Resoconto stenografico dell'Assemblea
Seduta n. 147 del 27/5/2002
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TESTO AGGIORNATO AL 28 MAGGIO 2002


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Seguito della discussione del disegno di legge: Ratifica ed esecuzione dell'Accordo quadro tra la Repubblica francese, la Repubblica federale di Germania, la Repubblica italiana, il Regno di Spagna, il Regno di Svezia e il Regno Unito della Gran Bretagna e dell'Irlanda del Nord relativo alle misure per facilitare la ristrutturazione e le attività dell'industria europea per la difesa, con allegato, fatto a Farnborough il 27 luglio 2000, nonché modifiche alla legge 9 luglio 1990, n. 185 (1927) (ore 18,12).

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca il seguito della discussione del disegno di legge: Ratifica ed esecuzione dell'Accordo quadro tra la Repubblica francese, la Repubblica federale di Germania, la Repubblica italiana, il Regno di Spagna, il Regno di Svezia, il Regno Unito della Gran Bretagna e dell'Irlanda del Nord relativo alle misure per facilitare la ristrutturazione e le attività dell'industria europea per la difesa, con allegato, fatto a Farnborough il 27 luglio 2000, nonché modifiche alla legge 9 luglio 1990, n. 185.

(Ripresa discussione sulle linee generali - A.C. 1927)

PRESIDENTE. Ricordo che nella seduta del 25 marzo 2002 è iniziata la discussione sulle linee generali.
È iscritto a parlare l'onorevole Minniti. Ne ha facoltà.

MARCO MINNITI. Signor Presidente, chiedo scusa ai colleghi - che tra l'altro sono sempre gli stessi - poiché sto abusando della loro pazienza. D'altro canto non è stata una mia idea...

PRESIDENTE. È nei suoi tempi, onorevole Minniti.

MARCO MINNITI. ...inserire questi due argomenti consecutivamente nell'ordine del giorno. D'altro canto, si tratta della continuazione di una precedente discussione iniziata qualche settimana fa.
Con la ratifica dell'Accordo di Farnborough del luglio 2000, il Parlamento italiano compie un atto particolarmente importante. È giusto che si lanci il segnale di una discussione impegnata e trasparente.
Nel momento in cui si discute di tematiche relative alla cooperazione nel campo dell'industria per la difesa - e sappiamo di toccare un nervo particolarmente sensibile per la guida di un paese - l'idea di una discussione impegnata e trasparente costituisce un principio di garanzia nei confronti di coloro che, fuori da questo Parlamento, guardano ai nostri lavori.
Nel campo della cooperazione dell'industria per la difesa, Farnborough 2000 rappresenta la conclusione di un lungo percorso iniziatosi con il lavoro preparatorio che, nel settembre del 1998, portò il ministro della difesa del tempo, onorevole Andreatta, a firmare l'atto che costituiva un primo gradino di cooperazione: il trattato OCCAR. Com'è noto, quest'ultimo rappresenta un punto di cooperazione fra quattro grandi paesi europei: Francia, Germania, Regno Unito e Italia. A Farnborough, questo spettro di collaborazione è stato allargato ad altri due paesi europei: la Svezia e la Spagna, dandosi vita ad un comune impegno noto come Letter of intents.
Non sfugge a nessuno che, in questi anni, l'Italia ha accresciuto il suo peso nel campo della difesa e delle missioni internazionali e, di conseguenza, la sua capacità di porsi come riferimento in un settore così importante e così delicato come quello dell'industria per la difesa. Penso non sfugga a nessuno, altresì, l'importanza dell'ingresso del nostro paese nell'ambito dei cinque paesi più importanti noto come Five powers: i 4 paesi europei con gli Stati Uniti.


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La finalità dell'Accordo di Farnborough è quella di costruire una politica comune di cooperazione nel campo della ristrutturazione e dello sviluppo dell'industria per la difesa. Vorrei dire con grande chiarezza che noi, in queste settimane, abbiamo un po' subito l'idea che il cuore di tale accordo riguardasse le esportazioni di materiale d'armamento e non, invece, quello da me sottolineato in precedenza: il cuore del Trattato di Farnborough riguarda la cooperazione e la ristrutturazione nel campo dell'industria europea per la difesa, mentre l'aspetto dell'esportazione non solo non è essenziale, ma, anzi, derivando unicamente come conseguenza della cooperazione, non è un punto di riferimento dell'Accordo.
Voi sapete che, tra la fine degli anni ottanta e l'inizio degli anni novanta si sono avuti straordinari processi di concentrazione e di internazionalizzazione in questo campo. Basti pensare a quanto è avvenuto negli Stati Uniti ed a quanto sta avvenendo ancora con riferimento a grandissime concentrazioni che hanno portato l'industria europea a doversi misurare con colossi mondiali di assoluta, primissima grandezza.
Da questo punto di vista, quindi, che vi sia una cooperazione in questo campo tra i grandi paesi europei, io lo ritengo assolutamente necessario ed essenziale. So, inoltre, che tale cooperazione deve muoversi lungo una precisa linea di fondo: occorre pensare ad un rapporto tra Europa e Stati Uniti che sia improntato a principi di cooperazione e di alleanza - così come avviene già adesso -, ma che, nel contempo, veda l'Europa accrescere la sua capacità di autonomia e di integrazione nel campo della difesa. In altre parole, il rapporto tra Europa e Stati Uniti deve leggersi, appunto, attraverso la coppia di autonomia ed integrazione, anziché di competizione e duplicazione.
Questa è la strada che l'Europa ha scelto con il trattato di Nizza, con l'avvio di una politica comune di sicurezza e difesa europea. Io penso che siamo arrivati al punto in cui bisogna cominciare a trarre un bilancio di questa politica di sicurezza e difesa europea. Dobbiamo dire con grande chiarezza che o l'Europa va avanti su questa strada o c'è il rischio di un rinculo e di una perdita di prestigio dell'intera Europa.
Da questo punto di vista ritengo essenziale che l'Italia confermi il suo impegno, al di là di qualche dichiarazione estemporanea, per la realizzazione del corpo di armata di reazione rapida europeo, già previsto per l'inizio del prossimo anno, che considero un pilastro fondamentale della politica di sicurezza e difesa europea; quindi, cooperazione in Europa, cooperazione tra europei in un quadro di autonomia e di integrazione con gli Stati Uniti.
Ed è per questo che noi abbiamo considerato sinceramente grave ed in contraddizione con questa impostazione la scelta unilaterale ed isolata fatta dal Governo italiano di uscire dal programma A400M. Questo Parlamento ha più volte discusso la questione; non voglio ritornarci sopra, ma, nel momento in cui ci impegniamo alla ratifica di un trattato internazionale così importante come la LOI, come è possibile non vedere la contraddizione tra quell'impegno e la scelta concreta del nostro paese che, invece, solo tra i partner europei, ha deciso di uscire da quel programma? Vedete, non vorrei - lo dico qui all'onorevole Berselli che rappresenta il Governo - che noi arrivassimo a un singolare paradosso, cioè che noi oggi rimanessimo fuori dal programma A400M, ma poi, di fronte all'esigenza di avere una linea trasportistica nel campo dell'aviazione moderna, finissimo per rientrare tra quei paesi che, pur avendo rinunciato ad avere un ruolo di primo piano nel programma, diventano acquirenti dello stesso programma. Vorrei ricordarlo perché, nel momento in cui in questo Parlamento si discute, è giusto che ognuno si assuma fino in fondo la propria responsabilità. Sarebbe assai singolare che chi oggi ha deciso di rimanere fuori domani venisse in questo Parlamento a chiederci di rafforzare la nostra linea in rapporto con l'Europa, magari acquistando quel tipo di velivolo.


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Come è noto, ci sono le condizioni per poter ulteriormente riflettere su questo progetto. La mia critica è molto ferma, e così come è ferma la critica è fermo anche l'auspicio che l'Italia rifletta su un programma che ritengo fondamentale nell'integrazione europea, nel campo dell'industria della difesa.
Farnborough, come dicevo, costituisce un riferimento importante perché, come è noto, se non c'è una cooperazione nel campo dell'industria della difesa non c'è nemmeno una politica di sicurezza e difesa comune. Infatti, non c'è dubbio che ci sia una stretta interazione tra la cooperazione nel campo dell'industria della difesa e la capacità di sviluppare delle politiche comuni. D'altro canto, si è visto come la sicurezza e la difesa europea costituiscano il tallone di Achille. In questi mesi abbiamo visto un rapporto particolarmente complicato tra l'Europa e le crisi internazionali. A volte, si è sottolineato il silenzio dell'Europa di fronte a passaggi particolarmente rilevanti come quello dell'Afghanistan o del Medio Oriente; il nostro auspicio, non c'è dubbio, è che l'Europa faccia sempre di più e diventi protagonista nello scenario internazionale. Dico questo nel momento in cui, con l'allargamento del Consiglio NATO alla Russia, si apre sicuramente un nuovo scenario e, come tutti i passaggi storici, esso è segnato per l'Europa dal principio dell'opportunità e, insieme, da qualche rischio.
L'allargamento alla Russia del Consiglio NATO costituisce per l'Europa una straordinaria opportunità perché le consente di sviluppare il suo ruolo fondamentale di naturale collegamento tra gli Stati Uniti d'America, oltre Atlantico, ed un grande paese del nostro continente. Tuttavia, non sfugge a nessuno che se l'Europa non farà passi in avanti nel campo della sicurezza e della difesa comune c'è il rischio che l'ingresso della Russia nella NATO finisca con lo svilire la funzione dell'Europa. È una grande questione che deve essere affrontata con serietà e rigore nella consapevolezza che la risposta non può essere un ritorno a funzioni e ruoli dei singoli Stati nazione. Se si dovesse tornare indietro, riproponendo l'idea di un'Europa minima, il rischio sarebbe quello di avere singoli paesi europei che poi, di fatto, rimangono anonimi nel momento in cui è necessaria una presenza che conti nelle grandi crisi internazionali. Per questo motivo ritengo che l'accordo a 20 debba fungere da segnale per una accelerazione in Europa sulle politiche comuni e, in questo quadro, per affrontare con rinnovato vigore il tema della politica di sicurezza e difesa europea. L'accordo di Farnborough deve essere inscritto in questa prospettiva.
Come ha già detto il relatore, l'accordo prevede una cooperazione ampia tra sei importanti paesi europei nel campo della ricerca, dell'armonizzazione e della standardizzazione, nel campo della sicurezza e degli approvvigionamenti, fermo restando l'impegno comune di affrontare, insieme, i problemi relativi alla internazionalizzazione ed alla concentrazione nel campo dell'industria della difesa. Come è noto tutto ciò produce anche un risparmio, da un punto di vista di impatto finanziario, in termini di armonizzazione e di approvvigionamento.
Tuttavia, non sfugge a nessuno che questo mio insistito - lo ripeto, insistito - ritorno sulle ragioni fondamentali dell'accordo di Farnborough risponde ad un allarme creatosi nella società italiana al di fuori del Parlamento. Sarebbe sbagliato da parte nostra non tenere un atteggiamento interlocutorio e di reciproco ascolto con le associazioni ed i movimenti che hanno segnalato il rischio e la preoccupazione che quella cooperazione internazionale potesse segnare un abbassamento del livello di rigore e trasparenza nell'esportazione di materiale d'armamento.
D'altro canto non siamo di fronte soltanto ad un'azione di associazioni e movimenti - che pure hanno una loro rilevanza e che per me costituiscono un punto di riferimento in questa discussione -, ma anche di fronte a qualche richiamo, anche particolarmente autorevole. Come non leggere in questo senso la prolusione del Cardinal Ruini svolta al consiglio episcopale


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permanente dell'11-14 marzo di quest'anno nella quale ha dichiarato: «È importante, in questa prospettiva, fare attenzione a che la ratifica da parte del Parlamento italiano dell'accordo quadro per la ristrutturazione dell'industria europea di difesa non comporti l'attenuarsi dei controlli sul commercio delle armi.» So bene che su tali questioni possono esservi punti di vista differenti e tuttavia dobbiamo sapere che quando si discute di questioni così delicate conta non soltanto quanto c'è scritto nella norma ma anche come la norma viene percepita dai destinatari. Nel campo dei principi di civiltà di un paese vale il motto degli empiristi inglesi esse est percipi, vale a dire l'essere è come si è percepiti, e quando c'è un segnale di preoccupazione è giusto che il Parlamento risponda.
È altrettanto giusto che da parte mia vi sia una sottolineatura che considero assolutamente indispensabile e che ritengo questo Parlamento debba fare propria: la legge n. 185 del 1990 ha ben funzionato, producendo i risultati per i quali era stata predisposta; essa, pertanto, non ha bisogno di cambiamenti sostanziali o radicali. Penso che il Parlamento debba saper ascoltare e debba perciò lavorare - questo è possibile - separando la ratifica del trattato dalle modifiche della legge n. 185, non strettamente necessarie alla ratifica del trattato stesso.
Se si legge il testo (e vorrei che i colleghi lo facessero con particolare attenzione), si può constatare come tale lavoro possa essere tranquillamente svolto. Consideriamo, ad esempio, l'articolo 7 della legge di ratifica: esso prevede la possibilità di estendere le norme contenute nel Trattato di Farnborough ad altri paesi della NATO e dell'Unione europea previo accordo bilaterale tra l'Italia e tali paesi; ebbene, se ciò vuol dire che quell'accordo dovrà essere ratificato in ogni caso dal Parlamento italiano, tale norma è pleonastica; se invece vuol dire altro, come penso che non voglia dire, l'articolo è allora sbagliato. Quindi, esso o è pleonastico, oppure è sbagliato, ed è pertanto opportuno che il Parlamento discuta e rifletta attentamente su tale aspetto. Tra l'altro, l'articolo 7 non ha nulla a che vedere con la ratifica del trattato di Farnborough, in quanto ne rappresenta un'estensione.
Ritengo sia necessario, da parte del Parlamento, dare un segnale con il quale, in modo molto chiaro, si affermi, nel momento in cui si va verso l'integrazione europea nel campo dell'industria della sicurezza e della difesa europea, la volontà di mantenere forte il principio della trasparenza e, insieme, del coinvolgimento del Parlamento stesso nelle decisioni assunte. Fare tutto ciò è possibile se ragioneremo con spirito positivo, senza pregiudizi né pregiudiziali.
Per questo ho considerato positiva la decisione, assunta insieme ai colleghi della maggioranza, di convocare nuovamente, dopo una prima riunione affrettata, il Comitato dei nove per discutere di tali argomenti. Ritengo questo sia un segnale di attenzione che non posso non apprezzare nel momento in cui si pone alla nostra attenzione una questione particolarmente delicata. In quella sede discuteremo insieme degli emendamenti che noi, come anche altri gruppi politici, abbiamo presentato con lo spirito di chi vuole - insieme - ratificare il trattato e dare una risposta all'allarme sociale che si è creato. Come è del tutto evidente, il nostro consenso al trattato non è in questo momento in discussione; è invece in discussione il nostro consenso al presente disegno di legge di ratifica, ed è per questo che gradueremo il nostro comportamento parlamentare alla luce della discussione complessiva e della valutazione che sarà data agli emendamenti da noi presentati (Applausi dei deputati del gruppo dei Democratici di Sinistra-L'Ulivo).

PRESIDENTE. È iscritta a parlare l'onorevole Deiana. Ne ha facoltà.

ELETTRA DEIANA. Signor Presidente, il testo che stiamo discutendo ha suscitato - come credo sia ampiamente noto ai colleghi ed alle colleghe della Commissione difesa - critiche molto aspre e proteste da parte del mondo pacifista e delle associazioni


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che lavorano per la difesa dei diritti umani. Credo che di queste proteste si debba parlare ponendole al centro del dibattito e non cercando di renderle funzionali ad un ragionamento sulle armi che in realtà svuota le proteste stesse della loro istanza più feconda, cioè l'aspirazione ad un mondo di pace.
Si è verificata una vera e propria mobilitazione, un'iniziativa diffusa e determinata che ha rimesso in movimento in Italia, ancora una volta (vi è un ricorrente mettersi in movimento sul tema del controllo delle armi), quel grande popolo pacifista che con straordinaria passione civile ed impegno politico ha occupato spesso, in tutti questi mesi, la scena pubblica del nostro paese, rompendo il falso e pernicioso unanimismo che si pretende di costruire in Parlamento intorno alla guerra.
In questo caso, al centro delle critiche e delle preoccupazioni vi sono state le modifiche che il disegno di legge in discussione apporta alla legge n. 185 del 1990 sul commercio delle armi. Faccio mie integralmente queste critiche, che sono una parte importante delle ragioni per cui il gruppo di Rifondazione comunista voterà contro il testo.
Con lo scopo di facilitare la ristrutturazione e le attività dell'industria europea della difesa, secondo le direttive dell'accordo quadro sottoscritto a Farnborough il 27 luglio del 2000 dai ministri della difesa di Italia, Francia, Germania, Regno Unito, Spagna e Svezia, si vuole introdurre nella normativa un nuovo tipo di autorizzazione per la produzione e il commercio delle armi: la cosiddetta licenza globale di progetto. Non si tratta di una cosa di poco conto in quanto, in questo modo, si costruisce una corsia di accelerazione per quella strategia di difesa europea che tende sempre più ad identificare la difesa con i sistemi d'arma e con le politiche militari.
Nella nostra Costituzione la difesa è tuttora ancorata, sul piano letterario, al ripudio della guerra e, quindi, ad una concezione del militare assolutamente subalterno e funzionale al principio costituzionale. La licenza globale di progetto esclude o tende fortemente ad escludere dal controllo parlamentare e della società civile tutte le operazioni svolte nel quadro di programmi intergovernativi, adeguando l'Italia alle normative di paesi più permissivi in materia di commercio delle armi.
Non a caso - ripeto: non a caso - nel disegno di legge in discussione sono previste modifiche di rilievo alla legge n. 185 del 1990, per la realizzazione della quale si è condensato molto dell'impegno di pace della società civile, del mondo missionario, del pacifismo militante e del volontariato. Si tratta di uno sforzo cominciato già negli anni ottanta con la campagna contro i mercanti di morte e continuato nella campagna di pressione alle banche armate proposta dalle riviste Missione Oggi, Nigrizia e Mosaico di Pace.
Per quanto è possibile, in questa aula voglio dare visibilità alle proteste che provengono da questo mondo, dai soggetti che in questi giorni stanno organizzando la cosiddetta «ultima chiamata» in difesa della legge n. 185 e che mercoledì prossimo presidieranno Montecitorio. Questo grande e generoso sforzo, teso a costruire nel nostro paese una cultura di pace, rischia di essere vanificato dal disegno di legge in discussione.
La legge n. 185 del 1990 è una legge avanzata, ispirata a principi di controllo e trasparenza della produzione bellica, che offre la possibilità di un lavoro di monitoraggio e regolamentazione dell'esportazione di armi nonché di controllo sulle dinamiche complessive dell'industria bellica e sul mondo bancario collegato alla produzione di armi. È, quindi, intrinsecamente incompatibile col trattato di Farnborough, anche se va detto con chiarezza che troppi vuoti si sono creati nel controllo che la legge n. 185 assicurava e, nel corso degli anni, la stessa ha subito troppi aggiustamenti negativi o vere e proprie violazioni (basti pensare alla libertà di mercato delle cosiddette armi leggere).
Tuttavia, oggi siamo di fronte ad un vero e proprio stravolgimento, in particolare per quanto riguarda i vincoli che la legge n. 185 impone sul commercio delle


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armi verso i paesi in guerra o in cui siano perpetrate violazioni dei diritti umani. La giustificazione che viene data - testé fornita anche dall'onorevole Minniti - è che dobbiamo conformarci ai requisiti della nuova Europa.
In realtà, siamo di fronte ad un'abdicazione di sovranità nazionale su un terreno sul quale, al contrario, dovrebbe essere ancora esercitato il massimo controllo e che dovrebbe vedere il nostro paese, impegnato nella costruzione dell'Europa, a far sì che, prima di ogni accordo europeo in materia di difesa e di militare, l'Italia facesse valere i punti alti e qualificanti della propria legislazione di pace, della propria Costituzione, cultura e politica.
Vorrei ricordare in questa sede i tre punti più qualificanti della legge n. 185. Mi riferisco al principio secondo cui le esportazioni sono subordinate alla politica estera dell'Italia, alla Costituzione e ad alcuni principi del diritto internazionale da cui discendono i divieti contenuti nell'articolo 1 della legge. Innanzitutto, vi è il sistema di controllo che prevede chiare procedure di rilascio delle autorizzazioni e meccanismi di controllo successivi segnando, quindi, una chiara e netta distinzione tra il mercato lecito e quello illecito. In seconda istanza, vi è il divieto di cedere armi quando manchino adeguate garanzie sulla destinazione finale con la richiesta conseguente che alla domanda di autorizzazione sia allegato un certificato di uso finale attestante che il materiale non verrà riesportato verso paesi terzi senza preventiva autorizzazione dell'Italia. Infine, vi sono le istanze di trasparenza ed i meccanismi che obbligano ad informare il Parlamento e l'opinione pubblica sulle esportazioni ed importazioni di armi italiane tramite la presentazione di una relazione annuale del Governo al Parlamento.
È evidente che tutto ciò costituisce un ingombrante apparato di vincoli che limita la libertà di azione delle lobby dei produttori di armi ed è del tutto naturale che da queste lobby venga la richiesta di alleggerire, possibilmente di cancellarli del tutto, i lacci e lacciuoli che limitano la libertà di produzione e commercio delle armi. Vorrei qui sottolineare, per quel che vale, che in questo caso non si tratta di una qualsiasi libertà di mercato, in quella logica della libertà del mercato così cara ai sostenitori del neoliberismo che abbondano in Parlamento. In questo caso si tratta di una libertà di mercato tutta speciale che produce libertà di fare la guerra perché le due cose, come sempre, stanno insieme: produrre le armi e tentare la guerra, favorire la guerra, alimentare la guerra.
In questa settimana stiamo discutendo di due provvedimenti che riguardano armi e guerra. L'accostamento negli stessi giorni è del tutto casuale, ma si tratta di una casualità molto significativa che ci offre - se ci pensiamo bene - l'occasione di considerare gli stretti legami che esistono tra fare armi e fare guerra. La politica, che dovrebbe controllare questa connessione infernale, tende ad abdicare di fronte a poteri che diventano più forti di quelli della politica. Dobbiamo considerare, infatti, con attenzione quanto la materialità degli strumenti di guerra operi anche politicamente nel determinare le scelte belliche (mi riferisco ai produttori di armi ed ai loro amici politici, tanto per intenderci). Relazioni e responsabilità si creano tra soggetti apparentemente lontani e, invece, vicinissimi nell'interazione così negativa tra interessi economici e scelte belliche.
D'altra parte, il processo produttivo dei sistemi d'arma è divenuto talmente lungo, complesso e costoso da richiedere una lunghissima e ramificata filiera produttiva ed una capacità di invasione di parti crescenti della sfera civile da parte del settore militare attraverso quelle tecnologie che chiamiamo dual use ad uso sia civile sia militare. Non si tratta - vorrei sottolineare - solo di facilità di conversione di un ciclo produttivo nell'altro, ma di oggetti utilizzabili in un settore e nell'altro, così che sempre meno si può conoscere la finalità della produzione industriale.


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Chi ci dirà se un satellite sarà utilizzato per controllare i fenomeni atmosferici oppure per fornire informazioni alla catena di comando, di controllo e di spionaggio della nuova NATO e, quindi, attivare, se necessario, meccanismi di guerra celeste contro qualche altro paese? D'altra parte, le dinamiche del mercato mondiale di armamenti - lo ricordava prima, sia pure in maniera diversa, l'onorevole Minniti - hanno reso sempre più dura la competizione in questo settore, spingendo alla creazione di potenti consorzi multinazionali che agiscono come gruppi di pressione per ottenere condizioni favorevoli e commesse importanti da propri e altrui governi.
Il Trattato di Farnborough e il disegno di legge in esame vanno completamente in questa direzione e sono ispirati da queste preoccupazioni. Le modifiche alla legge n. 185 del 1990 sono la conseguenza di una politica degli Stati che accetta il primato del militare come un bene in sé, come se si trattasse di una qualsiasi branca del mercato che, accogliendo le istanze dei produttori di armi, apre dinamiche negative di autonomizzazione della produzione delle armi. Non a caso, il disegno di legge n. 1927 al nostro esame introduce, appunto, quel nuovo tipo di autorizzazione all'esportazione di cui parlavo prima, cioè l'autorizzazione globale di progetto che si applica a tutti i programmi intergovernativi e interindustriali di produzione, ricerca o sviluppo di materiale di armamento con imprese dei paesi dell'Unione europea e della NATO.
Di conseguenza, se venisse approvato il disegno di legge in esame, scomparirebbero i riferimenti al numero di pezzi, al valore, al destinatario finale, alle intermediazioni bancarie, cioè tutto quel complesso meccanismo di controllo sulla produzione militare. Il ruolo delle banche armate è, d'altra parte, decisivo nell'estensione dei meccanismi di guerra nelle aree più disperate del pianeta: anche il controllo su questo ruolo sarà fortemente depotenziato.
L'accordo prevede che i sei paesi firmatari redigano una lista bianca di destinazioni accettabili verso le quali le armi potranno essere esportate ma tali liste, che costituiscono evidentemente un contentino per le anime belle dei Parlamenti chiamati a ratificare l'accordo, non verranno rese pubbliche per motivi di riservatezza commerciale: si tratta di un imbroglio incredibile, una richiesta di voto completamente alla cieca per quanti e quante pensano che sulle armi si debba esercitare uno straccio di controllo. L'accordo si aggiunge e, in qualche modo, si sovrappone ad altri accordi - lo ricordava ancora l'onorevole Minniti -, come, ad esempio, quello del 1998 che ha portato alla creazione dell'OCCAR, organismo con personalità giuridica propria che prefigura una futura agenzia europea degli armamenti, anche in questo caso, anticipatori di quella logica di progressiva autonomizzazione della produzione bellica e della crescente liberalizzazione del commercio delle armi.
Quindi, se il disegno di legge al nostro esame, con il trattato che esso ratifica, sarà approvato, costituirà un passaggio molto negativo nella definizione del contesto economico, normativo, politico, culturale e simbolico che presiede alle nuove strategie di difesa europea. Strategie che - non mi stancherò di ripeterlo in quest'aula - costituiscono una gravissima cesura rispetto al dettato della Costituzione italiana e contribuiscono a fertilizzare il terreno su cui si impianta e cresce quella nuova cultura di guerra che rende legittima l'operazione Enduring Freedom, che tende a militarizzare oltre misura i dispositivi mentali, prima ancora della cultura, di donne e di uomini, l'adattamento ad accogliere come normale e come variante possibile della politica la guerra, per di più nella nuova dimensione di guerra infinita ed indefinita secondo il modello - che, ormai, si è affermato - Enduring freedom.
Questi sono i motivi che spingono il gruppo di Rifondazione comunista ad esprimere un voto contrario al disegno di legge n. 1927 in esame.

PRESIDENTE. È iscritta a parlare l'onorevole Pisa. Ne ha facoltà.


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SILVANA PISA. Vorrei svolgere una breve premessa. Gli ultimi anni hanno drammaticamente dimostrato come l'uso della forza, attraverso operazioni di natura bellica, sia tornato ad essere uno degli strumenti più utilizzati per la risoluzione delle crisi e delle controversie internazionali. Dalla fine dei due blocchi contiamo 112 conflitti, che non rappresentano poca cosa.
Il primo risultato tangibile di tali scelte è l'incremento della produzione del commercio di armi su scala internazionale.
Se vogliamo veramente contrastare i fenomeni terroristici ed operare una scelta in favore della pace, non possiamo permettere - e qui giungiamo alla materia oggi in discussione - lo smantellamento di quelle norme che, in questi anni, hanno favorito un minore transito di armi verso i paesi e i soggetti considerati pericolosi.
Oggi si proclama una guerra totale contro il terrorismo senza vedere la contraddizione con la proliferazione delle armi. Il caso macroscopico è quello di Bin Laden che, a suo tempo, fu armato proprio dall'occidente.
La lotta contro il terrorismo si fa principalmente attraverso la prevenzione delle cause (diminuzione delle diseguaglianze e redistribuzione delle ricchezze), bonificando quei giacimenti d'odio che costituiscono il brodo di cultura del terrorismo, nel quale si trovano persone disposte a morire pur di uccidere, come è stato a suo tempo autorevolmente sostenuto in quest'aula. Tuttavia, il terrorismo si combatte anche attraverso un sistema rigido di controllo sulla produzione e sul commercio di ciò di cui il terrorismo si nutre, vale a dire proprio le armi.
È proprio in questo contesto - con l'aumento della conflittualità mondiale e con il commercio di armi fuori controllo - che, nel 1990, fu approvata la legge n. 185, al fine di subordinare l'esportazione di armi alla politica estera italiana, alla nostra Costituzione, ad alcuni principi internazionali, anticipando in parte criteri contenuti nel codice di condotta europeo, attraverso la previsione di trasparenza nei passaggi e di controlli rigorosi.
Questa buona legge, che si riferisce ad armi a prevalente uso militare, è stata già in parte svuotata - come si ricordava in precedenza - quando, con leggi, regolamenti e direttive comunitarie, fin dal 1993, ne è stata ristretta l'applicazione alle armi ad esclusivo uso militare, permettendo che le armi civili e gli esplosivi esportati per uso industriale, tra virgolette, non fossero sottoposti ai controlli governativi sui loro trasferimenti.
Così non si è monitorizzato l'utilizzo di queste armi leggere, con il risultato di non avere alcuna garanzia che i destinatari non le usassero per scopi non civili o non le esportassero, a loro volta, in paesi coinvolti dai conflitti. Il fenomeno dei bambini africani armati si riferisce esattamente a questa distribuzione a pioggia di armi leggere.
Con il disegno di legge n. 1927 si procede ad un ulteriore stravolgimento della legge n. 185. Il relatore, nel suo intervento, ha dichiarato in quest'aula la sua disponibilità ad ascoltare le eventuali osservazioni per arrivare all'approvazione di un testo condiviso e ha parlato di un intervento sulla legge n. 185 che non riguarda i criteri informatori della stessa, ma esclusivamente i percorsi burocratici e di trasparenza, che devono essere comunque modificati in sede di realizzazione di programmi globali.
Sinceramente, ritengo che tale ragionamento offenda l'intelligenza e il senso comune di migliaia di cittadini che si sono espressi in senso negativo sul disegno di legge. Infatti, come si può parlare di salvaguardia dei criteri informatori della legge quando si interviene modificando sostanzialmente 9, 10 articoli del testo approvato nel 1990?
Non vi sono dubbi che, se il disegno di legge n. 1927 fosse approvato nell'attuale formulazione, sarebbe stravolto l'impianto della legge n. 185 a totale beneficio dei commercianti di armi senza scrupolo e senza coscienza.
Vorrei formulare alcune osservazioni. Teoricamente, il disegno di legge in esame trova la sua ragione nel recepimento dell'accordo quadro di Farnborough che, con


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la licenza globale di progetto, introduce procedure di controllo e di vigilanza semplificate. In realtà, le modifiche, rispetto alla legge n. 185, vanno ben oltre ciò che è richiesto dall'accordo.
Mi riferisco all'applicazione dell'autorizzazione globale di progetto non soltanto agli Stati che partecipano all'accordo e che si sono impegnati a decidere insieme sull'esportazione ai terzi, ma anche ai restanti paesi europei e della NATO che non hanno aderito a tale accordo. Molte legislazioni europee e dei paesi NATO hanno normative permissive e controlli blandi, il che significa rilasciare una licenza globale di progetto come una delega in bianco al paese con cui si coproduce, rispetto alla scelta delle destinazioni finali, senza che il nostro Governo ed il nostro Parlamento siano informati sulla destinazione finale di armamenti coprodotti con pezzi e con componenti di produzione italiana, assemblati all'estero. E non si tratta soltanto di questo. La licenza non si applica esclusivamente sulla coproduzione intergovernativa, come previsto nell'accordo quadro, ma anche a semplici accordi tra industrie private: per godere di procedure semplificate, basta che un'industria italiana stringa un accordo con società europee o con paesi della NATO e si riducono i controlli.
La cooperazione, quando è tra Stati che condividono le linee di politica estera - si tratta di una premessa - e quelle sulla produzione del commercio delle armi, deve comunque essere monitorata e controllata per non favorire commerci illeciti e forniture di armi verso Stati impegnati in conflitti di natura bellica. Per evitare rischi di questo tipo, occorre emendare il testo al nostro esame, inserendo nella procedura semplificata della licenza globale di progetto alcuni obblighi di controllo che sono già stati esposti in parte ma che vorrei ripetere velocemente: conoscere sin dalla fase autorizzatoria il destinatario intermedio e finale della coproduzione transnazionale di materiale di armamento; sapere numero, valore e spesa per intermediazione e per destinazione precisa di ciascun pezzo e di ciascuna componente esportati; conoscere le banche di appoggio all'esportazione dei singoli pezzi e delle singole componenti delle coproduzioni, con relative informazioni di riferimento; garantire adeguati controlli sia sull'uso finale sia sulle movimentazione di pezzi e di componenti; disporre di certificati di uso finale, di arrivo e di destinazione, nonché di controllo doganale. Vorrei aggiungere ancora l'applicazione dei divieti previsti dall'articolo 16 della legge n. 185 del 1990 sia al destinatario intermedio sia a quello finale; il mantenimento del potere di indirizzo e di controllo parlamentare; il resoconto di tutti i dati relativi alla coproduzione nei vari allegati della relazione annuale predisposta dal Presidente del Consiglio dei ministri.
Questo tipo di controlli non contrasta con l'accordo europeo, già sottoposto a ratifica; semmai, è vero il contrario. Quindi, non si comprende per quale motivo, dopo aver ottenuto dai partner europei un codice di condotta che in qualche modo accoglie il rispetto di alcune norme, peraltro già consolidate da noi, si sia ritenuto doveroso, invece, stravolgerle, prevedendo la modifica integrale della normativa vigente.
Noi siamo favorevoli ad una politica estera autonoma dell'Europa, decisa democraticamente ed unitariamente, orientata alla pace e allo sviluppo internazionale secondo i principi del diritto internazionale, volti alla prevenzione dei conflitti, alla tutela dei diritti umani e allo sviluppo della cooperazione. Una politica estera di questo tipo deve prevedere norme, controlli e trasparenza in tutte le iniziative intraprese, in particolare in un settore a rischio come quello della difesa. Si tratta di una condizione irrinunciabile non soltanto per l'attività di ricerca e di sviluppo di nuovi sistemi d'armi ad uso delle forze armate nazionali dei paesi firmatari e per le conseguenti attività di produzione, ma soprattutto per l'esportazione di armi e componenti d'arma frutto di produzione o coproduzione europea. Recepire l'accordo europeo può essere positivo se riusciremo a condividere con i


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paesi firmatari - attraverso accordi, regolamenti e direttive in tal senso - gli stessi strumenti di controllo che la legge n. 185 del 1990 impone al nostro paese e non se useremo l'accordo europeo come un grimaldello per scardinare una buona legge democratica.
In conclusione, come già detto, la legge n. 185 del 1990 è stata ed è una buona legge che permette il controllo democratico di una serie di passaggi per porre sotto tutela il commercio di armi; è stata, soprattutto, una legge fortemente voluta da moltissime associazioni del mondo cattolico, sindacale e cooperativo, le stesse che in questi giorni hanno fatto sentire la loro protesta e che con tenacia hanno perseguito l'obiettivo di una sorta di riduzione del danno nel campo della produzione e del commercio di armi.

PRESIDENTE. Onorevole Pisa, la invito a concludere.

SILVANA PISA. Ho finito, signor Presidente.
È uno dei rari casi in cui i gruppi, associazioni e società civile hanno messo in moto non una lobby che persegue interessi di parte ma un processo di diffusa partecipazione dal basso finalizzato al conseguimento del bene comune. Oggi, questi interlocutori manifestano per il nostro dibattito lo stesso interesse che - credo - non dobbiamo deludere (Applausi dei deputati del gruppo dei Democratici di sinistra-l'Ulivo).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Ruzzante. Ne ha facoltà.

PIERO RUZZANTE. Signor Presidente, il disegno di legge in discussione si propone di recepire l'accordo di Farnborough e nel contempo, però, si propone di modificare alcuni punti importanti e essenziali della legge n. 185 del 1990. Abbiamo già chiarito negli interventi precedenti - in particolar modo in quello dell'onorevole Minniti - che il nostro gruppo è favorevole ad una politica estera autonoma dell'Europa e, in questo senso, basterà ricordare un dato. Nel bilancio della difesa, tutti i paesi dell'Europa spendono circa il 50, 55 per cento di quello che spendono gli Stati Uniti d'America; tuttavia, in realtà, il nostro continente non ha le stesse capacità operative e soprattutto la stessa autonomia di cui dispongono gli Stati Uniti. Quindi, il nostro gruppo guarda con interesse anche alla costruzione di un'Europa che sappia ovviamente lavorare in una direzione democratica e unitaria, orientata alla pace e alla cooperazione internazionale secondo i principi del diritto internazionale volti alla prevenzione dei conflitti, alla tutela dei diritti umani, allo sviluppo e alla cooperazione, come già in qualche caso abbiamo saputo dimostrare: penso alla missione Alba in Albania, con la quale abbiamo evitato una guerra civile in un paese a pochi chilometri di distanza dal nostro e lo abbiamo fatto, tra l'altro - lo voglio sottolineare -, senza la necessità di sparare un colpo. Credo che questi siano un modo e un modello con i quali l'Europa può preservare la pace all'interno del continente.
Una politica estera di questo tipo, ovviamente, prevede anche di tener conto di aspetti relativi al commercio delle armi, con controlli e trasparenze in tutte le politiche messe in atto in particolare in un settore così a rischio come quelli della difesa e del commercio d'armi. Tutto ciò non solo per le attività di ricerca e sviluppo di nuovi sistemi d'arma ad uso delle Forze armate nazionali dei paesi firmatari e per le conseguenti attività di produzione, ma soprattutto per l'esportazione di armi e componenti d'arma verso paesi terzi, che possono essere appunto il frutto di una produzione o una coproduzione europea. Quindi, recepire l'accordo europeo può per noi essere positivo solo se riusciremo a condividere con i paesi firmatari, attraverso accordi successivi in tal senso, le stesse garanzie e tutele che la legge n. 185 del 1990 impone al nostro paese, cosa che non avviene in molti altri paesi, anche sottoscrittori dell'accordo. In altre parole, pensiamo a questo accordo di Farnborough come all'avvio di una politica europea all'insegna della legge n. 185 del


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1990 e non invece come ad un tentativo di mettere in discussione quelle regole che il nostro paese democraticamente si è dato e che rappresentano una delle leggi d'avanguardia sul commercio d'armi. Non dimentichiamoci gli scandali che hanno coinvolto decine e decine di paesi nel corso di questi anni su questa materia del commercio delle armi: in tutti i paesi dove si sono svolti conflitti nell'arco degli ultimi 10 anni sono stati ritrovati armamenti prodotti da moltissimi paesi europei, compresa l'Italia. Ecco perché non si può mettere in discussione, attraverso l'accordo di Farnborough, la legge n. 185 del 1990, che noi riteniamo ancora oggi essere un punto di riferimento.
Ha ricordato prima l'onorevole Minniti quali sono gli aspetti che consideriamo positivi dell'accordo europeo di Farnborough. Per esempio, riteniamo un passo in avanti l'adozione di un codice di condotta europea per l'esportazione di armi (che viene esplicitato in otto criteri). Sarà un passo in avanti se effettivamente poi questi otto criteri indicati dal codice di condotta verranno rispettati, innanzitutto nel quadro degli impegni internazionali degli Stati membri relativamente alle sanzioni decretate dal Consiglio di sicurezza dell'ONU e a quelle decretate dalla Comunità, degli accordi concernenti la non proliferazione, nonché degli altri obblighi internazionali e del rispetto dei diritti dell'uomo nel paese di destinazione finale. Riteniamo che questi siano non passaggi burocratici, ma elementi fondamentali che stanno alla base dell'accordo di Farnborough: il rispetto del diritto internazionale relativamente alle materie come il terrorismo e all'esigenza che questi paesi diano garanzie di democraticità al proprio interno.
Questo è il livello dell'accordo che non può essere rimesso in discussione quando dai principi si passa alle procedure applicative. Siamo di fronte ad una materia nei confronti della quale vi è un'ampia e diffusa sensibilità da parte di tanti soggetti sociali che chiedono ed hanno diritto al massimo di chiarezza e trasparenza. È proprio per questo che ci rivolgiamo ai colleghi della maggioranza affinché prestino attenzione alla ratifica di questo accordo che deve essere attuata in maniera non burocratica. In particolar modo crediamo debbano essere recepite dal Parlamento le voci di quelle associazioni alla testa del movimento che ha portato nel 1990 all'approvazione della legge n. 185. Crediamo che, nel frattempo, il nostro paese abbia fatto dei passi in avanti: in particolare mi riferisco all'approvazione della legge, nel corso della XIII legislatura, che ha consentito di annullare la produzione e l'esportazione nel nostro paese delle mine antipersona. Tali mine sono da considerarsi - se mi è permessa l'espressione - l'arma più sciocca che esista al mondo poiché nessuno è in grado di controllarle una volta terminato il conflitto; inoltre, sono la causa di danni a persone che con il conflitto non hanno nulla a che spartire; attraverso il loro uso si rischia di rimandare la ripresa delle attività civili all'interno del paese interessato.
Deve essere evitato il pericolo che la licenza globale di progetto, prevista dal disegno di legge n. 1927, tendendo a semplificare le procedure di interscambio tra i paesi partecipanti ai progetti, faccia prevalere posizioni meno restrittive in termini di esportazione di armi.
La linea, la posizione che abbiamo voluto esprimere è quella di una distinzione netta tra l'accordo europeo e le modifiche previste dal disegno di legge n. 1927 nei confronti della legge 9 luglio 1990, n. 185. Guardiamo con particolare preoccupazione - i nostri emendamenti vanno tutti in questa direzione - alla necessità che venga garantita trasparenza riguardo a ciò che avverrà tra imprese, tra Stati rispetto all'esportazione. Ecco perché moltissimi nostri emendamenti tendono a non cancellare dalla normativa relativa alla legge 9 luglio 1990, n. 185, tutti quegli aspetti che obbligano i produttori di sistemi d'arma a dare informazioni alla Presidenza del Consiglio, quindi al Parlamento.
Credo che tutti i colleghi parlamentari debbano guardare con attenzione agli emendamenti quando, attraverso di essi,


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chiediamo che il Parlamento continui ad esercitare il suo potere di indirizzo e di controllo relativamente al commercio d'armi. Crediamo che ogni qual volta si tolga al Parlamento la possibilità di esercitare un controllo si perda un pezzo della funzione svolta da questa Assemblea. Tutti i parlamentari, indipendentemente dall'essere di maggioranza o di opposizione debbono guardare con attenzione a questi aspetti. La relazione annuale del Presidente del Consiglio deve contenere, riportare tutti i dati relativi alle coproduzioni. Attraverso un ordine del giorno chiederemo che in occasione della relazione annuale al Parlamento, redatta ai sensi dell'articolo 5 della legge 9 luglio 1990, n. 185, venga promosso un incontro annuale con le associazioni non governative impegnate in questo campo, affinché la relazione annuale non rappresenti solamente un atto burocratico di trasmissione al Parlamento; ciò è quello che ci proponiamo di fare attraverso gli emendamenti che abbiamo presentato.
Infine, credo sia importante ricordare in quest'aula - in chiusura della discussione sulle linee generali del disegno di legge n. 1927 - le parole utilizzate dal cardinale Ruini a Roma durante il Consiglio episcopale permanente dell'11 marzo. Il cardinale Ruini ha ricordato che, in questa prospettiva, è importante fare attenzione a che la ratifica da parte del Parlamento italiano dell'accordo quadro per la ristrutturazione dell'industria europea per la difesa non comporti l'attenuarsi dei controlli sul commercio delle armi.
Credo che ciascuno di noi, ciascun singolo parlamentare, ciascun gruppo parlamentare debba interrogarsi sulle parole del cardinale Ruini. Il gruppo del DS - e concludo, signor Presidente - si attende che il dibattito parlamentare e soprattutto l'approvazione di alcuni emendamenti presentati dai gruppi di opposizione, predisposti insieme alle associazioni componenti il cartello «io difendo la 185», chiarisca il contenuto del disegno di legge.
Pur non facendo venir meno il nostro appoggio agli articoli 1 e 2, quelli relativi all'accordo siglato dal Governo dell'Ulivo, affermo che, qualora i parlamentari del centrodestra, la maggioranza dovessero mantenere una posizione contraria agli emendamenti da noi predisposti, come finora è avvenuto nel Comitato dei nove, saremo costretti a rivedere la nostra posizione circa il voto finale. Ciò che è in gioco con questo provvedimento non è un accordo internazionale, ma la garanzia della trasparenza sul commercio delle armi: è un tema troppo delicato per esprimere posizioni non chiare, non precise e non coerenti rispetto all'impostazione della legge n. 185 del 1990 che, per noi, rappresenta la legge di riferimento per quanto riguarda la materia del commercio delle armi (Applausi dei deputati del gruppo dei Democratici di Sinistra-L'Ulivo).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Molinari. Ne ha facoltà.

GIUSEPPE MOLINARI. Signor Presidente, il disegno di legge in esame assume una rilevanza fondamentale nella costruzione di ciò che deve diventare la realizzazione di una comune politica di difesa nell'ambito della UE. L'accordo quadro, oggetto del disegno di legge, concerne la ristrutturazione e le attività dell'industria europea per la difesa, nonché - è questo il punto controverso - modifiche alla legge 9 luglio 1990, n. 185, sul commercio delle armi.
Proprio per tale motivo il Parlamento è chiamato ad esaminare con la massima attenzione e la dovuta sensibilità un tema che suscita forte preoccupazione nella pubblica opinione, soprattutto in quelle fasce della società impegnate attivamente nella non proliferazione del commercio delle armi. L'accordo, siglato a Farnborough il 27 luglio 2000, fa seguito al codice di condotta europeo sul commercio delle armi e al trattato dell'OCCAR sulla collaborazione tra le industrie europee di difesa in programmi comuni, con l'obiettivo di dar vita ad un'unica agenzia dell'Unione europea in materia.
L'accordo, siglato tra i sei paesi più importanti dell'UE (Italia, Francia, Svezia, Regno Unito, Germania e Spagna) è volto,


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in prospettiva, ad essere allargato per coinvolgere l'intera Unione europea, al fine di dare all'Unione un'effettiva politica comune in quanto, con la politica estera, costituisce uno dei punti nevralgici per il futuro stesso dell'Unione.
Il vertice di Nizza rappresenta la cornice di questi percorsi, disegnando organismi preposti, costituendo una forza di intervento europeo e definendo un meccanismo volto a monitorare il rispetto degli impegni raggiunti, inclusi i requisiti di interoperabilità.
Tuttavia, se l'Europa deve sempre più caratterizzarsi per la sua unitarietà in tutti i settori, è vero che, anche con questo Governo, l'Italia sembra allontanarsi da tale prospettiva, facendo prevalere posizioni che non hanno nulla di contrattuale, ma rispondono solo al mero fumo negli occhi per protagonismo fine a se stesso. A questo proposito non possiamo non evidenziare le palesi contraddizioni presenti nel disegno di legge e nella sua relazione dove si parla di Europa e di definizione di programmi comuni per poi assistere quotidianamente ad un'azione che va in direzione contraria.
Appare, infatti, poco coerente con tali affermazioni il disimpegno dell'Italia dal progetto Airbus A400M con la celebre frase del Presidente del Consiglio: «io do a te soldi se tu dare cammello»; non si spiegano neanche le posizioni estemporanee di un ministro della difesa che pensa agli ascari nel nostro esercito e poi non si impegna per la costruzione dell'unità di reazione di forze rapide europee di 60 mila uomini, progetto che l'allora ministro Mattarella aveva condiviso e portato avanti nel novembre 2000.
Lo stesso ministro della difesa della Spagna, paese che in questo semestre detiene la Presidenza dell'Unione europea, ha sottolineato come, in mancanza di una comune industria di difesa, non possa esistere una comune politica di difesa dell'Europa.
Abbiamo anche visto in che modo il deficit dell'Unione europea condizioni la subalternità dell'Unione nei confronti degli USA, soprattutto per l'evoluzione della crisi internazionale dall'Afghanistan al Medio Oriente.
Il piano Marshall, ipotizzato dal Presidente del Consiglio dei ministri, per la Palestina non può realizzarsi se la voce dell'Unione europea è talmente debole nella ricerca della pace e nella sua stessa imposizione.
Nel merito del commercio degli armamenti, va innanzitutto sottolineato come il definire regole comuni nei paesi europei comporti come conseguenza un maggiore rigore. L'Italia, con la legge n. 185 del 1990, ha di certo una delle normative in materia tra le più rigorose in senso assoluto; ciò non impedisce che nell'ambito dell'Unione europea vi siano posizioni meno rigide. Può accadere ad esempio che nell'ambito della stessa Unione europea l'Italia interrompa correttamente la vendita verso un'area o un paese caratterizzato da violazioni dei diritti umani; ciò tuttavia non vuol dire che un altro paese lo sostituisca vendendo quelle armi che il nostro paese non ha esportato.
La nuova regolamentazione, in quanto uniforme e comune, dovrebbe pertanto impedire pressioni da parte delle imprese ed eliminare il rischio di scavalco tra imprese europee. Da mesi abbiamo avviato e continuiamo ad avere un lungo e proficuo confronto con il network di associazioni pacifiste e non violente (dalle Acli all'Arci, all'Azione cattolica, a Pax Christi, ad Amnesty International), per individuare interventi migliorativi che abbiamo tradotto in emendamenti.
Personalmente apprezzo e giudico positiva la riunione del Comitato ristretto che si terrà nella giornata di domani mattina, tesa a rivedere la stessa posizione del Governo e della maggioranza sui nostri emendamenti, che in un primo momento erano stati respinti dal Comitato stesso. Credo infatti che su questi problemi occorra cercare il più largo consenso possibile, perché si tratta della ratifica di un accordo internazionale e pertanto occorre discutere senza pregiudiziali.
La legge n. 185 del 1990 ha posto paletti ben precisi ed il suo scopo è stato


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quello di impedire all'industria bellica di alimentare conflitti e sostenere con armi Stati che negano il rispetto dei diritti umani fondamentali. L'approvazione di questa legge fu fortemente sostenuta da un larghissimo movimento di opinione, raccolto nel cartello contro i mercanti di morte, ed ha posto l'Italia fra i paesi più attivi nel contrasto al traffico d'armi, come ho già ricordato.
La politica di difesa non è sinonimo di politica di guerra e la stessa riorganizzazione dell'industria militare, con tutti i corollari legati anche all'innovazione tecnologica e agli assetti occupazionali di per sé rilevanti, deve avvenire nell'ambito di una più ampia condivisione di regole a livello comunitario per innalzare una rete di protezione contro speculatori e trafficanti di armi.
Nel merito, gli emendamenti presentati dall'opposizione sono finalizzati a riproporre in maniera vincolante i principi contenuti nella legge n. 185 del 1990 sulla previsione della licenza globale di progetto. Per evitare la possibilità di vendere ed esportare quantità indefinite di armamenti, l'Ulivo ha presentato emendamenti che prevedono che all'atto della domanda di licenza vengano fornite analitiche indicazioni di materiali ed acquirenti, oggi richieste dalla legge n. 185 del 1990.
Abbiamo inoltre richiesto l'obbligo della relazione al Parlamento sulle licenze globali di progetto, affinché vi sia trasparenza sulle destinazioni finali della produzione industriale in materia di armi e per rendere meno aleatorio e indefinito l'ambito di sorveglianza entro il quale il Parlamento deve esercitare il suo controllo.
Infine, un'ulteriore critica è rivolta all'assenza, nel disegno di legge di ratifica, della disposizione prevista dall'articolo 27 della legge n. 185 del 1990, ovvero quella che prevede l'obbligo di notifica da parte del Ministero del tesoro, delle transazioni bancarie in materia di esportazione ed importazione e di transito di materiali e di armamenti e la conseguente indispensabile autorizzazione da parte del Ministero stesso. Un apposito emendamento presentato dall'opposizione chiede di applicare queste disposizioni alle licenze globali di progetto, chiedendo che nell'ambito dell'Unione europea, si possano definire regole comuni con gli altri equivalenti ministeri, in particolare tra i sei paesi sottoscrittori dell'accordo.
Ci rendiamo conto che la legge n. 185 del 1990 è stata concepita ed impostata come una legge nazionale e che oggi, di fronte ad una evoluzione sovranazionale, essa mostri dei limiti di natura operativa; tuttavia, la ratio di fondo non può considerarsi inattuale, ove si considerino i focolai di guerra che vi sono in tutto il mondo, con tutto il tragico corollario di vittime che essi comportano.
Per queste ragioni il gruppo della Margherita, DL-l'Ulivo chiede che vengano salvaguardati i principi ispiratori e gli effetti di garanzia di quella legge, in modo da farli divenire patrimonio comune degli altri paesi dell'Unione europea e, in particolare, dei paesi che hanno sottoscritto l'accordo del 2000.
Crediamo, pur con tutti i limiti del nostro lavoro di opposizione, di aver cercato di dar voce in Parlamento alle tantissime posizioni critiche che si sono sollevate su questo disegno di legge e che rappresentano un mondo che non si rassegna all'ineluttabilità dei grandi interessi e che ritiene che una rigorosità in tema di commercio di armi possa contribuire a salvaguardare le vite umane e ad evitare il proliferare di conflitti sanguinosi.
Al Governo e alla maggioranza chiediamo, inoltre, ancora una volta, di ragionare e di accettare il confronto con noi e, soprattutto, di lavorare per una dimensione maggiormente europea. Gli accordi internazionali a livello europeo, come quello di Farnborough, rappresentano momenti importantissimi per la costruzione di una casa comune per la politica estera e di difesa e l'Italia deve andarvi con il proprio patrimonio culturale e legislativo. È per questo che insistiamo sulle nostre proposte di modifica che sono di merito e non strumentali e che devono essere oggetto di confronto perché, in caso contrario, pur esprimendo un giudizio positivo


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sugli articoli 1 e 2 dell'accordo, noi valuteremo la posizione di voto finale sul provvedimento per le parti concernenti le modifiche della legge n. 185 del 1990.

PRESIDENTE. È iscritta a parlare l'onorevole Pinotti. Ne ha facoltà.

ROBERTA PINOTTI. La ringrazio, signor Presidente. L'accordo del quale viene autorizzata la ratifica da questo disegno di legge si propone di facilitare la ristrutturazione dell'industria europea della difesa in un momento in cui essa deve affrontare alcune difficoltà, dovute in parte al calo della domanda per la fine della guerra fredda, ed in parte alla frammentazione delle industrie a fronte di una concorrenza statunitense che, invece, è molto forte ed agguerrita. Ma tale accordo viene riproposto con un disegno di legge che si pone anche un altro obiettivo: modificare la legge n. 185 del 1990. Si pensa che tali modifiche siano necessarie per rendere questa legge compatibile con l'accordo, ma, in realtà, se esaminiamo le modifiche proposte, vedremo che si tratta di modifiche tanto incisive ed importanti che rischiano di stravolgere completamente l'impianto di quella legge.
Come hanno detto molti miei colleghi che sono intervenuti prima di me, noi la giudichiamo una buona legge, sia perché permette un controllo democratico, mette sotto verifica ed impone trasparenza al commercio delle armi, sia perché è stata costruita con un rapporto stretto fra chi si occupa di politica, i parlamentari, e le associazioni che da anni si occupano dei temi della pace, dei diritti umani, e che anche oggi sono molto attente a ciò di cui stiamo discutendo e a quanto decideremo.
Come sappiamo, molte di queste associazioni perseguono obiettivi molto decisi, molto forti, nel campo del pacifismo - il disarmo globale, la riconversione totale dell'industria bellica - e prospettano un mondo dove non si spenda per le armi, ma per lo sviluppo. Tuttavia, in un'ottica di riduzione del danno, hanno adottato un criterio di realtà e, comprendendo quindi la necessità di mediazione, hanno collaborato alla formulazione di una legge che prevede la produzione, l'esportazione, il commercio delle armi, ma all'interno di criteri e di tutele che diventano fondamentali.
Vorrei ricordare i principi ispiratori di questa legge ai quali, colleghi, ritengo non debbano essere apportate modifiche. Il primo principio riguarda l'esportazione, l'importazione ed il transito di materiali e di armi che devono essere conformi alla politica estera e di difesa dell'Italia. Lo Stato deve regolamentare tali operazioni secondo i principi della Costituzione, che ripudia la guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali. Quindi, vanno vietate le esportazioni di armi verso paesi che sono in conflitto armato e in contrasto con l'articolo 51 della Carta ONU, verso i paesi dove vi siano violazioni di diritti umani, verso paesi che possono incrementare il terrorismo internazionale o verso quei paesi sottoposti ad embargo (c'è una modifica che condivido: non vi è soltanto l'embargo ONU, ma anche l'embargo deciso dall'Unione europea; certamente questa è una parte che non vi sono problemi a modificare).
Per il secondo principio della legge n. 185 vi devono esservi forti controlli dello Stato sulle esportazioni e sulle importazioni. Noi sappiamo che tali controlli hanno permesso in questi anni di ridurre il commercio illecito delle armi, quindi, si tratta di un principio che noi vogliamo saldamente mantenere anche nel nuovo impianto.
Il terzo principio riguarda le istanze di trasparenza, interne ed esterne, che vengono soddisfatte grazie alla relazione presentata al Parlamento che dà la possibilità alla società civile di essere informata su quanto avviene in questo settore.
Il modo giusto di procedere non è solo quello di distinguere l'accordo quadro dal disegno di legge al nostro esame, ma anche di rivedere il testo del provvedimento, in modo da approvare una legge che applichi l'accordo senza negare le garanzie e le tutele previste dalla legge n. 185.


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In particolare, dobbiamo prestare attenzione alla parte riguardante l'applicazione dell'autorizzazione globale di progetto. Si tratta di un concetto nuovo che si applica a tutti i programmi di coproduzione intergovernativa o interindustriale. Su questo, occorre lavorare affinché rimangano le tutele previste dalla legge n. 185. Tra l'altro, nella relazione introduttiva al provvedimento al nostro esame si dà atto dell'importanza dei principi contenuti in questa legge. Tuttavia, il testo del disegno di legge, di fatto, ne stravolge completamente l'impianto.

PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE PUBLIO FIORI (ore 18,30)

ROBERTA PINOTTI. In questo caso, rischiamo di cadere in una contraddizione. Noi, infatti, giudichiamo importante l'accordo, poiché recepisce e fa diventare vincolante, per i paesi sottoscrittori, il codice di condotta europeo, approvato il 2 giugno 1998. A tale proposito, vorrei ricordare che il codice di condotta prevede che i paesi prestino attenzione agli obblighi internazionali, al rispetto dei diritti dell'uomo, alla situazione del paese e alla destinazione finale delle armi, alla pace, alla sicurezza e alla lotta al terrorismo, ai rischi rispetto alle esportazioni e verifichino anche se l'ammontare delle spese militari del paese che le effettua sia compatibile con le sue spese complessive.
Questi criteri previsti nel codice di condotta europeo si ispirano, in gran parte, a quella legge n. 185 che abbiamo approvato nel 1990. Quindi, a mio giudizio, sarebbe una contraddizione piuttosto forte avere una legge che recepisce quest'accordo (noi consideriamo positivo il fatto che diventi vincolante il codice europeo) ma che, di fatto, rende più labili i controlli in Italia. Quale attenzione occorre prestare, in particolare? Occorre conoscere, fin dalla fase autorizzatoria, il destinatario intermedio e finale della coproduzione, il numero, il valore, le spese le destinazioni di ciascun pezzo e componente esportato; occorre garantire adeguati controlli sull'uso finale, sulle movimentazioni dei pezzi e mantenere il potere di indirizzo e di controllo parlamentare. A questo proposito, i dati sulle coproduzioni devono essere allegati alla relazione annuale del Presidente del Consiglio.
Dobbiamo fare attenzione che gli adeguamenti operativi alle procedure autorizzative non possano vanificare gli obiettivi condivisi. Ricordiamoci che il controllo è il cuore della legge n. 185. Noi vogliamo che tale controllo sia reale e non burocratico. Ma l'articolo 7 del provvedimento al nostro esame, che modifica l'articolo 13 della legge n. 185, laddove si dice che l'autorizzazione può assumere anche la forma di licenza globale di progetto, rilasciata a singolo operatore, quando riguarda esportazione importazione o transiti di materiali di armamento, da effettuare nel quadro di programmi congiunti, intergovernativi o industriali, per i paesi membri dell'UE o della NATO, mi pare che, da un lato, renda generici gli elementi del controllo e, dall'altro, allarghi, in modo consistente (se pensiamo che l'Italia esporta più del 50 per cento del sue produzioni in paese dell'UE e NATO), il controllo effettivo che si può esercitare.
Un'altra proposta da noi presentata riguarda l'attenzione affinché non vengano usate le armi prodotte nei paesi dove vengono violati i diritti umani. Perché introdurre il concetto di «gravi»? Come valutarlo? Credo che sia importante mantenere la formulazione fornita dalla legge n. 185.
Per questo motivo - ritengo comunque che molti elementi dell'accordo rappresentino un passo in avanti, in particolare questo codice europeo - per il fatto che, in realtà, attraverso un gioco molto contraddittorio, da un lato, si fa attenzione a questo elemento di apertura europea ma, nello stesso tempo, si regredisce rispetto alle attenzioni in Italia, le proposte emendative al provvedimento tendono a mantenere gli elementi positivi dell'accordo e a ripristinare le attenzioni, i controlli ed i meccanismi di partecipazione democratica


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presenti nella legge n. 185 (Applausi dei deputati del gruppo dei Democratici di Sinistra-L'Ulivo).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Ciro Alfano. Ne ha facoltà.

CIRO ALFANO. Signor Presidente, signor sottosegretario, onorevoli colleghi, il disegno di legge al nostro esame è stato presentato dai ministri degli affari esteri e della difesa, di concerto con quelli dell'economia e delle finanze e delle attività produttive.
La sua approvazione ai sensi dell'articolo 80 della Costituzione, consentirà al Presidente della Repubblica di procedere alla ratifica e alla conseguente esecuzione dell'importante accordo quadro, relativo alle misure per facilitare la ristrutturazione e le attività dell'industria europea per la difesa, sottoscritto a Farnborough, il 27 luglio 2000, dai ministri della difesa dei quattro maggiori paesi membri dell'Unione europea: Italia, Francia, Germania e Regno Unito, ai quali si sono aggiunti Spagna e Svezia.
Nello stesso disegno di legge, inoltre, sono state inserite modifiche alla legge 9 luglio 1990, n. 185, recante norme sul controllo dell'esportazione, importazione e transito di materiali d'armamento (il cui regolamento di esecuzione è stato emanato con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri del 25 settembre 1999, n. 449), al fine di adeguarle e di renderle compatibili con il contesto normativo contenuto nel suddetto accordo quadro.
In sintesi, tale accordo, strutturato in nove parti e composto di 60 articoli, si propone come obiettivo la creazione di una comune piattaforma giuridico-normativa che consenta di favorire e di accelerare, mediante programmi basati su intese intergovernative - tra paesi NATO e dell'Unione europea - il processo di razionalizzazione e di concentrazione dell'industria nei comparti della difesa e della sicurezza, per rendere questi ultimi più efficienti, competitivi e tecnologicamente più avanzati.
Ciò consentirà di competere e di collaborare sempre più efficacemente, in ambito internazionale, per la tutela dei trattati e convenzioni in tema di difesa dei diritti fondamentali dei popoli e degli individui, per il mantenimento della pace e per il contrasto al terrorismo ed alle organizzazioni criminali operanti su scala mondiale in condizioni di minore squilibrio nei confronti degli Stati Uniti (la potenza leader), dove il processo di razionalizzazione e di forte concentrazione degli apparati produttivi del comparto è stato già attuato nel corso degli anni novanta.
Al tempo stesso, la ratifica dell'accordo quadro consentirà di concorrere a definire, a livello europeo, le linee strategiche di indirizzo ed operative che dovranno caratterizzare l'identità europea nei suddetti comparti, aventi forte rilevanza strategica, politica ed economica, con conseguenti ricadute anche sull'indotto.
Del resto, il Consiglio europeo tenutosi a Nizza nel dicembre del 2000 aveva creato le premesse per la sottoscrizione dell'Accordo approvando la relazione sulla politica europea di sicurezza e difesa presentata dalla Presidenza, nella quale si ribadiva l'intenzione dell'Unione europea di far valere il suo peso geopolitico, accanto a quello economico, sullo scenario mondiale e di giocare pienamente il suo ruolo di partenariato nei confronti degli Stati Uniti e degli altri maggiori organismi internazionali.
Tale relazione, inoltre, introduceva le disposizioni necessarie per rendere efficaci e permanenti le strutture politiche e militari preposte alla gestione della politica di difesa europea e definiva le competenze, i meccanismi di funzionamento e gli organi del comitato politico e di sicurezza, del comitato militare e dello stato maggiore dell'Unione europea.
Un anno dopo, il Consiglio europeo di Laeken (14 e 15 dicembre 2001) adottava la dichiarazione contenente gli aspetti operativi di tale politica europea comune di sicurezza e di difesa, nella quale si affermava che l'Unione europea era ormai in grado di condurre operazioni di gestione delle crisi, come hanno dimostrato le conferenze


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sulle capacità militari e di polizia e le esperienze dirette maturate nel corso di questi anni.
Il quadro normativo di riferimento è costituito dalla legge 9 luglio 1990, n.185, recante norme sul controllo dell'esportazione, importazione e transito di materiali d'armamento e dal successivo regolamento di esecuzione di cui al decreto del Presidente del Consiglio dei ministri n. 448 del 25 settembre 1999.
Il provvedimento oggi all'esame, come sopra detto, è volto ad adeguare tale quadro normativo ai contenuti dell'accordo quadro di cui si autorizza la ratifica.
Si è pertanto reso necessario apportare alcune indispensabili modifiche alla citata legge n. 185 del 1990 in quanto l'esplicito richiamo al codice di condotta dell'Unione europea per le esportazioni di armi, contenuto nel preambolo dell'accordo quadro, ha reso necessario un adeguamento al nuovo scenario politico europeo della legislazione vigente dei controlli di importazione, esportazione e transito di materiali di armamento, proprio in base a quanto previsto nel citato accordo.
Si è proceduto, quindi, a modificare alcuni articoli della citata legge n. 185 del 1990 proprio per rendere operativo l'accordo quadro. È stata inserita una nuova tipologia di autorizzazione, la cosiddetta «licenza globale di progetto», che disciplina i programmi di coproduzione industriale tra i paesi dell'Unione europea o NATO.
I destinatari della normativa sono individuabili nelle imprese nazionali o di nazionalità degli altri Stati facenti parte dell'accordo e negli organi istituzionali deputati alla gestione delle procedure e dei controlli.
La ratifica dell'accordo quadro è di vitale importanza per far compiere al nostro paese un'ulteriore passo verso l'integrazione europea e, al tempo stesso, per far crescere il peso e la capacità di indirizzo politico dell'Unione europea nel contesto internazionale, nonché per abbattere quel divario di efficienza e di contenuti tecnologici nei confronti degli Stati Uniti.
Non è infatti più pensabile ritardare ulteriormente il processo di razionalizzazione e di concentrazione degli apparati produttivi del comparto della difesa e della sicurezza, stante l'attuale situazione di squilibrio di competitività ed efficienza dell'Europa nei confronti degli Stati Uniti ed in considerazione dei pericoli e delle minacce che incombono, come dimostrano gli attentati terroristici portati proprio nel cuore della superpotenza americana.
Occorre quindi procedere senza indugi a razionalizzare e concentrare gli apparati produttivi presenti nei sei paesi che hanno sottoscritto l'accordo, seguendo l'esempio americano che ha già implementato da tempo tale processo e può quindi beneficiare di notevoli vantaggi, sia di natura tecnologica sia di natura economica e politica nei confronti dell'Europa.
Naturalmente, accanto alla necessità di un recupero di efficienza tecnologica ed economica dell'intero comparto difesa e sicurezza, per evitare la marginalizzazione di un apparato produttivo strategico, vi è anche la necessità di svincolarci dalla sudditanza americana e fare acquisire all'Europa maggiore autonomia per recitare quel ruolo che le compete nel contesto internazionale.

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Grandi. Ne ha facoltà.

ALFIERO GRANDI. Signor Presidente, come hanno già ricordato anche altri colleghi nella discussione, questo accordo è molto importante perché coinvolge sei paesi europei su un argomento che non rappresenta la soluzione nell'ambito della ricerca di una forza unica europea d'intervento nelle situazioni di crisi - quando è necessario - , ma riguarda comunque un aspetto importante come la produzione di sistemi di arma e quindi l'esigenza di un coordinamento.
Del resto, proprio in questi giorni abbiamo avuto notizia che, da varie parti, sono state fatte pressioni su singoli paesi europei e sull'Unione europea perché venissero acquisiti nuovi sistemi di arma. Si tratta, evidentemente, di un grosso complesso


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di affari, in particolare per gli Stati Uniti d'America. Ovviamente, nessuno può rimanere ingannato dagli allettamenti relativi alle esigenze di ammodernamento; tutto ciò significa investire molte risorse in produzioni fatte altrove. In questo senso il coordinamento tra paesi europei al fine di offrire materiali adeguati ai compiti delle Forze armate in Europa è, evidentemente, importante.
Detto questo, però, nella discussione di questo disegno di legge occorre tenere presente due aspetti: la scelta contenuta nell'accordo e, allo stesso tempo, l'esigenza di mantenere un elemento importante di etica, di civiltà, diciamo pure di conquista, rappresentata nel nostro paese dalla legge n. 185 del 1990. Non è un caso che tanti settori della società, in questi giorni ed in queste settimane, si siano erti a difesa di una legge che hanno ritenuto messa in discussione dalla natura del provvedimento al nostro esame o comunque potenzialmente peggiorata. Non è un caso perché alla legge n. 185 del 1990 si è giunti dopo un iter molto lungo, dopo una procedura complessa che ha rappresentato un'evoluzione politica. Si è trattato di un'evoluzione che ha visto il concorso e la convergenza di soggettività politiche sociali e reali molto diverse, che hanno portato ad una legge che ha regolato in termini assolutamente di avanguardia, in Italia, la trasparenza sulla produzione e sul controllo del commercio dei materiali per armamenti. L'Italia, su questa materia, ha una legislazione che non può essere compromessa e non può essere subordinata a nessun altro tipo di interesse e provvedimento.
Se si vuole andare avanti con l'esigenza di avere un coordinamento a livello europeo, anche nella politica degli armamenti, occorre che i criteri ed i principi della legge n. 185 del 1990 vengano riversati nella nuova normativa che si vuole approvare. Ricordo, ad esempio, un punto molto importante: a norma della legge n. 185 del 1990 le esportazioni di materiali per armamenti sono subordinate alla politica estera del nostro paese. In questo senso, forse, l'Italia potrebbe avanzare un argomento che è oggetto di confronto perfino nel vertice che si sta per svolgere, proprio in queste ore, molto vicino a Roma; mi riferisco all'argomento del terrorismo. C'è stata un'epoca in cui gli Stati Uniti d'America erano molto lontani dalle direttive dell'OLAF relative al riciclaggio dei capitali. Oggi, dopo le vicende dell'11 settembre, sappiamo che gli Stati Uniti sono diventati, improvvisamente, un paese molto attento all'applicazione di quelle direttive e addirittura chiedono, diciamolo pure, con qualche irruenza, ad altri di applicarle. Ritengo che anche in materia di terrorismo varrebbe la pena di ricordare che l'Italia ha un'esperienza (che dovrebbe essere recuperata) che potrebbe essere oggetto di attenzione da parte di altri paesi. Può essere importante sapere a chi si vendono le armi, sapere a chi finiscono in mano per evitare che finiscano in mano, ad esempio, a soggetti che possono essere protagonisti di azioni terroristiche o comunque di azioni che rendano grave la tensione in certe aree del mondo (pensiamo a cosa sta avvenendo, in queste ore, tra Pakistan e India).
Dunque l'Italia dovrebbe avere maggiore consapevolezza, maggiore rispetto e maggiore capacità di difendere la propria esperienza ed originalità. La legge n. 185 del 1990 è una legge importante che ha subordinato la produzione ed il commercio delle armi ad obiettivi politici, sia quelli contenuti nella Costituzione sia quelli relativi, ad esempio, all'esigenza di non considerare la guerra come soluzione dei conflitti (pensiamo, appunto, a cosa potrebbe succedere nel Kashmir se vi fosse lo scontro armato tra due paesi del peso dell'India e del Pakistan), ed ha permesso di affrontare il problema della regolazione in ben altro modo. Di conseguenza è necessario applicare e mantenere i principi sanciti nella legge n. 185 del 1990.
Il controllo è una chiave fondamentale per intervenire: può consentire di distinguere il lecito dall'illecito, può offrire adeguate garanzie sulla destinazione finale, può consentire di coinvolgere le politiche dei governi ed il Parlamento attraverso le relazioni. Colgo l'occasione per ricordare


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che l'ultima relazione forse è stata un po' deludente quanto a precisione, rispetto ad altre relazioni rese al Parlamento.
Sarebbe auspicabile da parte del Governo, soprattutto in vista dei nuovi problemi che porrà l'introduzione di questa normativa, una maggiore precisione, in modo tale che lo stesso esecutivo ed il Parlamento possano essere responsabili e garanti nei confronti dell'opinione pubblica.
Con l'accordo è intervenuta l'esigenza della sua applicazione anche in Italia: da qui la licenza globale di progetto, come è stato ricordato, e l'esigenza di adeguare anche alcune normative. Ebbene, adeguare le normative non significa però rimettere in discussione i principi ed i punti fermi (che, a mio giudizio, devono rimanere tali) che costituiscono l'ossatura della legge n. 185 del 1990. È per questa ragione che il disegno di legge ora in discussione dovrà essere oggetto di modifiche, laddove entrasse in contrasto non con la legge n. 185 del 1990 in riferimento all'esigenza di ratificare l'accordo europeo, bensì con i principi della medesima legge, con le procedure, con i caratteri di trasparenza, con quella possibilità di controllo da parte dell'opinione pubblica che è stata messa in discussione.
Il nuovo non deve perciò nascondere la volontà, che del resto non è mai stata nascosta da alcuni settori che producono armamenti nel nostro paese, di allargare le maglie, di eliminare alcuni controlli, di liberarsi in sostanza di ciò che è stato ritenuto, a mio giudizio a torto, un elemento negativo per la produzione. Il controllo è un elemento positivo, perché la produzione di armamenti non è come tutte le altre: essa richiede, pertanto, un forte controllo politico su ciò che accade. Ecco la ragione per cui il destinatario finale, ad esempio, non può essere una variabile, bensì deve essere assolutamente certo, o ecco il motivo per il quale il carattere delle intermediazioni deve essere assolutamente sotto controllo ed i movimenti finanziari legati a tale realtà - che, tra l'altro, non dimentichiamolo, in molti casi costituiscono anche occasione per tangenti - debbono essere completamente trasparenti.
È inevitabile che, quando si parla di una licenza globale, questa sia fatta delle sue parti, come i pezzi, il valore e tutto ciò che attiene ai singoli armamenti che ne costituiscono parte. Se l'accordo deve essere recepito dal nostro paese, deve essere anche altrettanto chiaro che la produzione interessata sarà per forza di cose destinata a crescere in percentuale ed in peso e, di conseguenza, essa dovrà essere più che mai oggetto di controllo. Proprio le prospettive aperte da accordi di questo tipo pongono il problema di controlli che debbono consentire di avere certezze su ciò che accadrà.
Nel momento in cui si affronta il discorso dell'allargamento della NATO, non possiamo negare che anche nell'ambito degli stessi paesi che ne fanno parte il problema dei requisiti che riguardano i diritti dei cittadini è molto serio e, di conseguenza, è necessario che anche su questo vi siano controlli.
Vi è una distanza tra l'accordo ed il disegno di legge che lo recepisce: quest'ultimo, in diversi punti, come viene richiesto tramite le proposte emendative, necessita di una modifica per renderlo non soltanto non ridondante in riferimento all'accordo stesso, ma anche e soprattutto tale da non mettere in discussione i principi della legge n. 185 del 1990. Se vi fossero distanze tra quest'ultima norma e il disegno di legge che recepisce l'accordo - i nostri emendamenti tendono proprio ad eliminarli -, noi non potremmo accettarlo.
Ciò deve essere estremamente chiaro e, di conseguenza, mi auguro che il Comitato dei nove si dedichi ad esaminare gli emendamenti non solo per accogliere alcuni aspetti marginali; anzi, mi auguro che comprenda bene che ciò che viene chiesto tramite le proposte emendative è l'accoglimento di un principio di fondo: la legge n. 185 del 1990, nei suoi principi, deve essere trasposta all'interno del presente disegno di legge di ratifica (Applausi dei deputati del gruppo dei Democratici di Sinistra-L'Ulivo).


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PRESIDENTE. Non vi sono altri iscritti a parlare e pertanto dichiaro chiusa la discussione sulle linee generali.

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