Resoconto stenografico dell'Assemblea
Seduta n. 138 del 6/5/2002
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(Discussione sulle linee generali - A.C. 2144)

PRESIDENTE. Dichiaro aperta la discussione sulle linee generali.
Informo che il presidente del gruppo parlamentare dei Democratici di sinistra-l'Ulivo ne ha chiesto l'ampliamento senza limitazioni nelle iscrizioni a parlare, ai sensi dell'articolo 83, comma 2, del regolamento.
Ha facoltà di parlare il relatore per la maggioranza, onorevole Falsitta.

VITTORIO EMANUELE FALSITTA, Relatore per la maggioranza. Signor Presidente,


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leggerò una sintesi della relazione che ho depositato. La legge delega è formata da principi e criteri direttivi: insieme mostrano il pensiero e, insieme, il quadro giuridico in cui collocarlo.
In questo quadro l'uomo-contribuente ha una posizione rispetto al fisco ben diversa da quella di oggi: cambia l'estensione dello spazio in cui egli si muove; cambia il riconoscimento di ciò che fa, il suo valore fiscale; cambia la possibilità di incidere con la propria azione nella «società del bene».
Le coordinate che individuano la nuova posizione nel diritto tributario ed amministrativo mutano e mutano tanto che si è persuasi di evocare l'immagine della rivoluzione non intesa, però, nel senso più frequente di rivolgimento violento dell'ordine politico-sociale costituito, ma in senso fisico, astronomico. Il senso è quello del moto di un corpo attorno ad un asse ed usiamo questa immagine per dire che la posizione dell'uomo-contribuente rispetto al sistema tributario è effetto di una rivoluzione inversa: non più il fisco al centro e l'uomo ad esso asservito, ma l'uomo al centro ed il fisco ad esso asservito. Cambiano i termini del moto rivoluzionario.
La radice di questo pensiero è bifronte: sta per una parte nell'idea di politica (e di democrazia), per un'altra nell'idea dell'azione del fisco che preleva e spende. Sul punto piace ricordare l'opera di Jacques Maritain L'Uomo e lo Stato e il richiamo vale a riflettere sul fatto che la politica o è morale o non è politica. La politica è al servizio dell'uomo e deve realizzare il suo bene che è il bene di tutti: essa, così, diviene «umana ed umanizzante».
Da questa angolazione sembra giusto, dunque, tendere ad inserire in un alveo umanistico anche la relazione contribuente-fisco poiché quest'ultimo ha il compito di realizzare il bene comune: equità nel momento del prelievo; univocità di causa nella direzione del gettito prelevato.
È il fisco dell'uomo e non l'uomo del fisco. La rivoluzione inversa, insomma, pone regole nuove. Del resto anche il Maestro ci ha ammonito a non confondere i termini delle cose quando ha detto che «non è l'uomo fatto per il sabato ma il sabato fatto per l'uomo!».
Vengo alla struttura del provvedimento. Già prima facie, semplicemente scorrendo il testo dell'articolato se ne coglie il soggetto, il protagonista: questi è l'uomo. Tutto (ordine, semplicità delle regole, accesso alle regole, accesso al rapporto di imposta, prelievo tributario, competitività nel lavoro, sensibilità verso i costi sostenuti, partecipazione alla spesa, eccetera), tutto è disciplinato in sua funzione. Di contro, se ci si sofferma sulle disposizioni si avverte qualcosa che è ben più che un sospetto: la relazione uomo-contribuente-fisco, stabilita per l'attuazione del bene della persona in quanto tale e della società politica, balza evidente in ogni principio.
È tanto evidente che, nell'ambito della proposta del Governo, è facile distinguere tra quanto riguarda il bene della persona e quello della società politica. In via meramente esemplificativa e per punti si osserva che la realizzazione del bene della persona è stabilita: con la previsione del codice (articoli 1 e 2); con la previsione della semplificazione delle regole (articoli 2 e 3): la conoscibilità effettiva della regola incide direttamente sulla cifra di democrazia di una società e il destinatario della prescrizione, della descrizione o della espressione della norma, se conoscente, può osservarla, contestarla, migliorarla; con la previsione del divieto di doppia imposizione giuridica (articolo 2); con la previsione della riaffermazione delle regole dello statuto del contribuente (articolo 2); con la previsione della riduzione della pressione fiscale (articolo 3); con la previsione di un nuovo ed esteso impianto di deduzioni (articolo 3); con la previsione di una specifica sensibilità alla rilevanza di oneri a carico della famiglia (articolo 3); con la previsione della omogeneizzazione della tassazione del risparmio (articolo 3); con la previsione di un nuovo sistema di imposizione dell'attività di impresa (articoli 3, 4, 5, 6 e 7).
Di contro, nella società politica il bene si realizza: con la previsione di un sistema fiscale a livello europeo; con la previsione


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di un efficiente programma di dissuasione verso l'evasione fiscale; con la previsione di un modello di fiscalità etica che fissi i presupposti per la formazione di gettiti orientati a fini sociali. Vogliamo che l'uomo abbia i mezzi e le possibilità di decidere come aiutare l'altro uomo.
In particolare, per quanto riguarda la codificazione, pensato con ampia latitudine semantica, lo stato della legislazione tributaria nel giudizio dell'uomo-contribuente ricorda quel fenomeno curioso che negli studi della mente viene chiamato «illusione cognitiva»: il soggetto mantiene la particolare percezione di un dato sebbene abbia prova della sua erroneità (un po' come accade nelle illusioni ottiche, cioè un oggetto lontano è visto piccolo e acquisito come tale nonostante se ne conosca la reale dimensione).
Allo stesso modo dell'esempio evocato, il contribuente vede il fisco (e le leggi che lo regolano) da un tunnel percettivo in cui il collasso endemico tende a sfumare ma solo per effetto del luogo d'osservazione (l'interno del tunnel). Una delle ragioni del collasso è l'ipertrofia legislativa e il danno per questo modo di essere delle leggi fiscali è sull'uomo-contribuente, il quale non può conoscere quindi osservare. La conoscenza di una legge tramite pubblicazione diviene da presunta a finta, il passaggio è da presunzione di conoscenza a finzione di conoscenza: muore il diritto positivo. Ottima, dunque, la semplificazione delle regole e la razionalizzazione tramite codice.
In questo scenario l'intervento riformatore spezza l'illusione cognitiva fiscale: la previsione di un codice è tempestiva; l'impegno alla riduzione e alla semplificazione delle regole, dirompente; certezza e stabilità, effetti dell'intervento di riforma, sono valori invocati dalla persona e dalla società politica e daranno forza vitale al diritto tributario. L'effettiva conoscenza dei precetti (perché pochi, chiari e semplici) e quindi la possibilità di osservarli con sicurezza di aver compreso i contenuti, tenderà a rendere meno frequenti gli interventi degli organi amministrativi: all'interpretazione del contribuente sarà restituita indipendenza rispetto alle poliformi interpretazioni ministeriali.
Per quanto concerne la progressività dell'imposizione, nella nuova relazione con il fisco, nella rivoluzione inversa, si è detto che l'uomo contribuente è al centro. Gli articoli 3 e 4 pongono i principi mediante i quali il sistema tributario diventa strumento per sostenere, tutelare e garantire quella centralità nelle sue principali forme di espressione: la famiglia, il lavoro, l'impresa e l'impegno sociale. L'idea di democrazia di chi scrive sembra conosciuta e voluta dalle norme che stabiliscono l'impianto di base della legge delega: tendere a dare a ciascuno, deboli e forti, le medesime opportunità. I principi stabiliti nell'ipotesi di riforma muovono con armonia, nel senso di ripristinare uno stato di equità nella tassazione del reddito legata al criterio di progressività, ormai silenziosamente sepolto.
Affermiamo che l'ambizioso programma sul punto della tassazione del reddito sia capace di sostenere efficacemente le situazioni reddituali medio-basse perché è dotato degli strumenti necessari, che sono i seguenti: riduzione delle aliquote; riduzione drastica delle forme di prelievo sostitutivo; allargamento della base imponibile; concentrazione delle deduzioni nelle fasce reddituali medio basse; ampliamento del campionario degli oneri deducibili; previsione di una soglia di reddito esclusa dalla base imponibile; previsione di una clausola di salvaguardia.
Per effetto delle imposte sostitutive, dell'erraticità delle basi imponibili dei ricchi (chi può sfugge alla potestà tributaria del nostro paese per assoggettarsi a quella di luoghi più convenienti), per l'evasione fiscale, la curva IRPEF a cinque aliquote, che ben conosciamo, non è più rappresentativa di progressività: il sacrificio del prelievo tributario è sperequatamente distribuito tra ricchi e poveri; tra lavoratori dipendenti, autonomi e imprenditori.
Con questo sfondo a noi pare possibile tentare una razionalizzazione delle cose e affermare che i primi tre strumenti (riduzione delle aliquote, allargamento della


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base imponibile e riduzione drastica delle forme di prelievo sostitutivo) hanno lo scopo di ricostruire una vera e competitiva curva dell'imposta sul reddito e non un simulacro per corsi universitari (come è ormai divenuta l'attuale curva, che sembra mostrare, più che altro, un design metafisico).
Di converso, concentrazione delle deduzioni nelle fasce reddituali medio basse, ampliamento del campionario degli oneri deducibili e previsione di una soglia di reddito esclusa dalla base imponibile hanno lo scopo di ripristinare sulla nuova curva il principio di progressività e favorire specialmente i più deboli. L'ultimo strumento, la clausola di salvaguardia, è posto per garantire, al di là delle ambiguità alle quali si sottopone tradizionalmente il linguaggio del legislatore, il fine - e così - la buona volontà che sta alla base della riforma.
La concentrazione delle deduzioni nelle fasce medio basse è mezzo di ripristino della progressività e va considerato assieme con l'ampliamento del campionario degli oneri deducibili e con l'introduzione di una soglia di non imponibilità, anch'essi mezzi omogenei nel fine. Solo attraverso la loro interazione è plausibile cogliere il fondamento delle nostre affermazioni e la portata dell'azione del Governo. Chi ha redditi alti non avrà diritto a deduzioni; chi ha redditi medio bassi avrà, per numero e per ammontare, più oneri da dedurre dal proprio reddito.
Il senso politico è evidente: il fisco, ampliando la gamma di possibili deduzioni, insegue il contribuente nelle espressioni sociali, accollandosi costi prima non riconosciuti, per agevolarlo nella vita comune.
La base imponibile sulla quale calcolare la nuova aliquota legale non cambia solo per effetto delle deduzioni ricordate, ma per l'esclusione di una parte di reddito considerata intangibile in quanto afferente al cosiddetto «minimo vitale»; in modo anglofono, «no tax area». La parte esclusa dalla base imponibile avrà funzione decrescente all'aumentare del reddito; a questa si fonderà la base imponibile da diminuire con le deduzioni, alla stessa maniera e in funzione decrescente all'aumentare del reddito.
L'individuazione del criterio che dovrà stabilire la predetta funzione e le relazioni tra oneri deducibili è ben vero che è delegata, ma è stato posto un principio, nell'ambito dell'articolo 3, che salvaguarda il risultato: qualsiasi criterio sarà adottato, la ragione di questa operazione (di concentrazione delle deduzioni, appunto) non potrà mutare nello scopo, che dovrà restare quello di favorire i ceti medio bassi.
Quanto alla no tax area, valga una precisazione: la previsione di un impegno a stabilire ex lege l'ambito di intangibilità del reddito (minimo vitale) ha notevole significato politico: equivale ad ascrivere al dovere tributario il valore di dovere inderogabile di solidarietà, così da riconoscere che non possono essere imposti costi della solidarietà anche a chi di questa necessita; equivale ad incidere sul concetto di capacità contributiva; muove verso la soluzione del lungo dibattito della Corte costituzionale, chiamata ad intervenire sull'individuazione del minimo vitale.
Per quanto concerne la fiscalità etica, il dovere di solidarietà può essere definito come determinazione ferma e perseverante dell'impegno alla realizzazione del bene comune. Nella legge delega i principi attorno ai quali costruire un impianto che promuova democraticamente l'aspirazione a realizzare il bene comune ci sono. Questi, coordinati sistematicamente tra loro, possono dare l'avvio, addirittura, a pensare in chiave diversa alcuni istituti già presenti nel nostro ordinamento e così ad una nuova disciplina: il diritto tributario etico.
In particolare, il nuovo fisco si dispone verso l'esigenza solidaristica dell'uomo con tradizione e novità. Tra i metodi tradizionali vi sono le forme di deduzione dalla base imponibile, i regimi di favore in relazione alla determinazione del tributo. Metodo innovativo, viceversa, è la cosiddetta de-tax, ovvero un sistema di detassazione di una parte del prezzo di un bene di consumo al quale è impressa una specifica finalità umanitaria. I


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primi, tuttavia, a parte gli oneri deducibili riconosciuti per il settore del non-profit e i settori finitimi, sono tradizionali nella forma ma non nella sostanza: il disegno di legge delega, infatti, stabilisce un particolare regime di favore per il risparmio affidato ai fondi etici e nelle imposte sui consumi viene prestato particolare riguardo all'ambiente. Inoltre, auspichiamo che tra gli oggetti sostenuti o favoriti dal sistema fiscale possano anche entrare forme di commercio equo e solidale.
Da altra angolazione, la de-tax annuncia grande portata pratica: in primo luogo per l'estensione su cui ha campo, ovvero tutto il settore dei consumi; in secondo luogo, perché a differenza di altre ipotesi di tributo, ad esempio la Tobin tax, non implica la partecipazione necessaria di molti Stati per il suo funzionamento ma è rimessa alla sola volontà di consumatore e venditore.
La riforma sfiora il futuro: la fiscalità etica diverrà uno dei presupposti più importanti della finanza etica la quale, come noi crediamo, se ben governata è anch'essa presupposto per il cambiamento della società verso un mondo più solidale.
In conclusione, il disegno di legge di delega persuade fino in fondo: dare centralità all'uomo, così che il fisco torni ad essere un suo strumento. È veramente rivoluzione inversa; è l'essenza della riforma; è la nascita dell'umanesimo fiscale. Dall'ambiziosa architettura, prima ancora culturale che tecnica, discenderanno decreti giusti ed efficaci: giusti, perché i principi ai quali essi si ispireranno rifletteranno corrispondenza tra valori reali e valori ideali; efficaci, perché ritenuti giusti.

PRESIDENTE. Ha facoltà di parlare il relatore di minoranza, onorevole Benvenuto.

GIORGIO BENVENUTO, Relatore di minoranza. Signor Presidente, l'opposizione ha presentato questioni pregiudiziali di costituzionalità sul disegno di legge delega proposto dal Governo. Per ragioni di tempo, rimando al testo alternativo da noi predisposto e nel quale è compiutamente espressa la posizione delle forze dell'opposizione; mi limiterò, pertanto, ad alcune considerazioni di carattere essenziale.
Signor Presidente, come prima questione, vorrei sottolineare la forte asimmetria tra le intenzioni che il Governo si propone - forti e rivoluzionarie innovazioni - e l'estrema genericità con cui sono stati trattati gli aspetti cruciali per una manovra di tale rilevanza. Nonostante il dibattito in Commissione, non è esplicitato l'impatto sul gettito, non sono definite le modalità di copertura in maniera precisa, non sono, soprattutto, precisati i tempi di entrata in vigore, cosa diversa dai tempi di attuazione.
Noto che ci troviamo dinanzi ad una situazione paradossale in cui il Governo è affetto da massimalismo: si intendevano risolvere i problemi del paese nei cosiddetti provvedimenti dei cento giorni e il fallimento è dinanzi ai nostri occhi; adesso, dalla politica dei cento giorni si passa alla politica dei 1.825 giorni, perché i traguardi di realizzazione delle modifiche di carattere fiscale vengono spostati nel tempo, verso la fine della legislatura, comunque a partire dal 2003. Mentre si fa questa operazione di carattere temporale, si inciampa, nel presente, in un aumento della pressione fiscale: quest'anno, dopo che eravamo riusciti a diminuire la pressione fiscale e a darci un traguardo realistico di diminuzione continua e progressiva, ci troviamo di fronte ad un aumento della pressione fiscale.
Ci troviamo di fronte a questa situazione evanescente e contraddittoria, che il Governo non è riuscito a chiarire. Infatti, non si capisce se ci sia o meno la copertura, non si capisce il rapporto con la fiscalità decentrata (il timore è forte e si sta già verificando allo stato attuale, per cui se si diminuisce al centro si verifica un aumento della pressione fiscale a livello di regioni e di comuni) e, soprattutto, non vengono indicati i rischi per cui i vantaggi per pochi possono rappresentare un aumento di costi per molti.


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Mi limito a fare delle considerazioni più particolareggiate su alcuni aspetti che si riferiscono alla nuova imposta che sostituirà l'IRPEF, ossia l'IRE. Anche in questo caso ci troviamo di fronte a un forte vantaggio per i contribuenti con i redditi elevati in conseguenza dell'abbattimento delle più alte aliquote IRPEF. Il massimo vantaggio è per le quote comprese tra i 135 e i 200 milioni di lire, che passano dall'aliquota del 45 a quella del 43 per cento; oltre i 200 milioni di lire vi è un'aliquota non più progressiva ma proporzionale: dal 45 al 33 per cento. Il Governo e gli esponenti della maggioranza si affannano a parlare di vantaggi per i settori più deboli; ma questo affanno è contraddetto dal fatto che il modesto vantaggio per alcuni redditi scompare di fronte al grande vantaggio che viene occultato per i redditi più alti: per fare un esempio, un reddito di 350 milioni di lire si troverà a beneficiare di un vantaggio di 50 milioni.
Ancora, viene limitato l'effetto redistributivo, in quanto con la trasformazione delle detrazioni in deduzioni per chi è al di sotto dei 100 milioni di lire dovrebbe essere realizzata una forma di progressività. Questa è un'affermazione singolare perché le deduzioni, che vengono negate a chi si colloca sopra i 100 milioni di lire, rappresentano una perdita irrilevante per chi può contare su forti abbattimenti di aliquota, come si può verificare con un semplice calcolo matematico. Non si precisa quale è la situazione del livello di esenzione. Nella nostra proposta alternativa noi intendiamo correggere il testo e sfidare il Governo a fornire una indicazione più precisa. Oggi il livello di esenzione è di 6 milioni di lire per i lavoratori autonomi e di 12 milioni di lire per i lavoratori dipendenti. Quale sarà il nuovo livello di esenzione? Non è indifferente. Noi facciamo delle proposte precise a questo riguardo. Come verranno concentrate e come saranno distribuite le deduzioni tra i diversi valori tutelati? Inoltre, per quanto riguarda l'imposta negativa vi è un problema che noi abbiamo sollevato su un piano etico, di equità, di giustizia: una riduzione così imponente, come prevede il Governo, del prelievo sui redditi, non riguarda una platea consistente di contribuenti, lascia nella povertà 6 milioni di cittadini del nostro paese e annulla quelle indicazioni che noi riproponiamo, tendenti a prevedere un credito di imposta oppure altre soluzioni quali quelle che sono state sperimentate nella passata legislatura.
Insomma, ci troviamo di fronte a un effetto che potrei definire di «fisco-beffa», così come si è verificato con le previsioni del provvedimento dei 100 giorni (soppressione della tassa di successione) o come è stato dimostrato per quanto riguarda il tema dell'aumento delle detrazioni familiari, dove si è arrivati a dare di più a chi ha di più e non a chi ha di meno.
Ancora, c'è il problema, che noi poniamo, del riflesso delle modifiche realizzate sull'IRE sul finanziamento delle autonomie locali. Si tratta di un problema sollevato anche dalle stesse autorità locali, perché il passaggio dal sistema delle detrazioni a quello delle deduzioni e della quota esente pone problemi delicati, e non si capisce come ciò dovrà essere realizzato; in Commissione, è stato detto dal rappresentante del Governo che ciò si verificherà aumentando le addizionali a livello comunale e regionale. Ci troviamo, pertanto, di fronte ad una proposta che occulta i grandi vantaggi che vengono attribuiti ai settori medio-alti, che non dà una risposta ai settori più deboli della società e che non fornisce, inoltre, una risposta ai problemi della famiglia.
Vorrei fare alcune rapide osservazioni limitatamente all'altra questione delicata, quella relativa all'IRAP, di cui si propone una progressiva eliminazione. Anche in questo caso, ci troviamo di fronte al massimalismo del Governo, che propone grandi obiettivi ma nell'immediato, come già accaduto quest'anno, vi sono regioni che hanno aumentato l'addizionale dell'IRAP e ci troviamo di fronte a proposte che pongono seri problemi per quanto riguarda l'autonomia e il funzionamento degli enti locali.


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Ci troviamo, insomma, di fronte ad una situazione - e mi avvio alla conclusione - al limite del grottesco. Noi ricordiamo che nella passata legislatura erano stati fatti grandi cambiamenti: era stato risanato il paese, era stata ridotta la pressione fiscale ed era stata programmata una graduale riduzione della pressione fiscale per le imprese e per le famiglie. Tutto ciò è stato cancellato e rinviato a tempi migliori; tutto ciò è la testimonianza di una proposta di riforma fiscale che non affronta i problemi del paese, bensì li complica, li aggrava, non è a sostegno dello sviluppo e, via via incontra, da questo punto di vista, osservazioni critiche provenienti sia dal mondo delle imprese, sia dai sindacati.
È questo il motivo per cui, nel confronto che avrà luogo, ci batteremo per impostare una polemica ed opporre un rifiuto alle proposte avanzate, ma ci misureremo anche con proposte che, a nostro avviso, possono consentire di accompagnare uno sviluppo nel nostro paese e, soprattutto, possono contenere elementi di equità e di giustizia (Applausi dei deputati del gruppo dei Democratici di sinistra-l'Ulivo).

PRESIDENTE. Ha facoltà di parlare il rappresentante del Governo.

DANIELE MOLGORA, Sottosegretario di Stato per l'economia e le finanze. Quanto affermato dai relatori pone l'accento sul significato di questa riforma. Credo che molti dei concetti contenuti all'interno di questa legge delega siano stati ottimamente sviluppati dal relatore, onorevole Falsitta. Nella sua relazione si evidenzia, infatti, come la riduzione della pressione fiscale sia forte soprattutto per le persone fisiche, e come tale riduzione sia attuata, in realtà, attraverso meccanismi diversi dal passato - quindi, con meccanismi che non si rifanno soltanto alle aliquote, ma anche e soprattutto alle deduzioni di imposta - soprattutto sui redditi medio-bassi.
Sfido chiunque a dimostrare il contrario, ...

VINCENZO VISCO. Roba da matti!

DANIELE MOLGORA, Sottosegretario di Stato per l'economia e le finanze. ...perché quando nella legge si scrive espressamente, caro Visco, che le deduzioni sono concentrate sui redditi medio-bassi, ciò significa che è pieno intendimento del Governo realizzare una riduzione delle imposte esattamente sui redditi che, evidentemente, sono attualmente colpiti da una maggiore pressione fiscale relativa.
Pertanto, mi pare di poter contestare a pieno titolo quanto affermato dal relatore di minoranza, l'onorevole Benvenuto: alcune affermazioni, in realtà, sono assolutamente gratuite perché, ad esempio, con riferimento ai vantaggi sui redditi, la riduzione della pressione fiscale dell'IRPEF comporta - lo sappiamo - minori entrate (all'incirca di 37 mila miliardi) che, evidentemente, verranno coperte, in sede di legge finanziaria, nell'arco della legislatura (ci auguriamo di poterlo fare più rapidamente possibile); si sollevano, inoltre, alcuni problemi, attribuendo al Governo la responsabilità di questioni che, in realtà, non sono state risolte, anzi sono state assolutamente determinate dal Governo precedente.
Sappiamo che l'IRAP è un'imposta che non funziona e che ha determinato una pressione fiscale abnorme soprattutto sulle piccole imprese; di certo noi non abbiamo contribuito a creare un'imposta così complicata ed unica in Europa (gli altri paesi si guardano bene dal copiarci) quale è l'IRAP che ha spostato la pressione fiscale dalle grandi alle piccole imprese. Poiché conosciamo i difetti di questa imposta e la complicazione nel calcolo della medesima, vorremmo mettere mano a ciò, senza creare danni agli enti locali, sia ben chiaro!
Con riferimento all'imposta negativa sugli incapienti, la questione non è stata mai risolta in passato. Il problema non è quello di prevedere crediti di imposta a favore del soggetto che abbia redditi negativi; in quel caso l'intervento deve essere realizzato non tramite il fisco, ma attraverso azioni di sostegno e di assistenza: è


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tutt'altra cosa, è tutt'altro intervento, che fa capo a tutt'altro ministero e che dovrebbe far capo a tutt'altra legge!
Per quanto riguarda la riduzione della pressione fiscale avvenuta nella legislatura passata, sinceramente non me ne sono accorto. Non se ne è accorto nessuno, anzi nel passato sono state create le condizioni affinché vi fosse una finanza locale che non fosse sostitutiva del sistema fiscale centrale, ma assolutamente aggiuntiva. I problemi che si stanno verificando oggi in relazione all'aumento delle aliquote IRAP o dell'addizionale IRPEF a livello locale sono causati solo ed esclusivamente da un sistema che è stato creato nella precedente legislatura dai precedenti governi.
Con la riforma costituzionale è stato posto in essere un sistema, non di tipo federalista poiché ancora assolutamente fondato sul centralismo che, tuttavia, dà spazio agli enti locali al fine di determinare un aumento della pressione fiscale, non coniugabile però con un sistema di tipo federale come, ad esempio, quello canadese o tedesco (che conosciamo) che presentano strutture totalmente diverse.
Se nel fisco di oggi si riscontrano alcuni difetti, ciò è imputabile a provvedimenti che voi avete approvato con decreti legislativi (non si può nemmeno dire che vi sia un eccesso di delega da parte di questo Governo) sui quali stiamo cercando di mettere mano per ridurre assolutamente la pressione fiscale che deve essere riportata a livelli più consoni al sistema europeo, affinché il nostro sistema economico possa ripartire.

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Leo. Ne ha facoltà.

MAURIZIO LEO. Signor Presidente, onorevoli colleghi, la riforma fiscale contenuta nella delega che ci accingiamo ad esaminare rappresenta una rivoluzione copernicana, una svolta epocale del sistema giuridico tributario. Una svolta che prende le mosse da quella che è stata la legislazione fiscale risalente agli anni settanta e che rappresenta l'epilogo di quell'evoluzione che si è registrata nel corso degli anni.
È infatti noto a tutti che, nel corso degli anni settanta, fu introdotta una legislazione fiscale incentrata sul soggetto, su colui cioè che produceva reddito, ricchezza. Venivamo dagli anni del miracolo economico e vi era la necessità di incentrare la tassazione sulla persona e non più sul reddito reale in quanto tale. Questo è ciò che ha inteso determinare la riforma tributaria degli anni settanta.
Successivamente si è registrata una vasta serie di interventi normativi che hanno reso estremamente difficoltoso e farraginoso il funzionamento del sistema tributario. Le difficoltà maggiori si sono incontrate a partire dal 1996, allorquando sono state adottate una serie di misure, contenute nella famosa legge n. 662 del 1996, che hanno sostanzialmente e radicalmente innovato il sistema tributario. In che modo ciò è avvenuto? È avvenuto al di fuori di quello che era lo schema logico e al di fuori del sistema tributario. Se si ripercorre la dottrina manualistica di questo settore, si evince che l'esigenza primaria è quella di creare un sistema e di mantenerlo inalterato. Ciò non è avvenuto nella legislazione successiva al 1996. In questo periodo, abbiamo invece avuto una serie di interventi al di fuori della logica del sistema complessivo e che hanno complicato la vita a tutti: ai contribuenti, all'amministrazione finanziaria. Basti ricordare la DIT, misura tributaria che non viene inclusa nel testo unico delle imposte sui redditi, ma realizzata, per così dire, a latere; basti ricordare la riforma delle operazioni straordinarie, delle riorganizzazioni aziendali (si tratta di strumenti che sono stati per l'appunto adottati al di fuori del sistema tributario); basti pensare a tutti gli interventi in materia di IVA, di ONLUS, di enti non commerciali. Si tratta di tutta una serie di interventi operati al di fuori del sistema.
La prioritaria esigenza che questo provvedimento assicura dunque è quella di riportare ordine nel sistema, attraverso la codificazione. Vi è infatti la necessità di predisporre un codice. Abbiamo vissuto l'esperienza dei testi unici: essa intendeva rappresentare un momento di riconduzione


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ad unità del sistema, che purtroppo non ha sortito questo effetto. Ciò per la ragione che il legislatore è sempre stato prodigo di interventi normativi, adoperandosi in maniera rilevante per correggere il dettato normativo. L'indicazione contenuta nella legge delega, ovvero predisporre un codice tributario che si divida in due parti, una generale che compendia i principi generali dello statuto del contribuente, l'altra speciale, che disciplina analiticamente le singole imposte, appare, a mio avviso, un'operazione da salutare con estremo favore.
Se si analizzano i criteri direttivi contenuti nei cosiddetti principi generali dell'ordinamento tributario, è possibile constatare che vi è una serie di interventi che sono radicali e al tempo stesso significativi per tutti, sia per i contribuenti sia per l'amministrazione finanziaria. Mi riferisco in particolare alla riforma delle sanzioni, siano esse amministrative tributarie, siano essi penali.
Non v'è chi non veda oggi che, quando l'amministrazione finanziaria procede all'accertamento, oppure il contribuente riceve un atto di accertamento, è quasi impossibile comprendere quanto succede in materia di sanzioni tributarie. Attraverso il sistema del decreto legislativo n. 472 del 1997 si è applicata la sanzione tributaria nei confronti di colui che ha posto in essere la violazione e, attraverso una serie di contorcimenti logici e giuridici, si arriva ad affermare la responsabilità di chi si avvantaggia del comportamento tributario: la società, l'imprenditore e il lavoratore autonomo. Questo sistema non ha ragion d'essere: esso si pone in controtendenza con l'attuale assetto delle sanzioni amministrative applicabili alle società per reati più gravi - penso alla disciplina dei reati di corruzione e di concussione -, adottato nel corso della precedente legislatura, per effetto del decreto legislativo n. 231 del 1997.
Si sta operando nella stessa direzione in materia di sanzioni amministrative tributarie. È pertanto con estremo favore che tale intervento va accolto. Esso è volto alla semplificazione, e, in definitiva, a rendere più semplice la vita agli uffici dell'amministrazione finanziaria e ai contribuenti.
Il sistema andrà costruito con poche imposte, non avremo più quella congerie di tributi disseminati qua e là nell'ordinamento tributario: avremo un'imposta sul reddito, un'imposta sulle società, l'IVA (che è tributo comunitario e verrà modificata, per rispondere sempre meglio ai canoni e ai precetti dell'Unione europea); avremo l'accisa, avremo un'imposta sui servizi e vi sarà una rivisitazione dell'IRAP, per giungere alla sua graduale soppressione.
Per quanto riguarda l'imposta sul reddito, il collega Benvenuto nel suo intervento ha evidenziato la problematica della progressività. Già nel corso del dibattito in Commissione il nostro schieramento e il Governo hanno rimarcato che il sistema previsto dalla legge delega risponde in pieno ai principi della progressività sanciti nel dettato costituzionale. La manualistica di base della nostra materia insegna che la progressività si può realizzare in due modi: in modo nominalistico, con aliquote crescenti per scaglioni o in modo continuo oppure attraverso il meccanismo deduzioni-detrazioni. Questo vuole fare il provvedimento e questo ha fatto, individuando una no tax area, delle fasce di reddito a fronte delle quali vengono riconosciuti oneri deducibili più elevati e poi, gradualmente, fino ad eliminare gli oneri deducibili e ad avere queste due sole aliquote del 23 per cento e del 33 per 100. E non sosteniamo che delle aliquote più basse si avvantaggeranno i più ricchi: qual è il numero dei più ricchi nello scenario della platea dei contribuenti? È pari a circa lo 0,5 per cento, quindi, in termini percentuali, l'effetto devastante che altri colleghi hanno annunciato è estremamente tenue.
Ma se leggiamo con attenzione le norme relative all'imposta sul reddito, ci rendiamo conto che vengono introdotte innovazioni importanti e significative sul versante della fiscalità finanziaria, dei redditi di capitale e dei redditi diversi di natura finanziaria. Oggi il sistema prevede una tassazione sul risparmio gestito, quindi su un reddito virtuale, che non


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esiste: basta pensare a colui il quale affida le proprie somme in gestione ad intermediari e si vede tassato indipendentemente dall'aver prodotto ricchezza. Il provvedimento riporta ordine in questo sistema perché tassa il reddito quando viene effettivamente percepito. Si muove al di là degli schemi dei redditi di capitale e dei redditi diversi di natura finanziaria, fissa un principio di provente finanziario che è molto più adeguato rispetto alla costante e continua evoluzione nel settore della fiscalità finanziaria.
Che dire poi dell'intervento mirato della riforma delle collaborazioni coordinate e continuative? Non dimentichiamo che proprio con la legge n. 342 del 2000 furono apportate modifiche deflagranti e sconvolgenti per i contribuenti: amministratori, sindaci, revisori che collaborano a giornali, riviste, enciclopedie e via dicendo, che erano lavoratori autonomi, sono diventati dall'oggi al domani lavoratori dipendenti, con tutte le difficoltà connesse e conseguenti. Quindi, anche su questo punto, la delega riporta ordine, fa chiarezza e risponde alle istanze e alle esigenze che provengono dal mondo, dalla platea dei contribuenti. È sufficiente venire a contatto con gli addetti ai lavori per riscontrare l'esistenza di un coro unanime di proteste, di censure, di contestazioni per il modo in cui è stata regolata la materia.
Veniamo al punto che forse è stato meno esplorato: la tassazione dell'impresa. Vorrei ricordare che nella passata legislatura gli interventi a favore delle imprese si sono incentrati prevalentemente su due provvedimenti: la DIT, da una parte e, successivamente, la cosiddetta legge Visco, che tentava di coniugare due aspetti, gli investimenti e la capitalizzazione. Ma quanti soggetti si sono avvalsi di questi provvedimenti? Se andiamo a vedere le stime, possiamo riscontrare in modo abbastanza agevole che una fetta limitatissima di contribuenti si sono avvalsi della legge DIT. Forse le grandi imprese si sono avvantaggiate della legge Visco, ma non le piccole e medie imprese che rappresentano il tessuto connettivo della nostra economia nazionale.
Basti fare il tipico esempio dell'impresa individuale o della società di persone che, per avvalersi della DIT, devono disporre di un patrimonio aziendale di circa 212 milioni. È pensabile, per la nostra economia, avere imprese con tali limiti di capitalizzazione? È pensabile che un imprenditore individuale o una società di persone del Mezzogiorno dispongano di patrimoni di questa entità? Se così fosse, queste imprese si trasformerebbero in società di capitale, assumerebbero ben diverse dimensioni. I provvedimenti non hanno raggiunto risultati. Bisognava, dunque, esplorare un'altra strada, tentare un altro percorso; oggi, si tenta di fare ciò con questa delega; ieri è stato fatto attraverso la legge Tremonti. Se andiamo ad analizzare nel dettaglio la legge Tremonti, costatiamo che risponde proprio alle esigenze delle piccole e delle medie imprese, le quali affermano: è inutile che ci chiedete di capitalizzarci, quando spesso e volentieri dobbiamo fare ricorso al capitale di debito, perché non riusciamo ad andare avanti.
La piccola o media impresa che lavora con un ente pubblico come può, dopo avere attuato le sue prestazioni, le cessioni, riuscire ad avere i mezzi finanziari per sopravvivere, per pagare gli stipendi? Deve far ricorso al mercato creditizio, ma a quel punto scattano gli interessi passivi, l'IRAP che la penalizza. Allora, in via congiunturale, la legge Tremonti offre la possibilità di realizzare investimenti sia con il capitale di rischio sia con quello di debito. Ci si può anche indebitare, ma il vantaggio ottenuto deve restare nell'azienda. La riduzione del carico fiscale non può essere distribuita ai soci. Per questo motivo, si elimina il credito d'imposta pieno, limitato ed il basket. Il vantaggio resta nell'azienda: ecco ciò che ci chiedono le imprese nazionali.
La legge Tremonti fa questo e, in allineamento, corregge anche la DIT e la legge Visco, che si applicano in via transitoria sino al 30 giugno 2001. Anche per questo, il vantaggio non va più ai soci, resta


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nell'azienda. Ciò che si è fatto in via congiunturale lo si vede meglio in via strutturale. Se leggiamo i principi ed i criteri direttivi sulle imposte e sulla società, apprendiamo che non esiste più il meccanismo dei basket, della tassazione ad imposta sostitutiva per le riorganizzazioni aziendali, una delle tante imposte sostitutive che hanno costellato lo scenario tributario della precedente legislatura, vulnerato e vanificato i principi di progressività contenuti nella Carta costituzionale.
Ci meravigliamo molto, dunque, che oggi si continui ad affermare che il Governo di centrodestra vuole sovvertire la progressività, quando, nella passata legislatura, la progressività praticamente restava concentrata solo su due categorie: i lavoratori dipendenti e quelli autonomi, mentre per gli altri, attraverso le imposte sostitutive, tutto questo veniva ad affievolirsi fino ad annullarsi.
L'imposta sulle società introduce meccanismi che vengono richiesti anche dall'Unione europea. Chi ha avuto modo di leggere la stampa specializzata di qualche giorno fa ha constatato che, a livello dell'Unione europea, si sta pensando ad una tassazione dell'imponibile delle società a livello consolidato. Questo fa la delega, sia con il consolidato interno sia con quello internazionale.
Ciò che è stato realizzato in materia di imposta sulle società non è un'invenzione! Sono modelli, meccanismi già adottati in sistemi tributari all'avanguardia, ossia quelli della Germania e dell'Olanda. Sono state semplicemente recepite disposizioni previste da altri ordinamenti e si è fatto un passo in avanti rispetto agli altri ordinamenti; a ciò l'Unione europea guarda con attenzione.
Da ultimo, è stato dichiarato che riducendo l'aliquota dal 36-35 al 33 ed eliminando la DIT, non si determina alcun vantaggio per le imprese. Ma - ritornando al ragionamento che ho svolto poc'anzi - quante imprese si sono avvalse della DIT e della legge Visco? Riscontriamo subito che la riduzione dell'aliquota dal 36-35 al 33 per cento rappresenta un sicuro vantaggio e questo non lo affermo io, ma osservatori qualificati. È sufficiente leggersi la relazione di Assonime: la tassazione media per le imprese scende, su dato globale, dal 34,5 per cento al 33 per cento.
Questo significa che i provvedimenti agevolativi non hanno funzionato per la stragrande maggioranza delle imprese e, per converso, che la riduzione della tassazione prevista da questo disegno di legge delega effettivamente raggiungerà il risultato vanamente perseguito in passato.
Un ultimo cenno all'IRAP. Molto se n'è discusso, ma il vero problema di questa imposta - ha detto bene il Governo - è costituito dalla base imponibile, attualmente erratica: le regioni ricevono gettito nel modo più stravagante possibile! Inviterei chiunque, anche i redattori delle disposizioni, a mettersi davanti ad un modello di dichiarazione IRAP, a compilarlo e a spiegare cosa siano i componenti correlati che negli esercizi precedenti e successivi hanno concorso a formare la base imponibile dell'IRAP, a stabilire come ci si debba comportare con i canoni di locazione finanziaria, come interagiscano i criteri di competenza e i criteri di tassazione su base consolidata e, in definitiva, a verificare come funzioni tutto il sistema di tassazione della predetta imposta. Se si riesce a compilare correttamente un quadro di dichiarazione IRAP, si è effettivamente bravi: vuol dire che l'Italia se la merita l'IRAP!
Insomma, l'imposta regionale sulle attività produttive va modificata. Ma in quale modo? Nel modo giustamente indicato dal Governo: prendiamo a base di riferimento il reddito e facciamo alcune variazioni. Questo è il modo più agevole di procedere!
Quelli passati velocemente in rassegna sono i punti salienti della delega, sui quali dovremo far sentire la nostra voce, in Parlamento ma anche nella società. La gente ha sentore che stiamo facendo qualcosa di buono, che stiamo semplificando il sistema e che, muovendoci nella direzione voluta dall'Unione europea, stiamo tentando di dare finalmente al paese quel fisco equo per il quale tutti ci battiamo e


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dal quale, in modo graduale e progressivo, lo stesso erario potrà sicuramente ricavare maggiori risorse.

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Alfonso Gianni. Ne ha facoltà.

ALFONSO GIANNI. Signor Presidente, onorevoli colleghi, signor rappresentante del Governo, il mio gruppo ed io riteniamo di trovarci di fronte ad un provvedimento molto grave, emblematico della politica a difesa della proprietà e delle classi forti che questo Governo sta attuando: quel tentativo di mantenersi in posizione di equilibrio tra liberismo e populismo - su cui il Governo aveva costruito il suo iniziale consenso elettorale - fallisce, in modo abbastanza chiaro e definitivo, a vantaggio del primo dei due termini.
Siamo di fronte ad un disegno di legge che - come hanno già osservato altri colleghi, con maggiori o minori forza argomentativa e gravità di toni, ma in modo abbastanza convergente - accentuerà le divergenze sociali e di distribuzione del reddito reale nella popolazione, offendendo, altresì (su ciò è difficile nutrire dubbi, come cercheremo di dimostrare nel prosieguo della discussione), il principio di progressività contenuto nel dettato costituzionale.
Naturalmente, le considerazioni che svolgerò riguarderanno non soltanto il provvedimento al nostro esame, ma anche la desolante condizione generale in cui versa il nostro fisco, la quale, affondando le sue radici in situazioni lontane nel tempo, non è ovviamente attribuibile esclusivamente a questo Governo. D'altro canto, l'ex ministro delle finanze darà atto che alcune delle critiche che muoveremo non sono affatto nuove: le abbiamo rivolte, ma con un tono caratterizzato da altra gravità, anche al passato Governo di centrosinistra e richiamano tutti noi ad un'attenzione ben diversa verso il problema che abbiamo di fronte.
In altre parole, non si tratta semplicemente di una disputa politica o di un argomento da affrontare in quest'aula stucchevolmente con la formula del noi e del voi (come se esistessero solamente due schieramenti che si contrappongono); occorre, invece, che ognuno, partendo dal proprio campo e scegliendo i fondamentali interessi sociali e di classe da perseguire, guardi con un minimo di onestà alla situazione reale e alle risultanze degli studi, delle analisi, delle statistiche che quantificano e dunque qualificano questa situazione reale. Detto molto sinteticamente - perché questa Assemblea male si presta ovviamente ad analisi troppo accurate (sempre che io sia in grado di farle naturalmente) - noi ci trovavamo, in un'epoca precedente ovviamente (alla nascita di questo Governo), in una situazione nella quale, per molte e purtroppo convergenti ragioni nel contesto europeo (se vogliamo limitarci a questo), la quota del prodotto interno lordo europeo, spettante ai possessori di rendite finanziarie, era cresciuta, nell'ultimo ventennio (mi riferisco ovviamente a quella del secolo che abbiamo lasciato da poco alle spalle), di oltre il 50 per cento, raggiungendo in alcuni periodi valore doppio rispetto a quello che vigeva nel 1976.
Mi rendo conto che sono cifre a grandi linee, le sottopongo a qualunque tipo di critica; esse sono la risultante mediana di varie valutazioni espresse da più parti politiche e provenienti da diverse scuole di analisi, e indicano esattamente una linea di tendenza che io colgo a partire dai fatidici anni 1973-74. Mi riferisco a quella grande crisi economica, connessa ad una modificazione di assetti monetari internazionali e anche del peso del petrolio nella definizione delle energie sulle quali lo sviluppo economico mondiale andava avanti, dalla quale è partita una gigantesca ristrutturazione del sistema capitalistico mondiale. La chiamo rivoluzione per sottolineare il carattere profondamente modificativo, ma anche rivoluzione restauratrice, utilizzando un ossimoro che però indica la profondità della modificazione insieme al fatto che, alla fine, i più forti e i più ricchi sono ancora più forti e più ricchi e i più deboli e i più poveri, su scala mondiale, sono ancora più deboli e ancora più poveri.


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La vicenda del prelievo fiscale ha avuto un'incidenza sua propria, oltre che essere la risultante di queste tendenze profonde di ristrutturazione del sistema capitalistico mondiale. Siamo quindi tornati al periodo in cui, soprattutto nel nostro paese (ma non solo nel nostro paese), nel contesto europeo (ma non solo), lotte operaie, lotte democratiche, lotte popolari, riuscivano per diverse vie (per via contrattuale o anche per qualche significativa modifica legislativa) a temperare la disuguaglianza del reddito e, anzi, a riconquistare punti a favore dei redditi da lavoro dipendente, contenendo il resto della composizione del reddito (profitti e rendite), non capovolgendo i rapporti, ma certamente conquistando in modo significativo spazi che poi si tramutavano in un miglioramento delle condizioni materiali di vita.
Ora, invece, questo spostamento della distribuzione a favore delle rendite, che interviene per diverse ragioni e con diverse incidenze, ma che è rilevabile come tendenza di carattere generale, rappresenta la principale spiegazione di un'ascesa, che sembra addirittura inarrestabile, di tutti gli indicatori di povertà e di disuguaglianza in Europa.
Vi sono autorevoli stime che segnalano, in tal senso, un raddoppio dei coefficienti di Gini nell'Unione europea, con l'Italia situata, peraltro, al di sopra della media europea: mi riferisco ai lavori di Tony Atkinson (del 2000) o, per quanto riguarda gli indici di diseguaglianza, ai lavori di James e di Albright.
Vorrei sinteticamente far riferimento - lo farò anche più avanti - al coefficiente di Gini, che come sapete rappresenta la proiezione algebrica della cosiddetta curva di Lorenz. Stabilita, infatti, su un'asse cartesiano la popolazione e sull'altro asse il reddito nazionale spettante alle varie fasce di popolazione, si determina così un'ipotetica, del tutto teorica - e purtroppo mai realizzata -, linea trasversale, che rappresenta la distribuzione ideale e poi una curva il cui discostamento da quella linea indica la diseguaglianza del reddito e la perdita di potere di acquisto da parte delle classi più deboli.
Questo è il quadro generale, nel quale anche il nostro paese era collocato. Rispetto a tale quadro, come prima dicevo, il passato Governo di centrosinistra non è privo di responsabilità. Ne abbiamo discusso sia in quest'aula, sia nel corso di dibattiti pubblici, sia in occasione di incontri - che sono sempre stati utili e di grande approfondimento, nonché anche di piacere intellettuale - con l'ex ministro delle finanze, nel corso dei quali abbiamo avuto modo di esprimere un giudizio critico nei confronti del centrosinistra. L'insieme della sua visione e della relativa applicazione pratica poteva essere definita, a mio avviso - naturalmente, come sempre, opinabile -, di resistenza, nel senso che, di fronte ad un multiforme, pesante ed inquietante incremento della forbice delle diseguaglianze in Italia, i Governi dell'Ulivo hanno cercato di intervenire sulla distribuzione dei redditi, se non in modo fortemente perequativo - esattamente ciò che a mio avviso si sarebbe dovuto fare per garantire quella svolta di politica economica e sociale che invece è mancata (e che a nostro avviso il centrosinistra ha pagato caramente in termini di consenso) -, quanto meno in modo neutrale. Il tutto, naturalmente, collegato con un'attenzione - questa va certamente riconosciuta, anche se, di per sé, per chi vi parla, non rappresenta un valore assoluto, né principale - al problema del risanamento del bilancio.
Ora, però non ci troviamo di fronte semplicemente ad una propaganda elettorale gridata dalle forze del centrodestra, in base ad una ridicola riedizione del reaganismo di prima maniera («meno tasse per tutti»), bensì di fronte ad un provvedimento i cui esiti saranno inevitabilmente quelli che prima ho cercato di evidenziare, cioè un aumento ulteriore della diseguaglianza sociale e di reddito; siamo di fronte all'idea di una vera e propria azione di sfondamento.
Se dunque prima vi era una tenuta insufficiente, con delle cadute di qualità ed anche con la mancata attuazione nell'ultima fase della legislatura dell'Ulivo di progetti, per quanto discutibili, derivanti


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da una riflessione europea - segnatamente nel mondo anglosassone - tendenti ad un possibile intervento più coraggioso in materia fiscale (ripeto, interventi discutibili ma che in una qualche misura rappresentavano uno sforzo di innovazione rispetto ad uno spirito moralmente lodevole ma politicamente carente ed insufficiente per un buon governo in materia fiscale), ora signor rappresentante del Governo siamo di fronte ad una controriforma, almeno a mio giudizio, molto grossolana.
Anziché contenere la crescita dei divari, o almeno mantenere una linea di buon governo nell'andamento dei medesimi per evitare divaricazioni vergognose, l'esecutivo, qualora andasse in porto il presente provvedimento, ci pone di fronte ad una possibile accelerazione delle stesse divaricazioni.
Esiste uno studio dell'università di Modena, che mi sembra non privo di attendibilità, nel quale viene rilevato un balzo in avanti del valore dell'indice di Gini, il che, tradotto dalla fumosità dell'espressione algebrica, significa assai più concretamente un peggioramento delle condizioni di vita per i ceti popolari ed una minore capacità di spesa; insomma, tale dato si traduce in più povertà e persino in più miseria, la quale rappresenta una categoria peggiorativa - ed espressa statisticamente - del concetto già non invidiabile di povertà. Siamo di fronte ad un'ipotesi, già ricordata dal collega Benvenuto, di riduzione di aliquote in una dimensione tale che la conseguenza di un premio per coloro che hanno e guadagnano di più, ed un peggioramento delle condizioni per chi vive dei redditi del proprio lavoro, appare a questi studiosi, e su ciò torneremo in modo più dettagliato nel corso dell'illustrazione dei vari emendamenti, una conseguenza pressoché inevitabile. In più, vi è una fumosità, una indeterminazione rispetto alla cosiddetta linea di esenzione.
Il centrodestra ha cercato un mix originale - ed in ciò si sono distinte anche alcune forze politiche che sostengono il Governo: chi puntava più su un aspetto, chi su un altro - tra liberismo e populismo, con una logica che ho definito borbonica qualora si sostituisca all'aristocrazia di allora la grande borghesia ed ai ceti deboli quello che si chiamava il popolino. Perciò i famosi provvedimenti dei mille ed ora non ricordo più quanti giorni in luogo dei cento (come ricordava prima il collega Benvenuto che, evidentemente, è più attento di me ai numeri) si configurano come disposizioni che, considerate nel complesso, cercano di tutelare l'immunità della grande proprietà in ogni sua forma, dalla rendita finanziaria alla proprietà immobiliare (insomma, si tutelano tutti gli aspetti che configurano la moderna proprietà), stabiliscono interventi a favore dell'impresa e, in qualche caso, che poi si è rivelato alla prova dei fatti truffaldino proprio perché caduto sul problema fiscale, tentano di fare l'occhiolino o di parlare ai ceti più bassi. Mi riferisco - ma cito tale argomento solo come esempio, in quanto esso esula dall'ambito di questa discussione - al tema dell'aumento delle pensioni minime che, come si sa, da un lato, è reso illusorio dalle condizioni di accesso al medesimo e, dall'altro, è gravato da una pressione fiscale che ne vanificherebbe, in termini di quantità monetarie che effettivamente entrerebbero nelle tasche dei pensionati, l'effetto sperato.
Oggi, comunque, siamo di fronte ad un totale impallidimento di questo tipo di populismo, mentre invece appaiono in misura consistente il messaggio e la pratica, o il tentativo della pratica, della riduzione delle tasse per i ceti più abbienti. Il fatto che questi non costituiscono certo la maggioranza della popolazione - non ricordo se ne parlassero il rappresentante del Governo, il relatore o l'esponente della maggioranza - va da sé.
È difficile che i ceti abbienti rappresentino la maggioranza della popolazione e, tuttavia, ciò non giustifica - né dal punto di vista morale né da quelli dell'aderenza al dettato costituzionale del principio della progressività e dell'attenzione all'ingresso delle entrate fiscali nelle casse dello Stato, né, quindi, dal punto di vista del buon governo - la


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riduzione della tassazione, in modo assolutamente scandaloso, a favore di chi possiede di più.
Inoltre - questo è l'ultimo argomento su cui voglio soffermarmi - il relatore Falsitta nella sua relazione (che ho analizzato, per quanto di mia competenza) cerca di nobilitare questa materia con una sorta di umanesimo o di antropologia fiscale e con citazioni della cultura e della dottrina sociale cattolica che appartengono anche ad una sensibilità della sinistra, ma che in questo quadro francamente stridono: cosa c'entri Maritain con questo discorso per me è un mistero.
Quanto allo stile un po' tardo-rinascimentale che caratterizza la relazione scritta dell'onorevole Falsitta (o almeno i titolini della stessa, come ad esempio «Della relazione tra uomo-contribuente (...) e così via) ...

GIORGIO LA MALFA. Medievale, semmai!

ALFONSO GIANNI. ...vorrei soffermarmi solo su un aspetto: si tratta un aspetto coraggioso, ma è un coraggio poco fondato sul giudizio dei fatti, che rasenta e, anzi, sconfina nella temerarietà, il che non è una virtù, neppure dal punto di vista cristiano, se non ricordo male. Mi riferisco al punto riguardante la cosiddetta fiscalità etica, contenuto, se bene intendo, in questo criptico disegno di legge delega del Governo al comma 2 dell'articolo 5 (qualora sbagliassi i numeri, non sarebbe né la prima né l'ultima volta; sbagliare è anche un modo per dimostrare a se stessi che si è ancora giovani e si ha tempo di riparare).
Si tratta della cosiddetta norma sulla de-tax proposta dal ministro Tremonti, inserita - se bene intendo - in una fase successiva, tenendo anche conto del dibattito internazionale e della pressione che noi stessi abbiamo concorso ad alimentare nella stessa discussione parlamentare sulla legge finanziaria e considerando la raccolta di firme in atto nel paese - di cui domani, davanti al Parlamento, avremo un esempio palpabile - a favore dell'introduzione della cosiddetta Tobin tax. Si tratta di una tassazione sulle transazioni internazionali dei capitali che colpisce soprattutto il lato speculativo di tali operazioni, le quali - come si sa - quantitativamente hanno un'incidenza giornaliera rappresentata da cifre difficili persino a scriversi (figuriamoci a pronunciarle per intero!).
Se tali operazioni venissero tassate, si potrebbero ottenere entrate (che potrebbero esser canalizzate in un unico fondo macroregionale a livello mondiale o, comunque, utilizzate di comune accordo), le quali potrebbero risolvere (secondo alcuni studiosi che non hanno dimenticato che lo studio analitico può congiungersi con uno spirito utopico, purché il secondo sia fondato sul primo) persino il problema della fame della popolazione mondiale, problema che all'inizio del terzo millennio - lo ricordo all'umanista Falsitta - rimane ancora tragicamente irrisolto.
Il meccanismo della de-tax non rappresenta una risposta alla proposta da noi avanzata con riferimento alla Tobin tax, che sintetizzeremo anche in un emendamento che raccoglie moltissime firme (credo oltre una cinquantina) di diversi colleghi dell'opposizione e che, naturalmente, discuteremo al momento debito. Infatti, secondo la proposta avanzata dal ministro e dallo stesso fortemente sponsorizzata addirittura con una rivalutazione storico-filosofica del concetto di filantropia (stando almeno alla risposta che ci fornì in sede di Commissione bilancio ormai nella lontana discussione sulla legge finanziaria), la de-tax non si occupa dell'instabilità del sistema monetario internazionale né dell'alto costo del denaro né delle vistosissime crepe del sistema capitalistico contemporaneo.
Si tratta di crepe messe in luce dal compianto, ormai, Tobin - che, nel frattempo, è passato a miglior vita - quando nel 1972 elaborò la sua proposta: da economista liberale, non anti ma certamente amarxista, elaborò una proposta per migliorare e rendere più accettabile il sistema capitalistico, non certo per negarne la validità o creare le premesse di un suo superamento o di una sua rottura.


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D'altro canto altri, anche finanzieri, i cui nomi sono troppo noti perché li debba ricordare in questa sede, pure responsabili in prima persona dell'ingiustizia del processo di globalizzazione, sembrano, con una resipiscenza un po' tardiva ma non per questo meno utile per noi, voler introdurre elementi di temperamento e di modificazione delle enormi contraddizioni, ingiustizie e disuguaglianze che lo sviluppo globalizzato del capitalismo comporta.
La proposta di Tremonti, a differenza della Tobin tax, si configura come un atto di carità contrapposto ad un atto di giustizia: proprio per questa ragione non funziona. Se bene intendo, il meccanismo della de-tax può essere il seguente: un imprenditore informa la propria clientela che una certa quantità, l'1 per cento, del prezzo delle merci che si acquistano verrà destinato al finanziamento di iniziative etiche e, per parte sua, lo Stato rinuncerà a tassare quell'1 per cento. Questa visione - che avrebbe fatto impallidire persino Nozick, il teorico dello Stato minimo - ci induce a prevedere che il Governo, proclamerà una giornata della carità in luogo di uno Stato sociale che, ponendosi il problema di sostenere il finanziamento di scuola, sanità, assistenza e previdenza sociale, applichi un giusto principio di tassazione di tutte le forme di rendita e di reddito del capitale in maniera progressiva (cosa che, invece, non è stata fatta e che questo Governo vorrebbe addirittura affossare).
Quello che colpisce, onorevole Falsitta, al di là delle sue parole e della citazione del grande banchiere etico che lei fa nel punto 5 della sua relazione, è l'inefficacia prevedibile, e già prevista, della norma delega inserita in questo provvedimento. Recentemente la Commissione europea vi ha riflettuto: il problema sollevato dalla Commissione verte sul fatto che non vi è alcuna ragione apparente per cui un'impresa dovrebbe decidere di sfruttare l'opportunità offerta dalla de-tax. Escludo, ovviamente la coercizione, sia perché questo Governo non ha la passione della coercizione verso l'impresa, sia perché, anche da un punto di vista asettico, sembrerebbe mal congiungersi l'afflato partecipativo ad un'impresa etica con un'idea coercitiva sui soggetti che la dovrebbero esercitare. Dunque, la coercizione è esclusa e siamo in un altro campo: siamo nella sfera dell'umanesimo fiscale, dell'uomo-fisco, di Maritain, della fiscalità etica.
Credo che nonostante l'esenzione fiscale alle imprese, se andasse in porto la proposta del ministro, quella che porta ormai massmediologicamente il suo cognome (diventato, dopo la polemica con Scalfari, anche T.), le imprese incorrerebbero, comunque, in un calo del fatturato dell'1 per cento il quale, in termini di margini di profitto, potrebbe incidere anche dieci volte di più della proposta conseguente all'introduzione della Tobin tax. Quindi, secondo la stessa Commissione, la de-tax potrebbe dar luogo a perdite significative: a meno di un'improvvisa generale conversione alla filantropia del ceto imprenditoriale italiano, oppure di effetti miracolosamente espansivi attivati dall'incentivo etico (una sorta di moltiplicatore della carità), non si vede perché potrebbe essere adottata.
Allora, come mai questa misura, la quale sulla carta potrebbe portare addirittura ad un incremento di entrate superiori alla Tobin tax? Siamo di fronte ad una bolscevizzazione del Governo di Berlusconi o ad una riedizione, più modestamente ma con uguale nobiltà, dello spirito di Quintino Sella, tirato appunto in ballo dalla polemica tra S. e T. su un noto quotidiano in questi giorni? Non lo credo. Credo che le conclusioni di questa Commissione sulla indisponibilità delle imprese ad aderire, eventualmente, alla de-tax risultino alquanto frettolose. Infatti - questo è il punto che vorrei sollevare anche nella discussione perché sarei curioso di attendere qualche risposta -, fino a quando il ministro non chiarirà in che modo intenda disciplinare e finanziare i controlli antifrode, la de-tax presenterà tutti i caratteri di un'ennesima finestra per gli evasori.
Ciò non significa, evidentemente, accusare il ministro di incitare all'evasione fiscale ma, certamente sì, di concedere,


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attraverso un provvedimento di legge, un'ulteriore possibilità di applicazione all'evasione fiscale, poiché un Governo non solo dovrebbe agire in modo coercitivo nei confronti dell'evasione fiscale - e questo non avviene in modo smaccato da parte dell'esecutivo di centrodestra - ma non dovrebbe neanche prestare delle ulteriori possibilità all'evasione fiscale: se non la combatte, ma addirittura apre delle finestre e delle ulteriori possibilità, siamo in un quadro francamente disastroso, cioè da un lato si aumentano le differenze di reddito e le disuguaglianze sociali e si abbatte il principio della progressività, dall'altro, con la scusa dell'etica - eterogenesi dei fini, onorevole Falsitta - si aumenta l'area dell'evasione fiscale che, per quanto riguarda il nostro paese, è di dieci punti più alta della media europea, costituendo uno dei più negativi differenziali che ci separano da una reale e virtuosa integrazione europea.

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Patria. Ne ha facoltà.

RENZO PATRIA. Signor Presidente, onorevole rappresentante del Governo, onorevoli colleghi, il Governo ha presentato un disegno di delega per la riforma del sistema fiscale statale che mira, come è già stato detto, ad una trasformazione radicale del sistema di prelievo incentrato sulla riduzione delle aliquote legali e sull'ampliamento della base imponibile. Nel corso degli anni novanta le aliquote complessive di prelievo sui redditi sono diminuite in quasi tutti i paesi industrializzati. L'Italia, in relazione alle esigenze di ridurre l'elevato indebitamento pubblico, ha seguito tutto ciò con ritardo: dapprima si è registrato un inasprimento nell'imposizione, poi - voglio darne atto al ministro Visco -, a partire dal 1998 è iniziata una politica di riduzione delle aliquote.
Nel confronto internazionale, però, il cuneo fiscale sui redditi di impresa e delle persone fisiche rimane elevato. La rapida integrazione dei mercati e dei capitali iniziata negli anni ottanta, la costituzione del mercato unico nel 1992, l'avvio nel 1999 della terza fase dell'unione monetaria e, più in generale, i processi di globalizzazione e di affidamento al mercato di servizi di pubblico interesse hanno rafforzato in tutti i paesi europei la necessità di rivedere la tassazione dei redditi delle famiglie, delle imprese e da capitale, nonché l'esigenza di meglio comprendere gli effetti dei diversi regimi di tassazione sugli investimenti, sull'occupazione, sulla crescita economica e sulla qualità della vita.
La crescente mobilità delle persone e delle merci e l'internazionalizzazione della produzione, sommandosi alla tradizionale circolazione dei capitali, rendono anacronistici i regimi fiscali chiusi entro i confini nazionali e rafforzano la spinta verso l'omogeneizzazione dei trattamenti per eliminare le distorsioni nell'insediamento che possono derivare da squilibri nei trattamenti fiscali. Tale processo deve accompagnarsi, certamente, ad analogo processo di omogeneizzazione dei livelli di tutela che confermi il modello sociale europeo. Onorevoli colleghi, il disegno di legge collegato in materia fiscale al nostro esame prospetta un intervento di riforma complessivo del sistema tributario di ampia prospettiva e di notevole complessità.
Sul punto della tassazione del reddito la riforma, a regime, prevede: riduzione delle aliquote da cinque a tre (aliquota 0, aliquota 23, aliquota 33); riduzione drastica delle forme di prelievo sostitutivo; allargamento della base imponibile; concentrazione delle deduzioni nelle fasce reddituali medio basse; ampliamento del campionario degli oneri deducibili; previsione di una soglia di reddito esclusa dalla base imponibile; previsione di una clausola di salvaguardia.
L'azione del Governo ha radice nel fatto che circa il 98 per cento dei contribuenti ha redditi al di sotto dei 100 milioni di lire annue. Di questo 98 per cento, circa il 17 per cento è costituito da famiglie che si trovano in stato di povertà, tra povertà relativa e povertà assoluta. Le ragioni della povertà delle famiglie hanno fondamento nel numero dei figli e nella scarsa istruzione, nell'assenza o nella precarietà


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dell'occupazione, nella presenza di anziani a carico. Se a ciò si aggiunge che le imposte sono assolte prevalentemente da lavoratori dipendenti e autonomi e che il peso del pagamento del tributo è sperequato tra i cittadini per la meccanica del sistema, per fenomeni elusivi e per fenomeni di evasione, allora ben si comprende - e voglio affermarlo con il relatore Falsitta - il significato delle norme del disegno di legge per la riforma del sistema fiscale: intervenire in modo strutturale per migliorare anzitutto la situazione dei contribuenti più deboli e di coloro che si trovano nelle fasce basse e medie.
I mezzi prescelti dal Governo per raggiungere tale obiettivo sono così sintetizzabili. Per la lotta alla povertà: individuazione ex lege di una soglia di reddito non imponibile, attenzione speciale a figli, istruzione, anziani e disabili; per l'aumento dell'occupazione: incentivazione dello sviluppo mediante revisione del sistema di tassazione delle imprese secondo moduli agili e competitivi con quelli europei e concentrazione delle deduzioni nelle fasce di reddito basse e medie affinché - così come ricordava l'onorevole Leo - la progressività possa spostarsi dalle aliquote alla formazione della base imponibile.
La Commissione ha tenuto conto dei pareri espressi dalle competenti Commissioni in sede consultiva, dal Comitato per la legislazione nonché dalla Commissione bilancio.
È stato introdotto un articolo aggiuntivo volto a specificare che, nel documento di programmazione economica e finanziaria, siano indicate annualmente sia le variazioni dell'ammontare delle entrate connesse con le modifiche da introdurre al regime di imposizione personale sia quelle relative alla progressiva eliminazione dell'IRAP, mentre con la legge finanziaria vengono stabiliti il valore delle aliquote, degli scaglioni e delle deduzioni a valere per i successivi esercizi nonché le misure che incidono sulla determinazione quantitativa delle prestazioni dovute ai fini IRAP.
Il testo risultante dalle modifiche apportate dalla Commissione finanze - per merito certamente del relatore, dei gruppi e del Governo, sotto esperta guida del presidente La Malfa - appare ampiamente apprezzabile per l'equilibrio e la sensibilità con cui sono stati evidenziati alcuni temi degni della massima considerazione nel momento in cui ci si accinge a rivedere l'assetto dell'ordinamento tributario. Intendo riferirmi, tra l'altro, al rilievo giustamente attribuito alla famiglia, nell'ambito dei criteri direttivi relativi all'imposta sul reddito e specificamente alle deduzioni applicabili alla base imponibile (articolo 3, lettera a), punto 3).
L'aver messo la famiglia al primo posto tra i valori in relazione ai quali saranno definite le spese deducibili è, a mio avviso, tanto più meritevole di una valutazione positiva se si considera che proprio allo strumento delle deduzioni il provvedimento affida il compito di garantire la progressività dell'imposta, in modo da avvantaggiare in primo luogo i percettori di redditi bassi e medi. Al riguardo, le modifiche introdotte dalla Commissione finanze hanno inteso specificare che le deduzioni relative alla famiglia devono tener conto, in primo luogo, della composizione della stessa, vale a dire della presenza di particolari categorie di soggetti deboli e bisognosi di aiuto, quali i figli, gli anziani e i portatori di handicap. La Commissione ha voluto, inoltre, indicare espressamente, tra i valori e i criteri rispetto ai quali saranno definite le deduzioni, l'assistenza all'infanzia negli asili nido. È stato poi ampliato l'ambito di intervento relativo al terzo settore, facendo riferimento alle diverse attività svolte nel campo sociale per fini assistenziali.
Le modifiche normative, che ho brevemente riepilogato, nascono dalla consapevolezza che la famiglia costituisce il nucleo fondamentale della società, l'ambiente primario e insostituibile per curare l'educazione dei figli, per favorire l'istruzione e per sostenere il loro inserimento nel mondo del lavoro, per assistere le persone


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che non sono autosufficienti e per combattere la solitudine e l'emarginazione degli anziani.
Le modifiche apportate dalla Commissione finanze, del resto, si inseriscono perfettamente nel solco delle importanti misure già adottate per la famiglia nella legislatura in corso. Vorrei ricordare, innanzitutto, l'incremento della detrazione per figli, disposto con l'ultima finanziaria; si potrebbero elencare, peraltro, anche l'eliminazione dell'imposta di successione e, ai fini dell'applicazione delle agevolazioni agli investimenti previste dalla Tremonti-bis, l'inclusione delle spese per servizi di assistenza negli asili nido ai bambini di età inferiore ai tre anni. Si tratta di misure dirette a riconoscere il ruolo della famiglia e a tutelarla anche sotto il profilo economico.
Le azioni intraprese trovano conforto nell'alto richiamo del Presidente della Repubblica a riservare un'attenzione particolare alle esigenze della famiglia e della maternità, anche in considerazione della situazione di stallo o di regresso demografico che rappresenta una delle ragioni di più grave preoccupazione circa le prospettive di sviluppo del nostro paese. Allo stesso tempo, il Presidente della Repubblica ha richiamato l'attenzione di tutti noi sulla necessità di valutare quali soluzioni siano più adeguate allo scopo di favorire l'accesso di percentuali crescenti di donne al mercato del lavoro, garantendo alle stesse un'adeguata rete di servizi di assistenza. L'autorevolezza di tale richiamo costituisce un invito a condurre una politica ancora più incisiva e più sistematica.
Il grande impegno del relatore, onorevole Falsitta, in direzione della finanza etica merita di essere richiamato: lo ha già fatto l'onorevole Alfonso Gianni dal suo punto di vista. A tal fine mi sono permesso di presentare un emendamento che mira a regolare compiutamente la disciplina della de-tax, come, peraltro, delineato nella relazione illustrativa al provvedimento al nostro esame. L'emendamento tende a chiarire cosa si deve intendere, a mio avviso ovviamente, per de-tax E devo dire che fornisco una definizione molto, molto semplice - e vorrei che fosse presente l'onorevole Alfonso Gianni -, del tutto ascrivibile a Catalano. Si tratta della destinazione a finalità etica di somme che non derivano dalla beneficenza volontaria e collettiva, bensì dalla consapevole e volontaria rinuncia da parte di tutti i soggetti del rapporto. Infatti, l'acquirente sceglie di pagare un prezzo superiore a quello ordinariamente offerto, sapendo che la quota aggiuntiva è diretta a finalità etiche; il venditore rinuncia ad incamerare la quota offerta come sovrapprezzo; lo Stato sceglie di non tassare la quota aggiuntiva. Non si tratta, quindi, della destinazione a finalità etica di una somma oggetto di prelievo, bensì della destinazione di somme deliberate da ciascuna delle parti del rapporto. Questa è la mia opinione, così semplice che mi sono permesso di evocare Catalano.
Onorevoli colleghi, il prosieguo dell'esame parlamentare del collegato fiscale costituisce un'occasione decisiva per individuare - se lo vorremo -, insieme al Governo, le soluzioni che si dimostrino più efficaci, affrontando anche il problema degli incapienti, allo scopo di potenziare e dare organicità ancora maggiore all'importante misura a favore della famiglia già presente nel provvedimento.

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Nicola Rossi. Ne ha facoltà.

NICOLA ROSSI. Signor Presidente, un brivido ha percorso la schiena di tutti noi quando, a conclusione del suo intervento, l'onorevole Leo testualmente ha detto che, grazie a questo provvedimento, l'erario potrà acquisire maggiori risorse. Eravamo venuti qui nella speranza di vedere una riduzione delle imposte. Francamente, la delusione è notevole. Tuttavia, a parte ciò, la riforma del sistema fiscale è certamente uno degli aspetti più importanti che un Parlamento può trovarsi ad affrontare. A questo proposito, segnalo un elemento che trovo abbastanza sorprendente: senza nulla voler togliere al valente sottosegretario di Stato Molgora, il Governo dispone, fra i suoi ranghi,


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probabilmente, del massimo esperto mondiale di riforme fiscali; appare, dunque, sorprendente, non soltanto a me ma a molti di noi, che egli non sia stato coinvolto direttamente in tutta questa discussione.
Detto questo, proprio perché la riforma del sistema fiscale è una delle questioni più importanti che un Parlamento si può trovare ad affrontare, forse sarebbe bene - e reitero un concetto che credo sia stato già espresso - riflettere sull'opportunità di sospendere l'esame del provvedimento per attendere gli esiti del confronto fra il ministro dell'economia e i sindacati, programmato per mercoledì prossimo, se ho capito bene. Credo sarebbe opportuno per tutti attendere gli esiti di quel confronto e, soltanto a seguito degli stessi, proseguire il nostro esame. Qualora volessimo in ogni caso procedere, dovremo tener conto di alcune questioni.
Nelle regole fiscali sono sintetizzati i rapporti tra il cittadino e la collettività in cui egli vive e lavora; nelle regole fiscali sono fissati i valori a cui si vuole ispirare quella convivenza; nelle regole fiscali è descritta l'immagine che una società dà di sé o, per essere più precisi, almeno in questo caso, quantomeno l'immagine che di quella società ha la sua classe dirigente pro tempore. Allora, è forse opportuno domandarsi quale immagine di questa società abbia questa maggioranza e questo Governo. Nel corso della discussione, al momento dell'esame degli emendamenti, affronteremo specifiche questioni tecniche, ma in sede di discussione generale forse è proprio opportuno spendere qualche minuto per cercare di capire che immagine della società italiana abbia questo Governo.
In primo luogo, per le famiglie sono assolutamente inutili gli effetti distributivi della riforma dell'imposta personale. Mi permetto di far presente una cosa all'onorevole Molgora: per quanti sforzi si facciano, che gli effetti distributivi siano evidenti e chiari lo desumiamo da tutte le audizioni che abbiamo svolto in Commissione, così come, francamente, anche ad un esame sia pure approssimativo del contenuto della delega. È chiaro che a regime ben più della metà delle risorse (che siano 20 o 25 milioni di euro, lo vedremo) finirà nelle tasche della parte più ricca della popolazione. Viceversa, per i soggetti meno abbienti la riduzione dell'imposta (quando ci sarà) sarà in assoluto una riduzione marginale.
Quale idea della società porta a lasciare inalterata la situazione di chi ha troppo poco per pagare imposte? Quale idea della società porta a versare un obolo nelle tasche dei contribuenti con reddito basso e medio e a concentrare i benefici sulla fascia che tecnicamente si definisce come opulenta? Non è tutto, perché all'obolo che viene versato nelle tasche dei contribuenti a reddito medio o medio basso si aggiunge poi il costo di una straordinaria complicazione (di cui credo voi stessi non apprezziate la rilevanza), in un sistema di deduzioni decrescenti al crescere del reddito. Francamente, pensare di semplificare riducendo le aliquote a due e poi invece introdurre un complicatissimo sistema di deduzioni che decresce al crescere del reddito, significa non apprezzare esattamente quello che si sta facendo.
Quale idea di società c'è nella volontà di concentrare i benefici sulla fascia che tecnicamente definiamo come opulenta? Onorevole Leo, il fatto che siano pochi, il fatto che siano lo 0,5 per cento della popolazione, non cambia i termini della questione: anzi, se possibile, li rende un po' più odiosi, per essere precisi. Soprattutto, quale idea avete del mercato del lavoro e dell'atteggiamento dei singoli nei confronti del mercato del lavoro? Avremo avuto bisogno di remunerare il lavoro, abbattendo pesantemente il carico fiscale sui redditi bassi e medio bassi e risarcendo gli incapienti, per ridurre al minimo il cuneo fiscale e gli incentivi al lavoro. Qui - mi consenta, onorevole Molgora - non possiamo dire una cosa e il suo contrario. Se da un lato diciamo che nel corso della passata legislatura non è diminuita la pressione fiscale, poi non possiamo dire che il problema degli incapienti c'era nella passata legislatura, perché questo problema - se riflette un po', ci arriverà


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sicuramente - si pone esattamente quando si riduce il carico fiscale e non a caso si è posto tre anni fa, proprio perché allora, nella passata legislatura, era stata avviata la riduzione del carico fiscale.
Esattamente per questi motivi era opportuno un intervento in senso esattamente opposto. Si trattava proprio di intervenire sulle fasce più delicate del mercato del lavoro, di ridurre il cuneo fiscale proprio per far sì che i nuovi entranti e, soprattutto, la forza lavoro meno qualificata potessero veder premiato il lavoro e quindi potessero accedere al mercato del lavoro sapendo che gran parte del frutto del lavoro stesso non sarebbe stato poi prelevato dal fisco. Invece, si premiano i pochi che già hanno molto, nella speranza così di convincerli a creare posti di lavoro ai quali però non converrà più accedere, per i motivi che ho appena detto; una speranza peraltro già andata delusa negli anni '80 e che viene qui riproposta, sembra quasi più per superficialità e pressappochismo che per convinzione.
Che immagine ha questa maggioranza del mondo delle imprese, un mondo peraltro ha contribuito molto a farne, appunto, la maggioranza?
Il caso della tassazione delle imprese è il caso di una proposta quasi esclusivamente - forse dovrei dire esclusivamente - redistributiva, in cui si spostano risorse da una parte all'altra del mondo delle imprese. È questo l'aspetto erroneo dell'argomentazione dell'onorevole Leo, che avrebbe dovuto tenere conto, oltre che di chi trae vantaggio - qualcuno certamente c'è - da questo spostamento, anche dei tanti che invece ci perdono. Ci perdono, ad esempio, le imprese innovative, quelle più dinamiche, le imprese nuove e, quindi, soprattutto quelle presenti nel Mezzogiorno, le quali avrebbero certamente pagato di meno. Francamente, i numeri sono quello che sono: il 19 per cento è una percentuale più piccola del 33 per cento, di solito (Commenti del deputato Leo)!
Forse, l'immagine che questa maggioranza ha dell'economia del paese è quella di un'economia senza imprese, perché credo sia fin troppo visibile il disegno, inscritto nella delega, di una riforma che appartiene quasi esclusivamente al campo della finanza più che dell'economia reale, intesa a trattenere in Italia chi detiene e gestisce partecipazioni finanziarie piuttosto che chi trasforma, produce, investe e sta sul mercato. Si tratta di un disegno che subisce, se così posso dire, la sfida della concorrenza fiscale in sede europea piuttosto che affrontarla, ma che simultaneamente si arrende di fronte alla sfida della concorrenza sul piano produttivo, una concorrenza che il sistema che questo provvedimento intende cancellare aveva cominciato ad affrontare, come testimoniano anche alcune analisi - tra tutte, ho in mente soprattutto quella elaborata dalla Banca d'Italia -, che segnalano la relazione chiarissima e l'impatto che la DIT ha avuto nel promuovere le attività del settore più dinamico e a maggiore produttività del paese.
Signor Presidente, questi giorni i quotidiani sono pieni di anticipazioni sulle evoluzioni future del provvedimento al nostro esame: pare che si partirà dai redditi bassi, estendendo l'area di esenzione fino a poco più di 9 mila euro, e si procederà anche a ridurre l'aliquota IRPEG sotto l'attuale 36 per cento. Ora, tutti ricorderanno che questi due elementi erano esattamente contenuti nella legge finanziaria per il 2001. Non so come dire, ma - perdonatemi il termine - c'è qualcosa di umiliante in un'attività di governo che cancella quanto già fatto per poi riproporlo, identico, sotto un altro nome. È il segno di un'impotenza intellettuale da parte vostra, prima ancora che politica ed amministrativa, un'impotenza intellettuale chiara - credo - nelle parole dell'onorevole Molgora, il quale ha fatto un intervento più da opposizione che da governo, criticando ciò che è stato fatto piuttosto che avanzando la sua idea del mondo...

DANIELE MOLGORA, Sottosegretario di Stato per l'economia e le finanze. È scritto tutto qua!

NICOLA ROSSI. Ma è chiara anche in molte delle discussioni che abbiamo ascoltato


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precedentemente. Quando, tra quattro anni, toccherà a noi sedere sui banchi del Governo, non imporremo al paese una nuova doccia scozzese, come voi state facendo, fatta di annunci di riforme radicali di cui è dubbia, fin dall'inizio, la praticabilità. Ci accontenteremo di passare dall'umanesimo - si intende fiscale - all'epoca moderna, che già sarebbe tanto; non imporremo una riforma fatta in questa maniera, fatta cioè per il solo gusto di dare ad essa il proprio nome. Non imporremo alle imprese i costi di un mutamento radicale di regime (domandate loro quanto possa costare il gioco che si sta mettendo in campo), né illuderemo i meno abbienti per lo stesso motivo. I nostri interventi, che troverete in gran parte già negli emendamenti presentati, saranno interventi mirati, intesi a ripristinare, in primo luogo, un'idea diversa del paese, diversa dalla vostra: un paese capace di premiare il lavoro, tanto quello dei lavoratori quanto quello degli imprenditori, e non semplicemente un luogo dove permettere ad alcuni simpatici vecchietti europei di «svernare» per godere la loro ricca pensione.
Si passa alla storia tributaria non perché si realizza una qualunque riforma, ma solo se si è capaci di interpretare lo spirito dei tempi e di fare del fisco uno strumento di crescita economica, sociale e civile del paese: purtroppo, non è il caso di questo Governo (Applausi dei deputati del gruppo dei Democratici di sinistra-l'Ulivo).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Santagata. Ne ha facoltà.

GIULIO SANTAGATA. Signor presidente, la ringrazio. Preliminarmente, vorrei segnalare, come già ha fatto il collega Benvenuto, una assoluta insoddisfazione sulla qualità della delega per la mancanza di precise indicazioni e di chiari limiti alla delega stessa, che finisce per configurarsi quasi come una delega in bianco al ministro dell'economia.
In Commissione, con una battuta, si era affermato che, procedendo di questo passo, il Governo ci presenterà, prima della fine della legislatura, un provvedimento con cui si delega il Presidente del Consiglio a ricercare la felicità per tutti i cittadini. Siamo di fronte ad una questione di difficile valutazione proprio per la sua indeterminatezza.
Quanto al merito della questione, se ho capito bene, leggendo la relazione al provvedimento in esame, due motivazioni - per la verità, in gran parte condivisibili - muovono questo disegno, questa grande riforma: la prima, quella di accrescere la competitività del sistema fiscale italiano, dato che imprese e capitali possono scegliere dove farsi tassare e la seconda (io la traduco in questa maniera), quella di ridurre il carico fiscale sui cittadini e sulle famiglie nell'ipotesi che vi sia un'area di spesa pubblica con un basso moltiplicatore e con una bassa produttività. Entrambi questi obiettivi, in realtà, dichiarati in maniera più o meno esplicita, sono disattesi.
Il carico fiscale per le imprese non si riduce: la riduzione dell'aliquota IRPEG non copre le maggiori imposte dovute in virtù dell'armonizzazione ai parametri europei della base imponibile, anzi, la relazione tecnica evidenza un maggiore onere per le imprese di circa due miliardi di euro. Pertanto, mi chiedo dove salti fuori l'idea di un carico fiscale esagerato; se, portando l'aliquota al 33 per cento e armonizzando le basi imponibili, abbiamo bisogno di far crescere di 2 miliardi di euro il carico sulle imprese, evidentemente il combinato disposto della vecchia aliquota e dei vecchi parametri non era poi così disastroso per le nostre imprese. Comunque, si dice che la vera anomalia italiana sia l'IRAP, di cui si propone la progressiva eliminazione (cito testualmente). La capacità del ministro Tremonti di giocare con le parole nel caso dell'IRAP tocca un culmine dannunziano. Prevedere in una delega la sua progressiva eliminazione significa (non sono un giurista e tra l'altro sono alla prima esperienza in Parlamento, ma credo comunque di aver capito) impegnare il Governo ad eliminare l'IRAP entro la fine della legislatura; per quanto generoso possa essere con questa


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maggioranza, penso che ci limitiamo a lavorare nell'ambito della legislatura. Leggendo la relazione tecnica del provvedimento in esame, scopriamo che la riduzione prevista è di circa due milioni di euro e che, con questo ritmo, occorreranno 15 anni (quindi tre legislature) per eliminare l'IRAP.
L'Ulivo, che è, come noto, molto meno abile nella comunicazione (bisogna, peraltro, capire se si tratti di abilità comunicativa o di sfrontatezza, ma non vorrei entrare in questo argomento), propone solo la riduzione del 30 per cento, vale a dire un po' di più di quanto, in realtà, è stato proposto dal Governo. Non siamo però abili comunicatori! Abbiamo sbagliato a dire che volevamo solo ridurre del 30 per cento l'IRAP. Avremmo dovuto affermare che l'avremmo progressivamente eliminata.
Alla fine, se sommiamo la manovra sull'IRAP e quella sull'IRPEG, per le imprese il carico rimane immutato, con l'aggiunta di un'alea, mi verrebbe da dire di una probabilità crescente di addizionali regionali necessari a coprire i mancati introiti dell'IRAP.
Non cambia il carico complessivo, ma spariscono alcuni strumenti tesi ad utilizzare anche la leva fiscale in funzione di politica industriale, come faceva riferimento il collega Nicola Rossi; in particolare, mi riferisco alla DIT e alla legge Visco e agli effetti sulla capitalizzazione delle imprese che queste imposte inducevano, in particolare per le imprese più capitalizzate.
La riforma prevede, per le imprese con un migliore profilo tra capitale di rischio e capitale di debito, un aumento di imposta. Questo è il risultato finale!
Vengono quindi premiate, sì, in linea teorica le imprese più piccole, anche se non è più una questione di dimensioni. Credo che da tempo infatti la politica industriale - il presidente La Malfa può correggermi - abbia abbandonato la questione dimensionale quale aspetto dirimente in ordine alla qualità di impresa. Si puniscono le imprese più innovative e dinamiche, premiando invece quelle più statiche e tradizionali.
Un altro obiettivo strategico contenuto nella legge delega è quello di lasciare più soldi nelle tasche degli italiani: credo questa sia la traduzione giornalistica della questione. Si tratta di uno slogan di facile presa, che disegna uno Stato rapace ed avido che tiranneggia e taglieggia i poveri cittadini. Credo che questo, sotto il profilo comunicativo, vada bene. Tuttavia la legge delega non può non dirci tre cose fondamentali, per rendere credibile, e al limite accettabile, tale obiettivo: ovvero di quanti soldi si tratti, in cambio di quali spese e nelle tasche di chi si intende lasciare una quantità maggiore di soldi.
Per quanto riguarda l'ammontare, si rinvia alle successive leggi finanziarie; tuttavia, sia dalla lettura della relazione tecnica che dall'ottimo lavoro del Servizio bilancio, si evince una cifra tra i 20 e i 25 miliardi di euro. Una bella torta, di cui ci sfuggono però gli ingredienti. Dove possiamo infatti trovare 22 miliardi di euro in un bilancio che presenta già un rilevante avanzo primario? Segnali fra l'altro che l'azione di qualificazione, già intrapresa, e di rigore ha dato i suoi frutti.
Non credo si possa prendere per buona la favola del nuovo miracolo italiano, anche perché sono trascorsi quasi 12 mesi e, pur considerando le conseguenze della vicenda dell'11 settembre, non vedo una grande traccia di un nuovo miracolo italiano con tassi di crescita intorno al quattro, cinque per cento, attivato dalla leva fiscale.
Chiedo al rappresentante del Governo quali effetti stia producendo la legge Tremonti-bis. Mi sembra di aver letto di un calo del 4, quasi del 5 per cento degli investimenti nel primo trimestre. Come si giustifica, all'interno del Governo e della sua maggioranza, un tasso di crescita del 5 per cento che significa raddoppiare i flussi degli immigrati extracomunitari? Credo che questo tipo di ingrediente per preparare la torta possa essere abbandonato.


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Restano allora due strade: la riduzione della spesa sociale e lo spostamento di spese al di fuori del bilancio dello Stato. Mi sembra di poter affermare che da parte del Governo vi sia l'intenzione di percorrerle entrambe. Dello spostamento delle spese fuori del bilancio si discuterà la prossima settimana, allorquando si affronteranno le questioni del patrimonio e degli investimenti delle Spa. Dunque, la strada è già avviata. Ci occuperemo anche delle riforme e controriforme in tema di scuola e sanità. Mi sembra dunque che questi siano gli ingredienti fondamentali.
Resta la terza domanda, ovvero quella relativa alla individuazione dei destinatari della fetta più grossa della torta. È difficile fornire una risposta puntuale, visto che si attribuisce alle deduzioni il compito di garantire la progressività dell'imposta, pur in presenza di due sole aliquote. Non c'è alcuna indicazione chiara circa l'ammontare delle deduzioni e i redditi esenti. Tuttavia, tutte le simulazioni compiute da diversi centri studi - che venivano ricordate anche precedentemente - concordano nel valutare che al decile dei contribuenti più ricchi, - si badi non lo 0,5, onorevole Leo, che non prendete nemmeno in considerazione, affermando che si tratta soltanto di 134 mila contribuenti con un reddito superiore ai 200 milioni; parliamo del 10 per cento degli altri contribuenti più ricchi - è attribuita decisamente la fetta più grande della torta. Qualcuno stima si tratti di circa il 70 per cento dell'intera riduzione dei 42 mila miliardi di lire dell'operazione. Mi preoccupa tra l'altro, pensando a quanto diceva l'onorevole Nicola Rossi e alla vostra idea di impresa, un Governo che dichiari con nonchalance 132 mila contribuenti con un reddito superiore ai 200 milioni, ovvero lo 0,5 dei contribuenti.
Questa è una roba da terzo mondo, non da quinta o sesta potenza industriale! Scopro che con il mio reddito da parlamentare faccio parte dello 0,5 per cento dei super ricchi, in un paese con 4 milioni di imprese!
C'è comunque questo 10 per cento dei contribuenti che si «becca» il 70 per cento della torta, una torta prodotta con meno sanità e meno scuola, che verrà mangiata dai contribuenti più abbienti. Questo è il punto, in estrema sintesi: se mi mettessi anch'io sul piano della comunicazione (che era, tra l'altro, un mio vecchio pallino), mi verrebbe da scrivere così sui giornali - pochi, peraltro - vicini al centrosinistra. Una gran bella riforma.
Eppure io credo si possa e si debba ridurre il carico fiscale e sono d'accordo sul fatto che si debba cominciare dalle famiglie - ovviamente da quelle meno abbienti - e gli emendamenti presentati dall'Ulivo dimostrano la fattibilità di questo obiettivo. Ma su questo argomento torneremo domani.
Tuttavia, per fare tutto ciò esiste una precondizione, che è necessaria per qualsiasi riforma fiscale nel nostro paese e che nella legge non trovo neppure citata: la lotta all'evasione. I dati sulle entrate di questi mesi, il flop dei provvedimenti sull'emersione ci dicono che abbassare l'attenzione sul tema dell'evasione è stato un grosso errore. Questa idea, che voi contrabbandate, dello Stato rapace e la pratica del condono reiterato - vedi anche l'articolo 2 di questa legge delega - ci privano della leva principale per pagare meno tasse: pagarle tutti (Applausi dei deputati del gruppo della Margherita, DL-l'Ulivo).

PRESIDENTE. È iscritta a parlare l'onorevole Pistone. Ne ha facoltà.

GABRIELLA PISTONE. Signor Presidente, anche io rimango abbastanza stupita del fatto che il ministro oggi non abbia ritenuto opportuno essere presente in quest'aula. Qualora fosse stato chiamato ad impegni internazionali, avremmo anche potuto rinviare l'esame del provvedimento - come peraltro ha proposto il collega Nicola Rossi - ad un momento successivo all'incontro tra i sindacati e il Ministero dell'economia. Ciò non è avvenuto e, invece, ci troviamo di fronte ad una riforma sicuramente pericolosa, condita anche da annunci propagandistici, piena di proclami, senza concretezze, senza nessuna


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chiarezza rispetto ai principi, ai criteri e alle ricadute economiche, soprattutto alla copertura finanziaria, ai tempi e alle modalità applicative. Quindi, si tratta di una legge delega assolutamente vaga, indeterminata, non definita. Ciò è tipico di questo Governo, non è affatto tipico delle leggi delega.
Voglio iniziare ricordando che, come sappiamo tutti, la progressività è un principio costituzionale. In questo provvedimento si propongono due sole aliquote (23 per cento e 33 per cento) e si dice che la redistribuzione e la progressività vengono garantite attraverso altri strumenti, come le deduzioni; tuttavia, il campo delle deduzioni è lasciato nella più totale indeterminatezza e vaghezza.
Sostanzialmente, tutto ciò - rispetto agli enunciati in nostro possesso - si tradurrà in un modesto vantaggio per la popolazione povera, attraverso - come è stato già indicato dal Governo di centrosinistra - un'elevazione della soglia di esenzione fino a diciotto milioni di lire (per sentito dire, perché nulla è stato definito), un danno ai contribuenti con redditi medi ed un gigantesco vantaggio a carico dei contribuenti più ricchi, categoria alla quale tutti noi apparteniamo.
Un reddito di 350 milioni annui - l'ha affermato anche il relatore di minoranza, onorevole Benvenuto - otterrebbe un regalo di 50 milioni di vecchie lire come minore imposta. Tale cifra, ovviamente, cresce con l'aumentare del reddito. È stato affermato che i ricchi sono pochi, rappresentano solo lo 0,5 per cento. Peggio!
Questa legge delega rappresenta un proclama in cui liberismo e populismo diventano una miscela esplosiva. In ogni caso, non agiscono mai insieme, perché, di fatto, il Governo è populista solo mediatamente - nei suoi annunci - ma vuole essere liberista nelle azioni.
L'aspetto molto grave di questo disegno di legge riguarda il tentativo di colpire un modello culturale fondato sulla coesione, sull'eguaglianza, sulla solidarietà. Ancora più preoccupante - a mio avviso - è che questa riforma, oltre a non rispondere ai principi d'equità (quindi questa controriforma), espone il nostro paese ad un rischio elevatissimo, ossia la perdita di gettito. Le enormi perdite di gettito sono evidenziate, nelle diverse voci, non solo da noi, ma anche dal dossier, realizzato molto bene dagli uffici della Commissione bilancio. Questo, in assoluto, è l'aspetto più grave di tutta la riforma, perché chiaramente crea un'indeterminazione ed un'indeterminatezza nel modo di far fronte alle perdite gigantesche di gettito che deriverebbero da un'operazione di tal fatta.
Se ciò avvenisse, si comprometterebbero, definitivamente ed inevitabilmente, il finanziamento dei servizi e delle prestazioni sociali e l'incremento dello sviluppo nei diversi settori. Tutto ciò per far fronte al minor gettito che rischia di raggiungere risultati disastrosi, non solo rispetto a settori tradizionali a noi cari, che difendiamo (la sanità pubblica, la scuola pubblica, i servizi pubblici), ma anche rispetto al mondo delle imprese e alla qualificazione delle stesse, sostanzialmente, compiendo un'operazione esclusivamente di finanziarizzazione e non di fiscalità.
Quindi, vi sarebbero tagli, ovviamente, anche al finanziamento della ricerca, dello sviluppo e della formazione, settori fondamentali per la crescita e lo sviluppo del paese.
Oltretutto, gli annunci che il ministro Tremonti ha affidato, in questi giorni, ai giornali si fondano su una ripresa economica la cui tempistica è assolutamente ignota a tutti: sulla sua imminenza o, almeno, prossimità, vengono avanzati dubbi persino negli Stati Uniti (pertanto, come si vede, rispetto all'ipotesi di ripresa economica, i dubbi crescono anziché svanire)!
In questo modo, si espone il nostro paese ad un rischio elevatissimo. Noi dell'opposizione abbiamo presentato una relazione di minoranza nella quale, sinteticamente, ma in maniera anche inequivoca, abbiamo espresso il nostro pensiero in materia fiscale. Ne riparleremo in dettaglio già domani, quando entreremo nel merito dei singoli articoli e delle proposte emendative ad essi riferite, le quali, se, con particolare riferimento all'IRPEF, tendono


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a reintrodurre elementi di progressività, nel loro complesso, fanno riferimento ad un moderno sistema di giustizia e di cittadinanza sociale, non a sentimenti di filantropia di stampo ottocentesco!
Ma vi è un altro grosso rischio: occorre evitare in tutti i modi che l'alleggerimento della fiscalità statale venga compensato da un aumento della pressione fiscale a livello locale, fenomeno che già si sta verificando in questi giorni, nelle regioni governate dal centrodestra come in quelle governate dal centrosinistra: l'IRAP e l'addizionale regionale IRPEF sono state aumentate, ad esempio, dalla Lombardia e dal Lazio. Ciò significa che il cittadino, lungi dal beneficiare di una riduzione del carico fiscale, è già alle prese con un suo aumento!
Al di là degli effetti propagandistici di declamazioni dal significato esclusivamente mediatico, la situazione reale, in questo preciso momento, per molti cittadini italiani, è, dunque, già quella di un aggravio del peso fiscale. Ma questo disegno di legge delega riserva amare sorprese non solo ai cittadini ma anche alle imprese: la riforma che concretamente proponete sceglie di disilludere la stragrande maggioranza della popolazione per avvantaggiare ancora di più i ricchi (appena lo 0,5 per cento, si è sentito il bisogno di precisare; ma il problema è che bisognerebbe accontentare, semmai, il restante 99,5 per cento!). D'altra parte, che la stragrande maggioranza della popolazione possa ritenersi contenta mi sembra altamente improbabile soprattutto se si ha riguardo alla vaghezza dell'intera operazione che il disegno di legge prospetta.

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Visco. Ne ha facoltà.

VINCENZO VISCO. Signor Presidente, nella mia lunga esperienza parlamentare ricordo discussioni generali su provvedimenti importanti durante le quali, effettivamente, vi era la possibilità di un dibattito, di un confronto, di una verifica delle posizioni dei vari gruppi, salvo appunto le differenze politiche. Purtroppo, devo dire che nel dibattito finora svoltosi su questo provvedimento, sia, in Commissione prima, sia ora in Assemblea, assistiamo ad una situazione veramente diversa e preoccupante. Infatti, qui sembra che siano venuti meno paradigmi comuni di riferimento, linguaggi comuni, cultura comune, anche sul piano tecnico, per cui le cose che si dicono sono esclusivamente basate su problemi strumentali e pregiudiziali, se non su livore falsificatore. Quindi, si potrebbero dire molte cose, ma, intervenendo in questo dibattito, io mi limiterò a poche e sintetiche considerazioni di carattere politico prima ancora che tecnico, lasciando da parte ogni commento su queste visioni trascendenti e metafisiche relative alla portata della riforma, che vengono avanzate da tutti voi, nelle quali si parla di svolta epocale, di rivoluzione o quant'altro.
La verità, onorevoli colleghi, se vogliamo stare ai fatti, è che questa è una proposta di riforma abbastanza modesta, abbastanza limitata rispetto alla precedente e riguarda pochi aspetti rilevanti del sistema, anche perché il grosso del lavoro era già stato fatto. La prima questione riguarda la natura di questa delega, che non è una delega. Questo voi lo sapete, il buon sottosegretario Tanzi l'ha più volte dichiarato con l'onestà intellettuale che gli è propria e, forse, con una qualche ingenuità politica di cui gli va reso atto (fatto positivo in questo mondo in cui spesso siamo costretti a muoverci). Il sottosegretario di Stato ha detto che questo è un manifesto, è un quadro di riferimento per il futuro ma poi vedremo quando, come e quanto riusciremo a fare, quali saranno i tempi, se ci saranno i soldi o meno. È evidente allora che c'è anche un problema politico: il fatto che voi oggi abbiate voluto incardinare questo provvedimento è strettamente legato alle scadenze elettorali prossime. Voi volete presentaravi al corpo elettorale dicendo di aver approvato una delega che riduce le tasse, rispettando, quindi, le vostre promesse. Poi, naturalmente, non direte che tutto viene rinviato a babbo morto - come si dice - cioè a qualche finanziaria. Non è poi un caso che, contemporaneamente, in questi


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giorni, si voglia portare in discussione il disegno di legge sull'immigrazione, che era stato lasciato parecchio tempo a giacere. Si tratta di un'esigenza tutta politica, che non ha niente a che vedere con gli argomenti di cui dovremmo discutere (in questo caso specifico, la riforma del fisco italiano). Inoltre, è impressionante come tutte le audizioni che noi abbiamo svolto in Commissione - e io sfido tutti voi a trovarne una sola favorevole o, comunque, che non elencasse una serie nutrita di perplessità e di opposizioni - siano passate come acqua sul mare, e mi sorprende anche che il dibattito accademico già in corso (e sono sei mesi o quasi che la delega è stata presentata), riguardante tutti gli aspetti della delega (un dibattito tutto critico), venga completamente ignorato.
Ora, poiché io tenderei ad escludere, onorevoli colleghi, che tutti i professori di scienza delle finanze d'Italia siano comunisti, forse vi dovreste preoccupare e, comunque, dovreste impiegare un po' del vostro tempo fisico ed intellettuale per ragionare sui motivi per i quali vi è un consenso generale nel parlar male di questo provvedimento.
Ma veniamo, quindi, ai contenuti specifici della delega. Trattandosi essenzialmente di un manifesto propagandistico, ci troviamo in una situazione di eccesso di delega in quasi tutti gli articoli.
Per quanto riguarda la codificazione, questa era già in corso alla fine della scorsa legislatura; pertanto, non mi sembra - onorevole Leo - una grande innovazione. Infatti tutti sapevamo che occorreva adottare non solo dei testi unici, bensì dei codici fiscali ed era proprio quello che stavamo facendo: si intendeva partire dai testi unici per arrivare poi ad una loro unificazione in un unico codice fiscale. Se leggiamo l'articolo 2, troviamo semplicemente la ripetizione, pedissequa, dei principi costituzionali di uguaglianza, legalità, capacità contributiva, così come delle regole di buona fede, affidamento, divieto di analogia e di retroattività: tutti principi e regole (già ampiamente disciplinati nella legge sullo statuto del contribuente), che non rappresentano dei criteri direttivi da legge delega, fatta eccezione per due elementi, entrambi molto negativi, riguardanti le sanzioni amministrative e penali. Queste infatti erano state radicalmente aggiornate, modificate e modernizzate - ed infatti funzionano perfettamente -, mentre adesso volete svuotarle ulteriormente.
Con riferimento all'articolo 3, riguardante l'IRPEF, vi è un eccesso di delega proprio su un aspetto che rappresenta il cuore della riforma (quanto cioè ciascuno deve pagare); vengono infatti indicate le aliquote, ma senza dire quali saranno le deduzioni e ciò non lo dite per un motivo molto semplice: non sapete infatti da un lato come far tornare i conti del gettito e dall'altro se avrete i soldi, oltre a non sapere come tecnicamente impiantare il discorso. Infatti abbiamo assistito ad una girandola di proposte o di ipotesi che vengono poi tutte rinnegate nel momento stesso in cui vengono avanzate; siamo quindi in presenza di un gravissimo caso di eccesso di delega.
Stesso discorso vale per l'articolo 5, riguardante l'IVA. È infatti privo di senso dire che si modificherà l'IVA, rifacendosi alle normative comunitarie, essendo ciò ovvio. Piuttosto dovreste dire in quali aspetti di tale imposta le modifiche dovranno avvenire, dal momento che in questa direzione un lavoro molto importante è stato già effettuato. Al riguardo, vi è poi un aspetto (nella delega), che è chiaramente contro ogni normativa comunitaria, laddove si tratta del rapporto tra accise ed IVA.
Altrettanto dicasi per gli articoli 6 e 7, che riguardano l'accorpamento, sotto un'unica etichetta, di imposte esistenti. In proposito, ho già avuto modo di fare della facile ironia, ricordando che quando l'attuale ministro dell'economia aveva bisogno di dire che le tasse in Italia erano cento, egli prendeva in considerazione esattamente tali tipi di tributi, cioè le accise, le concessioni governative e le imposte di bollo. Egli considerava tutte le voci relative ad esse (che sono ovviamente tante, pur essendo l'imposta solo una) e diceva che


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ciascuna di esse era un'imposta a sé stante; alla fine, dunque, egli le sommava arrivando a cento e diceva che era uno scandalo che ci fossero tutte queste imposte. Adesso, invece, egli compie esattamente l'operazione opposta. Egli prende in considerazione, infatti, tali forme di prelievo similari (ma differenti tra loro), le accorpa sotto un'unica etichetta ma non le unifica (infatti non ci dice come le unificherà). Ma proprio perché non dice come intende unificarle, siamo allora di fronte ad un eccesso di delega; qui siamo al banale gioco delle tre carte, siamo cioè a livelli molto bassi.
Mi soffermo poi sull'articolo 8, che contiene le disposizioni per la graduale eliminazione dell'imposta regionale sulle attività produttive. Ebbene, non corrisponde certo ad un criterio direttivo affermare semplicemente che in modo progressivo l'IRAP sarà abolita partendo dal costo del lavoro, in quanto ciò è privo di senso; voi dovreste invece specificare come, quando, dove, a partire da quali costi ed in quanto tempo intendete eliminare tale imposta. Non essendo così, è evidente la seria carenza presente: a tal proposito vi inviterei a consultare le precedenti deleghe di riforma, non solo quella attuata la scorsa legislatura ma anche quelle precedenti, dove qualche articolazione era ben prevista.
Vi è infine il problema della copertura: anche dopo gli interventi svolti in Commissione bilancio rimane aperto un problema micidiale, un problema costituzionale gravissimo, perché non possiamo approvare leggi che rinviano, per la relativa copertura, ad altre leggi. Questo è contrario a quanto sancito dall'articolo 81 della Costituzione, è contrario a ciò che la Corte costituzionale ha più volte detto, e sarebbe un fatto pericolosissimo. È ovvio che con la legge finanziaria si possono coprire altre leggi, ma è molto rischioso coprire con la stessa i decreti delegati, perché ciò significherebbe semplicemente dare al Governo la possibilità di non coprirli affatto.
Inoltre, anche questa vaghezza su tempi e modi rappresenta un aspetto molto preoccupante: in questo caso vi è un problema di responsabilità del Governo attuale rispetto a possibili governi futuri. Se infatti si programmano tali interventi per i prossimi quattro anni senza dire ora ciò che dovrebbe succedere in tale lasso di tempo, può accadere che, oggi, si stiano anticipando disposizioni che, eventualmente, potrebbero essere rese operative da un altro Governo o un altro ministro.
Veniamo ora al merito: sulla questione IRPEF sono già intervenuti tutti i colleghi. Ho ascoltato con qualche sbalordimento le argomentazioni svolte e vorrei che il sottosegretario facesse lo sforzo di ascoltarmi. Non so se in questo caso si sia di nuovo di fronte a una forma di propaganda; penso, comunque, che ci si trovi di fronte a cinismo e ad incompetenza, perché, colleghi, vi sono cose che sono scontate, ovvie. Chiunque abbia sostenuto un esame di scienza delle finanze sa che, se si istituisce un'aliquota unica, si produce una conseguenza precisa: a parità di gettito rispetto a situazioni con aliquote differenziate si ottiene un fortissimo beneficio per i redditi alti, un modesto beneficio per i redditi bassi ed una forte penalizzazione relativa dei redditi intermedi. Questo è un dato di fatto e voi non potete sostenere che tale effetto scompare in quanto le deduzioni sono concentrate sui redditi più bassi, perché esistono anche le aliquote. Le deduzioni possono solo in parte correggere tale effetto; l'onorevole Nicola Rossi, tra l'altro, vi ha ricordato che, se istituite detrazioni decrescenti, implicitamente state istituendo aliquote crescenti. Queste sono tutte cose acquisite. Perlomeno questi meccanismi elementari della tecnica tributaria non dovrebbero essere oggetto di dibattito: ciò che voi state tentando di attuare è quindi un'operazione redistributiva ingente, ed ognuno può farsi i conti sul proprio reddito. Noi abbiamo fatto tutte le simulazioni, comprese quelle relative alle tabelline distribuite recentemente dal relatore; a parte il fatto che per ottenere quei risultati scaturiscono altri 10 o 15 mila miliardi di perdita di gettito, l'effetto redistributivo non muta: tra il 50 e il 60 per cento a favore del 10 per cento più ricco e tra il 70 e il 90 per cento a


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favore del 20 per 100 più ricco. Il rimanente 70 per cento si ripartisce ciò che rimane. È così, non c'è nulla da dire o da fare, e dubito che oggi, in Italia, si abbia bisogno di questo tipo di redistribuzione.
Personalmente, non sono affatto un fanatico della molteplicità delle aliquote IRPEF: si può benissimo attuare una progressività per detrazione, ma ciò dipende dal livello dell'aliquota di riferimento; se si considera un livello del 23 per cento, chiaramente si attribuisce un vantaggio micidiale per coloro che, rispetto ad oggi, risparmiano 11 punti d'imposta e, per quanto vogliate compensare coloro che hanno un aggravio di cinque punti di imposta in presenza di redditi più bassi, alla fine il risultato è ovvio.
Per questo motivo noi pensiamo, invece, a schemi di imposta negativa. Anche in questo caso, voi vi ritenete tanto modernizzatori, ma vi siete mai chiesti come va modificato il welfare nell'ambito di un'economia quale quella che oggi abbiamo di fronte? Se si studiano questi aspetti, si constata che esiste un problema di controllo degli effetti disgreganti del capitalismo molecolare che si sta affermando. Tali effetti devono essere combattuti, fra l'altro - signor Presidente, mi avvio alla conclusione, ma ho ancora qualcosa da dire - con forme di erogazione monetaria, quale l'imposta negativa che, non a caso, si sta diffondendo in tutti i paesi, dagli Stati Uniti, all'Inghilterra, alla Francia e così via.
Signor Presidente, se ha la pazienza di farmi concludere, vorrei affrontare due aspetti concernenti i redditi da capitale e la riforma della tassazione delle imprese.
Per quanto riguarda la riforma della tassazione del reddito da capitale è un pasticcio inverecondo dal punto di vista tecnico, che creerà nuovamente possibilità di arbitraggio e di elusioni di tutti i tipi (anche in questo caso, basterebbe leggere qualche studio accademico) e, inoltre, è estremamente regressiva. Ho notato che non avete più evocato il fatto che, riducendo l'imposta sui depositi, favorirete i poveri. A tal proposito, anche se già ne ero a conoscenza, per essere più sicuro, ho esaminato la distribuzione dell'ammontare dei depositi in relazione alle varie classi di reddito. Dalle statistiche della Banca d'Italia emerge che - come è ovvio - i depositi sono fortemente concentrati presso l'ultimo decile di contribuenti (l'ammontare di gran lunga maggiore) e che i depositi bancari dei poveri sono bassissimi. Quindi, riducendo quell'aliquota si attuerebbe un'altra operazione di redistribuzione.
Infine, per quanto riguarda la questione dell'imposta societaria, voi proponete due operazioni di cui una, condivisibile come idea, riguarda la tassazione del gruppo. Si tratta di una riforma su cui il precedente Governo aveva lavorato e che poi non si è attuata per il semplice motivo che il mondo delle imprese non la riteneva prioritaria. Peraltro, al riguardo si può constatare come negli altri paesi i livelli di controllo volti a definire un gruppo siano molto più elevati.
Per quanto riguarda la parte restante, si tratta di un altro pasticcio concernente forme di neutralità tributaria molto minore con riferimento alle imprese societarie, sia perché, rispetto alla proposta di uniformare le aliquote sugli interessi, viene introdotta l'indeducibilità degli interessi stessi, (ed è singolare che, da un lato, si grida all'IRAP perché tassa gli interessi e, dall'altra, essi si rendono indeducibili in sede di imposta sulle imprese) sia perché, mentre si detassano le plusvalenze da partecipazione e, quindi, si rende l'Italia un paradiso fiscale (esattamente com'erano l'Olanda e altri paesi del genere), si impediscono altre operazioni di ristrutturazione che diventano costose.
A questo proposito, signor Presidente, ho preparato una tabella, contenente dati della Commissione europea, in cui riunisco le aliquote formali ed effettive, medie e marginali applicate alle imprese nei vari paesi con riferimento all'anno 2001 e da cui risultano cose interessanti.
Ciò in particolare in relazione alla riforma tedesca dove la tassazione rimane la peggiore in Europa e dove l'Italia mostra aliquote medie e marginali più basse di tutti i paesi concorrenti esclusa l'Irlanda, come è ovvio, e qualche paese


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scandinavo dove la dual income tax, che è un sistema di tassazione e non un incentivo (perché qui si parla senza sapere cosa si dice), è andata a regime. Quindi, se ci poniamo dal punto di vista della competitività delle imprese e della difesa del nostro paese, prima di abbandonare le cose fatte senza conoscerle ed averle studiate bisognerebbe, per lo meno, pensarci (Applausi dei deputati dei gruppi dei Democratici di sinistra-l'Ulivo e Misto-Comunisti italiani).
Chiedo alla Presidenza l'autorizzazione alla pubblicazione in calce al resoconto stenografico della seduta odierna della suddetta tabella

PRESIDENTE. La Presidenza lo consente.
È iscritto a parlare l'onorevole Lettieri. Ne ha facoltà.

MARIO LETTIERI. Signor Presidente, onorevoli rappresentanti del Governo, onorevoli colleghi, il dibattito sviluppatosi ha già evidenziato che questa riforma fiscale, al di là del dichiarato obiettivo ambizioso certamente condivisibile sul piano delle enunciazioni, si rivela, nei fatti e nell'articolato, come pura virtualità. Sono stati evidenziati anche macroscopici aspetti di incostituzionalità. Del resto, la lettura della relazione di accompagnamento evidenzia subito uno scarto tra le enunciazioni e l'articolato presentato all'Assemblea.
Dunque, si ha netta, dalla lettura del testo e della relazione, l'impressione di essere di fronte, come già ricordato dalla collega Pistone, ad una riforma manifesto. Si tratta di un manifesto che, come diceva l'onorevole Visco, risente di un'imminente campagna elettorale e, aggiungo io, anche della passata campagna elettorale. Infatti, il Governo di centrodestra si considera ancora in campagna elettorale. Non ha preso consapevolezza, invece, che ha il dovere di governare questo paese; continua ancora a fare propaganda. Certo, il Presidente Berlusconi si diverte in televisione ad elencare i provvedimenti approvati, ma non sa che di quei provvedimenti la gran parte non ha prodotto effetti, se non negativi, e alcuni provvedimenti sono di natura vergognosa. Mi auguro che i cittadini italiani li leggano e li approfondiscano.
Certamente, la riforma fiscale o, meglio, la pseudoriforma fiscale che stiamo per approvare, sarà propagandata nel corso dei mesi, ma non produrrà effetti. Infatti, come è stato già detto, non vi è copertura finanziaria. Al mio paese, piccolo paese della Basilicata, si dice che senza soldi non si canta messa, anche se devo dire che il ministro Tremonti è molto bravo a dire le sue giaculatorie.
I cittadini italiani aspettano riforme serie, concrete ed efficaci. Ciò non può avvenire e questa riforma sarà inefficace perché siamo vincolati dai conti pubblici che, in verità, non sempre rispondono ai desiderata di ognuno di noi. Certo, la previsione di due aliquote rispetto alle cinque attuali sembra allettante, ma pone enormi problemi che le norme proposte, a mio avviso, non risolvono.
Si prevede un'aliquota del 23 per cento per i redditi fino a 100 milioni di lire, ed un'aliquota del 33 per cento per i redditi superiori ai 100 milioni di lire. Sembra bellissimo e molto semplice, anzi facilissimo, ma così non è. Non lo è perché, come diceva poc'anzi l'onorevole Visco, la questione fiscale nel nostro paese è molto più complessa di quanto si creda o si voglia far credere.
Non vi sono bacchette magiche per nessuno e credo neanche per il ministro Tremonti. Del resto, basta vedere come le aspettative relative al provvedimento sull'emersione del lavoro nero siano state, finora, vanificate e frustrate; eppure, nel presentare quel provvedimento il Governo aveva promesso mari e monti e non vi sono stati né gli uni né gli altri: sono state avanzate soltanto centocinquantanove domande per emergere dal lavoro nero.
Intanto, mentre si promette un futuro paese di bengodi, con una generale riduzione della pressione fiscale, dobbiamo registrare - anche questo è stato detto e mi scuso se sono ripetitivo - un sostanziale aumento delle tasse per le imprese e,


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in generale, per i cittadini. Il Governo, infatti, con legge finanziaria approvata alcuni mesi fa, ha eliminato la restituzione del fiscal drag e la prevista riduzione delle aliquote: si trattava di una riduzione minima ma sussisteva, perché il Governo di centrosinistra aveva tenuto in conto l'andamento della situazione economica del nostro paese e, realisticamente, a partire dal 1998, aveva cominciato a ridurre le tasse. Nella passata legislatura non facevo parte del Parlamento ma così è stato e voi, con la legge finanziaria, avete eliminato anche quel minimo e realistico impegno che il centrosinistra aveva preso e mantenuto a favore dei contribuenti.
La prima considerazione da fare è che la delega non garantisce che in presenza della riduzione della fiscalità statale, ammesso che vi sia, ciò non comporterà un aumento di quella locale e regionale: se è così, si tratta di un imbroglio perché la fiscalità deve essere ridotta complessivamente e quella locale o regionale non deve essere né sostitutiva né aggiuntiva rispetto a quella statale. Su questo aspetto non è detta alcuna parola chiara e, quindi, non c'è certezza alcuna, neanche del fatto che la riduzione della pressione fiscale non comporti in seguito una riduzione delle politiche sociali e degli interventi per lo sviluppo.
La questione fiscale è assai complessa a causa del dovere costituzionale, civile e politico di mantenere un adeguato Stato sociale. Le due cose si devono tenere insieme perché - l'ho già detto in altra occasione - il nostro paese e la nostra Costituzione repubblicana sono segnati dal principio di fondo della solidarietà, che, per garantirla ed attuarla, necessita e richiede provvedimenti tali che portino al reperimento dei fondi. Tuttavia, la complessità deriva anche dall'elevato grado di indebitamento che ancora persiste nel nostro paese e vorrei ricordare che il macigno del debito pubblico ci induce ad avere il senso della realtà e non dei sogni. Nessuno di noi vuole rinunciare ai propri sogni, di un paese in cui le tasse siano ridotte per tutti; anzi, per anni ho sempre sostenuto un principio e mi auguro che si possa un giorno attuare, cioè quello di pagare tutti per pagare meno tutti. Quindi, il primo dovere di uno Stato - e, in questo caso, del Governo - è di fare in modo che i grandi evasori vengano individuati e colpiti perché nel nostro paese l'evasione fiscale è ancora enorme, si parla di 200 milioni di euro, cioè, se non ricordo male, di 400 mila miliardi di vecchie lire.
Comunque, questa riforma la si affida molto all'andamento del ciclo economico, dei conti pubblici e, ovviamente, ai vincoli comunitari. Lo stesso ministro Tremonti quando venne in Commissione - in verità, è venuto una sola volta - ha affermato che l'effettiva riduzione delle tasse statali vi sarà soltanto se il ciclo economico sarà fortemente positivo e se i conti pubblici saranno in regola ma, dalle notizie e dalle stesse decisioni adottate dal Governo in questi giorni, risulta evidente che, purtroppo, i conti non tornano.
Del resto, se così non fosse, perché l'altro giorno il Governo ha dovuto approvare il cosiddetto decreto «taglia deficit»? Ma di questo provvedimento non parlerò, se ne tratterà la prossima settimana.
Quindi, con questa delega promessa e manifesta tutto viene rinviato, tutto è condizionato. Il Governo chiede la delega per modificare la pressione fiscale nelle future leggi finanziarie, rinviando tutto alla verifica delle cosiddette compatibilità. Si tratta di una somma che si aggira, complessivamente, attorno ai 100 mila miliardi di vecchie lire; quindi, vi è un serio problema di copertura finanziaria che, oggi, il Governo non è in grado di affrontare e di risolvere. Infatti, per il nostro paese, tutte le previsioni relative al 2002 contrastano con quelle del Governo.
Senza tediarvi, vorrei semplicemente ricordare che la Commissione dell'Unione europea indica la crescita del prodotto interno lordo in un più 1,4 per cento, l'ISAE in un più 1,5 per cento, il Fondo monetario internazionale in un più 1,4 per cento e così via. Si tratta di dati che conoscete meglio di me. Certo, il ministro Tremonti ha risposto con la sua buona dose di ottimismo; tuttavia, quando vi è una coralità di previsioni negative che, sia


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chiaro, non mi fanno piacere, vuol dire che bisogna avere anche la modestia di rivedere i propri conti e le proprie previsioni.
Tuttavia, il ministro dice: datemi carta bianca. E questa legge delega è una richiesta di carta bianca da parte del ministro Tremonti. Mi riferisco al ministro Tremonti e non all'intero Governo perché in questo provvedimento si rinvia spesso a decreti ministeriali e non del Governo nella sua collegialità. Ciò, oggettivamente, costituisce un modo di procedere che mi preoccupa, per quanto concerne i rapporti di natura istituzionale non solo tra Governo e Parlamento, ma anche rispetto alla collegialità che, comunque, rappresenta una garanzia di democrazia e di maggiore valutazione.
Nel merito della proposta, non è stata fornita una chiara e convincente relazione tecnica né sono state fornite simulazioni applicative. Bene ha fatto l'ex ministro Visco a portare, in questa sede, alcuni dati, anche se ritengo che il ministro dell'economia questi dati già li abbia. Tuttavia, avrebbe dovuto sentire il dovere di presentarci delle simulazioni applicative, per far conoscere ai cittadini e al Parlamento chi, da questa riforma, guadagnerà e chi, invece, perderà o non guadagnerà nulla. Sono convinto che il ministro Tremonti sia a conoscenza di tali dati, in quanto i suoi uffici, i suoi tecnici e i suoi esperti hanno certamente effettuato le simulazioni. Ma, al Parlamento, queste simulazioni non sono state fornite, così come non è stata fornita l'indicazione precisa relativa alla tempistica attuativa. Tutto ciò mi sembra contrasti, anche a prima vista, con il principio generale della richiesta di delega.
Si dichiara semplicemente che la riforma avrà una graduale applicazione. Dunque, il gruppo della Margherita, non per provocazione, ha chiesto in maniera esplicita che il primo momento di applicazione di questa legge, se si dovesse attuare, debba interessare i redditi bassi e medi e le piccole e medie imprese. Si tratta di una richiesta esplicita e, al riguardo, prenderemo volentieri atto di una eventuale adesione da parte del Governo.
Ma, a questo proposito, il Governo ha finora taciuto; vuole una delega con il massimo di elasticità che consenta piena discrezionalità decisionale, senza i criteri stringenti e vincolanti e senza le priorità, i limiti e i tempi che dovrebbero essere contenuti in una vera legge di delega, così come richiesto dall'articolo 76 della Costituzione.
Mi preme sottolineare che tale discrezionalità comporta un vero e proprio esproprio della potestà legislativa del Parlamento. Io mi auguro che anche la Presidenza della Camera e la Presidenza della Repubblica valutino attentamente se vi sia o meno una violazione dei poteri del Parlamento.
Tuttavia, al di là di queste violazioni, vi è, certamente, il mancato rispetto dell'obbligo della copertura finanziaria, sancito dall'articolo 81 della Costituzione e dalla legge n. 468 del 1978, come è a tutti noto. Il Governo e la maggioranza ritengono di superare tale obbligo di copertura finanziaria con le prescrizioni dell'articolo 9 del provvedimento, laddove si dice che i decreti legislativi sono sottoposti al vincolo della sostanziale invarianza dei saldi economici e finanziari netti dei singoli settori istituzionali. Ma come si fa a stabilire ciò, quando le previste riduzioni d'imposta, come dice l'articolato, comporteranno oneri finanziari enormi, di dimensioni eccezionali? Come si fa a prevedere l'invarianza dei saldi economici? Certamente, si rinvia all'articolo 9 che prevede che, nel caso di eventuali maggiori oneri, il ministro dell'economia e delle finanze, dopo averne data tempestiva notizia al Parlamento, assuma le conseguenti iniziative, predisponendo un apposito decreto che, variando opportunamente le aliquote delle singole imposte, corregga l'andamento del gettito per ripristinare la situazione di invarianza.
Se si afferma ciò, vuol dire che il ministro è cosciente della mancata disponibilità finanziaria. E se ne è cosciente, non può avanzare una proposta di questo tipo, altrimenti offenderebbe se stesso e ingannerebbe i cittadini ai quali ha promesso una generale riduzione delle tasse.


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Ho già detto che il ministro si fa dare una delega in bianco e si riserva con propri decreti di intervenire. Perché lo fa? Perché trova l'avallo di questo Governo nel suo complesso. Perché il Governo Berlusconi dichiara - come dire - di prediligere la politica del fare a tutti i costi, anche se finora ha fatto molto poco e molto male. Quindi, questo Governo può anche non curarsi della Costituzione repubblicana e delle leggi; poco importa se è violata la Costituzione o se vengono calpestate e stravolte le leggi e le procedure; non importa se ci si appropria di competenze del Parlamento e delle regioni. Interessante è che si faccia. Ma cosa? Davvero si possono calpestare la Costituzione e le leggi?
Comunque, come è stato opportunamente ricordato, in Commissione abbiamo svolto moltissime audizioni in relazione alla portata di queste imposte e alla struttura del disegno di legge. Sono grato al presidente La Malfa e ai colleghi perché tali audizioni sono state utilissime anche per chi non è esperto della materia, come non lo sono io. Tuttavia, sono stato attento a ciò che hanno detto grandissimi studiosi, specialisti e professori universitari; da tutte queste audizioni, purtroppo, sono venuti avalli alle nostre tesi, alle nostre preoccupazioni e ai nostri dubbi. Avremmo voluto che il Governo ne tenesse conto, anche per una forma di rispetto verso le personalità - autorevoli professori, studiosi e presidenti di istituti di ricerca - che abbiamo audìto. Così, purtroppo, non è stato. Perché? Perché si preferisce mantenere la vaghezza della delega: le famose mani libere. Per fare cosa? Per continuare a fare quella propaganda elettorale che - ripeto - dovrebbe essere, ormai, archiviata: da parte di questa maggioranza e di questo Governo, vi è il dovere di governare il paese.
Comunque, noi del gruppo della Margherita e dell'Ulivo, nel merito, non abbiano obiezioni di principio alla riduzione a due delle attuali aliquote, anche se è bene ricordare che in Europa non è così: i grandi paesi europei ne hanno almeno tre. Non li citerò. Tuttavia, nessun paese europeo ha due aliquote, per quanto mi risulta.
Quindi, noi non abbiamo alcun pregiudizio. Tuttavia, vogliamo il rispetto del principio della progressività della tassazione, in ossequio all'articolo 53 della nostra Costituzione: l'eventuale non rispetto di tale principio creerebbe ulteriore ingiustizia nei confronti delle fasce più deboli del nostro paese. Pertanto, è doveroso fare in modo che la riforma corregga il prelievo soprattutto a favore di questi contribuenti, dei più deboli, dei lavoratori, dei pensionati, dei piccoli imprenditori, privilegiando quindi i redditi bassi e medi ed escludendo dalla tassazione tutti coloro che rientrano nella soglia di povertà.
Ma, anche qui, il Governo non ci dice quale sia la soglia di povertà, e quando lo dovrebbe dire? Una delega deve stabilire in maniera chiara quale sia questa soglia per poter poi adottare i provvedimenti conseguenti. Così dicasi anche per quanto riguarda la deduzioni: di certo in Commissione abbiamo migliorato il testo presentato dal Governo; tuttavia, le deduzioni andrebbero quantificate per assicurare il rispetto del principio della progressività. Pertanto, sarebbe opportuno che il Governo indicasse esplicitamente le quantificazioni, altrimenti deve essere chiaro che i dubbi sulla reale consistenza delle stesse e sugli effetti equitativi della riforma rimarranno tutti interi.
Altro problema, non secondario ma di prima grandezza, anche perché riguarda una fascia che purtroppo è l'ultima della nostra società, è quello degli incapienti. Vorrei che i cittadini italiani sapessero chi sono gli incapienti: si tratta di quei cittadini, di quei nostri concittadini, che non hanno la fortuna di avere un reddito, neanche un reddito da cui poter effettuare le deduzioni riconosciute agli altri. Di fatto, costoro vengono penalizzati due volte: prima perché non hanno un reddito minimo e poi perché di conseguenza non possono ottenere le deduzioni riconosciute agli altri cittadini che sono invece percettori di reddito. A costoro noi dell'opposizione proponiamo che venga riconosciuto


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un bonus almeno pari alle deduzioni previste per gli altri contribuenti. Naturalmente, la questione degli incapienti pone il problema più generale del lavoro, della disoccupazione nel Mezzogiorno, del mantenimento e del miglioramento dell'attuale Stato sociale che sarebbe certamente a rischio, con le minori entrate che verrebbero a verificarsi applicando questa delega.
Il Governo, ormai, almeno per quello che mi è dato comprendere dalla sua attività legislativa e dall'azione di Governo fin qui esercitata, mira ad avere uno Stato minimo perché i suoi referenti non sono gli incapienti, non sono i lavoratori: anzi, ai lavoratori si tenta di sfilare qualche diritto come quello dell'articolo 18 dello statuto dei lavoratori e ai pensionati si tenta magari di imporre i nuovi ticket sanitari. A mio avviso, i suoi referenti sono i forti, i ricchi, coloro che possono fare da soli e gli altri si arrangino pure! Oppure provvedano gli enti locali, le regioni, che per assicurare un minimo di Stato sociale e far fronte ai bisogni dei cittadini, sono spesso costretti a imporre le proprie tasse e i propri ticket. Questo è un gioco perverso che salverebbe le apparenze ma non inciderebbe sulla sostanza, cioè sulla effettiva riduzione delle tasse. Anzi, a mio avviso i rischi di un innalzamento della pressione fiscale a causa dell'andamento dei conti pubblici sono reali: le notizie di questi giorni e tutti gli istituti di ricerca ci dicono che l'andamento non è positivo ed infatti nelle regioni e in molti comuni le tasse stanno aumentando. Sono state citate la Lombardia, le Marche e tante altre regioni e comuni che hanno aumentato l'IRAP, hanno introdotto l'addizionale IRPEF e così via.
Non si salva l'animo questo Governo ricorrendo ancora alla favoletta del «buco». Per carità, non avverto certamente l'esigenza di difendere (perché si sa difendere meglio di me) l'ex ministro dell'economia, l'onorevole Visco, ma alla favoletta del «buco» ormai non credono più neanche i bambini in questo paese.
Ed allora, facciamola finita, una volta per tutte! Siamo realisti: guardiamo i dati e adottiamo provvedimenti responsabili, se volete, anche con il concorso dell'opposizione; quando esiste un problema reale, anche l'opposizione si deve assumere l'onere di contribuire a risolverlo. Ma non potete fare ancora demagogia: non è possibile continuare ancora a richiamarsi a questo presunto «buco» che, opportunamente, è stato dimostrato non esserci. Il deficit lo state creando voi: si sta creando per le minori entrate, come era prevedibile. Ho già citato, al riguardo, il provvedimento sull'emersione ed il suo fallimento ed altri provvedimenti, in particolare l'inefficacia della lotta all'evasione fiscale su cui, invece, continuo ad insistere.
Per tornare agli effetti della riforma (ammesso che venga attuata), ritengo che i suoi esiti distributivi non saranno soddisfacenti e non vi sarà un'equa redistribuzione nella riduzione del carico fiscale. I vantaggi - voglio ripeterlo anch'io - saranno certi per i contribuenti che superano i 100 milioni di lire di reddito annuale. Saranno sicuri, onorevoli colleghi e onorevole Presidente della Camera, per il ministro Tremonti, saranno sicuri per il Presidente del Consiglio Berlusconi, per tutti gli amici del Presidente Berlusconi e, se volete, saranno sicuri anche per noi parlamentari, e questo è un pessimo segnale che diamo al paese!
Il mio non è facile populismo: è una preoccupazione vera per una scelta sbagliata che non tiene conto dei redditi reali delle famiglie normali di questa nostra Italia. Abbiamo pensato allo 0,5 per cento della popolazione: ma scherziamo? Dobbiamo pensare all'altro 99,5 per cento della popolazione, quella gente che vive del proprio lavoro, sia di lavoro dipendente, sia di lavoro autonomo o di impresa, ma di una attività imprenditoriale condotta legalmente e seriamente! Dobbiamo pensare anche ai pensionati e ai giovani disoccupati! Ma qui il populismo non lo faccio io: lo si fa nel momento in cui, nella relazione di accompagnamento al disegno di legge, si pone un'enfasi eccessiva sulla famiglia e sulla sua centralità. E poi? Dove è la famiglia, dove è considerata nei fatti? Nei fatti, la tassazione


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continua a restare ancorata al reddito individuale: quindi, c'è una ambiguità proprio sulla natura della tassazione, perché si parla della famiglia, ma si tassa il reddito individuale.
Non so se i dati che circolano questi giorni sugli effetti terribili di questa pseudoriforma sui redditi del lavoratore medio saranno quelli che vengono qui declamati...

PRESIDENTE. Onorevole Lettieri, la invito a concludere.

MARIO LETTIERI. Ho concluso, signor Presidente: ancora pochi secondi. So soltanto che un cittadino che guadagna 200 milioni di lire verrebbe a pagare 28 milioni di tasse in meno e chi guadagna 500 milioni di lire risparmierebbe circa 100 milioni. E no: con 100 milioni, nel Mezzogiorno d'Italia, con un reddito di 30 milioni a famiglia, vivono 3 famiglie!
Ora, io ho il dovere di dire queste cose, e mi auguro che si sia ancora in tempo per correggere un'impostazione tutta finalizzata - ripeto - a vantaggio dei forti, dei grandi, delle grandi holding. Ciò presenta dei rischi. Il primo è quello di privilegiare queste classi che spesso non si sono dimostrate responsabili nei confronti del paese: voi avete privilegiato gli esportatori di capitale all'estero non facendo pagare loro niente quando hanno deciso di beneficiare di quella normativa sul rientro di capitali.
Avete approvato il provvedimento con il quale è stata eliminata la tassa di successione. Ma per chi? Per le famiglie normali, in questo paese, la tassa di successione non era più presente poiché era stata eliminata dai governi di centrosinistra. Vi era poi la fascia dei ricchi! La tassa è stata tolta per questi ultimi, ma sarebbe stato giusto che pagassero affinché si attuasse quella politica di solidarietà.
Voi avete privilegiato sempre i forti, anche con il provvedimento sul falso in bilancio. Non vuole essere un ritornello, ma, credetemi, abbiamo bisogno di aumentare gli investimenti ed il falso in bilancio è la negazione di questa sollecitazione; i pirati economico-finanziari potranno anche investire nel nostro paese. Ora si parla finanche della riforma del diritto fallimentare, con la previsione di depenalizzare anche la bancarotta fraudolenta. Non si andrà più in galera...

PRESIDENTE. Onorevole Lettieri...

MARIO LETTIERI. Concludo, signor Presidente. So benissimo di averla presa un po' alla larga. Credo che, a questo punto, non vi sia certezza di guadagno per i ceti medio-bassi né per le piccole imprese. Bene farebbe il Governo a compiere un atto di saggezza, vale a dire a ritirare il provvedimento in esame per discuterlo di nuovo in maniera più serena (Applausi dei deputati del gruppo Democratici di sinistra-l'Ulivo).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Agostini. Ne ha facoltà.

MAURO AGOSTINI. Signor Presidente, se l'argomento non fosse di questa rilevanza si sarebbe portati anche a fare dell'ironia sul fatto che, nei giorni scorsi, in Assemblea ma soprattutto fuori, sono volate, non parole grosse, ma concetti e categorie grosse. Si sono richiamati il pensiero della Scolastica, l'umanesimo, Descartes. Questa mattina, con mia sorpresa, l'onorevole Leo ha parlato anche di rivoluzione copernicana.
Se si volesse davvero fare dell'ironia, tornerebbe alla mente una scena di un film di Totò, credo fosse L'imperatore di Capri, in cui Totò viene invitato a cena da una matura signora necrofila, in una casa, quindi, piena di scheletri, di teschi e di bare. Ad un certo punto, la signora, presa da un empito di passione, dice a Totò: ci ameremo usque ad mortem et ultra. Totò le risponde: non esageramus (Si ride).
Anch'io, ascoltando questi concetti forti, inviterei a rimanere un po' più sul solito; credo, infatti, che non sia casuale che il Presidente del Consiglio, chiamato pochi giorni fa a rendere conto della mancata realizzazione delle sue promesse elettorali di fronte ad una assemblea di


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artigiani (credo che ciò sia abbastanza evidente anche se la stampa l'ha posta in un certo modo), abbia dovuto difendersi, provando a ragionare, anche se in maniera del tutto fuori luogo, sui conti. Lo ha fatto in una maniera sempre meno convinta e più confusa. È dovuto partire da un dato di fatto: lo stato della finanza pubblica.
Vorrei tralasciare il problema delle entrate una tantum su cui siete stati già richiamati dall'Unione europea e da altri organismi internazionali e su cui dovrete mettere mano, sottosegretario Molgora, nel prossimo futuro.
Ci troviamo di fronte ad una questione reale, quella che il Presidente del Consiglio affronta: una riforma così ambiziosa che costa, in termini di minore gettito, tra IRPEF ed IRAP, 45-50 miliardi di euro (non lo sappiamo con precisione), quindi circa 80-90 mila miliardi delle vecchie lire. È evidente, però, che una riforma di questo genere non può prescindere da una valutazione, di fronte al paese, del punto da cui si parte. Siamo assolutamente nel vago, nel vacuo spesso. Direi che siamo ancora più nel vago anche dopo la presentazione della relazione trimestrale di cassa.
Si continua burocraticamente e propagandisticamente a riproporre obiettivi che, in verità, si sa che non sono tutti più credibili, sia per quanto riguarda il rapporto deficit-PIL sia per quanto riguarda il tasso di crescita dell'economia.
Credo che allora si debba riproporre con forza nell'ambito di una discussione parlamentare, ovvero nella sede deputata a questo genere di valutazioni, il tema delle modalità di finanziamento di questa riforma. La riforma fiscale - lo accennava in precedenza l'onorevole Rossi - tocca un punto delicatissimo del contratto sottoscritto fra i cittadini e lo Stato. Proprio per queste ragioni, trattandosi cioè di uno dei punti costituenti di tale rapporto, credo occorra chiarezza e che non si possa continuare ad effettuare operazioni illusionistiche, cambiando continuamente le carte in tavola. Si vuole una riforma di destra? Lo si dica: si porti questa riforma di fronte al paese ed è probabile che una maggioranza di destra si registrerà nel paese, come vi è stata nelle elezioni dello scorso anno. Ma si dica ciò che si intende fare con questa riforma! Bisogna dirlo al paese! Volete una riforma di stampo reaganiano? Thatcheriano? Assestate di giorno in giorno gli aggettivi! Discutiamo: probabilmente il paese vi darà ragione; tuttavia, confrontiamoci oggi su questo aspetto, non sulle operazioni illusionistiche.
Invece da qualche settimana, apoditticamente si afferma, senza alcun riscontro concreto - dispiace che anche l'onorevole Falsitta si sia iscritto in questo partito - che si partirà dai redditi più bassi. Si tratta di una affermazione apodittica ed è stato già qui ampiamente argomentato da parte della opposizione che ha chiesto lumi su tale aspetto. Sembra tanto di trovarsi in una situazione simile a quella del bimbo colto con le mani nella marmellata.
Tutte le audizioni dei centri di ricerca in Commissione finanze della Camera, - è già stato ricordato -, hanno dato un risultato univoco (sto parlando dell'IRPEF in questo momento). Vi è stato un range, per quanto riguarda la redistribuzione, alla rovescia: i più ottimistici in ordine a questa riforma riconoscono una redistribuzione all'ultimo decile - come qui è stato ricordato -, del 57 per cento del beneficio; i meno ottimisti nei confronti della proposta della maggioranza parlano di circa il 70 o il 75 per cento a vantaggio dell'ultimo decile nella scala della redistribuzione del reddito. La conseguenza non è soltanto di carattere sociale, ma anche territoriale. Gli incapienti cui faceva riferimento il collega Visco e il collega Benvenuto stamani nel corso della illustrazione della relazione di minoranza, sono presenti in particolare al sud d'Italia: al nord vi sono gli altri. Vi è quindi anche una conseguenza indiretta dell'operazione che state portando avanti e che è assolutamente contro il Mezzogiorno. Ora dal punto di vista della Lega nord Padania e del suo rappresentante, onorevole Molgora, chapeau! Dal punto di vista del resto


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della maggioranza, qualche preoccupazione la nutrirei, perché su questo aspetto noi svilupperemo una nostra azione.
Siete stati colti con il dito nella marmellata non soltanto per le valutazioni che sono state espresse univocamente dagli istituti di ricerca nel corso delle audizioni tenute in sede di Commissione finanze, ma anche per il fatto - che continueremo a ricordare - che un grande regalo alle fasce forti del paese lo avete già effettuato attraverso l'abolizione dell'imposta sulle successioni e sulle donazioni.
Sia detto soltanto en passant: quanto sta costando all'erario la riforma della riforma sull'imposta relativa alle successioni e alle donazioni da voi adottata? Possiamo saperlo? Circolano infatti cifre assai diverse rispetto a quelle dichiarate nel corso della discussione parlamentare. C'è un incontro con i sindacati che vi siete affrettati a convocare: noi, come gruppo dei Democratici di sinistra-l'Ulivo. Vorremmo formalmente farvi una proposta e formalmente avere una risposta da parte del Governo nella replica: a noi parrebbe opportuno iniziare la trattazione di tale provvedimento, esauritasi la fase della discussione sulle linee generali, dopo l'incontro con le organizzazioni sindacali. Questo sarebbe comunque un elemento importante per acquisire anche la valutazione delle organizzazioni sindacali - CGIL, CISL e UIL - su questo provvedimento.
Noi siamo pronti, naturalmente, a continuare il lavoro parlamentare, a proporre un'inversione dell'ordine del giorno; poi vedremo quali strumenti regolamentari si potrebbero utilizzare per riempire comunque, con l'ordine del giorno che abbiamo, i lavori di queste due giornate, ma ci sembrerebbe importante avere prima una valutazione da parte delle organizzazioni sindacali e poi cominciare il dibattito nel merito del provvedimento.
Non affronterò una questione, di cui pure avrei voluto parlare, perché è stata puntualmente trattata dal collega Visco, vale a dire il fatto che un dibattito parlamentare debba comunque approdare ad un punto di chiarezza almeno sulle modalità di finanziamento (mi riferisco, in particolare, all'articolo 81 della Costituzione): è la legge delega che deve indicare i mezzi necessari per fare fronte agli oneri determinati dall'attuazione di un provvedimento, attraverso i decreti legislativi, e su questo vi è una giurisprudenza concorde ed un orientamento costante. Anche a questo proposito vogliamo vedere come vi atteggerete concretamente e che cosa direte nella replica.
Vorrei soffermarmi qualche minuto sull'IRAP perché, vedete, qui ci sono due problemi molto importanti. Il primo è: come si finanzia la progressiva abolizione dell'IRAP? Difetterò di comprensione, ma ancora non ho capito, sottosegretario Molgora, e credo che come me non abbia capito molta parte del paese. Nella relazione tecnica avevate detto, se non ricordo male, che il primo intervento sarebbe stato per circa 4 mila miliardi di lire e sarebbe stato finanziato con il gettito dell'IRPEG; poi, a fronte di una specie di mezza rivoluzione che è intervenuta sugli organi di stampa, in particolar modo ad opera di un importantissimo portatore di interessi che riscuote grande ascolto da parte del Governo - mi riferisco a Confindustria, naturalmente - la questione è stata completamente sfumata.
Allora, la prima domanda è: l'IRAP vorrà progressivamente abolita? Se sì, in che modo? Questa abolizione verrà finanziata attraverso l'IRPEG? È dunque ancora valida quella considerazione? L'incremento del gettito dell'IRPEG dovrebbe quindi compensare la riduzione del gettito dell'IRAP? Se così non è, come verrà finanziata, con quali altri strumenti? Attraverso le leggi finanziarie, anno per anno, con un buco ulteriore nei conti dello Stato? Oppure, alla fin fine, si finanzierà con l'IRPEF, che oggi ormai, sostanzialmente, è un'imposta sul lavoro? Credo che questa sia una domanda non indifferente per poter procedere nell'analisi di questo provvedimento.
Ma veniamo alla seconda questione relativa all'IRAP. Il sottosegretario Molgora stamattina ha detto che voi siete particolarmente interessati alle piccole e


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medie imprese, soprattutto alle piccole, per la verità. Allora, ci sono dei nostri emendamenti - come accennavano anche altri colleghi - che vanno chiaramente nella direzione di differenziare, proprio nel percorso di progressiva abolizione dell'IRAP, le piccole e medie imprese dalla grande impresa. Ci sono alcuni dei nostri emendamenti che vanno esattamente in questa direzione! Se invece, imboccate la strada che voi avete proposto, vale a dire quella di una riduzione dell'IRAP passando attraverso l'estromissione dalla base imponibile del costo del lavoro, voi fate un'operazione esattamente opposta rispetto a quella che sbandierate come obiettivo!
Sarò più esplicito. Voi ammiccate al popolo delle partite IVA e della piccola e media impresa parlando di abrogazione graduale dell'IRAP, ma, nella realtà, con il provvedimento che avete portato in aula, se si inizia, come si inizia, dall'esclusione dalla base imponibile della componente lavoro, questa esclusione non farà che avvantaggiare quelle imprese in cui la quota del lavoro sul valore aggiunto è notevolmente superiore, vale a dire la grande impresa. Allora raccontateci una storia sola, per favore! Raccontatela al paese! Poc'anzi, provocatoriamente, dicevo: volete una riforma di destra? Ditelo al paese! Può darsi che sarete in maggioranza, ma dite esattamente come stanno le cose, non continuate con il gioco delle tre carte, compresa l'IRAP, su questi due punti, che sono fondamentali!
Noi, invece, vogliamo partire da una riduzione che interessi la piccola e media impresa ed i professionisti. Ci state o non ci state a questo discorso?
Una terza considerazione riguarda l'imposta sulle società. A questo proposito, rilevo solo un aspetto, forse due. Il primo riguarda la DIT. Questa tassa, durante le audizioni in Commissione - di cui, in primo luogo, va dato merito al presidente La Malfa -, è stata difesa da parte della generalità dei soggetti interpellati. La DIT non è altro che una modalità dell'applicazione dell'aliquota dell'IRPEG; è diventata una caratteristica strutturale del sistema fiscale italiano. Non so, onorevole Leo, quanti, fino ad oggi, ne abbiano beneficiato. Credo, tuttavia - e ne riparleremo -, che i dati offriranno ragioni differenziate. Esiste una potenziale platea di 3 milioni e mezzo di imprese che può usufruire della DIT: società di capitali, società di persone, imprenditori individuali naturalmente a contabilità ordinaria. All'inizio, possono esservi stati degli impacci, ma era stata compiuta una scelta, quella della patrimonializzazione dell'impresa e della detassazione degli utili reinvestiti. Quella era la detassazione degli utili reinvestiti, non la Tremonti-bis.
Mi avvio alla conclusione con un'ulteriore considerazione. Vi richiamate alle riforme degli anni ottanta di Thatcher e Reagan (non sono esattamente la stessa cosa, ma forse un giorno ci spiegherete a chi dei due v'ispirate). Vorrei aprire una parentesi su un aspetto che ritengo sia stato sottovalutato: la tassazione dei redditi finanziari. La tassazione del 12,5 per cento di tali redditi (conti correnti bancari o meno, come giustamente sosteneva precedentemente l'onorevole Visco) è un ulteriore elemento di ridistribuzione alla rovescia! Capisco che tale tassazione possa avere un senso in una fase di risanamento, soprattutto con riferimento ai titoli del debito pubblico, ma che senso ha in una fase a regime, proprio con quell'impianto che date alla tassazione sulle società, una sorta di circuito chiuso con riferimento al gioco di plusvalenze e minusvalenze? Il punto sarebbe stato quello di una tassazione al 18 per cento, se vogliamo applicare la prima aliquota dell'IRPEF oggi esistente, o al 19 per cento, se vogliamo guardare al resto dell'Europa e agli elementi di coordinamento e di armonizzazione delle politiche fiscali. Con la tassazione dei redditi finanziari al 12,5 per cento, insieme al privilegio che si offre alle holding e ai gruppi, emerge una certa idea del futuro dell'apparato produttivo italiano che dovrebbe essere fatto da un mix di piccole e piccolissime imprese e di imprese finanziarie che dovrebbero essere qui, in Italia, o venire ad investire nel nostro paese perché vi è una specie di


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paradiso fiscale, di finanziarizzazione della nostra economia, di lassismo delle regole di impresa che dovrebbero consentire di avere qui, a portata di mano, nel Mediterraneo, un'occasione di questo genere.
Il problema della competitività dell'impresa italiana è reale, aperto di fronte a tutti, Governo ed opposizione, dal momento che non è più possibile, fortunatamente, con la moneta unica, il gioco delle svalutazioni competitive.
Questo problema va affrontato scevri da intenzioni propagandistiche e senza l'idea di costruire una soluzione ai problemi dell'apparato produttivo italiano buttando il bambino con l'acqua sporca!
In questo paese, qualcuno è ancora interessato alla produzione? E alla dimensione di impresa? La voglia di fare impresa, in quel senso forte ed alto che connota la tradizione industriale del nostro paese, è ancora viva oppure c'è soltanto questo mix dell'impresa micro e della finanza che, in qualche modo, viene agevolata dalle vostre proposte di riforma?
Non so a quali liberisti degli anni ottanta vi ispiriate. Resta il fatto che questa riforma infligge un colpo sia all'orientamento che, in questi anni, aveva teso al rafforzamento dell'apparato produttivo italiano sia ai ceti intermedi. Non è un caso, cari colleghi del Governo e dell'opposizione, che nella relazione che accompagna il disegno di legge emergano bene solo due figure sociali: il povero ed il ricco. Di questo si parla nella relazione che accompagna il provvedimento (non nella relazione tecnica): del povero e del ricco. In mezzo, però, c'è il paese reale, che vi sfugge. Su questo cadrete nell'attuazione della riforma: sul versante produttivo e sul versante dei ceti intermedi! Su questi cadrete!
Non so quando riuscirete a realizzarla e non voglio neanche seguirvi in questo giochino dei rinvii (al 2003, al 2004 o al 2005). Vedremo. In ogni caso, che non basti una riduzione del prelievo fiscale apparirà chiaro proprio a quei ceti intermedi che si troveranno a fare i conti con un saldo negativo derivante, da un lato, dalle minori tasse che pagheranno e, dall'altro, dalle maggiori spese cui dovranno fare fronte per comprare servizi che lo Stato non riuscirà più a fornire, tanto da un punto di vista qualitativo quanto da un punto di vista quantitativo (mi riferisco, ovviamente, in primo luogo, alla sanità).
È su questo che le riforme degli anni ottanta hanno fallito. Hanno fallito sia Reagan sia la Thatcher: sul versante del debito pubblico, gli Stati Uniti (il più grande impero economico che, naturalmente, ha avuto la possibilità di scaricare il problema sul resto del mondo; il risanamento è stato successivamente attuato, non a caso, dalle forze progressiste), mentre la Thatcher ha smantellato il sistema dello Stato sociale ed ha realizzato quello che, a sinistra, con un'espressione forse un po' gergale, definiamo l'ipotesi dello Stato minimo.

PRESIDENTE. Onorevole Agostini...

MAURO AGOSTINI. Su queste cose vi sfideremo, perché siamo convinti che questa riforma abbia lo sguardo rivolto al passato. Essa non risponde, infatti, né ai problemi delle imprese italiane né a quelli dei ceti intermedi produttivi. Mi riferisco a tutti coloro che danno una prospettiva al paese con la loro voglia di intraprendere e di lavorare, anche svolgendo attività professionali, a tutti coloro che hanno voglia di far crescere l'Italia: saranno proprio costoro - i percettori di redditi tra i venti e i settanta milioni di lire - i più penalizzati!
Potrete anche perseverare nella vostra azione propagandistica; noi vi incalzeremo! Riproporremo ripetutamente gli argomenti che ci avete sentito esporre qui stamani, perché siamo convinti che al paese si debba parlare in maniera chiara e, soprattutto, che si debbano prospettare ai cittadini i rischi, non potenziali ma molto concreti, che operazioni di questo genere creano sul piano della coesione sociale e su quello della competitività.
Equità ed efficienza: noi continueremo ad ispirarci a questi due grandi concetti


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(Applausi dei deputati dei gruppi dei Democratici di sinistra-l'Ulivo, della Margherita, DL-l'Ulivo e Misto-Comunisti italiani)!

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Degennaro. Ne ha facoltà.

CARMINE DEGENNARO. Signor Presidente, chiedo l'autorizzazione alla pubblicazione del testo del mio intervento in calce al resoconto della seduta.

PRESIDENTE. La Presidenza lo consente.
È iscritto a parlare l'onorevole Grandi. Ne ha facoltà.

ALFIERO GRANDI. Signor Presidente, quando è cominciato l'iter di questo provvedimento, agli argomenti dell'opposizione sembrava contrapporsi una grande distrazione da parte del Governo e della maggioranza in Commissione. Poi si è verificata una cosa strana: il provvedimento è rimasto sostanzialmente immutato (sono poche le modifiche rispetto al testo iniziale), mentre sono cambiate le argomentazioni utilizzate per «impacchettarlo» e presentarlo.
Improvvisamente sono spuntati i redditi bassi, improvvisamente si è scoperto che con due aliquote si fa meglio che con una progressività maggiore, improvvisamente si è scoperto in sostanza che siamo di fronte ad una proposta diversa da quella precedente. Questo è solo un fuoco di sbarramento, se si preferisce una mascheratura propagandistica per cercare di mascherare quella che, a mio giudizio, non è una riforma, ma una controriforma. Contro, perché cerca di abbattere quello che il centrosinistra ha cercato di costruire, contro perché disarticola e capovolge la società e, anziché andare nella direzione delle priorità, dà a coloro che in questa società hanno meno bisogno. In questo tentativo di mascheratura, in questo cercare di raccogliere gli argomenti senza tradurli poi in norma, di cambiare il provvedimento, si sono distinti in tanti. Penso in particolare al relatore, che naturalmente è molto difficile contestare relativamente agli argomenti che sviluppa, peccato che gli argomenti hanno poca rispondenza con il testo della legge.
Cominciamo con ordine. C'è, ad esempio, una prima leggenda che riguarda il calo della pressione fiscale. Il collega Agostini ha ragione quando dice (l'ha detto poco fa) che non bisogna introdurre questo argomento perché si rischia di essere distratti dal rinvio periodico dell'appuntamento della riduzione della pressione fiscale. Tuttavia, forse, questo argomento andrebbe un attimo ricordato. La pressione fiscale si dice che calerà addirittura di 40 mila miliardi di vecchie lire a regime per certi aspetti (in particolare il reddito personale); resta il fatto che, al contrario di quello che dice il sottosegretario Molgora, che evidentemente non ha letto i dati dell'Istat e non legge Eurostat, mentre la pressione fiscale è calata nel 2001 in termini reali, il 2002 presenta un aumento della pressione fiscale; non solo non diminuirà, ma quest'anno tende a salire, ed è chiaro perché: la finanziaria del 2001 aveva programmato una riduzione del carico fiscale nel 2002. Certo, con la finanziaria sono stati introdotti miglioramenti per ciò che riguarda i carichi familiari, ma la somma, con il blocco di quello che era stato deciso - diminuzione delle aliquote -, con il blocco della restituzione del drenaggio fiscale, porta a questo concreto risultato. Mentre si parla di mirabolanti riduzioni fiscali in futuro, nell'immediato il Governo mantiene il prelievo e addirittura tende ad aumentarlo; e aumenta tanto più se guardiamo a quanto sta accadendo, in particolare, per iniziativa delle regioni e degli enti locali, che in questo momento hanno problemi dal punto di vista delle entrate. La promessa di riduzione fiscale è stato un punto forte della campagna elettorale - c'è stato una sorta di patto -; abbiamo visto la scena un po' ridicola, che gli italiani ricordano, degli impegni, presi dal Presidente del Consiglio, a ridurre le tasse senza riguardo ai conti, sapendo benissimo di non poterli mantenere, senza riguardo agli spazi reali di manovra dal punto di vista finanziario.


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Per questo, il centrodestra, il Governo, il Presidente del Consiglio, il ministro del tesoro, oggi rilanciano le promesse, sperando che gli italiani non si accorgano della differenza tra l'immediato, quello che sta concretamente succedendo loro, e quello che viene promesso per il futuro. Il Presidente Berlusconi si incarica di diluire nel tempo, rinvia al 2002-2003, probabilmente ha già scritto gli appunti che rinvieranno al 2004 perché i conti - anche lui lo sa benissimo - sono quelli che sono, il problema del buco ormai è talmente desueto che mi pare perfino difficile che qualcuno possa riesumarlo, ancorché falso, per poterlo usare come argomento a giustificazione; di conseguenza, siamo di fronte alla verità: il re è nudo. La verità è che queste promesse mirabolanti sono servite ad ottenere consensi, a scambiare il futuro con la realtà, per cercare di far dimenticare la dura realtà di oggi. Con la finanziaria per il 2002 - ve lo ricordo, lo ricordo al sottosegretario di Stato Molgora, che è qui tra noi - a chi chiedeva notizie sulla riduzione fiscale, si rispondeva rinviando al futuro collegato fiscale, a questa legge.
Ora, è il collegato che rinvia le scelte; probabilmente assisteremo al rimpallo tra DPEF, legge finanziaria e ulteriori appuntamenti, naturalmente nella speranza che i soldi arrivino per cominciare a far qualcosa.
Peraltro, essendo consapevole - ho ascoltato la radio questa mattina - del fatto che fisicamente il ministro Tremonti non è in grado di concludere il dibattito parlamentare, in quanto risulta che egli sia all'estero - e ringrazio il sottosegretario Molgora per la sua presenza e per aver risposto al relatore e alla relazione di minoranza (almeno dal suo punto di vista) -, mi chiedo se non sarebbe un atto dovuto, nei confronti del Parlamento, la presenza del ministro Tremonti nel concludere il dibattito parlamentare. Questa mi pare francamente una scelta necessaria, naturalmente non per diminuire il ruolo del sottosegretario, che è qui e che - ripeto - non posso che ringraziare, ma evidentemente perché il suo ruolo, nei confronti delle scelte di cui si sta ragionando, manifesta qualche difficoltà sia per ciò che riguarda gli impegni della manovra finanziaria e della garanzia dei conti, sia per quanto riguarda il merito delle scelte che verranno effettuate. La ragione di ciò è molto semplice - non me ne voglia il sottosegretario Molgora -: è il ministro che è delegato a fare cose, che nessun ministro del tesoro, nemmeno nei suoi sogni migliori, aveva mai immaginato di poter essere delegato a fare.
Passiamo, ora, al merito delle distanze politiche. Il ministro Tremonti, il Governo, il centrodestra millantano che questa sia una riforma. Al riguardo, ho già detto: questa è una controriforma. Lo è in quanto, per riuscire ad affrontare un problema di questo tipo, per riuscire cioè ad attuare operazioni che hanno questa dimensione, è necessario andare nella direzione di operazioni finanziarie a rischio; è questo infatti l'unico modo per sperare di finanziarne almeno delle parti, dal momento che non basta bloccare quello che c'era, riverniciarlo e chiamarlo in altro modo: occorre invece cercare di reperire risorse finanziarie. Ciò spiega le ragioni per cui ad esempio vengono inventati provvedimenti di finanza allegra - qualcuno dice fantasiosa, ma personalmente preferisco chiamarli di finanza allegra -, come il decreto-legge in materia finanziaria e fiscale, che cominceremo ad esaminare a partire da venerdì prossimo. Si tratta di provvedimenti che rinviano al futuro il problema del «buco», cioè della differenza fra entrate e uscite, dal momento che sono provvedimenti non finanziati. Essi rischiano quindi di riproporre per il futuro, a prescindere da chi governerà, e in particolare alle generazioni future, il problema di una differenza fra entrate e uscite. Questo è un primo grande problema, che ne reca con sé un altro, cioè inevitabilmente un intervento sullo Stato sociale, una politica dei tagli per cercare di reperire comunque le risorse necessarie, intervenendo in settori essenziali, che oggi richiederebbero semmai un allargamento della spesa.


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Ricordo che nel provvedimento, a tal riguardo, vi sono due passaggi illuminanti: uno, nel primo comma dell'articolo 3 ed un altro, molto più grave, nel primo comma dell'articolo 9, dove si stabilisce un rapporto molto preciso tra la riforma previdenziale e gli interventi di natura fiscale. Come a dire: prendi da una parte, ma lascia dall'altra. È del tutto evidente che soltanto per questi tipi di redditi vi sarà una valutazione complessiva di tutto quello che accade.
Che senso ha poi un provvedimento che afferma che i conti devono tornare in ogni parte (stabilendo dei rapporti fra i diversi aspetti), se non quello di chiamare in causa immediatamente i problemi della previdenza e, in futuro, il rapporto fra le minori entrate fiscali e le minori spese (inevitabili) dal punto di vista sociale?
Questo manifesto elettorale che promette tutto a tutti, elaborato dopo le elezioni per cercare di creare le condizioni per mantenere un consenso al centrodestra, in realtà pratica il contrario di quello che afferma, non solo perché cancella in modo irragionevole provvedimenti precedenti, ma soprattutto perché introduce un rovesciamento del sistema di tassazione: dà ai ricchi e nega la progressività.
La progressività non è soltanto la condizione di equità nel contributo di ciascuno e nella redistribuzione del reddito, ma è anche un principio costituzionale, e voi in Commissione avete votato contro ad una proposta emendativa - che mi auguro accoglierete in Assemblea - che ha semplicemente ripreso il principio costituzionale cercando di metterlo in capo alla legge, e in particolare ai suoi principi di carattere generale. Voi avete respinto un principio costituzionale, e lo avete accolto soltanto mettendolo in capo alle detrazioni ed alle deduzioni - salvo trasformare le detrazioni in deduzioni, come dice il provvedimento - come una sorta di raccomandazione a fare il meglio possibile, ben ricordando che il meglio può essere semplicemente una lira in più, come ho cercato di spiegare anche al relatore, onorevole Falsitta. Di conseguenza, è stato derubricato il problema della progressività, è stato ristretto semplicemente ai redditi bassi, è stato ristretto solamente ad uno strumento che, come ricordava il collega Visco, è solamente uno di quelli necessari per realizzare il criterio della progressività. Per di più, detrazioni e deduzioni non «reggono» da sole la progressività; vi è anche dell'altro, perché è inevitabile, soprattutto se si intendono concentrare le deduzioni sulle fasce di reddito più basse, che la progressività venga affidata anche ad altri strumenti, come gli scaglioni e la differenza nelle aliquote.
Il relatore al provvedimento, anche se dal suo punto di vista cerca di svolgere al meglio il lavoro che gli compete, evidentemente si deve essere preoccupato. Nel farlo, però, ha commesso qualche dimenticanza, che mi permetto ora di sottolineare: prima di tutto, egli non parla più di due aliquote, bensì, improvvisamente, di tre, il 23 ed il 33 per cento, e l'aliquota zero per coloro che non pagano, dimenticando che se si parla però di aliquota zero, quelle oggi vigenti sono sei, perché evidentemente alle cinque esistenti, per ragioni di equità, deve essere appunto aggiunta la stessa aliquota zero. Non si tratterebbe, quindi, del passaggio da cinque a tre aliquote, come dice la relazione, bensì del passaggio da sei a tre. Questo, però, è soltanto uno scambio di natura verbale, ed è una correzione che chiedo al relatore Falsitta di apportare rispetto al testo della relazione che accompagna il provvedimento ed anche rispetto all'illustrazione che di quest'ultimo ha fatto in alcuni articoli di stampa, per evitare che su ciò possa essere instaurata una facile polemica, come ora sto facendo.
Il vero problema è che le due aliquote, perché le aliquote in realtà sono due, non riescono a garantire la progressività, anzi ottengono il risultato che è stato prima ricordato da molti colleghi e, da ultimo, dal collega Visco. Io faccio i conti in un altro modo: oltre i 200 milioni di reddito, ogni 100 milioni, si hanno 12 milioni di tasse in meno. Questo lo dice la legge, nel passaggio dall'aliquota del 45 per cento a quella del 33 per cento. Per queste fasce di reddito, delle quali per un attimo non


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mi interessa nemmeno la consistenza, la legge indica con chiarezza quanto esse guadagneranno; ebbene, al contrario il provvedimento non indica la fascia di reddito esente. L'unico criterio che è indicato per i redditi bassi è il livello di povertà, e da ciò mi sembra di capire che si stia pensando ad una soglia di reddito esente esattamente pari a quella già oggi esistente: 12 milioni di vecchie lire. Sento però il ministro parlare al Senato di 20 milioni, anche se non si capisce se il riferimento è al monoreddito o al reddito familiare (se si tratta della seconda fattispecie non ci sarebbe, anche in questo caso, alcuna novità), nonché l'onorevole Falsitta che in diverse sedi, comprese le interviste, parla di una soglia di esenzione pari a novemila euro. Dico semplicemente questo: di tutto ciò nel provvedimento non vi è alcuna traccia. Si tratta di numeri al lotto! L'unico criterio di riferimento oggi certo è la quota di esenzione fissata a 12 milioni, quota che sale a circa 19 milioni per il reddito familiare qualora si abbiano due figli (uno sotto i tre anni, per essere precisi); l'unico punto di riferimento indicato è quello della soglia di povertà. Non vi è altro. Il resto sono solo chiacchiere, sono «palle», cose che non hanno alcuna dimostrazione. Naturalmente queste cifre potranno essere citate da qualche consulente del ministro; può darsi che il relatore le abbia viste, ma se le ha viste le deve allora allegare agli atti del Parlamento, le deve trasformare in emendamenti al disegno di legge, perché il provvedimento, nel testo attuale, non riporta alcuna indicazione per la soglia di esenzione. Questa è la ragione per la quale penso sia giusto che l'opposizione insista su emendamenti che elevino il tetto del reddito esente: penso che oggi 10 mila euro rappresentino un livello di quota esente ragionevole, ovviamente per il monoreddito.
Come ho detto prima, non solo sono previste in modo chiaro esenzioni per i redditi alti, ma si stabilisce in modo altrettanto chiaro che coloro che oggi pagano un'aliquota del 18 per cento avendo un reddito fino a 20 milioni, a seconda del modo in cui verrà stabilita la quota di reddito esente, rischiano di pagare di più (la differenza tra il 18 e il 23 per cento). Inoltre, il passaggio dalle detrazioni alle deduzioni mette seriamente a rischio le detrazioni previste oggi per i lavoratori, sia per quelli dipendenti sia, in parte, per quelli autonomi.
Il Governo non dice come intenda garantire un risultato che vada nella direzione dell'equità né che vi sarà equivalenza tra un modello e l'altro, anche perché, tra l'altro, persino tecnicamente è difficile andare in questa direzione. Semplicemente, il Governo si tiene le mani libere per quanto riguarda gli interventi sui redditi bassi, sia in ordine alla fissazione della quota esente sia in ordine al modo di intervenire sui redditi per i quali oggi è fissata un'aliquota del 18 per cento sia per ciò che riguarda il passaggio dalle detrazioni alle deduzioni. Inoltre, se facessimo qualche conto ulteriore, ci accorgeremmo che, con riferimento a redditi annui fino a 30-35 mila euro, in realtà, con questa riforma non vi sono benefici: è sufficiente rapportare il 23 per cento alle condizioni effettive di aliquota attuali.
Di conseguenza, ancora una volta, vi è un'altra dimostrazione del fatto che, anche nell'ambito della fascia dei redditi intermedi, tendenzialmente sono i redditi più alti ad avere eventualmente la possibilità di ottenere benefici.
Come è stato ricordato, vi è poi il problema degli incapienti che, in realtà, sono un'enorme massa di beffati, di gente presa in giro: viene aumentata l'esenzione, vengono aumentate le possibilità di detrazione, ma sappiamo benissimo che vi è una fascia crescente di redditi (dico crescente, perché, evidentemente, è crescente la fascia di reddito interessata) che non può beneficiare dello strumento individuato. Se non se ne può beneficiare, è come dire: ti darei un'esenzione fiscale, peccato che tu non abbia il reddito per poterne usufruire!
Allora, vi è un unico modo per intervenire nei confronti di coloro che appartengono a queste fasce di reddito: dare loro un reddito reale e integrare il loro reddito. Poiché attraverso altri strumenti


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difficilmente saremmo in grado di realizzare tale risultato, l'unico modo per fare ciò è predisporre un assegno, ove il trasferimento ad altri benefici non possa essere in grado di risolvere il problema. Certamente, tutto ciò va fatto con gradualità ed esaminando esattamente i conti, ma credo che, nonostante i provvedimenti sulle successioni, le misure sbagliate adottate con la Tremonti-bis e, soprattutto, gli interventi sui redditi bassi previsti da questa controriforma potremmo reperire le risorse, per cominciare con gradualità a fornire una risposta anche in questa direzione. Per i redditi più alti vi è la certezza della legge, per i redditi bassi e intermedi il Governo si tiene in tasca le scelte. In questo modo è del tutto chiaro cosa avvenga: semplicemente il Governo opera una scelta e decide di concedere all'opinione pubblica, volta per volta, secondo le spinte, le controspinte e gli atteggiamenti compassionevoli che saranno più convenienti, determinati risultati.
Allora, se esaminassimo il testo del provvedimento, scopriremmo che anche al Governo deve essere venuta qualche preoccupazione, se cerca di tranquillizzare l'opinione pubblica con una norma che, in sostanza, stabilisce che nessuno pagherà più di prima: se vi è questo pericolo, probabilmente, qualche problema ci deve pur essere.
Il Governo afferma che si parla solo di fisco nazionale, però il passaggio dalle detrazioni alle deduzioni apre un problema relativo al finanziamento delle regioni e degli enti locali che è molto minore di quanto non sia il problema del presunto superamento dell'IRAP.
Il collega Santagata ha ragione: a conti fatti, a 4 mila miliardi l'anno, siamo nell'ordine di 14-15 anni per il superamento dell'IRAP, tant'è vero che il servizio bilancio consiglia di rivedere la norma (stiamo parlando, ovviamente, di una conferma della scelta e non di ciò che io penso) in modo da mettere in equilibrio l'obiettivo di eliminarla con una fascia temporale di tre legislature (se tutto va bene) e, di conseguenza, con l'esigenza di avere un criterio di gradualità chiaramente incardinato nella norma.
Tuttavia, il problema dell'IRAP, prima ancora che un problema di tempi e di quantità, è un problema di finanziamento di un pezzo fondamentale dello Stato sociale. Dalle entrate dell'IRAP le regioni ricavano il 40 per cento del finanziamento della sanità. Chi pagherà ed in quale modo verrà soppiantata questa entrata? Andiamo pure con gradualità a 4 mila o a 5 mila miliardi l'anno, anche oltre la relazione tecnica di accompagnamento alla legge. Però, vi è un grande problema a cui va data risposta.
Il Governo non parla delle forme di finanziamento delle regioni e degli enti locali che, di questi tempi, credo comincino a rendersi conto cosa vuol dire la devolution di cui qualcuno ha parlato in questa maggioranza. Giustifica tutto ciò con il rispetto dell'autonomia: qui non c'è alcun rispetto dell'autonomia. Tale autonomia è negata dalla risoluzione n. 5 del dipartimento politiche fiscali del 2 aprile che ribadisce la riserva di legge sulla finanza locale. Di conseguenza, se la ribadisce, significa che qui si dovrebbe parlare anche del resto e non rinviarlo ad un momento successivo.

PRESIDENTE. Onorevole Grandi...

ALFIERO GRANDI. Signor Presidente, citerò molto rapidamente soltanto il problema riguardante la Tobin tax. Con uno di quei colpi di fantasia che cercano di distrarre l'attenzione - volgarmente si chiama gesto dell'ombrello, anche a Oxford si chiama così, credo - il Governo ha introdotto un'ipotesi di de-tax. La de-tax è un pezzo delle entrate del bilancio dello Stato che viene destinato ad altro. A parte la confusione della norma che il collega Patria prima ha bene indicato, anche se la soluzione che lui offre non è, a mio avviso, la migliore, basterebbe dire: «un'entrata nel bilancio dello Stato pari all'1 per cento viene destinata a» e tutti capiremmo di cosa stiamo ragionando evitando squilibri, iniquità e quant'altro. In


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ogni caso, non c'entra nulla con la Tobin tax. La Tobin tax è il tentativo di mettere sotto controllo i capitali finanziari, di tassarli lievemente in modo da disincentivare le azioni speculative, di fare, di conseguenza, cassa anche per operazioni di cooperazione allo sviluppo. Ecco la ragione dell'insistenza su una norma di questo tipo, ecco la ragione per cui dobbiamo andare in una direzione diversa.

PRESIDENTE. Onorevole Grandi, la prego di concludere.

ALFIERO GRANDI. Questa è la ragione per cui l'opposizione deve fare il possibile per bloccare questo provvedimento che è una controriforma. È un provvedimento sbagliato che ribalta la società e prende ai poveri per dare ai ricchi. È un carattere profondamente iniquo quello che lo caratterizza e credo che l'opposizione debba cercare in tutti i modi e con tutte le forme possibili di bloccare questo provvedimento e di impedirne l'approvazione (Applausi dei deputati del gruppo dei Democratici di sinistra-l'Ulivo).

PRESIDENTE. Non vi sono altri iscritti a parlare e pertanto dichiaro chiusa la discussione sulle linee generali.

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