XIV LEGISLATURA
PROGETTO DI LEGGE - N. 4237
Onorevoli Colleghi! - Questa è una proposta di legge
ad personam, anzi ad officium. Destinatario delle
norme del progetto che qui si illustra è "esclusivamente" il
Presidente della Repubblica al quale si intendono restituire
un potere e una responsabilità costituzionali che a lui solo
competono: la "concessione della grazia e la commutazione
delle pene", ai sensi dell'undicesimo comma dell'articolo 87
della Costituzione.
Tutti gli interpreti sono concordi nel ritenere che gli
atti del Capo dello Stato indicati in tale disposizione si
possano distinguere in due categorie: gli atti di natura e
origine "sostanzialmente e formalmente" presidenziali e gli
atti di derivazione (prevalentemente) governativa e
parlamentare espressione di responsabilità ed indirizzo
politico o amministrativo che richiedono il concorso (solo)
formale del Capo dello Stato, nel momento dell'emanazione, in
quanto rappresentante e garante dell'unità dell'ordinamento.
Vi sono poi, "al di fuori dell'articolo 87" della
Costituzione, altre attività e atti del Capo dello Stato che
si possono definire "concorrenti", in quanto la loro
"formazione e perfezione" comporta la partecipazione-adesione
di altri soggetti costituzionali. E' il caso dello
scioglimento anticipato delle Camere, della nomina del
Presidente del Consiglio dei ministri (e, secondo un'opinione
controversa, dei Ministri); decisioni che richiedono il
concorso bilanciato delle volontà di entrambi i soggetti
costituzionali.
Non è stato difficile per la dottrina, e nella prassi,
individuare gli atti "sostanzialmente" presidenziali. Si
tratta di manifestazioni del ruolo di sapiente equilibrio e di
moderazione che il Capo dello Stato è chiamato ad assolvere
nella organizzazione costituzionale, soprattutto per
assicurare che la vita democratica non perda gli essenziali
connotati pluralistici. Si possono in proposito ricordare i
poteri di nomina di una quota esigua di senatori a vita, oltre
i circuiti della stretta appartenenza partitica, e di un terzo
dei giudici della Corte costituzionale. Rilevante è inoltre il
potere di "attenzione e di richiamo" che il Presidente della
Repubblica esercita in piena e responsabile "autonomia"
attraverso i messaggi alle Camere. Infine: il potere di
concedere la grazia e di commutare le pene. Anche la sintassi
costituzionale, l'utilizzazione del termine "può" per queste
ultime due ipotesi segnala la piena autodeterminazione che è
riservata al Capo dello Stato.
Siffatta distinzione tra gli atti presidenziali impone una
coerente, adeguata e sistematica interpretazione dell'articolo
89, primo comma, della Carta laddove afferma che "Nessun atto
del Presidente della Repubblica è valido se non è
controfirmato dai ministri proponenti, che ne assumono la
responsabilità".
Anche in questo caso esiste sufficiente uniformità di
opinioni tra gli studiosi che sono pervenuti alla conclusione
che gli atti ai quali fa esplicito riferimento la disposizione
sono quelli di natura e origine non presidenziale, che si
formano nelle sedi proprie della responsabilità
politica-amministrativa. E lo scopo dell'enunciato è quello di
limitare le responsabilità del Presidente della Repubblica
agli aspetti formali del rispetto delle attribuzioni e dei
procedimenti costituzionali. Insomma, la sua firma assumerebbe
il significato di un mero (secondo alcuni solo sintomatico o
preliminare) accertamento di "non esorbitanza" delle decisioni
governative dal quadro costituzionale.
Tale regola non può evidentemente valere per gli "atti
propri" del Presidente della Repubblica. In assenza di una
previsione esplicita per questa pur circoscritta categoria,
due sono le possibili soluzioni: ritenere che gli atti
strettamente presidenziali non necessitano affatto di
controfirma per la loro validità; oppure attribuire alla
"necessaria" controfirma ministeriale un significato e un
valore differenti.
Prevale (ed è certamente preferibile) la seconda
conclusione per una serie di ragioni di sistema, relative alla
forma di governo parlamentare italiana, e di ordine "pratico".
Per questo secondo profilo basti osservare che il Capo dello
Stato non dispone di un'organizzazione autosufficiente in
grado di dare esecuzione alle "proprie" manifestazioni di
volontà. Cosicché la controfirma del Ministro (non proponente,
ma) "competente" avrebbe il valore di un impegno a dare
esecuzione alla volontà del Capo dello Stato espressione dei
suoi esclusivi poteri. A corollario - tenuto conto
dell'architettura del complessivo sistema costituzionale ad
"equilibri diffusi" - non parrebbe ultronea la tesi di chi
assegna alla controfirma del Ministro competente anche il
significato (implicito) di attestato dell'esercizio da parte
del Presidente della Repubblica di poteri che gli spettano, in
conformità alla Costituzione.
Il potere di grazia (e di commutazione delle pene) è stato
variamente e "pigramente" interpretato e inquadrato dalla
dottrina e dall'opinione pubblica. In sostanza ci si è,
perlopiù, adagiati a un'esegesi di tipo "tradizionale e
residuale". La stessa Assemblea costituente approvò o forse si
potrebbe dire "accolse" l'istituto in questione senza
discussioni (sia in Sottocommissione, sia in Assemblea) come
un lascito non troppo ingombrante del periodo statutario,
quasi per non deprimere troppo la dignità formale del
Presidente della Repubblica a confronto con il precedente
sovrano. In sostanza: la riconferma di un "potere di clemenza"
per dare lustro alla massima Autorità sintesi della sovranità
statale (nel ricordo, forse, dell'antico jus vitae ac
necis). Peraltro, una simile attribuzione suscitò anche
diffidenza in quanti la riconducevano al potere del sovrano,
nel regime assoluto, di dispensare sudditi "favoriti"
dall'osservanza delle leggi, potere abbattuto dai princìpi
egualitari e liberali della rivoluzione francese. Proprio in
questa prospettiva di affrancamento dagli antichi e
inammissibili privilegi, Vittorio Emanuele Orlando
all'Assemblea costituente (22 ottobre 1947) negava che nello
Stato monarchico liberale la grazia potesse essere intesa come
un'attribuzione personale del Re, ma - al pari degli altri
poteri dal medesimo esercitati in quanto rappresentante dello
Stato - essa doveva essere ritenuta condizionata o "limitata"
dalla controfirma ministeriale (del Guardasigilli).
Da questa ricostruzione "essenzialmente" storica (e "non"
da altre fonti o ragionamenti) si è affermata, già nei primi
commenti alla Costituzione repubblicana, la tesi che il potere
di grazia non potesse essere esercitato "al di fuori della
<sostanziale> responsabilità ministeriale" (in tal senso si
veda Falzone, Palermo, Cosentino, La Costituzione della
Repubblica italiana, commento all'articolo 87, Roma 1948).
Non solo: si sosteneva anche che la materia dovesse continuare
ad essere regolata addirittura dalla consuetudine, la quale
"aveva ancora più ristretto la configurazione del diritto di
grazia, poiché le proposte di grazia debitamente istruite del
Ministero della giustizia, sono presentate al Capo dello Stato
solo se il parere espresso dai competenti uffici sia
favorevole, mentre quelle con parere negativo sono
direttamente archiviate" (ivi).
Questo approccio è certamente all'origine della vigente
normativa sull'istituto della grazia, sulla sua
"proceduralizzazione" contenuta nell'articolo 681 del codice
di procedura penale.
Ma è un approccio appunto "retrospettivo", non innovativo
e non in armonia con una Costituzione che ha voluto affermare
la netta discontinuità con i precedenti ordinamenti e la loro
impostazione soprattutto negativa, tesa a "frenare" i poteri
costituzionali piuttosto che a valorizzare la loro funzione
propulsiva (seppure, si è già detto, equilibrata) per il
raggiungimento di fini ed obiettivi di convivenza che la
Costituzione generosamente enuncia e che lo Statuto non
considerava.
A differenza di questo, la Carta repubblicana non nasce
con l'intento importante, ma insufficiente, di circoscrivere e
di ridistribuire il potere (dominio) tra soggetti
costituzionali, di imporre aree (libertà) protette dagli
arbitrii del potere pubblico; ma piuttosto con l'ambizione di
riconoscere e di perseguire valori di vita e di integrazione
nella comunità (nelle comunità).
La figura del Presidente della Repubblica non può essere
delineata in negativo semplicemente come "potere limitato",
anzi "più limitato" del Re statutario. La Costituzione
definisce la figura del Capo di Stato "in positivo", con
concetti e parole importanti: "rappresenta l'unità nazionale"
anche, e forse soprattutto, quale sintesi delle virtù della
Repubblica. I poteri e i compiti che la Costituzione assegna
al Capo dello Stato sono enumerati, di diversa estensione ed
intensità, ma tutti vanno "presi sul serio" per quel che sono.
L'idea del potere-orpello "residuale o marginale" è estranea
alla cultura democratica e alle esigenze stesse della
predefinizione dei ruoli e delle funzioni costituzionali ai
fini della stabilità e dell'equilibrio del sistema e della
convivenza.
Anche il potere di concedere la grazia e di commutare le
pene deve pertanto essere compreso se non come nuovo,
certamente come innovativo. Già si è sottolineato che si
tratta di un potere autonomo. Esercitandolo - quando valuta
che ci siano le condizioni per esercitarlo - il Presidente
della Repubblica non partecipa all'amministrazione della
giustizia, sia pure lato sensu, come si riteneva in
regime liberal-statutario (così ancora nel commento sopra
citato); neppure interviene per rimediare - extrema
ratio- a disfunzioni di altri poteri costituzionali.
Altrettanto inadeguato è includere la grazia (e la
commutazione delle pene) nella categoria della "clemenza
istituzionale".
La grazia si profila certamente come intervento
"eccezionale e singolare" diretto alla rimozione di "una"
sofferenza irrogata legalmente, secondo le regole
dell'ordinamento, dal giudice penale, la quale è percepita "ad
un certo punto della vicenda umana del condannato" come non
più sostenibile e inutilmente afflittiva (anche in una logica
retributiva della pena), in presenza di sopravvenute
condizioni oggettive e soggettive "specifiche" che è difficile
ridurre in una casistica generale ed astratta. Al tempo stesso
la grazia è provvedimento in favore della stessa società
civile, che può "positivamente" recuperare l'apporto di vite
"sterilmente" (anche se legalmente) segregate.
La valutazione della sussistenza del concorso di queste
circostanze soggettive ed oggettive non può che essere
affidata ad un soggetto istituzionale "unificante" super
partes (il più "alto" soggetto istituzionale) che
impersona, secondo Costituzione, le virtù e i valori dello
Stato-comunità, soprattutto quelli di più ardua realizzazione
"effettiva" della convivenza: la "mitezza" (non arbitraria),
l'"integrazione", la "dignità della vita". Cioè: il Presidente
della Repubblica.
Merita osservare, ancora una volta, che il Capo dello
Stato, "Presidente della Repubblica", non può essere
equiparato al Capo dello Stato, "Re", del precedente
ordinamento statutario. Il primo è espressione massima della
comunità e dei suoi valori: è da questa investito con
procedure elettorali seppure indirette. Il secondo era esterno
alla comunità, ad essa si sovrapponeva in quanto legittimato
da inconfutabili fonti tradizionali e trascendentali.
Il potere di grazia, pur riconosciuto con identiche parole
nello Statuto (articolo 8: "Il Re può far grazia, e commutare
le pene") e nella Costituzione, assume dunque nei due contesti
storici e costituzionali un significato differente e,
conseguentemente, richiede un'applicazione profondamente
diversa. "Prima:" manifestazione di supremazia e della forza
della sovranità; "ora:" manifestazione-interpretazione delle
virtù civili della società, in una prospettiva non solo
statualistica, ma universalistica recepita formalmente e
solennemente dall'articolo 2 e diffusamente da altri precetti
della Costituzione.
La grazia è comunemente ed erroneamente associata ad altri
provvedimenti di clemenza generali (l'indulto e l'amnistia),
affidati alla responsabilità "politica" del Parlamento, che
può deliberarli sulla base dei più vari parametri di
opportunità (dal sovra-affollamento carcerario ad esigenze di
pacificazione politica...). Il Presidente della Repubblica è
libero da responsabilità politiche, non decide in via
generale, ma caso per caso; non è guidato da ragioni di
opportunità, ma da ragioni di umanità; non interferisce con la
giustizia legale dei processi, ma interviene per affermare una
giustizia dei valori che non sempre può essere amministrata
dalle corti.
Se questo è il contesto, se queste sono le ragioni in cui
si colloca il potere "autonomo" di grazia che l'articolo 87,
undicesimo comma, affida al Presidente della Repubblica, è
indispensabile restituirgli la Sua "solitudine", pur
"assistita". Ciò comporta innanzitutto la radicale revisione o
meglio la soppressione delle vigenti procedure fissate dal
legislatore (in conformità a prassi "precostituzionali")
nell'articolo 681 del codice di procedura penale (che
riproduce in gran parte la disciplina contenuta nell'articolo
595 del precedente codice Rocco). Il quale illegittimamente
rende "vincolato" o, se si preferisce, "condiviso" l'esercizio
del potere medesimo ad opera di due autorità, il Capo dello
Stato e il Ministro della giustizia, dotate di differente
legittimazione, che si trovano a dover "rispondere" ad
esigenze non sempre coincidenti, in prospettive anche
temporali diverse.
L'articolo 681 del codice di procedura penale prevede vari
tipi di procedure rivolte alla concessione della grazia con
riferimento ai soggetti legittimati a proporre la relativa
domanda, tassativamente indicati: il condannato medesimo o un
suo prossimo congiunto (ai sensi dell'articolo 307, quarto
comma, del codice penale rientrano nella categoria: gli
ascendenti, i discendenti, il coniuge, i fratelli, le sorelle,
gli affini nello stesso grado - ma non in caso di morte del
coniuge e in assenza di prole -, gli zii e i nipoti). In una
prospettiva "premiale" anche i consigli di disciplina degli
istituti penitenziari possono assumere l'iniziativa della
"proposta" di grazia.
Essa può essere concessa anche "in assenza di domanda o
proposta" (l'ipotesi non era contemplata nel codice di
procedura penale del 1931), ma in ogni caso è sottoposta ad
una serie di gravosi "filtri" giurisdizionali (magistrato di
sorveglianza, procuratore generale presso la corte d'appello
competente, presidente del consiglio di disciplina). Ed è,
infine, il Ministro della giustizia che decide
sull'opportunità di sottoporla al Presidente della
Repubblica.
Risulta evidente che in questo modo egli viene fortemente
deprivato di un potere che la Costituzione affida in via
esclusiva alla sua "coscienza istituzionale" e, di converso,
con siffatta formalizzazione la grazia viene a ricadere tra
gli atti di opportunità politica soggetti a responsabilità
ministeriale (o di governo).
La presente proposta di legge "di attuazione"
dell'undicesimo comma dell'articolo 87 della Costituzione,
intende - come si è già affermato - ripristinare il ruolo
attivo e la responsabilità (non politica) del Capo dello Stato
e, al tempo stesso, rimarcare il valore eccezionale e
singolare del provvedimento di grazia. Ciò peraltro non
significa che la "solitudine" del Presidente della Repubblica
debba comportare la rinuncia ad essenziali servizi di sostegno
tecnico-giuridico che gli consentano di conoscere
"adeguatamente" le situazioni di fatto e di diritto e di
maturare con la necessaria "prudenza" le sue decisioni.
Il Ministro della giustizia, in osservanza al principio di
"leale cooperazione", rimane utile interlocutore del
Presidente della Repubblica, mettendogli a disposizione le
competenze e i servizi (organizzati nella Direzione generale
della giustizia penale, ai sensi dell'articolo 4 del
regolamento di cui al decreto del Presidente della Repubblica
6 marzo 2001, n. 55) funzionali alla maturazione e
all'adozione delle sue decisioni.
In questo senso si è usata l'espressione "solitudine
assistita".
Nella stessa linea di valorizzazione dell'autonoma
iniziativa del Presidente della Repubblica non è parso
rilevante disciplinare le modalità per la presentazione di
"richieste formali" di grazia al medesimo. In effetti egli,
nella società democratica aperta, può essere sensibilizzato
all'esame di singoli casi da fonti molteplici e di diverso
impatto: da campagne di opinione pubblica, da segnalazioni di
semplici cittadini e degli stessi interessati. Chiunque può
rivolgersi al Capo dello Stato, ma a lui solo spettano
"l'insindacabile sensibilità e responsabilità" di fronte alle
diverse situazioni e vicende.
Il decreto di grazia è controfirmato dal Presidente del
Consiglio dei ministri. Come si è già detto, la sua
sottoscrizione non assume il significato di corresponsabilità
dell'atto, ma semplicemente attesta l'avvenuto esercizio di un
potere proprio del Presidente della Repubblica. L'eventuale
diniego della controfirma, che renderebbe inefficace l'atto
presidenziale, segnalerebbe che il Presidente del Consiglio
dei ministri valuta esorbitante o non rispondente ai princìpi
e ai valori costituzionali l'atto medesimo. In tale caso
saremmo certamente in presenza di un conflitto di attribuzione
che spetterebbe alla Corte costituzionale risolvere.
L'approvazione della presente, così sobria, proposta di
legge "di attuazione costituzionale" - per la cui elaborazione
ringraziamo il professor Ernesto Bettinelli, ordinario di
diritto costituzionale all'università di Pavia - renderebbe
più chiari e più sostenibili i rapporti tra le massime
istituzioni costituzionali, restituendo a ciascuna le
responsabilità che la Carta le attribuisce, eviterebbe di
sacrificare le ragioni universali dell'umanità e della mitezza
a quelle contingenti e non sempre serene del confronto
politico.