Resoconto stenografico
INDAGINE CONOSCITIVA
La seduta comincia alle 14.30.
PRESIDENTE. Avverto che, se non vi sono obiezioni, la pubblicità dei lavori sarà assicurata anche mediante impianto audiovisivo a circuito chiuso.
(Così rimane stabilito).
PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sui temi relativi all'imposizione sulle transizioni valutarie (C. 1233 Crucianelli, C. 1301 Nesi, C. 1475 Giovanni Bianchi, C. 3041 Iniziativa popolare e C. 3048 Grandi), l'audizione di studiosi ed esperti della materia.
Le Commissioni riunite III e VI hanno iniziato l'esame congiunto delle proposte di legge a firma di vari parlamentari, di maggioranza ed opposizione, relative alla possibilità e al modo di introdurre la Tobin tax. Nell'avviare l'esame dell'insieme dei progetti di legge, si è stabilito di condurre un'indagine conoscitiva, ascoltando rappresentanti istituzionali, come il ministro dell'economia e la Banca d'Italia, e studiosi che si siano occupati di questa materia.
A nome delle Commissioni do il benvenuto ai professori Riccardo Bellofiore, Emiliano Brancaccio, Domenico Da Empoli, Franco Osculati e Felice Pizzuti, che ringraziamo.
Do subito la parola a Riccardo Bellofiore, professore di economia monetaria presso la facoltà di economia dell'Università di Bergamo.
RICCARDO BELLOFIORE, Professore di economia monetaria presso la facoltà di economia dell'Università di Bergamo. Introdurrò il discorso sulla tassa Tobin, cercando, in modo breve ma esauriente, di dire cosa essa sia, quali siano i suoi obiettivi, perché sia tornata di attualità, quali siano la sua filosofia, i limiti, l'eventuale portata e la sua praticabilità.
Come molti sanno, questa tassa fu proposta da James Tobin dopo la crisi del sistema di Bretton Woods, nel 1972. Benché la proposta, in quel periodo, non avesse avuto molto successo nell'accademia e negli organismi internazionali, Tobin ha confermato nel tempo le sue opinioni e, ancora in scritti scientifici nel 1995 fino alle ultime interviste nel 1998 e nel 2001, l'ha sempre sostenuta.
Essa consiste nell'imposizione di una aliquota fissa minima, quindi proporzionale, molto bassa (Tobin, inizialmente, proponeva l'1 per cento, poi ha sostenuto aliquote più basse), su qualsiasi transazione in valuta estera.
I due obiettivi principali della tassa di Tobin, strettamente legati tra di loro, consistevano innanzitutto, in un sistema a cambi internazionali ormai flessibili, nel disincentivare i movimenti speculativi di
capitale, non colpendo le transazioni reali e commerciali, ma quelle speculative, al fine di ridurre l'instabilità eccessiva dei tassi di cambio, che produce effetti negativi sia per chi vede la sua moneta svalutarsi violentemente sia che per chi la vede rivalutarsi drasticamente, e che, anche recentemente, si verifica essere un problema di attualità con le attuali oscillazioni di grande ampiezza di euro e dollaro; in secondo luogo, nel ridare autonomia alla politica macroeconomica, nazionale, monetaria e fiscale, al fine di ottenere il pieno impiego.
La tassa può disincentivare le operazioni speculative aprendo la strada ad una politica caratterizzata da bassi tassi d'interesse rispetto al livello internazionale.
È evidente che la tassa, in quanto tale, reperisce risorse. Si tratterà poi di vedere le modalità per gestire il prelievo e attribuire il gettito.
Se i primi due obiettivi venissero raggiunti, questa tassa ridurrebbe evidentemente la base imponibile ma, in ogni caso, anche se fosse in grado di ridurre il montante dei movimenti speculativi di capitale, comunque, secondo le previsioni dei più, darebbe luogo ad una rilevante quantità di risorse, di cui bisognerebbe poi stabilire modalità di utilizzo oltre che di prelievo (tuttavia, non tratterò, se non per sommi capi, quest'ultimo aspetto).
Ciò detto, per quanto riguarda la natura e la definizione della tassa, come raggiunge essa i suoi obiettivi? Come distingue, per esempio, tra transazioni reali e transazioni speculative in valuta estera, dal momento che colpisce qualsiasi transazione in valuta estera?
Si può rispondere, molto semplicemente, ricordando che i movimenti speculativi sono movimenti con elevati turn over, quindi, da proporzionale la tassa diventa progressiva applicandosi più volte allo stesso capitale speculativo nei suoi va e vieni tra le valute in un limitato arco temporale.
Per esempio, a fronte di un'aliquota anche solo dello 0,1 per cento, questa comporterebbe un prelievo effettivo con un movimento solo in un anno dello 0,2 nel corso dell'anno; se invece il movimento fosse una volta al mese il prelievo annuale sarebbe del 2,4; nel caso di movimento settimanale sarebbe del 10,4 su scala annuale e, infine, se si trattasse di un movimento giornaliero sarebbe del 50 per cento circa sull'anno. Ovviamente, gli esempi potrebbero continuare con altre aliquote ma il punto chiave è che in questo modo la tassa finisce con il «segmentare» il mercato finanziario della nazione da quello degli altri mercati. Il problema, allora, consiste nell'individuare la scala di applicazione della tassa.
Originariamente, Tobin affermò che la tassa doveva essere applicata internazionalmente e globalmente ma è evidente che (fu lo stesso Tobin successivamente a chiarire questo punto) basta intervenire sulle piazze principali. Se, infatti, prendiamo come riferimento il 2001, le transazioni in valuta estera risultano così ripartite: nel Regno Unito il 31 per cento, negli Stati Uniti il 15,7 per cento, in Giappone il 9 per cento, a Singapore il 6,2 per cento, in Germania il 5,4 per cento, in Svizzera il 4,4 per cento, a Hong Kong il 4,1 per cento e il resto altrove. Ciò rende evidente come sia sufficiente intervenire sulle piazze principali.
Detto ciò, possiamo allora domandarci perché la tassa è tornata di attualità. Ciò è accaduto perché il quadro attuale è chiarissimo nella sua pericolosità a causa della mobilità senza controlli dei capitali. Permettetemi di citare ancora qualche cifra.
Se guardiamo al turn over giornaliero dei movimenti in valuta estera nel 1989, questo era di circa 600 miliardi di dollari. Se, invece, ci riferiamo al 1998 la cifra sale a circa millecinquecento miliardi di dollari. Un aumento notevole, che ora, negli ultimi anni, si è ridotto, scendendo a 1.200 miliardi.
Se prendiamo queste transazioni in valuta estera e le poniamo a confronto con il commercio reale, partendo da un rapporto di 3,5 nel 1977 del montante dei movimenti in valuta estera sul commercio
reale, si arriva ad un rapporto di 60 volte nel 1998 (ultimamente ridottosi, ma non molto).
Una serie di esperti - tra i quali il sottoscritto - ritiene che questo tipo di rapporto (cioè di 60 a 1), sia eccessivo e celi sostanzialmente movimenti speculativi sganciati dalle esigenze reali del commercio e degli investimenti diretti all'estero.
Ricorderò che, nel 2001, il 76 per cento dei movimenti in valuta estera sono di durata inferiore alla settimana e di questi (i dati provengono dalla Banca dei regolamenti internazionali) il 66 per cento non hanno legame con transazioni reali.
Sorge il dubbio che questa situazione non sia estranea al prodursi a ripetizione di crisi finanziarie (la crisi messicana nel 1995, quella asiatica nel 1997-98, quella in Brasile e in Russia nel 1999, quella della Turchia e dell'Argentina nel 2001-2002) ma comunque, prima e dopo, assistiamo anche a crisi effettive o potenziali gravissime in paesi avanzati (nel 1992-93 la crisi del Sistema monetario europeo, nel settembre del 1998 il rischio di crisi negli Stati Uniti e via dicendo).
A quale filosofia si ispira la tassa? Tobin è un keynesiano e se Keynes, nel 1936, aveva proposto una tassa sulle transazioni finanziarie interne, Tobin estende questa tassa su scala internazionale, condividendo la visione dei mercati finanziari di Keynes, secondo la quale se da un lato questi ultimi aumentano la liquidità (e quindi, più liquidità favorisce l'investimento), dall'altro, troppa liquidità determina speculazione, proprio perché i mercati finanziari non sono retti dal riferimento ai fondamentali ma da una razionalità per la quale chi opera su tali mercati lo fa immaginando le aspettative ed i comportamenti degli altri operatori.
Il problema è che essendo tutto ciò noto, si crea un meccanismo ricorsivo nelle stesse aspettative, per cui si opera sulla base di ciò che ci si attende gli altri si aspettano e così via, per cui i movimenti speculativi sono sganciati sempre di più da ogni fondamento reale.
Secondo una nota definizione, per speculazione si intende qualsiasi compravendita nella speranza di una variazione del prezzo (quindi, una compravendita nella quale si spera di guadagnare non tanto dall'uso o dal trasferimento del bene ma da un aumento o da una riduzione di un qualche prezzo).
Pertanto, la logica della tassa di Tobin si inserisce in quella che potremmo definire una prospettiva di riformismo: intende ridurre la liquidità ma non annullarla; intende rendere più stabile un sistema che tende sistematicamente a deviare da questa stabilità producendo situazioni di crisi.
È evidente che, in questa prospettiva, oggi sono possibili interpretazioni diverse. Vi è chi vede in questa situazione di sovradimensionamento della finanza, una condizione patologica ma tutto ciò non è assolutamente necessario. In altri termini, non è necessario ritenere che questa dimensione patologica sia strutturale al capitalismo in sé. Si può invece ritenere che si tratti di una dimensione patologica di questo capitalismo e che un intervento, riformista, appunto, consentirebbe un miglioramento in termini di maggiore autonomia dei Governi al fine di determinare il pieno impiego.
Cosa poi questi ultimi intendano fare di tale autonomia e quale ne sia l'impiego, più o meno flessibile, verrà deciso in sede politica, né, evidentemente, la tassa Tobin intende essere una misura unica ed esclusiva di altri interventi nel campo dell'intervento sui mercati finanziari del controllo dei movimenti di capitali.
Quali sono, dunque, le obiezioni più ricorrenti contro la tassa Tobin e quali le possibili risposte? Si può ritenere che, dietro questo insieme notevole di compravendite di valuta estera, vi sia una esigenza di copertura degli agenti dal rischio di cambio, che ha prodotto una serie di nuovi strumenti finanziari.
Questo è senz'altro vero e la tassa certamente ridurrebbe l'ammontare di liquidità, tuttavia, al tempo stesso, essa non comporta affatto una minore sicurezza degli agenti perché la tassa tramite il suo operare riduce al tempo stesso il rischio di cambio e, quindi, non è assolutamente
scontato che con il suo intervento aumenti l'insicurezza, rendendo più scoperti gli operatori.
In secondo luogo, si può sostenere che, dietro i movimenti e le transazioni in valuta estera, vi sia una forte dimensione di arbitraggio (cioè, il fatto che gli operatori tendano a determinare ovunque, in situazioni di libera mobilità dei capitali, lo stesso tasso di cambio oppure lo stesso tasso di interesse).
Però è difficile oggi distinguere il fenomeno dell'arbitraggio dal fenomeno puramente speculativo; e comunque è difficile immaginare che dietro le dimensioni che ho indicato non vi sia una forte componente di speculazione destabilizzante, in quanto spesso la speculazione si annida nella detenzione temporanea di «posizioni» per supposti interventi di arbitraggio. Non ha dunque senso criticare la tassa Tobin in quanto ostacolerebbe l'arbitraggio.
Sono due le critiche alla tassa Tobin che credo non possano essere rapidamente liquidate. Tali critiche provengono in particolare da coloro che contestano che la tassa Tobin possa essere utile in condizioni di gravi instabilità finanziarie. In qualche modo quanto da me sostenuto è che il ritorno di attualità della tassa Tobin è dovuto anche all'espansione della finanza rispetto all'attività reale, cosa che ha finito con il creare crisi finanziarie a ripetizione. Si potrebbe sostenere in realtà che le grandi crisi finanziarie non necessariamente sono causate da mobilità eccessiva dei capitali; e questo credo sia vero in molti dei casi delle crisi finanziarie degli anni '90. Si può anche sostenere che una tassa Tobin difficilmente impedirebbe le grandi svalutazioni, come ad esempio che non sarebbe in grado di impedire la svalutazione del baht che ha dato il via alla crisi nell'est asiatico. Anche questa obiezione è accettabile; e in realtà è accettata dallo stesso Tobin.
Il punto importante è che, in realtà, la tassa Tobin funziona stabilizzando i mercati finanziari e ottenendo i suoi obiettivi in condizioni di relativa normalità. Se è vero che la mobilità non regolata dei capitali non sempre è la causa delle crisi economiche anche recenti, è però vero che una volta che una crisi si produce essa facilita fughe rovinose e immediate di capitali. Se è vero che la tassa Tobin nella sua formulazione originaria non è in grado di impedire movimenti speculativi originati dall'attesa di una vistosa svalutazione del cambio, questo però non vuol dire affatto che la tassa Tobin non possa esser modificata in modo da rispondere almeno in parte ai rischi di grandi crisi.
Il professor Spahn, uno studioso tedesco, ha avanzato una proposta che io ritengo interessante, e cioè di prevedere una tassa, per così dire, a geometria variabile: ipotizzare cioè una bassa aliquota fissa (come nell'ipotesi di Tobin) ma qualora si abbiano delle transazioni in valuta estera al di fuori di bande di oscillazione mobili (annunciate dalla banca centrale del paese o dei paesi aderenti e costruite sull'andamento dei cambi dei tre mesi precedenti) Spahn sostiene che tali transazioni siano allora da penalizzare con l'applicazione di un'aliquota fiscale elevatissima.
Credo che questa proposta sia interessante (anche se non condivido l'aliquota troppo bassa prevista da Spahn) e vada nella giusta direzione in un mondo in cui negli ultimi vent'anni vi sono stati 308 attacchi speculativi. Secondo uno studioso della banca mondiale di tutti questi attacchi 105 hanno avuto successo e quelli che non lo hanno avuto hanno comunque comportato effetti devastanti perché per rispondere a tali attacchi ed evitare le crisi si sono dovuti alzare i tassi di interesse a livelli inauditi, soprattutto nei paesi della periferia.
Basti pensare che in Corea del sud un aumento del tasso di interesse del 30 per cento non fu sufficiente a sconfiggere la speculazione mentre in Brasile il real si dovette svalutare nonostante un aumento del tasso di interesse pari al 50 per cento. Ancora oggi in Brasile, non soggetto ad attacco speculativo, il tasso di interesse è attorno al 26 per cento.
A chi pensasse che questi problemi investono esclusivamente la periferia ricordo
solo due aspetti. Da un lato, come ho accennato prima, vi sono state delle crisi finanziarie serie nel centro del capitalismo, in Europa occidentale, nell'area del sistema monetario europeo di allora e rischi in tal senso ci sono ora negli Stati Uniti. In secondo luogo ricordo che i costi «alla periferia» sono costi per tutti; ad esempio la crisi dell'America latina e dei mercati emergenti, dovuta anche a queste dinamiche finanziarie, ha colpito molto pesantemente la FIAT; questo ovviamente comporta degli effetti sociali interni. Così come la crisi di economie in via di sviluppo non può non avere come effetto un flusso di immigrazione verso i paesi avanzati. Quindi di nuovo costi economici e problemi sociali enormi.
Si può obiettare che in realtà sostenere la tassa Tobin significa sostenere in forma morbida la reintroduzione dei controlli di capitale. Questo in parte è vero; d'altronde Tobin si riallaccia alla tradizione keynesiana e Keynes, benché fosse a favore della liberalizzazione commerciale (pur sostenendo che ciò che poteva esser prodotto nazionalmente era bene che lo fosse) non amava la mobilità internazionale dei capitali. Mi permetto di ricordare però che i controlli di capitale sono previsti nello stesso trattato di Maastricht all'articolo 59, dove tali meccanismi sono previsti per sei mesi, rinnovabili. Ricordo altresì che ulteriori forme di controllo dei capitali sono state attuate negli ultimi anni con successo. La Malesia, ad esempio - lo ha riconosciuto lo stesso Fondo monetario internazionale -, è uscita dalla crisi meglio degli altri paesi dell'est asiatico proprio grazie a questi controlli; il Cile pratica dei depositi infruttiferi sui capitali in entrata che hanno avuto, sia pur con dei limiti, un certo successo. D'altronde, nell'articolo del 95 (scritto da Eichengreen e Wyplosz in collaborazione con lo stesso Tobin) si propone la possibilità, oltre alla tassa Tobin, dell'introduzione di un deposito infruttifero su tutti i prestiti bancari e non bancari in valuta nazionale ai non residenti. Ricordo che da ultimo lo stesso Fondo monetario internazionale dal 2001 sta pensando ad una cross border capital tax che in qualche modo tenti di affrontare i medesimi problemi.
Affronto ora alcune considerazioni sulla scala di intervento di una eventuale introduzione della tassa Tobin; forse si può anche condividere il ragionamento da me svolto in precedenza e quindi ritenere che dietro la proposta attuale della tassa Tobin non vi sia solo una meritevole spinta etica ma anche una razionalità economica generale, però si deve riflettere sulla considerazione che la tassa Tobin, secondo l'opinione dello stesso Tobin, richiede di essere introdotta in tutte le principali piazze finanziarie e che essa non sia praticabile a livello nazionale o di una area sovranazionale come quella dell'Europa dell'euro o dell'Unione economica europea. Sicuramente è difficile immaginare oggi un'introduzione della tassa Tobin su scala meramente nazionale, credo però che chi invece voglia sostenere che l'introduzione della tassa su scala soltanto europea sia insufficiente commetta un errore. È necessario anzitutto distinguere l'Europa dell'Unione economica europea (composta da 15 paesi tra i quali il Regno Unito) dall'Europa dell'euro che invece non include il Regno Unito. Evidentemente le cose sarebbero molto più semplici se da subito si introducesse una tassa Tobin in un'area comprendente il Regno Unito, anche considerate le percentuali di transazioni cui ho fatto cenno in precedenza.
Sono però convinto che abbia ragione chi sostiene che una tassa Tobin possa e debba essere introdotta eventualmente anche nell'Europa dell'euro senza il Regno Unito; questo perché l'Europa dell'euro costituisce un'area economica comparabile a quella degli Stati uniti e quindi è un mercato da cui non ci si può permettere di stare fuori.
L'obiezione che viene sollevata è che qualora si introducesse una tassa Tobin nella sola Europa dell'euro sarebbe molto facile eseguire transazioni in euro sul mercato di Londra (aumentandone la percentuale di transazioni) e questo costituirebbe
di fatto una evasione della tassa. A questo però credo che si possa fornire una risposta.
Una risposta possibile a questa evenienza è che la tassa venga prelevata non nel luogo di contrattazione ma nel luogo di pagamento. Quindi, si tratterebbe di farla pagare dalle banche, o tramite le banche, dell'Europa dell'euro che utilizzano corrispondenti sul mercato di Londra. In questo modo, si andrebbe, certamente, verso la costruzione di zone monetarie e finanziarie protette. Tuttavia, nell'attuale sistema economico internazionale vi è una evidente contraddizione: di fatto, vi è una frammentazione monetaria a fronte di una situazione dei mercati finanziari nei quali il capitale è quasi perfettamente mobile. Questa contraddizione, dal mio punto di vista, non può che produrre disastri.
Vorrei concludere il mio intervento permettendomi di offrire a lei, signor presidente, ed al presidente della Commissione affari esteri e comunitari della Camera dei deputati copia del volume, «Il granello di sabbia», vertente su questi temi, redatto insieme al professor Brancaccio.
PRESIDENTE. Ringrazio il professor Bellofiore, anche per questo omaggio. La sua esposizione, che illustra sia l'origine sia la natura della Tobin tax, nonché alcune sue obiezioni, consentono, forse, ai successivi interventi di completare l'argomento. Infatti, il professor Bellofiore non ha trattato - preannunciandolo fin dall'inizio del suo intervento - il tema del legame della tassa con la spesa, vale a dire la ragione per la quale una imposta così connotata, e con queste caratteristiche, dovrebbe essere utilizzata ai fini del sostegno dello sviluppo. Inoltre, vi è il problema, che il professore ha trattato sommariamente, nell'ultima parte della sua relazione, della possibilità di evadere una imposta di questo genere, qualora non vi siano assoggettate tutte le piazze finanziarie.
EMILIANO BRANCACCIO, Professore di macroeconomia a contratto presso l'Università del Sannio. Vorrei provare a sgomberare il campo da un equivoco che mi sembra affiori, talvolta, all'interno del dibattito politico e, mi permetto di affermare, anche nelle relazioni di questa Commissione. Si tratta di un equivoco che rischia di essere, in qualche misura, fuorviante ai fini della comprensione del significato di questa tassa. Nella mia esposizione, inizierei ricordando che James Tobin, colui che l'ha ideata, aveva uno scopo fondamentale, quello di aumentare i margini di manovra sui tassi di interesse da parte delle autorità monetarie liberandole, almeno in parte, dalla continua minaccia proveniente dai movimenti di capitale ad opera degli operatori privati. Il meccanismo, essenzialmente, funziona in due modi: la Tobin tax creerebbe un cuneo nelle parità internazionali dei tassi di interesse che dovrebbe disincentivare gli arbitraggisti a «fuggire» non appena la banca centrale riduca i tassi di interesse; inoltre, poiché queste tassa costituisce, in generale, un disincentivo a «fuggire», a spostarsi da una valuta dall'altra, dovrebbe ridurre, in qualche misura, l'attività speculativa, ridurre la volatilità di cambi e, con essa, anche la probabilità che gli speculatori giochino a scommettere contro la banca centrale costringendola, il più delle volte, ad aumentare i tassi di interesse per evitare di perdere la partita.
In sostanza, noi siamo di fronte ad uno strumento ingegnoso di politica monetaria, della cui efficacia o della cui sufficienza si può ampiamente discutere (ed effettivamente in ambito accademico se ne discute da tempo), che cerca di affrontare un problema molto ben definito e molto attuale, quello della sovranità politica sulla moneta e sui tassi di interesse. Si tratta di un problema fondamentale nei paesi meno sviluppati, come il professor Bellofiore ha chiarito esaurientemente, ma che in una certa misura riguarda anche la Banca centrale europea. Vorrei citare, a tale proposito, alcuni articoli di Modigliani e La Malfa sull'argomento.
PRESIDENTE. Di qualche decennio fa!
EMILIANO BRANCACCIO, Professore di macroeconomia a contratto presso l'Università del Sannio. Non in termini cronologici, forse, più in termini politici.
In questi articoli di qualche anno fa (Corriere della sera, 1998), gli autori chiamavano in causa la linea della politica monetaria della Banca centrale considerandola, tra l'altro, oltremodo restrittiva. Questo problema si presenta oggi molto frequentemente. Noi sappiamo che tra le variabili argomento della funzione dei tassi di interesse della Banca centrale europea ci sono i tassi correnti attesi di cambio e i tassi di interesse esteri correnti e attesi, in particolare della Federal reserve, ma non soltanto di essa. Poiché la Tobin tax, se sufficientemente elevata, dovrebbe ridimensionare l'incidenza di queste variabili sui tassi di interesse interni, all'interno del dibattito accademico si ritiene che possa favorire, proprio per questo, un ampliamento dei margini di manovra sui tassi e, quindi, un ampliamento delle possibilità, per la Banca centrale, se lo desidera (questo è da verificare, naturalmente!), di agire sui tassi in senso espansivo.
Vorrei soffermarmi su un chiarimento a mio avviso importante. Noi stiamo discutendo di una letteratura che, dal punto di vista teorico, ha una concezione convenzionalista del tasso di interesse, una concezione secondo la quale esistono ampi margini di manovra politica sui tassi di interesse, dal momento che si tratta di una variabile fortemente orientabile sul piano politico, sul piano delle convenzioni e sul piano della psicologia dominante degli operatori. Questo è un punto importante e non so quale sia la posizione, in merito, dei professori qui presenti. Chi sostiene la Tobin tax, insomma, si pone in genere in chiave antagonistica rispetto a chi fa riferimento alla letteratura che prende spunto dalla analisi di equilibrio intertemporale o al real business cycle, cioè ad un'idea dei tassi di interesse dominati da preferenze, tecnologia e dotazioni, un'idea molto stringente secondo la quale la politica può poco o nulla sui tassi. Anche in questa sede è importante precisare questo perché, ad esempio, Kenneth Rogoff, capo economista del Fondo monetario internazionale, sostiene l'idea che la politica nulla possa sui tassi e, anzi, è meglio che non intervenga perché causa danni. Noi invece abbiamo un'idea diversa e ci ricolleghiamo ad una letteratura che si colloca su una posizione decisamente antitetica rispetto a questa. È utile che i responsabili della politica lo sappiamo, in quanto spetta a loro assumere le decisioni.
L'ampliamento dei margini di manovra sui tassi di interesse costituisce un argomento che, in molte circostanze, è stato trascurato, per non dire cassato, all'interno del dibattito politico. Invece, si è assegnata la priorità ad un altro obiettivo, quello del gettito fiscale, considerato da Tobin nulla più che un lieto effetto collaterale della tassa. Lieto sì, ma comunque collaterale. Il dibattito accademico si muove sostanzialmente - anche se esiste qualche eccezione - sulla stessa linea di Tobin. Questo è un punto importante. Oltretutto, come vedremo in seguito, tra l'obiettivo della conquista di autonomia monetaria e quello del gettito può sussistere, addirittura, un trade-off, ossia un conflitto di cui è necessario tener presente in sede politica.
In questi anni ho seguito sia il dibattito politico-istituzionale sulla Tobin tax che quello del movimento di Porto Alegre e di Seattle. Del movimento, in particolare, ho tratto un'esperienza diretta. Infatti, sono firmatario di una legge di iniziativa popolare per l'istituzione dell Tobin tax sostenuta dall'associazione ATTAC. Una legge depositata lo scorso luglio in Parlamento, per la quale sono state raccolte quasi duecentomila firme. Ora, nel partecipare a questi dibattiti ho sempre cercato di compiere uno sforzo continuo per orientare la discussione sulla questione della autonomia e della sovranità monetaria piuttosto che sulla questione del gettito. E vi assicuro, non è cosa semplice.
Come esempio evidente di ciò, cito un noto tentativo di contrapposizione, avanzato recentemente, tra la Tobin tax e la cosiddetta de-tax. Penso che si tratti di una tipica dimostrazione dell'equivoco che
nasce intorno alla Tobin tax, dal momento che sulla de-tax si possono avere opinioni estremamente diverse (personalmente ne ho un'opinione negativa), ma la questione fondamentale è che essa non si occupa di nessuno dei problemi di cui si discute in ambito accademico in merito alla Tobin tax. Non vale, quindi, la pena portare avanti tale contrapposizione e non so per quale ragione essa sia stata avanzata.
Ritornando alla Tobin tax, sono fautore di un uso della tassa sulla base dell'obiettivo originario, la conquista di margini di manovra, cioè della sovranità monetaria, sui tassi di interesse. Per questo motivo mi accodo alla letteratura che promuove una tassa relativamente elevata, nonché a quella che ritiene che essa sia senz'altro uno strumento che va nella giusta direzione, ma che possa anche rivelarsi non sufficiente per i fini che intende perseguire.
Io sostengo un'aliquota relativamente elevata perché questo è il modo giusto per acquisire autonomia monetaria. Per chiarirlo farò alcune ipotesi sulle elasticità di comportamento degli operatori. Prima però vorrei chiarire un aspetto: la nostra analisi è puramente congetturale, poiché non abbiamo sufficiente esperienza. Si tratta di un punto importante. Per ragionare sulla tassa sarà necessario interagire tra esperti e politici: la normazione dovrà essere dinamica, in funzione di quelle che saranno le reazioni del mercato finanziario alla tassa, perché si tratterà di procedere per tentativi ed errori (se si deciderà di procedere su questa direzione). Dal punto di vista della verifica empirica, dunque, non possiamo dire molto. Ciò nonostante, ciò che è quasi certo nella letteratura sulle ipotesi di comportamento, ossia sulla elasticità di comportamento degli operatori, è che quanto maggiore è l'aliquota della tassazione, tanto minore, dopo un certo livello, è il gettito e tanto maggiori sono i cunei tra i tassi di interesse interni ed i tassi internazionali.
In sostanza esiste un trade off: se vogliamo gettito la tassa deve essere bassa, ma se vogliamo sovranità monetaria la tassa deve essere piuttosto alta e, secondo me, questa seconda opzione è molto più interessante della prima.
FELICE ROBERTO PIZZUTI, Professore di politica economica presso l'Università La Sapienza di Roma. Una prima considerazione è che James Tobin ha esposto inizialmente la sua idea nel 1972 e fino al 2001, quando ha dato l'ultima intervista sul tema, l'ha sempre riproposta indipendentemente dalla vicinanza o lontananza politico-culturale di partiti e movimenti che hanno dibattuto su di essa. Una prima indicazione da recepire, quindi, è che la Tobin tax possa essere valutata indipendentemente dai coinvolgimenti politico culturali che l'hanno accompagnata.
Una seconda considerazione è che la prima formulazione risale a più di trent'anni fa. Si potrebbe ragionevolmente sostenere che nel frattempo qualcosa è cambiato e che la tassa sia «datata». Mi pare invece che per essa vale quanto affermato da Keynes, cioè che spesso i politici si trovano a discutere di idee che qualche economista ha suggerito mezzo secolo prima (siamo, quindi, addirittura in anticipo rispetto alla data di «scadenza» della tassa). Il problema principale sottostante l'idea di Tobin è che i movimenti finanziari internazionali, già trenta anni fa, avevano acquisito una velocità di spostamento superiore alla mobilità dell'economia reale, cioè i capitali si spostavano ad una velocità superiore a quella delle merci e dei lavoratori. Se ciò era valido nel 1972, dopo trent'anni di globalizzazione è ancora più vero. Si può, quindi, essere più o meno d'accordo con la Tobin tax, ma la problematica è resa ancora più attuale dagli avvenimenti degli ultimi trent'anni.
Non ritorno su alcuni aspetti già analizzati nei precedenti interventi, ma li richiamo rapidamente, ricordando che l'eccessiva mobilità dei capitali è vista da Tobin con preoccupazione, sia per i suoi effetti di instabilità nei tassi di cambio sia per i limiti esercitati alla possibilità delle politiche monetarie ed economiche di intervenire a fronte di situazioni in cui i
mercati non siano in grado di produrre quella efficiente allocazione delle risorse che, normalmente, dovrebbero produrre. In particolare, come è stato detto, è rispetto ai tassi di interesse che la Tobin tax potrebbe accrescere i margini di manovra della politica economica.
Ciò è importante perché - come affermava Tobin - il fatto che i mercati finanziari siano diventati più efficienti, non è necessariamente un segno positivo. Tobin distingueva tra efficienza meccanica ed efficienza economica. In termini meccanici il sistema finanziario è diventato più efficiente, perché si ha una grande mobilità di capitali con pochissimi costi di transazione. Ma da un punto di vista economico - sostiene Tobin - ciò rappresenta un problema. Questa distinzione sottintende un punto teorico importante che deve essere sottolineato nella valutazione della Tobin tax.
In una concezione teorica dell'economia di mercato che potremmo definire rigorosa o astratta (a seconda dei punti di vista), la mobilità meccanica dovrebbe essere un fatto positivo: le transazioni si riducono di costo, aumentano di velocità e dunque aumenta la capacità di arbitraggio del sistema economico. Tuttavia, l'arbitraggio è un fattore differente dalla speculazione; il primo è fondamentale per la funzionalità di un mercato concorrenziale e per i suoi risultati d'efficienza. La speculazione, invece, non si limita a cogliere differenze di prezzi e, conseguentemente, a spostare beni, merci e capitali; essa è mossa non da prezzi esistenti nel mercato, ma dalle aspettative di prezzo di individui, di operatori del mercato, che dispongono di grandi quantità di capitali. Come metteva in evidenza Keynes, con il suo apologo relativo ai concorsi di bellezza, le aspettative di ciascun operatore sono influenzate da quelle che ciascuno attribuisce agli altri. Si può quindi creare il cosiddetto «effetto gregge», per cui ognuno si regola sulla base di quello che pensa che gli altri pensano.
Il risultato è che pochissime persone sono in grado di «fare» il mercato; quest'ultimo non è più il luogo dove un numero infinito di operatori si confronta. Diventa, piuttosto, il luogo dove pochi operatori, sulla base non della realtà ma di aspettative circa la stessa, compiono scelte che possono avere effetti reali ed autorealizzare le aspettative medesime. Dunque, le convinzioni di pochi operatori possono neutralizzare le politiche economiche delle istituzioni nazionali e sovranazionali, che pure sono rappresentative di milioni o miliardi di persone. Dunque, la speculazione spiazza sia il mercato sia la rappresentatività delle istituzioni.
Il punto è che, proprio negli ultimi decenni, è stata ripresa ed ampliata l'idea che un particolare tipo di aspettative, definite razionali, siano fonte di buone indicazioni. A tale riguardo, dobbiamo, per quanto brevemente, ricordare che le aspettative razionali si basano su un ipotetico mondo caratterizzato da mercati perfettamente concorrenziali e da operatori tutti forniti di informazioni complete e prive di asimmetrie; operatori che si comportano tutti sulla base delle stesse convinzioni teoriche e tutti sulla base della stessa interpretazione della realtà. In questo contesto teorico, le operazioni speculative non hanno più una connotazione negativa ma producono una sorta di «effetto turbo», nel senso che le rendono ancora più efficace ed efficiente la concorrenza. Ma questo risultato sarebbe vero se fossero vere le ipotesi su cui la teoria si basa.
Il punto è che il mondo reale - a mio avviso molto più rassicurante di quello configurato dalla teoria delle aspettative razionali - non funziona sulla base dei comportamenti ipotizzati da quest'ultima e le constatazioni empiriche lo confermano. Infatti, le aspettative non sono uguali per tutti; non tutti gli operatori ritengono che il mondo economico funzioni secondo certe regole e, dunque, non si comportano tutti in maniera omogenea. Non è vero che il tasso di rischio sia probabilisticamente prevedibile; al contrario, regna l'incertezza e nessuno può fare previsioni sicure. D'altra parte, il mondo ipotizzato dalla teoria delle aspettative razionali sarebbe senza storia, cioè il futuro
sarebbe già scritto, contenuto in un libro noto, per l'appunto, agli operatori. Questa realtà, a mio avviso fortunatamente, non esiste; esiste, invece, un'incertezza e, dunque, non tutti possono prevedere quanto accadrà. Sulla base delle aspettative possono ottenersi indicazioni di prezzo che, però, rimangono comunque inidonee sia a mettere sicuramente in grado gli operatori di fare le scelte migliori dal punto di vista dell'allocazione delle risorse sia a consentire ai responsabili della politica economica di comportarsi per il meglio. Dunque, se le aspettative danno luogo, essenzialmente, ad instabilità, diventa, a quel punto, condivisibile l'idea di Tobin di mettere qualche granellino di sabbia negli ingranaggi per recuperare qualche elemento di autonomia alla politica delle istituzioni nazionali e sovranazionali. A tale riguardo c'è una constatazione di Tobin che trovo particolarmente interessante per noi europei; in un articolo apparso nel 1996, il premio Nobel americano scriveva: «la teoria sulla quale la visione (delle aspettative razionali) si basa è prevalentemente un prodotto degli economisti americani ma fortunatamente né i nostri Governi né, almeno fino ad oggi, le nostre banche centrali l'hanno presa sul serio quanto i responsabili europei della politica economica.»
Dunque, Tobin ci invita a non prendere molto sul serio qualche prodotto della teoria economica americana che le stesse autorità di politica economica di quel paese si sono ben guardate dal seguire.
Nel dibattito, oltre al confronto con i teorici della aspettative razionali, credo possa essere utile fare un piccolo accenno a critiche di fronte opposto alla teoria della Tobin tax. Vi è chi - criticandolo «da sinistra»- sostiene che Tobin avrebbe espresso la sua proposta accettando acriticamente l'economia di mercato. Nell'impostazione di Tobin, la speculazione sarebbe solo una sovrastruttura irrazionale ed inefficiente che frenerebbe la componente razionale del mercato; tuttavia, osservano tali critici, poiché non si potrebbe distinguere tra speculatori ed operatori razionali, la Tobin tax colpirebbe sia gli speculatori sia l'economia reale. Stranamente, questa critica è del tutto simile a quella fatta dai teorici delle aspettative razionali; ma da essa vengono derivate, tuttavia, indicazioni opposte. Si sostiene, infatti, che il mercato debba essere «fatto» e diretto dall'esterno ovvero si afferma che esso debba essere, sostanzialmente, ingabbiato. Senza entrare nel merito dell'auspicabilità di una programmazione che sembrerebbe essere molto totalizzante, mi limito a sottolineare come la proposta di Tobin, ancora una volta, si basi su una precisa circostanza; si tratta di quanto notavo già all'inizio nel mio intervento. Il problema che origina la Tobin tax, infatti, nasce dalla constatazione che i mercati finanziari si muovono ad una velocità superiore rispetto a quella dei mercati reali; questo è l'aspetto fondamentale. Dunque, credo sia inutile «tirare in ballo» le teorie della crisi, le teorie delle instabilità di tipo strutturale, che hanno una loro legittimità e possono essere discusse indipendentemente dalla Tobin tax. Ma anche la Tobin tax può essere discussa indipendentemente da tali teorie.
Per concludere sugli aspetti analitici e storici della Tobin tax, a me sembra si possa affermare quanto segue. Anzitutto, le sue motivazioni, già valide trent'anni fa, se giustamente ed opportunamente circoscritte, non solo rimangono valide ma lo sono diventate ancor più a seguito di quanto è successo nei mercati negli ultimi trent'anni: essenzialmente, si è approfondita l'asimmetria tra la sfera d'azione territoriale dei mercati e la sfera d'azione territoriale delle istituzioni. I mercati si sono espansi a livello mondiale; le istituzioni continuano ad operare a livello nazionale. Anche le istituzioni sovranazionali incontrano molte difficoltà ad operare. Questa asimmetria ha ulteriormente accresciuto la necessità di restituire alle istituzioni nazionali, ma anche a quelle sovranazionali, un potere di interazione con i mercati. A tale proposito, mi limito ad osservare come una delle teorie economiche che più ha studiato i limiti del mercato sia proprio l'economia del benessere, un ramo nobile della teoria economica
liberale; essa, dal 1800 in poi, ha individuato svariate circostanze nelle quali il mercato non è nella migliore condizione per essere un ottimo allocatore delle risorse e, dunque, ha bisogno d'interagire con le istituzioni.
Fino agli anni '60, un certo equilibrio tra istituzioni e mercato, era stato raggiunto. Con il venir meno degli accordi di Bretton Woods nel 1971 e dopo i successivi processi di globalizzazione, quegli equilibri sono stati profondamente alterati. Oggi, indipendentemente dalla Tobin tax, si avverte il bisogno di recuperare un equilibrio tra forze di mercato ed istituzioni; credo, al riguardo, che la Tobin tax sia uno degli strumenti utili per ristabilire un tale bilanciamento.
Siccome, da parte del presidente La Malfa, era stata avanzata una richiesta specifica su alcuni punti relativi ai possibili impieghi degli introiti della Tobin tax e ai problemi di evasione nrella loro riscossione, vorrei aggiungere alcune considerazioni a quanto si è già osservato.
Intanto, la Tobin tax, come si è già detto, proprio perché colpisce le transazioni in ragione della loro frequenza e ripetitività, penalizza essenzialmente la speculazione e non i movimenti reali.
La Tobin tax potrà essere sicuramente indebolita da forme di evasione; tuttavia, a tale riguardo possono essere utili alcune considerazioni.
In primo luogo, va ricordato che qualsiasi tassa è soggetta a forme di elusione e di evasion; non per questo, però, i sistemi fiscali smettono di operare e di avere una loro ragion d'essere. Va comunque sottolineato che le elusioni e le evasioni implicano dei costi e poiché - come è stato giustamente rilevato - l'obiettivo principale della Tobin tax non è incamerare degli introiti, ma introdurre un elemento di frizione nella speculazione, questo aumento di costi sarebbe esso stesso un risultato coerente agli obiettivi dell'imposta.
Quanto ai problemi concreti di acquisizione delle entrate derivanti dalla Tobin tax, va rilevato che i sistemi di pagamento internazionali - proprio a seguito dell'informatizzazione dei sistemi bancari, attraverso i quali passa la gran parte dei movimenti valutari - si prestano facilmente al prelievo impositivo. Il sistema Target in Europa, o il CLSK bank, che si sta prospettando a livello internazionale, si presterebbero perfettamente ad essere utilizzati per il prelievo della Tobin tax.
È stato anche paventato che un'imposta come quella prospettata da Tobin sarebbe facilmente raggirata operando le transazioni valutarie nei cosi detti paradisi fiscali. Indubbiamente il problema si pone, ma va pure rilevato che i paradisi fiscali esistono già allo stato attuale e con essi già conviviamo. Non vi è dubbio, peraltro, che misure di coordinamento internazionale sarebbero indispensabili per l'approvazione della Tobin tax e, in ogni caso, non avrebbe molto senso introdurla in un solo paese. D'altra parte, per la sua operatività, non sarebbe neppure necessaria una sua applicazione in tutto il mondo. Si è già ricordato in precedenza che l'Unione europea costituirebbe un ambito ottimale per l'applicazione della Tobin tax che, peraltro, potrebbe prevedere anche incrementi di aliquota, laddove si ritenesse che la speculazione, in una dato circostanza, fosse più forte. L'Unione europea potrebbe applicare la Tobin tax in modo diversificato anche a seconda che le transazioni riguardino valute di paesi aderenti o no all'area di applicazione della tassa medesima. Quindi, l'area della Tobin tax potrebbe essere incentivata ad allargarsi.
Per evitare di cadere nella trappola delle difficoltà di coordinamento, l'introduzione della Tobin tax da parte di un paese potrebbe essere decisa subordinando la sua operatività a decisioni analoghe prese da un discreto numero di altri Stati.
Un altro elemento di critica mossa alla Tobin tax è collegato al mercato dei derivati nel quale si possono effettuare operazioni che possono influenzare i tassi di cambio senza però effettuare transazioni valutarie soggette alla Tobin tax. Tuttavia, pensare che i mercati dei derivati - nei quali, anziché acquistare direttamente delle valute si acquista il diritto a comprarle o a venderle in epoca successiva,
fissando però il prezzo nell'immediato (operazioni che possono influenzare i tassi di cambio senza mai acquistare valuta, e quindi senza mai incappare nella Tobin tax) - abbiano la stessa capacità di condizionamento dei tassi esercitato dalle transazioni valutarie vere e proprie è eccessivo. È come se, per usare termini gergali e coloriti, muovendo la coda si possa indurre il cane a scodinzolare; ancora, è come credere che una scommessa possa influenzare l'esito di una corsa. Pur non negando che, a differenza delle corse, le aspettative implicite in operazioni sui mercati dei derivati possono condizionare gli esiti dei mercati valutari, tuttavia è ragionevole pensare che siano più i secondi a condizionare le scelte che avvengono sui primi.
PRESIDENTE. Non sarebbe più semplice dire che anche i derivati sono soggetti ad una tassa?
FELICE ROBERTO PIZZUTI, Professore di politica economica presso l'Università La Sapienza di Roma. Stavo appunto per arrivare a questo. Possiamo temere il mercato dei derivati sinché questi saranno esclusi dall'ambito applicativo della Tobin tax, ma eliminando questa esclusione sarebbero comunque risolti tutti i problemi, posto che le considerazioni di cui sopra non siano comunque tali da impedire al mercato dei derivati di condizionare i tassi di cambio. Le problematiche applicative della Tobin tax ai mercati dei derivati sicuramente esistono, dovremo tenerne conto ma ciò detto queste non saranno dirimenti.
Per quanto riguarda gli usi dei proventi della Tobin tax ribadisco quanto è stato detto prima: sebbene questa comunque assicurerebbe degli introiti, essi non costituiscono il suo obiettivo. Stime - fatte necessariamente con largo beneficio di inventario, proprio in ragione dell'esistenza di un trade off tra l'efficacia della tassa e le sue entrate, fanno ritenere che i proventi potrebbero essere dell'ordine di 100, 200 miliardi di dollari annui. Solo per capire quali questioni potrebbero essere affrontate disponendo di una tale cifra può essere ricordato che secondo una stima dell'UNICEF con 80 miliardi di dollari si potrebbero risolvere i principali problemi di alimentazione, accesso all'acqua e salute delle popolazioni più povere del mondo, censite nella Conferenza di Monterrey nel marzo 2002.
Ripeto però che l'obiettivo principale della Tobin tax è ridurre l'instabilità dei mercati e restituire margini di manovra ai responsabili nazionali e sovranazionali della politica economica per favorire la crescita e lo sviluppo.
DOMENICO DA EMPOLI, Professore di scienza delle finanze presso le Università La Sapienza e Luiss di Roma. Ho preparato un breve appunto che intendo lasciare alle Commissioni, in modo da essere sintetico, sia per risparmiare il tempo di tutti, sia perché molto è stato già detto. Ho seguito un'impostazione in parte diversa rispetto a quella ascoltata finora; mi è sembrato, infatti, che il problema andasse inquadrato nell'ambito dell'attività parlamentare, e in questo senso ho tenuto presente, in particolare, il progetto di legge S. 6788 presentato nella scorsa legislatura, recante delega al Governo per l'istituzione di un'imposta sulle transazioni di natura speculativa da e per l'estero. Articolerò il mio intervento in due parti, partendo in primo luogo dalla Tobin tax per poi soffermarmi sull'atto presentato in sede parlamentare, che potrebbe costituire un punto di riferimento da cui muoversi. Mi è sembrato che questo progetto sia un esempio interessante di una tipologia di interventi la cui adozione potrebbe essere valutata dal Parlamento italiano. Peraltro, perché la Tobin tax funzioni essa richiederebbe un accordo internazionale dal momento che i suoi effetti sarebbero scarsi se venisse approvata da un solo Parlamento nazionale.
Per quanto riguarda detto problema, si tratta di colpire le transazioni finanziarie di natura meramente speculativa; si parla, quindi, di un'aliquota a carattere proporzionale, che nella proposta citata era dello 0,05 per cento del valore delle transazioni
effettuate. Naturalmente, il richiamo è alla Tobin tax, che tradurrei non come «tassa Tobin», ma come «imposta Tobin», in quanto il termine inglese per «tassa» è fee. Sotto il profilo generale, direi che la valutazione della Tobin tax è basata su ciò che si pensa del mercato finanziario internazionale. Se si ritiene che sia un bene che tale mercato operi, oppure no.
Naturalmente, la liberalizzazione dei movimenti di capitale è stato un evento molto importante, che, personalmente, vedo con molto piacere, in quanto ritengo che laddove il mercato dei capitali può operare a livello internazionale, l'efficienza dell'economia mondiale aumenta. I capitali, infatti, affluiranno dove sono più produttivi. Dunque, è un fatto che accetterei con molta tranquillità.
Mi colpisce la frase di Tobin - che è stata già citata dall'amico Pizzuti - il quale disse che - in qualche modo - tale imposta dovrebbe «gettare granelli di sabbia» nei meccanismi finanziari internazionali. A me sembra che la cosa sia abbastanza discutibile. Questa proposta, inoltre, è in assoluto contrasto con la convinzione, ormai ampiamente diffusa, dei benefici effetti della libertà di circolazione dei capitali. Circolando liberamente, infatti, i capitali affluiscono dove sono più produttivi. Quindi, l'efficienza dell'economia mondiale aumenta. Sarebbe come dire che poiché la circolazione automobilistica dà luogo ad ingorghi stradali, incicenti, eccetera, bisognerebbe aumentare le imposte sugli automobilisti che circolano di più, anche se lo fanno per motivi di lavoro, di salute, eccetera, e in assenza di servizi pubblici alternativi.
Una volta accettato tale principio, distinguere è estremamente delicato. Ci sono stime dell'OCSE - che mi sembra un organismo altamente qualificato - secondo le quali la massa delle transazioni finanziarie internazionali si sta riducendo negli ultimi anni - lo diceva anche Bellofiore - e ciò pare che sia dovuto all'uso degli strumenti elettronici, come Internet. In pochi anni, si è ridotta la massa delle transazioni finanziarie internazionali di circa il 20 per cento. Questo mi sembra un dato molto importante.
Inoltre, come è possibile distinguere tra le transazioni «sane» e quelle speculative? Il discorso è estremamente complesso. Bisogna andare a fare un'indagine, istituire un comitato di controllo, un organo che va verificare, e così via. Allora torniamo al controllo dei capitali. Mi pare che ciò non sia fattibile.
Questa è l'obiezione che, spesso, è stata fatta alla Tobin tax, in una mentalità che, invece, tutti noi accettiamo essere una visione di apertura degli scambi e dei mercati. Si può accettare, viceversa, l'ipotesi di chi vuole i controlli dei flussi finanziari. Si tratta di un discorso che non condivido, ma capisco che abbia una sua coerenza.
L'affermazione di volere la libera circolazione dei capitali, stabilendo chi debba circolare e chi no, - francamente - mi pare non molto coerente con il disegno generale di un sistema di mercato.
Anche il progetto di legge che ho citato mi pare presenti le lacune - altri, peraltro, li riterranno dei pregi - di questo sistema, perché non si comprende quali siano le transazioni di natura puramente speculativa: per esempio, la camera di commercio internazionale dice che l'elevato volume delle transazioni riflette il bisogno genuino di coprire i rischi finanziari distribuiti tra le diverse parti del processo di scambio. È molto ragionevole ed è stato - mi pare - anche accennato da qualcuno dei colleghi, in precedenza.
Il disegno di legge che ho preso come esempio di tipologia nazionale risente sempre dello stesso limite. Anche la distinzione tra i paesi che hanno regimi fiscali privilegiati, i cosiddetti paradisi fiscali, e quelli che non li hanno è molto complessa, perché si tratta di criteri di differenziazione di tipo empirico, che possono variare. Un paese - ad esempio - può non avere un'imposta sul reddito e, di conseguenza, non tassare né i suoi cittadini né gli stranieri. Si tratta di un paradiso fiscale? Non lo è. Se vi è una libertà di legislazione tributaria, connessa con il
principio della sovranità di ogni Stato, non vedo per quale motivo un paese del genere debba essere considerato un paradiso fiscale. Luigi Einaudi era contro l'imposta sul reddito ed a favore dell'imposta sui consumi. Il suo sistema sarebbe stato classificato come di paradiso fiscale? Mi sembra che non sia ragionevole sostenerlo. Il problema rappresentato da uno Stato che introduce un'imposta del genere è che tale paese verrebbe ad essere penalizzato dall'introduzione - soltanto nel suo sistema - di detta imposta. Evidentemente, bisognerebbe cercare - prima di considerare l'adozione di una legislazione del genere - di costruire una serie di collegamenti con gli altri sistemi - quanto meno a livello europeo -, cosa che mi sembra improbabile che si possa ottenere.
Anche sotto il profilo della gestione dal punto di vista amministrativo, in assenza di un governo mondiale, infatti, l'ipotesi più ricorrente è che il gettito della «Tobin Tax» affluisca ad una organizzazione internazionale di tipo economico, come la Banca Mondiale o magari al Fondo Monetario Internazionale (l'organizzazione che Tobin avrebbe preferito a questo fine). Sono note, però, le critiche di cui sono oggetto queste organizzazioni, spesso proprio da parte dei sostenitori della «Tobin Tax».
FRANCO OSCULATI, Professore di scienza delle finanze presso l'Università di Pavia. Penso che un'imposta tipo la Tobin tax debba essere vista con interesse, in quanto essa ha potenzialmente una base imponibile molto ampia. Ciò consente di applicare una aliquota molto contenuta e di ottenere un gettito assai rilevante; inoltre, nel caso della Tobin tax e del mercato cui essa si riferisce - come è stato spiegato inizialmente dal collega Bellofiore - vi è una discriminazione automatica fra arbitraggio e speculazione. Tale imposta, se funzionasse, se venisse messa in atto, potrebbe colpire - in qualche misura - delle «esternalità» che impediscono al mercato di funzionare al meglio. Perciò, vedrei aspetti positivi in un'ipotesi di tal genere.
Guarderei alla Tobin tax come ad una misura preventiva per ridurre la speculazione, non la vedrei come una alternativa ad altre misure di controllo dei mercati dei capitali e, tuttavia, dobbiamo considerarla come una misura non sufficiente, nel caso di crisi acute. Bisognerebbe anche pensare che le crisi internazionali, quelle dei paesi sottosviluppati, che si sono verificate negli ultimi 15 - 20 anni, hanno enormemente inceppato il percorso di sviluppo di tali paesi. Se si riuscisse ad avere un trasferimento significativo verso tali paesi, si avrebbe una sorta di compensazione, prelevando risorse a danno dei principali responsabili, cioè degli speculatori.
Detto ciò, passando alla sollecitazione del presidente sul che fare del gettito, vorrei ricordare che il rapporto Pearson, che - se non ricordo male - risale al 1969, indicava una percentuale di spesa pubblica o, comunque, un flusso di trasferimenti verso i paesi in via di sviluppo, come obiettivo pari, allo 0,7 per cento del prodotto interno lordo (dei paesi sviluppati donatori). Le informazioni di cui dispongo probabilmente non sono di una precisione assoluta, ma credo che - attualmente - l'Unione europea si attesti attorno allo 0,35 per cento, gli Stati Uniti attorno allo 0,13 per cento, l'Italia attorno allo 0,20 per cento. Mi sembra che la media dei paesi OECD, sia attorno allo 0,22 per cento. Ciò mi induce a richiamare la vostra attenzione su un aspetto della delega fiscale, che è stata presentata mesi fa, ed all'interno della quale vi è l'ipotesi de-tax. Penso che lo si debba fare perché, nella logica della riforma fiscale, esiste una potenziale insidia rispetto alle agevolazioni fiscali agli aiuti privati allo sviluppo.
Infatti, se la riforma fiscale dovesse essere applicata, così come è stata presentata, verrebbero ridotte le aliquote delle imposte dirette (sia l'IRPEF, in futuro IRE, sia l'IRPEG). Se si applicano aliquote più basse, normalmente le deduzioni sono meno convenienti e può darsi che le deduzioni attualmente esistenti, relative a trasferimenti privati verso gli aiuti al sottosviluppo,
subiscano una riduzione d'incentivo. In questo senso, mi sembra che debba essere presa in considerazione l'ipotesi cosiddetta di de-tax, la quale, a parer mio, aggiunge l'incentivo sulle imposte indirette agli incentivi su quelle dirette che già esistono. La de-tax è stata presentata come un'alternativa alla Tobin tax: ma mentre quest'ultima procura un gettito aggiuntivo, con la prima si rinuncia ad una parte di gettito e si distrae il gettito già in atto verso una specifica destinazione; essa è tanto più efficace quanto più è trasparente. La Tobin tax implica un ampio accordo internazionale, mentre la de-tax può essere introdotta in un solo paese; tuttavia, solo una concertazione tra più paesi, in primo luogo a livello europeo, potrebbe renderla quantitativamente rilevante. Le due proposte non si differenziano molto sotto l'aspetto della necessità di un accordo internazionale, ma non sarei pessimista riguardo alla possibilità di giungere ad un accordo internazionale, che certo non deve necessariamente coinvolgere tutti i paesi aderenti all'ONU. Nella storia, infatti, ci sono stati momenti nei quali un certo concerto internazionale si è verificato: si può ricordare la conferenza di Bretton Woods, oppure quanto è stato fatto dopo l'11 settembre per colpire i paradisi fiscali. Recentemente il professor Vito Tanzi ha pubblicato un libro nel quale egli spiega la necessità, o quanto meno l'opportunità, di ottenere qualcosa di simile ad una World tax organization: tra tanti organismi internazionali, manca proprio quello che riguarda le imposte, su questo punto bisognerebbe avviare una riflessione seria.
Oltre alla Tobin tax, sono state proposte altre imposte a sostegno dei paesi sottosviluppati: ad esempio la carbon tax, oppure quella sulla fabbricazione delle armi o sul consumo del carburante degli aerei. Tutte presentano l'inconveniente di colpire in misura differenziata i vari paesi in via di sviluppo e di produrre nei paesi sviluppati incentivi alla delocalizzazione dell'attività produttiva. Un tributo nazionale come la de-tax condivide il primo punto debole, ma non il secondo. Essa cioè non necessariamente dovrebbe indurre un fenomeno consistente di delocalizzazione. L'ambito di applicazione della de-tax, cioè lo scambio domestico di beni e servizi, è sicuramente meno volatile dei mercati finanziari e meno trasferibile verso i paesi non aderenti al cartello fiscale dell'imponibile delle altre imposte menzionate. Tuttavia, gli esiti di un'imposta come lo detax sono simili a quelli del pagamento degli oneri del debito estero: si tratta di risorse che escono dall'ambito nazionale e, dunque, un'imposta di questo genere riduce in qualche misura la domanda interna, la competitività del paese e, quindi, implica un accordo internazionale. Un atto unilaterale sarebbe molto critico e bisognerebbe valutare con grande attenzione un'ipotesi di questo tipo.
Posso fare un riferimento riguardo al possibile ordine di grandezza di un congegno fiscale siffatto in Italia, anche se bisognerebbe compiere studi più approfonditi: se applicato ad un'area di transazioni di 100 miliardi, rispetto ad una «spesa interna» italiana attorno ai 740 miliardi, si genererebbe un flusso di aiuti verso il terzo mondo di circa un miliardo. Non sarebbe un'ipotesi insignificante - ricordo che per giungere allo 0,7 per mille dovremmo attestarci attorno agli 8-9 miliardi - tuttavia non decisiva. Il gettito previsto dalla Tobin tax, in base ad un lavoro ripreso anche da un testo del Parlamento europeo, ammonta a circa 50 miliardi: più o meno l'ordine di grandezza dell'aiuto globale annuo verso i paesi sottosviluppati. Un importo, dunque, molto consistente, ottenuto attraverso una stima che tiene conto di quel trade off citato in precedenza: molta base imponibile scompare per sottrarsi all'applicazione di questa imposta.
Volevo ricordare che nella presentazione della de-tax si parla di sconto: credo che questo termine non vada considerato in senso proprio. Immagino che si debba pensare ad un meccanismo che, in qualche modo, istituzionalizzi il concetto e la pratica del commercio equo e solidale. Bisogna pensare ad un prezzo che rimanga più o meno simile a quello precedente all'applicazione
dell'imposta: una lira su 100 viene investita negli aiuti al sottosviluppo, di cui una parte viene garantita dal venditore ed un'altra si ottiene tramite agevolazione fiscale. Se l'aliquota ordinaria dell'IVA ammonta al 20 per cento, possiamo pensare grosso modo che 80 centesimi vengano resi possibili dal venditore e 20 dal fisco sul lato delle imposte indirette.
Ho preparato un appunto insieme ad un mio collega di Pavia, che lascio a disposizione del presidente e dei membri delle Commissioni.
PRESIDENTE. Ringrazio i professori che ci hanno fornito un panorama molto ricco ed esauriente dell'argomento di cui stiamo discutendo. Do la parola ai colleghi che volessero intervenire per porre domande e formulare osservazioni.
ALFIERO GRANDI. Sottolineo preliminarmente come è possibile trarre spunto dall'audizione odierna per renderci conto dell'importanza che i nostri interlocutori siano posti nelle condizioni di disporre di materiale aggiornato. Ho infatti provato un certo imbarazzo quando il professor Da Empoli ha dichiarato di aver trovato in Internet una proposta risalente alla scorsa legislatura; mi dispiace per l'inconveniente, dovuto al fatto che quella odierna è la prima audizione e non avevamo pensato a questo aspetto.
PRESIDENTE. D'ora in avanti invieremo ai successivi auditi anche i resoconti stenografici delle precedenti audizioni e, quindi, mano a mano il nostro lavoro diventerà più efficiente.
ALFIERO GRANDI. C'è stata una fase nella quale - tralasciamo per un attimo la natura dei capitali su cui effettuare i controlli -, una sorta di opinione prevalente ha ritenuto che, una volta aperto il mercato dei capitali, non solo non fosse giusto ma nemmeno possibile affrontare il tema dei controlli . Dopo questa fase, oggi è del tutto chiaro che i controlli si possono fare: si tratta di vedere se si vuole, se è utile e dopodiché si trovano anche le modalità.
Ad esempio, gli Stati Uniti d'America - che hanno sperimentato una politica economica di liberalizzazione pressoché totale - dopo l'11 settembre hanno completamente capovolto la loro impostazione. In taluni ambiti si effettuano rigidi controlli mentre su altri si ritiene che non possano esserci: in ogni caso, nel mondo qualcosa è cambiato in modo molto rilevante.
Si è poi abbastanza concordi - e ciò mi ha molto colpito, anche per opinioni che partono da esperienze e punti di vista abbastanza diversi tra loro - nel sottolineare il valore del controllo e del governo dei processi riguardanti il ruolo dell'autorità monetaria e di politica economica. In particolare, dall'istituzione della Banca centrale europea non facciamo più coincidere il controllo monetario con le politiche economiche perché si denota, fisicamente, l'assenza dell'interlocutore soggetto di politica economica, il che non esisteva negli Stati Uniti e negli Stati nazionali: in Europa il problema non è ancora risolto e, quindi, si evidenzia in tutta la sua forza. Si tratta di un possibile strumento - non risolutivo perché non possiamo fare della Tobin tax la soluzione dei problemi e, per di più, da alcuni, come il sottoscritto, sostanzialmente condiviso ma da altri contrastato -, di controllo di processi esistenti e di intervento di politica economica. Il professor Bellofiore ha ricordato una questione rilevante, cioè come nello scenario delle crisi - che costituiscono uno dei motori fondamentali dell'attualità del problema - si siano verificate condizioni che non hanno permesso una reazione; si sono dunque subiti soltanto gli effetti di grandi speculazioni (penso all'Indonesia e ad altri paesi, che ancora oggi non sono tornati a livelli di prodotto interno lordo, di condizioni di vita e di occupazione precedenti).
Esistono paesi che non hanno fatto miracoli ma hanno retto meglio, tra l'altro usando strumenti molto grezzi che, per certi versi, fanno venire qualche brivido nella schiena. Ad esempio, lo strumento cui è ricorso il Cile non è stato particolarmente
flessibile ma, in qualche modo, ha impedito che l'onda d'urto travolgesse tutti. È stato fatto anche l'esempio di altri paesi dell'estremo oriente che, attraverso uno strumento di controllo, hanno garantito la possibilità di evitare i colpi peggiori. Tutto ciò conferma che una linea di pura difesa dell'impossibilità di intervento rischia, in realtà, di non evitare che quello sia l'unico modo per affrontare le questioni.
A mio parere, oggi la discussione sulla Tobin tax si attualizza in termini francamente imprevedibili - era imprevedibile che in così poco tempo ci fosse un rimbalzo del rapporto euro/dollaro in termini così diversi da prima -, che creano sul mercato dell'euro una condizione di possibile intervento sul mercato dei capitali prima impossibile. Infatti, prima il flusso dei capitali nell'Atlantico avveniva in senso contrario. Non so se le recenti affermazioni di Bush cambieranno completamente la «corrente del golfo» ma ritengo sia abbastanza difficile perché esistono processi che vanno oltre le semplici dichiarazioni di un'autorità pure importante come il Presidente degli Stati Uniti. Quindi, sussistono una serie di questioni che meritano di essere affrontate per evitare di rimanere tra il tutto e il nulla, cioè tra chi pensa che non si possa fare nulla e chi pensa che il controllo si possa fare solo all'ancienne, con tutti i rischi, soprattutto in una situazione come quella italiana, nell'area euro ed europea. I paesi dell'area euro sono oggi interessati da questi rilevanti spostamenti.
Non dimentichiamo quello che è successo in altre aree molto più piccole e più esposte, che però hanno avuto enormi benefici quando i capitali andavano in una certa direzione e, quando tale flusso è cambiato, sono entrati immediatamente in difficoltà. Oggi corriamo gli stessi rischi, anche se la piattaforma dell'euro ha basi più consistenti. Per questa ragione, pur tenendo conto che non esiste l'ipotesi di un'introduzione ipso facto della Tobin tax da parte dell'Italia, non possiamo nemmeno stare troppo tranquilli e non porci il problema perché sarebbe un errore.
Se la nostra discussione trovasse una soluzione parlamentare, come personalmente auspico, alla fine potrebbe costituire il motore di un dibattito europeo. In Europa dovrebbe esserci qualcosa simile ad una piattaforma di cooperazione rafforzata - con almeno i più importanti paesi dell'euro ma, se fossero tutti, sarebbe ancora meglio -, per avviare una discussione ed una riflessione sugli interrogativi che abbiamo di fronte. Sarebbe molto interessante sapere da voi come poter avviare in chiave mondiale una riflessione di questo tipo perché, a volte, rinunciamo a tutto ciò prima ancora di aver constatato che è impossibile.
Il WTO sta discutendo di questioni che fanno riflettere e che pongono interrogativi perfino sull'utilità, sulla validità e sulla pertinenza del campo di intervento, poi però non si riesce a trovare una sede internazionale in cui affrontare il problema.
Su questo punto ci sono state molte proposte: dalla riforma del Fondo monetario a quella della Banca mondiale e del WTO, all'ONU economica e sociale. Non so quale possa essere la sede: ritengo che essa sia facilmente individuabile, sarebbe necessaria una volontà politica in tale direzione.
A mio avviso in questo momento il WTO dovrebbe occuparsi maggiormente del mercato dei capitali, del controllo e dei disincentivi e degli incentivi che possono essere introdotti, piuttosto che della gestione della sanità o di altri servizi pubblici essenziali dei singoli paesi: Stiglits ha riportato recentemente i disastri causati da alcune forzature nelle aperture dei mercati di economie in via di sviluppo, quando si è imposto a tali mercati di aprire alle banche, che sono diventate americane o inglesi, a causa dell'impossibilità di resistere nelle condizioni locali. Sarebbe però interessante avere l'idea di quale possa essere la sede in cui porre da parte europea il problema dell'introduzione di forme di regolazione.
Un'ultima considerazione sulla de-tax, argomento che il professor Osculati ha ripreso molto ampiamente. Ritengo che
non vi sia una contraddizione necessaria tra le due cose: nella relazione alla riforma Tremonti, per ragioni «tattiche», venne ipotizzata una contrapposizione, ma personalmente ho sempre resistito all'idea per cui se c'è una non ci può essere l'altra.
Tuttavia, il limite della de-tax è esattamente quello che è stato detto: per introdurre la de-tax ci vogliono i soldi. È banale, ma è così, tanto è vero che dopo essere stata prevista dalla riforma, non è stata introdotta né nel documento di programmazione economico-finanziaria né nella legge finanziaria. Ben venga dunque l'idea di utilizzare una parte del prodotto interno lordo per un progetto di cooperazione e di aiuto ai paesi in via di sviluppo, ma la verità è che si tratta di una discussione, in larga misura, teorica. Essa è importante dal punto di vista accademico, ma dal punto di vista pratico la questione fondamentale è quella delle risorse da impiegare.
PRESIDENTE. Ricordo che l'onorevole Grandi è il relatore per la VI Commissione sul complesso dei provvedimenti in esame, mentre il relatore per la III Commissione è l'onorevole Landi di Chiavenna, al quale do la parola.
GIAN PAOLO LANDI di CHIAVENNA. Intervengo molto brevemente, anche perché - lo premetto - non sono un economista e non ho una conoscenza tecnica dell'argomento: faccio questa precisazione perché quello che sto per dire potrebbe forse far sorridere gli economisti.
Dal momento che, come ha ricordato il Presidente, sono il relatore per la Commissione affari esteri, cercherò di portare il ragionamento sulle finalità della Tobin tax che ho colto nei vari interventi, in particolare in quelli del professor Brancaccio, del professor Bellofiore e del professor Pizzuti.
Al di là delle questioni che sono state sottolineate - l'opportunità di non colpire le transazioni commerciali ma solo quelle prettamente e squisitamente speculative, la riduzione della volatilità dei tassi di cambio, l'ampliamento dell'occupazione e il rilancio dell'economia - gli interventi citati mi pare convergano sull'utilizzazione del gettito dell'ipotetica Tobin tax verso un impiego virtuoso di natura solidaristica, ovvero il sostegno alle economie deboli, ai paesi in via di sviluppo, ai paesi poveri e quindi l'incremento degli interventi di cooperazione allo sviluppo in senso sia bilaterale, sia multilaterale.
Nel caso specifico, si è fatto maggiormente riferimento agli interventi multilaterali: il professor Brancaccio ha citato le sue dirette esperienze; abbiamo visioni diverse, provengo dalla scuola liberale e milito in un partito della maggioranza, ritengo importante il dibattito che è stato avviato a Porto Alegre, a Doha e a Johannesburg e che proseguirà a Cancun in settembre, ma la mia visione è diversa, e tale legittima diversità di valutazione è reciproca.
Mi è parso di capire dagli interventi - con la sola eccezione del professor Da Empoli, del quale condivido le perplessità - che il senso e la ratio di un'ipotetica applicazione della Tobin tax sia quello di moralizzare il sistema, di ridurre la volatilità dei cambi e via dicendo.
In questi giorni stiamo assistendo a una forte volatilità dei cambi, soprattutto del dollaro rispetto all'euro; è di oggi la riduzione del tasso di interesse dello 0,50 per cento da parte della Banca centrale europea; è ipotizzabile nei prossimi giorni una riduzione anche da parte della Federal reserve, forse dello 0,25 per cento, per stimolare il rilancio dell'economia e quindi anche dei consumi.
Non credo che tale notevole volatilità del dollaro nei confronti dell'euro sia imputabile solo alle speculazioni di carattere finanziario: essa è legata anche a un intervento politico da parte dell'amministrazione degli Stati Uniti volto a stimolare le esportazioni riducendo il potere contrattuale della moneta rispetto all'euro. La svalutazione ha costituito anche per l'Italia, prima di accedere alla moneta unica, un mezzo che ha consentito, anche se con un prezzo in termini di stabilità, di aiutare l'esportazione, che oggi è favorita dall'euro debole.
Mi chiedo se i movimenti di capitale e le operazioni sulla volatilità dei cambi degli ultimi anni siano legati non tanto, o forse per nulla, alle cosiddette transazioni di carattere speculativo-finanziario, bensì alla congiuntura internazionale, alla crisi mondiale, alla necessità di rilanciare l'economia, per cui gli Stati Uniti operano in un senso e l'Unione europea ha operato in un altro senso, quando ne aveva la necessità. Ritengo peraltro sia condivisibile l'esigenza di raggiungere una maggiore convergenza e una maggiore armonizzazione dei cambi.
Mi riallaccio anche a quanto detto dall'onorevole Grandi sugli organismi internazionali: formuliamo un'ipotesi, dal momento che stiamo parlando di mere ipotesi. D'altra parte, quando sono stati sottolineati gli aspetti positivi piuttosto che quelli negativi dell'applicazione della Tobin tax, si è fatto riferimento a mere ipotesi, perché, non essendo stata tale tassa mai applicata, sia chi è favorevole sia chi è contrario esprime una posizione che è puramente teorica e dottrinaria, in quanto non c'è alcun tipo di esperienza che possa indicare gli aspetti positivi e gli aspetti negativi. Personalmente sono preoccupato del fatto che un'ipotetica applicazione della Tobin tax - me ne ha dato spunto il professor Da Empoli - possa irrigidire ulteriormente il sistema e penalizzare la libera circolazione dei capitali e quindi ridurre ancora di più la capacità di crescita.
Ipotizzando che venga applicata la Tobin tax, avremmo - stando a quanto diceva il professore Osculati - 50 miliardi di dollari, su base annua, da destinare allo sviluppo e alla cooperazione. Ma chi è il soggetto che dovrebbe operare, gestire e amministrare questa imponente massa di denaro? Siete e siamo consapevoli dei limiti della cooperazione allo sviluppo ad oggi, per quanto riguarda in particolare la capacità di incidenza della cooperazione multilaterale (per non parlare di quella bilaterale, la cui gestione da parte dell'Italia rappresenta, purtroppo, un esempio molto negativo, soprattutto nella cosiddetta prima Repubblica)?
Per poter avere un quadro completo e delineare un percorso virtuoso per il Parlamento, sarebbe importante capire, di fronte ad un'eventuale ipotesi di applicazione della Tobin tax, quali potrebbero essere gli scenari pratici: chi amministrerebbe questa massa di denaro e quali potrebbero essere gli sbocchi finali.
Siamo veramente convinti che una quantità di denaro di questo genere possa affievolire la differenza tra paesi ricchi e quelli poveri, che vivono una situazione così drammatica? Qual è il percorso di democratizzazione di questi paesi?
Proprio oggi, ricevendo studenti dell'Università La Sapienza di Roma, che si stanno laureando con una specializzazione in cooperazione e sviluppo, ho sottolineato la preoccupazione di una scarsa democratizzazione di molti di quei paesi poveri o in via di sviluppo, che sono beneficiari di grandi risorse di denaro. Dobbiamo riflettere su questo.
Sarebbe auspicabile creare un percorso più solidaristico a livello mondiale per ridurre le differenze tra nord e sud, e adesso anche tra est e ovest, ma dobbiamo anche avere il coraggio di dire che è indispensabile intervenire senza sperperare denaro, come spesso è avvenuto, e di parlare di organismi internazionali che siano metabolizzati, condivisi, accettati (ricordo il caso di Porto Alegre).
Non ho sentito parole di sostegno verso il Fondo monetario internazionale, verso la Banca mondiale, verso il BIC, anzi mi pare vi sia stato un pregiudiziale attacco e un carico ideologico nei confronti di questi organismi internazionali, legittimi dal vostro punto di vista, ma poco credibili dal mio.
La Tobin tax è in linea teorica una cosa bella, ma bisogna però capirne gli effetti, analizzarne la praticabilità, se non a livello nazionale, a livello europeo o addirittura a livello globale (salvo poi gli aspetti dei paradisi fiscali).
È molto importante il riferimento fatto dal professor Da Empoli all'autonomia della legislazione impositiva e tributaria. L'ipotesi di introduzione di tale tassa deve quindi tener conto di tutti questi aspetti:
di chi gestirà e in che modo e di quale sarà la capacità di assorbimento da parte dei paesi in via di sviluppo. Esistono le condizioni perché, una volta che si dovesse rendere disponibile questa grossa massa di denaro, vi sia la possibilità di assorbimento da parte del terzo mondo? Esistono condizioni di democrazia, o alimenteremmo addirittura la verticalizzazione, ossia il processo piramidale che è tutto fuorché un virtuoso percorso di democratizzazione di questi paesi?
PRESIDENTE. Naturalmente questa è una domanda che investe la scienza politica e non quella dei movimenti di capitale o della politica economica.
GIOVANNI BIANCHI. Chiedo scusa per la brevità del mio intervento ma, essendo vicepresidente della III Commissione, dovrò essere presente ad un incontro John Garang, uno dei leader del movimento per la libertà del Sudan meridionale.
Considero la Tobin tax una sorta di sonda che si muove in questo universo finanziario e che ha chiuso la sua belle epoque.
Mi hanno confortato le osservazioni del professore Osculati, si tratta di una piccola aliquota che non è contro il mercato, ma è per una sua regolazione. Soros nel 1998 ha dichiarato di essersi astenuto dall'intervenire sulla crisi francese per non far saltare il sistema finanziario europeo.
Credo si ponga un problema di regolazione - non vorrei essere ad libitum Soros - e sono d'accordo, pur partendo da una diversa ottica, con le osservazioni fatte dal collega Landi sulla collocazione e l'orientamento. Mi ha confortato l'ambito europeo (esclusa la Gran Bretagna) e ritengo ci sia un problema di recupero della politica rispetto ad un mercato, che ha troppo funzionato attorno al pilota automatico della finanza, con tutte le sue distorsioni.
Resistiamo dunque o cerchiamo di introdurre correttivi a partire dall'autorità politica degli Stati? Come ciò interagisce con l'esistenza di soggetti terzi, come il WTO, che non è, peraltro, solo un soggetto terzo ma segue anche una logica che non è quella politica, dal momento che pensa il mondo come abitato da consumatori, e non da cittadini, come invece fa la politica, anche di destra. Solo gli Stati, dunque, possono introdurre elementi di regolazione.
Ho l'impressione che, se difendiamo gli Stati uno ad uno, faremo la stessa fine dei fordisti rispetto alle grandi fabbriche: le perderemo tutte. Questa autorità di regolazione, dove la politica regola il mercato per la sua fisiologia e non solo per un'istanza morale, è da addebitare soltanto gli Stati?
GABRIELLA PISTONE. La mia posizione è favorevole all'introduzione della Tobin tax - siamo peraltro firmatari di una proposta di legge in materia e appoggiamo anche quella di iniziativa popolare giunta in Parlamento - ma rilevo che il problema è duplice: di natura economica e di volontà politica. Una volontà politica, peraltro, che deve andare ben oltre i confini nazionali.. È infatti impossibile dare credito ad un'inversione di tendenza o, comunque, dare corpo alla «centralità» della persona (o al ritorno di questa centralità), della polis e della politica rispetto alla pura finanza se, poi, nello stesso tempo, non si tirano le dovute conseguenze da simili affermazioni.
So perfettamente che tutto questo non è realizzabile nell'arco di un mese o di un semestre ma sono altrettanto convinta del fatto che o siamo tutti d'accordo nel gettare veramente della sabbia negli ingranaggi della speculazione (non intendo farlo sui binari di una ferrovia per far deragliare i treni ma nell'ambito di situazioni che producono danni e non vantaggi) oppure difficilmente la situazione potrà cambiare.
Vengo da un incontro con una delegazione di paesi africani del Corno d'Africa, i quali hanno veramente seri problemi di povertà e, probabilmente, sono essi stessi soggetti di transazioni e speculazioni finanziarie e ribadisco l'importanza di gettare della sabbia, per esempio, nell'ingranaggio che muove i traffici di droga (anzi,
per la verità servirebbe anche qualcosa di più consistente come magari dei sassi!).
Mi sembra molto fondata la difesa dell'arbitraggio da un lato e la battaglia contro la speculazione dall'altro. Si tratta, infatti, di due situazioni completamente diverse, una da difendere, l'altra da ostacolare.
Tuttavia, se non siamo d'accordo sul fatto che la riduzione della speculazione ci deve unire (possono esservi poi vari mezzi, metodi e tempi per questo), francamente, stiamo trascurando un punto politico di fondo che dovrebbe invece accomunare le visioni dei vari paesi europei, a cominciare dall'Unione europea (ed eventualmente allargarsi ad altri).
Ritengo che si debba sviluppare un'economia virtuosa e non penso che sia necessario smettere di esportare i capitali o annullare movimenti tra gli stessi, tutt'altro, il problema è se questi movimenti avvengono in maniera virtuosa oppure no! Sono stati manifestati dei dubbi sulla possibilità di definire e distinguere una speculazione da un'operazione che speculativa invece non è.
Tuttavia, ritengo che se, per esempio, nell'arco di mezza ora, avvengono 150 operazioni, probabilmente, qualche intento speculativo deve muoverle! Magari, posso anche sbagliarmi visto che non sono un'economista ma ritengo che un occhio di attenzione verso operazioni di questo tipo dovremmo averlo.
DOMENICO DA EMPOLI, Professore di scienza delle finanze presso le Università La Sapienza e Luiss Roma. Se fosse così facile individuare le operazioni speculative, tutto sarebbe più semplice.
GABRIELLA PISTONE. Vorrei approfondire questo punto perché mi sembra una questione altamente problematica. Sostanzialmente, la Tobin tax non viene istituita per imporre una tassa in più: non si tratta di questo! Essa è una tassa sulle speculazioni e, quindi, ricade in pieno nell'argomento di cui discutiamo. Se però si obietta che è difficile individuare tali speculazioni, abbiamo finito di discutere! Si tratta di un punto dirimente. Domando, allora, agli illustri economisti che mi stanno di fronte come si fa a capire se vi sia o meno speculazione.
Concordo, comunque, sul fatto che, al di là di cosa si intenda e si individui come speculativo, dal punto di vista della scelta e dell'opportunità, mai come in questo momento questo tipo di tassa - o di imposta - diviene così attuale. Anzi, ancora di più dopo l'11 settembre, la ritengo importante e valida.
Pertanto, mi auguro che la messa in opera di tale tassa possa realizzarsi anche un po' prima di cinquant'anni perché se l'importanza di questa non riuscisse ad essere percepita, in tutto il suo peso, da parte dei vari Governi internazionali, ritengo che si commetterebbe un gravissimo errore di cui potremmo pentirci tutti molto presto.
PRESIDENTE. Vorrei osservare che la distinzione da farsi è tra le transazioni che hanno a che fare con gli scambi di natura reale (di merci e di servizi) e quelle di ordine finanziario, le quali comprendono sia transazioni di rilievo speculativo in senso stretto, sia arbitraggi, sia tutto ciò che ha a che fare con i movimenti di capitale.
Quindi, non ritengo che sia difficile distinguere in tal senso (semmai, potrebbe esservi qualche difficoltà nel mettere in pratica tale distinzione). Tuttavia, la mia domanda è molto più semplice: vi è una specifica ragione economica per la quale collegare il gettito - o l'introduzione - della Tobin tax al finanziamento della cooperazione allo sviluppo?
In altre parole, esiste una specifica ragione di carattere economico che suggerisce di prelevare quella cifra mancante che serve per arrivare allo 0,7 per cento (se a tale cifra si deve arrivare) attraverso una tassa del tipo di quella Tobin piuttosto che attraverso un'altra?
RICCARDO BELLOFIORE, Professore di economia monetaria presso la facoltà di economia dell'Università di Bergamo. Vorrei rispondere in modo rapido ad una
serie di questioni che sono state sollevate. Innanzitutto, ritengo che la liberalizzazione dei movimenti di capitale sia stata introdotta in forza di un processo politico e, quindi, non vedo perché, attraverso un diverso processo politico, non si possano introdurre limiti desiderabili alla mobilità dei capitali.
In effetti, l'esperienza recente ha dimostrato che questo è possibile: sì può fare (come è stato per l'America, dopo l'11 settembre). Vi è un altro esempio di cose ritenute superate che ritornano. Si è detto, da qualche tempo, un po' da tutti, che lo Stato, le politiche statuali, le politiche keynesiane, le politiche in disavanzo appartenevano ormai al passato mentre invece esse sono state nuovamente introdotte in risposta alla crisi proprio negli Stati Uniti dal Governo Bush.
Ciò dimostra anche un altro punto che avevo cercato di sostenere nel corso del mio primo intervento e cioè che questi interventi sono, da un certo punto di vista, ideologicamente neutri.
Per esempio, per mio conto, non sono un estimatore del modo con cui Bush pratica la riduzione delle imposte alle fasce abbienti o aumenta la spesa militare, ma ciò dimostra comunque che politiche attive della spesa pubblica, e della spesa in disavanzo, si possono fare, così come si possono controllare i capitali e si possono ridare, come hanno accennato i professori Brancaccio e Pizzuti, margini di manovra alla politica macro economica per il pieno impiego, in particolare monetaria ed in particolare isolando relativamente il tasso di interesse.
RICCARDO BELLOFIORE, Professore di economia monetaria presso la facoltà di economia dell'Università di Bergamo. Sono anche d'accordo di non mitizzare, come suggerito dall'onorevole Grandi, la tassa Tobin ma vorrei insistere maggiormente sul fatto che la tassa Tobin a livello europeo è praticabile e urgente: la si può e la si deve introdurre ora. Questo però non significa, a mio avviso, limitarsi a presentarla come un'idea dignitosa che pone, tra le tante, una esigenza di controllo dei movimenti di capitale. Non vedo insomma perché il Parlamento italiano non possa approvare una legge, così come fatto dai Parlamenti francese e finlandese, con cui si introduce la tassa Tobin a condizione che gli altri paesi dell'area dell'euro o, se lo si deciderà, dell'Unione economica europea, aderiscano.
Deve essere chiaro che l'instabilità dei tassi di cambio dell'attuale situazione internazionale (legata alla globalizzazione finanziaria), gli alti e instabili tassi di interesse, l'instabilità della crescita del reddito nei paesi della periferia, producono costi e diseguaglianza. Con il rischio che la crisi poi esploda anche da noi. E anche se si riuscisse ad isolare tali costi, come sinora si è riuscito ad isolarli nell'area della periferia, essi ricadono alla fine, come ho detto, in una forma o nell'altra anche sull'area del centro. Quindi iniziare ad introdurre alla svelta la tassa Tobin, non lasciandola solo nel mondo delle idee, vorrebbe dire ispirarsi ad un sano egoismo.
Questo è tanto più vero quanto più la tassa Tobin è introducibile a geometria variabile, e il fatto che questa non sia la soluzione di tutti i mali va considerato congiuntamente al fatto che tale tassa è complementare ad altre misure che quegli altri mali possono aiutare a limitare. È quindi possibile introdurre la Tobin tax senza pensare che essa sia risolutiva di tutti i problemi ma avendo presente che rappresenta comunque una soluzione nella giusta direzione ed ha una efficacia limitata. Il fatto che sia limitata non vuol dire che non sia efficace.
Sono pienamente d'accordo poi con quanto affermato dall'onorevole Grandi sulla necessità di ragionare su scala internazionale, anche al di fuori dell'area dell'euro. Ragionare cioè, senza arrivare alla dimensione globale, su una scala non solo dell'area dell'euro così com'è attualmente ma tenendo conto del fatto che un eventuale
zona monetaria europea protetta, nell'ambito dell'area dell'euro, che introduca un meccanismo come la tassa Tobin, può benissimo avere, proprio perché si tratta di uno strumento flessibile (come ricordato dal professore Pizzuti) rapporti privilegiati con le aree economiche con cui l'area dell'euro più facilmente commercia e quindi ricorrere ad aliquote differenti.
Credo che esista un movimento su scala planetaria teso verso aree monetarie protette, o comunque zone monetarie parzialmente isolate; in questo momento esiste certo una spinta più forte da parte degli Stati Uniti verso l'imposizione di un sistema unico ma in America latina, nell'area dell'est asiatico, eccetera, esiste una controspinta a favore dell'instaurazione di aree monetarie protette. Personalmente credo che soltanto attraverso lo sviluppo di queste forme di segmentazione finanziaria e con l'introduzione di strumenti come la tassa Tobin, si possa far sì che il discorso, di cui tutti noi ci riempiamo la bocca, sul coordinamento delle politiche economiche possa anch'esso essere trasferito dal livello degli ideali a quello delle soluzioni pratiche.
Nel corso delle osservazioni svolte dall'onorevole Landi di Chiavenna egli ha sostenuto che la sua è una impostazione liberale; personalmente la definirei piuttosto una posizione liberista: le impostazioni di Tobin e di Keynes credo che si possano a pieno titolo definire liberali.
Contesto però due specifici punti dell'intervento dell'onorevole Landi di Chiavenna. Egli ha qualificato la tassa (o imposta) di Tobin come un tentativo di moralizzare il sistema della finanziarizzazione. Ma il problema è un altro: o si ritiene (come credo faccia il professore Da Empoli) che i mercati finanziari tanto più sono liquidi tanto più sono efficienti e allora deve valere l'ipotesi delle aspettative razionali criticata giustamente dal professor Pizzuti (ma quindi non parliamo più neanche di tassa Tobin); oppure si pensa che i mercati finanziari, nella realtà, funzionino come descritto da Keynes e da Tobin, che la loro efficienza sia un mito, che siano soggetti a sistematiche derive speculative, e allora bisogna intervenire, e presto.
Mi permetto di ricordare che l'esempio sul traffico automobilistico a cui è ricorso il professor Da Empoli mi sembra alquanto infelice. Questo esempio in realtà casca proprio a pennello con il discorso sulla liquidità internazionale: l'automobile dovrebbe garantirci una maggiore mobilità ma oltre un certo punto abbiamo verificato che tante più automobili circolano tanto più questo produce immobilità. L'automobile, poi, prodotta e circolante in grandi quantità produce inquinamento. Ebbene, senza che nessuno se ne scandalizzi abbiamo città in giro per il mondo che impongono la circolazione a targhe alterne ed abbiamo grandi città che fanno pagare una tassa per entrare nel centro storico ed in determinate aree. Non c'è nulla di strano o assurdo in tutto ciò e credo che un autentico liberale non lo definirebbe certamente come un qualcosa di contraddittorio con la sua ideologia.
Intervengo poi sulla questione del soggetto terzo, sollevata dall'onorevole Giovanni Bianchi, che si lega anche al tema dell'eventuale soggetto che dovrebbe gestire le entrate derivanti dalla tassa. Anzitutto, intendiamoci, le ipotesi sul gettito della tassa dipendono evidentemente da una serie di fattori. Sono d'accordo con il professor Brancaccio che il livello della tassa debba essere significativo visti gli scopi primari della tassa Tobin; e ovviamente, dato il livello dell'aliquota il gettito dipende da ciò che si decide debba essere esentato dalle tasse. Personalmente credo che vada esentato dalle tasse il meno possibile; per esempio vanno incluse anche tutte le transazioni interbancarie, che rappresentano ben il 70 per cento del montante delle transazioni in valuta estera. Credo poi che si debba combattere l'evasione, ma questo significa (come si è visto bene dallo scambio di battute tra il presidente La Malfa e il professor Pizzuti) che bisogna tassare il più possibile gli strumenti finanziari, anche i derivati, e i nuovi strumenti che verranno inventati certamente in futuro. Il gettito dipende evidentemente
dai costi di transazione, indipendentemente dalla tassa; e tanto più sono alti questi costi di transazione tanto meno è efficace la tassa: ma il progresso tecnologico, ci hanno detto - ed è vero - ha abbassato questi costi di transizione al minimo, e questo incrementa l'efficacia della tassa, e a parità delle altre condizioni, il suo gettito.
Va poi considerata l'elasticità della base imponibile. Se si introduce una tassa consistente, tra lo 0,5 e l'1 per cento, le ipotesi plausibili sull'elasticità fanno sì che i 50 miliardi di dollari cui faceva riferimento il professor Osculati rappresentano il minimo delle previsioni più diffuse; altre stime citano somme che oscillano tra i 100 ed di 200 miliardi di dollari. Segnalo inoltre che organismi delle Nazioni unite per le esigenze fondamentali dei paesi in via di sviluppo, parlano di cifre vicine agli 80 mila miliardi di dollari; ricordo anche che il debito dei paesi in via di sviluppo ammontava nel 1998 a circa centocinquanta miliardi di dollari. Certamente la tassa, proprio perché efficace, è in grado di permettere la raccolta di un notevole ammontare di fondi, di cui come si vede si saprebbe bene cosa fare se venisse destinato alle questioni dello sviluppo su scala globale.
Certamente, non siamo ai 720 miliardi di dollari che l'agenzia delle Nazioni Unite sul commercio e lo sviluppo stimava nel 1995. Tuttavia, siamo molto vicini ai 150 miliardi di dollari stimati da un'altra agenzia delle Nazioni Unite per lo sviluppo e, francamente, credo che si tratti di cifre realistiche e significative.
L'onorevole Landi di Chiavenna si domanda chi debba gestire questa tassa. Si possono fornire alcune risposte standard: il Fondo monetario internazionale, la Banca dei regolamenti internazionali e la Banca mondiale. Bisognerebbe approfondire meglio il tema. Tuttavia, dal momento che questi organismi, in un passato più o meno recente, non hanno dato buona prova di sé, ritengo che sia necessario creare una nuova agenzia. Infine, all'onorevole Landi di Chiavenna direi che, in realtà, un cittadino può essere tentato dal non pagare le tasse se pensa a come i governi, a lui graditi o meno, possono gestire queste entrate. Certamente, anche in questo paese, negli ultimi decenni si sono verificati episodi sgradevoli che possono accrescere a questa tentazione. Ma a quasi nessuno viene in mente di affermare che si debba eliminare l'imposizione fiscale: semmai il problema è renderla ad un tempo più equa ed efficace.
All'osservazione del presidente La Malfa rispondo che, certamente, si deve distinguere concettualmente tra speculazione e transazioni legate al commercio. L'imposta di Tobin, come ricordato dal professor Osculati, produce in effetti una discriminazione, ma essa è implicita, si tratta di una tassa su ogni transazione in valuta estera e, proprio per questo, credo che sia efficace, semplice e potente, proprio perché non obbliga ad una valutazione caso per caso molto dubbia e rischiosa.
EMILIANO BRANCACCIO, Professore di macroeconomia presso l'Università del Sannio. In linea di principio, possiamo esonerare dal pagamento dell'imposta una serie di transazioni commerciali. Si può fare. Tuttavia, per la sua struttura e per come fu ideata da Tobin, la tassa mira proprio ad incidere prioritariamente su chi effettui un volume elevatissimo di transazioni. Quindi, sempre in linea di principio, non occorre esonerare determinate transazioni. Questa imposta è infatti stata ideata proprio al fine di evitare la necessità di distinguere tra transazioni speculative e non speculative. Chi conosca il dibattito accademico sa che l'esonero di alcuni tipi di soggetti è questione marginale e subordinata. Per ogni data transazione vi sarà un determinato obbligo di pagamento, il che significa che la tassa colpirà proprio chi effettua più transazioni, vale a dire gli speculatori. Del resto, tutti coloro che effettuano transazioni per cautelarsi contro il rischio lo fanno in subordine all'attività speculativa.
Vorrei aggiungere una cosa sulle possibilità di azione del politico. Immagino siamo d'accordo, professor Da Empoli, sul
fatto che stiamo parlando di equilibri di second-best.
Ebbene, se è vero quanto affermato da lei - e siamo tutti d'accordo su questo - ciò significa che i parlamentari hanno ampi margini manovra, cioè possono fare, possono agire. Stiamo infatti parlando di una scelta tra tanti, infiniti equilibri non ottimali. Quindi, signori deputati, potete agire. Non credete a chi afferma che ad esempio non si può intervenire sui movimenti di capitale perché se voi intervenite fate solo male, nel senso che generate risultati inefficienti. Voi potete agire sia male che bene, dipende da voi. Quel che è certo è che potete agire.
FELICE ROBERTO PIZZUTI, Professore di politica economica presso l'Università La Sapienza di Roma. Come già è stato ricordato, per applicare la Tobin tax non c'è bisogno di distinguere tra speculazioni e attività reali; essa si applicherebbe a tutte le transazioni. Effettuando transazioni valutarie giornaliere esse verrebbero tassate 365 volte all'anno; una transazione effettuata una volta in un anno, sarebbe tassata una volta sola. Compiendo attività di natura reale, la valuta corrispondente transiterà una sola volta e dunque sarà tassata con una incidenza irrilevante (si pensa ad una misura dello 0,1%). Transazioni valutarie speculative molto frequenti sarebbero automaticamente penalizzate senza bisogno di una loro specifica identificazione.
Ritengo che siamo tutti d'accordo sul fatto che le operazioni finanziarie siano importantissime: tuttavia, anche mangiare è importantissimo ma mangiare troppo fa male. Le operazioni finanziarie vanno benissimo ma, talvolta, impediscono al mercato di funzionare correttamente. Non si comprende per quale ragione dobbiamo rapportarci indifferentemente a quanto c'è di buono e a quanto c'è di meno buono sul mercato. Credo che si possa beneficiare degli aspetti positivi senza dover subire quelli negativi; la distinzione è possibile. Il problema, per essere un po' meno banali, ritengo sia quello delle asimmetrie tra le mobilità nei mercati di merci, lavoro e capitali finanziari; i primi due si spostano ad una velocità nettamente inferiore. Questo è il problema avvertito da Tobin il quale, come tutti sappiamo, è un autore di impostazione liberale. L'obiettivo affidato alla sua «tassa» non è certo quello di ostacolare il mercato ma, viceversa, di farlo funzionare meglio; il che non implica credere che ogni sua manifestazione, come ad esempio la speculazione, sia necessariamente positiva e non debba essere ostacolata. L'economia del benessere ci insegna che, in alcuni casi, il mercato deve essere, per così dire, contenuto, regolato, circoscritto e aiutato.
L'onorevole Grandi chiedeva in che modo si debba procedere. A mio avviso, si potrebbe procedere mediante decisioni a livello nazionale e ogni paese dovrebbe assumersi la responsabilità di considerare positivamente o negativamente la Tobin tax. Ovviamente, la operatività di questa imposta deve essere subordinata alla sua approvazione da parte di un certo numero di Stati perché, se adottata in un solo paese, risulta inefficace e controproducente. Ciò non significa che ciascuno, nell'ambito del proprio Parlamento, non possa approvare la Tobin tax: può essere approvata, salvo renderla operativa solo nel momento in cui un certo numero di altri Stati la applichino a loro volta; quelli dell'Unione europea, ad esempio, inclusa o meno la Gran Bretagna.
Riguardo alla questione posta dal presidente La Malfa, ricordo che non c'è alcun collegamento tra l'imposta in oggetto e le forme di impiego degli introiti da essa derivanti. Allo stesso modo, non vi è collegamento alcuno tra la stessa imposta e l'esigenza, che ben conosciamo, di moralizzare le procedure di erogazione degli aiuti ai paesi sottosviluppati. Si tratta di problemi completamente distinti. Un conto è impedire i danni della speculazione, altro è il modo di utilizzazione degli introiti della Tobin tax.
In definitiva, mi sembra che la Tobin tax comunque aiuta il mercato a funzionare in modo più efficiente ed equo; questo risultato è indipendente sia dalla circostanza che essa possa essere sostenuta
da movimenti, partiti e persone più o meno favorevoli o critici verso il mercato, sia dalle possibili utilizzazioni dei suoi proventi.
DOMENICO DA EMPOLI, Professore di scienza delle finanze presso le Università La Sapienza e Luiss di Roma. Intervengo brevemente, perché il contrasto è tale da non poter essere sanato rapidamente. Se applichiamo la Tobin tax a tutte le transazioni finanziarie (mi sembra di aver capito sia questa la proposta), ciò porterebbe ad un irrigidimento del sistema finanziario internazionale che dovrebbe essere valutato con molta attenzione, trattandosi di una proposta piuttosto grave.
Non sono affatto convinto della sua utilità, in quanto ritengo che anche le transazioni finanziarie abbiano una propria, piena legittimità come quelle reali. Anche nel campo delle transazioni reali vi possono essere manovre «figurative»; non è affatto detto che quelle finanziarie siano le sole operazioni speculative, né che lo siano tutte le operazioni finanziarie.
FELICE ROBERTO PIZZUTI, Professore di politica economica presso l'Università La Sapienza di Roma. Infatti si applicherebbe a tutte le transazioni.
DOMENICO DA EMPOLI, Professore di scienza delle finanze presso le Università La Sapienza e Luiss di Roma. Per quanto riguarda l'uso del gettito, penso che la strada intrapresa a livello internazionale, cioè calcolare l'aiuto ai paesi in via di sviluppo in termini monetari, sia completamente sbagliata. Chiunque abbia avuto esperienze con i paesi sottosviluppati, in particolar modo con quelli più svantaggiati, si rende conto che tali paesi hanno élite che vivono splendidamente e che gli aiuti sono sostanzialmente un sussidio al benessere di queste poche famiglie molto ricche.
È sbagliato pensare che la Tobin tax o qualsiasi altro intervento puramente finanziario che non migliori il funzionamento delle istituzioni di questi paesi possa veramente aiutare i paesi sottosviluppati: è un errore gravissimo. Vi è molta ipocrisia da parte nostra. Se veramente intendiamo aiutare i paesi in via di sviluppo, dobbiamo fare ben altro, anche con qualche sacrificio per le nostre economie (basti pensare ai nostri sussidi all'agricoltura, che di fatto impediscono ai paesi in via di sviluppo di trovare un mercato per i loro prodotti). Fin quando ci limiteremo a «fare beneficienza» a questi paesi (tra l'altro facendola ai loro capi), non risolveremo nulla.
FRANCO OSCULATI, Professore di scienza delle finanze presso l'Università di Pavia. L'aiuto allo sviluppo comporta problemi legati alla fungibilità degli aiuti, alla «condizionalità», alle condizioni di democrazia dei paesi aiutati, tutti fattori determinanti per i risultati.
Sarebbe necessario dedicare parte della riflessione sulla Tobin tax anche ad un aspetto che in questa sede non è ancora emerso con la necessaria chiarezza. La Tobin Tax va considerata anche come un'imposta sulle attività finanziarie in contrapposizione, o in sostituzione, di imposte che secondo la «logica» dominante colpiscono soltanto basi imponibili che non possono essere «spostate» da un sistema fiscale all'altro, in particolare la remunerazione del lavoro e, in alcuni casi, gli immobili.
Trovo qualche relazione non in termini strettamente economici, ma più ampi, direi etici sul perché si reputi opportuno utilizzare il gettito negli aiuti allo sviluppo (tra l'altro spesso si fa confusione tra gli aiuti allo sviluppo vero e proprio e le spese che sostengono i paesi industrializzati in termini di peace keeping ed altro), dal momento che il percorso di sviluppo dei paesi sottosviluppati è stato spesso interrotto dalle guerre e dalle crisi valutarie e finanziarie, le quali ultime spesso sono dovute alla speculazione: se la Tobin tax,
come è stato detto, colpisce più la speculazione di altre attività, sarebbe giusto utilizzarne il gettito per aiutare le chance di sviluppo dei paesi sottosviluppati.
PRESIDENTE. Ringrazio in modo non formale gli auditi anche a nome dei presidenti delle Commissioni per la loro partecipazione a questa prima audizione dell'indagine conoscitiva e per il contributo fornito che rappresenta senza dubbio un valido aiuto al nostro lavoro.
Dichiaro chiusa la seduta.
La seduta termina alle 17,10.