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La seduta, sospesa alle 12,05, è ripresa alle 12,45.
PRESIDENTE. (Si leva in piedi e con lui i deputati ed i membri del Governo). Onorevoli colleghi, cinquant'anni fa fu approvata a Parigi la Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo: in questo momento, presso la Farnesina, il Presidente del Senato, nella sua qualità di supplente del Capo dello Stato, sta ricordando nella cerimonia ufficiale l'avvenimento.
l'attivazione di una concreta strumentazione per proteggere quei diritti; tuttavia, quel documento, che oggi è sottoscritto da 185 paesi, è stato una conquista irreversibile.
30 mila civili che ogni anno allungano la lista degli invalidi colpiti dall'esplosione di una mina. Ci sono oggi oltre 100 milioni di mine attive, collocate in 80 paesi.
ACHILLE OCCHETTO, Presidente della III Commissione. Signor Presidente, onorevoli colleghi, innanzitutto mi associo alle parole del Presidente Violante. La celebrazione della ricorrenza del cinquantesimo anniversario della Dichiarazione dei diritti universali dell'uomo deve essere un'occasione non ipocrita per affrontare i compiti, gli obiettivi, i doveri che ciascuno di noi, come individuo o come Stato, deve assumere perché tale alta e nobile dichiarazione possa divenire realmente operante, possa inverarsi nella vita dei popoli e degli Stati e nelle stesse relazioni interpersonali.
e la loro applicazione in un mondo che conosce un accidentato e tormentato sviluppo ineguale, sia per i differenti punti di partenza economici sia per l'acquisizione culturale del valore imprescindibile di determinati diritti.
alle Nazioni Unite; occorre rendere possibile, senza il veto di Stati, grandi o piccoli che essi siano, un effettivo diritto di ingerenza umanitaria soprattutto quando si tratta di far rispettare quei diritti.
PRESIDENTE. La ringrazio, presidente Occhetto.
MARCO FOLLINI. Signor Presidente, questo è stato il secolo delle oppressioni
più agghiaccianti, più straordinarie: il secolo nel quale si è maggiormente piegata la storia e si sono maggiormente piegati gli uomini, ma è stato anche il secolo nel quale i diritti dell'uomo sono stati gridati con voce più alta, proclamati, coltivati e sanciti con la Dichiarazione che oggi celebriamo.
PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l'onorevole Mantovani. Ne ha facoltà.
RAMON MANTOVANI. Signor Presidente, le sue parole hanno un alto valore morale.
messo al margine e al centro sono stati collocati la finanza, il mercato, il profitto e gli interessi di grandi società multinazionali (oggi in numero di 40 mila) che non guardano al sottile e sono disposte a devastare territori, ad affamare popoli e a passare sopra ogni sorta di diritto.
PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l'onorevole Saraceni. Ne ha facoltà.
LUIGI SARACENI. Signor Presidente, oltre alle celebrazioni rituali, ritengo sia opportuno redigere un bilancio dopo cinquant'anni dalla Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo.
GIACOMO GARRA. L'Unione Sovietica non esiste...!
LUIGI SARACENI. L'Unione Sovietica ha tanti demeriti, ma certo ha il merito di aver collaborato a fermare il nazismo ed il fascismo: su questo non c'è dubbio!
PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l'onorevole Brunetti. Ne ha facoltà.
MARIO BRUNETTI. Signor Presidente, avrei voluto prendere la parola nella mia qualità di presidente del Comitato per i diritti umani, anche per dar conto in questa seduta così solenne di un proficuo sforzo iniziato, in questa legislatura, sul tema dei diritti negati e per sottolineare, così, la positività di un'articolazione del lavoro parlamentare che deve andare a merito di questo Parlamento.
PIETRO MITOLO. E il comunismo?
MARIO BRUNETTI. ...viene oggi messa in discussione da parte di un nuovo totalitarismo: i valori della «teologia neoliberista» e del «pensiero unico» che hanno prodotto una società egoista e cinica, in cui una piccola casta economica e finanziaria potente trasforma in merce persino gli organi dei poveri del mondo che lottano per il diritto alla vita. Essi spesso trovano solidarietà solo nelle organizzazioni di volontariato che, con grande sacrificio e con rischio della vita, operano in varie parti del mondo.
PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l'onorevole Sbarbati. Ne ha facoltà.
LUCIANA SBARBATI. Signor Presidente, onorevoli colleghi, la dichiarazione universale dei diritti umani compie oggi cinquant'anni ed il nostro paese sta mettendo
in campo una serie di iniziative - quella odierna è un esempio - tra le quali la più emblematica si svolge oggi ad Assisi: «Mille luci contro l'indifferenza». Riflettendo bene sul titolo, dovremmo commentare con molto imbarazzo la così scarsa presenza di deputati ad un dibattito di grande importanza. Esso avrebbe dovuto essere trasmesso in diretta televisiva per essere ascoltato come una lezione di educazione civica da tutti i nostri studenti; sicuramente avremmo fatto un'opera meritoria.
affermato: il Governo presenterà una normativa che riguarda l'integrazione, pur sapendo che questo non è possibile. Lei ci invita sempre a redigere leggi corrette e giuste sotto il profilo giuridico ed io ritengo questo un atto inqualificabile. Voglio denunciarlo oggi perché il Governo assuma la consapevolezza che non si può, ritualmente, fare un discorso celebrativo su questioni che non si sentono ed il fatto che non vengono sentite da un Governo di centro-sinistra è inqualificabile, per me intollerabile, e colgo l'occasione per chiedere a lei, Presidente, che si faccia parte in causa affinché il Governo ritiri quell'emendamento e ripristini la normativa del testo unico, che è in perfetta sintonia con la legge n. 104, affinché i diritti dei portatori di handicap siano tutelati.
PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l'onorevole Manzione. Ne ha facoltà.
ROBERTO MANZIONE. A pochi giorni dall'avvio dell'euro, della moneta che rappresenta il simbolo dell'idea dell'unità europea, di quell'idea di movimento, di impresa di cui furono tenaci assertori Winston Churchill, De Gasperi, Adenauer, celebriamo un anniversario importante, quello che segna l'avanzamento delle grandi idee sulla via della storia dell'umanità che, innegabilmente, affonda le sue radici nella civiltà cristiana, trova i suoi fondamenti nel diritto di libertà di religione e di eguaglianza che è alla base dei diritti umani e civili e, per il credente, le trova nel libro delle origini, ricercando e individuando un fondamento ancora più solido e profondo.
via del progresso e della civiltà. Occorre agire senza eccessivi trionfalismi e senza scoraggianti scetticismi, convinti che è certo difficile per la comunità mondiale avanzare rapidamente su questo terreno, rafforzando il sistema dei controlli, fermamente decisi a sottolineare le inadempienze nell'applicazione della dichiarazione; inadempienze che a volte sono più gravi delle stesse violazioni, in quanto spesso coinvolgono intere popolazioni.
PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l'onorevole Cavaliere. Ne ha facoltà.
ENRICO CAVALIERE. Signor Presidente, sono molti i paesi membri delle Nazioni Unite che sottoscrivono o fanno dichiarazioni in favore della condanna di crimini contro l'umanità, contro le guerre e l'uso di armi di distruzione di massa, contro lo schiavismo, contro lo sfruttamento dei minori nel lavoro, contro il commercio internazionale degli organi, contro la prostituzione, contro la tortura, l'arresto, la detenzione e l'esilio arbitrario, in difesa del diritto alla vita, alla libertà ed alla sicurezza della persona, alla libertà di pensiero e di espressione.
portato ad un diffuso benessere sociale e sempre più acuiscono le distanze tra chi ha e chi non ha, ingrandendo le fila della già vasta categoria di coloro i quali vivono in stato di sussistenza minima o addirittura di povertà.
affinché il deferimento ad una siffatta corte dei responsabili di azioni contro il diritto umanitario internazionale e la confisca dei profitti e dei beni ottenuti con comportamenti criminali sia un serio ostacolo al ripetersi della storia dei crimini contro i popoli e gli individui.
PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l'onorevole Giovanni Bianchi. Ne ha facoltà.
GIOVANNI BIANCHI. Signor Presidente, colleghi, è convinzione del gruppo dei popolari e democratici che quello odierno sia un appuntamento di decisiva importanza, non soltanto per fare memoria di un documento di valore indiscutibile e fondante, ma anche per riscoprirne le potenzialità, che in questi cinquant'anni, e addirittura in questi giorni convulsi, si sono evidenziate quanto mai opportune. Non a caso la Dichiarazione può essere intesa alla luce dei documenti e dei passi successivi: davvero una lunga strada, cui oggi corrisponde una giornata di straordinaria mobilitazione nazionale ed internazionale.
Sen ponendo «l'accento sulla libertà individuale come impegno sociale». Due approcci che si tengono insieme e che guardano alla dichiarazione dei diritti umani dentro un processo che è andato via via radicalizzandosi: intendo riferirmi al percorso non univoco, e non privo di pause e ritorni all'indietro, della crisi dello Stato-nazione. È in questa luce che la Carta appare una intuizione profetica rispetto a un ordine internazionale che vedeva il superamento di vecchi nazionalismi e la costruzione di un nuovo diritto universale. Uscivamo allora da una guerra civile internazionale che aveva assistito alla crisi del diritto europeo e aveva visto dissolversi nel concetto di nemico qualsiasi valore di persona.
PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l'onorevole Trantino. Ne ha facoltà.
ENZO TRANTINO. Signor Presidente, onorevole rappresentante del Governo, colleghi, tra qualche ora ci incontreremo presso il municipio di Assisi per ricordare ancora, in un atto di coerenza che non sarà una mera ripetizione, un sentimento e un impegno civile. Avremo la fortuna della coerenza: non si può dire che simile virtuosa attività abbia esercitato l'onorevole Mantovani quando ha ricordato che vi è stato un ministro Andreatta mercante d'armi; si dà il caso, onorevole Mantovani, che tale piazzista d'armi fosse sostenuto dal suo voto in occasione della fiducia che da lei riceveva.
RAMON MANTOVANI. È altrettanto criticabile!
ENZO TRANTINO. Devo anche ricordare all'onorevole Sbarbati che ci troviamo in una posizione migliore dal punto di vista della serenità di coscienza di quanto non si trovi ella, onorevole collega, nel sostenere un Governo che giustamente rimprovera per essere stato colpevolmente disattento sul problema dell'handicap (uso soltanto un eufemismo).
l'abbassamento totale della morale internazionale quanto al rispetto dei valori fondanti, reclama la codificazione di norme internazionali. L'Assemblea generale delle Nazioni Unite, il 10 dicembre 1948, nella sua terza sessione, approvò la Dichiarazione universale, un documento non vincolante se non sul piano etico-politico. L'Italia aveva allora altri problemi: si scriveva sui giornali «Pane bianco per tutti»! Le quattro pagine del Corriere della Sera dell'11 dicembre 1948 non recavano una sola parola sull'evento per come oggi lo definiamo; Piovene, in una corrispondenza da Parigi, definì quel trattato «prezioso teatro di duelli verbali per evitare quelli veri» (84 giorni di sedute e 10 milioni di parole)!
se la Corte, giudicando positivamente il rapporto della Commissione, riconoscerà lo Stato convenuto in giudizio colpevole di violazioni di diritti sanciti dalla Convenzione europea. La superiore tesi negativa, oggi prevalente, riconosce poteri istruttori sprovvisti di sanzione alla Commissione, mentre la Corte si pronuncia accogliendo il ricorso a decidere misure esemplari: si allarga così la forbice tra persona soggetto di tutela concreta e individuo destinatario di principi, mai reintegrativi dei «vulneri prodotti» in questo ambito conflittuale. Pur tenendo conto delle diverse sovranità internazionali interessate da pronunce di giustizia domestica, nel conflitto giuridico si può giocare una nuova partita - onorevole Presidente, mi rivolgo a lei giurista - arricchendo di competenze il Tribunale penale internazionale. Ferme restando le regole della res iudicata, può utilmente inserirsi l'istituto, spesso compresso o depresso, della revisione che, con filtri d'accesso rigorosi per evitare l'ingorgo determinato dall'attivismo dei soccombenti, potrebbe aprire scenari di nuova civiltà giudiziaria, con la prevalenza della persona sull'individuo.
PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l'onorevole Rivolta. Ne ha facoltà.
DARIO RIVOLTA. Signor Presidente, è naturale in una giornata di commemorazione che si rivolgano parole di plauso, come da più parti ho potuto sentire, rispetto all'argomento che viene ricordato. Non posso, con tutta franchezza e sincerità, che unirmi al plauso che riguarda i contenuti della Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo, nonostante si debba constatare a volte credo capiti a molti colleghi, che tale Dichiarazione, non solo in alcuni paesi del mondo occidentale ai quali si è fatto riferimento, ma persino nel nostro paese non sempre trova una completa applicazione. Mi riferisco, in particolare, ad alcuni articoli, come quelli che vanno dal 7 al 12, della Dichiarazione stessa.
convincimento - si tratta di un processo forse lungo, in alcuni casi - essa potrà trasformarsi in comunione di valori tra tutte le culture oggi presenti nel mondo. Non dimentichiamo, infatti, che le differenti culture asiatiche o la stessa cultura araba vivono in maniera assai relativa molti degli assunti presenti in questa Dichiarazione dei diritti dell'uomo, che si definisce universale. La cognizione e la coscienza della relatività, almeno in partenza, di questi nostri valori deve essere presente soprattutto oggi, nel momento in cui l'Italia si accinge, tra i primi, a sostenere un'idea largamente condivisa nel mondo occidentale, quella cioè del Tribunale penale internazionale. Quest'ultimo avrà tante più chances di successo, quanto più coloro che cercheranno di sostenere, attorno ad esso, l'affermazione dei valori che noi condividiamo si renderanno conto che questa dichiarazione, che viene definita universale, tale ancora non è, ma lo deve diventare. Non vorrei aggiungere altre parole, perché correrei il rischio di cadere nella retorica, ma dopo aver sottolineato questo concetto di relatività, che non dobbiamo dimenticare, non posso che unirmi all'auspicio già formulato: che nell'interesse di tutta l'umanità noi si riesca a tradurre in pratica l'opera di convincimento di tutte le altre culture e la convergenza delle altre culture verso di noi.
PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l'onorevole Mancina. Ne ha facoltà.
CLAUDIA MANCINA. Signor Presidente, nel 1948 le Nazioni Unite contavano 56 Stati membri, certamente un gruppo ristretto, eppure ebbero l'audacia di immaginare e sottoscrivere la dichiarazione: un impegno che si chiamò «universale» e si volle vincolante per tutti i paesi del mondo. Oggi gli Stati membri delle Nazioni Unite sono 185, dunque quell'universalità è molto più reale che nel 1948.
gravi continuino ad essere perpetrate), noi sappiamo che il riconoscimento formale dei diritti è già un passo importante, perché rende le violazioni più difficili e dà all'opinione pubblica, interna e internazionale, un formidabile strumento di lotta contro i governi che non rispettino quei diritti che pur formalmente riconoscono.
PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare, a titolo personale, l'onorevole Furio Colombo. Non essendovi obiezioni, ne ha facoltà.
FURIO COLOMBO. Signor Presidente, il mio intervento a titolo personale deve molto ad una sua frase del discorso di apertura, quando lei ha parlato della necessità di costruire un metro di speranza, di azione, di impegno, di tensione al di là dell'orizzonte. È, questa, una frase poetica che, però, ricorda alcune situazioni concrete, come il tentare di strappare la terra all'acqua, di alzare il suolo del Bangladesh di due centimetri all'anno per limitare l'area delle inondazioni.
- esprime anche un desiderio, il desiderio di predisporre un progetto concreto, un qualcosa di reale che questo Parlamento può fare e che questo Governo può realizzare, mentre noi siamo parte della vita pubblica.
PRESIDENTE. Ha facoltà di parlare il ministro per le riforme istituzionali.
GIULIANO AMATO, Ministro per le riforme istituzionali. Signor Presidente, dirò poche parole per associare il Governo all'importante celebrazione di un documento, che, nel suo cinquantesimo anniversario,
ci impone di fare un bilancio e di assumere degli impegni, come gli ultimi ed i tanti altri che sono stati qui ricordati.
Europa abbiamo pagato con la morte di milioni di esseri umani, uccisi prima di arrivare a capire che l'appartenenza etnica non dà alcun titolo al non riconoscimento degli altri. Questo è un problema che il mondo ha ancora davanti e che ci pone di fronte ad un cammino aspro e difficile, alla cui realizzazione però tanti hanno cominciato a concorrere. C'è quindi motivo, se non di ottimismo, di speranza che gli esseri umani riescano in futuro ad essere fedeli alle dichiarazioni e all'espansione di queste ultime, da tutti largamente condivise.
PRESIDENTE. La ringrazio, signor ministro, come ringrazio tutti i colleghi che sono intervenuti e che sono stati presenti. Prenderemo in considerazione la proposta dell'onorevole Furio Colombo in ordine all'eventuale preparazione di un documento contenente gli atti di questa celebrazione.
In questi primi cinquant'anni siamo andati avanti, è vero, ma il bilancio ci dice che vi è ancora molto da fare: il bipolarismo internazionale e la guerra fredda, spaccando il mondo in due parti, ideologicamente contrapposte, non hanno consentito che alla Dichiarazione seguisse
L'affermazione dei diritti dell'uomo è oggi messa in discussione da due ordini di questioni: la prima riguarda la difficoltà di costruire strumenti internazionali adeguati a garantire, in concreto, i diritti universali enunciati a Parigi. A questo proposito, un ruolo fondamentale potrà avere la Corte penale internazionale permanente sui crimini contro l'umanità, per la quale l'Italia ha avuto ed ha un ruolo di primo piano. Il 1o dicembre è stata superata la soglia dei 60 Stati firmatari del trattato istitutivo ed ora si apre la fase cruciale della ratifica: dalla sua rapidità dipende l'entrata in vigore e l'effettivo avvio dell'attività della Corte. Il nostro paese ha ospitato la conferenza che ha redatto il trattato e ne è stato il primo firmatario: è importante che il nostro impegno continui, perché il trattato possa essere operativo quanto prima possibile.
La seconda difficoltà deriva dall'espandersi prepotente dei processi di globalizzazione dell'economia, della tecnologia e delle comunicazioni. Con la globalizzazione dei mercati e delle comunicazioni, le ragioni del mercato rischiano di prevalere e di travolgere le ragioni dei valori: è necessario impegnarsi affinché alla mondializzazione dell'economia corrisponda un processo analogo per i diritti degli uomini (occorre globalizzare anche i diritti). In molti paesi del sud del mondo, alcuni importanti diritti, come quello all'istruzione, al lavoro, alla sicurezza sociale fino a quello alla vita - fondamentale - sono tuttora negati a causa della povertà, che ancora oggi costituisce, secondo l'Organizzazione mondiale della sanità, la principale causa di morte nel mondo.
Nella povertà esiste anche una discriminazione che riguarda donne e bambini: ogni anno, in tutto il mondo, muoiono 13 milioni di bambini sotto i cinque anni per malnutrizione e 550 milioni di donne - oltre il 50 per cento della popolazione rurale mondiale - vivono al di sotto della linea di povertà. La povertà ha subìto un processo drammatico di femminilizzazione e di infantilizzazione.
I paesi ricchi ed industrializzati, i paesi di democrazia occidentale hanno particolarmente a cuore la tutela dei diritti umani di libertà e tuttavia perdono di credibilità quando si impegnano, giustamente, in azioni a tutela delle libertà personali nei paesi autoritari senza considerare la necessità di rendere concreti i processi di distribuzione della ricchezza verso il mondo in via di sviluppo, come via essenziale per la promozione dei diritti umani. La lotta per la globalizzazione dei diritti, contro la povertà, e la battaglia per il diritto dei paesi poveri allo sviluppo passano attraverso l'azzeramento del loro debito: il debito cresce, ogni anno, di 100 miliardi di dollari e si traduce nella negazione del diritto al lavoro, all'istruzione, alla sicurezza sociale e nell'aumento dello sfruttamento degli uomini, delle donne e dei minori.
Il 27 maggio scorso la Camera ha approvato una risoluzione che impegna il Governo a sostenere la cancellazione del debito in modo controllato e progressivo: ci siamo fortemente impegnati, anche grazie all'aiuto della Commissione esteri, contro la pena di morte e contro le mine antiuomo; abbiamo ospitato la sessione dell'Unione interparlamentare sulla fame nel mondo, presieduta dal collega Martino.
Su tre questioni, infine, mi permetto di richiamare l'attenzione di tutti noi, in particolare dei deputati più giovani, che hanno più tempo per costruire.
Un mondo civile non uccide per ragioni di giustizia; nel mondo vi sono ancora 86 paesi, membri dell'ONU, che mantengono la pena di morte: 15 l'hanno abolita solo per i crimini ordinari, 7 hanno dichiarato di abolirla non appena ammessi alle Nazioni Unite.
Un mondo civile non produce ordigni come le mine antiuomo, che colpiscono innanzitutto bambini e popolazione civile: un milione di persone uccise, oltre 300 mila bambini che vivono con una mutilazione,
Un mondo civile non tollera che la verità processuale o politica possa essere conseguita attraverso la tortura dei detenuti: sono 73 i paesi dove questa pratica continua ad essere ammessa.
La realtà di questi 50 anni ci dice che le oppressioni più gravi, purtroppo, sono venute dagli Stati, dai poteri pubblici. Il fatto è che ai diritti universali degli uomini devono corrispondere ormai i doveri universali degli Stati a non uccidere i propri condannati, a non torturare i propri detenuti, a non costruire armi che sono usate prevalentemente contro civili inermi, ad investire contro la fame e per l'istruzione.
Lavorare per una Carta dei doveri universali degli Stati può costituire forse l'impegno di un paese civile, libero e democratico come l'Italia e della sua libera Camera dei deputati. Sono obiettivi forse utopistici, ma una classe dirigente, colleghi, deve avere il coraggio dell'utopia. Non parlo delle mete irrealizzabili, che hanno già generato menzogne e disastri: parlo dell'utopia strategica, quella delle impossibilità relative e delle emancipazioni necessarie; parlo della capacità di guardare un metro oltre l'orizzonte - solo un metro - ma il confine tra l'orizzonte e quel metro in più separa ineluttabilmente quelli che hanno paura di pensare da quelli che hanno il coraggio di costruire e noi tutti, eletti dai cittadini, di questa costruzione abbiamo il dovere e la responsabilità. Grazie (Generali applausi, cui si associano i membri del Governo).
Ha chiesto di parlare il presidente della III Commissione, onorevole Occhetto. Ne ha facoltà.
Non è, infatti, sufficiente denunciare la gravità delle situazioni che ci circondano, gli eventi terribili, nel corso dei quali la violazione dei diritti umani si presenta in forme a volte persino terrificanti, sia che essa assuma l'aspetto del genocidio, nel corso di una guerra, o dello sfruttamento dei minori, della tortura nelle carceri e, ancora, della povertà, della fame, dell'ingiustizia sociale e dell'ignoranza.
Non ci si può nemmeno limitare a considerazioni che riguardano la diversità, nella coscienza stessa del valore universale dei diritti umani, tra i paesi altamente sviluppati dell'occidente e i paesi in via di sviluppo, dal momento che anche nello stesso occidente civile e sviluppato ci troviamo dinanzi ad un problema drammatico, che coinvolge ancora grandissima parte dell'umanità, come quello rappresentato da quella forma agghiacciante e crudele di giustizia, che è la pena di morte. Ma sia chiaro: non dico questo solo per affermare una cosa che può apparire ovvia, e cioè che la proclamazione astratta dei diritti umani non è sufficiente, affinché sia garantito il suo positivo effetto. Le celebrazioni di questi giorni devono, invece, fornire una grande occasione: la grande occasione di riuscire a fare un autentico esame di coscienza collettivo, al fine di comprendere perché mai quella proclamazione di carattere universale abbia incontrato molti ostacoli e, a volte, persino giustificazioni di carattere politico, storico, culturale, soprattutto in relazione ai diversi livelli dello sviluppo storico del genere umano sull'intera area planetaria. A questo proposito si pone un tema di grandissima portata: la validità di quei diritti universali che sono prevalentemente figli della cultura liberaldemocratica illuminista di una parte dell'Occidente
La sovrapposizione di questa nuova universalità, che ritengo essenziale, deve naturalmente muoversi con una sensibilità culturale che la preservi dal rischio di un certo colonialismo ideologico e di forme di discriminazione e di incomprensione delle diversità storiche. Nello stesso tempo tuttavia non si possono soppesare i diritti umani a seconda delle circostanze, del livello di sviluppo, delle differenti tradizioni storiche di questo o quel paese, di questa o quell'etnia né tanto meno a seconda degli immediati interessi commerciali. Non possiamo non vedere che l'Occidente fa ancora fatica, proprio per il motivo che ho ricordato poco fa, ad ascoltare la voce dei dissidenti cinesi (questa fatica si è fatta sentire anche nella solenne celebrazione di ieri all'Eliseo).
Ecco perché occorre andare al cuore della base culturale, direi dei limiti culturali che rendono difficile la realizzazione effettiva dei diritti universali e trasformano quella Dichiarazione solenne, a seconda dell'evolversi della situazione politica, in mera retorica; quella retorica che in gran parte viene profusa anche in queste stesse giornate celebrative.
La base culturale ristretta dalla quale emergono i limiti nella realizzazione dei diritti umani va ricercata nella vecchia concezione secondo la quale il fine giustifica i mezzi, nella concezione del potere per il potere e del successo per il successo; va in buona sostanza ricercata in quella formula subdola di subordinazione del mezzo al fine che, ignara del fatto che i mezzi possono inquinare i fini, finisce per fornire due pesi e due misure alla valutazione di identici eventi criminosi che colpiscono la persona umana in modo differente secondo da chi vengano compiuti e dove si manifestano.
Ma è proprio questa visione strumentale e funzionale dell'agire umano che toglie valore all'universalità dei diritti. Non possiamo infatti non vedere che alle soglie del terzo millennio esistono ancora valori e culture che contraddicono quell'universalità: è il caso di quelle culture che recano con sé forme crudeli di giustizia, come il taglio della mano per i ladri o le mutilazioni per le donne, fino ad arrivare alla stessa pena di morte.
Ecco perché se da una parte io invoco l'esigenza di un'umana ed attenta comprensione storica, dall'altra ritengo che non si debba accettare in alcun modo ogni sorta di giustificazionismo. L'universalità dei diritti non deve presentarsi sul proscenio della storia umana come una sorta di profeta disarmato. Ed ecco dunque il problema: come armarlo, questo profeta? Come armarlo di un potere reale, di una legalità superiore, di una possibile efficienza che muova dalla possibilità stessa di garantire il rispetto della norma?
È all'interno di queste considerazioni che si colloca uno dei problemi più importanti che stanno innanzi a noi: dar vita ad un'autentica riforma delle Nazioni Unite, quella stessa riforma dell'ONU per la quale la Commissione esteri della Camera dei deputati si è ampiamente impegnata attraverso un atto di altissimo livello (al quale ha partecipato nel corso di un'audizione lo stesso Segretario generale dell'ONU): un'indagine conoscitiva che ha fornito una visione attenta dei mezzi necessari per creare le condizioni della difesa e di una promozione della pace e dei diritti umani.
Ma ciò richiede a tutti i paesi, a quelli piccoli come a quelli grandi, il riconoscimento convinto della presenza di una legalità superiore anche attraverso la costruzione di un'effettiva global governance.
L'ONU deve diventare una specie di coscienza del mondo, ha detto ieri Kofi Annan; i diritti dell'uomo sono universali e devono essere applicati anche in Asia, ha aggiunto il Dalai Lama, specificando inoltre che i diritti dell'uomo non sono solo patrimonio dell'occidente ma anche dei paesi asiatici.
Tuttavia, rimane il fatto che affinché tali diritti divengano davvero effettivi, occorre riconoscere una funzione nuova
Ha dunque ragione Kofi Annan quando, in sintonia con un significativo punto di arrivo della nostra stessa indagine parlamentare sulla riforma dell'ONU, afferma solennemente che qualsiasi intervento militare della comunità internazionale deve restare subordinato all'avallo del Consiglio di sicurezza. Farne a meno, come alcuni sono tentati di fare, creerebbe uno spiacevole precedente; non saremmo lontani, allora, dal ritorno al sistema delle sfere di influenza fondato sugli interessi particolari degli Stati.
Ecco perché, i principi di cinquanta anni fa rimangono validi, ma per applicarli bisogna rinnovare la coscienza pubblica mondiale, anche attraverso una radicale riforma dell'ONU, ma occorre farlo con estrema chiarezza e grande lucidità.
Tuttavia, qualcosa va rivisto, anche nella formulazione di quegli stessi principi generali, se non altro, a proposito del peso che, all'interno di quei principi, deve assumere sempre di più accanto all'ineludibile garanzia della difesa dell'individuo e della persona - proprio di ogni forma di libertà da qualche cosa - l'idea di una libertà reale, cioè di una libertà per qualche cosa, vista come una tappa decisiva del nuovo tragitto di liberazione umana.
Per questo, io concordo pienamente con il segretario generale di Amnesty International, allorquando indica nella lotta contro l'emarginazione il nuovo asse della politica di difesa dei diritti umani.
Non c'è dubbio che la crescita delle disuguaglianze, la destrutturazione sociale e il processo di omogeneizzazione culturale accompagnino la messa in opera della mondializzazione, accrescendo dappertutto il numero degli esclusi dal benessere e dall'educazione.
Alle soglie del terzo millennio, non possiamo non vedere come centrale questo problema; non possiamo non vedere come la libera circolazione delle persone, delle merci e dei capitali - per essere effettivamente qualche cosa che fornisca al genere umano una prospettiva più alta di liberazione dall'indigenza, dall'ignoranza, dalla disoccupazione, dal bisogno e dalla fame - debba accompagnarsi ad una nuova democrazia mondiale, cioè, ad una democrazia capace di operare con i suoi istituti a livello mondiale.
Il villaggio globale deve, pertanto, diventare realmente tale, deve diventare un effettivo villaggio democratico, cioè, un villaggio globale che riconosca, al suo interno, l'esistenza di regole volte ad accompagnare la globalizzazione con un processo di inclusione democratica, nella sfera del benessere, dell'insieme delle popolazioni che nascono, respirano, vivono, studiano, soffrono all'interno del nostro pianeta.
L'universalità dei diritti umani potrà, dunque, diventare effettiva solo se si supera quel solco, quel vallo colmato dal sangue dei popoli nel tremendo cozzo tra differenti ideologie che, nel corso di questo secolo, ha separato libertà e giustizia.
Signor Presidente e onorevoli colleghi, affinché queste nostre celebrazioni non siano puramente formali, esse devono, a mio avviso, contenere al loro interno il grande progetto di una più alta unità e feconda commistione tra due parole bellissime che per troppo tempo sono state contrapposte l'una all'altra; le due parole che rendono effettivi i diritti umani sono libertà e giustizia. (Applausi).
Informo i colleghi che nelle tribune sono presenti rappresentanti della Comunità di sant'Egidio, di Amnesty International e di Medici senza frontiere.
Come sapete, si tratta di organizzazioni che si battono per i diritti umani, senza distinzioni di parte. Li ringraziamo di essere qui (Generali applausi).
Ha chiesto di parlare l'onorevole Follini. Ne ha facoltà.
Quella Dichiarazione è appunto il segno che i diritti umani hanno vinto almeno la battaglia dei principi e delle parole; si può dire, come con qualche cinismo si usa fare in queste occasioni, che è l'omaggio che il vizio rende alla virtù, e la considerazione ha qualche attualità, se si pensa a quanti Stati hanno firmato quella dichiarazione violando poi nella loro prassi politica quegli stessi diritti che pure hanno sottoscritto. Oppure si può dire, come usava al tempo in cui quella Dichiarazione fu redatta: quante divisioni ci sono dietro, quante divisioni «sostengono» quelle parole e quelle poche pagine!
Credo però che, se in questo mezzo secolo la democrazia liberale ha compiuto qualche passo in avanti, ciò sia segno dell'esistenza di una forza politica dietro la forza morale di quelle parole. Se oggi non vogliamo limitarci ad una celebrazione un po' rituale, se vogliamo interrogarci su come proseguire quel cammino, credo che dobbiamo individuare tre condizioni, tre leve attraverso le quali quei diritti possano crescere.
La prima: deve proseguire ed intensificarsi quel processo di diffusione della conoscenza delle informazioni che è fondamentale per far maturare una consapevolezza più ampia dei diritti. La politica qualche volta vive il sistema dei media con qualche fastidio, ma ritengo che il sistema della comunicazione, soprattutto nella sua più recente globalizzazione, sia stato decisivo nel fare scudo ai diritti dell'uomo.
La seconda: deve prevalere il dato globale su quello tribale; dobbiamo privilegiare il senso comune della nostra umanità rispetto alle identità nazionali, culturali e religiose a cui pure ciascuno di noi è «dedicato» con passione.
La terza: dobbiamo sviluppare un'idea mite, temperata della politica, del potere e dello Stato. Le culture ideologiche in questo secolo hanno caricato sulle spalle della politica, della comunità, dello Stato un eccesso di aspettative e di finalità. È stata la divinizzazione della storia l'origine di molte delle violazioni che sono più vicine a noi. È questo il demone che è stato sconfitto con la rivoluzione del 1989, ma è un demone che può tornare, che non appartiene soltanto alla storia tragica del comunismo ma attraversa più in profondità, credo, l'esperienza di questo secolo.
Se tali leve saranno utilizzate tutte e tre a vantaggio dei diritti umani, penso allora che quei diritti saranno più forti nel secolo che verrà (Applausi dei deputati dei gruppi misto-CCD e di forza Italia).
La ringrazio per le parole che ha pronunciato in questa solenne occasione, ma la questione dei diritti dell'uomo, la questione dei diritti dell'umanità, delle donne e degli uomini di tutto il mondo purtroppo viene celebrata ogni cinquant'anni e non ogni giorno, nell'attività concreta dei Parlamenti, dei Governi, delle forze politiche e delle istituzioni internazionali.
Lei ha detto che noi abbiamo compiuto dei passi in avanti; purtroppo non è vero. In questi ultimi cinquant'anni le violazioni dei diritti umani sono aumentate nel mondo, così come sono aumentati i morti per fame e i diseredati, così come sono aumentati coloro i quali non hanno più alcuna speranza di poter avere, nel corso della loro vita, dignità, rispetto e diritti.
Lei ha detto delle parole giuste sulla questione che lega il mercato e l'umanità.
Noi vogliamo che l'uomo sia al centro della società ma, lentamente e inesorabilmente nel corso degli anni, egli è stato
Il Fondo monetario internazionale e la Banca mondiale, istituzioni che dovrebbero promuovere lo sviluppo, non prevedono più, dal 1990, alcun progetto o programma per un miliardo e 200 mila persone, considerate - diciamo così - in esubero. Dunque i mercati e le stesse istituzioni internazionali, considerano quegli uomini e quelle donne inutili e inservibili. Anche sui diritti politici si sta andando indietro!
Vi è oggi un'occasione storica: il Tribunale penale internazionale. Tuttavia, non si può non individuare alcune precise responsabilità di quei paesi che, seppure in quest'aula siano talora citati a modello, sono in realtà il principale ostacolo all'istituzione di questo tribunale, mi riferisco in particolare agli Stati Uniti d'America e ad altri paesi. Essi, seppure additati ad esempio, si oppongono all'istituzione di un tribunale sovranazionale competente a perseguire e punire i crimini compiuti contro l'umanità. Anche in questo Parlamento si stanno commettendo errori (o, per meglio dire, crimini) perché, mentre si è autorevolmente affermato, anche da parte del Pontefice, che occorre abolire i debiti ai paesi del terzo mondo, il Governo italiano in un certo qual modo privatizza i crediti e li vende alle banche svizzere.
Si è detto che bisogna difendere i diritti politici, eppure si continuano ad usare due pesi e due misure. A causa delle convenienze politico-militari si chiudono gli occhi di fronte a certi crimini e si aprono solo di fronte ad altri. Si dice che bisogna ridurre gli armamenti, però due anni fa, il ministro Andreatta è andato a fare - diciamo così - il piazzista d'armi presso il regime di Suharto. Noi continuiamo a commerciare e a vendere simili prodotti a paesi in conflitto facendo finta, in modo ipocrita, che si tratti di operazioni di polizia e di ordine pubblico interno.
I passi in avanti, che potranno trovare un impulso anche nelle sue parole, signor Presidente, potranno essere compiuti quando si discuteranno leggi, provvedimenti, risoluzioni riguardanti la politica estera e questioni attinenti alla nostra posizione nelle conferenze internazionali, nonché quando si legherà indissolubilmente la battaglia - che potrà apparire ad alcuni utopistica - per la realizzazione dei diritti umani alla concretezza della nostra azione politica (Applausi dei deputati del gruppo misto-rifondazione comunista-progressisti).
Sul piano dell'inveramento dei principi affermati nella Dichiarazione del 10 dicembre 1948, il bilancio non è proprio esaltante, eppure - e vorrei dirlo anche al collega Mantovani - qualche risultato positivo possiamo iscriverlo nel bilancio.
Se oggi un dittatore è sulla soglia di un processo di carattere internazionale per i crimini commessi nell'esercizio del potere statale, tale possibilità trova la sua radice nella Dichiarazione del 1948 e nei valori di fondo in essa affermati, cioè la sconfessione del principio della sovranità statale illimitata che ha trovato la sua espressione più nefasta nel nazismo, nel fascismo e nella conseguente tragedia della guerra.
Con la Dichiarazione del 1948, almeno a livello di riconoscimento giuridico, nasce un nuovo sovrano, vale a dire i diritti fondamentali dell'uomo, non più soltanto come mere aspirazioni giusnaturalistiche ma come elementi costitutivi della persona positivamente riconosciuti nel nuovo ordine giuridico mondiale.
Queste affermazioni di principio attraverso le Convenzioni internazionali e le Costituzioni interne degli Stati, a cominciare dalla nostra, significativamente coeva alla Dichiarazione universale di New York, si sono tradotte in norme di diritto positivo. Ma, come ricordava anche il Presidente Violante con le sue parole in verità molto belle sul valore delle utopie possibili, gli scettici e coloro che sono interessati a che i principi della Dichiarazione del 1948 rimangano sulla carta oppongono un preteso principio realistico secondo il quale il diritto non rappresenterebbe una praticabile alternativa al principio della forza, che necessariamente regola e non può non regolare i rapporti tra popoli e Stati.
Io credo invece che sia utopistica e irrealistica l'idea che l'assedio alle nostre frontiere di coloro che sono esclusi dall'esercizio dei diritti fondamentali possa essere fronteggiato rinserrandosi nei propri territori, eventualmente allargati ad organismi di carattere internazionale come l'Europa. Non è pensabile che la pressione dei quattro quinti dell'umanità, deprivati dei diritti fondamentali nel concreto, di quel miliardo e più di esseri umani che soffrono la fame, possa essere fronteggiata con le leggi sull'immigrazione o, meglio, con quelle contro l'immigrazione. Questo è illusorio, questa è un'utopia sotto il profilo giuridico!
Sin dal suo preambolo la Dichiarazione del 1948 ci avverte che l'alternativa alla negazione dei diritti fondamentali non può che essere la guerra, la violenza ed il terrorismo. Questa è l'alternativa che abbiamo davanti e questa è la sfida che le democrazie sono chiamate ad affrontare nel nuovo millennio. Questa sfida può essere vinta solo se saremo in grado di raccogliere e di recuperare la promessa scritta nella Dichiarazione del 1948; solo vincendo questa sfida sarà possibile, cioè, salvare la convivenza mondiale e la stessa idea di democrazia (Applausi dei deputati dei gruppi misto-verdi-l'Ulivo e dei democratici di sinistra-l'Ulivo).
L'impostazione data al dibattito mi induce a prendere la parola nel tempo concesso al mio gruppo per fare solo qualche riflessione su un punto che si presenta davanti a noi drammaticamente all'inizio di questo nuovo millennio. Alcuni spunti sono già contenuti nelle sue parole, signor Presidente, che condivido; ma voglio sottolineare che cinquant'anni fa, dopo una catastrofe mondiale, si è posta l'esigenza di trovare un codice di valori, da tutti condivisi, che ha portato a proclamare, nella Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo, che tutti gli esseri umani «nascono liberi ed uguali in dignità».
Dobbiamo, però, dire con chiarezza che in questi cinquant'anni la «Carta» è stata molte volte declamata, ma troppo poco attuata, cosicché siamo qui a constatare che il documento giuridico ed etico che doveva inaugurare una nuova stagione di pace e di fratellanza su un pianeta che usciva da una delle più terribili guerre che la storia ricordi è stato spesso lasciato in un canto ed ignorato, tanto da indurci oggi a poche esaltazioni per tentare, invece, una rilettura critica degli avvenimenti tragici di questa metà del secolo, nel tentativo di recuperare le ragioni dell'«essere uomo» al centro di una prospettiva che non sia quella di un mondo dominato da mostri.
In questi cinquant'anni si è modificato lo stesso concetto dei «diritti umani». Nel periodo della guerra fredda, contro il blocco dei paesi dell'est si denunciavano le violazioni dei diritti nei confronti dei dissidenti e, dall'altro lato, nei paesi occidentali sotto l'egemonia degli Stati Uniti, la violazione dei diritti umani veniva indicata nella negazione del diritto dei popoli all'autodeterminazione.
Oggi, in tempi di globalizzazione, i problemi si presentano più gravi e più drammatici che nel passato: genocidi, violenze sui bambini, commercio d'organi, prostituzione infantile, innumerevoli guerre a sfondo etnico, religioso, razziale e dichiaratamente economico vedono come prima vittima la popolazione civile, bambini e donne innanzitutto.
Colpire obiettivi civili, purificare etnicamente intere zone, stuprare donne e bambini, indurre popolazioni ad esodi biblici, è prassi ormai consolidata e interna alle strategie militari che non disdegnano l'uso di sistemi d'armi come le mine antipersona che rappresentano il simbolo più esplicativo di questo nuovo e odioso modo di intendere la guerra.
La fine della guerra fredda ha lasciato, dunque, posto all'estendersi di conflitti sempre più feroci, consegnandoci un quadro in cui non solo i detenuti politici non si contano, non solo si impedisce ad intere popolazioni di difendere la propria identità e di avere il diritto di vivere sulla propria terra, ma appaiono con sempre più evidenza nuovi fenomeni drammatici: in due terzi dei paesi del mondo la tortura è prassi ordinaria; nei codici penali di novanta nazioni è prevista la pena di morte; la povertà e la fame falcidiano milioni di vite umane colpendo, naturalmente, i più deboli; ingiustificati blocchi economici infieriscono su popolazioni inermi; i debiti esteri uccidono i paesi del sud del mondo. Per gran parte dell'umanità, insomma, è messo in discussione lo stesso diritto alla vita, tanto più che la Banca mondiale e il Fondo monetario internazionale non prevedono alcun progetto economico per un miliardo e trecento milioni di persone che versano in situazioni di povertà irreversibile e che sono considerate un esubero.
La vera novità che dobbiamo constatare e che ci inquieta è che siamo di fronte ad una «dichiarazione di diritti» che, mentre nell'immediato dopoguerra costituiva anche un antidoto contro una concezione totalitaria liberticida del fascismo e del nazismo...
Di fronte ad un quadro così drammatico le nostre coscienze devono urlare. Per questo l'Italia democratica, il suo Governo e il Parlamento devono assumere tutte le iniziative necessarie per sconfiggere l'egoismo e per restituire senso all'affermazione che tutti gli uomini sono uguali e sono dotati di dignità e di coscienza.
Proprio in questo spirito vorrei ricordare in questa celebrazione del cinquantesimo anniversario della Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo un diritto ripetutamente negato a Silvia Baraldini per la quale il Parlamento e il nostro Governo debbono dispiegare tutta la loro azione al fine di consentire il suo trasferimento nel nostro paese (Applausi dei deputati del gruppo comunista).
Desidero ricordare che il 10 dicembre del 1948, quando venne proclamata la dichiarazione universale, qualcuno la definì soltanto una collezione di pie frasi, ma la prima Carta universale dei diritti dell'uomo è qualcosa di diverso, probabilmente - come l'ha definita Galasso - una frontiera di civiltà e, contemporaneamente, un obiettivo al quale noi italiani, l'Europa e il mondo, non possiamo rinunciare.
Come ella ha affermato, signor Presidente, si è fatto molto, ma le cifre che, drammaticamente, lei oggi ha pronunciato in quest'aula gridano che ancora molto dobbiamo fare e che l'impegno internazionale e nazionale deve essere diverso. Ai principi e alle norme, infatti, devono seguire i comportamenti, ancora non soddisfacenti, perché - ripeto - le cifre ricordate gridano vendetta a chiunque di noi abbia a cuore il diritto di libertà, il diritto di espressione, il diritto di religione, il diritto alla felicità, lo stesso sul quale qualcuno commentò ironicamente, allorquando gli americani proposero di inserirlo nella dichiarazione universale.
A mio avviso, ancora molto c'è da fare in tanti settori, quali la povertà e l'istruzione, punti cardinali per l'emancipazione della persona e dei popoli, punti cardinali per una lotta vera contro la diversità; parlo di una diversità di opportunità reali, presenti nel mondo grazie ad un male e ad un peccato fondamentale: l'egoismo di una civiltà che porta avanti solo i diritti di pochi.
Se le questioni enunciate in questa sede - che riguardano l'infanzia, le donne, la tortura, la pena di morte e tutti i diritti continuamente violati dagli Stati sovrani - sono vere, come lo sono, abbiamo il dovere di impegnarci a livello internazionale per varare norme cogenti rispetto all'enunciato di quei diritti della Carta che, oggi, celebriamo.
A tale proposito, ritengo sia positivo guardare al di là dei nostri confini, perché è bene rendersi conto di ciò che accade nel mondo, ma dovremmo lavorare di più nel rispetto del principio che Theodore Roosevelt cercò di introdurre allora nella Carta, ma senza successo; il mondo, infatti, era sconquassato dalle guerre di liberazione, ma anche, per buona metà, sotto un colonialismo pesante degli stessi Stati europei.
Noi dovremmo batterci per tale principio e soprattutto perché - desidero ricordarlo poiché è una questione di enorme importanza, almeno per me, per la mia cultura - all'articolo 1 della dichiarazione si dice: «Tutti gli essere umani nascono liberi ed uguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza».
Ebbene, Presidente, parliamo spesso di solidarietà, parola significativa e importante che attiene ad una concezione della vita, ma la fratellanza è qualcosa di più elevato, che coinvolge il nostro impegno istituzionale. Si tratta di qualcosa che ci deve far uscire dal nostro guscio ideologico, dal nostro egoismo.
Per tale ragione desidero denunciare oggi, con estrema pacatezza, ma con assoluta risoluzione, che mentre noi facciamo questi discorsi, guardando al mondo in un'ottica così vasta e comprensiva, ci dimentichiamo di guardare dentro casa nostra.
Desidero fare presente che al Senato il Governo, nella persona del ministro Berlinguer, ha cancellato con un atto inqualificabile quanto approvato alla Camera in tema di diritti delle minoranze; ha infatti ripristinato il testo unico sull'handicap che, tra l'altro, non so come sia potuto passare, dal momento che cancella un percorso giuridico di diritti reali, ed ha
I diritti umani sono diritti alla libertà, alla felicità, al benessere, all'istruzione ed all'educazione: non possiamo guardare al mondo e dimenticarci casa nostra (Applausi)!
L'uomo vi è presentato nella sua natura, nella sua dignità, nella ricchezza dei suoi attributi, nelle sue relazioni interpersonali, nel suo destino ultimo; trova nel magistero della Chiesa, in adempimento della sua missione, Pontefici come Leone XIII, in difesa degli operai contro lo strapotere del capitalismo industriale, come Pio XI, difensore dei diritti dei popoli contro i totalitarismi, come Pio XII, sostenitore dell'ordine internazionale fondato sulla giustizia, la libertà e l'uguaglianza, come Giovanni XXIII, promulgatore dell'enciclica dei diritti umani, come Paolo VI, paladino contro il neocolonialismo ed il tecnicismo e come Giovanni Paolo II, instancabile apostolo e missionario in mezzo ai più deboli ed ai sofferenti.
Volge ora al termine il secolo che afferma certi diritti e libertà individuali, con la Lega delle nazioni come momento più gratificante di questi primi passi nella protezione dei diritti dell'uomo prima di arrivare alla dichiarazione universale che costituisce il manifesto di una nuova politica umanistica.
Questo secolo ha registrato due guerre distruttrici, ma anche tante guerre regionali che hanno recato sconvolgimenti, distruzioni, miseri genocidi, atrocità su persone, su comunità razziali e nella vita dei popoli.
A tali eccessi i popoli hanno saputo reagire positivamente, evidenziando la necessità di precisare in ambito giuridico e sociale, non solo sul piano interno, ma anche su quello internazionale, i diritti dell'uomo e la necessità di chiare norme di garanzia per il loro rispetto da parte di tutte le nazioni.
Le dichiarazioni dei diritti fondamentali dell'uomo, dalla Magna Charta libertatum, alla Petition of rights, dal Bill of rights alla dichiarazione dei diritti, rappresentano traguardi sulla via del riconoscimento all'individuo dei diritti fondati sulla morale e sulla ragione ed ebbero influenza nel porre le basi del nuovo ordine costituzionale contrapposto all'assolutismo prima ed all'oppressione di Governi tirannici contro singole persone e gruppi contrapposti poi.
La dichiarazione universale dei diritti umani segna dunque una tappa fondamentale nella storia della civiltà umana, che afferma il rifiuto, il rigetto e la condanna del ripetersi di tragedie di uomini e di nazioni e spinge l'uomo sulla
È importante la mobilitazione del mondo culturale e la sensibilizzazione dell'opinione pubblica; è importante la mobilitazione delle coscienze. La nostra Costituzione è un geloso codice di comportamento del rapporto fra Stato e cittadino per la protezione e la difesa dei diritti di libertà e di quest'ultima. Fu il risultato della concorde cooperazione fra i partiti. Con la Costituzione il nostro paese aveva già affermato, per i propri cittadini, il diritto di vivere da uomini liberi in piena dignità, prima ancora di entrare a far parte dell'organizzazione delle Nazioni Unite.
Dall'Europa che nasce e dalla forza delle sue grandi correnti di pensiero può venire uno stimolo, una ragione di riflessione ulteriore. Il nuovo Parlamento europeo può essere un punto di partenza per avviare un'esperienza nuova nell'organizzazione dei popoli, per rinnovare nei giovani, nei cittadini e nelle comunità il senso nuovo della libertà e dei diritti. Riteniamo, in questa logica, che la funzione del Parlamento sia determinante, irrinunciabile in alcuni casi, per le iniziative che saprà assumere e per l'applicazione degli strumenti internazionali sui diritti e sulle libertà fondamentali, ma anche per le scelte di politica nazionale nell'estensione delle libertà dei cittadini in tutti i campi della vita culturale, economica e sociale.
Prendere coscienza, dunque, che oggi più di ieri è necessaria una costante azione del Parlamento come sede del confronto aperto e libero, interprete attento di un'opinione pubblica vigile sulle ingiustizie del mondo e sulle violazioni dei diritti dell'uomo.
«L'uomo se non ha fede bisogna che serva e se è libero bisogna che creda» scrisse Tocqueville: noi crediamo che, essendo liberi, riusciremo a sconfiggere le barbarie, le sopraffazioni e gli egoismi.
Se la dichiarazione universale dei diritti dell'uomo non è un vincolo giuridico, ma lo sono invece l'accordo internazionale sui diritti economici, sociali, e culturali e l'accordo internazionale sui diritti civili e politici, assistiamo per contro, quotidianamente, alla violazione di tali impegni.
Tuttavia la storia dell'umanità è segnata da grandi sforzi tesi a garantire la dignità degli esseri umani attraverso l'introduzione graduale di norme scritte nelle legislazioni nazionali a tutela dei diritti fondamentali.
I due conflitti mondiali del novecento, con l'elevato numero di vite umane perdute e le distruzioni materiali che causarono, fecero comprendere e riaffermare il convincimento che il riconoscimento dell'insita dignità e dei diritti uguali ed inalienabili dei popoli della terra è la pietra d'angolo su cui poggiano le fondamenta del progresso, della libertà, della pace e della giustizia nel mondo e che strumenti internazionali erano necessari per codificare e proteggere i diritti dell'uomo ed affermare soprattutto che gli esseri umani nascono uguali in dignità e nei diritti.
I rapporti economici, come sono gestiti negli e tra gli Stati, sino ad ora non hanno
Quello di garantire la dignità dell'uomo è un problema che riguarda la generalità dei paesi, industrializzati e non, che non è disgiunto dal problema dell'occupazione, dei salari e dei servizi di assistenza sociale e pensionistica che effettivamente tutelino la dignità dell'uomo-cittadino.
Come si può perseguire questo obiettivo in controtendenza rispetto ad una progressiva globalizzazione che privilegia sempre più un'élite internazionale svincolata dai contesti e dalle problematiche locali, che ha come scopo la produzione di idee in proprio o per conto di multinazionali globali e che utilizza il resto dell'umanità come manovalanza necessaria, perlomeno fino a quando la tecnologia non permette la sostituzione con strumenti tecnico-scientifici?
L'equilibrio sociale dei paesi ricchi è messo in grave crisi dai poteri autoctoni e dalle migrazioni provenienti dai paesi del sud del mondo.
Per questa ragione è ora necessario ripensare anche allo strumento della cooperazione internazionale, fornendo mezzi e know how ai paesi in via di sviluppo, nonché rivedere a livello globale il problema del debito e dell'accesso ai prestiti internazionali.
Al contrario, la politica economica dei paesi industrializzati, al fine di garantire una dipendenza dei paesi emergenti od in via di sviluppo nei loro confronti, continua ad opporsi a dotare quei paesi di tali risorse e a considerarli utili solo per l'esportazione dei loro prodotti o per lo sfruttamento di materia prime.
Molto meglio accogliere i loro cittadini che risolvere i loro problemi all'origine. In questo senso la politica di apertura all'immigrazione non controllata non deve essere vista come integrativa ad una ragionevole politica di cooperazione transnazionale, ma come una sapiente operazione di facciata che permette ai forti interessi economici di Stato e a molti soggetti privati di continuare a sfruttare le aree deboli del pianeta. Al fine di proteggere ed aumentare il riconoscimento dei diritti umani è necessario promuovere un impegno molto pratico: quello di garantire un'ampia accettazione degli strumenti internazionali adottati in questo campo dalle Nazioni Unite, come l'organizzazione internazionale del lavoro - l'ILO -, l'Organizzazione delle Nazioni Unite per l'educazione, la scienza e la cultura - l'UNESCO - ed altre istituzioni, affinché i popoli e gli individui siano tutelati dai principi di questi organismi internazionali intergovernativi.
Il fatto che le Nazioni Unite siano un organismo intergovernativo è una forza ed al contempo, allo stato attuale, un limite. Le Nazioni Unite hanno a volte la funzione strumentale di facciata-ombrello per garantire l'esercizio internazionale del potere: questa è una critica che è stata rivolta soprattutto da molti paesi del sud del mondo, che chiedono nuove regole nei rapporti internazionali, un nuovo equilibrio mondiale, che li coinvolga, anche in senso democratico, su questioni come i prestiti della Banca mondiale e del Fondo monetario internazionale. Il fattore limitante maggiore è comunque quello di escludere la partecipazione dei rappresentanti dei popoli, avendo la pretesa di fotografare una situazione statuale mondiale che in molti casi eclatanti non consente di far sentire la voce di chi subisce palesemente le violazioni degli impegni sottoscritti da quegli stessi Stati i cui rappresentanti siedono nei banchi delle Nazioni Unite. È necessario quindi ribadire l'esigenza che innanzitutto gli impegni sottoscritti dagli Stati siano obblighi per gli stessi: si veda per esempio l'applicazione del diritto di autodeterminazione dei popoli o la tutela del diritto di espressione e di pensiero.
Per concludere, i crimini contro i popoli e gli individui, qualora ignorati da un sistema penale nazionale, devono essere affrontati da una corte penale delle Nazioni Unite il cui verdetto sia vincolante per i paesi facenti parte dell'organizzazione,
È attento questo Parlamento, lo hanno dimostrato le sue parole, signor Presidente. Sono mobilitate le istituzioni, i comuni del nostro paese, Amnesty international, le associazioni della società civile che proprio in questo scorcio di dicembre hanno ricondotto la propria pacifica carovana in Bosnia, in Kosovo, in Albania, continuando una tradizione di intervento umanitario e pacifico che ha preso i nomi di I care e Time for peace: assonanza che la dice lunga sul rapporto virtuoso tra le istituzioni dello Stato italiano ed i fermenti e la presenza di una pubblica opinione e di una società civile che alle istituzioni, per una sorta di «corrente calda», consentono di trasformarsi - e non soltanto in questa occasione - in eventi.
Merita allora di essere subito menzionata l'iniziativa dell'Assemblea generale dell'ONU che fissa, in coerenza con la dichiarazione di cinquant'anni fa, principi e regole di protezione e tutela per chi ha il coraggio civile della denuncia della violazione dei diritti umani.
Ancora una volta va ricordato il cammino significativo compiuto dal nostro paese, tra i più attivi ed i più culturalmente attrezzati, io credo, nel riconoscere l'urgenza di una trasformazione dell'Organizzazione da ONU degli Stati ad ONU dei popoli. I progetti che si raccolgono intorno al nome del professor Papiska sono infatti indice di una corale elaborazione. È vero, è assente da troppi documenti l'impegno a superare la pena di morte - impegno al quale non poca attenzione ha però dedicato questo Parlamento -, ma è indubbio che il cammino fin qui compiuto, anche per i suoi impacci, dichiara una tendenza che vede comunque il cittadino precedere lo Stato. Non stupisce, allora, che Papa Giovanni Paolo II abbia sottolineato, il 1o gennaio di quest'anno, in occasione della giornata per la pace, che la giustizia si fonda sul rispetto dei diritti umani, riconoscendo gli stessi diritti a tutte le persone e a tutti i popoli. È un principio che ha resistito alla prova del tempo e che evidenzia le caratteristiche di attualità, universalità, indivisibilità dei diritti umani.
In sintonia con questo percorso è possibile leggere la Conferenza di Vienna del giugno 1993 - la sua attenzione ai lavoratori, ai lavoratori emigranti, al destino delle popolazioni indigene - e gli interventi di quest'anno con i quali gli Stati vengono invitati a presentare un rapporto sulla difesa e sulla realizzazione dei diritti umani, sui progressi compiuti in questa direzione, sui problemi più scottanti tuttora aperti. Signor Presidente, avrei voluto ripercorrere - fatica fortunatamente disperata - le tappe concrete di un cammino, perché questo mi è parso il modo migliore per affrontare di nuovo, quasi in flash back, un documento che definisce un'epoca all'interno del processo di mondializzazione della nostra convivenza.
Ha scritto Teilhard de Chardin che, da quando esiste, l'uomo è offerto in spettacolo a se stesso. Infatti, da decine di secoli, non guarda altro. Gli fa eco Amartya
Oggi i processi di mondializzazione in atto esigono un ripensamento radicale della giustizia internazionale. Credo che anche lo sforzo del Governo italiano, ed in particolare del ministro per gli affari esteri, si sia mosso in questa direzione affinché si realizzasse il tribunale penale internazionale, che rappresenta un punto di arrivo di tale percorso, non solo un dover essere ma una procedura concreta.
A questo punto, credo di poter concludere con un riferimento, che ritengo obbligato, al pensiero forte europeo, al Kant di Per la pace perpetua, intesa come aspirazione necessitante nel processo di civilizzazione universale; ancora una volta, non di solo sogno si tratta, ma di costruzione giuridica concreta (Applausi dei deputati dei gruppi dei popolari e democratici-l'Ulivo e dei democratici di sinistra-l'Ulivo).
Il tema di oggi, però, non consente polemiche. Se, come afferma Amnesty International, i primi cinquant'anni dalla Dichiarazione sono pieni di violazioni e di promesse non mantenute, a noi si impongono rigore di analisi e concretezza progettuale. Se dovessimo ricordare le parentesi, in senso letterale, dei lavori sul tribunale internazionale dovremmo scoraggiarci. Ricordando gli onori resi al genocida Kabila qualche giorno fa, dovremmo arrenderci. La nostra è, però, cultura della tenacia etico-politica, utopia strategica, come ella felicemente ha ricordato, signor Presidente.
Si corre il rischio della retorica delle solite buone intenzioni, ma vi è l'esigenza indilazionabile di essere nuovi e propositivi. Tenteremo la seconda soluzione valutando le difficoltà dell'essere nuovi, perché il tema ha radici antiche e vagisce in francese, avendo anticipato i tempi. La rivoluzione di quel paese e l'illuminismo furono infatti lungimiranti nell'introdurre il tema della tutela statuale in tema di diritti collettivi.
La tutela internazionale più recente, dopo oltre un secolo di elaborazione, assume rilevanza dopo la prima guerra mondiale, con il sistema di protezione delle minoranze nazionali di razza, lingua, religione previste dai vari trattati; la tragedia della seconda guerra mondiale, con
Seguì una convenzione, firmata a Roma il 4 novembre 1950 ed entrata in vigore nel 1953: un completamento di valori e condotte, da cui derivano Commissione e Corte europea. Alla Commissione, si sa, possono ricorrere sia i singoli sia i gruppi, dopo avere esaurito le vie del ricorso interno previste da ogni ordinamento; la Corte, invece, può essere adita soltanto dalla Commissione e dagli Stati partecipanti alla convenzione. La centralità degli organismi decisionali - qui sta il problema -, con il decorso del tempo, ha subìto l'assedio di gruppi omogenei di paesi consorziati, o di regioni della comunità internazionale, che forti di omogeneità spesso solo di mercato hanno realizzato protocolli e intese con specifiche convenzioni. Così, oltre al Consiglio d'Europa, sono nati la Convenzione interamericana dei diritti dell'uomo, assorbente il continente latino-americano, la Corte africana dei diritti dell'uomo e dei popoli e così via.
La frammentazione non ha giovato, ovviamente, alla forza e alla credibilità dell'istituto globale originariamente pensato, innescando un conflitto concreto tra universalismo e regionalismo, con derivazioni prolifiche, dall'UNESCO all'OIL, all'OSCE alla CE. I temi specifici, pur nobili, hanno prevalso sull'idea generale, a cui si aggiunge la rivendicazione di un documento mediterraneo, che vuole essere sintesi di culture e principi disomogenei, saldando geografie e storie che si articolano nei paesi del nord Africa ed in quelli del medio-oriente: basti ricordare la Carta dell'unità africana e la Lega araba, oltre ai vari protocolli islamici. Questa molteplicità di indirizzi presenta un difficile coordinamento normativo e si complica sensibilmente se i documenti devono essere applicati a realtà assai diverse e contrastanti, in aree che sono identificabili con la storia del mondo, dall'antico Egitto alla Grecia, all'impero ottomano, all'impero romano e via discorrendo, perché di questo si tratta.
Non è ammessa la resa davanti alle difficoltà, Fulci insegna con la vittoria diplomatica italiana all'ONU. Un segnale di concretezza giuridica può ricavarsi dall'articolo 31 della Convenzione di Vienna del 23 maggio 1969 sul diritto dei trattati, che alla lettera C stabilisce che verrà tenuto conto di ogni norma di diritto internazionale pertinente applicabile alle relazioni tra le parti. Il tema pendente fondamentale, perciò generale, consiste in un quesito: diritto dell'individuo o diritto della persona?
La teoria generale del diritto internazionale è fredda e lucida, come metallo: il problema esiste. Gli assertori della personalità internazionale dell'individuo, la dichiarazione universale e la Convenzione europea per la protezione dei diritti dell'uomo provano che le disposizioni dei due documenti riguardano gli individui, di cui tutelano la sfera giuridica personale: le due convenzioni perciò rendono l'individuo centro di imputazione internazionale. I negatori della personalità internazionale dell'individuo contestano, per parte loro, la figura dell'individuo come soggetto di imputazione internazionale, fondata sul diritto al ricorso, che però non è un vero e proprio diritto soggettivo nei confronti dello Stato; né aiuta il testo dei trenta articoli, che ampliano addirittura le tavole di Mosè con contorsionismi ideologici.
L'individuo ha solo poteri di impulso non vincolanti: se accolte dalla Commissione, le aspettative della parte lesa possono avere riconoscimento pleno iure solo
Valgono, conclusivamente, due osservazioni: non si tratta di un quarto grado, ma ci si trova ope legis a fare i conti con il giudicato e, quindi, si tratta di un primo grado di giudizio. In secondo luogo, si tratterebbe di un'attestazione di coerenza rispetto alla relazione annuale del Parlamento europeo, che l'8 aprile 1997 ha espresso il concetto di tutele integrali. Sarebbe un utile regalo per la festa dei cinquant'anni della dichiarazione ricordare che i poveri di diritto - qui nessuno ha ricordato i 50 milioni di bambini non nati: è questa la tragedia dell'aborto nel mondo - non hanno fax per protestare e noi dovremmo prestare loro voce e cuore (Applausi dei deputati del gruppo di alleanza nazionale - Congratulazioni).
Il Presidente Violante ha detto, giustamente, che si deve guardare a questa Dichiarazione dei diritti dell'uomo e a quanto in essa affermato come ad un'utopia, aggiungendo correttamente l'aggettivo «strategica», cioè come ad un punto di arrivo. La stessa Dichiarazione si poneva in questi termini, poiché, prima dell'articolato, l'Assemblea generale che l'ha approvata ha proclamato che essa è un ideale comune da raggiungersi da tutti i popoli e da tutte le nazioni.
È importante, quindi, avere presente questo concetto di utopia e di un processo di realizzazione in corso. La globalizzazione di tutti i valori, che è stato auspicato debba seguire o essere parallela alla globalizzazione del mercato, è un obiettivo a cui tutti noi sentiamo di dover arrivare. Ma per essere sicuri di poterci arrivare, per non avere delusioni strada facendo o per non sbagliare la nostra stessa strada, dobbiamo anche non misconoscere, tra di noi, che questi valori, che tutti condividiamo fin nel profondo, sono figli della nostra cultura, della cultura occidentale. Questa dichiarazione si proclama universale, ma in realtà non è l'universo, nemmeno quello umano, che sente o ha interiorizzato questi valori, né all'origine, né strada facendo.
Nel processo di interiorizzazione di questi valori dobbiamo sempre tenere presente che questa Dichiarazione nasce da una cultura, la nostra, che condivide tali valori, ma che solo attraverso il
Come chiosa e quasi al di fuori di questo tema vorrei approfittare di uno degli articoli della Dichiarazione universale, per il quale ogni individuo ha il diritto di diffondere informazioni e idee attraverso ogni mezzo. Anche in una giornata particolare come questa ho sentito un collega, l'onorevole Saraceni, sostenere che i comunisti hanno avuto il merito di combattere e di sconfiggere il fascismo. È suo diritto affermarlo, proprio in base all'articolo che ho ricordato: ma esiste anche il diritto a ricevere un'informazione corretta. Vorrei ricordare all'onorevole Saraceni che nel 1939 i comunisti - così come egli li ha definiti - fecero un accordo con il partito nazionalsocialista. Tutt'altro che una contrapposizione, quindi. Anche in Italia i fascisti vennero proposti dai comunisti come i «fratelli in camicia nera». Il fascismo, inoltre, non è stato sconfitto solo dai comunisti e forse i comunisti sono stati soltanto una minima parte di tutte le forze che sconfissero il fascismo.
Infine, per tornare al tema della Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo, l'Unione Sovietica - padre o madre dei comunisti di allora - non firmò questo documento (Applausi dei deputati del gruppo di forza Italia).
Degli 8 paesi che allora si astennero, 7 hanno conosciuto nel frattempo rivoluzioni che hanno portato all'instaurazione di sistemi di governo molto più omogenei all'ideale delle Nazioni Unite e molto più rispettosi dei diritti umani. La Dichiarazione ha dunque indirettamente vinto, anche in quei paesi che si erano mostrati scettici nei suoi confronti.
Il tema dei diritti umani in questi decenni è cresciuto. Ciò che nel 1948, dopo una lunga e terribile guerra nella quale erano stati commessi crimini orribili da parte di alcuni governi (innanzitutto contro i propri cittadini), poteva apparire come una generosa e improbabile utopia è oggi un obiettivo largamente condiviso che non è facile ignorare, anche là dove la dignità umana è più a rischio. Nessun governo oggi può permettersi di esprimere contrarietà o indifferenza nei confronti dei diritti umani e sebbene i realisti politici ci ricordino che questo non impedisce certo le violazioni (e che violazioni
Nel celebrare la Dichiarazione è giusto anche ricordare che essa fu profondamente innovativa rispetto alla tradizione liberale, poiché aggiunse ai diritti civili e politici anche quelli economici e sociali. Si riconosceva così la natura storica ed evolutiva dei diritti umani, la cui definizione è mutata nel tempo e continua a mutare. In questi anni si è aggiunta la specificazione di alcuni diritti: in particolare i diritti dei fanciulli e quelli delle donne, che sono sempre diritti umani, ma devono avere una menzione e un'argomentazione specifica perché corrispondono a specifiche aree di violazione della dignità umana e della libertà individuale; così come specifici devono essere i modi per stabilire e difendere questi diritti.
Tale evoluzione già di per sé dimostra che il tema dei diritti umani non è semplicemente il residuo di un'astratta filosofia illuministica. Esso è cresciuto negli ultimi tre secoli parallelamente alla moderna sovranità degli Stati, come espressione dell'esigenza di difendere gli individui dall'esercizio abusivo di tale sovranità. Ma nel corso del novecento ha acquistato caratteri attuali e addirittura aperti verso il futuro: oggi il discorso dei diritti comprende anche i diritti degli animali e quelli delle generazioni future, a testimonianza di come i diritti non possano non essere storici e non si possano intendere né come una lista chiusa né tanto meno come naturali.
Questa ricorrenza ci invita anche a protestare - i colleghi che hanno parlato prima di me, lo hanno fatto - per le vaste zone di violazione dei diritti umani ancora presenti nel mondo, per la resistenza di alcuni paesi ad accettare quelle che essi vedono come interferenze nella loro organizzazione interna e nella loro sovranità, per la lentezza e, spesso, l'inefficacia delle istituzioni sovranazionali, che dovrebbero garantire il rispetto e l'applicazione della dichiarazione dei diritti.
Ci troviamo di fronte ad un paradosso: per la connessione stretta che c'è tra diritti umani e democrazia, risulta più difficile per le istituzioni delle Nazioni Unite lavorare proprio con quei paesi nei quali le violazioni dei diritti umani sono più frequenti e più gravi.
Tuttavia, sarebbe sbagliato trarne un giudizio di inefficacia. Sappiamo che ogni tentativo di costruire una comunità umana e politica internazionale incontra straordinarie difficoltà, perché si misura con la gelosa difesa della sovranità nazionale e con le peculiarità culturali e storiche dei diversi paesi. E,' però, in corso una evoluzione positiva e non si può sottovalutare l'influenza che l'opinione pubblica internazionale esercita anche sui paesi più restii ad accettare la cultura dei diritti.
La crescita di tante e importanti organizzazioni non governative, il successo da esse spesso raggiunto nell'entrare in contatto con le popolazioni dei paesi nei quali avvengono le violazioni dei diritti umani, è una testimonianza del peso dell'opinione pubblica nel mondo globalizzato.
Se nel 1948 la Dichiarazione non poteva essere altro che una promessa, essa oggi è ancora tale, ma insieme è anche un patrimonio di attività e di strumenti per avvicinarsi sempre più - anche se, forse, mai del tutto - alla realizzazione di quella promessa.
Tuttavia, è certamente triste constatare come, ancora oggi, in molti paesi e anche nei paesi democratici, i diritti umani siano spesso crudelmente violati. Perfino in Europa, perfino nel nostro paese esistono ancora discriminazioni, sacche di lavoro minorile, insufficienti condizioni di parità per le donne. Alle nostre porte, nei territori dell'ex Jugoslavia, sono stati compiuti crimini che poco hanno da invidiare a quelli della seconda guerra mondiale, per reagire ai quali fu estesa la Dichiarazione dei diritti.
Il mondo intorno a noi è pieno di individui maltrattati e di popoli soggiogati. I diritti violati sono la realtà dominante. Se anche fossimo certi che sarà sempre così, se anche sapessimo che il pieno rispetto dei diritti umani non è di questo mondo, non resterebbe comunque altro che continuare a lottare individualmente e collettivamente attraverso le istituzioni sovranazionali e le organizzazioni non governative per diminuire l'area della violazione e aumentare quella del rispetto.
Gli obiettivi che ancora meritano la nostra lotta, il nostro impegno sono stati citati dal Presidente Violante e dal presidente Occhetto. Si può dire che questo non è realismo politico, che si tratta di una lotta utopistica; ma la storia, spesso, ha mostrato che l'idealismo è la forma più efficace di realismo. Lentamente, contraddittoriamente, in modo parziale, i diritti umani si affermano. Comunque, il loro riconoscimento è un'arma di lotta, che accomuna i più fortunati cittadini dei paesi democratici ai movimenti di liberazione di altri paesi nei quali la dignità degli individui è un valore più aleatorio. In questo senso, contrariamente all'apparenza, la lotta per i diritti non è da vedere come una forma di imperialismo culturale dell'occidente.
Oggi abbiamo di fronte un grande compito: realizzare la corte penale internazionale, la cui istituzione è stata decisa nel trattato del luglio scorso. Non sarà un compito facile per le resistenze frapposte da molti paesi e perfino da paesi di provata democrazia come gli Stati Uniti.
Le vicende di questo fine secolo ci dicono, tuttavia, quanto sia importante poter fruire di una sede sovranazionale per affrontare lo spinoso problema dei crimini di guerra e del terrorismo.
Il nostro paese ha svolto, e continuerà a svolgere, un ruolo attivo in questa impresa. Oggi, l'aspetto fondamentale, il problema da porre, è quello dell'efficacia. Riteniamo, quindi, che si debba fare uno sforzo decisivo per dotare le organizzazioni delle Nazioni Unite dell'efficacia necessaria e per fare in modo che questo sia uno dei capitoli della riforma dell'ONU di cui parlava il presidente della Commissione esteri.
Il secolo che ha visto i più grandi crimini di Stato, il secolo dei totalitarismi, può dare al secolo che viene, anche grazie alla Dichiarazione universale dei diritti umani, questo messaggio: che la dignità umana è il valore maggiore e che la stessa sovranità statale deve accettare i suoi limiti di fronte ad esso ed inchinarsi alle istituzioni sovranazionali che lo difendono (Applausi dei deputati dei gruppi dei democratici-di sinistra-l'Ulivo e di rinnovamento italiano).
Avverto l'onorevole Colombo che ha tre minuti di tempo a disposizione.
La sua frase, signor Presidente, è quindi poetica e, allo stesso tempo, concreta come anche tutti gli altri interventi che sono stati fatti. Mi domando se non sarebbe una buona idea farne un libretto per poterlo offrire alle scuole, per dire dov'era, dov'è il Parlamento della Repubblica nel momento in cui si riflette, insieme, sui diritti umani.
La preoccupazione che mi ha spinto, dopo aver ascoltato il Presidente ed il presidente Occhetto, dopo aver sentito i colleghi parlare di alcune cose fondamentali - la lotta alla pena di morte, l'intolleranza verso la violazione dei diritti, il tribunale permanente per i crimini contro l'umanità, la riforma delle Nazioni Unite
Il premio Nobel per l'economia Amartya Sen, che è anche un filosofo morale (è titolare della cattedra di filosofia morale all'università di Harvard) ci ha detto, ci dice che la penuria non esiste; ce lo dice con la sua dottrina di economista, di presidente della società degli economisti americani, nel momento in cui noi sappiamo che mentre parliamo 40 mila bambini muoiono di fame, ogni giorno. La sua frase ha il senso di quell'utopia costruttiva, di quella strategia utopistica di cui lei parlava. Egli intende dire che la penuria non esiste perché si tratta di un problema di trasferimenti logistici. Il mondo è in grado di provvedere al mondo, all'umanità. Ebbene, se questo diventerà un impegno politico per fare in modo che le risorse siano in continuo movimento e che sia impedita la morte per fame di tanti che muoiono di fame nel mondo, allora credo che avremo fatto un qualcosa di grandioso e avremo attribuito a noi stessi un progetto di lavoro.
Siamo parte di un'Europa che continuamente «costringe» la propria produzione agricola mentre una parte del mondo sta morendo di fame. Ma c'è un'altra cosa che ci dice Amartya Sen e che vorrei ricordare qui come un progetto concreto perché esso può diventare parte della nostra vita diplomatica e delle nostre relazioni internazionali. Egli ci dice che ovunque salgono, anche di poco, l'istruzione, l'educazione, la formazione delle donne, diminuisce lo stato di miseria, di prostrazione e di sfruttamento delle donne e dei bambini.
Ecco, questo è un impegno che potrebbero assumere il nostro Governo e il nostro Parlamento, ossia quello di fare in modo che in tutti i rapporti internazionali questo elemento fondamentale (l'istruzione delle donne, l'emancipazione conseguita con l'aver imparato a leggere e a scrivere e con il sapere le cose) possa diventare l'arma del loro riscatto, trasformandole in protagoniste, con i loro bambini che nel mondo, come sappiamo, dipendono profondamente, nonostante tutte le forme di emancipazione e tutte le modernizzazioni di cui si parla, dalla vita delle donne; e ciò affinché donne e bambini siano liberati attraverso un processo di emancipazione, alfabetizzazione e possano in questo modo entrare nella vita di tutti.
Il rapporto dell'UNICEF, in questi giorni, sull'abbandono culturale delle donne e dei bambini nel mondo, che in un certo senso spiega la penuria nella quale sono abbandonati, ci serve da riferimento.
Infine, vorrei sottolineare un elemento che di nuovo rappresenta un progetto che può entrare nella nostra vita di parlamentari. Mi riferisco a quell'esempio straordinario e poco notato che è la banca dei poveri nel Bangladesh. Parlo dell'idea che le istituzioni di credito possano sostenere e offrire elementi di sostegno ai più poveri, cominciando con il credito non dall'alto ma dal basso della struttura sociale. È, questa, un'invenzione che l'Occidente non ha copiato; è un'invenzione, quella di dare pochi soldi ma a tanta gente, che consente a quest'ultima di entrare in qualche modo nel processo produttivo; è una trasformazione ed un'innovazione che però non sono ancora entrate nella cultura finanziaria di questo mondo avanzato di cui noi ci sentiamo orgogliosi protagonisti.
Queste tre cose, che mi sono permesso di nominare, possono diventare progetti di lavoro; è questa la ragione per cui le offro alla sua attenzione, signor Presidente, all'attenzione di questa Assemblea, nella speranza che una celebrazione diventi un calendario di cose da fare (Applausi).
Ed è questo dei diritti umani un tema nel quale il bilancio rischia di essere più amaro di quanto non meriti, in una storia plurisecolare che, in fondo, ha visto un susseguirsi di dichiarazioni dei diritti dell'uomo da circa due secoli e, in questi non meno che nei precedenti, ha registrato un ripetersi di vicende che i diritti umani hanno calpestato e calpestano ancora oggi, a volte con incontenibile ferocia, a volte con la follia dell'apparente razionalità, in questa o in quell'altra parte del mondo. E la domanda è: sono queste dichiarazioni delle declamazioni inutili? Lo sono state.
Vi è stato, tra le persone di fede, chi si è chiesto se Dio abbia titolo ad esistere dopo Auschwitz.
È mia profonda convinzione - e mi è parso che emergesse dalle cose dette in quest'aula - che non sia così. Se riusciamo a provare tanta incontenibile amarezza per le violazioni dei diritti umani che ancora perdurano, è perché essi sono entrati nella nostra coscienza e sono entrati a far parte della storia dell'umanità. Tali diritti hanno cominciato - diciamo così - a lavorare, a volte nel sottosuolo, in parti del mondo che mai li avevano conosciuti e ivi divenuti doverosamente strumenti di lotta sociale che hanno contribuito lentamente a cambiare le cose.
Non bisogna dimenticare che, al di là della luce introdotta 2000 anni fa dal cristianesimo, la storia degli uomini e delle donne fino a pochi secoli fa prevedeva che i diritti fossero legati alla cittadinanza. Al di fuori della propria cittadinanza vi era un mondo di barbari nei confronti dei quali qualsiasi azione era consentita. Quella dei diritti della persona legati alla sola nascita è un'idea largamente estranea alla storia che precede il XVII secolo. Nella nostra cultura occidentale fu Grozio, il padre dei diritti umani, ad introdurla. Da allora abbiamo cominciato a registrare dichiarazioni dei diritti che contrastavano con convinzioni, con culture, con istituzioni e con regole dell'economia e della società. Ma è stato tanto potente il messaggio insito nell'idea stessa che i diritti sono associati alla natura umana dell'essere umano che, pur nati a tutela degli interessi di ristrette élite sociali, hanno finito per sconvolgere gli stessi assetti che quegli interessi avevano organizzato per sé.
Non dimentichiamo che chi scrisse, al di là dell'oceano, che tutti gli uomini sono creati uguali aveva schiavi alle proprie dipendenze e tuttavia fu quel principio che, entrato nella coscienza degli schiavi e di coloro che li possedevano come schiavi, portò alla fine della schiavitù dopo lotte e guerre sanguinose.
Nel nostro continente i grandi principi delle dichiarazioni delle grandi rivoluzioni della fine del XVII e XVIII secolo furono principi che la borghesia scrisse per sé stessa, ma quando venne scritto che tutti hanno gli stessi diritti e venne sancito il principio di eguaglianza, esso finì per superare il maschio bianco, dotato di proprietà e di reddito e, inesorabilmente, per determinare la coscienza di sé di coloro che erano esseri umani pur non avendo reddito e di coloro che erano esseri umani pur essendo di sesso femminile. Tali dichiarazioni hanno avuto una straordinaria forza espansiva nel corso di questi decenni e la storia del XX secolo, in fondo, con tutte le sue nefandezze, ha esteso a tutti nelle nostre società i diritti che erano nati solo per pochi.
La questione che il XX secolo ha dovuto cominciare ad affrontare, e che consegna al secolo successivo, è quella dell'affermazione dei diritti in parti del mondo in cui questi non sono oggi praticati; in cui si mescolano i diritti dei singoli con i diritti di comunità e di gruppi (che in quelle parti del mondo chiedono di essere riconosciuti), che pure possono in più circostanze diventare negazione - e lo diventano - dei diritti della persona; in cui soprattutto - ed è questo il vero nodo che abbiamo davanti nella storia futura dell'umanità - l'appartenenza etnica e tribale riescono tuttora a prevalere sul riconoscimento dell'altro. È questo un fatto di civiltà che noi in
In fondo è in nome di quei diritti che le religioni stanno oggi cedendo, se vogliamo dirlo, parte delle verità di ciascuna per riconoscersi tutte il più possibile in una verità comune, fondata sulla tolleranza, sulla pace, sul riconoscimento degli altri. È in nome dei diritti che gli Stati hanno cominciato a cedere sovranità e che pian piano, sopra alle dichiarazioni, sta nascendo una rete ancora fragile di istituzioni, di regole, di principi, che creano l'embrione di una giustizia del mondo. Quel tribunale che ha visto i natali a Roma pochi mesi fa e i fatti che gli stanno facendo seguito dimostrano che è inarrestabile, tra tanti ostacoli, il bisogno di dare ai diritti una giustizia comune per tutti gli esseri umani.
Ed è in nome dei diritti che gli individui e i gruppi, cedendo parte delle loro orgogliose identità, stanno imparando non solo a riconoscere gli altri ma anche ad adoperarsi per gli altri, a riconoscere le «libertà di» e le «libertà da» e a fare del mondo un'arena nella quale azioni positive contro la povertà e contro la discriminazione sono comunque esemplificate e segnano la strada su cui gli stessi Stati e le organizzazioni internazionali potranno andare.
È quindi un cammino possibile; dobbiamo essere consapevoli che è anche un cammino necessario. La mondializzazione, la globalizzazione, le grandi autostrade che hanno reso un luogo vicino all'altro hanno creato questa vicinanza non solo per i capitali, ma anche per gli esseri umani che si muovono da una parte del mondo e vanno nell'altra, che convivono nello stesso tempo reale, nella stessa dimensione geografica, nonostante le distanze iniziali che li separavano. Questa contestualità di vite di milioni di esseri umani così diversi gli uni dagli altri, questo vivere fianco a fianco esigono tolleranza, comprensione, il massimo possibile di uguaglianza, perché, se così non fosse, non sarebbero in discussione solo i diritti umani ma anche la pacificità della convivenza cui dobbiamo aspirare in futuro.
La pace oggi non dipende più dal venir meno dello spirito di taluni di conquistare il territorio di altri, ma può venir meno perché non sappiamo convivere nelle stesse città, nelle stesse regioni, negli stessi territori. Ed è quindi imparare a vivere insieme, rispettare i diritti degli altri, e non più avere eserciti, il vero fondamento della convivenza pacifica del futuro (Applausi).
Sospendo la seduta, che riprenderà alle 15 con il question time.