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PIERLUIGI MANTINI. Onorevoli colleghi, la modifica della XIII disposizione transitoria della Costituzione che vieta agli ex-re di casa Savoia, alle loro consorti e ai loro discendenti maschi l'ingresso e il soggiorno nel territorio nazionale, nonché il diritto a ricoprire uffici pubblici e cariche elettive costituisce un momento di fondamentale rilievo nella nostra storia repubblicana.
Trattandosi di norma transitoria è ben logico che essa non debba essere considerata al pari di un vincolo costituzionale permanente né di un tabù intangibile, ma che ben al contrario essa si presta al giudizio della revisione storica e delle valutazioni di politica costituzionale di più alto valore.
Ma è proprio sotto questo profilo che è necessario fondare sui fatti della nostra storia recente il giudizio di opportunità ed il significato politico delle decisioni che ci accingiamo ad assumere.
Non è dunque in discussione un pregiudiziale ed antistorico ostracismo nei confronti dei Savoia quanto, piuttosto, il significato profondo di una scelta, le sue motivazioni, le condizioni che possono rendere possibile una tale decisione.
Nel corso del processo risorgimentale i Savoia divengono protagonisti quasi inconsapevoli del progetto di unificazione italiana. Come è noto, nel 1848 Carlo Alberto, detto «re tentenna», dopo svariate esitazioni entra in guerra con l'Austria con l'intenzione di ampliare i possedimenti del regno di Sardegna in Lombardia. Sconfitto, malgrado l'indomita resistenza di un corpo di volontari giunti dalla Toscana a Curtatone e Montanara (resistenza che
rese possibile l'unica vittoria della guerra nella battaglia di Goito), abdica a favore del figlio Vittorio Emanuele II, che firma l'armistizio di Novara con Radetzky.
La scelta istituzionale monarchica di una eventuale unificazione italiana non era certamente obbligata. Molte erano le concezioni che si confrontavano e scontravano in quegli anni e la monarchia sabauda non rappresentava lo spirito della nascente nazione italiana più di altre dinastie presenti nella penisola. Inoltre, l'idea repubblicana era espressamente difesa da alcuni dei principali fautori del nostro Risorgimento. Certamente, tuttavia, le dure sconfitte che accompagnarono i tentativi insurrezionali mazziniani tra il 1848 e il 1857 ridussero la forza di attrazione del movimento democratico e spinsero altri fautori dell'unità d'Italia, anche repubblicani convinti come Ferrari, ad accettare un accordo di compromesso con Cavour, l'unico che sembrava realisticamente in grado di guidare l'unificazione. Cavour ha i grandi meriti che tutti gli riconosciamo, e tra gli altri quelli di aver saputo opporre resistenza alla continua tentazione di Vittorio Emanuele di sostituirlo nella carica di primo ministro con il più docile e rassicurante conte Ottavio Thaon di Revel, e di aver saputo approfittare della grande opportunità costituita dalla spedizione dei mille di Garibaldi.
Di fatto, senza averlo chiaramente voluto e fino a poco prima previsto, Vittorio Emanuele II divenne re d'Italia il 17 marzo del 1861, giorno in cui si riunì a Torino il primo parlamento italiano, che votò - per acclamazione la Camera e con due soli voti contrari il Senato - la legge: «Il re Vittorio Emanuele II assume per sé e per i suoi successori il titolo di re d'Italia», dove il numerale II sottolineava nelle intenzioni della monarchia la continuità fra il regno di Sardegna e il nuovo Stato. Quali impegni diversi, richiesti dalla rinnovata situazione, prendeva su di sé il nuovo sovrano? Quali condizioni furono poste dagli italiani come contrappeso di questo inaspettato regalo che allargava ampiamente i domini della corona sabauda? Niente, perché il popolo italiano non era un popolo sovrano. Nella loro qualità di «regnicoli», sudditi di un regno, graziati di una costituzione concessa dall'alto, gli italiani non ebbero controparti per essere entrati a far parte del regno di Sardegna.
E i sovrani sabaudi dimostrarono negli anni seguenti che il loro potere non era subordinato alla volontà e agli interessi della nazione.
Tra gli episodi più gravi, ci fu la firma, da parte di Vittorio Emanuele III, il 26 aprile 1915, del patto di Londra per l'entrata in guerra dell'Italia a fianco dell'Intesa nel primo conflitto mondiale. Fu una decisione autonoma del re, una pugnalata alla maggioranza parlamentare assestata dal sovrano nelle maglie dello Statuto albertino, che gli concedeva il diritto di dichiarare guerra. Fu una scelta convintamente imperialista, che nulla aveva a che fare con il raggiungimento dei confini naturali che entrambe le parti in guerra ci avrebbero concesso in cambio della neutralità. Fu una scelta che pretendeva di proiettare la dinastia sabauda verso un radioso futuro di grandezza e un ruolo di primo piano nel dominio degli equilibri mondiali. Sappiamo bene che questi calcoli si rivelarono miopi e che il conflitto portò all'Italia non prestigio, ma morte e crisi economica. Sappiamo anche che la grande maggioranza della popolazione italiana non voleva la guerra e che manifestazioni di piazza, guerrafondaie e rumorose, ancorché decisamente minoritarie, furono irresponsabilmente fomentate dagli ambienti legati alla corte.
In seguito, il 30 ottobre 1923 lo stesso Vittorio Emanuele III diede l'incarico di governo a Mussolini, che attendeva a Milano, pronto a fuggire eventualmente in Svizzera, le conseguenze della marcia su Roma. La scelta della dinastia per il fascismo fu consapevole e ribadita in ogni atto pubblico fino al 1943. Il sovrano lasciò che il regime eliminasse le istituzioni e le pratiche democratiche sancite dallo Statuto, dalle elezioni al Parlamento stesso, sostituito nel 1939 da una sedicente Camera dei fasci; permise a Mussolini di detenere un potere assoluto, senza mai, per interesse prima e anche per viltà
durante gli anni della guerra, avvalersi delle proprie prerogative di sovrano. Non solo, il re si fregiò dal 1936 dell'augusto titolo di imperatore regalatogli da un'iniziativa tanto irresponsabile, quanto spietata di Mussolini. Il titolo di imperatore non impedì - e perché avrebbe dovuto? - a Vittorio Emanuele di operare scelte politiche coerenti con quanto fatto fino a quel momento e di firmare quindi senza porre obiezioni nella seconda metà del 1938 i regi decreti-legge che introducevano le leggi razziali.
Lo status di impero, lo sappiamo, fu pagato sul piano internazionale dall'Italia con un avvicinamento alla Germania nazista.
Il 10 giugno 1940 l'Italia entra in guerra a fianco dei nazisti nel secondo conflitto mondiale. Dalla corte neanche un sospiro. Nel 1943, dopo tre anni di guerra sanguinosa, con gli americani che si preparavano all'invasione e le bombe che cadevano ogni giorno sul suolo italiano facendo innumeri vittime, il re si accorda con il Gran consiglio del fascismo per trovarsi spalleggiato e giustificato nella decisione di rimettere il mandato a Mussolini. La scelta cade su Badoglio e con questi Vittorio Emanuele III impiega oltre un mese per trovare un accordo di pace con gli alleati. Alla fine, il 3 settembre firmano un armistizio che permette loro di presentarsi agli alleati come i garanti dell'accordo e di venire in quanto tali ufficialmente protetti. Peccato che per ottenere ciò il sovrano abbia sacrificato centinaia di migliaia di inermi «regnicoli», dando ad Hitler il tempo di porre sotto controllo la penisola; la guerra si sarebbe così protratta per una gran parte degli italiani ben oltre la data dell'armistizio. Inoltre, Mussolini fu sistemato dapprima a Ponza, poi alla Maddalena e infine in un ritiro dorato sul Gran Sasso, luogo dal quale lo trassero in libertà senza incontrare ostacoli i tedeschi dopo poche settimane. Il 23 settembre ebbe così inizio la sciagurata avventura della Repubblica di Salò con la violenza, gli eccidi e 7.500 deportazioni cui i repubblichini attivamente contribuirono.
Nel frattempo la corte si metteva in salvo in Puglia, zona liberata dagli alleati.
Il 9 maggio 1946 - ironia della storia, esattamente dieci anni dopo avere assunto il titolo di imperatore d'Etiopia - Vittorio Emanuele II abdicava in favore del figlio Umberto. Ciononostante, il 2 giugno 1946 la maggioranza degli italiani (il 54,27 per cento), con punte dell'80 per cento in regioni del nord come Veneto ed Emilia, sceglieva la Repubblica. Poi, con la Costituzione repubblicana, gli italiani da «regnicoli» divennero cittadini a tutti gli effetti: il regno di Sardegna spariva finalmente e al suo posto nasceva la Repubblica italiana. I Savoia portano abusivamente il titolo di re d'Italia, un onore che non hanno meritato e una mistificazione che li rende potenzialmente un fattore destabilizzante per la politica italiana.
Questo giudizio storico e politico non può essere alterato da convenienze o da superficiali ed estemporanee decisioni.
Per questo abbiamo proposto precise condizioni per il superamento del divieto costituzionale al rientro dei Savoia. Condizioni che riteniamo imprescindibili ai fini di un voto favorevole.
Abbiamo proposto che l'ingresso e il soggiorno nel territorio nazionale dei membri e dei discendenti di casa Savoia sia subordinato all'attestazione da parte dell'Archivio centrale dello Stato di aver ricevuto tutti gli atti ufficiali e di pubblico interesse emessi da Vittorio Emanuele III e Umberto II o comunque dalla Real casa e dagli organi dipendenti dal Capo dello Stato.
Esso deve essere inoltre subordinato all'attestazione da parte del Ministero dei beni e delle attività culturali, di aver ricevuto dagli eredi, a tale data, tutti i reperti archeologici ed i beni mobili aventi interesse artistico appartenenti al territorio dello Stato italiano così come dei beni appartenenti allo Stato italiano e trasferiti all'estero.
Esso deve essere infine subordinato al risarcimento, secondo modalità disciplinate con legge della Repubblica, dei danni subiti dalle vittime e dai loro eredi a causa della promulgazione del regio decreto-legge
5 settembre 1938, n.1390, del regio decreto-legge 17 novembre 1938, n. 1728, del regio decreto-legge 15 novembre 1938, n. 1779, e della loro applicazione.
Sono le leggi razziali che hanno prodotto decine di migliaia di vittime e danni gravissimi al nostro paese.
Sono responsabilità storiche che gravano sulla vita della Repubblica italiana e sui valori di civiltà che oggi, come e più di allora, alla luce dei conflitti razziali e delle minacce per la democrazia che affliggono il mondo, non possono non essere valori fondanti dei Parlamenti democratici.
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