XIV LEGISLATURA
PROGETTO DI LEGGE - N. 1059
Onorevoli Colleghi! - La situazione linguistica
italiana è caratterizzata dalla presenza, accanto alla lingua
nazionale, di parlate locali che spesso divergono notevolmente
da essa. Tali parlate, soprattutto nel corso del secondo
Novecento, sono andate sempre più regredendo di fronte
all'espansione dell'italiano, favorita da diversi fattori di
natura socio-economica e culturale, che hanno avuto notevoli
riflessi linguistici, indirizzando la popolazione verso l'uso
di una lingua comune.
Tuttavia, nonostante il regresso dei dialetti, la
dialettofonia è ancora radicata nel comportamento linguistico
degli italiani.
La situazione ideale sarebbe la coesistenza di più
tradizioni linguistiche, in cui il dialetto non sia lingua
esclusiva e quindi barriera all'intercomunicazione, ma in cui
l'apprendimento della lingua (e della cultura) comune,
sicuramente indispensabile per una crescita civile, non
significhi alienazione del patrimonio linguistico-culturale di
provenienza. In questo senso si sono espressi i linguisti
italiani, fautori di un'educazione linguistica democratica,
aperta alle più diverse possibilità comunicative ed
espressive, liberamente scelte.
Gli stessi articoli 3, 6 e 21 della Costituzione tutelano
gli idiomi delle minoranze ed il diritto per tutti alla
libertà di espressione, e stabiliscono che non debbano
esservi, nel nostro Paese, discriminazioni per ragioni
linguistiche.
Tutelare oggi i dialetti e le parlate locali non significa
incentivare anacronistici particolarismi etnici, ma garantire
pari dignità e possibilità di espressione ad una pluralità di
forme espressive, considerevole patrimonio culturale per il
nostro Paese.
L'affermazione della lingua e della cultura nazionale non
deve necessariamente avvenire a scapito delle lingue e culture
locali. Così sostengono illustri linguisti e semiologi: al
rischio di una eccessiva standardizzazione e massificazione si
risponde, oggi, con la riscoperta e la valorizzazione delle
lingue altre.
Diversi sono, del resto, i segnali di un rinnovato
interesse, a vari livelli, per le parlate locali: dai poeti
contemporanei che utilizzano proprio le lingue dialettali per
le loro opere come nuove forme espressive oltre l'italiano
standardizzato e massificato, all'uso del dialetto nel nuovo
teatro di ricerca o in esperienze musicali giovanili, alla
costituzione, negli ultimi decenni, dei musei della civiltà
contadina e marinara, all'insegnamento nelle università di
"Dialettologia", "Tradizioni popolari", "Etnomusicologia",
alla produzione editoriale.
Scrive Giuseppe Bellosi sul n. 73 de Il lettore di
Provincia (Dialetti e cultura popolare in Italia
nell'ultimo quindicennio: un rinnovato interesse):
"Abbiamo già detto che il numero di coloro che parlano
in dialetto è in diminuzione costante. Il fenomeno è stato
giudicato da alcuni come positivo in quanto testimonierebbe la
volontà delle classi popolari - legate storicamente ai
dialetti - di uscire dalla loro subalternità culturale; da
altri invece è stato visto come il frutto della costrizione
del sistema economico capitalistico che, per poter contare
sulla progressiva dilatazione dei mercati fondata sulla
standardizzazione dei bisogni, favorirebbe l'omogeneizzazione
culturale rimuovendo anche gli ostacoli linguistici alla
massificazione, come, appunto, i dialetti. Osserva giustamente
Luigi Maria Lombardi Satriani: "Non si tratta, con ciò, di
diventare dialettofili, quasi che l'uso del dialetto sia in
ogni caso e automaticamente segno di vitalità culturale. Ma
neanche è esatto rinchiudersi in una dialettofobia che
identifichi arbitrariamente dialetto e povertà culturale,
dialetto e conformismo, conservazione, reazione". Molti,
invece, ritengono che l'aumento degli italofoni sia un effetto
del progresso e si mostrano perciò paghi di questo processo,
lento ma inarrestabile, di crescita culturale. A mio parere,
ritenere in ogni caso positiva la perdita del dialetto per
l'acquisizione della lingua è posizione estremamente generica
e acritica. Si dimentica che quasi sempre la fuga delle classi
dominanti dal dialetto ha portato tali classi all'acquisizione
di un italiano subalterno, per cui non solo non si è giunti
alla reale conquista di una pluralità di registri linguistici,
ma si è stati sottoposti ad un'opera di espropriazione della
propria specificità culturale".
Ideale, lo si ripete, sarebbe la coesistenza di più
tradizioni linguistiche e in questo senso si sono espressi i
linguisti italiani, fautori di un'educazione linguistica
democratica, aperta alle più diverse possibilità comunicative
ed espressive, liberamente scelte. In questo senso Tullio De
Mauro interpreta gli articoli 3, 6 e 21 della Costituzione
italiana, che stabiliscono, rispettivamente, che non possono
esservi discriminazioni per ragioni linguistiche, che gli
idiomi di minoranza siano tutelati, che la libertà di
espressione è un diritto di tutti: "Consegue da questo
complesso di norme che è una funzione pubblica generale e
primaria garantire a tutti i cittadini e a tutte le comunità
sia il rispetto e la tutela di ogni particolare tradizione
linguistica propria di comunità insediate sul territorio
nazionale sia la promozione della capacità di acquisire gli
strumenti linguistici necessari alla piena reciproca
comunicazione di tutti con tutti. La Repubblica tutela le
diversità idiomatiche, non i ghetti; tutela tutte le diversità
idiomatiche, e non queste o quelle solamente; tutela insieme
il diritto a muoversi liberamente, capendo e facendosi capire,
su tutto il territorio della Repubblica, quindi tutela il
diritto all'acquisizione di un vocabolario, una grammatica,
una pronunzia, una cultura aventi un raggio di utilizzazione
non puramente locale". E aggiunge: "Questa prospettiva, a noi
pare, è tale da spazzare via sia il sentore di reazione e
qualunquismo che accompagna a volte l'azione di certi fautori
(...) dei diritti delle minoranze in senso stretto, sia
l'esaltazione dei dialetti come "altra cultura" da
contrapporre, come ingenuo rimedio d'ogni male, alla "cultura
borghese"".
Delle indicazioni dei linguisti ha tenuto conto la scuola
che, in un passato non troppo lontano, o si era distinta nella
lotta diretta contro i dialetti o, nel migliore dei casi,
aveva rimosso il problema, ignorando l'esistenza delle parlate
locali e della dialettofonia degli alunni, considerando il
dialetto nocivo all'apprendimento della lingua nazionale e
quindi da estirpare o da ignorare. I programmi didattici per
la scuola primaria, del 1985, riconoscono che ogni bambino "ha
un'esperienza linguistica iniziale di cui l'insegnante dovrà
attentamente rendersi conto e sulla quale dovrà impostare
l'azione didattica", proponendosi l'obiettivo di far
conseguire la capacità di comunicare correttamente in lingua
nazionale, a tutti i livelli, dai più colloquiali e informali
ai più elaborati e specializzati e rispettando "l'eventuale
uso del dialetto in funzione dell'identità culturale del
proprio ambiente". Nei programmi di insegnamento per la scuola
media inferiore, del 1979, si riconosce che "La particolare
condizione linguistica della società italiana, con la presenza
di dialetti diversi e di altri idiomi e con gli effetti di
vasti fenomeni migratori, richiede che la scuola non prescinda
da tale varietà di tradizioni e di realtà linguistiche. Queste
vanno peraltro considerate, dove esistono, come riferimento
per sviluppare e promuovere i processi dell'educazione
linguistica anche per la loro funzione pratica ed espressiva
come aspetti di culture ed occasione di confronto
linguistico". Ma per la concreta applicazione di tali princìpi
nella pratica didattica mancano indicazioni metodologiche e
strumenti adeguati. "Ad esempio difficilmente i libri di
testo, anche i migliori, riescono ad essere strumenti
sufficientemente validi a meno che non vengano integrati da
manualetti aggiuntivi e intercambiabili, diversi da regione a
regione. La stessa ricerca sui vari italiani regionali, o sui
diversi dialetti, è lontana dall'essere completa e
dall'offrire strumenti di riferimento teoricamente omogenei.
Tanto meno esistono fatiche contrastive tra italiano e
dialetti complete e utilizzabili in chiave pedagogica".
Merita di essere letta anche una "inchiesta fra scrittori,
poeti, sociologi, specialisti" dal titolo I dialetti e
l'Italia compiuta da Walter Della Monica e uscita nel 1981,
da cui risulta che la maggioranza degli intervistati ritiene
negativo l'abbandono del dialetto, a favore del quale,
riproponendo la nota posizione dei linguisti, si esprime anche
Umberto Eco: "L'Italia ha dovuto lottare a lungo contro la
permanenza dei dialetti che impedivano alla maggioranza dei
cittadini di adire alla conoscenza della lingua nazionale,
strumento indispensabile per una crescita civile. I dialetti
in tal senso rimanevano come elementi di una divisione di
classe. Tuttavia, grazie anche all'avvento dei mezzi di massa,
la lingua nazionale si è imposta anzi, in molti casi, si è
imposta come fattore di standardizzazione "anonimizzante", e
con funzioni negative. A questo punto il problema del recupero
delle tradizioni dialettali e del dialetto come lingua di
base, capace di favorire la comunicazione di valori locali, in
alternativa ai valori imposti dai mezzi di massa, ritorna come
problema di un recupero d'autonomia. In altri termini, il
dialetto è una condanna per chi non ha mai potuto impadronirsi
della lingua nazionale, ma deve essere una possibilità
positiva per chi lo può scegliere come secondo strumento
espressivo".
Alcuni intervistati riconoscono che sulla loro produzione
artistica incide anche il dialetto. Affermava per esempio,
Federico Fellini: "In tutti i miei film il dialetto, sia esso
romagnolo o romanesco o quello dell'entroterra napoletano di
2.000 anni fa, è il linguaggio verbale più diffuso non
soltanto per motivo di credibilità, di coerenza, di folklore o
di suggestione, ma perché il dialetto riesce ad esprimere con
una forza, una violenza addirittura visive, folgoranti
connotazioni di tipo storico, psicologico, sociologico,
emotivo. Insomma, dei tanti segni in cui la vita e la storia
si coagulano, il dialetto è il riverbero più vivido, una
sonora, incessante metafora da proteggere e conservare".
Ma l'aspetto senz'altro più rilevante del recupero dei
dialetti, proprio nel momento in cui essi sono in crisi come
lingue parlate, è il loro uso come lingue letterarie.
Si registra in alcune regioni, per esempio in Romagna, una
straordinaria fioritura di compagnie teatrali di dilettanti
che portano sulle scene testi dialettali riscuotendo grande
successo di pubblico, anche se la qualità dei testi e della
recitazione non supera quasi mai un interesse puramente
locale. Il caso di Eduardo De Filippo è del tutto eccezionale
nel panorama del teatro dialettale del Novecento.
In questo dopoguerra, ma soprattutto nell'ultimo
quindicennio, ad opera di autori di ambiente dialettofono,
sono state invece composte, nei diversi dialetti, alcune delle
più significative opere della poesia contemporanea.
Pier Vincenzo Mengaldo, che ha inserito molti dialetti
nella sua antologia Poeti italiani del Novecento,
pubblicata da Mondadori nel 1978, afferma che la categoria di
poesia dialettale è improponibile, stante l'"estrema varietà
delle motivazioni e finalizzazioni (...) che sorreggono i
singoli impieghi poetici dei dialetti"; tuttavia, tenendo
conto del fatto che i dialetti hanno in comune, per
definizione, l'opposizione verso la lingua nazionale, "la
varietà delle condizioni o realizzazioni individuali non deve
impedire di scorgere e sottolineare gli elementi comuni e
unificanti, determinati dall'unità del fenomeno con cui tutti
si confrontano e a cui tutti si sottraggono, l'egemonia della
cultura e della lingua (poetica) "nazionale". Si può dire,
rapidamente, che alla pluralità frazionatissima delle
operazioni e degli esiti (...) si contrappone il carattere
almeno parzialmente unitario della genesi e - ciò che va
fortemente marcato - della ricezione. In questo senso la
resistenza e controffensiva odierna della poesia in dialetto
può e deve essere interpretata anche, globalmente, come atto
di rifiuto e opposizione, magari in articulo mortis,
alla sempre più spietata rapidità del processo di
accentramento livellatore che sta completando la distruzione,
avviata all'origine dello Stato unitario, di quelle
variatissime differenze e peculiarità di lingua e di cultura
che erano una delle ricchezze, e delle più originali, del
nostro Paese".
Non diversamente si esprime Franco Brevini, nel saggio
introduttivo alla sua recentissima silloge Poeti dialettali
del Novecento, pubblicata da Einaudi nel 1987, quando
afferma che "proprio dall'imporsi sempre più incondizionato
dell'italiano standard trae una delle sue più profonde
ragioni di essere tale poesia" e individua all'origine del
fenomeno le medesime tensioni che sono alla base della ripresa
del particolarismo etnico e linguistico di cui si è detto.
Tuttavia la poesia dialettale, nei suoi esiti migliori, è
un fatto essenzialmente letterario, in cui la scelta del
dialetto è anzitutto scelta di una lingua poetica personale,
che può portare a forme elitarie di espressione del discorso
interiore (Mengaldo parla, in proposito, di "endofasia", di
"dialettalità introversa"), ma attraverso la quale "possono
affiorare, magari contro le intenzioni o all'insaputa
dell'operatore (che non di rado approda al dialetto, con la
formula di Montale, soprattutto "per saturazione letteraria"),
i contenuti di una cultura "diversa" propria del mondo
emarginato che in tale parlata si esprime e di quella che
potremmo chiamare la sua anti-storia o non storia". Per una
giusta valutazione del fenomeno occorre inoltre tenere
presente che i poeti che usano il dialetto vivono in una
dimensione culturale ben più ampia di quella regionale (spesso
sono da essa lontani anche fisicamente) e hanno talvolta
maturato esperienze artistiche di alto livello in altri campi,
come, ad esempio, il romagnolo Tonino Guerra, trapiantato a
Roma, ma che conserva solidi legami con il suo paese
d'origine, sceneggiatore cinematografico (ha collaborato con
Fellini, Antonioni, Tarkovskij), romanziere in lingua
italiana, che ha scelto per scrivere le proprie poesie il
dialetto santarcangiolese.
Scrive Tullio De Mauro su La rivista dei libri,
ottobre 1992 (Una legge per le lingue):
"Dialetto locale, in forme più o meno colte, e francese
erano, a metà ottocento, le lingue "vive e vere" (per
riprendere la famosa espressione manzoniana) delle borghesie
colte delle diverse città italiane. Ma non l'italiano stesso,
relegato al rango di lingua di atti ufficiali scritti e di
scritture letterarie.
Soltanto dopo l'unificazione politica del Paese, ma di
nuovo con grande lentezza e con modalità diverse da una
regione all'altra, è cominciato un processo di convergenza di
più ampi strati sociali verso l'uso scolastico e scritto
dell'italiano. Ma ancora a inizio anni '50 solo il 17 per
cento della popolazione usava abitualmente l'italiano, e circa
il 65 per cento sapeva servirsi e si serviva soltanto di uno
dei dialetti. Dagli anni '70, indagini campionarie della DOXA
e dell'ISTAT ci hanno consentito di seguire la lenta marcia
dell'italiano da lingua "d'elezione" verso il ruolo di lingua
naturale, se non ancora nativa per la maggioranza. Secondo
l'ultima indagine ISTAT disponibile, oggi l'87 per cento della
popolazione dichiara di sapere usare l'italiano, solo il 13
per cento resta legato in modo esclusivo a parlate diverse
(dialettali o, in zone circoscritte, alloglotte). Ma solo il
38 per cento della popolazione dichiara di usare sempre, anche
tra le mura di casa, l'italiano. Fra il 13 per cento di
dialettofoni (e alloglotti) esclusivi e il 38 per cento di
italofoni esclusivi, si installa il 49 per cento della
popolazione che dichiara di usare alternativamente, a seconda
delle circostanze, ora l'italiano (soprattutto in pubblico,
con persone note) ora uno dei persistenti dialetti e idiomi
alloglotti (soprattutto in famiglia e con amici).
Perché potesse progredire l'acquisizione dell'italiano
attraverso la scuola, cento e passa anni fa Graziadio Isaia
Ascoli, caposcuola della linguistica italiana, e Francesco De
Sanctis delinearono una politica linguistica della scuola che
facesse leva sui dialetti locali al fine di una migliore
acclimatazione dell'italiano in ambienti che ne erano lontani.
Nonostante i consensi successivi di personalità eminenti, come
Giuseppe Lombardo Radice, i Ministri Benedetto Croce e
Giovanni Gentile, Antonio Gramsci e, tra i linguisti, a tacere
d'altri, Giacomo Devoto, la scuola per un secolo si è mossa su
linee di ottuso disprezzo delle realtà dialettali, di condanna
e spregio dei dialetti, con risultati catastrofici (ancora nel
1961 due terzi della popolazione italiana erano privi di
licenza elementare, si dicessero o no analfabeti: eppure dal
1900 tutti avevano messo piede in prima elementare).
Soltanto a partire dal rifacimento dei programmi della
scuola media dell'obbligo, ad inizio degli anni '80, poi delle
elementari, le indicazioni di Ascoli, De Sanctis, Lombardo
Radice, Devoto, sono state accolte e sono diventate testo di
programmi ormai operanti. Naturalmente i programmi aprono la
porta anche al riconoscimento dell'attenzione alle parlate
alloglotte; ma, mentre ai fini del rapporto tra italiano e
dialetti l'attenzione didattica stimolata dai programmi e il
rispetto per le realtà dialettali sono sufficienti,
diversamente stanno le cose per gli idiomi alloglotti. Per
insegnanti e per alunni la distanza tra italiano e idioma
alloglotto è troppo marcata perché sia colmabile attraverso
confronti artigianali e prese in carico occasionali di testi
non italiani, in dialetto: così si insegnano congiuntamente
l'amore e il rispetto per la lingua e i dialetti, e ciò basta
a salvaguardare un equilibrato rapporto tra uso dell'italiano
ed eventuale persistente uso di parlate dialettali; ma la
salvaguardia di idiomi assai distanti dal blocco dell'italiano
e dei dialetti italoromanzi richiede altro che indicazioni
sulla miglior didattica dell'italiano. Richiede decisioni
politiche generali e programmi e spazi didattici specifici,
posto che tale salvaguardia paia desiderabile".
Alcune regioni italiane hanno realizzato provvedimenti
legislativi ispirati ai princìpi sopra richiamati. Cinque sono
le leggi regionali che trattano in maniera organica della
tutela e valorizzazione del dialetto (Sicilia, Liguria,
Friuli-Venezia Giulia, Sardegna, Emilia Romagna).
La presente proposta di legge, composta da quattro
articoli, intende costituire un riferimento normativo
nazionale in materia di tutela e valorizzazione dei
dialetti.