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PRESIDENTE. Riprendiamo la discussione del Doc. LVII - n. 1/I.
È iscritto a parlare l'onorevole Gerardo Bianco. Ne ha facoltà.
GERARDO BIANCO. Signor Presidente, il 18 luglio, nell'audizione al Senato, il ministro Tremonti si è impegnato in una dotta discussione sulle dottrine delle verità; egli ha persino coniato un neologismo, «aletico», ha evocato l'autorità di grandi filosofi come San Tommaso e Nietzsche, dichiara di optare per il rigoroso concetto tomistico della verità come adaequatio rei et intellectus. Ma le confesso, signor viceministro, di aver trovato molto poco di aristotelico nei suoi successivi ragionamenti.
Infatti, come si può definire, se non contraddittoria e falsa, l'iniziale affermazione che il paese si trova di fronte all'alternativa tra un declino relativamente lento ed un possibile forte sviluppo? I dati lo smentiscono. E la smentita è venuta da lei, con maggiore onestà, signor viceministro, professor Baldassarri, allorché ha affermato subito dopo - cito le sue parole - che le tendenze dell'economia italiana evidenziano un andamento di crescita non irrilevante. Tale crescita è stata poi da lei giudicata insufficiente.
Se la stabilizzazione dei conti pubblici è proseguita secondo gli obiettivi programmati, se l'indebitamento dell'amministrazione pubblica in rapporto al PIL è risultato pressoché pari all'obbiettivo originario, se il rapporto debito PIL è diminuito fino all'obbiettivo programmato ed anche più, se, come testimonia la Corte dei conti, nel 2000 i risultati favorevoli dei conti pubblici sono da porre in relazione ad un consuntivo macroeconomico migliore delle attese - sono parole del presidente Manin Carrabba -, se la disoccupazione è diminuita, se inoltre lo sviluppo economico dei primi mesi del 2001 ha registrato una performance superiore ad altri, più forti paesi europei, come si fa a parlare di sviluppo progressivo anche se lento?
Il dilemma è, dunque, deformante e falso. Non c'è verità. Ma è l'intera architettura logica del DPEF ad essere viziata da un deficit di verità. Se, infatti, la nostra economia non fosse un'economia risanata e solida, sbloccata da energiche cure incominciate già negli anni novanta, come potrebbe essere credibile la prospettiva, che noi pure auspichiamo, di una crescita al 3 per cento, rispettando contemporaneamente il patto di stabilità?
L'ossessione del Governo di cogliere in fallo i precedenti governi dell'Ulivo ha indotto il ministro ad alzare un grande polverone sul presunto buco, nascondendo i dati fondanti della struttura economica e finanziaria dell'Italia. Io non entro nel merito del buco. Avendo avuto la responsabilità
del gruppo democristiano tra il 1992 ed il 1994 ed essendo stato segretario del PPI tra il 1995 ed il 1997, nelle due fasi del grande raddrizzamento della finanza pubblica, non riesco ad impressionarmi neppure di fronte alle cifre più allarmanti date dal Governo, posto che esse siano esatte, visto che una smentita è venuta proprio oggi dal quadro programmatico che avete presentato.
Osservo soltanto che il raccordo tra l'indebitamento ed il fabbisogno è ampiamente motivato nella stessa tabella allegata al DPEF; si può, perfino, ritenere che la divaricazione tra indebitamento e fabbisogno di cassa, che è stato elemento di scandalo, non sia incomprensibile: essa trova origine nella prevalente rilevanza riconosciuta alle esigenze di contenimento dell'indebitamento rispetto al fabbisogno, per cui si è accentuata la scelta di privilegiare lo smaltimento dei residui e debiti, scelta che ovviamente finisce per ridurre gli oneri moratori ed i ritardati pagamenti con beneficio del bilancio pubblico.
Ciò che mi turba, signor viceministro, è il danno che avete provocato a livello interno ed internazionale per i sospetti gettati su istituzioni rispettate, in Italia e nel mondo, come l'ISTAT e la Ragioneria generale dello Stato. Prospettare che l'ISTAT possa aver calcolato male l'indebitamento suscita grandi perplessità, anche perché il parametro adottato è di rilevanza internazionale e di riferimento per il patto di stabilità. Riguardo al ragioniere generale dello Stato Monorchio, uno degli artefici del risanamento della finanza pubblica, è stato grave ed irresponsabile aver dubitato di un uomo della sua levatura. Il Governo e anche altri dovrebbero ammettere di essere andati fuori misura.
Il DPEF non è un atto contabile, ma dovrebbe essere un documento di politica economica. Per essere serio e veritiero dovrebbe partire da una complessiva valutazione della situazione economica e finanziaria e non da un solo parziale elemento, peraltro controverso, che è stato un punto di comodo. Vi chiediamo quindi più equilibrio, più misura, più modestia, più prudenza: appunto, più verità. Non potete chiedere consenso per un documento per nulla trasparente: come ha denunciato la Corte dei conti, non c'è né indicazione di strumenti né di percorsi, laddove non vi sono rimedi né per il Mezzogiorno né per la ricerca scientifica.
Sul Mezzogiorno, per il quale molto si promette, avete tolto già molto con la cancellazione della legge Visco e della DIT. Se da un dettaglio si può ricavare una linea di condotta, è esemplare il caso di Napoli, quello di Capodichino e di Bagnoli, a cui si negano i 150 miliardi, previsti da una espressa disposizione legislativa. C'è molta ritorsione ed arroganza in questa decisione. Vi chiediamo di rivedere le posizioni e mi auguro che il Governo - mi rivolgo al ministro Tremonti - voglia rispondere presto alla nostra interpellanza, mettendo da parte ricatti e velleità punitive, perché tutto ciò è anticamera di autoritarismo e non vi sarà slancio economico che potrà giustificare uno stile di Governo prevaricatore e prepotente. È giusto che vi preoccupiate del buco finanziario, ma attenti a non provocare un buco democratico: accendereste tensioni e fuochi non facilmente dominabili.
Nessuno vuole impedirvi di raggiungere più ambiziosi risultati. Avevamo offerto la nostra corresponsabilità, rispetto a quelli del passato, ora agite con onestà e verità, che finora sono mancate. Questo è quanto volevo dire, signor viceministro: siamo in una condizione nella quale il Governo si è presentato con grandi ambizioni, ma non con le carte in regola. Questo DPEF è un documento dell'azzardo e del rischio, non un documento serio quale il nostro paese meriterebbe (Applausi dei deputati dei gruppi della Margherita, DL-l'Ulivo e dei Democratici di sinistra-l'Ulivo).
PRESIDENTE. È iscritta a parlare l'onorevole Baldi, alla quale ricordo che ha sei minuti a disposizione. Ne ha facoltà.
MONICA STEFANIA BALDI. Signor Presidente, signor sottosegretario, onorevoli colleghi, nell'ambito del ciclo annuale di bilancio, la presentazione da parte del
Governo e l'esame da parte delle Camere del documento di programmazione economica e finanziaria risponde allo scopo fondamentale di inquadrare gli interventi legislativi in materia di bilancio e di finanza pubblica in una più ampia decisione politico-programmatica. Gli interventi previsti dal documento approvato dal Consiglio dei ministri permettono di dare un reale contributo alla crescita economica e occupazionale del nostro paese.
Per l'anno in corso il DPEF 2002-2006 prevede un quadro internazionale caratterizzato da una situazione di incertezza relativamente alle prospettive di sviluppo dell'economia che riflette, prevalentemente, la marcata decelerazione dell'economia statunitense ed il rallentamento della crescita del Giappone, registrata nel corso dei primi sei mesi del 2001. A fronte, dunque, di un crescente rallentamento del PIL dei paesi industrializzati, che dovrebbe attestarsi intorno al 2 per cento, l'area euro dovrebbe presentare un tasso di crescita del 2,2 per cento, con una riduzione di oltre un punto percentuale rispetto al 2000, riflettendo, in particolare, il rallentamento produttivo della Germania.
Gli interventi previsti nel DPEF vanno inquadrati nel contesto più generale del coordinamento delle politiche economiche degli Stati membri dell'Unione europea, così come formalmente sancito dai trattati della comunità, nella versione consolidata, il quale definisce le politiche economiche, condotte dagli Stati membri, come una questione di interesse comune. Come è noto, su tale questione si è sviluppato un ampio dibattito intorno al rispetto degli obiettivi di bilancio concordati con l'Unione europea anche in relazione al «buco» dei conti pubblici ereditato dal precedente Governo.
In questa sede l'esecutivo, riguardo tutto ciò che concerne i fondi pubblici ed il buco ereditato dal precedente Governo, ha bisogno di evidenziare alcune intenzioni. Il Governo ha ribadito l'obiettivo di contenere allo 0,8 per 100 il valore dell'indebitamento netto per il 2001 adoperandosi, pur nel breve lasso di tempo che ci separa ormai dalla fine dell'anno e tenendo presente il fatto della sua recente costituzione, con misure di risparmio di spesa che non andranno a tagliare le prestazioni sociali o ad aumentare il prelievo fiscale.
Il Governo mantiene fede all'impegno assunto con l'Unione europea del pareggio del bilancio al 2003, in una data anticipata rispetto a quella fissata dalla Francia o dalla Germania, per esempio. Anche questo è un impegno significativo perché inserito in un contesto di forte rilancio dello sviluppo e non di politiche di restrizione.
Il Governo, infine, potrà al momento della verifica dei conti in ambito europeo - al Consiglio europeo Ecofin di dicembre - aggiornare il programma di stabilità e di crescita facendo leva proprio sugli sforzi per il rispetto degli impegni europei in una situazione di finanza pubblica e di dinamica macroeconomica internazionale indubbiamente difficile.
Per quanto riguarda, invece, le misure di politica di bilancio da intraprendere, queste sono indubbiamente coerenti con le linee guida europee per l'Italia; infatti, richiamano la necessità di perseguire i seguenti indirizzi: procedere, a fronte di riduzioni di entrate fiscali, ad una riduzione della spesa pubblica e individuare possibili ulteriori miglioramenti del disavanzo; accelerare la riduzione dell'elevato debito pubblico; procedere alla verifica dei parametri della spesa pensionistica e favorire lo sviluppo dei sistemi previdenziali integrativi; favorire un andamento dei salari in linea con la produttività, aumentare la flessibilità e ridurre il carico fiscale sul lavoro; promuovere il coinvolgimento dei privati nella spesa in ricerca e sviluppo, e assicurare la concorrenza sui mercati delle utility soprattutto a livello locale; ridurre il carico amministrativo sulle imprese e rimuovere le barriere all'accesso nell'area dei servizi professionali; accelerare lo sviluppo del mercato dei capitali facilitandone l'accesso agli investitori istituzionali anche attraverso un'appropriata riforma fiscale, che faciliti l'imprenditorialità, ed una riforma della legge fallimentare.
Particolare interesse rivestono inoltre alcuni indirizzi di carattere settoriale previsti dal DPEF; basti pensare all'emersione del lavoro sommerso e alle misure finalizzate a garantire la partecipazione al mercato del lavoro, promuovendo anche la sperimentazione del lavoro a tempo parziale e nuove tipologie contrattuali.
Gli altri obiettivi sono relativi alla società dell'informazione, alla qualità dei servizi sociali ed anche alla rimozione di ogni forma di discriminazione diretta od indiretta.
Anche attraverso le infrastrutture il Governo si propone di contribuire all'incremento del PIL e dell'occupazione dando al nostro territorio unitarietà ed integrazione con il territorio comunitario ed attribuendo all'Italia il ruolo di ponte tra l'Unione europea ed i paesi del bacino del Mediterraneo e di cerniera tra est e ovest europeo.
Particolarmente incisivi sono gli indirizzi di politica industriale soprattutto per quanto attiene all'attenzione prestata alle piccole e medie imprese.
Queste azioni dovranno esser realizzate in un contesto di approfondimento dell'impegno comunitario per lo sviluppo rurale, ma garantendo l'invarianza reale della spesa per l'agricoltura, in linea con le prospettive finanziarie fissate con «Agenda 2000».
Anche per quanto riguarda l'ambiente, il DPEF si muove lungo il solco delle politiche comunitarie da sempre attente a favorire lo sviluppo sostenibile e la valutazione dell'impatto ambientale degli interventi.
Inoltre viene evidenziata la questione del sostegno finanziario derivante ad alcune regioni del nostro paese dai fondi strutturali.
In qualità di relatore del DPEF per la Commissione per le politiche dell'Unione europea, ritengo importante ribadire che il Governo si propone di ricondurre il rapporto deficit PIL entro l'obiettivo del patto di stabilità e crescita europeo dello 0,8 per cento, rispettando pienamente i parametri e i quattro criteri guida definiti con la decisione Ecofin del 22 febbraio 2000.
Questo DPEF permette all'Italia di essere presente in Europa non solo con l'euro...
PRESIDENTE. Onorevole Baldi, si avvii a concludere.
MONICA STEFANIA BALDI. ...ma anche con un'economia reale, attuando profonde riforme di struttura del fisco e del mercato del lavoro con l'impegno sostanziale assunto a Bruxelles di garantire l'azzeramento del deficit al 2003.
L'auspicio è che prevalgano nelle singole coscienze l'equilibrio, il buonsenso ed il rispetto nei confronti degli italiani, in maniera che si possa approvare definitivamente il documento in discussione.
Infine chiedo alla Presidenza di autorizzare la pubblicazione del testo integrale del mio intervento in calce al resoconto della seduta odierna (Applausi dei deputati dei gruppi di Forza Italia e della Lega nord Padania).
PRESIDENTE. La Presidenza lo autorizza senz'altro e raccomanda ai deputati di attenersi ai tempi previsti per i loro interventi.
È iscritta a parlare l'onorevole Pennacchi. Ne ha facoltà.
LAURA MARIA PENNACCHI. Signor Presidente, il paese che cinque anni di Governo dell'Ulivo e di centrosinistra consegnano oggi ad una evoluzione ulteriore è un paese carico di potenzialità e dinamismo, come dimostrano i dati - pochi per la verità - che voi stessi, signor viceministro, avete predisposto nel documento di programmazione economico-finanziaria.
Due dati parlano per tutti: un deficit che era superiore all'8 per cento nel 1996, che oggi è sceso all'1 per cento del PIL ed un'occupazione che ha raggiunto il livello di un milione e 700 mila nuove unità da allora. Bisogna ricordare che eravamo arrivati a parlare, tra economisti in letteratura, di una recisione del legame tra crescita ed occupazione negli anni passati, tanto l'effetto di maggiore crescita poco si
rifletteva sulla maggiore occupazione. Pertanto, siamo di fronte ad un fenomeno molto profondo e radicale.
Si dice che il documento di programmazione economico-finanziaria si appresta a trattare al meglio una eredità positiva (altroché i tabelloni del ministro Tremonti esposti al TG1 di qualche sera fa!) ma si tratta di uno strumento povero di dati e di riferimenti analitici e ricco di licenze letterarie. Un collega questa mattina, definendo i DPEF precedenti troppo noiosi e apprezzando la novità dello stile del documento in esame, parlava addirittura di rivoluzione copernicana. Penso che per le vostre licenze letterarie mi venga in mente Carolina Invernizio, piuttosto che Copernico!
Tuttavia, un modello di politica economica e sociale emerge da questo documento di programmazione economico-finanziaria, anche se lo associamo ai provvedimenti economici che sono già in discussione in questi giorni e che, del resto, nel DPEF stesso sono ripresi; è un modello di politica economica e sociale che si caratterizza per due aspetti centrali.
In primo luogo, prevede benefici solo per le imprese, nulla alle famiglie, ai lavoratori e ai cittadini, a quei lavoratori nei confronti dei quali si sta prospettando un tasso di inflazione non realistico, che non consentirà loro di mantenere il potere d'acquisto e per cui si profilano contratti territoriali individuali ed altre amenità di questa natura, che vogliono semplicemente dire: consegnare gli individui solo alla logica dei rapporti di forza.
L'altro elemento che caratterizza il documento è l'implicazione di effetti redistributivi molto gravi a danno - e lo ripeto, a danno - dei redditi più bassi e dei redditi medi.
Vi è un elemento che finalmente si definisce con una relativa chiarezza: sarà il cittadino medio ad essere più colpito dalle vostre misure.
Per quanto riguarda il primo aspetto, cioè i benefici accordati soltanto alle imprese, bisogna sottolineare che si tratta di benefici che danneggeranno le stesse imprese. Se pensiamo alla Tremonti-bis, al condono fiscale cosiddetto tombale (di cui stiamo discutendo in questi giorni), a tutti gli aspetti di mancata copertura, a fronte di un ciclo di investimenti che è stato molto sostenuto negli ultimi tempi, se ci si chiede quale tipo di competitività si voglia sostenere, si arriva alla seguente conclusione: nessuna di queste misure sarà in grado di aggredire i veri problemi della struttura industriale italiana, dell'apparato produttivo italiano. Mi riferisco cioè all'impressionante staticità della sua specializzazione produttiva legata ad un assetto dimensionale troppo sbilanciato verso le dimensioni minori e ad una struttura rigida dei diritti di proprietà e della contendibilità delle imprese; mi riferisco anche ad un livello di investimento di ricerca e di sviluppo che è, ormai, ben al di sotto di quello della Corea del sud e di altri paesi del sud-est asiatico e ai mercati finanziari e creditizi molto poco innovativi.
Ci ritroveremo, dunque, con singoli imprenditori più ricchi ma con imprese più povere. Tutto ciò porterà ad un impoverimento dell'apparato produttivo nazionale, senza riuscire ad aggredire i problemi maggiori.
Imprenditori che potranno far figurare come spese gli investimenti anche per gli acquisti di beni per uso promiscuo. In generale, ricchi e sempre più ricchi. Pensiamo all'abolizione dell'imposta di successione, quell'imposta che i governi di centrosinistra avevano già profondamente riformato e, di fatto, abolita per l'80 per cento delle famiglie italiane a reddito medio-basso. Voi la volete abolire del tutto: un collega stamane parlava di un documento di programmazione economico-finanziaria e di una vostra ispirazione che è di innalzamento delle opportunità per tutti. Alla faccia dell'opportunità! Un teorico vero, un pensatore liberale, John Stuart Mill, il teorico dell'uguaglianza delle opportunità, ha sostenuto che l'imposta di successione è l'imposta cardine di uno Stato liberaldemocratico. John Stuart Mill si sta rivoltando nella tomba in questo momento!
Questo è il rispetto che voi provate per i principi liberali dei quali è centrale anche la regolazione del conflitto di interessi; meglio sarebbe dire dei tanti conflitti di interesse!
I due aspetti che citavo spiegano il cuore del documento di programmazione economico-finanziaria, ovvero l'aggressione al sistema di protezione sociale. Istruzione e sanità lo dimostrano in maniera lampante: state perseguendo un disegno di privatizzazione di questi settori che porterà alla soppressione della possibilità di ricevere prestazioni essenziali uniformi per tutto il territorio. In tal modo, si avrà anche una lesione al principio dell'unità della nazione.
E la previdenza: quelle misure che sono state ricordate sono ancora scritte con un linguaggio burocratico e non è facile per nessuno decifrarne l'intento. Ma l'intento è presente e va denunciato. La decontribuzione, di cui nel documento di programmazione economico-finanziaria si parla e di cui autorevoli rappresentanti del Governo hanno comunque esplicitamente parlato in diverse occasioni, porterebbe a prestazioni più basse per i pensionati del futuro e, nell'immediato, ad un vuoto di gettito contributivo e, pertanto, di finanza pubblica. Qualcuno ha già indicato come dovrebbe essere finanziato: la Confindustria ha chiesto un intervento urgente sul pensionamento d'anzianità che, peraltro, non sarebbe assolutamente in grado di coprire, pur con le soppressioni totali, la quota di gettito contributivo che si determinerebbe.
Del resto, il documento di programmazione economico-finanziaria parla di un punto all'anno di riduzione della spesa corrente. In valori assoluti, al termine del periodo, ci troveremmo con 130 mila miliardi l'anno in meno.
PRESIDENTE. Onorevole Pennacchi, la invito a concludere.
LAURA MARIA PENNACCHI. Come fare tagli di questa entità? La deindicizzazione assoluta delle prestazioni sociali porterebbe 16 mila miliardi, il licenziamento di 500 mila dipendenti pubblici porterebbe 33 mila miliardi, la cancellazione di metà, soltanto la metà, del servizio sanitario nazionale porterebbe 60 mila miliardi di economie di spesa (le definisco eufemisticamente tali). E non siamo ancora, sommando queste voci, a ciò che voi prospettate.
Per concludere, onorevoli colleghi, quale sorte ha il discorso relativo alle pensioni minime che in campagna elettorale era stato indirizzato a 7 milioni e mezzo di persone?
PRESIDENTE. Onorevole Pennacchi, la invito a concludere.
LAURA MARIA PENNACCHI. In quell'occasione, si fece una promessa a 7 milioni e mezzo di persone. Bene, le promesse della campagna elettorale si rivelano per quello che erano: quanto meno promesse da marinaio.
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Bellotti, al quale ricordo che ha cinque minuti a disposizione. Ne ha facoltà.
LUCA BELLOTTI. Signor Presidente, rappresentante del Governo, onorevoli colleghi, credo che questo nuovo Governo di centrodestra avesse all'inizio della legislatura due strade, due possibilità. La prima era quella di dire, a carte scoperte, al paese: guardate, siamo al governo da pochi giorni, la situazione che abbiamo ereditato, confermata, anche se con valori diversi, sia dalla Ragioneria generale dello Stato sia dalla Banca d'Italia, è purtroppo completamente diversa da quella propagandata di recente dal vecchio Governo di centrosinistra. Per questa ragione, cari cittadini, per evitare il collasso dei conti pubblici, preparatevi ad un periodo di vacche magre, ad un periodo di recessione: non è colpa nostra, non ne abbiamo la responsabilità; abbiamo ereditato una situazione complessivamente negativa, pesante e cercheremo di correggerla strada facendo.
La seconda possibilità, invece - intrapresa da questo Governo - è stata quella di puntare sulle straordinarie capacità imprenditoriali e sociali di crescita, di coraggio e di vitalità che il nostro paese possiede, attraverso un nuovo «risorgimento economico», consapevole del ruolo di riferimento importante dell'Italia sia nell'ambito comunitario che internazionale.
Questo Governo, con questo DPEF, ha puntato su due elementi fondamentali: la libertà del cittadino e le libertà dell'economia. Libertà del cittadino attraverso una maggiore sicurezza, attraverso crescita e flessibilità del lavoro, maggiore libertà nelle scelte della famiglia (l'istruzione, la previdenza, l'assistenza). Libertà dell'economia attraverso la riduzione dei vincoli amministrativi, meno burocrazia, riduzione delle imposte, maggiori servizi, maggiore celerità negli appalti e grandi infrastrutture. Tutto questo salvaguardando le fasce deboli e mantenendo i diritti acquisiti. Non è un caso che questo DPEF faccia uscire dalla soglia di povertà quattro milioni di italiani attraverso l'aumento di un milione 800 mila posti di lavoro, l'aumento minimo di un milione delle pensioni sociali e una forte riduzione dell'IRPEF, soprattutto sui redditi più bassi. Tutto ciò a beneficio delle famiglie italiane più povere. Lo ribadisco: senza nessuna penalizzazione dello stato sociale.
Entrando nel merito, questo DPEF crea le premesse per una crescita ed un ammodernamento del paese. Innanzitutto, si sviluppa su tutto l'arco della legislatura, tracciando le linee guida del medio periodo, necessario sia all'intero comparto economico del paese sia alle pubbliche amministrazioni; coniuga il rispetto dei parametri finanziari europei con le linee prefigurate tendenti a creare una bassa inflazione ed il definitivo equilibrio di finanza pubblica; prefigura una programmazione orientata all'introduzione di politiche strutturali sui versanti dell'occupazione, delle infrastrutture, dell'innovazione tecnologica e della ricerca scientifica.
Per quanto riguarda la stabilità e la crescita, esse vengono perseguite agendo sul denominatore, ovvero sulla crescita del PIL ad un tasso superiore previsto del 3 per cento annuo nel quinquennio, mentre il contenimento della spesa corrente viene mantenuto all'1 per cento annuo rispetto al PIL. Per la prima volta ci troviamo di fronte ad un vero «progetto paese», senza rottamazioni, senza lavori socialmente discutibili, senza tasse: biglietto per l'Europa. Ma dopo avere sentito, durante i lavori in Commissione ed in aula, le aspre - e a volte cattive - critiche del centrosinistra, mi viene veramente spontaneo chiedermi dove avreste portato l'Italia se foste stati ancora al Governo. Avete usato almeno le ultime due finanziarie come strumento propagandistico propedeutico alle campagne elettorali. Ben ci ricordiamo i vostri proclami a gennaio, quando affermavate che finalmente l'Italia con il vostro Governo aveva risanato i conti pubblici e che, anzi, ben 25 mila miliardi venivano restituiti ai cittadini. Probabilmente i trasferimenti di capitali per l'acquisto di partecipazioni all'estero sarebbero stati eseguiti non attraverso bonifici bancari ma in sacchi di juta (ed il riferimento alla Telekom-Serbia è puramente cercato e voluto). Il nostro paese sarebbe rimasto geograficamente in Europa, ma con indicatori economici molto più balcanici che europei.
Infine, regioni ed enti locali devono essere posti in grado di gestire al meglio le loro potenzialità attraverso un quadro di deleghe e risorse completamente da rivedere per evitare l'attuale paralisi, specie nel settore della sanità. Inoltre, crescita e sviluppo devono coniugarsi in un quadro generale di sicurezza del paese, che è quello che i cittadini chiedono a questo Governo, il quale ha scelto la via dello sviluppo. Noi di Alleanza nazionale approviamo questo DPEF e lo approviamo con la responsabilità di chi non si accontenta di aver vinto le elezioni ma crede che il rinnovamento sia possibile e doveroso e sia ciò che il paese ci chiede (Applausi dei deputati del gruppo di Alleanza nazionale e di Forza Italia e del sottosegretario Baldassari).
PRESIDENTE. Signor sottosegretario, dai banchi del Governo si può applaudire, ma in genere non usa.
ROBERTO BARBIERI, Relatore di minoranza. Un po' di stile!
PRESIDENTE. È iscritta a parlare l'onorevole Maura Cossutta, alla quale ricordo che ha otto minuti a sua disposizione. Ne ha facoltà.
MAURA COSSUTTA. Signor Presidente, nel DPEF non vi è nulla in merito alla sanità: frasi generiche, nessun impegno programmatico, nessuna chiarezza sulle scelte. Nel frattempo, il ministro Maroni in Commissione parla esplicitamente di «buono sanità», numerose sono le dichiarazioni alla stampa sulla devolution (sanità, scuola), mentre Formigoni ha già introdotto il «buono scuola» in Lombardia. I cittadini hanno il diritto di sapere. Neanche il ministro Sirchia risponde: quali saranno le scelte di politica sanitaria per le destre?
L'impressione è precisa: il Governo Berlusconi sceglie oggi la linea soft per preparare, in finanziaria, un attacco pesante al servizio sanitario nazionale.
In campagna elettorale abbiamo denunciato questo attacco con chiarezza, e l'opposizione dell'Ulivo, in Parlamento e nel paese, su ciò sarà durissima. Fin da ora, chiamiamo alla mobilitazione tutti i cittadini, gli operatori, gli amministratori, le organizzazioni sindacali, il mondo dell'associazionismo. Già i sindacati dei medici si sono attivati - Anaao Assomed, medici di famiglia, specialisti ambulatoriali, CGIL - e hanno costituito formalmente, qualche settimana fa, a Roma, il comitato di sostegno e rilancio del servizio sanitario nazionale, perché di questo esattamente si tratta. Oggi, è in discussione, ripeto, fortemente in discussione, il servizio sanitario nazionale e, quindi, l'articolo 32 della Costituzione, la legge 23 dicembre 1978, n. 883 e il decreto legislativo 19 giugno 1999, n. 229.
Il nostro servizio sanitario nazionale è ai primi posti nel mondo, secondo l'Organizzazione mondiale della sanità, ed è questo nostro modello sanitario, questo intreccio tra modello istituzionale, organizzativo e di finanziamento a garantire i migliori risultati di salute in termini di equità, efficacia ed efficienza, molto di più, signori rappresentanti del Governo, del modello svizzero - che tanto vi piace - e di quello americano, dove 40 milioni sono i cittadini senza copertura sanitaria. Sappiamo che tante cose non vanno e che devono essere migliorate ed è per questa ragione che noi dell'Ulivo avevamo iniziato un processo riformatore, al fine di correggere le disuguaglianze territoriali tra nord e sud, le diseguaglianze dello stato di salute rispetto alle condizioni sociali.
I più poveri, i meno istruiti, attualmente, sono quelli che si ammalano di più ed hanno maggiore bisogno di accedere ai servizi, alle prestazioni. Per questo motivo l'Ulivo ha scelto di eliminare i ticket sui farmaci, sulla diagnostica e la specialistica, proprio per andare in questa direzione. I ticket sono una tassa iniqua sulla malattia che penalizza, soprattutto, i più bisognosi e i più fragili, e voi li volete reintrodurre: ticket sui farmaci e ticket sui ricoveri per eliminare gli sprechi, con lo strumento della programmazione e della appropriatezza, con le regole dell'accreditamento, altro che società per la qualità! Per garantire più partecipazione contro gli eccessi di burocratismo, contro l'autoreferenzialità dei servizi, la regionalizzazione, sì, autonomia e responsabilità delle regioni ma anche ruolo dei sindaci - per la prima volta - delle assemblee elettive, dei comitati di partecipazione, dell'associazione degli utenti, delle organizzazioni sociali. Per abbattere le liste di attesa, serve un aumento dell'offerta ma bisogna intervenire sulla programmazione dell'attività dei servizi dal lato di che prescrive. Garantire trasparenza nella gestione delle liste d'attesa e, soprattutto, collegare l'intra moenia alla riduzione delle liste di attesa.
Cosa vogliono invece le destre? Non applicare la riforma n. 229? Bloccarla? Si dice che l'importante è garantire la massima autonomia delle regioni contro ogni
rigidità del modello organizzativo. Ma cosa significa? Il vostro modello è quello di Formigoni? Un modello dove gli ospedali sono trasformati in Spa con finanziamenti privati, dove è aumentata la spesa privata e diminuita quella pubblica, dove tutto è governato dall'offerta senza controllo di qualità; dove ci sono 24 cardiochirurgi (alla faccia degli sprechi!). Dove, forse, riducono le liste d'attesa ma sicuramente in una struttura in cui si fanno due angioplastiche l'anno sarà penalizzata la qualità della risposta sanitaria. Dove ci sono 53 mila posti letto in RSA, alla faccia della qualità e dell'umanizzazione del servizio per gli anziani!
Sono le regioni, proprio le regioni, ad essere preoccupate se non c'è chiarezza nelle scelte generali di politica sanitaria. Sono le regioni, proprio le regioni, a denunciare che nel DPEF c'è una riduzione della spesa sanitaria: dal 5,7 al 5,4 per cento. Le regioni chiedono 150 mila miliardi e sostengono che le risorse per il 2001 sono sottostimate di almeno 6 mila miliardi e per il 2002 di 10 mila miliardi.
Questo è l'ascolto che prestate alle regioni, voi che parlate di devolution? Parlate di federalismo, ma sono le regioni, proprio le regioni, a dire che l'anno zero del federalismo non può che partire dalla rivalutazione del fabbisogno, altrimenti o le regioni dovranno mettere tributi propri o si dovranno ridurre i servizi. E la Lombardia, con la base imponibile alta, si potrà permettere entrate proprie. Il sud, naturalmente, dovrà ridurre i servizi. Inoltre, nel DPEF, non c'è nulla sui fondi dell'ex articolo 20, sui contratti nazionali e c'è la sostituzione dell'IRAP con l'IRPEG che penalizzerà ulteriormente le regioni del sud.
Nulla, quindi, sulla spesa, sull'aumento del fondo sanitario nazionale. Voi create le condizioni per rendere incompatibile il sistema di finanziamento pubblico del servizio sanitario nazionale.
Dite che non ci sono risorse, che servono finanziamenti privati, che le risorse pubbliche garantiranno un minimo mentre al resto provvederà il sistema assicurativo. Noi denunciamo apertamente che, mentre, da un lato, prevedete una crescita del PIL del 3 per cento, dall'altro, volete ridurre la spesa pubblica per la sanità. La vostra devolution non prevede alcun fondo perequativo e questo è il grimaldello per rompere l'unitarietà del sistema: il buono sanità - dice il ministro Sirchia - è solo un tecnicismo. La quota pro capite sarà affidata ai singoli? E il buono sanità è uguale alla spesa pro capite? E che cosa farà un malato cronico, un dializzato che ha bisogno della dialisi tre volte la settimana? La vostra devolution non è federalismo cooperativo e solidale, non promuove la competizione tra le regioni all'interno di livelli essenziali ed uniformi su tutto il territorio nazionale ma accentua la corsa tra pubblico e privato e tra regioni ricche e regioni svantaggiate per accaparrarsi le risorse, con il risultato di accentuare il divario tra nord e sud e di creare tanti sistemi sanitari diversi. Si prepara, quindi, lo smantellamento del servizio sanitario nazionale a favore del sistema assicurativo. Altro che libertà di scelta: i cittadini torneranno ad essere soli e disuguali!
Noi dell'Ulivo abbiamo risanato il paese e lo abbiamo fatto scegliendo di non tagliare la spesa sociale, abbiamo riformato la sanità aumentando, per la prima volta, le risorse del fondo sanitario nazionale, abbiamo fatto una finanziaria che ha redistribuito a partire dai più deboli e dai più bisognosi, abbiamo eliminato i ticket.
Voi delle destre prevedete una crescita del PIL e, ciò nonostante, volete tagliare la spesa sociale, fate una controriforma verso il sistema assicurativo; con il provvedimento dei 100 giorni regalate miliardi ai miliardari attraverso l'abolizione dell'imposta sulle successioni e donazioni e decidete di reintrodurre il ticket sui farmaci e sui ricoveri. I cittadini devono sapere che cosa intendevate quando avete pronunciato la frase: «vogliamo cambiare l'Italia e la cambieremo». Il vostro non è il cambiamento della modernità, ma della restaurazione.
PRESIDENTE. È iscritta a parlare l'onorevole Francesca Martini, alla quale
ricordo che ha sei minuti a disposizione. Ne ha facoltà.
FRANCESCA MARTINI. Signor Presidente, onorevoli colleghi, ci apprestiamo ad approvare un documento che deve necessariamente rappresentare una svolta storica per il nostro paese anche in ambito internazionale. In questo contesto, tra declino evitabile e sviluppo possibile - e cito proprio l'apertura del DPEF -, il mio intervento vuole essere un vero e proprio appello affinché la linea di questo Governo - che bene si colloca nella prospettiva di un'attenzione specifica nei confronti dell'istituzione familiare -, prenda corpo con una serie di interventi mirati ad attuare, in Italia, un disegno organico di politiche familiari ispirato a modelli più avanzati già positivamente sperimentati a livello europeo.
Credo sia chiaro che la politica di sviluppo alla quale tende l'azione del Governo in ambiti strategici della vita di questo paese - come il lavoro e le infrastrutture - come pure la grande occasione rappresentata dalla devoluzione dei poteri dallo Stato alle regioni in materie di così ampia ricaduta sociale sui nuclei familiari - come sanità ed istruzione - non mancheranno di incidere positivamente ed in tempi brevi sulla qualità della vita delle famiglie. Ma la grande partita di questo secolo si giocherà proprio su grandi ed ambiziosi strategie che siano in grado di porre l'istituto della famiglia - così com'è ampiamente sancito, peraltro, dagli articoli 29, 30 e 31 della Carta costituzionale - al centro dell'azione delle istituzioni. È proprio sulla base di questo patto tra famiglie ed istituzioni, in un'ottica di sussidiarietà orizzontale, che si potrà realizzare anche l'auspicato decollo del «terzo settore» quale linfa vitale del nostro vivere civile.
Ritengo che il DPEF contenga in nuce tutti i presupposti affinché la famiglia possa finalmente trovare nelle istituzioni, dai suoi livelli superiori fino a quelli locali - che necessariamente rappresentano l'interlocutore primario - il partner ideale che le consenta finalmente di liberare tutte le energie di cui è capace. Credo, pertanto, che la fondamentale riforma fiscale, così come preannunciata, sancisca quel passaggio storico che è tanto atteso dalle associazioni familiari e da tutti noi.
Significativo rilievo assume, infatti, nel quadro più generale della riforma fiscale, una revisione del sistema delle imposte sul reddito delle persone fisiche, che, nella sostanza, consideri il nucleo famigliare come soggetto di imposta, producendo l'effetto di una progressività del carico fiscale sia in senso verticale, rispetto ai livelli di reddito, sia in senso orizzontale, tenendo quindi conto del numero dei componenti del nucleo famigliare e sancendo, in qualche modo, il riconoscimento concreto delle funzioni di cui si fa carico, rispetto ai propri membri, la famiglia, quale cellula base della società.
Particolarmente importante è anche l'introduzione di deduzioni di reddito imponibile per ogni componente il nucleo famigliare, che ci aspettiamo saranno finalmente adeguate ai reali costi sostenuti dalle famiglie per i soggetti deboli a carico, in particolare per i figli minori o per le persone non autosufficienti. Ricordo a tutti lo scandalo recentemente portato a conoscenza dell'opinione pubblica dalla stampa, ben conosciuto ai tecnici di settore, di una pressione fiscale sulle famiglie in Italia che è la più alta in Europa. Emblematico il caso del nucleo famigliare composto da madre, padre, due figli a carico, che, a fronte di un reddito di 60 milioni circa, in questo paese, subisce una pressione fiscale superiore di circa dieci volte a quella esercitata in Francia ed in Germania.
Altro tema strategico di questa legislatura sarà quello dello sviluppo dei servizi per l'infanzia. Proprio dall'incisività e dalla volontà di azione che mi è sembrata emergere dall'esposizione del ministro Maroni in Commissione affari sociali, ritengo che questo Governo saprà recepire appieno l'istanza di tante giovani famiglie che, nell'incertezza in cui versa questo settore, si sono fino ad oggi poste il problema di mettere al mondo talora il
primo, più spesso il secondo figlio, nel timore di una incompatibilità con le esigenze lavorative.
Ampio respiro, quindi, a mio avviso, dovranno avere proprio quei provvedimenti che mirano a fornire servizi per l'infanzia ad alta flessibilità, con diffusione capillare sul territorio con il massimo coinvolgimento del terzo settore e delle stesse realtà imprenditoriali.
Ho notato anche con grande favore come per la prima volta un Governo si preoccupi di considerare quelle famiglie silenziose in cui l'evento della nascita di un figlio non è un'occasione totalmente felice. Mi riferisco alle famiglie in cui nasce un bambino disabile, le famiglie sole e disorientate in un mondo nel quale mai si sarebbero aspettate di vivere, un mondo che vive tra noi e che deve ricevere immediatamente il massimo supporto e la massima attenzione. Quei genitori, quelle famiglie, devono trovare l'accoglienza, non la cruda burocrazia delle istituzioni, proprio perché per ognuna di quelle famiglie si prepara, senza che ne siano ancora consapevoli, un percorso di difficoltà e di sofferenze...
PRESIDENTE. Onorevole Martini, la invito a concludere.
FRANCESCA MARTINI. ...che devono portare avanti una intera vita. Una famiglia di questo tipo, che crolla sotto il peso della condizione di gravità di un figlio o di un famigliare in stato di disabilità grave, rappresenta una grave sconfitta ed una responsabilità per le istituzioni di questo paese. Non dimentichiamolo mai. È per questo che il mio appello va fortemente nella direzione della valorizzazione dei servizi diurni, delle attività domiciliari...
PRESIDENTE. Onorevole Martini, la prego nuovamente di concludere il suo intervento.
FRANCESCA MARTINI. ...e di tutte quelle misure - concludo, signor Presidente - che possano far sì che anche e soprattutto i soggetti più deboli siano in grado di restare all'interno del proprio nucleo famigliare.
Onorevole Presidente, onorevoli colleghi, mi permetta di esprimere piena soddisfazione per il documento presentato a questa Assemblea congiuntamente alla volontà di dichiarare il mio profondo impegno in questo Parlamento affinché progettualità, studio e ricerca possano dare finalmente un risultato tangibile, con una ricaduta positiva sulla qualità della vita delle famiglie e una fiducia rinnovata nel futuro del nostro popolo (Applausi dei deputati dei gruppi della Lega nord Padania, di Alleanza nazionale e del CCD-CDU Biancofiore).
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Alfonso Gianni. Ne ha facoltà.
Le ricordo, onorevole Alfonso Gianni, che ha 18 minuti di tempo a disposizione.
ALFONSO GIANNI. Signor Presidente, signori del Governo, colleghi, occuperò questo tempo, lievemente superiore a quello di altri, per svolgere alcune considerazioni di carattere generale e di carattere particolare su alcuni elementi che, dal mio punto di vista, costituiscono aspetti centrali del documento di programmazione economico-finanziaria.
Come già hanno rilevato altri colleghi, sia del mio gruppo sia di altri gruppi, nel dibattito che fin qui mi ha preceduto, questo documento presenta, indubbiamente, delle caratteristiche differenti anche nei modi e nei toni, rispetto agli analoghi documenti presentati dai precedenti governi.
La differenza che qui vorrei sottolineare non è ovviamente - tornerò amplissimamente su questo - nei contenuti ma è anche nella forma, perché essa è già una questione di sostanza.
La stessa Corte dei conti, come è noto, ha rilevato, in questo DPEF, la totale assenza di uno spessore analitico e scientifico che sarebbe necessario, anzi indispensabile, per giustificare e spiegare gli obiettivi macro e microeconomici che questo Governo si pone. Siamo di fronte ad
un documento che alcuni colleghi e colleghe hanno definito letterario, declamatorio - peraltro non si tratta nemmeno di una grande letteratura -, sostanzialmente propagandistico.
Tuttavia, non voglio prenderlo sottogamba, perché penso che la propaganda abbia una grande funzione e penso che, quando un documento si presenta in tale veste - impreciso, slabbrato e contraddittorio sotto il profilo contabile - la sua anima, diciamo così, debba essere cercata altrove e non nei numeri: deve essere cercata nel profilo programmatico. Questo documento è l'allargamento dell'annuncio del programma dei cento giorni del Governo, è un programma, ed è un programma iperliberista. Con esso il Governo intende presentarsi ai cittadini del nostro paese e nei consessi internazionali e dichiara, a chiare lettere, senza nessun infingimento, quali siano le sue intenzioni. In questo senso, e solo in questo senso, si tratta di un documento importante, che dà ragione della nostra ferma e radicale opposizione. È un documento bandiera, lo dimostrerò, e come tale lo tratterò.
Su alcuni argomenti (dei quali, prevalentemente, intendo occuparmi nel corso di questa legislatura) la cosa è manifesta e addirittura clamorosa. Mi riferisco per esempio, alle parti relative al lavoro e alla previdenza sociale; vorrei soffermarmi su queste perché credo che sarà sufficiente.
La parte del documento di programmazione economico-finanziaria dedicata al lavoro è estremamente sintetica, oserei dire arida. Il Governo parte dall'affermazione - ed è una affermazione che ci è nota perché deriva, questa sì, da suggerimenti sorti in sede internazionale, in particolare, all'interno dell'Unione europea - che bisogna intervenire per elevare il tasso di occupazione nel nostro paese. Si badi bene, io non contesto l'obiettivo ma contesterò le modalità con cui il Governo intende perseguire tale obiettivo cercando di dimostrare che otterrà esattamente il contrario.
È vero che il tasso di occupazione italiano è troppo basso - è di dieci punti sotto la media europea ed è di circa 20 punti più basso di quello dei paesi europei più sviluppati - e che è particolarmente basso il tasso di occupazione femminile, per cui sarebbe giusto porsi il problema di un suo elevamento, ovverosia garantire le condizioni che permettano ad una più larga platea di cittadini di lavorare, ma per farlo bisogna perseguire una linea esattamente opposta a quella del Governo.
Qual è la linea che il Governo persegue? Nel DPEF è scritta per accenni, per gli addetti ai lavori, e dobbiamo desumerela dalle importanti dichiarazioni del ministro Maroni - opportunamente convocato dalla Commissione lavoro per una audizione sugli indirizzi del suo ministero - che, come adesso vedrete, ha reso, eccome se le ha rese! Oppure dobbiamo desumerla dagli articoli dell'organo della Confindustria, Il Sole 24 Ore, informatissimo ed anche utile, dai quali, in effetti, si desumono diverse cose, anche perché il Governo ha intenzione di demandare la normativa su questa materia ad un disegno di legge collegato che sarà presentato solamente nel prossimo autunno, se ho bene inteso, così come intende fare, direi, per tutte le più importanti questioni che all'interno del DPEF (documento bandiera) sono semplicemente citate, cui semplicemente si allude.
Che cosa intende fare il Governo per aumentare il tasso di occupazione? Applicare, né più né meno, la ricetta americana, la stessa che Robert Reich, ex Segretario di Stato del Governo Clinton, che di lavoro se ne intende (uno dei pochi uomini politici al mondo che ha deciso di rinunciare alla carriera pubblica - e che carriera pubblica - per dedicarsi alla propria famiglia, dicendolo tra l'altro senza infingimenti) definiva un imbroglio statistico degli americani. Questi infatti presentavano un tasso di disoccupazione inferiore al 5 per cento. Robert Reich, avvertiva invece che si trattava di un dato assolutamente falso, in quanto ciò che si aveva era in realtà un allargamento a dismisura del precariato, del doppio o addirittura del triplo lavoro, con ragazzi che lavorano nelle hamburgherie costretti a svolgere contemporaneamente tre impieghi
per poter portare a casa un salario che un lavoratore europeo guadagna invece con le sue normali, o quasi normali, otto ore di lavoro svolte nell'ambito di un unico rapporto di lavoro. Siamo di fronte ad una precarizzazione che indebolisce in realtà la stessa struttura produttiva degli Stati Uniti d'America, in quanto si hanno aumenti di occupazione solo nei settori dove la produttività è minima, come in alcuni settori del commercio e del terziario.
L'immagine che emerge da questo DPEF è esattamente quella che denuncia l'ex Segretario di Stato statunitense: si ha cioè l'idea di un allargamento ulteriore di una flessibilità già amplissima. Sulla flessibilità il Governo dell'Ulivo ha le sue responsabilità; capisco da questo punto di vista il relatore di minoranza Roberto Barbieri che evoca a sé, per così dire, il merito di aver aperto la strada in questa direzione. A me in realtà pare si tratti di un demerito. Comunque, il Governo di centrodestra intende ora sfondare su questo terreno, presentando nuove forme di flessibilità. Quali? Le desumo da ciò che ha detto in Commissione lavoro il ministro Maroni (a disposizione dei colleghi vi è il resoconto stenografico). Innanzitutto, si richiama la necessità di eliminare tutti i paletti - per carità, erano fragili - che noi stessi concorremmo a mettere al pacchetto Treu in materia di lavoro interinale; in secondo luogo, si intende permettere alle agenzie del lavoro interinale un intervento che vada al di là del lavoro interinale strettamente inteso, permettendo loro di operare in tutte le forme di intermediazione di manodopera; inoltre, si prevede un allargamento dei contratti a termine ottenuto attraverso la sussunzione in decreto legislativo di un accordo comune (che comune non è perché esclude la CGIL, vedendo coinvolte solamente la CISL e la UIL) in seguito alla direttiva della Comunità europea 99/70 in base alla quale si giuridicizza ciò che, in effetti, era diventato uno stato di fatto e che, una volta giuridicizzato, assume però il valore di un proclama: il contratto di lavoro a tempo determinato è cioè parificato, da un punto di vista della sua rilevanza nel sistema giuridico italiano, a quello di lavoro a tempo indeterminato. Ciò significa per l'appunto spingere in avanti quella realtà che ha già visto nell'ultimo trimestre del 1999 in Lombardia le assunzioni a tempo determinato superare in ragione del 67 per cento quelle a tempo indeterminato. Il tutto significa creare nuove forme e nuove tipologie di contratto a termine, quale il cosiddetto contratto di progetto. A tal proposito sono curioso di capire esattamente cosa ciò voglia dire (questo aprirebbe un discorso più ampio che malgrado i 18 minuti a mia disposizione non sono in grado di svolgere): aspettiamo che il Governo renda precisazioni.
Inoltre, vi è un aspetto che, signor rappresentante del Governo, considero odioso sotto il profilo etico, sotto il profilo della cultura politica ed economica nonché sotto il profilo umano: mi riferisco all'idea di introdurre una nuova forma di contratto di soggiorno per i lavoratori immigrati extracomunitari in base al quale la loro permanenza in questo paese sia limitata alla durata del loro rapporto di lavoro, che è a termine. Alla scadenza di tale rapporto questi tornerebbero ad essere clandestini e, quindi, si troverebbero in una condizione che i deputati di Alleanza nazionale considerano come reato. Qui si congiunge un calpestamento della cultura giuslavoristica, che è stata creata in questo paese da uno straordinario movimento democratico, sindacale e politico della sinistra che non ha quasi riscontro nel contesto europeo, con l'abolizione di qualunque forma di giustizia, di umanità, di concezione dei rapporti tra gli uomini e le persone.
È un punto massimo di barbarie e, pertanto, dico al Governo che, quando tale provvedimento verrà formalizzato, faremo, per quanto è nelle nostre forze, qualunque cosa dal punto di vista dell'utilizzo del regolamento di questa Camera, e anche oltre, per impedire che quella norma diventi legge.
Tutto ciò, condito da una nuova spinta alla privatizzazione del collocamento, spinta già intervenuta sotto l'egida del passato Governo - come più volte è stato
ripetuto - che qui avrebbe un ulteriore sfondamento nella forma dell'introduzione dei cosiddetti settori non-profit, sindacali o parasindacali, nella gestione dell'incontro tra domanda e offerta di lavoro.
Signor Presidente, una volta ciò si chiamava «fronte del porto», mentre oggi ci viene presentato come una modernizzazione del sistema di incontro fra domanda e offerta del posto di lavoro.
In questo modo, signori rappresentanti del Governo, non si aumenta il tasso di occupazione ma si dà una verniciatura alle cifre, non si combatte la disoccupazione né si migliorano la società economica, la società civile e conseguentemente la società politica. Semplicemente, si accompagna quella tendenza - che è una tendenza universale del capitalismo globalizzato - per cui l'area dei lavoratori o degli aspiranti tali è suddivisa in tre grandi settori: un nucleo sempre più ristretto di lavoratori a tempo indeterminato che garantiscono la continuità della produzione, un'area sempre crescente di disoccupati e di inoccupati, principalmente di giovani e di giovani donne che bussano alle porte del mercato del lavoro senza trovare soddisfazione ed un'area grigia crescente, priva di diritti, di certezze economiche e di sussistenza, costituita dai lavoratori precari.
Ebbene, signor Presidente, tale questione si collega alla condizione economica di questo paese. Un articolo di Scalfari su la Repubblica - mi piace citarlo perché ho constatato che oggi in quest'aula citare la Repubblica è quasi come citare l'Iskra o comunque un giornale sovversivo d'antan - diceva che il Governo, di fronte ad una situazione di questo genere, avrebbe anche potuto adottare una politica keynesiana di destra: aumentare un po' la circolazione di denaro sotto forma di reddito spendibile per dare un volano all'economia.
Al contrario, questo Governo, con un provvedimento Tremonti-bis dalla totale incertezza di copertura - ma su ciò torneremo quando sarà il momento e quando verrà discusso in quest'aula - continua a finanziare l'impresa, continuando in questo senso semplicemente ad attuare una politica presente da anni nel nostro paese. Non mi riferisco solamente al caso FIAT, ma a tutte le imprese. Nella passata legislatura avevamo chiesto che si facesse luce su questo, ma ciò è stato impossibile. Mi domando con quante centinaia di migliaia di miliardi lo Stato e cioè i contribuenti, ossia coloro che pagano le tasse (non tutti, perché come sappiamo gran parte di lor signori non le pagano) abbiano finanziato la FIAT e tante altre imprese e quanti finanziamenti, sotto forma di sgravi, di premi e di incentivi, sono stati rubricati nei documenti finanziari di questa Camera come incentivi a favore dell'occupazione, creando non un posto di lavoro in più (almeno un posto di lavoro in più!) dal punto di vista della stabilità, ma solamente precarizzazione e incertezza nel rapporto di lavoro.
La questione del precariato si collega alla questione economica e materiale. È uscito oggi, 31 luglio, il bollettino ISTAT che riguarda anche il passato Governo dell'Ulivo: le famiglie povere tra il 1999 e l'anno 2000 sono aumentate di 107.000 unità; le persone singole al di sotto della standard line of poverty sono aumentate da 7.508.000 a 7.948.000 unità. Siamo di fronte ad un allargamento della povertà e molte di queste persone fanno parte di coloro che lavorano. Infatti, la linea di povertà, secondo gli ultimi aggiustamenti in seguito all'inflazione, è di 1.569.000 lire al mese per due persone. Signor Presidente, sono tante le persone che si trovano al di sotto di questa cifra e non si tratta solamente di anziani e donne sole (ciò già basterebbe per creare un problema etico, morale, politico e sociale in questo paese), ma di giovani impiegati pagati troppo poco, di giovani operai e di tanti precari, a meno che essi non facciano quattro o cinque lavori lungo l'arco di un'unica giornata.
Questa è la situazione nella quale ci troviamo. Allora, come si affronta il problema dell'occupazione? Noi proponiamo un'altra strada: anziché dare soldi alle imprese, diamoli ai disoccupati! Diamo loro una sovvenzione di un milione al mese perché possano trovare lavoro, connettendo
a questo servizi gratuiti e formazione vera. Ciò significa aumentare i salari, a cominciare dai metalmeccanici. Altro che i giochini delle 18 mila lire della Federmeccanica, perché lì siamo di fronte ad una questione salariale che ha visto l'erosione, negli ultimi anni, di oltre sette punti di salario reale, che sono tantissimi. Forse al ministro del lavoro, che non ha fatto l'operaio, sfugge l'entità di quelle cifre. Queste, però, rapportate al reddito reale di una famiglia operaia, significano giorni di vita e di possibilità di spesa in meno ogni mese.
Questi sono i provvedimenti che un Governo dovrebbe presentare tracciando le linee ambiziose di un programma di legislatura. Siamo, invece, di fronte ad un'inflazione fissata all'1,7 per cento. Certo, la Confindustria chiedeva l'1,2 per cento! Ma l'inflazione reale, secondo l'ISTAT, a luglio è del 2,8 per cento! Vogliamo dire che ha ragione la Banca d'Italia (uno dei maggiori supporti, dopo la Confindustria e FIAT, di questo Governo) che parla del 2,7 per cento? Non ci scandalizziamo: siamo comunque un punto sopra all'inflazione programmata, che non è stata concordata con le organizzazioni sindacali. Ciò significa condannare i rinnovi contrattuali ad una condizione di non possibilità di recupero del valore reale di stipendi e di salari. Significa costringere i lavoratori, che fanno la ricchezza di questo paese, ad inseguire, sempre più con il fiato corto, la realtà di un aumento del costo della vita che non riescono a dominare.
Questo Governo ci consegna una condizione di precariato, di povertà, di bassa retribuzione e di bassi salari, dopo di che promette una riduzione dei contributi previdenziali per abbassare il costo del lavoro. Ma il costo del lavoro, nel nostro paese, non è tra i più alti d'Europa! Dicono balle - a verbale - coloro che sostengono questa tesi, come viene dimostrato se correttamente intese e trattate le cifre ...
PRESIDENTE. La prego di avviarsi a concludere.
ALFONSO GIANNI. Mi avvio rapidamente alla conclusione, signor Presidente.
Siamo agli ultimi posti per ciò che riguarda il salario reale, ma anche, malgrado un cuneo fiscale potente, sul problema del costo del lavoro.
Da ultimo vi è la questione delle pensioni. Avete promesso l'aumento delle pensioni minime...
PRESIDENTE. Onorevole Gianni, deve concludere.
ALFONSO GIANNI. Concludo, signor Presidente.
A parte il fatto che qui è scritto «sociali», qualcuno dovrebbe spiegare la differenza tra pensioni sociali e pensioni minime. Cosa vuol dire: iniziando dai soggetti più anziani e più deboli? Ce lo dica il Governo! Il ministro Maroni ha sostenuto una certa tesi in Commissione. Voglio vedere se in questa sede viene sostenuta la stessa cosa. Se così fosse, il circuito sarebbe chiaro: Tremonti fa lo scoop nel telegiornale di punta affermando che c'è un buco - che lo stesso DPEF dimostra non esserci - al fine di poter, poi, dire che quegli aumenti verranno dati solamente ad alcuni (a quelli più vecchi ed in prossimità di lasciare questo mondo) e, comunque, dilazionati nel tempo. Il programma elettorale del Polo è già bello che finito!
Bene, di fronte a tali questioni ribadiamo che una misura di civiltà sarebbe l'aumento, per i cinque milioni e mezzo di pensionati, di almeno 200 mila lire al mese. Ciò li porterebbe a guadagnare un milione: il minimo per poterli far salire sopra la linea di povertà a cui facevo prima riferimento (Applausi dei deputati del gruppo di Rifondazione comunista).
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole D'Agrò, al quale ricordo che ha venti minuti a disposizione. Ne ha facoltà.
LUIGI D'AGRÒ. Signor Presidente, signor viceministro, già nell'intervento che mi ha preceduto vi sono buoni motivi per dire che il DPEF presentato dal Governo
ha, di fatto, una realtà alternativa rispetto al progetto di società fin qui portato avanti dalle sinistre.
GIOVANNI RUSSO SPENA. Magari!
LUIGI D'AGRÒ. Ma non c'è motivo di scandalizzarsi per questo, perché il tema fondamentale del concetto alternativo, vissuto in campagna elettorale, ha bisogno di avere continuità all'interno di quest'aula. In caso contrario, le elezioni avrebbero potuto avere per sé e per gli altri un unico progetto che, poi, viene portato a compimento allo stesso modo, vi sia al Governo il centrodestra o il centrosinistra.
Visto che è stata la giornata delle citazioni, per arrivare all'argomento e al nocciolo della questione vorrei far riferimento ad un tema che negli anni '80 dalle mie parti aveva una particolare rilevanza.
In un saggio di Sandro Meccoli, Passaggio a nord-est, con presunzione l'area del Triveneto sosteneva che si era raggiunto il massimo del livello di competitività e di produttività della stessa e c'era chi ormai scommetteva sul declino dell'intero sistema economico del nord-est del paese. Meccoli parlava, invece, di una cultura alternativa, di un modo di proporsi diverso, quasi di un sogno nuovo a cui il nord-est doveva puntare: cioè, il tentativo di immaginare un nuovo rinascimento industriale.
Partendo da alte vette è sempre difficile mantenere la quota e perché questo avvenga è indispensabile che ci sia sempre un innervamento di innovazione, ma anche un grande salto di qualità culturale. A me pare che, alla fine, Meccoli abbia avuto ragione: quello che era ipotizzato come un risultato ormai ben definito - e non certamente superabile - oggi è un modello invidiato, copiato, anche se, per alcuni versi, già tradizionale e maturo; pertanto, se non ha dentro di sé la nuova realtà di innovazione culturale e di progetto, rischia di rimanere al palo.
Quindi, questo è un documento di grande spinta, in piena sintonia con le promesse formulate in campagna elettorale. Sarebbe stato quanto mai deleterio se la base sulla quale il centrodestra ha vinto le elezioni non venisse confermata in questo progetto di bilancio; sarebbe stato come se avessimo copiato dal centrosinistra aspetti che in campagna elettorale si sono confrontati e scontrati.
Il sistema maggioritario e l'alternanza hanno bisogno di chiarezza, di proposte alternative, ma con ciò non si vuol affermare che il paese è in ginocchio, che i Governi precedenti non abbiano compiuto il loro dovere: si vuol dire che esiste una proposta alternativa e diversa rispetto a chi ha governato fino adesso e criminalizzare il DPEF o il modo di pensare e di governare da parte della maggioranza significa, probabilmente, fare in qualche modo un mea culpa rispetto ai risultati ottenuti.
Questo DPEF reca in sé una grande discontinuità con il passato e gli elementi sono di duplice natura. In primo luogo, questo è un documento di intera legislatura e, quindi, offre degli indirizzi di governabilità e di certezza politica nella governabilità: la stabilità politica e di Governo è un elemento importante per la vita economica di un paese.
L'altro aspetto di discontinuità è il passaggio dall'epoca del prelievo a quella dell'espansione: non bisogna pensare e immaginare che sia possibile sempre raggiungere obiettivi di compatibilità economica - o, comunque, in relazione ai risultati che dobbiamo ottenere in relazione ai parametri europei - esclusivamente attraverso il concetto della tassazione.
Sussiste, invece, l'idea che questo paese abbia in sé le risorse, la capacità, l'orgoglio di spingersi più in là rispetto ai limiti che fin qui si è proposto; quindi, espansione significa avere l'opportunità di fornire più lavoro, di raggiungere probabilmente gli obiettivi di una minore tassazione nei confronti delle imprese e, quindi, avere l'opportunità di concedere più risorse al welfare.
Vi è un deficit al di sopra dei 19 mila miliardi preventivati - e non siamo qui a discutere sulla certezza delle cifre -, ma anche ciò non credo che venga sbandierato
dalla maggioranza come un motivo per tornare indietro. Non si torna indietro, in quanto sarebbe un grandissimo errore accusare la parte avversa di avere innescato un processo che non dà la possibilità, a chi oggi governa, di cercare fino in fondo i propri obiettivi.
La certezza dei conti è importante, ma mi è parso di capire che nessuno, dai banchi della maggioranza, abbia detto che questo è un motivo per non andare oltre l'esame della realtà del paese così come la si vuole imbastire.
Il tema dello sviluppo al di sopra del 3 per cento, come indicato oggi dal Fondo monetario internazionale, non pare essere un obiettivo irraggiungibile, anzi si prefigura l'ipotesi che, seppur al massimo, rispetto alle attuali potenzialità, questo obiettivo nei prossimi cinque anni possa abbondantemente essere raggiunto e anche superato. Ciò ci fa ritenere che non ci troviamo di fronte ad un sogno e nemmeno di fronte ad un atto di fede. Ci troviamo di fronte alla necessità ed all'opportunità di stabilire un patto importante con il paese, quello cioè di un nuovo rinascimento in questo paese, non nel senso di fare una vera e propria rivoluzione, ma nel senso di reimpostare complessivamente la macchina del paese, ridargli fiducia, ridargli qualità, rimetterlo nella condizione di investire sull'innovazione di processo e di prodotto.
Quando si dice che questo paese aveva già tutte le carte in regola per essere competitivo, probabilmente non si dice fino in fondo la verità, perché ci sono dati inconfutabili, che sono stati verificati da organismi internazionali ma che sono anche oggetto di tranquilla trattazione nei convenevoli fra noi. Poi ci accorgiamo - e questi dati sono ineccepibili - che il nostro sistema economico, rispetto ad un dato del 1990, che prefigurava un 5,4 per cento delle potenzialità esportative dell'intero export mondiale, si ritrova ad avere una potenzialità e una copertura di questa area del 3,2 per cento. Ciò significa che, di fatto, la competitività del nostro sistema economico è progressivamente diminuita, direi quasi caduta in termini verticali. Ci possono essere aspetti contingenti, mi riferisco, ad esempio, al fatto che prima del 1994 molte occasioni per acquisire competitività erano date dalla svalutazione della nostra moneta. Dunque, quando ci siamo trovati di fronte alla parità della lira con l'euro, di fatto, il nostro sistema non è stato più in grado di competere come prima. Ma, a maggior ragione, tutto ciò deve farci riflettere e deve destare in noi preoccupazione. In primo luogo, perché, dopo l'avvenuta parità con l'euro, abbiamo visto che le nostre esportazioni non vanno più verso l'area europea bensì quasi esclusivamente verso quella degli Stati Uniti, quindi verso l'area del dollaro, che si è rafforzato nei confronti dell'euro. Quindi, la nostra competitività è, ancora una volta, soltanto di opportunità economico-finanziaria e non, certamente, riferita alle potenzialità innovative dei nostri prodotti. Questo significa che, nel frattempo, ci siamo misurati con il sistema economico internazionale solo con prodotti di ordine tradizionale e maturo, con conseguente grossa difficoltà a far in modo che il nostro paese possa trovarsi nelle condizioni, ad esempio, di avere nella ricerca potenzialità per quanto riguarda licenze o brevetti. Ciò ci pone in grossa e seria difficoltà nei confronti del concetto di mondializzazione.
Il secondo aspetto, che riguarda la mancata competitività del nostro sistema, è collegato alla struttura stessa delle aziende.
Il nostro potenziale economico è di gran lunga determinato dalle piccole e medie imprese; sappiamo che le ditte esportatrici in Italia sono 180 mila: il 60 per cento di esse riesce ad esportare meno di 150 milioni per quota annua, pari allo 0,7 per cento dell'intero export, mentre poco più di 500 imprese esportano il 40 per cento del totale. Questi dati sono significativi della difficoltà di capitalizzazione delle nostre imprese e, soprattutto, della fatica di mettersi in contatto con il concetto di globalizzazione o di sostenerne i costi. Superare, pertanto, i vincoli che impediscono la crescita delle aziende, come previsto dal DPEF, è estremamente
importante; oggi, alcuni dati ISTAT fanno rilevare che la produttività cresce anche all'interno delle aziende con maggiore capacità dimensionale.
L'altro aspetto che riguarda il tema della competitività è il rapporto impresa-bene prodotto: ci troviamo di fronte ad una realtà in cui l'Italia si muove in settori sempre più tradizionali dove la domanda cresce meno. È l'aspetto della delocalizzazione: Meccoli l'aveva già individuata come un elemento importante di novità degli anni novanta ed aveva indovinato; ma io non credo che la delocalizzazione sia un fatto negativo, anzi essa rappresenta, nel modo più avanzato, la capacità di dirigere la realtà produttiva italiana verso aree dove sia maggiormente disponibile manodopera a minor costo, evitando che altri arrivino prima di noi. Penso alla Germania, che ha delocalizzato decisamente prima dell'Italia ed è riuscita a conquistare i mercati dell'est europeo attraverso questo tipo di attività, svolta su un territorio che va dalla Germania, dalla Polonia e dalla Cecoslovacchia fino alla Croazia ed alla Slovenia.
Oggi realtà del nord est stanno colonizzando - se così si può dire - la Romania: non si tratta di un fatto negativo, se la direzione strategica aziendale rimane qui da noi. Il capitalismo italiano sta dimostrando in questi giorni particolare attivismo ed è altrettanto vero che questo attivismo ci dà la possibilità di definire strategicamente e finanziariamente linee d'intervento che comportino aspetti legati alla delocalizzazione di attività considerate tradizionali e mature. Da questo punto di vista ci potrebbe anche essere un minor inconveniente - tra virgolette - per quanto riguarda alcuni aspetti sociali di cui paghiamo i costi: mi riferisco al problema dei clandestini che, se formati nelle aree di origine, potrebbero non entrare in Italia ed essere comunque soggetti di partecipazione della ricchezza italiana all'estero.
Si impone, quindi, la necessità di aumentare con forza la presenza italiana nei settori di alta tecnologia, altrimenti il tessuto del nostro paese subirà sempre più gli effetti della globalizzazione e della competizione.
Un altro elemento ci dice che non siamo competitivi: il fenomeno dello shopping, di cui sono protagoniste moltissime aziende americane, inglesi e tedesche nel nord del nostro paese; a questo proposito, è significativo, per esempio, che nella grande distribuzione i beni alimentari siano ormai quasi tutti in mano a realtà straniere. In Italia è in atto una competizione fra chi avrà il sopravvento, ma non è una competizione che trovi aziende italiane schierate per vincere. Questo è un fatto estremamente negativo, che accompagnato, per esempio, dall'acquisto di particolari gioielli (aziende anche tecnologicamente avanzate) da parte di concorrenti stranieri, porta allo svuotamento delle nostre aziende, come contenuto tecnologico e design, per poi arrivare al paradosso che alcune realtà - si legga Electrolux - si trovano, a distanza di cinque anni dall'acquisto, a dover fare i conti con il mantenimento o meno dei livelli occupazionali, prima stabiliti con certezza e poi addirittura proclamati attraverso il principio di grande innovazione di progetto e di prodotto. Questo non è mai avvenuto ed è invece stato motivo per succhiare fino in fondo il meglio della produzione italiana, addirittura facendo in modo di espellerla da un intero settore.
Il DPEF parla di incentivazione alle attività produttive in forma automatica ed oggettiva. Questo è estremamente importante, perché la regolamentazione dei cosiddetti contributi porta sempre a fare modo che ci sia il più furbo, quello con le amicizie, che comunque può misurarsi con il potere in maniera diversa rispetto ad altri e, molte volte, il sistema delle piccole e medie imprese ne è stato fortemente penalizzato. L'opportunità di vincere è sempre stata della grande impresa, il che, effettivamente, non ha messo il nostro tessuto industriale nelle condizioni di essere competitivi fino in fondo. Tuttavia, il nostro sistema industriale non è competitivo perché manca anche di infrastrutture, definite dal DPEF come una sfida dei
prossimi anni. Non occorre ripetere che i prodotti dalle nostre aziende subiscono un costo aggiuntivo chilometrico che va ben oltre le realtà degli altri paesi. Faccio solo una considerazione, sempre per tornare allo snodo del nord est. Si dice che da qui a dieci anni la movimentazione di mezzi, di beni e di persone dall'ovest verso l'est subirà un aumento del 108 per cento. Ci troviamo di fronte a situazioni infrastrutturali già da tempo sature: se non arriva in fretta una risposta, il collasso sarà totale.
Inoltre, credo ci sia la necessità, ancora volta, di fare riferimento - come è echeggiato in questa aula - al tema dell'energia. Non è possibile che questo paese abbia l'energia al più alto costo europeo. Sappiamo perfettamente che anche la bolletta energetica di quest'anno sarà probabilmente la più alta in senso assoluto degli ultimi anni: quindi, un nuovo record, si parla di 53 mila miliardi, pari al 2,5 per cento dell'intero PIL italiano. Questo significa che, indubbiamente - al di là delle razzie che vengono fatte anche in questo settore, guarda caso da stranieri in Italia -, se non si mette mano a questa situazione, il rischio è che la dipendenza energetica italiana affossi definitivamente il sistema strutturale della piccola e media impresa.
Infine l'ICE, vale a dire gli aiuti, gli apporti pubblici al sistema delle imprese italiane. È ora che ci sia la possibilità di mettere insieme, di creare sinergie e attività accorpate. ICE, ENIT e camera di commercio non possono far finta di non sentirsi, di non ascoltarsi, di essere estranei l'uno l'altro. Ecco un esempio della burocrazia, della realtà dei doppioni italiani, della necessità di mettere mano fino in fondo a questo tipo di rivoluzione.
PRESIDENTE. Onorevole D'Agrò, la prego di concludere.
LUIGI D'AGRÒ. Signor Presidente, probabilmente questo non è il cambiamento della modernità che qualcuno vuole, ma certamente non è nemmeno il cambiamento della restaurazione, che farebbe comodo a qualcun altro (Applausi dei deputati dei gruppi del CCD-CDU Biancofiore, di Forza Italia e della Lega nord Padania).
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Paolo Russo, al quale ricordo che ha sei minuti a disposizione. Ne ha facoltà.
PAOLO RUSSO. Signor Presidente, onorevoli colleghi, onorevole sottosegretario, finalmente un documento di programmazione economica e finanziaria propriamente inteso nel suo significato originario e autentico: strumento di misura in progress dei parametri di sviluppo nel quinquennio in esame; non quindi pot pourri, pronto per essere «stirato», interpretato per ogni esigenza macroclientelare e politica, ma seria e rigorosa occasione per riparametrare i numeri in funzione degli obiettivi prefissati dai precedenti documenti, nonché dall'evoluzione economico-finanziaria internazionale.
Si è detto da più parti che tale documento sarebbe ostativo per la crescita del Mezzogiorno del nostro paese; niente di più falso, di più mendace. Viceversa, per la prima volta si è ritenuto di mantenere un coerente approccio che abbia la sua dimensione, anche regionale, sul piano nazionale, rendendo la specificità della nuova questione meridionale come essenza stessa di una vicenda nazionale.
Nel quinquennio si prevede la riduzione del tasso di disoccupazione al 7 per cento, rendendo così il più significativo contributo alla lotta a questa piaga, proprio nel sud del paese.
Si indica finalmente che la vera molla per gli investimenti, e quindi per la crescita ad un livello superiore al 4 per cento nel Mezzogiorno, deve essere rappresentata dalla semplificazione e dall'accelerazione degli investimenti pubblici in infrastrutture, vero asse portante di un'esigenza più forte rappresentata dalle imprese, ma soprattutto dai territori.
Non bastano da soli gli incentivi previsti dalla legge n. 488 del 1992, che pure va semplificata nelle procedure ed utilmente rifinanziata. Occorre progettare e
costruire un sistema paese che, anche nel Mezzogiorno, sappia essere terreno di coltura positivo per l'attecchimento e per la crescita delle piccole e medie imprese.
A tal proposito, ben venga la Tremonti-bis prevista dal piano dei cento giorni e capace di offrire utili opzioni proprio in quelle aree del paese ove è più difficile, per la maggior parte delle imprese di piccole dimensioni, acquisire nuovo capitale di rischio al fine di finanziare il proprio sviluppo.
Per tali entità risulta difficile sia chiedere nuovi apporti dei soci sia - a maggior ragione - ipotizzare un collocamento in borsa.
Risulta evidente che le norme che incentivano i processi di ricapitalizzazione, come la legge Visco e la DIT, vanno a favorire le imprese più grandi, quelle prevalentemente collocate nel nord del paese.
Finalmente questo DPEF rappresenta non un'episodica misura tampone ma un progetto d'assieme che prevede di rendere esenti dalla tassazione i redditi bassi al di sotto dei 22 milioni, prevalentemente collocati al sud. Si viene a finanziare un piano di investimenti accelerati che misura, valorizza e controlla il cospicuo flusso di spesa previsto dal quadro comunitario di sostegno. A tal proposito appare utile significare come talune regioni, come per esempio la Campania, blaterino e discettino di federalismo e di solidarietà dimenticando che la prima azione di vera autentica solidarietà, di rispetto nei confronti dei propri cittadini, è rappresentata proprio dalla capacità di spendere saggiamente le risorse ad hoc destinate.
Non si auspica un nuovo partito della spesa, piuttosto si rappresenta come un investimento intelligente ed una spesa trasparente in tempi certi possano produrre lavoro, ricchezza e determinare sviluppo. Viceversa spese lente, meccanismi farraginosi ed incerti, alimentano la sfiducia degli imprenditori seri; le idee-progetto svaniscono nel nulla, prevale il macroaffare e la criminalità organizzata
Questo DPEF consente al sistema paese di decollare in modo armonico trascinando anche il Mezzogiorno e valorizzando le sue autonome peculiarità. È per questo che noi di Forza Italia lo riteniamo funzionale al processo di ammodernamento e di sviluppo dell'intero paese (Applausi dei deputati del gruppo di Forza Italia).
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Gasperoni, al quale ricordo che ha a disposizione otto minuti. Ne ha facoltà.
PIETRO GASPERONI. Signor Presidente, signori del Governo, onorevoli colleghi, senza ripetere molte delle cose già dette, parto da un primo grande interrogativo che però già segna il carattere del documento di programmazione economico-finanziaria. Come si realizza una crescita così sostenuta se non si alimenta la domanda interna, a partire dalla piena copertura del potere di acquisto delle retribuzioni, le quali saranno erose da un tasso di inflazione che non scenderà di molto sotto il 3 per cento e che intendete compensare solo con una rivalutazione dei salari e degli stipendi rapportata ad una inflazione stimata all'1,7 per cento?
Sembra si debba dare per scontato un più che probabile taglio dei salari reali, così come appare piuttosto evidente l'intento di tagliare le spese sociali quale inevitabile effetto che si determinerebbe a seguito della annunciata riduzione della spesa pubblica con cui finanziare la riduzione della pressione fiscale. Certo, nel DPEF non dite tutto ciò; parlate di taglio della spesa corrente per l'acquisto di beni e servizi, ma sapete bene che ciò è impossibile perché significherebbe ridurla del 65-70 per cento del suo totale. Si tratta quindi, di un tentativo di nascondere le vostre vere intenzioni in merito a quanto intenderete poi fare concretamente.
È ormai noto come la spesa sociale nel nostro paese sia complessivamente inferiore a quella media dei paesi dell'Unione europea; è pertanto chiaro che essa non può in alcun modo subire tagli di alcun genere. Essa va certamente equilibrata al suo interno, ma ciò va fatto attraverso maggiori risorse da destinare al sostegno
della famiglia e dei disoccupati e per garantire maggiori opportunità e sostegno ai giovani.
La nostra preoccupazione sulle vostre reali intenzioni trova, inoltre, un suo forte riscontro in materia previdenziale dove vengono enunciate - malgrado non siano state svolte verifiche preventive con le parti sociali - alcune misure, per un verso, del tutto generiche ma, dall'altro, gravi ed allarmanti che pongono una seria ipoteca sul futuro e svuotano di significato la verifica autunnale con i sindacati e gli imprenditori.
Anche il condivisibile proposito di migliorare i trattamenti pensionistici sotto il milione di lire - peraltro non meglio specificato nei modi e nei tempi, oltre che nel merito poiché non è neppure chiaro a quali pensioni intendiate riferirvi - assume l'aspetto, a mio avviso, di una proposta di scambio con il peggioramento dei trattamenti previdenziali nelle loro generalità.
A tale riguardo è forse utile ricordare che le pensioni minime sprovviste di altri redditi integrativi le abbiamo già portate, attraverso la maggiorazione sociale, a 900 mila e a 920 mila lire rispettivamente per gli ultrasessantacinquenni e gli ultrasettantacinquenni.
L'intenzione del Governo di ridurre del 5 per cento l'aliquota contributiva sui redditi da lavoro dipendente - senza specificare minimamente quanto di questa riduzione sarà destinata all'abbassamento del costo del lavoro per ridurre la forbice tra retribuzione lorda e netta e quanto invece al finanziamento dei fondi pensione integrativi - indurrà inevitabilmente al taglio delle prestazioni pensionistiche non inferiore al 15-16 per cento e metterà in forse i bilanci degli enti previdenziali che subiranno una decurtazione tale da pregiudicare l'erogazione delle pensioni maturate. Ciò introdurrebbe uno squilibrio strutturale nei conti previdenziali che porterebbe progressivamente alla crisi del nostro sistema pensionistico pubblico e ad una sua rapida privatizzazione a danno dei lavoratori e delle fasce sociali più deboli.
Dovreste spiegare, in maniera convincente - ammesso che ciò sia possibile -, come pensiate di garantire il pagamento delle pensioni in essere se si punta ad una così consistente riduzione dei contributi previdenziali. Vorrei ricordare al riguardo che nell'anno 2000 la spesa per prestazioni previdenziali è aumentata del 3,3 per 100, a fronte di un aumento nominale del PIL del 5,2 per cento, confermando così che la riforma, già realizzata del nostro sistema previdenziale, consente il controllo della spesa pensionistica, la quale, anche in rapporto al prodotto interno lordo, è scesa dal 14,93 per cento del 1999 al 14,65 per cento del 2000.
Parlate poi di liberalizzazione dell'età pensionabile. Ebbene, diteci cosa intendete esattamente, dal momento che con la legge finanziaria del 2001 abbiamo già introdotto la possibilità di prosecuzione del rapporto di lavoro anche oltre il raggiungimento dei requisiti pensionistici.
Spiegateci poi come si concili tale norma con l'abolizione del residuo divieto di cumulo tra pensione e reddito da lavoro, già ridotto, sempre con l'ultima legge finanziaria, al solo 30 per cento dell'importo pensionistico. Sarebbe utile riflettere attentamente sul fatto che l'abolizione completa di tale divieto, se non accompagnato da una ben definita strategia di insieme, rischierebbe di entrare in collisione frontale con qualsiasi tentativo di flessibilizzare verso l'alto l'età pensionabile.
Lo stesso trattamento di fine rapporto, non più vincolato, come proposto dai governi di centrosinistra, al finanziamento della previdenza integrativa e l'equiparazione delle agevolazioni fiscali tra fondi chiusi e fondi aperti vanificherebbero di fatto lo sforzo di costruire il secondo pilastro del sistema previdenziale così come prevedeva la legge n. 335.
Sembra pertanto di intravedere con sufficiente chiarezza il malcelato intendimento di devastare la riforma pensionistica del 1995 e con essa il sistema previdenziale pubblico.
A quanto detto desidero soltanto aggiungere che il condono tombale previsto
nel pacchetto dei cento giorni a favore delle imprese che emergono coinvolge, loro malgrado, senza peraltro confronto tra le parti sociali, gli stessi lavoratori, i quali, a differenza delle imprese, saranno costretti a pagare di tasca propria una parte cospicua dei costi dell'emersione.
Per quanto concerne gli aspetti retributivi, mentre con le soluzioni che avevamo indicato e definito con i contratti di riallineamento, con i quali si possono adeguare progressivamente le retribuzioni da corrispondere ai lavoratori, con le emersioni previste dal pacchetto Tremonti, le aziende devono invece corrispondere da subito le retribuzioni minime previste dalla contrattazione collettiva.
Sembra pertanto chiaro che, soprattutto nel mezzogiorno, il contratto di riallineamento, in presenza di aziende che pagano al nero meno dei minimi tabellari, sia più conveniente e che il condono previsto dal ministro Tremonti rischia di essere controproducente per tutti o poco più che propagandistico.
Insomma, e mi avvio a concludere, se il buongiorno - come si dice - si vede dal mattino, per gli italiani, a partire dai lavoratori e dai pensionati, questo Governo rappresenterà davvero il peggio che si potessero aspettare (Applausi dei deputati del gruppo dei Democratici di sinistra-l'Ulivo).
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Canelli, al quale ricordo che ha cinque minuti a disposizione. Ne ha facoltà.
VINCENZO CANELLI. Signor Presidente, onorevoli colleghi, signor rappresentante del Governo, l'azione di politica economica delineata nel documento di programmazione economico-finanziaria ha come obiettivo l'accelerazione dello sviluppo del paese in un quadro di equilibrio dei conti pubblici. Punto centrale di tale azione è il contenimento dell'aumento della spesa primaria che consenta un abbattimento della pressione fiscale. La crescita viene promossa attraverso lo stimolo dei flussi di investimento nel settore privato e in quello pubblico; il perseguimento di una maggiore efficienza dei servizi pubblici; la rimozione di vincoli all'attività economica e all'offerta di lavoro.
In presenza di un indebitamento pubblico elevato, l'indirizzo è quello di far crescere il prodotto interno lordo rapidamente al fine di rispettare i vincoli fissati dal patto di stabilità e di raggiungere il pareggio di bilancio nell'anno 2003. Il riequilibrio del bilancio pubblico rafforza e consolida l'azione di politica economica fornendo alla finanza pubblica italiana margini per operare in senso anticiclico. La riduzione della pressione fiscale, gli investimenti pubblici e privati per realizzare le grandi infrastrutture, l'emersione delle attività irregolari, l'aumento delle pensioni minime sono alcuni dei fattori che faranno crescere la domanda interna, preservando la congiuntura italiana dagli eventuali andamenti negativi di quella internazionale.
Lo sviluppo del Mezzogiorno dovrà dare un contributo decisivo all'aumento della crescita e del tasso di occupazione. Il Governo si prefigge l'obiettivo di guidare l'agricoltura e la filiera agroalimentare verso il raggiungimento di una maggiore competitività nel contesto italiano, europeo ed internazionale, garantendo la sicurezza alimentare dei cittadini, il tessuto delle imprese agricole e le risorse naturali presenti nel territorio. Per la prima volta, quindi, l'area meridionale viene considerata il fulcro della strategia dello sviluppo nazionale.
Vorrei ricordare che si tratta di un'area afflitta, ancora oggi, da una disoccupazione giovanile pari al 22 per cento e da una emigrazione annuale - sempre di giovani - di 80 mila unità. Sembra di rivedere quei film in bianco e nero che, all'inizio degli anni '60, ritraevano i nostri contadini mentre assalivano i treni che partivano da Catania, da Palermo e da Lecce e che li portavano verso il nord; questa volta, tuttavia, non si tratta di poveri contadini straccioni, bensì di giovani intellettuali che, con la loro partenza, rendono sempre meno ricca la nostra area meridionale. Essa è, come dicevo, afflitta
da un'elevata disoccupazione, da una forte emigrazione giovanile, da un deficit grave di infrastrutture. Vorrei ricordare che ancora oggi - siamo agli inizi del XXI secolo - vaste aree del Mezzogiorno (e, in particolare, della Puglia) sono afflitte da preoccupanti problemi idrici. Nelle case della Puglia e in alcune zone della Calabria l'acqua per usi civili viene distribuita solo due ore al giorno. Non c'è un litro d'acqua disponibile per l'irrigazione dei campi e, in alcune zone dell'area di Manfredonia, alcuni impianti hanno dovuto sospendere la produzione perché manca l'acqua per il raffreddamento del processo produttivo. Inoltre, quest'area è afflitta da seri problemi di sicurezza. Riteniamo che l'avere individuato nel meridione il fulcro dello sviluppo nazionale, rappresenti un momento di grande valenza politica. Questo documento, dunque, mira a riallineare il sud al resto dell'Italia (Applausi dei deputati del gruppo di Alleanza nazionale).
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Ceremigna, al quale ricordo che ha sette minuti a disposizione. Ne ha facoltà.
ENZO CEREMIGNA. Signor Presidente, onorevoli colleghi, il documento che ci è stato sottoposto dal Governo è meritevole di grande attenzione, poiché esso contiene - pure in presenza delle sole misure macroeconomiche - la rappresentazione di ciò che, presumibilmente, costituirà la filosofia delle future leggi finanziarie del centrodestra. In questo ambito, si evidenzia fin da ora la stella polare che orienterà le scelte di politica economica dell'attuale maggioranza: una centralità non già delle imprese, ma degli imprenditori; la messa in soggezione, la subalternità del ruolo pubblico in economia rispetto al ruolo del privato; l'assoluta marginalità e la pura funzione strumentale del fattore lavoro e, dunque, dei cittadini lavoratori.
Si tratta di un punto dirimente, si tratta - dopo quasi dieci anni nei quali il risanamento del paese e l'ingresso nella moneta unica europea si sono fondati su scelte e orientamenti largamente condivisi e partecipati - di un'appropriazione indebita da parte della Confindustria, del grande padronato, auspice e benedicente il governatore della Banca d'Italia, dei destini del futuro economico della nostra nazione.
Approvazione indebita, avallata dai programmi del Governo che ha evidentemente fatta propria non l'economia di mercato - peraltro, scelta comune a tutti noi - ma la tirannia del mercato, la riscoperta di un moloc al quale sacrificare tutto. Che sia questa la sostanza dura e cruda che si ricava dal DPEF è fuori di ogni ragionevole dubbio e risultano, francamente, patetiche le reiterate pezze che settori della maggioranza, in evidente difficoltà, tentano di mettere - l'abbiamo sentito anche nel corso di questa discussione - ad un disegno che solo un cieco potrebbe non vedere nella sua compiutezza e pericolosità. Parlo di pericolosità poiché un simile impianto di bilancio pluriennale, con i presupposti che poco fa richiamavo, può costituire un potente fattore di disgregazione sociale. Può, favorendo sfacciatamente i pochi, non ammansire i tanti che si intende far contare sempre meno ed innescare in loro la fiera ed altrettanto ovvia capacità di reazione. È un'impostazione che rischia di determinare fratture nel corpo vivo del paese, ma che, proprio per questa sua natura potenzialmente elitaria, non solo non produrrà la sfida dell'innovazione, la chiamata generale a misurarsi con le esigenze e le incessanti modernizzazioni dell'economia globale, ma contiene in sé i germi nefasti di un ritorno ad una concezione classista nei rapporti economici, sociali, civili, che tutto può essere meno ciò di cui, effettivamente, ha bisogno il nostro paese per un suo ordinato, equo e sostenibile sviluppo.
Nel vostro DPEF non esiste, signori del Governo, alcuna possibilità o potenzialità di mediazione sociale. Non esiste, perché, quando le uniche vostre preoccupazioni - come quelle del governatore Fazio - battono con un'insistenza esasperante sui soli tasti della competitività, della produttività, del profitto e della resa finanziaria del sistema e non affrontano, con la stessa
energia e determinazione, le loro ricadute in termini di serena e civile convivenza tra cittadini - e, quindi, la necessità di includere, e non escludere, milioni di soggetti attivi dello sviluppo -, vuol dire che è stata già fatta una scelta miope, la più illusoria, la più pericolosa, appunto.
D'altra parte, non sono queste le maggiori preoccupazioni dei nostri partner europei? Vedremo quanto ciò che sto dicendo si discosterà dalla realtà. Lo vedremo quando discuteremo di previdenza, di sanità, di scuola, di formazione, di occupazione, di ammortizzatori sociali, ossia quando dai grandi numeri passeremo alle leggi specifiche di bilancio. Forse, allora, il ministro Tremonti, il capo della «banda del buco» - intendo il fantomatico buco di bilancio -, comprenderà che le politiche di risanamento dell'Ulivo, condotte con la massima concertazione possibile, non obbedivano a chissà quali indecisioni dei passati governi, ma erano il solo modo per condurre tutto il paese lungo l'itinerario di uno sviluppo non effimero in quanto robustamente poggiato sulla condivisione e sulla partecipazione da protagonisti della stragrande maggioranza dei nostri concittadini. Ancor più che il Governo, è lecito prevedere che se ne accorgeranno, assai presto, i cittadini, i lavoratori, i pensionati, i giovani, a partire da coloro, tra questi, che si sono fidati ed affidati nel voto al centrodestra.
Vedremo insieme che fine avranno fatto le mirabolanti promesse, il contratto che il cavaliere Berlusconi ha firmato, anche questo, unilateralmente. Già a partire dalla prossima finanziaria, faremo qualche conto e con ripetitività, ma con onestà, verificheremo quanti torti o quante ragioni avremo avuto nel dare questa valutazione del DPEF. Oggi, il documento ci viene rappresentato in modo tale che risulta francamente difficile rintracciare in esso quello che dovrebbe essere il requisito più importante...
PRESIDENTE. Onorevole Ceremigna, la prego di avviarsi alla conclusione.
ENZO CEREMIGNA. ...e cioè quello della credibilità, della realizzabilità. Noi dell'opposizione al Governo voteremo contro il documento non per partito preso ma per sollecitarvi a cambiare registro: prima lo farete e meglio sarà. Prima o poi i nodi verranno al pettine e ciascuno sarà chiamato a rendere conto dei risultati ottenuti. Quelli dei governi dell'Ulivo, la vera forza della modernizzazione cosciente...
PRESIDENTE. Onorevole Ceremigna, adesso deve proprio concludere.
ENZO CEREMIGNA. ...sono agli atti ed io ne rivendico tutta intera la validità. Adesso tocca a voi andare al varco, e noi saremo lì ad attendervi (Applausi dei deputati del gruppo Misto-Socialisti democratici italiani)!
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Giuseppe Drago, al quale ricordo che ha dieci minuti a disposizione. Ne ha facoltà.
GIUSEPPE DRAGO. Signor Presidente, signor sottosegretario, onorevoli colleghi, vorrei fare qualche riflessione partendo da una affermazione contenuta nel DPEF alla quale attribuiamo una notevole valenza strategica. Il grande balzo di sviluppo che il Governo intende assicurare all'intera realtà economica italiana avverrà soltanto a condizione di coinvolgere nella crescita economica e nel riscatto sociale, in modo sostenuto, le aree del Mezzogiorno. Vale a dire che la questione meridionale è parte integrante della questione paese: il sistema paese ha bisogno di un sud forte e non sa che farsene di un sud poco competitivo!
La credibilità del Governo sta ora nella sua capacità di individuare e di attuare, in sintonia con il sud, iniziative concrete che, anzitutto, consentano al sud di operare in condizioni di pari opportunità rispetto al resto del paese e, successivamente, gli permettano di competere, alla pari, sullo scenario nazionale ed internazionale.
Il sud non vuole più essere assistito, non vuole più essere sotto tutela né vuole interventi straordinari del tipo di quelli già sperimentati in passato (che tra l'altro straordinari non erano affatto, perché
erano, in realtà, sostitutivi degli interventi ordinari): il sud vuole essere messo nelle stesse condizioni di partenza delle altre zone del paese, vuole poter camminare da solo, vuole poter utilizzare le proprie capacità, le proprie risorse e le proprie energie, vuole puntare ad uno sviluppo endogeno, autonomo. D'altro canto, uno Stato federale - quello, cioè, che un po' tutti vogliamo costruire - non può prescindere da tutto questo.
Certo, il modello di sviluppo devono sceglierselo i singoli enti territoriali e il Governo nazionale non può sovrapporre la sua alla loro scelta, così com'è vero, d'altro canto, che l'autonomia dei territori deve servire a rafforzare l'unità della nazione. Il Governo deve invece intervenire per ridurre i gap infrastrutturali e nei servizi che rendono ancora grande il divario tra il nord e il sud: sono questi la causa della mancante o ridotta competitività, in generale, del Mezzogiorno, sebbene una parte di esso, nonostante tutto, cresca.
Il PIL del sud quest'anno è superiore al PIL del nord, ma sappiamo che, per poter raggiungere l'obiettivo del sistema paese, che è quello del 3 per cento, abbiamo bisogno di un PIL del Mezzogiorno che si attesti almeno intorno al 4,8-5 per cento.
Allora, il nodo è come rendere appetibile il Mezzogiorno per gli investitori nazionali e stranieri. Il documento contiene alcuni strumenti: l'emersione del sommerso, anche se non ci sembra che accrescerà la platea produttiva nel breve e nel medio periodo; la Tremonti-bis, che però agisce per tutto il tessuto produttivo del paese e serve soprattutto là dove c'è già un insediamento imprenditoriale. Tra l'altro, lo abbiamo posto in Commissione ma lo poniamo anche qui in Assemblea, esiste il problema di rendere cumulabile il credito di imposta, che già esiste per le aziende del Mezzogiorno, con l'utilizzo della Tremonti-bis. Al riguardo, vorremmo che il Governo in Assemblea ci desse maggiori garanzie rispetto a questa problematica, per capire fino a che punto il problema sia la mancata copertura finanziaria del credito di imposta o se vi siano altri problemi, che, comunque, riteniamo il Governo debba risolvere.
Vi è poi la grande questione delle infrastrutture e degli investimenti pubblici e privati. Chiedo al Governo se si riescano a dare oggi, ad un imprenditore certezze e garanzie rispetto, in primo luogo, alle opere, alle infrastrutture che vogliamo realizzare. Qui si pone il problema delle priorità rispetto agli investimenti, rispetto agli interventi che dobbiamo realizzare, ma, soprattutto, si pone la questione se riusciamo a dare certezze e garanzie rispetto ai tempi di realizzazione delle infrastrutture. Allora, priorità e tempistica: mi sembrano queste le due questioni su cui dobbiamo essere più precisi, su cui dobbiamo entrare nel dettaglio. Mentre la tempistica è legata certamente alla semplificazione amministrativa, che chiaramente riguarda tutto il sistema paese (la semplificazione, la certezza del diritto, il riordino della pubblica amministrazione, i testi unici, riguardano complessivamente il sistema paese), le priorità sulle infrastrutture da realizzare, che diventano certamente fondamentali per il Mezzogiorno d'Italia, devono integrarsi con i modelli di sviluppo scelti dai territori rispetto agli scenari su cui scommettono le varie regioni del nostro paese.
Diciamo subito che l'infrastrutturazione del sud non può andare soltanto nella direzione sud-nord, come se più che servire al sud dovesse servire ad una riperimetrazione del nord rispetto ad uno sviluppo eurocentrico. Noi pensiamo, invece, che l'infrastrutturazione del sud debba andare anche, ma forse soprattutto, nella direzione sud-sud, per far sì che il sud possa giocarsi la propria scommessa, che è anche la scommessa del paese rispetto ad una prospettiva anche euromediterranea.
Da questo punto di vista riteniamo debbano considerarsi prioritarie, per il sud, quelle infrastrutture che offrano la possibilità di circolazione di mezzi e di persone tra il sud ed i paesi rivieraschi del Mediterraneo. Lo vedremo certamente meglio quando affronteremo tale questione.
Qui vogliamo affermare che il ponte sullo stretto di Messina va certamente bene se, contestualmente, si realizzano le linee d'acqua, le infrastrutture portuali ed i collegamenti aerei intercontinentali che consentiranno al Mezzogiorno, nello scenario che si aprirà nel 2010, di diventare un punto di riferimento per gli altri paesi del Mediterraneo.
Ma, onorevole ministro, lei sa, meglio di me, che per raggiungere obiettivi del 5 o 6 per cento di crescita questi strumenti non sono sufficienti. Occorre mettere in campo tutto ciò che è possibile per scioccare un territorio e, a tale proposito, vorremmo sollecitare il Governo a sperimentare, da subito - supportando le regioni e i territori che ne fanno richiesta - ipotesi di riduzione mirata della pressione fiscale.
PRESIDENTE. Onorevole Drago, la invito a concludere.
GIUSEPPE DRAGO. Ho concluso, signor Presidente.
Ci riferiamo alla cosiddetta fiscalità di vantaggio secondo il modello irlandese anche se l'Irlanda è uno Stato e non una regione, ma credo che all'interno del processo di armonizzazione della pressione fiscale europea possano, senz'altro, essere previste anche delle specificità.
Per tutti questi motivi, onorevole ministro, noi chiediamo che il capitolo della crescita della Mezzogiorno possa essere inserito all'interno della stessa legge finanziaria piuttosto che in un disegno di legge collegato (Applausi dei deputati dei gruppi del CCD-CDU Biancofiore e di Alleanza nazionale).
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Lion. Ne ha facoltà.
Onorevole Lion, le ricordo che il tempo a sua disposizione è di dieci minuti.
MARCO LION. Signor Presidente, colleghi deputati, signor rappresentante del Governo, abbiamo assistito, negli ultimi dieci mesi, alla tambureggiante ed incalzante propaganda sulle virtù salvifiche del programma di politica economica della Casa delle libertà. Propaganda che è proseguita, imperterrita, anche dopo l'elezione, su tutti i fronti, da quello squisitamente mediatico a quello istituzionale. È questa un po' la novità del Governo Berlusconi: non più noiose relazioni tecniche dense di cifre e di dati ma documenti molto più simili ad interventi da comizio elettorale infarciti di slogan ma carenti sotto l'aspetto dell'informazione tecnica.
Avete promesso la riduzione delle tasse e l'aumento delle pensioni, gli sgravi fiscali per gli imprenditori, opere pubbliche in ogni dove; avete presentato un programma dei cento giorni pieno di roboanti intenzioni prima ancora di stilare il documento di programmazione economico-finanziaria mentre la correttezza istituzionale avrebbe privilegiato la redazione del DPEF - arrivato, peraltro, in Parlamento con due settimane di ritardo - che rappresenta la struttura cardine delle strategie di politica economica di un esecutivo. Mancato rispetto delle scadenze e stravolgimento delle procedure istituzionali sarebbero colpe perdonabili se il Governo avesse presentato dei provvedimenti chiari e coerenti con indicazioni precise sui costi previsti (elevati) e sulle entrate (modeste) che l'attuazione del programma comporta. Ma la inconfessabile consapevolezza di quanto sia insostenibile, economicamente, il proprio programma di Governo ha spinto il Capo dell'esecutivo e il successore di Quintino Sella ad attuare una patetica campagna di disinformazione sui conti pubblici lanciando, all'inizio, come per caso, ipotesi di sforamento degli obiettivi del DPEF 2000, confondendo, poi, disinvoltamente, fabbisogno con disavanzo, ancora, considerando nella parola «buco» anche il disavanzo programmato ed infine sparando cifre enormi con il tono di chi ha aperto un cassetto ed ha trovato una cambialona di 62 mila miliardi di cui nessuno sapeva nulla. Parlare di 45 mila miliardi sommando il programmato al tendenziale o di 62 mila miliardi facendo riferimento ai flussi di cassa è puro terrorismo economico o, parafrasando il ministro Tremonti, è macelleria mediatica.
I conti pubblici sono tali non solo perché riguardano tutti noi, ma perché sono di pubblico dominio. A maggior ragione avreste dovuto esserne a conoscenza voi, che negli ultimi cinque anni avete svolto, come avviene nei sistemi democratici, proprio una funzione di controllo sull'operato dei governi di centrosinistra. Eventuali scostamenti avrebbero dovuto essere denunciati in tempi non sospetti, ma forse sarebbe stato difficile, se non imbarazzante, segnalare con cognizione di causa che c'era qualcosa che non andava nei nostri conti pubblici. Ciò per una ragione molto semplice: i nostri conti erano perfettamente in regola.
Se vogliamo parlare di eredità, forse dovremmo tornare al precedente passaggio di consegne tra il centrodestra ed il centrosinistra, quella volta a ruoli invertiti. In quegli anni è stato il centrosinistra a prendere il testimone, e la situazione non si poteva certo definire rosea. Sembrava impossibile riuscire a centrare l'obiettivo dell'ingresso nell'euro, ed i parametri di Maastricht erano lontani anni luce. I dati del Fondo monetario internazionale rilevavano una situazione a dir poco disastrosa: nel 1995 il rapporto tra deficit e PIL era pari al 7,2 per cento, l'infrazione al 5,2 per cento ed i tassi d'interesse così come la percentuale di disoccupati erano a due cifre. Ecco l'eredità del Governo Berlusconi. È stato necessario, pochi mesi dopo l'insediamento, ricorrere ad una politica economica di grande rigore per allinearsi agli altri paesi europei, ed è stata inevitabile la famosa manovra del 1996, che ha permesso di imprimere quell'accelerazione di cui il paese aveva bisogno.
Proviamo anche a compiere un passo in avanti e guardiano l'ultimo esercizio finanziario completo di competenza dell'Ulivo, stilato dopo quattro anni di politica economica responsabile e rigorosa, relativo all'anno 2000: la disoccupazione finalmente è scesa sotto i dieci punti percentuali; l'inflazione, calata drasticamente, ha registrato nel 2000 un valore pari al 2,5 per cento su base annua; il rapporto tra deficit e PIL è pari all'1,5 per cento; i tassi di interesse sono inferiori al 5 per cento. Questi sono risultati concreti, avvalorati dall'ingresso a pieno titolo in aria euro e su cui c'è stato un riconoscimento ampio a livello internazionale, finanche in ambienti non certo vicini al centrosinistra.
Al di là del tentativo di gettare discredito sull'operato di chi vi ha preceduto nella guida del paese, dovuto come supponiamo all'incapacità di tradurre in fatti le tante promesse elettorali, proviamo a guardare al contenuto del documento di programmazione economico e finanziaria del Governo Berlusconi.
La principale considerazione che può essere svolta riguarda l'assoluta vaghezza del documento: al di là di molta retorica e di alcuni accenni di strategia di politica economica, il documento appare decisamente privo di elementi basilari in economia. Non si può scrivere in un documento di programmazione che è prevista una riforma dell'IRPEF con l'istituzione di due sole aliquote, al 23 ed al 33 per cento, senza specificare da quando la stessa partirà, in che termini, se con un avvicinamento graduale oppure no e, soprattutto, quanto questa costerà e come si intenderà far quadrare i conti pubblici una volta che sarà a regime. I Verdi sono andati a consultare i dati ISTAT ed hanno calcolato che l'attuazione di tale riforma ridurrebbe di oltre 50 mila miliardi il gettito IRPEF. Ci dica lei, signor ministro, se così non è e ci spieghi però come stanno le cose secondo i suoi calcoli, fornendoci cifre e dati leggibili. Abbiamo un disperato bisogno di elementi chiari, e più di noi ce l'hanno i nostri partner europei. In mancanza di questi elementi, non si potrà parlare di programmi, di progetti o di strategie, ma di chiacchiere, buone solo per la campagna elettorale, per compiacenti interviste televisive o per amene conversazioni da ombrellone.
Bisogna dare atto che per qualcosa nero su bianco è stato messo: il programma dei cento giorni, su cui si incentra il DPEF, è attualmente all'esame del Parlamento. Torneremo in sede di esame dei singoli provvedimenti a parlare di contenuti, ma riteniamo opportuno già da
adesso esprimere la nostra preoccupazione. La filosofia ispiratrice del programma è, secondo noi Verdi, piuttosto inquietante.
Non si può definire liberismo: il liberismo ha una sua dignità e si basa su un'impostazione per noi non certo condivisibile ma rispettabile. Questo dell'attuale Governo è una sorta di liberismo «all'amatriciana», che, attraverso l'approvazione di leggi delega - il programma dei cento giorni è composto essenzialmente da norme delega con cui si vuole estromettere il Parlamento da un dibattito serio e approfondito sui provvedimenti - vuole ridurre ulteriormente le garanzie a tutela dei lavoratori, aumentare le regalie a favore degli imprenditori attraverso una nuova Tremonti, azzerare tutte le norme di tutela ambientale in nome di un decisionismo di stampo aziendale che mal si adatta ad un contesto democratico. Per non parlare dell'ennesima sanatoria in favore di chi ha avuto e mantiene scarso rispetto per le leggi e per le situazioni, questa volta a favore di imprenditori che hanno violato le norme fiscali ed ambientali.
Tralascio, per non mettere in imbarazzo il Presidente del Consiglio, argomenti come la revisione del falso in bilancio, cosa di cui sicuramente la nostra economia e la nostra credibilità internazionale sentiva un gran bisogno. Tralasciamo anche l'abolizione della tassa sulle successioni e donazioni, già eliminata, ma con equilibrio, dal centrosinistra. Sono tutti provvedimenti che, grazie ad una acrobatica relazione tecnica, sembrerebbero non avere effetti sulle casse dello Stato.
Ovviamente la nostra principale preoccupazione riguarda le tematiche ambientali e il DPEF su questo punto appare - se possibile - ancora più pericolosamente vago e lacunoso di quanto non lo sia nel suo complesso. Vengono fatte blande e generiche affermazioni sull'importanza delle risorse naturali e della qualità della vita, disattese di fatto dai punti programmatici. Si rilancia la politica delle grandi opere pubbliche che con mano libera da vincoli e compatibilità porteranno, oltre ad un nuovo consumo di territorio, alla pubblicizzazione dei dissesti ambientali e alla privatizzazione degli utili. Si parla di investimenti per la tutela idrogeologica senza spiegare se si intenda intervenire con una pianificazione ed una prevenzione seria e credibile rispettando, ad esempio, i vincoli per le zone a rischio o se si intenda aggravare la situazione di rischio con la dissennata politica della cementificazione degli alvei dei fiumi o con altre pericolose pratiche di controllo dei sistemi naturali.
Bisogna stanare le contraddizioni di un Governo che dichiara di voler garantire la tutela ambientale, ma che predispone sanatorie per chi ha violato le norme ambientali, propone deroghe alle norme sulla valutazione di impatto ambientale e cerca di stravolgere il lungo lavoro svolto, in particolare proprio da noi Verdi, per una corretta e razionale politica di gestione dei rifiuti. Se a ciò aggiungiamo la gravissima assenza di riferimenti all'attuazione del protocollo di Kyoto, ci rendiamo conto di quanto, nei fatti, il Governo sia poco sensibile alle questioni ambientali. È proprio nel matrimonio tra ecologia ed economia che si possono porre le basi per uno sviluppo duraturo e sostenibile. La gestione della variabile ambientale può essere assimilata, per vari aspetti, alla ricerca della qualità totale: anch'essa, infatti, richiede la trasformazione della cultura aziendale attraverso una ridefinizione delle modalità di coinvolgimento e responsabilizzazione dei lavoratori ed un nuovo approccio nella relazione tra le imprese ed i propri stake holder e, allo stesso tempo, richiede un miglioramento complessivo e continuo dell'attività di impresa finalizzata al raggiungimento, nel lungo periodo, di uno sviluppo sostenibile.
Per quanto concerne la relazione fra compatibilità e performance ambientale, alcuni esempi eccellenti mostrano come la correlazione sia positiva in relazione a molteplici livelli: in ciò l'Italia è leader a livello mondiale.
Signor Presidente, mi avvio a concludere. Per queste ragioni vi invitiamo a mettere da parte slogan e promesse e a
fornirci un quadro coerente - se ce l'avete - della vostra azione politica. Forse sarete costretti a smettere di ricorrere ai miracoli, i quali saranno senza dubbio efficaci sul piano della comunicazione, ma non altrettanto proficui nell'economia; oppure dobbiamo aspettarci che nel prossimo bilancio dello Stato al netto dei tagli delle tasse...
PRESIDENTE. Onorevole Lion, la invito a concludere.
MARCO LION. ...degli aumenti delle pensioni, dei nuovi investimenti per opere pubbliche e di tutte le altre promesse ci sarà in calce alla tabella delle entrate, con un importo tale da pareggiare i conti, l'unità previsionale di base recante il titolo «Nuovo miracolo italiano» (Applausi dei deputati dei gruppi Misto-Verdi-l'Ulivo e Misto-Socialisti democratici italiani)?
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Rosso, al quale ricordo che ha sette minuti di tempo a disposizione. Ne ha facoltà.
ROBERTO ROSSO. Signor Presidente, signor ministro, onorevoli colleghi il documento di programmazione economico-finanziaria presentato dal Governo si sviluppa su un arco di tempo quinquennale - cioè fino al termine della legislatura - e si pone l'obiettivo di risolvere in senso favorevole l'alternativa tra il declino e lo sviluppo nel quadro di una economia sempre più globalizzata.
Non si tratta, quindi, solo di rendere positivi gli indici economici nazionali, ma anche di contrastare il progressivo spiazzamento competitivo che nel corso degli anni novanta ha caratterizzato l'economia del nostro paese.
Secondo la Confindustria gli indicatori macroeconomici del settore privato evidenziano un tasso di rendimento del capitale notevolmente più basso in Italia e in Europa rispetto agli Stati Uniti. Più elevata in Europa ed in particolare in Italia è anche la quota di valore aggiunto assorbita dal capitale. Ciò significa che le imprese europee hanno impiegato capitale crescente negli investimenti, cercando di sopperire così alla scarsa flessibilità del mercato del lavoro. Le parole d'ordine del documento in relazione alla struttura dello Stato sono: devoluzione, sviluppo del terzo settore, digitalizzazione e redazione dei testi unici.
Sul versante economico, con la manovra dei cento giorni, il Governo ha avviato un progetto di rilancio dell'economia basato sull'emersione, sulla detassazione degli utili, sulle infrastrutture, sulla flessibilità del lavoro, sugli incentivi alla nuova economia e sulla riforma del diritto societario. Ulteriori parole d'ordine che il documento sottolinea sono la riforma fiscale e la riforma previdenziale basata sulla previdenza integrativa complementare. L'avvio della manovra sconta - lo si è sentito anche qui in Parlamento - una situazione critica della finanza pubblica, con uno scostamento tendenziale di 25.500 miliardi rispetto ai 19.000 sui quali si era impegnato il Governo precedente in sede europea. La situazione impone, pertanto, l'adozione di misure immediate. Scontata - lo ha ricordato il ministro Tremonti - l'impossibilità politica, ma per noi anche economica, di adottare una manovra di tagli e di aumenti di tasse (come avrebbe fatto la sinistra) che determinerebbe effetti regressivi, il Governo intende rallentare la trasformazione in indebitamento netto del fabbisogno di cassa, lanciare quanto più possibile lo sviluppo, valorizzare il patrimonio pubblico e riconsiderare in sede europea, a fine anno, gli obiettivi di crescita e di finanza pubblica per il prossimo quadriennio.
Esclusi, dunque, per dirla ancora con Tremonti, interventi di macelleria sociale in danno dei redditi e dei risparmi dei ceti medi e di quelli popolari, la scommessa è tutta rivolta ad ampliare la platea contributiva, anziché premere su quella oggi esistente. In tal senso, rivestono grande importanza le nuove norme sul sommerso, che evitano un condono fiscale generalizzato, contenute nella manovra dei cento giorni.
Il provvedimento delinea un piano di riemersione con la regolare assunzione dei lavoratori e l'allineamento progressivo di tributi e prelievi. Il percorso è potenzialmente virtuoso, finalizzato alla crescita degli occupati regolari e nella prospettiva della riduzione del prelievo per tutte le imprese. Quanto alla possibilità di adesione, il piano presenta indubbie attrattive per i lavoratori del sud perché la riemersione gioca a favore di retribuzioni più elevate, mentre al nord, spesso, l'economia sommersa cela salari più elevati di quelli contrattuali. Il discorso è inverso, ovviamente, per le imprese.
Talune perplessità possono, dunque, sollevarsi in relazione alla facilità di accesso alle agevolazioni. In particolare, potrebbe accadere che alcune imprese facciano apparire per riemersione semplici nuove assunzioni. Sarà opportuno prevedere, pertanto, norme antielusive più stringenti. Nella cosiddetta legge Tremonti-bis, poi, che intende ripetere il successo della legge Tremonti del 1994 (dove i risultati furono di ben sette volte superiori a quelli attesi: investimenti per 70 mila miliardi, rispetto ai 10 mila previsti), da un lato, sono considerati investimenti anche la formazione e l'aggiornamento del personale, dall'altro, la grande novità consiste nell'estensione dell'agevolazione anche alle piccole e medie imprese, agli artigiani, ai professionisti ed ai commercianti esclusi dalla dual income tax introdotta da Visco. Ciò dovrebbe far riflettere i colleghi della sinistra sull'utilizzo talora improprio delle parole destra e sinistra nel quadro del contesto politico italiano. Infatti, con il Governo dell'Ulivo ad essere premiati furono soltanto le grandi imprese ed i cartelli finanziari, mentre oggi, con la Cassa libertà, sono le piccole e medie imprese ad avvantaggiarsi.
Per quanto riguarda poi, la previdenza, il Governo intende presentare una riforma strutturale nella legge finanziaria per il 2002 ispirata alla liberalizzazione dell'età pensionabile, all'abolizione del divieto di cumulo tra redditi da lavoro e trattamento pensionistico, ed alla liberalizzazione dell'utilizzo del TFR, attribuendo ai lavoratori la scelta tra il lasciarlo nelle imprese oppure investirlo in fondi pensione, aperti o chiusi.
Se è vero, però, che la spesa previdenziale ha un peso di 4 punti percentuali in più rispetto al PIL (quasi il 40 per cento in confronto alla media europea), è altrettanto vero che a tutt'oggi risulta fortemente sottostimata la spesa di carattere sociale, specificamente quella a sostegno del nucleo familiare. Non è un caso, infatti, che dal 1989 ad oggi l'unico trasferimento monetario a sostegno della famiglia, l'assegno al nucleo familiare, sia stato privato di circa 200.000 miliardi di lire in meno di 12 anni, raccolti a questo titolo ma utilizzati nell'ambito del comparto dei lavoratori dipendenti per finanziare il sistema previdenziale.
Non pare inutile, dunque, l'invito rivolto al Governo dalla Commissione lavoro della Camera ad utilizzare le risorse derivanti da risparmi conseguiti nel settore previdenziale in misure volte a sostegno della famiglia media. Ci incoraggiano, al riguardo, le dichiarazioni rese dal ministro Maroni, in sede di audizione, presso la Commissione competente. Secondo tali dichiarazioni, le politiche governative fin qui seguite non hanno sostenuto la famiglia, ma l'hanno spesso ignorata o, addirittura, ostacolata rendendo difficile il suo impatto con i nuovi ritmi del lavoro, con il sistema assistenziale ed educativo, e con i servizi pubblici. Per questo occorre riformulare e rafforzare il patto fra le generazioni che deve garantire al paese la certezza del futuro. Tutta la politica del Governo, dalla fiscalità ai fondi pensione, dagli asili nido ai contratti di lavoro, sarà mirata a sostenere e sviluppare la famiglia come fondamento di un nuovo patto sociale, come fattore di solidarietà fra le generazioni, come sorgente di valori positivi e protagonista dinamica della modernizzazione del paese.
Nel dichiarare il mio voto favorevole sul DPEF, l'augurio è, dunque, di poter finalmente assistere, nel panorama quinquennale disegnato dal Governo, al pieno dispiegarsi di quell'economia sociale e di mercato ispirata ad un umanesimo liberale
e cristiano che, dopo anni di letargo, sembra tornare ad affacciarsi sull'orizzonte politico dell'Italia e dell'Europa (Applausi dei deputati dei gruppi di Forza Italia e del CCD-CDU Biancofiore).
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Santagata, al quale ricordo che ha cinque minuti di tempo a disposizione. Ne ha facoltà.
GIULIO SANTAGATA. Signor Presidente, signor ministro, onorevoli colleghi, la lettura del DPEF mi ha riportato alla mente un fumetto degli anni '60 - forse qualcuno di voi lo ricorderà - dove si raccontava la vita del piccolo regno di Id.
PRESIDENTE. Onorevole Santagata, si tratta di un indimenticabile fumetto.
GIULIO SANTAGATA. In questo regno viveva ed operava uno strano brigante, naturalmente si trattava di una parodia, dal nome Ruba Hood: la sua caratteristica era rubare ai poveri per dare ai ricchi. Ruba Hood non era solo un brigante ma nella politica economica del suo paese svolgeva l'importante ruolo di sostenere la domanda interna e, quindi, lo sviluppo: si sa, infatti, che i poveri non sono dei buoni consumatori.
Nel regno di Id i poveri erano utili solo per i periodi di magra, in cui bisognava fare dei sacrifici per risanare il malandato bilancio pubblico. Ruba Hood poteva svolgere il suo ruolo, chiamiamo keynesiano, perché operava in un paese chiuso, in cui il re controllava la politica monetaria e il tasso di cambio. Oggi, nella situazione attuale, Ruba Hood sarebbe solo un odioso ladro perché la sua funzione economica risulterebbe sostanzialmente vanificata dal grado di integrazione internazionale dell'economia e dal venir meno della disponibilità della leva volontaria.
Allora mi domando: perché affidare lo sviluppo all'idea tipica del regno di Id, in cui più i ricchi sono ricchi meglio è per tutti? Perché proporre una politica economica che non tiene in debito conto le variabili decisive dello sviluppo economico, cioè la competitività delle imprese, la capacità di innovazione, l'efficienza del sistema paese.
Forse perché, in fondo, c'è l'idea che l'Italia sia, in realtà, come il piccolo regno di Id: un paese dove la modernità è identificata tout court con meno Stato o, meglio, con meno regole; dove l'impresa non è un soggetto giuridico e sociale ma uno strumento al servizio dell'imprenditore padrone; dove il fordismo non è ancora finito e non esistono imprese organizzate a rete; dove i linguaggi formali della qualità e della trasparenza non hanno valore per sostenere l'internazionalizzazione; dove - come ci ricordava oggi l'ISTAT - le imprese sono destinate a rimanere piccole e a sostenere la competitività fondamentalmente basandosi su bassi costi del lavoro. Un paese ai margini dei processi di innovazione in nuovi settori, dove la protesta è mal tollerata e le forme di rappresentanza sindacale sono un lacciuolo, un paese dove si è padroni ciascuno in casa propria, mentre dovremmo saper vivere nel villaggio globale. Un paese, infine, dove i poveri assumono il ruolo decisivo di finanziare la riduzione del carico fiscale e dove, di conseguenza, non si conosce il valore, anche economico, della coesione sociale.
Il DPEF mi ha ricordato il regno di Id; esso disegna, probabilmente, il più moderno dei paesi medioevali: a noi villici resta solo la speranza che torni Robin Hood (Applausi dei deputati dei gruppi della Margherita, DL-l'Ulivo e dei Democratici di sinistra-l'Ulivo).
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Bricolo, al quale ricordo che ha sei minuti di tempo a disposizione. Ne ha facoltà.
FEDERICO BRICOLO. Signor Presidente, signor rappresentante del Governo, onorevoli colleghi, il documento di programmazione economico-finanziaria arriva in quest'aula in un momento di forte tensione politica, creata ad hoc dall'opposizione di sinistra con il chiaro intento di frenare in tutti i modi la grande spinta
verso le riforme che questo esecutivo intende portare avanti nel rispetto dei programmi illustrati durante la campagna elettorale, poi vinta con l'appoggio della maggioranza dei cittadini italiani.
Dunque, forti di questo mandato popolare dobbiamo continuare con determinazione in questa politica delle riforme. Vorrei rivolgermi ai colleghi della maggioranza ricordando che non dobbiamo, mai e poi mai, farci condizionare da questa opposizione di sinistra che arriva addirittura, vigliaccamente e pericolosamente, a minacciare di riesumare le lotte di piazza con il chiaro intento di frenare il grande cambiamento che il documento di programmazione economico-finanziaria al nostro esame ci prospetta.
Questo DPEF è chiaramente il documento programmatico più innovativo e coraggioso degli ultimi decenni.
Nei prossimi cinque anni di governo trasformeremo, soprattutto attraverso la devoluzione, che sarà il motore di tutto il cambiamento, la struttura di questo Stato, che da assistenzialista e accentratore si trasformerà in uno Stato più funzionale, impostato sul decentramento, in grado di risolvere i gravi problemi del nostro paese.
Entrando nello specifico, per quanto riguarda il settore degli esteri, è evidente la voglia di migliorare una situazione che i precedenti governi non hanno saputo sfruttare e indirizzare. L'Italia è, comunque, un membro del G8, un membro fondatore della Comunità europea, un membro delle Nazioni Unite e di tutte le sue agenzie specializzate, un paese donatore in banche e istituti finanziari regionali e subregionali intergovernativi - che vanno dall'Africa all'Asia - ma, nonostante ciò, non le viene riconosciuto un ruolo rilevante nello scacchiere internazionale.
Dopo cinque anni di governo dell'Ulivo, la nostra politica estera ha sempre più perso visibilità, peso e considerazione, rendendo sempre più anomala la nostra posizione. È dunque chiaro che ci dobbiamo rafforzare per tutelare gli interessi economici e politici del paese e delle nostre regioni. Dunque, una politica estera più incisiva, volta a tutelare le nostre scelte politico-economiche, nel rispetto delle identità locali.
Nel settore difesa appare chiara la volontà di trasformare le Forze armate italiane in uno strumento totalmente professionale, specializzato prevalentemente nelle missioni internazionali di mantenimento o imposizione della pace. Non dobbiamo poi dimenticare la funzione che il nostro esercito può avere nella protezione dei confini e delle coste continuamente violate dagli immigrati clandestini. Una riflessione può nascere dai problemi che dovremo affrontare nel reclutamento per coprire gli organici predefiniti del nuovo esercito volontario. Forse, modelli di reclutamento come quello svizzero potrebbero costituire una base di partenza interessante per un'eventuale ridiscussione.
Per quanto riguarda il settore sicurezza, sono da lodare la volontà e la determinazione nel contrasto all'immigrazione clandestina, volte a produrre norme che riusciranno a prevenire, scoraggiare e contrastare l'ingresso in Italia di stranieri che non ne hanno titolo e ad arrivare a provvedimenti di espulsione immediata (Applausi dei deputati dei gruppi della Lega nord Padania e di Forza Italia). Il contratto di soggiorno sarà di fondamentale riferimento per regolare la presenza nel nostro paese degli extracomunitari. Importante sarà anche il controllo del territorio da parte delle forze dell'ordine, che ora si trovano a contrastare la diffusione e il radicamento delle organizzazioni criminali con retribuzioni economiche che devono essere riviste, con mezzi spesso inadeguati e insufficienti, con una preparazione non specifica, con leggi che aprono varchi in aree grigie dove la criminalità, avvalendosi di avvocati, commercialisti, paradisi fiscali, aree offshore e canali digitali, può riuscire a sottrarsi alla pena e a mantenere il controllo dei propri capitali.
Inoltre, nelle informative semestrali dell'intelligence, inviate al Parlamento, viene evidenziata la crescita della struttura mafiosa di origine italiana, ma anche di quella - forse ancora più preoccupante, soprattutto nelle regioni del nord - rappresentata
dalla criminalità straniera: mafia russa, clan albanesi, mafia anatolica, mafia cinese, gruppi nigeriani, ognuno dei quali è specializzato prevalentemente in un settore specifico. Ben vengano, perciò, nuove leggi mirate, volte a contrastare seriamente e concretamente la criminalità organizzata!
Abbiamo, dunque, la convinzione di essere di fronte ad un documento di programmazione economico-finanziaria innovativo, di vaste proporzioni, di grande portata, volto a far ripartire l'economia del nostro paese e a migliorare la qualità della vita dei nostri cittadini (Applausi dei deputati dei gruppi della Lega nord Padania e di Forza Italia).
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Bellillo, al quale ricordo che ha a disposizione 6 minuti. Ne ha facoltà.
KATIA BELLILLO. Signor Presidente, colleghi, dopo aver ascoltato anche l'ultimo intervento, penso che abbiate voluto scherzare, per cui, ora vi prego: presentateci il documento di programmazione economico-finanziaria! Questo documento, infatti, che secondo i vostri propositi dovrebbe decidere il futuro del nostro paese per i prossimi cinque anni, è poco più di un brogliaccio, assolutamente vago, con cifre e dati che non offrono alcuna chiarezza sulle aspettative che dovrebbero derivare dalle misure da adottare.
A me è sembrato ci fosse un unico aspetto chiaro: l'interesse è tutto sul mercato, per farlo far entrare - come voi dite - in una gara globale con gli altri mercati, in una competizione dove non c'è posto per le persone, non c'è posto per i bisogni vecchi e nuovi di uomini e donne in carne ed ossa, per le realtà locali, per le culture e le identità dei diversi territori. Su questo non c'è una riga, non sono previsti progetti e risorse per valorizzare le differenze umani, culturali ed ambientali; la risposta che voi offrite per risolvere i vecchi ed i nuovi bisogni, le esclusioni e i disagi è esclusivamente di pubblica sicurezza. E a Genova avete fatto la prova generale!
Ho letto il paragrafo sulle pari opportunità. Ebbene, mi sono sentita offesa come donna, oltre che come cittadina. Noi del centrosinistra abbiamo lavorato, nei cinque anni scorsi, per far emergere e portare al centro dell'azione di governo il punto di vista di genere nelle scelte e negli interventi pubblici ed abbiamo voluto assegnare, certamente con molta fatica, un valore strategico alla prospettiva dell'uguaglianza sostanziale, realizzando programmi di integrazione sociale nei confronti delle vittime di violenze o di grave sfruttamento ed azioni di contrasto alle diverse forme di discriminazione.
Voi, invece, concludete testualmente così: «Le prevenzioni di contrasto (...) sono un obiettivo essenziale di pubblica sicurezza». Ciò mi sembra ben grave. Ebbene, le donne italiane vogliono lavorare. E dove sono le azioni per sostenere e creare nuova occupazione femminile, per creare imprese ed autoimpiego delle donne, per tutelarle sul lavoro affinché non vengano utilizzate nei lavori precari, mal pagate e, soprattutto, sfruttate? Ma voi non avete la cultura politica delle pari opportunità. Ed è per questo che non potete avere un progetto politico e sociale che, a partire dalle competenze e dalle esperienze maturate dalle donne, investa l'intera società. Partire da questo punto di vista significherebbe saper interpretare, in modo moderno ed autenticamente democratico, il problema stesso dell'uguaglianza, della giustizia sociale, della libertà e della realizzazione di un completo sviluppo umano, rispettoso di ogni differenza di sesso, di cultura, di religione, di etnia.
A voi, invece, interessa il mercato. E avete trasformato l'impresa in un valore per il quale è autorizzato qualsiasi mezzo, anche il falso in bilancio e la concorrenza sleale, ed è consentito schiacciare la dignità delle donne e degli uomini, usare gli apparati dello Stato per far dimenticare l'esistenza di diritti che, invece, dovrebbero essere garantiti e rafforzati.
Vorrei rivolgermi ancora al ministro per le pari opportunità: nel DPEF dite genericamente che occorre intervenire per «assicurare alle lavoratrici parità di progressione
nelle carriere». E la ministra per le pari opportunità non ha saputo nemmeno individuare i talenti femminili per i suoi più stretti collaboratori, tutti uomini.
Vorrei rivolgere una domanda al ministro Urbani: quali sono i progetti nel settore dei beni culturali ed artistici? Anzi, vorrei sapere: esiste questo ministero, c'è questo ministero? I governi di centrosinistra hanno investito nel settore e si è dimostrato che queste attività sono fondamentali per valorizzare i nostri territori, per valorizzare le diversità, per valorizzare l'immensa ricchezza patrimoniale di beni culturali ed artistici. Ma voi avete voluto assegnare un posto assolutamente marginale a questo settore che, come abbiamo visto, ha fatto crescere il tasso di occupazione, portandolo addirittura a due cifre, negli anni passati. Ma investire nella cultura in questo paese è strategico, perché vuol dire sviluppare ricchezza civile, identità, senso di appartenenza, perché significa investire su risorse che sono nostre, di cui non saremo espropriati, e soprattutto rafforzano la nostra competitività nella società delle conoscenze e attivano impresa e occupazione. Quindi, valorizzare le grandi differenze che esistono e insistono nel nostro paese, non come polarità negative ma, invece, come opportunità per ridefinire le identità particolari e lo sviluppo dei territori locali.
Purtroppo, voi state riportando l'Italia all'epoca delle enormi ricchezze dissipate, quando il nostro immenso patrimonio monumentale ed artistico non veniva tenuto in considerazione ed era lasciato nell'incuria e nell'abbandono.
PRESIDENTE. Onorevole Bellillo, la prego di concludere.
KATIA BELLILLO. Dimostrate in questo modo di provare disprezzo per l'identità, la storia, il talento dell'Italia. Il vostro interesse è soltanto quello di garantire l'egoismo, l'ipocrisia e la ricchezza di pochi, a scapito degli interessi della collettività e dell'Italia tutta (Applausi dei deputati dei gruppi Misto-Comunisti italiani, dei Democratici di sinistra-l'Ulivo e della Margherita, DL-l'Ulivo)
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Onnis. Ne ha facoltà.
Onorevole Onnis, deve essere particolarmente sintetico, perché ha due minuti a disposizione: i dieci comandamenti si possono denunciare anche in minor tempo, ma non è facile imitare lo stile.
FRANCESCO ONNIS. Signor Presidente, il documento rispecchia puntualmente le dichiarazioni programmatiche rese dal ministro Alemanno in Commissione agricoltura. Credo questo sia un segno di correttezza politica e di grande concretezza da parte di questo Governo. Si è disegnata una nuova agricoltura, agile, aggressiva, moderna e competitiva, non più remissiva e prona alle grandi agricolture dell'Unione europea.
Intanto, ritengo che in questo quadro il Governo debba affrontare un aspetto rilevante, cioè rimuovere il freno che ostacola e rallenta l'agricoltura italiana. Mi riferisco alle due velocità con le quali cammina l'agricoltura italiana: quella del nord e quella del sud. Si tratta di una sfida che deve essere affrontata e il cui risultato dovrà essere necessariamente vittorioso.
Tuttavia, signor Presidente, ho chiesto di intervenire soprattutto su una questione che mi riguarda in modo particolare come deputato eletto nel sud. Il documento pone opportunamente l'esigenza di razionalizzare le risorse idriche. Questo è un tema certamente essenziale e cruciale, quando si vuole parlare di ammodernamento dell'agricoltura. Mi domando: in quelle zone del sud, nella Sicilia, nella Sardegna e in tante altre parti del meridione, dove la risorsa idrica è carente, come si può razionalizzare questa risorsa? Non c'è dubbio che il Governo, prima di razionalizzarla, dovrà porsi il problema di ricercare, preparare e distribuire questa risorsa.
Concludendo, lo stesso argomento ricorre in riferimento all'altro obiettivo che pure opportunamente il Governo si prefigge, vale a dire l'avvicinamento dei prodotti al mercato. Mi domando se non sia opportuno, con riferimento alla Sardegna,
creare una rete infrastrutturale che in qualche modo colmi il gap, la situazione deficitaria, nella quale si trova l'isola per l'insularità e per le grandi distanze.
PRESIDENTE. Onorevole Onnis, la prego di concludere.
FRANCESCO ONNIS. Signor Presidente, in questa direzione domanderò che nella risoluzione con cui verrà approvato il documento di programmazione economico-finanziaria si tenga conto di queste due prioritarie esigenze del nostro meridione (Applausi dei deputati del gruppo di Alleanza nazionale e di deputati della Margherita, DL-l'Ulivo)
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Pinza, al quale ricordo che ha 8 minuti a disposizione. Ne ha facoltà.
ROBERTO PINZA. Signor Presidente, essendo stato scritto molto in questi giorni sul DPEF, ho rinunciato all'idea di utilizzare questo tempo, pur limitato, per fare dei ragionamenti fra di loro coordinati. Quindi, mi limiterò a qualche domanda, in questo sfavorito dalla presenza del professor Baldassarri, che è persona di cui ho la stima più profonda, perché le domande non sono indirizzate a lui ma al ministro Tremonti, che prima o poi ci onorerà di una sua presenza in aula.
Riguardo alla prima domanda, sinceramente non ho capito perché abbiate impostato in questo modo il DPEF. Questo documento inizia con una frase di grandissimo livello concettuale, che recita testualmente, al punto 1 delle sintesi e conclusioni - quindi, proprio ciò che conta -, «l'alternativa è tra declino e sviluppo», il che sta a metà tra monsieur de La Palisse e Catalano. Il problema però non è rappresentato dal semplicismo della frase, ma dal fatto che quest'ultima identifica dei soggetti; si vuole dire che gli autori del declino siamo noi di centrosinistra, mentre gli autori dello sviluppo sono altri.
A proposito del Governo di centrosinistra - che in questi anni ha realizzato cose notevoli in Europa ed in paesi come la Gran Bretagna, la Francia, la Germania - manca solo che si citi «Il tramonto dell'occidente» di Spengler.
Il problema non è questo! Voi dovevate impostare diversamente il documento in esame, dovevate riconoscere tutto ciò che in precedenza era stato fatto e ripromettervi di fare di più in futuro. Questa idea manichea - in base alla quale c'è chi non sa nulla e ogni volta che vuole migliorare qualcosa riesce solo a peggiorarla - è funzionale ad ingenerare l'idea che in seguito verrà qualcuno che si arrogherà il titolo di salvatore dell'economia e dello sviluppo. Tutto ciò fa violenza alla verità e inevitabilmente vi si ritorce contro togliendovi ogni credibilità.
Successivamente infatti interviene l'Unioncamere, la quale ci fa sapere che in questo periodo cosiddetto di declino le imprese sono aumentate in media di 130 mila unità all'anno. Un infinito numero di istituti ci informa che la disoccupazione nel nostro paese è enormemente calata. Osservatori internazionali ci fanno sapere che questo è il più grosso piano di privatizzazione che si sia compiuto negli ultimi anni; la finanza non è più quella, il rapporto deficit-PIL non è più quello, questa la situazione! Mi rivolgo a qualche osservatore disattento, che pure fa parte di qualche importante istituzione. La verità è che, mentre i primi sei anni del 1990 hanno rappresentato un faticoso risanamento della situazione finanziaria italiana ed hanno visto il tasso di crescita attestarsi all'1 per cento o poco più, negli anni dal 1997 in poi ci siamo rigorosamente collocati nella media europea e - poche storie - nell'ultimo anno ci siano sviluppati molto più della Germania e un po' meno della Francia.
Declino, Spengler, queste sono storie! Un documento di programmazione economica non può iniziare raccontando storie sul passato cercando di deprimerne i risultati. Era molto più semplice e più onesto dare atto della situazione per quella che era e misurarsi sul futuro.
Quando c'è stato proposto il DPEF, abbiamo capito che cosa ne rappresentasse
il pilastro. Quest'ultimo deriva da un ragionamento molto semplice che poteva essere esplicitato anche un po' meglio. Grosso modo in Italia la spesa corrente equivale al complesso delle entrate fiscali contributive, che oggi risulta ammontare ad un milione e 50 mila miliardi.
Si sosteneva di diminuire contemporaneamente l'uno per cento dell'uno e dell'altra nell'arco di cinque anni. La cosa è anche interessante! Non è lontanissima da identiche ipotesi che noi stessi abbiamo sostenuto per quello che riguarda la diminuzione della pressione contributiva.
Abbiamo chiesto però che ci venisse spiegato come si riduceva la spesa corrente. Signor Presidente, ce l'hanno spiegato! Nel DPEF - che non rappresenta una cartolina, ma un documento - è scritto che si dovrà ridurre la spesa per acquisti di beni e servizi e rallentare quella relativa ai sussidi alle imprese. Siccome non crediamo all'idea che questo Governo si possa scontrare frontalmente con Confindustria, riducendo i sussidi alle imprese - anche se poi c'è stato spiegato che questa riduzione riguarderà le ferrovie e poco più -, il resto riguarderà l'acquisto di beni o servizi per circa cinquemila, seimila miliardi a dire tanto.
Ci è stato poi detto che si sarebbe allargata la pubblica amministrazione; alla fine arriviamo a dieci o dodici mila miliardi, ma altrettanti ne mancano all'appello per arrivare all'1 per cento.
Se vogliamo parlare seriamente - come si deve parlare in un'aula parlamentare, al di là dei ventidue secondi riservati alla diretta televisiva, che impediscono di esprimere idee un po' più compiute -, all'interno di questi ragionamenti c'è un qualcosa che non è stato annunciato riguardante la riduzione della spesa sociale e che va ad attaccare due grandi voci della spesa corrente, rappresentate da previdenza e sanità. Via la maschera e lo si dica espressamente! L'alternativa sarebbe quella di non attuare la riduzione della pressione fiscale.
Stamattina sono arrivato in aula e - sollecitato dall'onorevole Boccia - mi sono fatto consegnare un aggiornamento riguardante la previsione per questo quinquennio. L'entità della pressione fiscale per il 2001 è prevista al 42 per cento; mi sono detto che si tratta dell'anno in corso e che sicuramente negli anni successivi diminuirà. Niente! Nel 2002 le entrate fiscali si attesteranno al 42 per cento del PIL (quindi non diminuisce nulla), mentre nel 2003, dopo due anni e mezzo, si attesteranno al 41,5 per cento. Pertanto, in due anni e mezzo vi sarà una diminuzione delle entrate fiscali di mezzo punto.
Sebbene, quindi, la campagna elettorale sia stata impostata, raccontando agli italiani che questo Governo sarebbe stato l'unico strumento attraverso il quale diminuire la pressione fiscale, eliminando una sorta di anomalia italiana che in realtà non vi era (ci trovavamo infatti esattamente a metà tra Francia e Germania), dopo appena un mese e mezzo di attività di Governo si dice che, in realtà, fino al 2003 non se ne parla.
Al di là di tale dato politico, quale è l'equilibrio interno di questo DPEF? Esso si fonda sull'aumento della domanda interna. I dati fondamentali di tale documento sono infatti due: il primo è quello degli investimenti e il secondo è quello della domanda interna. Per quanto riguarda gli investimenti, ciò che il DPEF dice, rispetto al precedente DPEF del Governo di centrosinistra, è che la media degli investimenti si incrementerà del 5,5 per cento, mentre nel DPEF del centrosinistra era previsto un dato del 6,2 per cento. Dov'è invece la diversità sulla quale avrebbe fondato tutta la sua azione il Governo di centrodestra? Sul fatto che i consumi, anziché aumentare del 2,1 per cento, sarebbero aumentati del 3,5 per cento in seguito alla diminuzione della pressione fiscale. Allora, come può stare in piedi un DPEF che si fonda sull'aumento della domanda interna, la quale, a sua volta, deriva dalla diminuzione della pressione fiscale, quando nel documento che oggi è stato consegnato ufficialmente a firma del Governo, si spiega che per due anni e mezzo per la pressione fiscale non succederà nulla? Questa è la mia domanda;
ne potrei fare altre ma forse, signor Presidente, il tempo a mia disposizione sta terminando.
Si tratta di un problema di politica economica. Tremonti ci viene infatti a spiegare che con la Tremonti-bis, gli investimenti esploderanno (appena entrerà in vigore la Tremonti-bis, vi sarà un picco altissimo di investimenti, quelli che non si stanno facendo in questi trimestri e stanno aspettando); quando poi egli va al dunque in merito al DPEF, ci dice che gli investimenti non avranno niente di particolare e si attesteranno in media al 5,5 per cento (meno di ciò che è stato previsto); gioca tutte le sue carte sull'aumento dei consumi; prende respiro un attimo, guarda i dati e ci viene a dire che, in realtà, la pressione fiscale non diminuirà.
Allora, qual è la coerenza interna di tale documento? Lasciamo stare la questione politica; se si fosse fatto meno manicheismo, se si fosse ragionato di più, se si fossero osservate le cose più in profondità, se si fossero fatte meno promesse, se ci si fosse resi conto che una cosa è comparire in televisione e un'altra è governare, probabilmente oggi avremmo avuto una discussione del DPEF molto più serena, tranquilla e costruttiva, come noi stessi auspicavamo. Purtroppo abbiamo questo documento in discussione (Applausi dei deputati dei gruppi della Margherita, DL-l'Ulivo e dei Democratici di sinistra-l'Ulivo - Congratulazioni).
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Falsitta, a cui ricordo che ha a disposizione sei minuti. Ne ha facoltà.
VITTORIO EMANUELE FALSITTA. Signor Presidente, onorevoli colleghi, signori del Governo, ho ripercorso la disciplina del DPEF sotto il profilo delle regole istitutive, quelle modificative, quelle che ne hanno precisato gli obiettivi, segnatamente la legge 5 agosto del 1978, n. 468, la legge 23 agosto del 1988, n. 362, la legge del 1999, n. 208.
Ho letto poi il documento in rassegna, gli esiti delle audizioni preliminari e i pareri delle Commissioni. Da qui ho appreso due informazioni: una riguarda la legge, l'altra riguarda l'azione di Governo.
In sintesi, per la legge, il DPEF ha i compiti o il compito complesso di indicare: primo, gli obiettivi macroeconomici; secondo, l'andamento tendenziale dei conti pubblici; terzo, gli obiettivi di finanza pubblica; quarto, gli obiettivi che il Governo intende realizzare con la legge finanziaria e i sui provvedimenti collegati.
Per l'azione del Governo gli obiettivi anzidetti ovvero quelli stabiliti dalla legge vengono raggiunti attraverso il rafforzamento della crescita economica. Questa assicurerà l'allargamento delle basi imponibili e l'interpretazione coincide con quella del relatore della VI Commissione.
La dilatazione della base imponibile, collegata alla crescita del prodotto interno lordo, è l'effetto, assieme ad altri, della annunciata riforma fiscale. Poiché coerentemente con gli scopi del DPEF questa non deve essere specificata nel documento, ma semplicemente delineata, perché ho deciso di svolgere alcune brevissime considerazioni.
La latitudine di vedute permessa dai contenuti del documento di programmazione economico-finanziaria, il processo specificatorio che dal generale al particolare implicherà la riforma fiscale, il pensiero scientifico del nostro ministro; mi sovvengono Il federalismo fiscale, edito nel 1994 per i tipi di Laterza, Le cento tasse degli italiani e ancora La fiera delle tasse nei quali è comune la volontà di far ruotare l'asse del prelievo dalle persone alle cose, portano a riflettere sui concetti di reddito e di imposta e sui mutamenti ai quali questi potrebbero essere sottoposti dall'azione riformatrice.
In altri termini, mi chiedo se l'operazione di ammodernamento del sistema tributario possa riflettersi anche sui concetti tradizionali invocati. Non è questo il momento di ricordare i lavori di Antonio De Viti De Marco, di Luigi Einaudi, di Umberto Ricci, di Antonio Berliri - solo per citare qualche autore - e con essi i problemi dell'imposta equa, giusta o ottima. Ma se sarà necessario rivedere, nel grande lavoro che ci attende, anche i
concetti di reddito e di imposta, allora che si pensi ad interventi che non siano utili solo per quantità, quindi ottimi, ma ad interventi che siano utili anche per qualità, quindi giusti. Da questa angolazione, i problemi economici, tutti illustrati nel documento di programmazione economico-finanziaria, dovranno essere risolti realizzando la massima utilità a parità di qualità ovvero a parità di giustizia. Con questo spero di non essere confuso con coloro i quali con superficialità invocano la giustizia assoluta, ideale, romantica, senza rendersi conto dei fattori politici ed economici. Il reddito colpito dalla falcidia del tributo sia reddito vero, effettivo, capace realmente di esprimere quella manifestazione di ricchezza che è stata alla radice del volere del legislatore costituzionale - penso all'articolo 53 della Costituzione - e per questa ragione lo si osservi sempre non solo come somma di fattori positivi, ma anche come sottrazione di fattori negativi.
L'esperienza dei tribunali e delle commissioni ci ha mostrato che la sperequazione spesso si insinua nella disciplina del costo indeducibile, così da considerarsi in finale reddito ciò che non esprime alcuna ricchezza.
Sono certo che questo Governo abbia gli strumenti culturali e politici per finalizzare il progetto di riforma in norme positive capaci di cambiare il volto tributario del paese nel segno dell'efficienza, ma anche della giustizia fiscale. Ed è esattamente ciò che attendono i nostri elettori (Applausi dei deputati del gruppo di Forza Italia).
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Widmann, al quale ricordo che ha nove minuti a disposizione. Ne ha facoltà.
JOHANN GEORG WIDMANN. Signor Presidente, signor rappresentante del Governo, onorevoli colleghi, il documento di programmazione economico-finanziaria risulta una registrazione progressiva del programma elettorale, ossia delle promesse fatte agli elettori dalla Casa delle Libertà.
Le promesse erano tali da far crescere l'appetito generale intorno ad una tassazione fortemente «tagliata», ad una burocrazia «disboscata», ad un innalzamento delle pensioni, ad una maggiore flessibilità delle regole del mercato del lavoro, ad un'altra scuola, ad una maggiore sicurezza, ad un maggior flusso di investimenti pubblici, ad una politica ambientale meno severa, ad una pubblica amministrazione più snella e più al servizio del cittadino, alla riforma previdenziale, a nuove politiche sociali, alla realizzazione di grandi progetti e a un nuovo e forte federalismo.
Sappiamo tutti che i problemi dei cittadini sono sempre grandi come le aspettative e che essi preferiscono sentire parlare di promesse invece che di sacrifici o di rinunce. Il compito del Governo e del Parlamento, nonché della politica in generale, dovrebbe essere quindi sempre quello di inventare, di trovare la quadratura del cerchio fra i fabbisogni giusti e le possibilità a disposizione.
Non abbiamo dubbi: la realizzazione di tante delle promesse sarebbe anche necessaria per favorire una nuova atmosfera di partenza, soprattutto per quanto riguarda i nuovi investimenti e il ritorno dei capitali per stimolare l'economia affinché si crei più ricchezza da distribuire equamente. Il nostro dubbio cresce quando si è di fronte alle promesse ed ai confini stabiliti dai criteri del trattato di Maastricht e dalle politiche sociali, ossia solidariste, necessarie per comporre una società equa e giusta, che è comunque l'obiettivo primario di ogni politica, anche di quelle economiche.
Ripeto: è necessario tagliare le tasse per chi le ha pagate fino ad ora e questo vale sia per le aziende che per i lavoratori. D'altra parte, però, bisogna garantire la permanenza nell'unione monetaria ed è necessario anche garantire che i tagli non vadano a scapito del welfare State, di uno Stato sociale che non deve distribuire a tutti, ma solo a quelli che non riescono con le proprie capacità a realizzare i cosiddetti diritti fondamentali.
È molto difficile immaginare che questi tagli alle tasse possano produrre immediatamente nuove ricchezze in forma di nuovi posti di lavoro e, quindi, nuovi introiti per lo Stato. Chi copre i buchi che si aprono nel frattempo? Chi deve soffrire nel frattempo? In questo senso, il Governo deve dare risposte molto precise, risposte garantiste per tutta la società.
Combattere il lavoro nero è senz'altro un interesse comune. Concedere nuovi condoni può essere un metodo per convincere ad uscire alla luce del sole e ad integrarsi nella società solidale. Questo metodo, però, è anche un'ingiustizia nei confronti dei cosiddetti cittadini onesti, i quali, creando ricchezza come imprenditori e come lavoratori, hanno sempre contribuito al benessere comune. È necessario, quindi, rafforzare anche i controlli e le ispezioni da parte degli uffici preposti. Va negato invece, in ogni caso, il condono ambientale.
Non c'è dubbio che più flessibilità nel mercato del lavoro possa significare anche più lavoro, ma anche su questo tema, molto delicato, il legislatore deve trovare la giusta misura di flessibilità e il giusto grado di apertura, per non finire in un El Dorado dove le imprese possono scegliere a volontà, mentre i lavoratori fanno la guerra fra di loro.
Nell'ambito della sicurezza, si sentono molte voci discordanti, al punto che non si può credere a quanto è scritto nel documento. Questa incertezza riguarda la sicurezza in generale e, soprattutto, la questione dell'immigrazione. Inoltre, i fatti gravi verificatisi a Genova destano gravi sospetti. Purtroppo, le nostre esperienze passate ci fanno seriamente preoccupare.
Per quanto riguarda la riforma del sistema previdenziale, possiamo anche riconoscere che il documento contenga proposte positive. Troviamo giusto che il lavoratore possa scegliere quando vuole andare in pensione, una volta raggiunta la posizione assicurativa minima. Riteniamo giusta anche l'abolizione del divieto di cumulo tra pensione e retribuzione. È necessario trovare una soluzione, possibilmente concertata, per l'utilizzo del TFR ed anche una soluzione riguardante una tassazione più favorevole per i fondi pensione. La riforma previdenziale deve comunque partire dalla concertazione tra il Governo e le parti sociali: riformare il sistema previdenziale significa definire il futuro di tante generazioni e, quindi, questa riforma deve essere un capolavoro concertato.
Lo stesso vale per la sanità, che è un campo molto delicato e, d'altra parte, è anche un settore molto costoso. Offrire gli interventi e le terapie migliori a tutti deve essere l'obiettivo di ogni politica e di ogni struttura. Rispettare i limiti dei costi è l'altro criterio fondamentale, che deve essere competenza esclusiva delle regioni. Il Governo centrale deve limitarsi a formulare criteri e diritti generali e deve controllare il loro rispetto.
L'enumerazione riguardante le politiche sociali può essere considerata positiva, mentre la superficialità può indurre, invece, a pensare che si tratti di una consolazione a tempo indeterminato. L'elencazione dei vari provvedimenti per qualcuno può significare una liberazione, un'apertura, un sollievo, mentre per altri significa la sospensione di tutte le garanzie fino ad ora avute e godute.
Il continuo riferimento agli Stati Uniti lascia supporre che il sistema americano funga da modello e da prototipo. Sarebbe un'evoluzione che nessuno può augurarsi e che potrebbe avere delle conseguenze drammatiche. L'Europa, dopo le devastanti guerre mondiali e dopo ideologie inumane, ha costruito una cultura di pace, una cultura economica fino ad un certo punto anche democratica ed una cultura sociale che hanno garantito, insieme, uno sviluppo umano per i suoi popoli.
La globalizzazione cambierà molte le cose ma non il fondamentale consenso sulla pace sociale fin qui costruita a favore di tutti. A queste preoccupazioni e domande il Governo, lo ripeto, deve dare risposte ampie e sincere. Ci aspettiamo risposte precise anche in relazione ai vari progetti federalisti e al tipo di rapporto che il Governo vuole instaurare con le autonomie speciali (Applausi dei deputati
del gruppo Misto-Minoranze linguistiche, Misto-Verdi-l'Ulivo e Misto-Socialisti democratici italiani).
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Angelino Alfano, al quale ricordo che ha dieci minuti di tempo a sua disposizione. Ne ha facoltà.
ANGELINO ALFANO. Signor Presidente, rappresentanti del Governo, onorevoli colleghi, è difficile pensare ad un buon governo senza pensare ad una buona politica economica. Ma non c'è una buona politica economica senza un'idea di Stato ed un modello di società. Quanto più la politica economica di un governo si trincererà, si nasconderà dietro necessità tecniche, tanto più sarà alto il rischio che in esso si celi proprio la mancanza di un politica economica. Ecco perché il DPEF che andiamo ad approvare mi sembra che abbia una sua forza intima che sta proprio nella capacità di rappresentare con chiarezza non solo le linee guida ma anche le scelte concrete del Governo Berlusconi, ossia un modello di società.
Innanzitutto, si tratta di un piano che ha la durata dell'intera legislatura e l'obiettivo di volgere la storia del nostro paese dal declino allo sviluppo. Un obiettivo che ha, immeritatamente, dovuto sopportare il peso dell'ironia e dell'attacco delle opposizioni, oberate dall'onere di fare il proprio mestiere dovendo, per di più, difendere i quattro governi dei 5 anni appena trascorsi. Si è trattato dei cinque anni in cui il paese ha perso competitività internazionale anche a causa della cura da cavallo subita, senza che, per converso, si siano poste in essere misure capaci di alimentare la ripresa.
Anche in questa logica rientra la dolorosa faccenda dell'extradeficit. L'Ulivo ha, infatti, spiegato agli italiani che la cura pesantissima sarebbe servita a risanare i conti pubblici e che già con l'anno in corso sarebbe giunto il tempo delle vacche grasse. In realtà, ci si è subito accorti che lo sforamento dei conti è evidente e rende estremamente complesso un riallineamento a quel rapporto deficit PIL dello 0,8 per cento, che è la misura del rispetto del patto di stabilità esterno e, dunque, della nostra affidabilità internazionale.
Ancora più grave è che la responsabilità dell'accaduto sia stata addebitata alle aziende sanitarie, alle regioni, alle autonomie locali, affermando, di fatto, la rottura del patto di stabilità interna che, ben inteso, è proprio il perno sul quale costruire, in prospettiva, il federalismo fiscale. Né viene in nostro soccorso una favorevole congiuntura internazionale che, invece, è caratterizzata da incertezze e indicatori che evidenziano un calo della crescita nella zona euro che soffre del fiatone della locomotiva tedesca e da un dimezzamento del tasso di sviluppo dei paesi industrializzati, cui fa da pendant un significativo rallentamento del volume degli scambi, nonché il rischio di vedere deluse le attese di deprezzamento del petrolio.
Poi - diciamolo con chiarezza - siamo tutti un po' stanchi di dinamiche economiche per le quali, se la congiuntura internazionale è favorevole, l'Italia resiste - anche se con il passo corto -, se le cose nel mondo vanno male, il nostro è tra i paesi che pagano il conto. Ecco perché esprimiamo un giudizio positivo su questo DPEF, perché percepiamo l'avvio di un processo di riforme strutturali e durevoli capace di attivare tutte le variabili endogene in una dimensione europea ed internazionale fortemente condizionata, se non vincolata, a fattori esogeni.
In questo senso è chiaro che il buono o cattivo risultato in tema di occupazione si misuri sui parametri fissati a Lisbona. È evidente che il dibattito sul buco è incentrato sulla necessità di mantenere gli impegni ribaditi a Göteborg. Nessuno nega che la politica monetaria sia fortemente condizionata dalle scelte della Banca centrale europea, ma deve essere altrettanto chiaro che il raggiungimento di questi risultati dipende in massima parte dalla capacità che avremo di utilizzare le potenzialità del nostro sistema produttivo e le risorse umane disponibili.
L'obiettivo del Governo è di riuscire in questo intento, mantenendo bassa l'inflazione
ed attuando una politica di contenimento del debito pubblico che scongiuri il rischio di trasformare il fabbisogno di cassa in indebitamento netto con il paradossale risultato per cui, dopo aver denunciato il significativo scostamento tra i due valori - segnalato all'unisono, peraltro, dalla Ragioneria generale dello Stato, dalla Banca d'Italia e dagli istituti di statistica -, se ne attenda poi un riallineamento, un avvicinamento sul versante del fabbisogno.
E se, contemporaneamente, si tiene conto della volontà di diminuire di un punto percentuale in ragione d'anno la pressione fiscale e la spesa corrente al netto degli interessi, nonché dell'accelerazione forte che si intende dare al processo di privatizzazione, si comprende che ci troviamo di fronte ad una manovra di finanza pubblica di tipo nuovo, capace, cioè, di raggiungere il pareggio di bilancio nel 2003, senza utilizzare le tradizionali misure di intervento sulla spesa sociale e di gioco sulla leva fiscale che hanno caratterizzato la politica economica del nostro paese negli ultimi lustri.
La novità - che è anche una sorta di rivoluzione copernicana - sta proprio qui: individuata la bussola nel risanamento dei conti pubblici, si interviene sul denominatore del rapporto deficit PIL, con l'obiettivo dichiarato di portare la crescita del prodotto interno lordo dal 2 per cento a più del 3 per cento nel quinquennio; peraltro, tale dato potrebbe essere letto per difetto, non essendosi tenuto conto dell'impatto della manovra sulla struttura produttiva complessivamente intesa.
Se si guarda, poi, al contenuto specifico del piano dei cento giorni e agli interventi legislativi da questo previsti, ci si rende conto dell'intima connessione che vi è tra questo DPEF e gli indirizzi di massima per le politiche economiche offerti all'Italia dal Consiglio dell'Unione europea nell'ambito del processo di sorveglianza multilaterale. Ed è proprio in virtù di tale collegamento che il filo del DPEF si snoda attraverso la riforma delle pensioni, il favore per lo sviluppo dei sistemi di previdenza integrativa, l'aumento della flessibilità nel mercato del lavoro, il coinvolgimento dei privati nelle spese per la ricerca e lo sviluppo, la riduzione del carico amministrativo sulle imprese e lo sviluppo del mercato dei capitali, facilitando l'accesso agli investitori istituzionali tramite la riforma fiscale. In questo senso, il DPEF, che, preso da solo, e data la sua scarsa cogenza, potrebbe essere considerato un genere letterario, può diventare, se attuato, termine di misura della nostra collocazione europea.
A nessuno sfugge, però, che l'obiettivo di fare un balzo in avanti nella crescita del paese implica il raggiungimento di un traguardo intermedio: la crescita del sud, anche perché è difficile immaginare margini di sviluppo per l'intero paese superiori al 3 per cento se il sud non procederà a ritmi vicini al doppio. È indispensabile, dunque, inserire pienamente il Mezzogiorno nel processo di sviluppo del nostro paese ed in questa direzione si collocano normative come la Tremonti-bis, che non appaiono a specifica vocazione meridionalista, ma piuttosto a sostegno della ripresa economica complessiva. Sarebbe necessaria, a tal proposito, una riflessione sul rapporto fra Tremonti-bis e credito di imposta per le imprese del sud, allo scopo di valutare se e come fare esprimere a queste imprese tutte le loro potenzialità inespresse, favorendone la patrimonializzazione e gli investimenti.
Ma è prioritariamente indifferibile anche un grande piano concepito e realizzato appositamente per il sud. Per intenderci subito, è forse utile chiarire che chi sta parlando si colloca, insieme alla generazione cui appartiene, ad una distanza culturale siderale rispetto alla concezione che vede gli enti pubblici meridionali venire a Roma con il cappello in mano a chiedere soldi per le proprie terre senza rendere conto, poi, del loro utilizzo: ormai, noi meridionali per primi ci sentiamo fuori dal triangolo piagnisteo-elemosina-sperpero.
Vi sono, tuttavia, constatazioni che non nascono dalla demagogia, bensì dalla statistica: secondo le ultime stime, nel Mezzogiorno c'è un tasso di occupazione della popolazione in età da lavoro - fra i 15 e
i 64 anni - del 59,5 per cento per i maschi e del 24,6 per cento per le femmine. È il caso di ricordare che al vertice di Lisbona dello scorso anno l'Unione europea ha fissato l'obiettivo, entro il 2010, di un tasso di occupazione del 70 per cento per la popolazione maschile e del 60 per 100 per quella femminile, con i traguardi intermedi, nel 2005, rispettivamente, del 56,4 per cento e del 24,6 per cento.
Sono troppi, però, i dati che ci fanno pensare al peggio. Nel solo anno 2000, ben 67 mila unità lavorative hanno abbandonato le regioni meridionali - e si trattava, in gran parte, di laureati - per trasferirsi al nord; e tutto ciò, insieme alle nuove tendenze demografiche, produce il dato secondo il quale, mentre il meridione d'Italia si è impoverito di 94 mila abitanti, nel centro nord si sono stabiliti, nel solo 2000, altri 384.000 abitanti. Tutto questo significa nuova emigrazione e nuova povertà per il sud.
Non c'è bisogno di leggere il rapporto Svimez sull'economia del Mezzogiorno per arrivare alla conclusione che le difficoltà che ha l'Italia a raggiungere gli obiettivi di Lisbona dipendono dalla distanza tra i livelli occupazionali del sud e quelli del nord; e nemmeno c'è bisogno di essere sottili analisti per comprendere che la necessità dello sviluppo del Mezzogiorno non è figlia di egoismi territoriali ma di esigenze di sistema.
Devo dire che questo DPEF esprime alcune posizioni chiare su temi cardine. In primo luogo, contiene la soluzione al grande deficit infrastrutturale del sud, che è una delle cause dell'arretratezza, manifestando una modalità moderna di intervento, cioè l'attivazione contestuale del finanziamento pubblico e privato. Mi è sembrato di cogliere un dato importante anche nel riferimento ad un volume appropriato e certo di risorse finanziarie, che possano conseguire il risultato della programmazione degli interventi da parte delle amministrazioni locali, proprio in ragione della certezza dei finanziamenti, così come è importante il riferimento alle semplificazioni procedurali e a forme di flessibilità del mercato del lavoro concordate a livello locale, che possano attirare gli investimenti al sud facendo sì che i giovani trovino lavoro senza emigrare.
Infine, è certamente inderogabile l'esigenza di un pieno utilizzo dei finanziamenti europei, sebbene il richiamo ad essi, in questa sede, abbia più il valore di un monito che di una politica per il sud.
A proposito dei soldi non spesi, è da sostenere a mio avviso con forza l'ipotesi avanzata dal ministro Tremonti di convertire il non speso in sgravi fiscali per il meridione.
Onorevoli colleghi, questo è un DPEF pensato per rilanciare lo sviluppo attraverso una politica economica fondata sulla riforma fiscale...
PRESIDENTE. Onorevole Alfano, la invito a concludere.
ANGELINO ALFANO. ..., sulla riforma del mercato del lavoro - mi avvio a concludere signor Presidente -, sulla riforma della pubblica amministrazione e sulla ripresa degli investimenti. Ma questo è un DPEF fondato anche, se non soprattutto, sulle aspettative, cioè sulla fiducia, che diviene parte essenziale della politica economica in quanto capace di sostenere la domanda interna e la ripresa dei consumi delle famiglie. Una fiducia che esprimo anch'io, per quel che mi compete, nella convinzione che con l'approvazione di questo documento si cominci a spianare la strada che porterà l'Italia ad un futuro di benessere, allo sviluppo e alla pace sociale (Applausi dei deputati dei gruppi di Forza Italia e Misto-Nuovo PSI).
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