XIV LEGISLATURA

PROGETTO DI LEGGE - N. 3415




        Onorevoli Colleghi! - L'Unione delle camere penali, dopo l'audizione in Commissione giustizia della Camera dei deputati nel corso dell'esame delle modifiche di alcune norme della legge sull'ordinamento penitenziario 26 luglio 1975, n. 354, e, in particolare, degli articoli 4-bis e 41-bis, ha formulato, su espressa richiesta della Commissione giustizia, un testo teso a conciliare il dovere di garantire la sicurezza nelle carceri, di impedire i rapporti tra detenuti e appartenenti a organizzazioni criminali, con i princìpi costituzionali - "l'imputato non è considerato colpevole fino alla condanna definitiva", "le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione dei condannati" - e le indicazione della stessa Corte costituzionale.
        Abbiamo ritenuto utile, nell'ambito di un confronto su un tema così delicato come quello relativo al rapporto tra carcere e società e tra dovere dello Stato a garantire la sicurezza dei cittadini, evitando di approvare norme che si pongono in contrasto con i princìpi costituzionali, porre all'attenzione del Parlamento le proposte dell'Unione delle camere penali, che sicuramente possono fornire un positivo contributo al dibattito in corso.
        L'articolo 1 della citata legge 26 luglio 1975, n. 354, recante "Norme sull'ordinamento penitenziario e sull'esecuzione delle misure privative e limitative della libertà" - legge attuativa dell'articolo 27 della Costituzione - sancisce espressamente, nell'indicarne i "princìpi direttivi", che il trattamento penitenziario "deve assicurare il rispetto della dignità della persona"; "il trattamento degli imputati deve essere rigorosamente informato al principio che essi non sono considerati colpevoli sino alla condanna definitiva"; "non possono essere adottate restrizioni non giustificabili con le esigenze" di mantenere l'ordine e la disciplina negli istituti; "nei confronti dei condannati e degli internati deve essere attuato un trattamento rieducativo" che tenda al loro "reinserimento" sociale.
        Ogni trattamento del detenuto che non realizzi compiutamente le finalità rieducative della pena e non rispetti i princìpi di umanità del trattamento previsti all'articolo 27 della Costituzione e dai trattati internazionali, non può essere accolto nel nostro sistema.
        Se lo scopo del disegno di legge in discussione alla Commissione giustizia della Camera dei deputati, atto Camera n. 3288, è quello di garantire la sicurezza nelle carceri e di impedire i rapporti tra i detenuti e gli appartenenti ai diversi sodalizi criminosi, fuori e dentro il carcere, non può essere accolta alcuna impostazione che, lungi dal realizzare tali finalità, si traduca solo in un regime di detenzione - più afflittivo dell'ordinario - per alcuni detenuti in ragione dei reati loro addebitati.
        Appare indiscutibile, infatti, che accettando una impostazione di tale genere si manterrebbe nel sistema una normativa che, anziché garantire la sicurezza o interrompere i collegamenti tra i detenuti ed il sodalizio criminale di appartenenza, è volta a istituire "un regime carcerario diversificato" per alcune categorie di detenuti, oltre che a "condizionare" le scelte processuali di coloro nei cui confronti viene applicato.
        Del resto, il legame tra le condizioni di vita dei detenuti sottoposti al regime dell'articolo 41-bis ed il loro atteggiamento processuale è stato testimoniato da organismi internazionali, come il Comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti, il quale - fin dal 1995 - ha preso atto con preoccupazione di una dichiarazione rilasciata dalle autorità italiane in sede ONU, secondo cui "Grazie a questa misura speciale, un numero crescente di detenuti ha deciso di cooperare con le autorità giudiziarie fornendo indicazioni sulle organizzazioni criminali delle quali faceva parte (si veda il libro Barriere di vetro pubblicato dalla Camera penale di Roma, edizione Palombi, pagina 17).
        Al riguardo va sottolineato che un regime di detenzione deliberatamente "più afflittivo", applicato anche nei confronti di imputati in attesa di giudizio, cui i detenuti possono porre termine solo mutando il proprio atteggiamento processuale, si traduce in un sistema di condizionamento della libertà di autodeterminazione del detenuto ed influisce sulla spontaneità dei suoi atteggiamenti oltre che sulla credibilità delle sue dichiarazioni (lo stesso relatore al progetto di legge attualmente in discussione di fronte alla Commissione giustizia della Camera dei deputati, onorevole Vitali, ha sottolineato la necessità che "la collaborazione cui deve mirare lo Stato deve essere spontanea e non condizionata").
        Le ragioni della evidente inconciliabilità tra la dichiarata ratio della norma di cui all'articolo 41-bis (sia nella precedente formulazione, sia nel disegno di legge attualmente in discussione) e la sua reale natura, peraltro, risultano del tutto evidenti laddove si constati l'assoluta e inutile vessatorietà di talune misure e restrizioni che vengono adottate nei confronti dei detenuti sottoposti a tale regime (ad esempio, in tema di colloqui con i familiari, in specie i figli minori, di divieti relativi al consumo di cibi, al vestiario, eccetera).
        A ciò si aggiunga che il citato disegno di legge licenziato dal Senato della Repubblica consente una assoluta discrezionalità nella scelta delle misure limitative dei diritti e delle facoltà dei detenuti, giacché permette (articolo 2, comma 1, capoverso 2-quater, lettera g), dell'atto Camera n. 3288) "la limitazione di ogni altra facoltà derivante dall'applicazione delle regole di trattamento e degli istituti previsti dalla presente legge, ove ne sia ravvisato il concreto contrasto con le esigenze di cui al comma 2".
        Accanto tutto ciò non va poi dimenticato che qualsiasi misura, pur volta esclusivamente e specificamente alla tutela della sicurezza, non può mai travalicare il confine segnato dal rispetto dei diritti fondamentali degli uomini e portare alla inflizione di trattamenti disumani o degradanti, che il nostro sistema rifiuta radicalmente in quanto del tutto estranei alla cultura, prima ancora che all'ordinamento giuridico, del nostro Paese.
        Queste sono le ragioni complessive per le quali si ritiene che la normativa di cui all'articolo 41-bis, sia quella vigente che quella proposta nel disegno di legge licenziato dal Senato della Repubblica, si ponga in aperto contrasto con i più nobili princìpi accettati nel nostro sistema, che rigetta qualsiasi trattamento "contrario al senso di umanità" (articolo 27 della Costituzione), nonché le "pene inumane o degradanti" (articolo 3 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, resa esecutiva dalla legge n. 848 del 1955) e tali da non svolgere l'imprescindibile funzione rieducativa del condannato (articolo 27 della Costituzione) nonché, da ultimo, "metodi o tecniche idonei a influire sulla libertà di autodeterminazione" delle persone nell'assunzione delle prove (articolo 188 del codice di procedura penale).


La tutela delle esigenze di sicurezza all'interno del carcere alla luce degli insegnamenti della Corte costituzionale.

        La Corte costituzionale ha avuto più volte modo di occuparsi del regime di cui all'articolo 41-bis della legge n. 354 del 1975 dell'ordinamento penitenziario e, pur senza negare l'astratta necessità di tutela delle esigenze di sicurezza all'interno del carcere, ha richiamato il legislatore e gli interpreti ad una lettura armonica di tale istituto con i princìpi costituzionali.
        In questo senso la stessa Corte costituzionale, attraverso una serie di sentenze interpretative di rigetto, ha legittimato la permanenza dell'istituto all'interno dell'ordinamento a condizione che il medesimo rispetti talune precise delimitazioni.
        Orbene, a prescindere dalla valutazione della coerenza della giurisprudenza costituzionale rispetto agli stessi princìpi che la medesima ha costantemente richiamato sul tema dell'articolo 41-bis, un semplice richiamo alle indicazioni del giudice delle leggi può consentire di delineare l'ambito entro il quale il legislatore deve mantenersi, in tale materia, al fine di non porsi al di fuori del dettato costituzionale.
        La Corte costituzionale, infatti, ha da ultimo sottolineato che "i provvedimenti applicativi devono essere concretamente giustificati in relazione alle esigenze di ordine e sicurezza" e che tali esigenze "specifiche ed essenzialmente discendenti dalla necessità di prevenire ed impedire i collegamenti tra detenuti appartenenti ad organizzazioni criminali" sono quelle che giustificano le restrizioni al regime carcerario.
        Ancora la Corte ha ribadito che "il regime differenziato si fonda non già astrattamente sul titolo di reato oggetto della condanna o dell'imputazione, ma sull'effettivo pericolo della permanenza dei collegamenti, di cui i fatti reato costituiscono solo una logica premessa; dall'altro lato le restrizioni apportate rispetto all'ordinario regime carcerario non possono essere liberamente determinate, ma possono essere - sempre nel limite del divieto di incidenza sulla qualità e quantità della pena e di trattamenti contrari al senso di umanità - solo quelle congrue rispetto alle predette specifiche finalità".
        Ed infine "non vi è dunque una categoria di detenuti, individuati a priori in base ad un titolo di reato, sottoposti ad un regime differenziato: ma solo singoli detenuti (...) in grado di partecipare, attraverso i loro collegamenti interni o esterni, alle organizzazioni criminali e alle loro attività", che per questa ragione possono essere sottoposti "a quelle sole restrizioni che siano concretamente idonee a prevenire tale pericolo".
        L'Unione delle camere penali pone in evidenza questo insegnamento che, viceversa, non appare coerentemente recepito nel testo di legge licenziato dal Senato della Repubblica, in particolare con riguardo alla formulazione dei commi 2, 2-bis e 2-quater, lettere a), b), f) e g), che appaiono in stridente contrasto con i princìpi enunciati.


La tutela della sicurezza attraverso gli ordinari strumenti dell'ordinamento penitenziario.

        Alla luce delle premesse poste, va sottolineato che il rispetto della sicurezza nel carcere dovrebbe sempre regolare la vita all'interno dei luoghi di custodia e, con riguardo a persone che nel corso della detenzione compromettano la sicurezza o si avvalgano dello stato di soggezione nei confronti di altri detenuti o la cui appartenenza a sodalizi criminali sia in via di accertamento o sia stata definitivamente accertata, questo bene può essere maggiormente tutelato, con misure diversificate a seconda delle diverse situazioni, ma ciò deve essere realizzato attraverso strumenti assolutamente rispettosi dei princìpi costituzionali.
        Nell'ordinamento penitenziario è previsto uno strumento ordinario (articolo 14-bis) volto alla tutela di particolari esigenze di sicurezza legate al comportamento dei detenuti come concretamente verificato nel corso della detenzione.
        Tale strumento è caratterizzato dalla temporaneità, dalla impugnabilità in sede giurisdizionale e dalla intangibilità di taluni diritti del detenuto.
        All'interno di tale norma si è dunque enucleato, accanto a quelli attualmente previsti, un ambito di applicazione diversificato e riguardante una categoria di detenuti, non già individuati meramente ed automaticamente in base al titolo di reato del quale gli stessi debbano rispondere, bensì sulla scorta della concreta verifica, nei confronti degli stessi, della sussistenza di quei collegamenti "attuali" con le organizzazioni criminali esterne al carcere che l'ampliamento della norma intende impedire.
        In tale modo si è inteso raggiungere lo scopo della tutela di quelle esigenze di sicurezza - e solo di quelle - che la sottoposizione ad un particolare regime di controllo vuole garantire.
        In ragione delle particolari esigenze di sicurezza che si prospettano sono state previste talune particolari restrizioni specificamente rivolte ai contatti del detenuto con l'esterno, con esclusione di limitazioni o di misure meramente afflittive o comunque non legate alla tutela di tale aspetto.
        Tenuto conto della incidenza delle restrizioni sui diritti del detenuto, per garantire un controllo più penetrante rispetto ai presupposti di applicazione delle misure ed anche una maggiore uniformità di trattamento, è stato previsto che l'imposizione delle restrizioni consegua ad un provvedimento del magistrato di sorveglianza.
        Questa soluzione, peraltro, è stata estesa a tutte le ipotesi di "sorveglianza particolare" dunque anche a quelle previste dalla attuale formulazione dell'articolo 14-bis della legge n. 354 del 1975 sull'ordinamento penitenziario.
        In ossequio al principio previsto dall'articolo 27 della Costituzione, si è previsto che la sottoposizione al regime di "sorveglianza particolare", come previsto nelle ipotesi di cui all'articolo 14-bis, "non comporti la sospensione delle regole del trattamento e delle norme dell'ordinamento penitenziario".
        Al fine di rendere effettivo il controllo giurisdizionale, ed in ragione della limitatezza dei periodi temporali di applicazione dei provvedimenti applicativi, sono state previste ipotesi di decadenza nei casi nei quali la decisione del giudice dell'impugnazione non intervenga entro termini prestabiliti.
        In questo contesto si inserisce la modifica del contenuto della norma di cui all'articolo 4-bis della legge n. 354 del 1975 sull'ordinamento penitenziario che viene variata sotto due fondamentali aspetti.
        Da un lato è disposta la sensibile diminuzione delle ipotesi in cui, eccezionalmente, possano essere sospesi i permessi premio e le misure alternative alla detenzione previste dal capo VI della predetta legge; sempre che ricorra il presupposto della prova dell'esistenza concreta di collegamenti tra il detenuto e l'organizzazione criminosa al momento della valutazione della richiesta.
        Ipotesi che si limitano al delitto di associazione di tipo mafioso e a quei delitti per i quali è stata contestata l'aggravante di cui all'articolo 7 del decreto-legge 13 maggio 1991, n. 152, convertito, con modificazioni, dalla legge 12 luglio 1991, n. 203.
        Dall'altro si dispone l'abrogazione della norma che attualmente consente l'applicazione dei benefìci in presenza della collaborazione con la giustizia del detenuto, ritenendosi che l'applicazione delle regole del trattamento e degli istituti della legge n. 354 del 1975 sull'ordinamento penitenziario non debba essere compressa e limitata in ragione di scelte processuali che, per lo stesso effetto che si vuole scongiurare, non sarebbero né spontanee né disinteressate.
        Riassumendo in estrema sintesi, si propone una ipotesi di riforma che, eliminando le macroscopiche contraddizione tra il disegno di legge approvato dal Senato della Repubblica e la dichiarata finalità di tutela della sicurezza interna delle carceri:

            a) riformi l'articolo 4-bis della legge n. 354 del 1975 sull'ordinamento penitenziario in modo da restringerne l'ambito di applicazione al solo delitto di cui all'articolo 416-bis del codice penale e ai delitti per i quali è contestata l'aggravante di cui all'articolo 7 del citato decreto-legge n. 152 del 1991, eliminando il presupposto della collaborazione di giustizia e introducendo il criterio della prova concreta della permanenza dei rapporti tra il detenuto e l'organizzazione criminale al momento della richiesta dei benefìci;

            b) ricomprenda nel regime di "sorveglianza particolare", già previsto dalla stessa legge, anche le situazioni riguardanti i detenuti per i quali, sulla base di elementi concreti e specifici, sia fornita la prova di un collegamento "attuale" con una associazione criminale e, dunque, sia maggiormente da tutelare l'esigenza di sicurezza con specifico riguardo ai collegamenti con l'esterno del carcere;

            c) in tali casi, in luogo della generica "sospensione" delle regole del trattamento e dell'ordinamento penitenziario, preveda che l'ordinario regime di "sorveglianza particolare" possa comportare specifiche e tipizzate limitazioni ulteriori;

            d) subordini le restrizioni alla dimostrazione di esigenze specifiche e concrete per il singolo detenuto cui sono destinate, in ossequio al principio di individualizzazione del trattamento, e renda le restrizioni proporzionali allo scopo che si prefiggono al fine di impedirne ogni inutile vessatorietà;

            e) limiti la sottoposizione al regime ad un periodo delimitato di tempo e ne subordini la proroga alla dimostrazione della "attualità" dei collegamenti;

            f) preveda l'intervento giurisdizionale nel procedimento applicativo del regime di "sorveglianza particolare" sia nelle ipotesi ordinarie sia in quelle previste dal comma 2 del rinnovato articolo 14-bis;

            g) renda effettivo e rafforzi il controllo sia dinanzi al giudice della impugnazione sia dinanzi alla Corte di cassazione.




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