XIV LEGISLATURA
RELAZIONE - N. 1985 - 1984-A-bis
Onorevoli colleghi! Abbiamo dato un giudizio negativo
sull'impianto complessivo della legge finanziaria all'inizio
del suo iter alla Camera e questo giudizio dobbiamo confermare
dopo il passaggio in Commissione. Non siamo soddisfatti dei
risultati raggiunti, anche se riconosciamo che il dibattito in
qualche tratto è stato di qualità e ha consentito di apportare
qualche correzione. Complessivamente tuttavia nessuno dei
punti che l'Ulivo considerava qualificanti è stato modificato,
e nessuna delle proposte più significative dell'opposizione è
stata accolta.
Le ragioni del giudizio negativo che formuliamo si
riconducono a quattro temi fondamentali:
1) Nella discussione generale abbiamo chiesto un
chiarimento al Governo in ordine ai criteri utilizzati per
formulare i quadri di previsione macroeconomica su cui si basa
l'intera manovra finanziaria, e sulle ragioni delle differenze
tra queste e quelle dei principali osservatori congiunturali
nazionali e stranieri, ivi comprese istituzioni prestigiose
come il Fondo Monetario Internazionale e la Banca d'Italia. Il
Ministro Tremonti, intervenendo in Commissione, ha confermato
la previsione di una crescita del PIL del 2,3 per cento nel
2002, a fronte di previsioni inferiori di un punto percentuale
delle istituzioni indicate. Nelle stesse ore il Presidente del
Consiglio annunciava pubblicamente l'orientamento dell'Italia
a proporre una revisione del patto europeo di stabilità e
crescita. Una confusione di lingue e di orientamenti ai
massimi livelli della compagine governativa, mai chiarita di
fronte alla Commissione, che getta una luce di incertezza su
tutta la manovra.
2) Nessuna risposta è venuta alle proposte dell'Ulivo di
riqualificare la legge finanziaria con una strategia basata
sul rafforzamento della domanda, sulla definizione di
politiche per la competitività delle imprese, sul
rafforzamento delle politiche di welfare nei confronti delle
componenti più deboli della società.
3) Per iniziativa del Governo sono stati presentati
emendamenti del tutto nuovi, in materie estranee, che
intervengono su questioni oggetto di dibattito e di grande
complessità Abbiamo contestato questa scelta nel merito,
facendo anche sui contenuti proposte alternative, ma abbiamo
soprattutto dissentito nel metodo. Si è trattato in qualche
caso di veri e propri colpi di mano, finalizzati ad evitare un
confronto ampio con interessi diffusi e con opinioni pubbliche
attente. E' soprattutto il caso dell'emendamento in materie di
Fondazioni bancarie, che viene ampiamente trattato in altra
parte della relazione.
4) In compenso non sono state presentate dal Governo
proposte più volte annunciate, su materie che costituiscono
parte integrante della manovra e del programma della
maggioranza, come quelle relative all'aumento delle pensioni
minime. Il Parlamento ancora oggi non sa con quali criteri la
maggioranza intenda utilizzare le risorse insufficienti
previste dall'articolo 29, a quali categorie di pensionati
destinare gli aumenti. Siamo ancora in attesa dell'intervento
del ministro Maroni, più volte annunciato.
Non consentono di modificare il giudizio negativo che sul
piano generale formuliamo dell'iter in Commissione alcune
modifiche ottenute, anche con la proposta e l'impegno dei
parlamentari dell'opposizione, che sono tuttavia ancora troppo
timide o inadeguate rispetto alla complessità della materia
affrontata. Cito tra tutte l'estensione al 31 dicembre delle
detrazioni fiscali per le ristrutturazioni edilizie, che
risulterà largamente inefficace per la mancata estensione
contestuale della riduzione dell'aliquota IVA; oppure
l'attenuazione della norma relativa all'affidamento alla
gestione privata dei beni culturali, con l'introduzione di
regolamentazione più puntuale delle modalità di attuazione.
Una manovra inadeguata
La manovra di politica economica e di finanza pubblica
2002, all'esame del Parlamento si colloca in un contesto non
favorevole dell'economia internazionale. Già nel primo
semestre dell'anno la congiuntura internazionale aveva
evidenziato un forte indebolimento del ciclo, originato dal
rallentamento dell'economia statunitense, tale da rendere
ancora più incerte le prospettive di breve periodo.
In questo scenario, i drammatici avvenimenti di settembre
hanno influito sull'evoluzione dell'economia mondiale,
accelerando il ristagno della crescita, il peggioramento dei
bilanci pubblici, la diminuzione dei consumi e la contrazione
degli investimenti. Per L'Unione europea, il rallentamento
della crescita del PIL si è accentuato sensibilmente nel
secondo trimestre del 2001.
La svolta della politica monetaria negli USA ed in Europa
appare insufficiente a scongiurare i rischi di recessione.
Perciò anche la politica di bilancio americana è divenuta più
espansiva: sono stati varati o sono allo studio interventi per
il 2002 nell'ordine di 2 punti percentuali del prodotto
interno. Tale politica è consentita dal rilevante surplus di
bilancio accumulato nell'ultimo decennio.
Questo scenario ha riflessi anche sul quadro interno
dell'economia italiana, anche se il Governo continua a
presentare valutazioni poco credibili ed in contrasto con
quelle formulate dagli organismi internazionali e centri di
ricerca indipendenti. La nota d'aggiornamento al DPEF
2002-2006 è apparsa infatti più che altro un modo generico di
temporeggiare, uno strumento di giustificazione di una legge
finanziaria sempre meno credibile. Infatti le ultime stime del
Fondo monetario internazionale indicano all'1,4 per cento il
tasso di crescita dell'economia italiana nel 2002. Tale
livello contrasta con la previsione del governo, relativa ad
una crescita del 2,3 per cento.
In altri termini, il governo preferisce mantenere
indefinita la previsione il quadro macroeconomico, con una
sostanziale sottovalutazione delle conseguenze di una crescita
inferiore al previsto. Le stesse entrate una tantum che
integrano la copertura della legge finanziaria sono connotate
da forti incertezze in termini di attendibilità delle
previsioni.
Certo, non è responsabilità del Governo non aver previsto
il dramma dell'11 settembre scorso e l'aggravarsi della crisi
economica, ma è responsabilità grave del Governo aver fatto
credere al Paese che fosse possibile una crescita del 3 per
cento, ritenuta impossibile da tutti i più accreditati
istituti di ricerca, e soprattutto non aver organizzato una
risposta adeguata al nuovo, difficile quadro che si è posto a
livello internazionale.
Oltretutto appare paradossale che il Governo indichi nella
sua politica fiscale uno strumento anticiclico, "consentendo
un operare efficace degli stabilizzatori automatici in
risposta a fluttuazioni della congiuntura economica" (dalla
Nota di aggiornamento al DPEF 2002-2006), mentre l'Unione
Europea, unico organismo che ci potrebbe consentire l'uso
degli stabilizzatori automatici al di fuori del patto di
stabilità, ha già negato questa possibilità per il nostro
paese, in quanto il rapporto debito-PIL è fuori dai
parametri-obiettivo. Quanto ad altri stabilizzatori, di tipo
fiscale, la linea del Governo è semmai opposta. Come dimostra
la scomparsa nella finanziaria al nostro esame del recupero
del fiscal drag a danno delle famiglie e dei redditi
fissi.
In realtà, abbiamo di fronte una manovra inadeguata
rispetto alle nuove e grandi urgenze dell'economia italiana,
che non corrisponde affatto agli impegni assunti in termini di
risanamento finanziario ed equità sociale. A coronamento di
una fase, i cosiddetti cento giorni, nella quale molto si è
fatto per tutelare interessi privati e assai poco per le
effettive esigenze del paese.
Il Governo aveva annunciato che la finanza pubblica è allo
sbando. Ma la polemica sul presunto extra deficit si è
dimostrata infondata.
Nella finanziaria evapora un altro slogan del
Governo, di aver ereditato un Paese in declino. In questa
materia, come in molte altre, il tempo è veramente galantuomo:
sono oggi ufficiali i risultati raggiunti negli anni
dell'Ulivo in termini di crescita del reddito, di formazione
di nuova occupazione stabile, di nascita di nuove imprese e di
sviluppo del Mezzogiorno.
In questo senso è evidente che il cuore del risanamento
finanziario sta nella continuazione del percorso virtuoso che
il Governo di Centro-sinistra ebbe modo di attuare avviando le
riforme. Non è così, come dimostrano alcuni esempi. La riforma
fiscale è rinviata. E' vero infatti che la finanziaria propone
l'aumento ad un milione della detrazione per i figli a carico.
Ma limita questo alleggerimento e cancella la graduale
riduzione dell'IRPEF stabilita dal Governo Amato fino al 2003.
Di più, il Governo dimentica la necessità di restituire i
3.000 miliardi necessari per la restituzione del fiscal
drag se l'inflazione supera il 2 per cento. In tal modo,
l'operazione finisce per produrre un aggravio di circa tremila
miliardi. Un bel risultato per chi voleva ridurre le tasse per
tutti.
Quanto alle pensioni, questa finanziaria non specifica chi
avrà gli aumenti e come. Si prevede che sarà il Ministro del
welfare ad individuare le pensioni a cui si applicherà
l'integrazione, ma il vincolo di 2,1 miliardi di euro non
basterà ad adeguare i trattamenti dei pensionati con meno di
un milione al mese.
Così, questo doveroso intervento sui redditi più deboli
del Paese sarà effettuato in una forma che porrà dei problemi.
Il Governo dà con una mano, ma con l'altra ha già tolto,
perché l'aumento delle pensioni, per molti pensionati, non
sarà sufficiente a coprire il danno subito con la
reintroduzione del ticket per le analisi. Le poche lire
ricevute saranno annullate da ciò che dovranno pagare per il
proprio benessere sanitario.
Colpisce poi il carattere statalista e centralista di
questa manovra. La maggioranza, mentre conduceva nel Paese una
polemica sull'insufficienza della riforma costituzionale
sottoposta al giudizio degli elettori, in quegli stessi giorni
scriveva una finanziaria che arretra in modo decisivo rispetto
alle previsioni della riforma costituzionale, con norme che
intervengono pesantemente sia sull'autonomia organizzativa dei
comuni, costituzionalmente garantita, sia sul meccanismo della
compartecipazione, attuando tagli consistenti per quanto
riguarda i trasferimenti ai comuni, sia sulla capacità dei
comuni stessi di attivare investimenti.
La finanziaria, infine, tradisce le aspettative di
crescita del Mezzogiorno.
Le politiche per l'occupazione sono latitanti. Le risorse
reali diminuiscono e non sono rifinanziate numerose leggi per
incentivi, prestiti d'onore, patti d'area e imprenditoria
giovanile. Lo stesso blocco delle assunzioni nella pubblica
amministrazione e negli enti locali, l'incertezza della
situazione LSU ed il rilevante contenimento dei trasferimenti
alle autonomie potrà determinare ulteriori difficoltà per il
mezzogiorno nei prossimi anni. Si aggiunga l'incertezza
relativa a tutti gli strumenti della programmazione negoziata,
che potrebbe compromettere numerosi piani di investimento per
lo sviluppo locale, già stabiliti.
Potremmo addirittura definire questo provvedimento un
"vascello fantasma" delle promesse elettorali e delle
enunciazioni programmatiche del Governo, fatto più di assenze
che di presenze, più di misure assenti che di concrete
iniziative.
L'extradeficit che non c'è
Ma l'ambito di riferimento della manovra si presta ad
altre osservazioni. Infatti il Governo ha ribadito un livello
di indebitamento netto per il 2001, pari all'1,1 per cento del
PIL. In altri termini, assistiamo alla scomparsa del supposto
buco, o extradeficit di bilancio di 25 mila miliardi che
il centro-sinistra avrebbe lasciato in eredità all'attuale
esecutivo. Quella clamorosa denuncia era in realtà il frutto
di alcune valutazioni contabili infondate:
un incremento eccessivo (per oltre dodicimila miliardi)
delle spese per interessi e delle uscite correnti rispetto
alle stime operate dai maggiori istituti di ricerca economica
italiani;
una sottostima delle entrate, per un ammontare di 7000
miliardi rispetto all'andamento tendenziale;
omettendo di contabilizzare entrate frutto dell'azione
del precedente Governo (3600 miliardi di vendita ETI e di
imposte su plusvalenze da privatizzazioni IRI).
Il risultato di queste operazioni contabili è l'esclusione
di un ammontare di risorse prossimo a 23.000 miliardi. A
riprova, la Corte dei Conti ha dichiarato che nel 2002 sarebbe
sufficiente "una manovra correttiva con effetti netti di
dimensioni assai inferiori" a quelle esposte dal Governo nella
legge Finanziaria. Di più, la Banca d'Italia ha spiegato che
la manovra effettiva per il 2002 risulta molto inferiore a
quanto annunciato dal Governo e pari soltanto a 17.600
miliardi, pari allo 0,7 per cento del pil.
Ma come arriva il Governo al risultato dell'1,1 per cento
di deficit nell'anno in corso? Non, come correttamente il
Governo dovrebbe fare, con l'adeguamento delle previsioni di
entrate correnti, inizialmente sottostimate; ma attraverso
l'aumento a 8,2 miliardi di euro (circa 15.900 miliardi di
lire) delle entrate di capitali, imputabili prevalentemente
alla cartolarizzazione ed alla nuova disciplina sul rientro
dei capitali dall'estero. Tali previsioni sono chiaramente
infondate, in primo luogo perché il rimpatrio dei capitali non
frutterà a breve il gettito indicato. In secondo luogo perché
la cartolarizzazione procede a rilento, alla luce delle ultime
notizie che stimano in poche migliaia di miliardi il gettito
delle cartolarizzazioni nel 2001.
La stessa previsione di oltre 17,7 miliardi di euro di
entrate in conto capitale per il 2002 conferma una copertura
della legge finanziaria fondata su entrate incerte ed
eventuali, a fronte di spese certe e in qualche caso
sottostimate, come per la previdenza. Siamo in presenza
evidentemente di una impostazione contabile incerta ed
inaffidabile, confermata dalla previsione di una copertura a
posteriori della legge Tremonti-bis, introdotta al
Senato e poi modificata, provvedimento chiaramente senza
copertura, per 5.800 miliardi di lire.
Così, la copertura reale di questa legge finanziaria è
basata largamente su condoni e anticipi di entrate, che
irrigidiranno i bilanci futuri. Ed è lecito concludere che
dalla iniziale teoria di un "buco" di bilancio - che non c'era
- il vascello fantasma della finanziaria rischia di approdare
ad un "buco" che certamente ci sarà, grazie all'imperizia dei
suoi nocchieri.
Politiche di sviluppo: dove sono?
La crisi ed i rischi di disoccupazione fanno ora
riscoprire, di qua e di là dell'Atlantico, una riflessione sul
ruolo propulsivo della spesa pubblica in chiave anticiclica.
Il calo dell'inflazione su scala europea e i rischi di
recessione stimolano strategie comuni di sviluppo, compatibili
con il Patto di stabilità e crescita, che oggi vincola i
disavanzi finanziari e non i disavanzi occupazionali. Si
discute sulla possibilità che gli obbiettivi di indebitamento
possano essere al netto delle spese addizionali per il
sostegno dell'occupazione ed il rilancio delle infrastrutture.
Si discute di forti sgravi fiscali per rilanciare i
consumi.
Venuti meno i tradizionali strumenti della svalutazione,
della fluttuazione dei tassi di interesse e delle politiche
del debito, l'Italia è oggi chiamata a rendere più competitivo
il suo sistema economico mediante riforme di carattere
strutturale, che nella manovra per il 2002 non trovano
posto.
Così, potrebbero essere a rischio i progressi conseguiti
nell'ultima legislatura nel riequilibrio dei conti pubblici,
l'aumento dell'occupazione soprattutto femminile, la
moderazione salariale, l'abbattimento dell'inflazione, la
discesa dei tassi d'interesse: fattori di sviluppo che hanno
consentito al nostro paese di partecipare alla terza fase
dell'Unione monetaria sin dal suo avvio.
Ora però bisogna capire dove va l'economia e quanto
influiscono alcune politiche avviate dal Governo e le
aspettative suscitate nel paese. Il segnale prevalente, a
nostro avviso, è: si interrompe un ciclo di riforme, avviate
dai governi di centro-sinistra, e non si profila un nuovo
ciclo. Infatti, è ormai evidente che il cuore del risanamento
finanziario risiede nella prosecuzione del percorso virtuoso
avviato dal centrosinistra, attuando le riforme.
Se è vero infatti che il problema dell'emergenza
finanziaria si è ridimensionato, bisogna chiedersi quanto la
manovra sia utile per rispondere all'emergenza economica. In
altre parole bisogna chiedersi se, rispetto ai fini dichiarati
della politica economica, questa politica di bilancio sia
sufficiente per contribuire a rilanciare i consumi, a ridare
fiducia al sistema economico e, per questa via, a scongiurare
la recessione e a rilanciare lo sviluppo. La nostra
impressione è che questa legge finanziaria sia largamente
inadeguata a corrispondere alle mutate condizioni
dell'economia mondiale ed a porre le premesse per una crescita
economica equilibrata del nostro paese attraverso
l'introduzione delle necessarie riforme strutturali.
Abbiamo visto infatti quanto poco credibile sia il quadro
di riferimento, in particolare per la previsione irrealistica
di crescita del PIL, che sembra ispirata alla retorica del
nuovo miracolo italiano lanciata nel corso della campagna
elettorale.
Ma c'è di più. Questa legge finanziaria non presenta
interventi sufficienti sia sul lato della domanda, volti a
stimolare l'aumento dei consumi, sia sul lato del sostegno
alle attività produttive anche con misure di emergenza per i
settori maggiormente coinvolti dalla crisi internazionale come
quello del turismo e delle industrie esportatrici. Mancano
inoltre misure per favorire gli investimenti nella ricerca e
per incentivare la specializzazione produttiva.
Per compensare il vuoto di idee e l'inadeguatezza degli
strumenti rispetto alla situazione, il Governo richiama il
varo dei provvedimenti dei "cento giorni" per il rilancio
dell'economia. Ma è stato giustamente osservato come in un
contesto economico recessivo, quale quello che l'economia
italiana sta attraversando, i provvedimenti adottati rischiano
di non produrre effetti e comunque di non essere appetibili
per gli imprenditori che rimangono scettici sul futuro del
ciclo dell'economia mondiale, e per quel che concerne
l'Italia, sull'andamento della spesa per le famiglie, le prime
a dover essere sostenute in questa fase
Infatti gli interventi più significativi di sgravio
fiscale si riducono all'aumento delle detrazioni per i figli a
carico e alla proroga, solo parziale, delle detrazioni del 36
per cento sulle ristrutturazioni edilizie. Tali interventi
sono finanziati e più che compensati dalla sospensione del
taglio progressivo delle aliquote IRPEF previsto dalla
precedente legge finanziaria, con il risultato di interrompere
un processo virtuoso di riduzione della pressione fiscale, che
viene ora rinviato a futura memoria.
Quanto alle attività produttive, la manovra sembra
decisamente inadeguata ad affrontare i principali nodi
strutturali che incidono negativamente sulla competitività del
sistema produttivo. Rispetto ad una politica industriale, sono
infatti del tutto insufficienti le agevolazioni generalizzate
degli investimenti previste dalla Tremonti-bis, in
assenza di scelte complessive relative all'istruzione e alla
ricerca - pubblica e privata - e soprattutto in assenza di
politiche per il Mezzogiorno, in contraddizione con la
centralità assegnata dal DPEF allo sviluppo delle regioni
meridionali come volano per lo sviluppo del paese.
Oltretutto l'eccessiva frammentazione degli interventi tra
i diversi provvedimenti che concorrono alla definizione della
manovra, rende difficile la valutazione tanto sotto il profilo
della coerenza del quadro complessivo quanto sotto il profilo
degli effetti sui saldi delle singole decisioni adottate.
Il federalismo tradito
Già i primi segnali della politica del Governo hanno
dimostrato un indirizzo centralizzatore, che mal si concilia
con le dichiarazioni federaliste della maggioranza. Sta di
fatto che, a sorpresa, la prima finanziaria post referendum
costituzionale non offre nessun segnale corretto per l'avvio
di un federalismo delle autonomie locali. Le risorse
decrescono, la compartecipazione alle entrate diventa incerta,
gli ambiti di autoGoverno deperiscono. Ora, certamente abbiamo
apprezzato le modifiche apportate dal Senato, che segnalano
una marcia indietro inequivocabile del Governo su almeno due
punti incongruenti e dannosi: il divieto alle assunzioni e la
compartecipazione all'Irpef. Rimane ancora il taglio ai
trasferimenti, del tutto immotivato per le considerazione già
esposte, nonché il rinvio di qualunque intervento volto a
riformulare i criteri di riparto dei trasferimenti erariali,
che è la vera e ultima riforma di cui ha bisogno la
legislazione vigente in materia di finanza locale.
Dalle scelte concretamente adottate in materia di enti
locali, in particolare le misure concernenti il patto di
stabilità interno e la finanza locale e la riduzione dei
trasferimenti di risorse, resta comunque un progetto di Stato
centralista che mette in discussione i principi del
federalismo fiscale e determina una violazione dell'autonomia
amministrativa e organizzativa degli enti locali, solo
parzialmente corretta dalle modifiche introdotte dal Senato.
Inoltre tutti gli interventi sono orientati a un significativo
contenimento delle risorse disponibili e a una forte ingerenza
dello Stato nell'autonomia finanziaria e gestionale degli
enti.
Ora, la legge finanziaria al nostro esame non riesce ad
offrire soluzioni convincenti al problema di stabilire regole
compatibili con gli obiettivi di finanza pubblica e con il
Patto di stabilità e crescita, senza sottostime del livello
della spesa sanitaria e senza tornare indietro rispetto alla
riforma federale dello Stato, sancita dal recente referendum
confermativo.
Il Governo ritiene di avere compiuto una svolta
federalista. Non siamo d'accordo. Proprio nella finanziaria e
nel decreto-legge in materia sanitaria si possono individuare
due diverse concezioni in tema di federalismo, che si
contrappongono. Da un lato la riforma federalista realizzata
dall'Ulivo nella precedente legislatura. La sua ispirazione è
un federalismo solidale, di tipo europeo, che decentra
funzioni ed ambiti di Governo nel quadro di un'ampia riforma
istituzionale e finanziaria e nel rispetto del principio della
sussidiarietà.
Dall'altro si continua a proporre una confusa
devolution di poteri e funzioni, citata anche in alcuni
provvedimenti, i cui esiti temiamo potrebbero essere due: il
rafforzamento egoistico delle regioni ricche; la progressiva
differenziazione per quantità e qualità nei servizi sociali
essenziali tra le diverse aree del paese.
Questo federalismo delle diseguaglianze non sorprende.
La legge finanziaria 2002 va in controtendenza rispetto a
un incisivo ambito di responsabilità, funzioni e competenze
che in questi anni sono state trasferite dallo Stato agli enti
locali.
Negli articoli sugli enti locali, la finanziaria si
presenta fortemente centralista, ponendo i comuni di fronte al
rischio di essere schiacciati tra due centralismi: quello
statale e il neo-centralismo regionale. Con l'ambizione di
trasformare i comuni in gabellieri per conto dell'uno e
dell'altro. I primi a pagare questa impostazione della
finanziaria, in attesa di devolution e federalismo
economico, saranno i cittadini, che pagheranno più tasse
decise dal centro, ma applicate dai comuni, e avranno
certamente meno servizi.
Il positivo esito del referendum indica invece un'altra
strada. Gli elettori hanno scelto di continuare a costruire un
Paese solidale, tollerante e unito e hanno risposto,
nonostante gli appelli di esponenti del Governo al non voto,
indicando una chiara direzione di marcia.
Quanto ai singoli provvedimenti su comuni e province, li
giudichiamo gravi non solo per la loro entità finanziaria,
quanto per i vincoli gestionali imposti che risultano arcaici
rispetto agli obiettivi di autonomia e responsabilità seguiti
con successo negli ultimi anni. Una volta decise quali imposte
e quali trasferimenti spettino agli enti locali, il Parlamento
non può ogni anno mutare nuovamente gli assetti e soprattutto
interferire con l'autonomia finanziaria e di bilancio
dell'ente, con imposizioni specifiche. Se infatti annualmente
si ridefinisce, sia pure al margine, l'assetto della finanza
locale, con l'imposizione di vincoli gestionali specifici, si
perdono gli effetti di responsabilizzazione che l'autonomia
tributaria degli enti locali determina nelle loro politiche di
spesa e nella loro gestione.
Liberisti confusi
Vorrei contribuire a sfatare il mito della presunta
ispirazione liberale di questo Governo. Da questo punto di
vista le norme relative alla Cassa depositi e prestiti ed alle
Fondazioni bancarie appaiono significative.
Nell'articolo 37 si stabilisce che la Cassa depositi e
prestiti possa ricorrere a finanziamenti o partecipazioni.
Ora, il finanziamento delle opere pubbliche in Italia è un
problema prioritario, che richiede la mobilitazione di grandi
investimenti anche privati, ma è anche un problema complesso.
Di questo l'articolo 37 non sembra tenere sufficientemente
conto, se è vero che ricorre con estrema facilità ad una
scorciatoia. Cosa significa infatti proporre per la Cassa
Depositi e Prestiti un modello di istituto di credito
speciale, o peggio, delle Partecipazioni statali? La norma
rischia infatti, a nostro avviso, di trasformare la Cassa
depositi e prestiti in una sorta di IRI, di EFIM o di GEPI,
collocando titoli di debito tramite le banche e concedere
finanziamenti, senza alcun limite o riferimento alla capacità
del debitore di rendere i fondi mutuati, o ancora, assumere
partecipazioni senza alcun limite quantitativo. In altri
termini, si prefigura un meccanismo che, soprattutto negli
ultimi anni della sua storia, ha prodotto gravissimi danni
alla finanza pubblica, oltre ai problemi connessi ai
finanziamenti dell'industria chimica e nel Mezzogiorno.
Per questo, con i nostri emendamenti, abbiamo proposto la
soppressione dell'articolo in esame. In subordine, chiediamo
di sopprimere la norma che consente l'acquisto di
partecipazioni, o almeno di limitarne la portata ponendo un
vincolo di minoranza.
In alternativa, più direttamente, sarebbe meglio
trasformare la Cassa depositi e prestiti in società per
azioni. In questo caso è necessario che la privatizzazione
avvenga attraverso procedure di evidenza pubblica: un Governo
che a parole si dice liberale, dovrebbe procedere in questo
senso.
La vicenda delle fondazioni è ancor più paradossale.
L'articolo aggiuntivo proposto dal Governo in Commissione
costituisce il primo atto politico del Governo in materia di
fondazioni bancarie. Un atto però inserito in una sede
impropria, poiché la legge finanziaria, ai sensi della legge
208 del 1999, non può recare norme di natura ordinamentale. La
scelta di tale strumento per porre mano alla riforma delle
fondazioni bancarie appare, in definitiva, prevalentemente
motivata a limitare i tempi e l'estensione del confronto
parlamentare su un tema complesso e delicato, che domina il
dibattito politico e istituzionale da undici anni
(dall'entrata in vigore della legge Amato).
Con riferimento al ruolo degli enti locali e territoriali
nell'ambito degli organi di indirizzo delle fondazioni, il
Governo ritiene di recepire il nuovo assetto istituzionale,
derivante dalla riforma del titolo V della Costituzione,
attraverso il rafforzamento della componente territoriale
negli organi delle fondazioni.
In particolare, l'emendamento del Governo prevede che sia
"assicurata la presenza (nell'organo d'indirizzo) di una
prevalente rappresentanza del territorio, idonea a riflettere
le competenze attribuite, nei settori di intervento delle
fondazioni, agli enti diversi dallo Stato, dall'articolo 117
della Costituzione".
Nel perseguire un'apparente finalità di decentramento dei
poteri, si realizza di fatto una estensione della componente
pubblica di controllo, in controtendenza rispetto al processo
di privatizzazione delle fondazioni bancarie, avviato dalla
legge Ciampi.
Uno Stato debole
C'è un ampio accordo tra le forze politiche, come peraltro
dimostra l'attività della precedente legislatura, teso a
realizzare un processo di riorganizzazione degli enti
pubblici, che necessita della massima attenzione anche in
virtù del fatto che si rivolge ad una platea molto vasta di
strutture ed organismi. Questi segnali, se positivi in linea
generale, rischiano però di restare privi di precisi quanto
doverosi indirizzi, in qualche caso utilizzando incautamente
lo strumento della delega implicita.
Ma quel che va segnalata è anche un'altra questione, che
sottende un elemento politico di non poco rilievo: da questa
legge finanziaria emerge una linea di tendenza, che si esplica
in relazione al progetto di razionalizzazione della pubblica
amministrazione e del riordino degli enti pubblici. Una
tendenza che potremmo definire dello "Stato debole".
Il primo elemento che caratterizza questa tendenza è
l'apparente asimmetria tra mezzi e fini. Si privatizzano pezzi
di attività pubblica (e questo potrebbe in linea generale
essere accettabile), ma questo processo appare sganciato da
progetti di recupero progressivo di efficienza delle pubbliche
amministrazioni.
Evidenziando, a questo punto, la duplice natura dei fini,
da un lato ideologici, dall'altro di interesse. Come altro
possiamo definire, in concreto, l'operazione di
privatizzazione di enti, che potrebbe avere delle conseguenze
paradossali? Ad esempio, l'INAIL potrebbe essere privatizzato
anche se la sua attività non è comparabile ad alcuna attività
economica svolta dalle assicurazioni private in regime di
concorrenza. Infatti la funzione dell'Inail è diretta a
garantire "mezzi adeguati alle esigenze di vita" sulla base
dell'articolo 38 della Costituzione per ovviare alla
situazione di bisogno derivante da eventi protetti a
prescindere dalla diretta responsabilità del datore di
lavoro.
Anche l'INPS, in teoria, potrebbe trasformarsi in spa, e
concorrere sul mercato, magari con gara europea, per acquisire
battendo altre compagnie assicuratrici, una amplissima
raccolta di contributi obbligatori, teoricamente messi a
bando.
Un altro punto delicato riguarda la ricerca. Infatti, la
privatizzazione di enti come il Centro nazionale ricerche o
l'Istat sottrarrebbe al pubblico il suo ruolo decisivo, sia
per quanto riguarda lo sviluppo dell'attività di ricerca, sia
per quanto riguarda funzioni delicatissime di presidio e di
garanzia dell'interesse generale che gli enti svolgono a
tutela della collettività. Analogo discorso si può fare per i
beni culturali e per i musei.
Una ulteriore precisazione meritano le norme relative agli
istituti a carattere scientifico. Questi ospedali tra cui
possono venire annoverati alcuni dei migliori del nostro
Paese, dovrebbero trasformati in Fondazioni a capitale misto e
a gestione privata perdendo cosi' di fatto le caratteristiche
originarie di istituti pubblici. Ma se da un lato possiamo
apprezzare l'ingresso filantropico nel servizio sanitario
delle banche, delle assicurazioni, e di imprenditori privati,
non possiamo nascondere le nostre perplessità su una possibile
diversa missione, quella di realizzare profitti.
In linea generale, non riteniamo comunque conveniente per
il Paese che il Governo possa trasformare gli enti pubblici in
Spa o in fondazioni di diritto privato attraverso regolamenti,
senza alcun vincolo o limite.
Il secondo elemento di questa concezione è apparentemente
opposto, ma in realtà speculare alla tendenza dello "Stato
debole", e si caratterizza per un forte accentramento delle
decisioni nell'esecutivo mortificando il ruolo del Parlamento.
Una prima manifestazione l'abbiamo già vista con la legge
obbiettivo sulle grandi infrastrutture, con la determinazione
delle coperture finanziarie delle grandi opere, con il ricorso
ad una legge delega. In altri termini, si voleva creare una
"finanziaria-ombra" per le grandi opere infrastrutturali, che
non si capisce in quale rapporto sia con il bilancio pubblico
e la stessa legge finanziaria annuale e pluriennale.
Questa finanziaria offre la sponda alla legge obbiettivo,
andando oltre. Abbiamo infatti una norma che prevede
l'accentramento ministeriale di risorse per investimenti, cui
dovrebbe corrispondere un fondo investimenti per ogni
ministero, più o meno liberamente utilizzabile, nell'ambito
dei progetti da finanziare, in deroga, possiamo osservare,
alle norme di contabilità pubblica. Su questo argomento
varrebbe la pena di consultare il parere della Corte dei
conti.
Infatti, che senso ha trasformare la tabella D della legge
finanziaria in una sequela di stanziamenti senza alcun
riferimento a precise autorizzazioni di spesa? Nel caso delle
tabelle A e B, tale operazione è giustificata dalla natura di
accantonamenti delle poste finanziarie lì stabilite. Con
successivi provvedimenti, tali risorse sono stanziate e quindi
possono essere impegnate sulla base di norme approvate nel
corso dell'esercizio finanziario di riferimento.
Ma la tabella D della finanziaria del 2003, riformata,
recherebbe stanziamenti di spesa, cioè autorizzazioni, senza
che ne sia indicata la base normativa. Come dire, il Governo
propone una nuova contabilità di Stato, una contabilità alla
rovescia: ti autorizzo a spendere, indipendentemente da come
utilizzerai queste risorse e l'impiego di queste risorse sarà
comunque benedetto dalle autorizzazioni approvate a scatola
chiusa dal Parlamento. Direbbe il grande Totò, una legge
finanziaria "a prescindere".
Il Mezzogiorno e l'occupazione
Il Governatore della Banca d'Italia Antonio Fazio, non
certo sospettabile di astio antigovernativo, ha dichiarato che
la manovra "contiene provvedimenti più temporanei che
strutturali". Se questo giudizio vale per tutta la manovra,
dobbiamo a maggior ragione interrogarci su quella parte
importantissima relativa alle politiche per il Mezzogiorno.
Quel che manca, è anche una reale politica innovativa a
favore del Mezzogiorno. E' assente ad esempio un approccio di
competitività, per modificare le aspettative ed i
comportamenti di investimento degli operatori locali ed
esterni all'area ed attirare capitali stranieri, al fine di
accrescere la produttività del lavoro, ancora il principale
handicap delle imprese meridionali.
Invece, la maggiore attenzione del Governo sembra essere
concentrata sul volume dei salari. Proponendo i salari
differenziati a livello territoriale, o l'abolizione
sperimentale (che tanto sperimentale non appare) dell'articolo
18 dello Statuto dei lavoratori, non si avvia certo una
riflessione serena sui temi della concertazione, ma solo una
fase in cui l'unica cosa chiara è la confusione. Non è infatti
chiaro cosa siano i salari flessibili, di tipo territoriale,
aziendale o individuale che si affiancano al contratto
nazionale, che propone il Governo.
Ma il punto vero riguarda le risorse per il Mezzogiorno.
Nella scorsa legislatura, come riconosciuto da tutti gli
osservatori indipendenti, hanno avuto successo le politiche
adottate dai Governi di centrosinistra, che hanno consentito
di avviare una fase di robusto sviluppo del Mezzogiorno,
ponendo le premesse per la diffusione di una nuova cultura
favorevole ad uno sviluppo autopropulsivo, che abbia come
protagonisti i soggetti locali. Ora, tutti riconoscono che è
necessario mantenere alto il livello dell'impegno per non
interrompere la fase di sviluppo avviata, anche perché solo
una crescita decisa nel Mezzogiorno può consentire al paese di
raggiungere gli ambiziosi obiettivi di crescita del PIL.
Coerentemente, sia nella risoluzione con cui è stato
approvato il Documento di programmazione economico-finanziaria
quanto nella Relazione previsionale e programmatica, il
Governo e la maggioranza, riconoscendo la centralità del
Mezzogiorno e i risultati positivi conseguiti dai governi di
centrosinistra in questo settore, assumono l'impegno a
realizzare tassi di crescita dell'economia del Mezzogiorno
costantemente superiori a quelli medi nazionali, assicurando a
tal fine l'integrale utilizzo delle risorse comunitarie,
mantenendo la convenienza ad investire e realizzando i
necessari interventi infrastrutturali.
Tuttavia, spiace rilevarlo, non vi è corrispondenza tra
gli indirizzi approvati dal Parlamento, con i conseguenti
impegni assunti dal Governo, e la manovra proposta con la
legge finanziaria in esame, caratterizzata da una totale
mancanza di interventi in questa direzione, in particolare per
quanto riguarda il 2002. Basta pensare ai numerosi interventi
per i quali si prevede una dotazione insufficiente o uno
slittamento delle risorse agli anni successivi al 2002, tra
cui la legge n. 64 del 1986 sugli interventi straordinari nel
Mezzogiorno, gli strumenti della programmazione negoziata, il
fondo per l'imprenditorialità giovanile, il fondo di rotazione
politiche comunitarie, la realizzazione di infrastrutture, la
metanizzazione del Mezzogiorno. E ancora, sono insufficienti
gli stanziamenti per strumenti quali il credito d'imposta o il
progetto "patti per la sicurezza" che, attraverso forme di
concertazione istituzionale e misure di
corresponsabilizzazione, hanno consentito di conseguire
risultati molto positivi in materia di aiuti ai giovani e di
realizzazione di condizioni di maggiore sicurezza, rilevando
come questa riduzione di risorse non può certo ritenersi
compensata dal limitato rifinanziamento della legge n. 488 del
1992 né dagli sgravi contributivi totali.
Questo fa seguito ad altri segnali negativi contenuti in
altri provvedimenti: dalla Tremonti-bis, che oltre ad
eliminare il vantaggio ad investire nel meridione, essendo
alternativa al credito di imposta produce uno svantaggio
doppio; alla riduzione dell'accisa sul gas metano in territori
diversi dal Mezzogiorno; alla mancata nomina del direttore
generale del dipartimento per le politiche di coesione.
Con alcuni emendamenti, l'Ulivo ha indicato una strada
diversa: prevedere per il 2002 il finanziamento, almeno ai
livelli fissati dalla legge finanziaria per il 2001, di tutti
gli strumenti che in passato hanno dato così buoni risultati
per consentire al Mezzogiorno di non arrestare il processo di
crescita così faticosamente avviato nella precedente
legislatura.
Scuola e ricerca, Cenerentole della manovra
In questa finanziaria, il settore strategico della
formazione e della ricerca è fortemente ridimensionato,
pregiudicando la competitività dell'Italia in un settore
decisivo del confronto internazionale.
Agli insegnanti non è riconosciuto l'atteso adeguamento
salariale, mentre si riducono globalmente le risorse già
stanziate. Sono inoltre bloccati gli aumenti di stipendio già
decisi per il personale docente e non docente dell'Università,
mentre si congelano, per effetto del blocco del turn over
nella P.A., le assunzioni negli enti di ricerca e nelle
Università. Sono inoltre tagliati i fondi per la ricerca di
base e applicata.
Al Senato, con il contributo dell'opposizione, sono stati
apportati alcuni miglioramenti. Con le modifiche apportate al
Senato, arrivano più fondi per gli insegnanti, anche se si
deve rilevare che vanno solo a riportare la situazione in
pareggio dal momento che, in origine, era stata stabilita una
congrua diminuzione di fondi per il comparto scuola.
Ma la nostra valutazione politica permane negativa.
Infatti l'intervento sulla scuola ha come unico obiettivo
conseguire circa 2mila miliardi di risparmi, senza valutare i
rischi connessi a tale operazione quali un servizio scadente,
condizioni di lavoro dei docenti inaccettabili e una riduzione
drastica dell'occupazione (si calcola che si sopprimeranno
circa 40mila posti di lavoro).
Siamo costretti a rilevare che il Governo considera la
scuola un ordinario capitolo di riduzione della spesa mentre
noi, per aver voluto potenziare e mettere in campo politiche
di sviluppo del comparto, siamo ora addirittura accusati di
aver prodotto dei buchi finanziari attraverso l'applicazione
delle precedenti misure di razionalizzazione della spesa
scolastica.
Come Ulivo, abbiamo un'idea forte dell'educazione,
dell'istruzione, della cultura, della cittadinanza, degli
insegnanti, delle istituzioni scolastiche che per la prima
volta sono entrate come soggetto istituzionale nella
Costituzione. Abbiamo un'idea forte di queste priorità. Per
questo pensiamo che la scuola abbia bisogno di quella certezza
di risorse che non si vede nelle vostre proposte, per il
prossimo anno e per i successivi.
Per questo chiediamo nei nostri emendamenti un reale
aumento delle risorse per la qualità della scuola e per
valorizzare la professionalità docente in modo da collocarla
davvero a livello europeo. Ci si può riuscire solo se si mette
la questione al primo posto nel bilancio dello Stato e la si
aggancia al PIL.
La progressione economica degli insegnanti rimanda ad
un'idea di sviluppo della professionalità come elemento di
crescita e anche come corrispondenza alla crescita della
capacità progettuale delle scuole autonome.
Ma questo viene rafforzato se c'è una visione positiva
della contrattazione nazionale. Non è credibile infatti
affermare che non ci sono risorse, senza indicare una
alternativa di finanziamento.
Per quanto riguarda l'aspetto organizzativo della scuola
riteniamo senz'altro che ancora oggi non siano superate le
ragioni di obiezione. Infatti, noi sosteniamo che materie come
la rideterminazione degli organici, la prestazione oraria e i
regimi delle supplenze non debbano essere affrontate in sede
di finanziaria, tra l'altro con il rischio di non riuscire ad
evitare l'adozione di un criterio esclusivamente quantitativo
nel processo di razionalizzazione della spesa.
Le profonde modifiche che il testo ha subito al Senato da
parte del Governo non fanno altro che confermarci nella nostra
idea e del fatto che si è reso necessario un intervento del
Governo perché la materia si prestava ad una aleatorietà sia
dal punto di vista della copertura finanziaria che degli
effetti sulla vita della scuola.
Infine il settore della ricerca, dove i tagli attuati dal
Governo sono pesanti, gravi e soprattutto immotivati per un
paese che intende essere all'avanguardia tecnologica e
scientifica. Sono infatti state cancellate o ridimensionate
gran parte delle misure, già previste nel corso degli ultimi
cinque anni e dalla finanziaria del Governo Amato, con un
impegno di spesa programmata destinata a diminuire nei
prossimi tre anni.
L'Ulivo ha quindi presentato una serie di emendamenti che
prevedono di ripristinare circa 1500 miliardi di lire da
destinarsi alla ricerca nell'arco di tre anni, nel tentativo
di restituire almeno quanto era stato già previsto dalla
finanziaria 2001. A questo intervento aggiungiamo la proposta
dell'assunzione di 5000 nuovi ricercatori ad inizio carriera
attraverso il meccanismo del cofinanziamento che prevede di
raggiungere l'obiettivo con un impegno di soli 100 miliardi di
lire l'anno a carico del bilancio dello Stato.
Inoltre continuiamo a ritenere incomprensibile il perché
si insiste nell'applicare agli enti di ricerca il divieto di
assunzione di personale a tempo indeterminato, anche quando
essa non incide sugli oneri di bilancio, cioè anche quando non
richieda ulteriori risorse finanziarie di copertura e avvenga
nell'ambito del proprio bilancio.
A riguardo abbiamo presentato degli emendamenti per
evitare il blocco delle assunzioni presso tali enti che
inevitabilmente porterebbe al depotenziamento della loro
attività di ricerca, soprattutto in direzione di un
ringiovanimento dei loro ricercatori.
Collegati in mezzo al guado
Il Governo aveva inizialmente preannunciato disegni di
legge delega per le riforme su pensioni, fisco, mercato del
lavoro ed enti pubblici per il 15 novembre. Dei provvedimenti
collegati annunciati dal Governo, contenenti le deleghe per
l'attuazione di una politica strutturale, ne è stato
presentato soltanto uno, relativo ad occupazione e mercato del
lavoro. Già qui si registra un ritardo, che tuttavia sarà
colmato - sembra - entro la chiusura della sessione di
bilancio.
Quel che appare negativo, però, è che manca il
collegamento effettivo tra questa legge finanziaria ed i
provvedimenti - si perdoni il bisticcio di parole -
"collegati". Infatti il Governo non contabilizza alcun
risparmio in tema di previdenza, e questa può essere una
scelta in relazione all'andamento della spesa in questo
settore. I dati diffusi dalla Commissione istituita presso il
ministero del Lavoro per la verifica degli effetti delle
riforme Dini e Prodi, mostrano infatti che la spesa
previdenziale è stabile e sotto controllo. In particolare, in
cinque anni le pensioni di anzianità sarebbero costate meno
del previsto. Le misure adottate, inoltre, hanno invertito le
tendenze più negative, determinando i risparmi attesi per
effetto delle riforme adottate dal centrosinistra. In questa
situazione, un Governo responsabile dovrebbe cogliere
l'occasione della verifica con le parti sociali, per
completare definitivamente il percorso riformista avviato
nella XIII legislatura.
Ora però, con la crisi della concertazione, la situazione
è di nuovo in alto mare. Oltretutto, la proposta del Governo
in merito all'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori ha una
portata molto estesa, perché la categoria dei nuovi assunti è
vasta. Di fatto però il Governo ha determinato una rottura
della trattativa sindacale, che ci auguriamo si riesca a
riannodare.
Interessa piuttosto rilevare che una seria riforma degli
ammortizzatori sociali non solo aumenterebbe l'efficacia e
l'equità della politica del lavoro, ma contribuirebbe anche a
sciogliere alcuni nodi delicati in materia di flessibilità,
perché questa è accettabile solo se è sostenuta da una
adeguata rete di sicurezza. E' un'affermazione condivisibile,
ad esempio, che in Italia i contrasti sui licenziamenti
nascono certamente dall'assenza di un sistema di protezione
analogo a quello di altri paesi. Bene, questa legge
finanziaria non stanzia un soldo per questa importantissima
riforma, che la delega presentata al Senato prevede senza
oneri per lo Stato. Il rischio è continuare a restare fuori da
un processo europeo, se è vero che negli anni 90 c'è stata una
vera e propria ondata di riforme nei sistemi europei in
materia di tutela della disoccupazione: Francia, Gran
Bretagna, Germania, Olanda e Danimarca, con una spesa pubblica
rilevante, adeguatamente coperta in bilancio.
Lo stesso discorso si può fare in relazione alla riforma
fiscale, che il Consiglio dei Ministri dovrebbe approvare in
una delle sue prossime riunioni. Si parla di un costo di
decine di migliaia di miliardi, dei quali tuttavia non c'è
traccia nel disegno di legge al nostro esame.
Il Ministro dell'economia annuncia che la copertura della
riforma sarà reperita nel recupero dell'evasione. Ci troviamo,
ancora una volta, in presenza di una copertura incerta a
fronte di perdite di gettito certe. Le vaghe e troppo
ambiziose promesse elettorali, per ora irrealizzabili si
trasformano così in una sorta di dichiarazione d'intenti, ben
lontana un serio e puntuale provvedimento di riforma
fiscale.
Politiche sociali: un disegno confuso e pericoloso
Un altro, più generale, elemento di valutazione attiene al
progetto complessivo che ispira la manovra proposta dal
Governo, che giudico sbagliato, non conforme agli interessi
del paese e eccessivamente condizionato ad interessi parziali
e settoriali. Dalla limitazione della platea dei soggetti
interessati tanto dall'aumento delle pensioni minime quanto
dagli interventi a sostegno delle famiglie concentrati
soprattutto sulle detrazioni per i figli a carico, emerge un
progetto di welfare confuso. Dalle scelte connesse
all'avvio dei processi di liberalizzazione e privatizzazione
di servizi importanti della pubblica amministrazione, del
sistema sanitario, della gestione dei beni culturali emerge,
infine, la difficoltà di compiere una scelta chiara tra
pubblico e privato.
In particolare, restiamo fermamente contrari alla svendita
degli IRCCS e non capiamo il senso di una sperimentazione che,
nei fatti, avvia la privatizzazione dei luoghi di eccellenza
della sanita' italiana. Certo registriamo con soddisfazione la
sostanziale marcia indietro del Governo che con l'emendamento
presentato in Commissione bilancio, limita a soli tre IRCCS
l'avvio di questa sperimentazione prevedendo l'intesa con le
regioni. Un risultato che contrasta con il progetto di
smantellare la sanità pubblica.
Quanto alle pensioni, persistono forti dubbi
sull'efficacia della manovra. Durante la campagna elettorale,
la Casa delle libertà aveva promesso pensioni più dignitose.
In particolare, aveva promesso l'aumento ad un milione mensile
delle pensioni inferiori a tale limite. Ma con la finanziaria,
questa promessa è delusa. Infatti non si specifica chi avrà
gli aumenti e come. Si prevede che sarà il Ministro del
welfare ad individuare a quali pensioni si applicherà
l'integrazione. Ma il vincolo di 2, 1 miliardi di euro (4.000
miliardi di lire) non consentirà di largheggiare. Così si
ricorre alla demagogia: si promette a tutti senza avere la
certezza di poter dare. Anzi, è quasi certo che i fortunati
saranno una minoranza, circa un quarto.
Allora, occorre scegliere: o si stanziano più fondi,
oppure si indicano i beneficiari degli aumenti ad un milione.
Ci saranno i titolari degli assegni sociali? E chi resterà
escluso?
Non si può inoltre dimenticare che i contribuenti italiani
hanno un diritto giuridicamente definito alla restituzione di
almeno 3.000 miliardi di prelievo IRPEF determinato dal
cosiddetto drenaggio fiscale. Infatti il decreto-legge n. 69
del 2 marzo 1989, modificato nel 1992, prevede testualmente
che, quando l'inflazione supera il 2 per cento (e nel 2001
essa si attesterà tra il 2,6 e il 2,8 per cento, come tutti
sappiamo), la restituzione del prelievo da drenaggio fiscale è
dovuta. L'anno scorso, ha replicato il Ministro dell'economia,
non si decise in questo senso, eppure c'erano le condizioni
previste dalla legge. Certo, ma l'anno scorso si deliberò una
riduzione generalizzata delle aliquote e un aumento delle
detrazioni, pur se non così forte per i figli a carico come
quella determinata quest'anno: in quel contesto, il recupero
del drenaggio fiscale era contenuto in queste due
decisioni.
Quest'anno il Governo delibera un aumento - non una
riduzione - delle aliquote IRPEF rispetto alla legislazione
vigente (cioè alle indicazioni contenute nella legge
finanziaria dello scorso anno) accompagnato da un aumento
della sola detrazione per i figli a carico. Ne consegue che i
molti contribuenti che non hanno figli a carico si vedono
contemporaneamente aumentate le aliquote e negata la
restituzione del drenaggio fiscale.
Una proposta alternativa
Nell'iter in Commissione abbiamo presentato un
complesso di emendamenti che, nel loro complesso, configurano
una strategia alternativa basata su interventi volti al
rafforzamento della domanda ed alla qualificazione degli
strumenti di sostegno alle imprese, con particolare attenzione
alla promozione della ricerca; sull'aumento delle risorse
destinate ad interventi di tipo sociale per garantire maggiore
equità ed ampliare la platea dei beneficiari raggiungendo
anche i cosiddetti incapienti; su una politica per la famiglia
che tenga conto anche degli anziani non autosufficienti.
Abbiamo così delineato un complesso di proposte dell'Ulivo
per promuovere l'equità sociale ed uno sviluppo di qualità.
L'insieme delle progetti - il cui costo è di circa 18mila
miliardi - è finanziato attraverso un diverso utilizzo delle
risorse già previste e con adeguamento delle misure già
ipotizzate dal Governo nella legge finanziaria 2002 e nei
recenti provvedimenti dei "100" giorni.
La battaglia dell'Ulivo per cambiare questa manovra non
altera gli equilibri finanziari e si articola in quattro aree:
sostegno all'economia; scuola, universita' e ricerca
scientifica; misure di tutela sociale di tutte le fasce
disagiate della popolazione; la pubblica amministrazione e il
federalismo fiscale. Il sostegno all'economia servirà a
sostenere innanzitutto il Mezzogiorno, l'occupazione ed i
settori in crisi, come quelli dei trasporti, dei servizi e del
turismo. Poi chiediamo che si torni ad investire sulla scuola
e sulla ricerca scientifica. Sul fisco e la famiglia, le
nostre richieste di modifica mirano alla riduzione effettiva
del prelievo e ad una politica organica che da un lato
favorisca le famiglie di nuova costituzione, dall'altro
affronti il drammatico problema degli interventi di assistenza
nei confronti di familiari anziani non autosufficienti o
portatori di handicap
In particolare sono previsti:
un adeguamento del costo del condono per la
regolarizzazione dei capitali illegalmente esportati o
detenuti all'estero;
l'utilizzo delle risorse derivanti dalla Carbon tax;
un adeguamento della ridotta imposta sostitutiva sulle
partecipazioni e sui terreni edificabili;
l'utilizzo dei fondi derivanti dalla emersione del
sommerso al netto della salvaguardia dei diritti previdenziali
dei lavoratori;
la reintroduzione dell'imposta sulle successioni e sulle
donazioni per i patrimoni di importo elevato;
la ricerca, l'innovazione, la valorizzazione del nostro
capitale umano e culturale (scuola, università,
formazione);
la qualificazione della pubblica amministrazione;
lo sviluppo sostenibile, la difesa e la salvaguardia del
territorio (secondo gli accordi di Kyoto);
l'autonomia degli enti locali e la salvaguardia delle
loro risorse;
lo stanziamento di risorse per far recuperare alle
retribuzioni dei pubblici dipendenti l'aumento reale del costo
della vita.
Per le famiglie e l'equità sociale
L'Ulivo propone:
un aumento delle detrazioni per i figli anche per le
famiglie a reddito più basso;
il ripristino della riduzione delle aliquote Irpef;
l'aumento delle pensioni sociali;
la rimborsabilità delle detrazioni non godute per
insufficienza di reddito imponibile anche per i pensionati;
l'estensione del reddito minimo per le situazioni di
esclusione sociale a tutto il Mezzogiorno e fino al 2004;
l'erogazione di un assegno e di adeguati servizi per
l'assistenza e la cura a tutti gli ultra 65enni non
autosufficienti attraverso la costituzione di un Fondo
nazionale presso l'INPS;
il prolungamento fino al 31 dicembre 2002 della
detrazione dall'Irpef del 36 per cento delle spese per opere
di recupero edilizio nonché l'Iva ridotta al 10 per cento per
i materiali edili.
Attraverso l'erogazione di circa 8mila miliardi
distribuiti secondo criteri di universalità ed equità a tutte
le famiglie, questi provvedimenti consentirebbero di aumentare
fino ad un milione le pensioni sociali e quelle integrate al
minimo, di fornire adeguate risorse a circa tre milioni di
contribuenti a reddito basso e di agevolare circa 9 milioni di
contribuenti appartenenti alle altre fasce di reddito.
Uno sviluppo di qualità: sostegno all'economia e alle
imprese
L'Ulivo propone:
di ridurre il costo del lavoro di ulteriori 0,8 punti
percentuali degli oneri "impropri" (provvedimento soppresso
dal centrodestra) o la decontribuzione per i salari bassi;
per le piccole e medie imprese riduzione della base
imponibile dell'Irap di 10 milioni di lire per i contribuenti
con base imponibile fino al miliardo di lire (dagli attuali
350 milioni);
di ridurre l'Irpeg tramite l'accelerazione della Dit:
mentre il centrodestra prevede un aumento dell'Irpeg per
soppressione della Dit, l'Ulivo, per potenziare gli effetti
della riduzione dell'Irpeg stesso sulle imprese (oggi in media
già al 30 per cento) propone un aumento del "moltiplicatore"
del nuovo capitale ai fini della Dit (che aumenta la base di
calcolo dell'agevolazione ed avvicina il sistema a regime con
applicazione su tutto il patrimonio dell'impresa);
di estendere l'applicazione del credito d'imposta per
spese di ricerca e sviluppo con eliminazione del tetto di
spesa;
di porre in piena alternativa con il beneficio Tremonti
gli efficaci strumenti di incentivazione degli investimenti
diretti ed indiretti già introdotti con la legge Visco e la
Dit per salvaguardare l'affidamento dei contribuenti che
avevano programmato i loro piani prima della nuova legge (che
in molti casi li danneggia);
di ripristinare le condizioni della finanziaria 2001,
che aveva introdotto il credito d'imposta per gli investimenti
nelle aree svantaggiate, consentendo di avviare numerose
iniziative economiche che la nuova politica del Governo vuole
vanificare con la Tremonti-bis, eliminando il vantaggio
comparativo del Mezzogiorno; di rifinanziare e razionalizzare
gli strumenti della programmazione negoziata e le agevolazioni
per l'imprenditoria giovanile e il prestito d'onore.
Interventi per la ripresa dell'economia e per i settori in
crisi
Di fronte alla mancata attuazione da parte del Governo di
provvedimenti specifici nella situazione economica attuale
l'Ulivo propone:
interventi di natura transitoria per i settori più
esposti alla crisi dopo gli avvenimenti dell'11 settembre, che
consentano di superare la grave difficoltà senza soluzioni
traumatiche (fra cui l'eliminazione del tetto delle
compensazioni per le imposte dovute e i crediti d'imposta
specifici);
la riduzione di due punti dell'aliquota Iva attualmente
al 10 per cento sui generi di largo consumo per i primi sei
mesi del 2002, misura di natura transitoria che consente una
efficace ripresa dei consumi e permette di sterilizzare
eventuali effetti di aumento dei prezzi connessi
all'introduzione dell'Euro.
Onorevoli colleghi, la discussione sulla legge finanziaria
alla Camera si colloca al passaggio dei primi sei mesi
dell'attività di governo. La natura del documento che
esaminiamo e l'importanza della sessione di bilancio ci
consentono una prima valutazione complessiva, con cui voglio
concludere la mia relazione. I quotidiani di questi giorni
ripropongono uno dei temi su cui la maggioranza di governo
prova le maggiori difficoltà: la diffidenza dell'opinione
pubblica internazionale e i rapporti con l'Europa. Oggi il
problema è la cooperazione in materia di giustizia e di lotta
contro la criminalità e il terrorismo; ieri si trattava della
prospettiva del patto di stabilità e di crescita; l'altro ieri
degli accordi di cooperazione industriale nel settore
aeronautico. Si riproducono tensioni che non possono più
essere confinate al livello di singoli episodi e che si
aggiungono all'improvvisazione e al dilettantismo delle prime
uscite all'estero del Presidente del Consiglio, al nodo
irrisolto del conflitto di interessi, alle questioni delle
rogatorie e dei capitali sporchi. C'è un appannamento
dell'immagine del paese ed un indebolimento del suo ruolo,
proprio nel momento in cui la drammaticità della situazione
internazionale richiede all'Europa l'assunzione di
responsabilità sempre più importanti. Sono responsabilità
politiche, perché soltanto l'Europa può evitare che la guerra
al terrorismo si riduca alla dimensione militare, e può
contribuire invece a collocarla sul piano dello sviluppo,
della cultura, della democrazia. Ma sono anche responsabilità
economiche, perché oggi compete all'Europa guidare l'economia
mondiale fuori dalla secche della recessione e della crisi. Un
grande compito, da cui l'Italia rischia l'emarginazione:
torniamo ad essere dei partner imbarazzanti e poco
credibili e facciamo politiche nazionali inadeguate rispetto
alla dimensione della sfida.
La legge finanziaria sta dentro queste contraddizioni:
manca un'azione coerente di stimolo della domanda; manca una
strategia di valorizzazione della competitività delle imprese;
ci sono segni di cedimento sul fronte della gestione rigorosa
della finanza pubblica; si interrompe il processo di
efficienza della pubblica amministrazione. Il sogno del nuovo
miracolo economico è consegnato ai ricordi dei 100 giorni. E'
ovvia in questo quadro la nostra ferma contrarietà alla legge
finanziaria per l'anno 2002.
Gianfranco Morgando,
Relatore di minoranza