanti, tutta gente in
grado, diversamente da me (che, per questo, li guardo con estrema invidia), di supportare quanto afferma con equazioni scritte su di una lavagna, una volta tanto, si spogliassero delle logiche delle compatibilità aritmetiche, geometriche ed econometriche e guardassero alla spinta di speranza contenuta in alcune proposte: forse, saranno imperfette, ma tali proposte sono come le note di alcuni grandi pianisti, i quali non eseguono mai lo spartito in maniera calligrafica, ma ci mettono più cuore e più sentimento di tanti altri e, per tale ragione, sono più grandi.
Perché il movimento «Sen terra» che, forse, come mi auguro, eleggerà in Brasile, principale paese dell'America latina, un Presidente operaio, vede nella Tobin tax uno dei punti essenziali di un programma di cambiamento della ragione di scambio e delle ragioni economiche del mondo? Perché, in Europa, una volta, quando andavano di moda (negli anni sessanta, Presidente Mussi, eravamo un po' tutti francofoni, adesso, lo siamo un po' meno), venivano citati intellettuali di grande valore ed estremamente raffinati, come Bernard Cassen o come Lipietz ed altri...
PRESIDENTE. No, no, devo confessare pubblicamente che io ho sempre avuto a cuore la Germania.
ALFONSO GIANNI. Ognuno ha le sue debolezze, signor Presidente.
Perché, dicevo, mettono in piedi un movimento nel nome della Tobin tax, che non è solo un movimento di intellettuali, di economisti, di professori universitari, ma di giovani ragazzi, di compartecipanti ai cortei no-global, di contadini che non amano McDonald's e neppure le piantagioni transgeniche e, tutti insieme, si sentono legati da questa spiga di grano, dalla Tobin tax? Perché, dall'India al Sudafrica, all'America Latina, passando per la colta (ed un po' troppo matura, ahimè) Europa, una tale tensione su una proposta di carattere finanziario? Non era mai accaduta una cosa del genere; nessuno si era mai cimentato con la tecnicalità delle questioni delle tasse e delle imposte.
Invece, stavolta è accaduto, perché dietro quel movimento c'è una grande speranza: anche se non si riescono a rovesciare - come, un po' romanticamente, molti di noi avevano pensato e, per ciò che mi riguarda, insistono romanticamente a pensare - i rapporti di forza complessivi nel mondo, almeno si introduce un granello di sabbia (come il titolo di un bel libro), si introduce un meccanismo di ravvedimento dei fenomeni di maggiore speculazione e di maggiore aggressività del sistema finanziario e, soprattutto, si fanno rientrare fondi che potrebbero essere usati da organismi internazionali per affrontare i problemi della fame, dell'acqua e dell'aria nel terzo mondo o che potrebbero anche servire ai paesi del mondo più evoluto per risolvere problemi che, malgrado tutto, ancora sono irrisolti e, anzi, sono stati aggravati dai governi delle destre. Qui sta la grande speranza! E guardate che le cifre che vengono proposte sono irrisorie, ridicole! Si tratta dello 0,1, di somme che hanno un'incidenza veramente limitata per le tasche di chi compie queste grandi transazioni finanziaria! Non si tratta della cancellazione dei loro profitti, anche se si potrebbe ritenere che siano ignobili, ma di un parziale contenimento, di uno storno di una parte di quanto speculato a favore della comunità internazionale.
Certo, è una proposta diversa da quella della de-tax del ministro Tremonti; il ministro Tremonti è creativo e vuole fare il furbo, per cui crea una soluzione che, in realtà, è un una partita di giro; basterebbe che l'Italia osservasse i criteri internazionale, che prevedono che una certa quota del suo prodotto vada a favore dei paesi del terzo mondo e della cooperazione internazionale, che il tema della de-tax sarebbe risolto. Ma, nel migliore dei casi, qualora la de-tax del ministro Tremonti funzionasse, qualora non diventasse ciò che io temo che possa diventare, cioè una nuova finestra aperta a favore degli evasori - non è detto che poi la utilizzino, ma è una nuova chance a favore degli evasori fiscali, i quali potrebbero introitare il contributo dello Stato e poi non versare il
corrispondente a favore della cooperazione internazionale (questo potrebbe avvenire) -, qualora questo non avvenisse e gli imprenditori fossero tutti virtuosi ed effettivamente, una volta incassato il generoso contributo dello Stato, restituissero la quantità di prezzo in più che gli acquirenti hanno versato sui singoli prodotti a favore della cooperazione internazionale, della lotta alla fame o di tutte le altre cose che rispondono ai bisogni del mondo, saremmo di fronte non ad una manovra di giustizia fiscale, non ad una manovra di giustizia sociale, ma ad un potenziamento di un'opera caritatevole.
Per carità, alcune associazioni, anche di supermercati, già lo fanno, come il sottosegretario Molgora sa, ma non è questo il punto della questione. Il punto della questione è che noi, con la proposta di una imposizione sulle transazioni dei capitali inversamente proporzionale alla durata degli investimenti dei medesimi, appositamente costruita per colpire la speculazione a tempo breve - non gli investimenti produttivi, quindi non l'imprenditorialità, anche svolta in paesi terzi -, intendiamo stabilire un elementare e fondamentale principio di giustizia fiscale, contenuto nelle migliori Costituzioni del mondo, compresa la nostra, anche se applicato con molte difficoltà, particolarmente nel nostro paese, per le caratteristiche mendaci del capitalismo italiano (a cominciare dai più autorevoli rappresentanti dell'attuale classe politica, che sono insieme capitalisti e insieme dirigenti politici della loro classe, a cominciare dal Presidente del Consiglio). Al contempo, si forniscono ai Governi, di qualunque colore siano (perché una legge ha un carattere universale), entrate fiscali per poter agire sul terreno internazionale. Naturalmente, noi pensiamo a criteri di equità, di giustizia, di maggiore solidarietà, ma per dare delle risposte ai bisogni della gente ci vogliono delle finanze. Non si possono fare le nozze con i fichi secchi. Ma queste finanze ci sono, basta toglierle a chi se ne appropria ingiustamente ed in modo speculativo. Ecco, io credo che questo punto sia sufficientemente chiaro, forse troppo; è anche un po' noioso quello che penso sull'argomento.
Non sembri strano che noi abbiamo utilizzato anche il treno di questa conversione in legge del decreto-legge per agganciarci il vagone della Tobin tax. Sarà un tormentone - c'è chi ha il tormentone, chi ha la «tremontana»; ognuno ha il suo -, però, insistiamo su questo problema, insistiamo con forza (lo faremo, se gli uffici ce lo permetteranno, anche nel corso dell'esame della legge finanziaria). Infatti, c'è un movimento che cresce su questa questione, un movimento mondiale che non accetta quattro cifre messe in croce o il non possumus elevato da qualche economista di regime, tanto più che la comunità internazionale anche scientifica degli economisti su una ipotesi di questo genere è da tempo d'accordo.
Naturalmente, esistono altri problemi - ne discuteremo magari domani - che riguardano, diciamo così, gli assetti generali del fisco rispetto al patto di stabilità. Vorrei ricordare quanto andiamo ripetendo da diverso tempo, almeno dall'inizio della legislatura: mi pare che, ormai, questo patto di stabilità dimostri tutta la sua incongruità dal punto di vista delle cifre (3 per cento e 60 per cento) e dal punto di vista degli effetti che provoca. Ha cominciato un economista francese, a proposito di francofoni, Presidente Mussi, Jean-Paul Fitoussi a considerare il patto di stabilità come uno svuotamento delle potestà dei governi nazionali in materia di bilancio e, infatti, si vede la fine che fanno la legge di bilancio e la legge finanziaria nelle aule di questo Parlamento. Ora, ci si mette anche il Presidente della Commissione europea, il nostro conterraneo Romano Prodi, a dire che il patto di stabilità è un patto di stupidità. Nello stesso tempo, altri paesi europei ritengono che non sia possibile rispettare quei vincoli e, in generale, come il sottosegretario Molgora ben sa, quasi tutte le economie europee, anche se lo volessero, non sarebbero in grado di rispettare quei vincoli.
Insomma, è maturo il momento in cui il patto debba essere, non dico respinto,
ma rivisto nei suoi criteri e c'è anche un aspetto fiscale che va rivisto. La leva fiscale deve essere usata: si può accettare che non cresca il divario ma non si può accettare che il rapporto tra prodotto interno lordo e deficit venga contenuto entro cifre rigide, artatamente costruite, immotivatamente determinate. Questo è il punto. Si è creata, in questi anni, in cui si è anche trasformato il modo di produzione del sistema nel quale viviamo, un'enorme ricchezza, ma il divario tra i redditi da capitale e i redditi da lavoro, secondo cifre provenienti non dagli uffici del mio partito, peraltro quasi inesistenti, ma da tutti i grandi centri di osservazione e di analisi dell'andamento economico internazionale, ci ha fatto tornare a situazioni antecedenti a quelle dell'autunno caldo e del grande periodo che va dal 1968 fino ai primi anni settanta, nel corso del quale, a causa della pressione dello sviluppo di una lotta di classe a livello mondiale, oltre che europeo, quel divario si era venuto un po' restringendo; non che i rapporti si fossero capovolti, intendiamoci, ma qualcosa si era eroso. Nel corso di questi anni - la sinistra moderata in ciò ha delle responsabilità: sia detto con estrema chiarezza, non me la prendo soltanto con il sottosegretario Molgora o la parte politica che egli rappresenta, ma il mio discorso è un po' più oggettivo - questo divario è tornato ad aumentare. Ma questo è un bene per l'economia? Se la gente non compra ciò che produciamo, dove si arriva? Naturalmente io non dico - torneremo su questo punto - che la questione FIAT riguardi soltanto la capacità di acquistare o meno le automobili, il problema è più complesso ma, certamente, anche questo aspetto deve essere considerato.
Quando il Presidente del Consiglio dice che gli italiani devono risparmiare di più o che devono spendere di più, dice due sciocchezze, in ogni caso, perché, tanto per spendere, quanto per risparmiare bisogna avercene! Ma se, diciamo così, il livello retributivo delle principali categorie lavoratrici che, ancora oggi, sono il corpo grosso della popolazione italiana, si trova ad un punto che colloca l'Italia agli ultimi posti dell'Unione europea...
PRESIDENTE. Onorevole Alfonso Gianni, la invito a concludere.
ALFONSO GIANNI. Aspettavo il suo richiamo.
Appare chiaro che siamo in una situazione di irrealizzabilità, sia della maggiore spesa, ovvero del maggior consumo da parte delle famiglie, sia del maggiore risparmio, perché, in ogni caso, bisognerebbe avere ciò che, per altra via, ci viene negato.
Credo, con queste ragioni, di aver chiarito la nostra linea emendativa; forse si è anche capita la nostra opposizione al disegno di legge di conversione che viene proposto all'Assemblea.
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Nicola Rossi. Ne ha facoltà.
NICOLA ROSSI. Signor Presidente, il decreto-legge che siamo chiamati ad esaminare può sicuramente essere definito emergenziale; molto più di tanti interventi del ministro dell'economia in Assemblea o in Commissione esso chiarisce in modo netto la situazione in cui versa la finanza pubblica italiana: non si assumono misure di questo genere se non si ha la ragionevole certezza che i conti sono «semplicemente» sfuggiti di mano. Provvedimenti come questo non sono sicuramente una novità: chi ricorda l'estate del 1992 sa, appunto, come a volte sia necessario emanare provvedimenti di questo tipo. Vi è però una piccola differenza: allora decreti di questo genere furono adottati dopo 15 anni di dissesto e di malgoverno della finanza pubblica; oggi vengono emanati dopo 15 mesi di malgoverno e di dissesto della finanza pubblica. La differenza è perciò tangibile e grave. Il sottosegretario riconoscerà che, per quanto si voglia e si possa immaginare, lo stato dei conti trovato dall'attuale Governo quando è entrato in carica era lontano mille miglia da
quello che alcuni governi si trovavano ad affrontare all'inizio degli anni novanta.
Il fatto che quello di oggi sia un decreto emergenziale è evidente in modo chiaro da alcuni elementi: quando si prevedono provvedimenti retroattivi in palese violazione dello statuto del contribuente - non della legge, lo so bene - con il rischio di minare alla radice il rapporto tra lo Stato ed il contribuente medesimo (rapporto che da questo momento in poi non sarà più lo stesso, se viene emanato un provvedimento con effetto retroattivo a carattere fiscale), quando in più di una norma si impongono, perché poi di questo si tratta, prestiti forzosi a nove anni, a cinque anni, ma anche a quindici giorni nel caso del credito di imposta (un prestito forzoso a quindici giorni a cavallo della fine dell'anno), quando si prendono provvedimenti con queste caratteristiche, quello che si sta facendo è, appunto, intervenire in una situazione che è molto vicina all'essere disperata. Mi ricordo quando avevamo chiesto al ministro dell'economia un'operazione verità: non credo che ce l'abbia data, ma questo provvedimento, accanto al decreto taglia spese, chiarisce - al di là di ogni dubbio - come siano bastati 15 mesi per riportarci indietro di una decina d'anni. Si tratta di una spia dello stato dei conti pubblici.
Vi è però modo e modo di affrontare l'emergenza: mi viene in mente lo slogan di una pubblicità, se ricordo bene, di un orologio, il quale diceva «non cedete sotto pressione». In questo caso il cedimento è invece totale: si affronta l'emergenza come peggio non si poteva fare. Proverò non tanto a scorrere il provvedimento articolo per articolo, in quanto sarebbe noioso ed altri lo hanno già fatto molto meglio di me e prima di me, bensì cercherò di capire quali siano gli elementi che legano le norme che costituiscono i vari articoli. Mi soffermo su alcune «regolarità»: innanzitutto vi è l'intento di punire i migliori; questo lo si trova in parecchi articoli del presente provvedimento. Si trova, non so quanto deliberata, ma certo in maniera evidente ed esplicita, la volontà di punire i migliori. Il provvedimento sulla DIT e quello sulle assicurazioni - tanto la Confindustria quanto l'ANIA hanno sottolineato esattamente questo punto - vanno ad incidere in particolare su quelle società di assicurazione che avevano operato per lo sviluppo oppure su quelle imprese che avevano provveduto a capitalizzarsi. Questi due provvedimenti colpiscono esattamente quella parte del mondo della finanza e delle imprese che aveva cercato, che si era sforzato non solo di mettersi al passo, ma di fare di più, anche meglio di altri. In questo «colpire i migliori» vi è anche una volontà che, in alcuni casi, diviene quasi persecutoria.
Considerate un attimo il caso delle piccole imprese. Vi sono due note delle audizioni che ho trovato molto interessanti e che credo debbano essere richiamate. In primo luogo, mi riferisco a quanto detto anche dall'onorevole Tolotti con riguardo ai dati di provenienza Secit, che chiariscono la relazione fra piccola impresa e DIT e che sottolineano come, in realtà, le piccole e medie imprese abbiano utilizzato ampiamente la DIT in proporzione non dissimile dalle grandi imprese.
Tuttavia, vi è una notazione che ho trovato particolarmente interessante in un'altra audizione che richiama un aspetto importante: gli accordi di Basilea, dal punto di vista del sistema del credito, in realtà significheranno una contrazione del credito per molte piccole e medie imprese, nonostante che per loro sussista un merito di credito. Aver colpito la possibilità per queste imprese di patrimonializzarsi a condizioni di favore significa averle penalizzate due volte. Da un lato, con ogni probabilità, esse saranno in parte escluse dal mercato del credito e, dall'altro lato, il fisco non le aiuta a ricapitalizzarsi nel momento in cui ne avrebbero bisogno. Non c'è logica in un comportamento di questo genere.
Seconda notazione: si complica la vita. Per un ministro che a suo tempo scriveva «dal complesso al semplice» veramente viene da ridere. Infatti, da un lato, considerando le norme che riguardano le imprese, con ogni probabilità il carico amministrativo imposto a molte di loro a
seguito di questo decreto-legge aumenterà a dismisura. Addirittura, si impone che vengano redatti nuovamente i conti ed i bilanci già predisposti.
Inoltre - per fornire solo un esempio - inviterei soprattutto i colleghi della maggioranza e il sottosegretario a leggere le due illuminanti pagine delle note del servizio studi relative al credito d'imposta per la nuova occupazione. In due pagine si cerca di ricostruire, per quanto possibile, la logica e l'esito di questo provvedimento e vengono indicate almeno sei o sette date cruciali dal punto di vista degli adempimenti delle imprese: il 1o luglio, il 7 luglio, il 6 agosto, il 31 dicembre e il 1o gennaio. A seconda delle modalità in cui l'impresa si colloca rispetto queste sei date, si trova in una situazione di un certo tipo o in un'altra completamente diversa. Arrivare in fondo a quelle due pagine, che naturalmente credo abbiano richiesto molto sforzo da parte dei funzionari del servizio studi, è veramente difficile. Ciò, ovviamente, non per colpa di chi le ha scritte, ma per colpa di chi ha redatto quelle norme che hanno costretto a delineare uno scenario per le imprese, dal 1o luglio 2002 al 31 dicembre 2002, assolutamente straordinario.
Terzo: si premiano i furbi. Basta prendere in considerazione i piccoli condoni distribuiti qua e là all'interno del provvedimento (mi riferisco all'esercizio del diritto al discarico, agli accertamenti sui disavanzi da annullamento e così via). Sono piccoli condoni messi qui e lì con la solita logica dei condoni.
Quarto: si cambiano le regole. Ricordate che l'anno scorso abbiamo stabilito che vi sarebbe dovuta essere una qualche indifferenza fra chi sceglieva di utilizzare la DIT e chi sceglieva la legge Tremonti-bis? Oggi, invece, con un provvedimento si cambiano le carte in tavola per una sola delle due parti di quella situazione di indifferenza. Che senso ha e, soprattutto, perché riprodurre per l'ennesima volta una situazione diversa, quando si era garantito al mondo delle imprese un certo quadro di regole?
Quinto: si distorcono i mercati. Anche qui è sufficiente esaminare l'audizione dell'ANIA per osservare quanto sia diversa la situazione concorrenziale in cui vengono a trovarsi le diverse imprese di assicurazione dopo un provvedimento come questo.
Come ho detto prima, si può reagire alle emergenze in molti modi, ma farlo in maniera così scomposta e raffazzonata comporta un'unica conseguenza: si giunge alla discussione in Assemblea e già ci aspettiamo che, con ogni probabilità, interverranno emendamenti rilevanti, che muteranno in maniera sostanziale le parti sostanziali di questo provvedimento.
Infatti, un provvedimento realizzato in maniera affrettata senza riflettere sul perché, sulla scorta dell'emergenza, sulla necessità di dover comunque fare qualcosa perché i conti stanno sfuggendo di mano, porta a tali conseguenze. Dobbiamo augurarci, naturalmente, che gli emendamenti che verranno presentati siano tali da mettere un po' di riparo agli svarioni contenuti nel provvedimento.
Per concludere, qualche tempo fa l'onorevole Tremonti si era conquistato una notorietà di «battutista» assimilando il Ministero delle finanze all'AVIS e l'allora ministro al conte Dracula. Vedete, il conte Dracula lascia in vita le sue vittime dopo essersi cibato del loro sangue. In questo caso, invece, ho la netta sensazione che troviamo solo i poveri resti. Dunque, il sospetto è che alla presidenza dell'AVIS sia andato Jack lo squartatore.
PRESIDENTE. Dopo questa chiusura con immagini piuttosto forti...
GIORGIO LA MALFA. Truculente!
PRESIDENTE. ... è iscritto a parlare l'onorevole Leo. Ne ha facoltà.
MAURIZIO LEO. Signor Presidente, sarò breve. Avrei voluto svolgere un altro tipo di intervento, più centrato sugli aspetti tecnici del provvedimento. Avrei voluto esaminare come viene concepita e come funzionerà la disciplina della DIT e
come verrà organizzata la disciplina delle svalutazioni. Però, le attente e sempre importanti considerazioni dell'onorevole Nicola Rossi mi inducono a ripercorrere il suo ragionamento perché vi sono zone d'ombra ed aspetti che generano alcune perplessità.
Si è parlato della DIT: la DIT non è un'invenzione del nostro ordinamento, ma un meccanismo introdotto in paesi scandinavi ed importato nel nostro ordinamento al fine di renderlo più coerente con il meccanismo della capitalizzazione delle imprese. Nei paesi scandinavi tutti i redditi, anche il reddito da lavoro dipendente, vengono divisi in due fasce: una è collegata alla remunerazione del capitale investito, una all'attività di lavoro. Per fare in modo che tutto quanto correlato all'investimento del capitale venga tassato nello stesso modo, sia sui redditi di capitale, sia sui redditi di lavoro, sia sui redditi di impresa, sia sui redditi dei fabbricati si è introdotto un meccanismo differenziato di tassazione. Abbiamo piegato la logica della dual income tax ad un modo di pensare tipicamente nostrano: quello di incrementare la capitalizzazione delle imprese.
Ebbene, alcune imprese si sono capitalizzate al fine di ottenere vantaggi fiscali. Lei ricordava la relazione del Secit che è un po' datata, dato che si riferisce al 1999. Se andiamo oltre vi sono anche documenti, poi pubblicati sulla stampa specializzata, che si riferiscono ai dati del 2000. Si è visto che maggiore attenzione hanno avuto le imprese di grandi dimensioni sulla DIT anche perché un'impresa di piccole dimensioni - mi riferisco all'imprenditore individuale o alla società di persone - per fruire della DIT deve avere un patrimonio di riferimento di circa 220-230 milioni. Quest'ultima ipotesi non è assolutamente configurabile in capo ad imprese di modesta dimensione. Se un'impresa che ha tale tipo di patrimonio vuole ottenere vantaggi fiscali si trasforma in società di capitale. Dunque, non rientra nella logica dell'impostazione del provvedimento dare vantaggi alle imprese di piccole e medie dimensioni.
Svolto questo ragionamento di carattere generale, andiamo a capire perché si sia reso necessario intervenire in tale materia. Si tratta di un provvedimento emergenziale che, tuttavia, solo in questo momento il Governo poteva apprezzare e comprendere. Infatti, i dati dell'autotassazione di luglio-agosto 2002 hanno fatto registrare un calo notevole del gettito IRPEG. Sappiamo che rispetto ai dati del 2001 si è registrato un decremento del 15 per cento circa. L'analisi che deve svolgere ogni analista di questa materia deve portare a comprendere il motivo per cui si sia ridotto il carico dell'imposta sul reddito delle persone giuridiche.
Un osservatore poco attento potrebbe dire che esso si è ridotto in vista della disciplina legislativa futura (delle sanatorie, dei condoni e delle definizioni agevolate), nel senso che proprio in vista di ciò vi sarebbe stato un orientamento delle imprese teso a ridurre il carico fiscale. Ma siamo proprio certi che sia così? O invece la riduzione del gettito IRPEG nel 2002 è correlata a provvedimenti che sono stati adottati nell'anno precedente? Ricordiamoci che l'IRPEG è un'imposta di periodo, che tiene quindi conto dei fatti, degli accadimenti e degli eventi che hanno influenzato la base imponibile dell'anno precedente (quindi del periodo di imposta 2001).
Vediamo allora cosa è successo nel 2001. In tale anno condoni, concordati e sanatorie non ve ne sono stati; non si può dire quindi che la riduzione del gettito IRPEG sia da correlare a situazioni ancora non prodottesi nella legislazione. Possiamo però dire che la riduzione del gettito IRPEG sia da correlare ad una serie di provvedimenti e di misure adottate nella finanziaria del 2001. In primo luogo, con essa è stato tolto il famoso tetto di aliquota media minima del 27 per cento, che c'era dalla nascita della DIT. Pertanto, dal 2001 non vi è stata più l'aliquota media minima IRPEG del 27 per cento, con la conseguenza che un'impresa capitalizzatasi, avendo fatto gli opportuni aggiustamenti contabili, riesce a fruire dell'aliquota
del 19 per cento. Questo è il primo aspetto che ha portato a un decremento del gettito IRPEG per l'anno 2002.
L'altro aspetto è rappresentato dall'introduzione del cosiddetto moltiplicatore. Non si è assunto solo l'incremento patrimoniale di queste imprese rispetto al patrimonio del 1996, ma le imprese che hanno avuto l'incremento patrimoniale si sono ulteriormente avvantaggiate potendo considerare il 40 per cento in più del patrimonio su cui applicare l'aliquota agevolata. Vi è stato quindi un doppio effetto, generatosi in conseguenza della legge finanziaria del 2001: il moltiplicatore e il nuovo assetto della disciplina della DIT, che hanno appunto provocato delle ripercussioni sicuramente negative sul gettito.
A ciò aggiungerei un altro aspetto: la rivalutazione dei beni di impresa. Infatti, nella passata legislatura è stato adottato un provvedimento in tal senso, certamente a sostegno delle imprese (era peraltro anche necessario, perché le imprese hanno nei propri bilanci gli asset a valori storici ed era quindi opportuno riportarli ai valori correnti di mercato), ma che tuttavia ha prodotto delle conseguenze immediate sul piano fiscale. Infatti, i maggiori ammortamenti e le minori plusvalenze, per effetto della rivalutazione del cespite, hanno provocato sicuramente ricadute in termini di riduzione del reddito e conseguentemente in termini di riduzione del carico fiscale.
Questi tre elementi, ai quali va aggiunto l'effetto combinato della DIT e del saldo di rivalutazione dei beni di impresa (che veniva assunto ai fini del patrimonio netto su cui calcolare la DIT), hanno provocato quel sicuro decremento delle entrate dello Stato a cui il Governo ha dovuto porre rimedio. Infatti esso, una volta registrate queste ricadute negative, verificatesi come dicevo negli scorsi mesi di luglio e agosto, è opportunamente intervenuto in modo puntuale ed appropriato emanando il provvedimento in esame.
È chiaro che vi sono alcuni aspetti da correggere, sui quali peraltro si è già registrata una disponibilità del Governo, anche a seguito del dibattito svoltosi in Commissione e degli importanti contributi pervenuti dalle associazioni di categoria. Pertanto, su aspetti quali le svalutazioni o la DIT, si potranno anche apportare delle correzioni che vanno appunto nella direzione indicata dalle associazioni di categoria. Ma al tempo stesso con questo provvedimento si riporta ordine nel sistema.
Anche sul versante degli acconti si era detto molto. Ebbene, anche su tale versante, allorché intervengono queste semplificazioni annunciate dal Governo, penso si possa oggettivamente dire che il provvedimento rientri nei binari della funzionalità dell'imposta sul reddito delle persone giuridiche, per fare in modo che tutte le imprese siano in grado di determinare in modo sereno il carico tributario in occasione della prossima scadenza di novembre.
Accanto a questi aspetti concernenti l'IRPEG, dobbiamo ricordare che il provvedimento reca una sezione specifica relativa al credito di imposta per le assunzioni. Anche a tale proposito, dopo il decreto-legge n. 138 del 2002, erano sorte una serie di incertezze; quindi, il Governo si è fatto interprete delle difficoltà incontrate dai contribuenti nel calcolo e nella quantificazione del credito di imposta e, pur con le difficoltà dei conti pubblici e con le difficoltà di risorse per consentire la fruizione di tale credito, ha annunciato che questo credito, non fruibile, non spendibile immediatamente con i modelli F24 da luglio in poi, verrà considerato riconosciuto a far data dal 1o gennaio 2003. È da quel momento che il disegno di legge finanziaria, attualmente in esame, prevede una serie di misure che possono garantire un effettivo utilizzo, un effettivo riconoscimento del credito di imposta per le assunzioni.
Questi sono due dei temi affrontati dal provvedimento. Si poteva far meglio, si poteva fare di più, ma il Governo ha svolto la sua parte, cercando di cogliere gli aspetti di maggiore disfunzione che questa maggioranza ha ereditato e con cui deve fare i conti.
In conclusione, volevo ricordare un intervento molto importante realizzato in Commissione con il consenso della maggioranza
e dell'opposizione, relativo alla norma che riguarda più da vicino l'amministrazione finanziaria. Con un emendamento, sottoscritto da tutti i componenti della Commissione finanze, si è corretta una situazione verificatasi in passato in cui, attraverso una serie di procedure paraconcorsuali non in linea con quanto previsto dalla Costituzione, alcuni dipendenti dell'amministrazione finanziaria avevano fruito di progressioni di carriera non realizzate in modo ortodosso. Dunque, con il suddetto emendamento si è stabilito che i citati dipendenti possono continuare a svolgere la loro attività percependo le relative retribuzioni. Allo stesso tempo, si è anche affermato il principio sancito dalla Corte costituzionale nella citata sentenza, si è dato ragione a quelle parti sindacali che avevano contestato le procedure paraconcorsuali - considerandole qualcosa di ibrido e di illogico all'interno del sistema dei concorsi pubblici -, si è fatta salva la disciplina fino ad oggi adottata e si sono poste basi nuove nei rapporti e nelle procedure concorsuali, laddove il soggetto che è chiamato a svolgere un ufficio pubblico deve svolgerlo in base ad un concorso regolare e a prove tecniche selettive che pongano in risalto le effettive capacità professionali.
Per questi motivi e per altre considerazioni relative a norme più marginali del provvedimento, il gruppo di Alleanza nazionale, che in questo momento ho l'onore di rappresentare, esprime un giudizio sicuramente favorevole sul provvedimento in esame, condividendone appieno i contenuti.
PRESIDENTE. Non vi sono altri iscritti a parlare e pertanto dichiaro chiusa la discussione sulle linee generali.
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