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PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca il seguito della discussione degli abbinati progetti di legge: Delega al Governo per il riordino della disciplina civilista e fiscale degli enti conferenti, di cui all'articolo 11, comma 1, del decreto legislativo 20 novembre 1990, n. 356, e della disciplina fiscale delle operazioni di ristrutturazione bancaria; Balocchi ed altri: Norme in tema di cessioni di quote delle banche da parte delle fondazioni delle casse di risparmio; Costa: Norme in materia di privatizzazione delle banche controllate dalle fondazioni-associazioni.
PRESIDENTE. È iscritta a parlare l'onorevole Pistone. Ne ha facoltà.
GABRIELLA PISTONE. Signor Presidente, onorevoli colleghi, il provvedimento che abbiamo in esame è un disegno di legge delega che riguarda il riassetto delle fondazioni bancarie; in Italia ve ne sono 88 tra casse di risparmio ed ex istituti di diritto pubblico e controllano un patrimonio stimato dall'ACRI di circa 55 mila miliardi, di cui 33 mila miliardi sono controllati dalle sole casse di risparmio.
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Giannotti. Ne ha facoltà.
VASCO GIANNOTTI. Sono assai d'accordo con una sottolineatura del relatore Agostini in merito al fatto che ci troviamo di fronte ad un provvedimento di eccezionale importanza, ad una svolta storica per un istituto come quello delle fondazioni bancarie. Mi pare che il provvedimento che la Commissione ha portato in aula vada nella direzione giusta e che intervenga e sul problema della riforma degli istituti bancarie e su quella fattispecie «che cosa devono essere le fondazioni bancarie» sulla quale fino ad oggi si è registrata una grande difficoltà di comprensione.
PRESIDENTE. Ha superato di due minuti il tempo a lei assegnato.
VASCO GIANNOTTI. Mi perdoni, signor Presidente, ma ho concluso.
PRESIDENTE. Quando intervengono su argomenti che li appassionano, i colleghi vanno oltre il tempo a loro disposizione. In questo caso si è trattato di 3 minuti e 21 secondi in più. Questa volta ho lasciato correre, ma prego gli altri colleghi di contenere la propria vis oratoria.
ANTONIO PEPE. Signor Presidente, signori rappresentanti del Governo, colleghi, il disegno di legge-delega governativo che mira a definire l'assetto normativo delle fondazioni bancarie ha visto in Commissione finanze la ferma opposizione del Polo per le libertà che, con
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Marzano. Ne ha facoltà.
ANTONIO MARZANO. Presidente, onorevoli colleghi, noi pensiamo che in economia nessun problema, per quanto complesso, giustifichi interventi ispirati - cito letteralmente - «alla volontà di coartare autonomie o di invadere dirigisticamente ambiti di scelte private». È con queste parole che uno dei relatori al disegno di legge di cui ci occupiamo, l'onorevole Agostini, ha indicato la sostanza delle nostre critiche.
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Sanza. Ne ha facoltà.
ANGELO SANZA. Signor Presidente, onorevoli colleghi, in premessa a questo mio intervento vorrei richiamare le osservazioni del collega Armaroli fatte in questa sede ieri sera, premesse che condivido pienamente, per quanto concerne la procedura usata nell'inserire questo importante provvedimento all'ordine del giorno dei lavori della Camera.
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Garra, al quale ricordo che dispone di 13 minuti di tempo. Ne ha facoltà.
GIACOMO GARRA. Sin dalla seduta della Commissione affari costituzionali del 21 ottobre 1997 il gruppo di forza Italia ha sollevato più di una perplessità di ordine costituzionale riguardo soprattutto alle direttive e ai criteri previsti dall'articolo 2 del provvedimento in esame.
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Fioroni. Ne ha facoltà.
GIUSEPPE FIORONI. Signor Presidente, intervengo, soltanto per alcune rapidissime considerazioni, in particolare sulla lettera d) dell'articolo 2. Credo di notare un contrasto e, molto probabilmente, sarà necessario procedere ad un ulteriore chiarimento tra quanto viene affermato nella lettera a) di tale articolo dove, riferendosi alle fondazioni, si precisa che esse perseguono scopi di utilità sociale, fermi restando compiti e funzioni attribuiti dalla legge ad altre istituzioni.
GIUSEPPE FIORONI. Penso, ad esempio, all'utilizzazione delle fondazioni insieme con le assicurazioni o nel campo dei fondi integrativi.
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole D'Amico. Ne ha facoltà.
NATALE D'AMICO. Signor Presidente, facciamo un altro passo sulla lunga strada che porta la foresta pietrificata a diventare mare in tempesta. È una strada che noi speriamo porti questo mare in tempesta ad un risultato complessivamente benefico per l'economia e le imprese del nostro paese e per i risparmiatori.
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Armani. Ne ha facoltà.
PIETRO ARMANI. Vorrei innanzitutto ringraziare il collega Carlo Pace per il grande lavoro che ha fatto con la sua relazione di minoranza. Mi dispiace che la maggioranza, che per la prima volta ha a disposizione un testo sostitutivo qual è quello predisposto dal collega Pace in relazione al nuovo articolo 79, comma 12 del regolamento, non abbia colto i suggerimenti e soprattutto le suggestioni delle proposte del relatore di minoranza.
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Giovanni Pace. Ne ha facoltà.
GIOVANNI PACE. Svolgerò alcune considerazioni, a questo punto, finali, sul disegno di legge Ciampi oggi all'attenzione dell'Assemblea, dopo il vaglio in Commissione finanze, dove abbiamo svolto, insieme con i colleghi degli altri gruppi parlamentari, un lavoro che abbiamo improntato a consapevolezza e a senso di responsabilità e che qualche volta può essere apparso anche pedante, se vogliamo, cioè fastidioso per chi forse non ha voluto capire - ma la colpa è certamente nostra - il senso della posizione nostra, di alleanza nazionale e del Polo per le libertà, che non pone in discussione la opportunità di procedere nel nostro paese ad un ampio processo di privatizzazione delle aziende pubbliche. La posizione di alleanza nazionale - lo ha ricordato anche l'amico e collega Carlo Pace nella sua pregevole relazione di minoranza depositata agli atti - rimane in materia immutata.
PRESIDENTE. Ha ancora un minuto, onorevole Giovanni Pace.
GIOVANNI PACE. Signor Presidente, la ringrazio per avermi richiamato al rispetto del tempo. Sono certo che nel corso del dibattito siano stati ampiamente chiariti i motivi della nostra opposizione a questo testo, un'opposizione che non ha nulla a che vedere al processo di privatizzazione che noi invece perseguiamo anche come programma politico.
PRESIDENTE. Non vi sono altri iscritti a parlare e pertanto dichiaro chiusa la discussione sulle linee generali.
Ricordo che nella seduta di ieri è iniziata la discussione sulle linee generali.
Esse hanno una storia antica; nascono nella prima metà dell'ottocento su iniziativa di comuni, privati cittadini ed enti morali. Lo scopo istituzionale era quello di raccogliere e promuovere risparmio degli strati sociali più deboli per dedicarlo a scopi previdenziali e per lo sviluppo di attività locali, comunali e regionali. Hanno avuto una loro vita in questo periodo che ha visto delle mutazioni, dei cambiamenti: dalla legge del 1936 si è arrivati alla legge Amato del 1990 e poi alla direttiva Dini del 1994.
In pratica i dati a nostra disposizione dimostrano che le fondazioni, così come sono oggi configurate, hanno un rendimento patrimoniale molto basso perché i due terzi del rendimento vengono spesi per autosostentamento, mentre per i fini istituzionali resta solamente il 6 per mille su un rendimento medio già molto basso in quanto pari all'1,95 per cento; in altre parole, solo poco più di 300 miliardi viene destinato ad investimenti in campo sociale. Il disegno di legge di delega in discussione è stato presentato all'inizio del 1997 dal Governo ed è già stato esaminato dalla Commissione finanze.
In premessa vorrei sottolineare l'estrema importanza della partita che si gioca attorno a questo provvedimento. Non sono in discussione solo gli assetti futuri di larga parte del sistema bancario nazionale, ma anche aspetti importanti delle modalità di finanziamento dell'economia reale e di conseguenza del modello di sviluppo del paese.
Attraverso una ristrutturazione virtuosa del sistema finanziario italiano, che non concerne solo le questioni qui direttamente trattate, ovvero privatizzazioni e ruolo delle fondazioni, ma anche le direttrici del processo di concentrazione, si potrebbero determinare le condizioni affinché nel nostro paese si sviluppi una moderna finanza di impresa e si ricreino i presupposti per rianimare un progetto di politica industriale oggi del tutto assente soprattutto al sud. È quanto chiediamo da tempo. Invece, l'assenza di un chiaro piano di settore ed il prevalere di soluzioni parziali e precarie, molto spesso fortemente condizionate da una impostazione tutta ideologica del processo di privatizzazione e da contingenti logiche di salvataggio di singole realtà aziendali, comporta un ulteriore indebolimento del sistema bancario nazionale ed una sua sostanziale svendita ai privati ed ai grandi gruppi finanziari ed esteri. A questo ci opponiamo.
Il testo all'esame dell'Assemblea è profondamente diverso rispetto alla versione originaria del Governo sia per quanto attiene alla materia civilistica sia per quanto attiene alla materia fiscale.
Il gruppo di rifondazione comunista ha presentato in Commissione alcuni emendamenti; si trattava di pochi ma qualificanti emendamenti, il cui sostanziale accoglimento ha determinato nel nostro gruppo un atteggiamento di disponibilità nei confronti del testo in questione. Se, da un lato, le nuove fondazioni vengono qualificate enti di diritto privato, compiendo una scelta netta - e a tale proposito vorrei ricordare il bello e didascalico intervento del collega Cerulli Irelli svolto ieri sera -, è pur vero che il punto h) dell'articolo 2, modificato rispetto al testo iniziale, pur sancendo la piena autonomia gestionale e statutaria delle fondazioni, assegna all'autorità di vigilanza rilevanti poteri di controllo e di orientamento. È un punto molto avversato dalla destra, che vede nell'authority una concentrazione
di troppi poteri non giustificabili ed un eccesso di dirigismo; tuttavia la destra dovrebbe sapere che nel mondo, in particolare in Francia, in Germania e negli Stati Uniti, le fondazioni, proprio perché di diritto privato, hanno alle spalle un soggetto che verifica il raggiungimento degli scopi. Siccome le fondazioni sono senza padrone, è inimmaginabile che facciano quello che vogliono, senza controllo, sul rispetto della legge e dello statuto, per la sana e prudente gestione, sulla redditività del patrimonio e sulla effettiva tutela degli interessi contemplati negli statuti.
Un altro aspetto che abbiamo voluto sottolineare con forza è rappresentato dal punto a) dell'articolo 2, nel quale si prevede che le fondazioni «perseguono esclusivamente scopi di utilità sociale, fermi restando compiti e funzioni attribuiti dalla legge ad altre istituzioni».
In altre parole possono comunque usufruire della specifica normativa no profit, in quanto agiscono come enti non commerciali solo nei settori evidenziati alla lettera d), e precisamente: ricerca scientifica, istruzione, arte, sanità e assistenza alle categorie sociali deboli.
L'attività svolta nel perseguimento dei fini statutari non può essere considerata sostitutiva dei compiti attribuiti dalla legge ad altre istituzioni.
Come si legge chiaramente nella relazione dell'onorevole Agostini, nei confronti dello Stato sociale le iniziative delle fondazioni sono da considerarsi ad integrazione e a sostegno. È questo per noi un punto di fondamentale importanza. Ci battiamo contro ogni forma e logica di smantellamento dello Stato sociale, di funzioni sostitutive pezzo a pezzo e siamo certi che la ministra, onorevole Bindi, agisca e pensi nella stessa nostra direzione. Non è accettabile (e qui chiediamo lumi al Governo) pensare alle fondazioni come imprese che gestiscono direttamente pezzi di Stato sociale (vedi sanità e istruzione), mentre possiamo immaginarle come enti finanziatori di servizi sociali e non come imprenditori che agiscono senza scopi di lucro in questo genere di attività. Per questo ci sono le ONLUS, che magari avrebbero bisogno di finanziamento, mentre l'imprenditore vuole guadagnare, perché altrimenti fallisce, oppure è un benefattore. È giusto assegnare ad ognuno il proprio ruolo senza infingimenti o raggiri.
Condividiamo che in merito alle finalità istituzionali sia consentito che le grandi potenzialità innescate dalla mobilitazione delle ingenti risorse derivanti dalla cessione totale delle aziende bancarie (mi riferisco al patrimonio) possano essere orientate allo sviluppo sociale ed economico sia investendo una parte del patrimonio in imprese e società strategiche a livello nazionale, locale e settoriale (attraverso investimenti volti al perseguimento di finalità di reddito per la salvaguardia del patrimonio e di più generali interessi di sviluppo economico e sociale del paese), sia destinando le previste quote di reddito ad iniziative ed interventi infrastrutturali, sempre nell'ottica dello sviluppo economico del paese o delle comunità locali, reti tecnologiche, formazione servizi di assistenza a piccole e medie imprese.
Fondamentale importanza - sottolineata attraverso la presentazione di specifici emendamenti - è da noi attribuita al fatto che si stabiliscano per legge più trasparenti e democratici criteri per le nomine degli amministratori delle fondazioni, superando tutte le attuali anomalie e, in particolare, l'autoperpetuazione e spesso l'irresponsabilità degli attuali gruppi dirigenti, favorendone un ampio ricambio. A tale proposito la legge dovrà fissare con precisione i criteri a cui dovranno attenersi le fondazioni nella necessaria revisione dei loro statuti; spetterà poi alle autorità di vigilanza approvare le modifiche statutarie.
Per tutte le fondazioni vanno previsti e giustamente distinti organi di indirizzo, di amministrazione e di controllo. Per le fondazioni che mantengono il controllo e comunque quote rilevanti nelle banche va ribadita la separazione delle cariche.
L'organo da definire democraticamente è ovviamente quello di indirizzo che poi,
come un consiglio di amministrazione, provvederà a nominare le altre cariche dell'ente.
Vediamo inoltre favorevolmente le ipotesi di fusione ed accorpamento tra fondazioni di media e piccola dimensione, ovviamente caratterizzate da contiguità territoriale, e non solo tra banche sottostanti, il che può contribuire a dare maggiore forza e peso specifico alla loro attività, ad accrescerne la dimensione patrimoniale e a razionalizzare la loro capacità di investimento. In ogni caso, questo provvedimento introduce una serie di norme che invitano le fondazioni ad uscire dalla partecipazione di controllo delle banche, ma non è un obbligo. Vi sono incentivi fiscali, peraltro sulla linea già avviata dal 1994, e molte grandi fondazioni hanno già compiuto questo passo.
In chiusura, e approfittando della presenza del sottosegretario Pinza ai banchi del Governo, vorrei riproporre una domanda che ho già avuto modo di rivolgere al Governo per individuare un concetto guida, un «filo rosso» che consenta allo Stato di destinare una parte delle proprie risorse al settore sociale.
Non possiamo pensare (il sottosegretario conosce il nostro punto di vista; lo abbiamo sostenuto in Commissione, rimanendo purtroppo isolati durante l'iter di questo provvedimento) alle fondazioni e all'uso che se ne fa come sostitutrici dello Stato sociale. Noi a questo non ci potremo mai arrendere, perché non condividiamo questa idea e perché la riteniamo fortemente e profondamente sbagliata. Ripeto: quello degli enti non commerciali è un modello inutile, perché esistono già le ONLUS (anche su di esse, peraltro, bisognerebbe riaprire un capitolo di discussione, nonostante sia stata varata da poco la legge in materia).
Il nostro atteggiamento critico deriva dal fatto che la sanità e l'istruzione sono dei fondamenti del nostro Stato in quanto pubblici, poiché rappresentano diritti universali in grado di garantire un giusto e adeguato livello, non dividendo e non differenziando tra «serie A» e «serie B» e tra servizi ricchi e servizi poveri. Questo è un punto di fondamentale importanza che noi ribadiamo in questa sede e per questo provvedimento.
Su questi aspetti si dovrebbe fare chiarezza tra noi e il Governo, sulla base di quanto ho cercato di esprimere, forse in maniera non esaustiva (Applausi dei deputati del gruppo di rifondazione comunista-progressisti).
Nel nostro paese le fondazioni bancarie sono state animali strani. Ritengo allora che si possa e si debba fare uno sforzo - ne ha parlato poc'anzi l'onorevole Pistone - per cercare di delineare con maggiore chiarezza verso quale evoluzione si debba andare riguardo alle fondazioni bancarie. Personalmente ritengo che, se si continuasse a mantenere un'incertezza rispetto alla «missione» delle fondazioni bancarie (se si debba, cioè, trattare di fondazioni grant making di erogazione, oppure di gestione operative), si correrebbe il rischio - questa è una domanda che voglio porre anche al Governo - di farci trovare di fronte ad effetti che magari non sono stati ben previsti dal legislatore. A questo proposito, vorrei ricordare che in altri paesi che hanno ben altra esperienza rispetto al nostro (penso agli Stati Uniti d'America ed alla Germania) proprio l'esperienza delle fondazioni è andata in grandissima parte
nella direzione della fondazione grant making.
In America il 90 per cento delle fondazioni ha questa funzione, solo il 10 per cento sono fondazioni operative. In Germania accade la stessa cosa. Io ritengo che sarebbe utile sciogliere questo nodo ed invito il Parlamento e il Governo a cercare di fare un ulteriore passo in avanti.
D'altra parte, se non sciogliamo bene quel nodo, come già ho detto, gli effetti potrebbero essere imprevedibili. Mi riferisco, per esempio, alla lettera d) del comma 1 dell'articolo 2, laddove si dice che le fondazioni - si tratta di quel 50 per cento, sottolineo questo dato, che le fondazioni devono devolvere a fini di utilità sociale, secondo le finalità previste dalla legge - possono esercitare con contabilità separate imprese direttamente strumentali ai fini istituzionali. Mi permetto di sollevare alcuni interrogativi al riguardo.
Innanzitutto, nel momento in cui si indica che la fondazione può esercitare funzioni di impresa, ritengo si introduca nella norma un elemento che può farci trovare domani proprio nella situazione sbagliata di avere fondazioni di gestione, non fondazioni di erogazione. Direi di più: mi sembra anche difficile prevedere in un dispositivo legislativo di questo tipo che le fondazioni bancarie possano esercitare direttamente funzioni di impresa.
Vorrei ricordare a me stesso, al Governo e al Parlamento, che ancora oggi non esiste in Italia una nozione dal punto di vista giuridico-formale di impresa sociale. Che cos'è l'impresa sociale? Non esiste. Occorre - e spero che il Parlamento intervenga con grande celerità - una modifica del codice civile a questo riguardo, senza di che non è possibile identificare oggi l'impresa sociale. Tant'è che il Governo nel provvedimento in materia di esenzioni fiscali per incentivare il terzo settore è dovuto ricorrere alla formula delle ONLUS, proprio perché non esiste una legislazione che ci possa garantire certezza da questo punto di vista. E allora cosa utilizziamo a fare le fondazioni sociali? Io dico che una volta che avremo definito una normativa in materia di impresa sociale potremo tornare sull'argomento.
In secondo luogo, parlare di impresa e di fondazioni può introdurre anche un altro elemento di grande perplessità anzi, se mi consentite, un vero e proprio pasticcio. L'impresa, nella sua ragione d'essere, contiene un elemento di rischio. In questo caso le fondazioni bancarie che detengono un capitale non sono chiamate neppure a questa funzione di rischio. E se domani una fondazione bancaria non è in grado di gestire bene un'impresa, ciò che del patrimonio viene ad essere intaccato da una cattiva gestione dell'impresa, dove ricade, da chi viene pagato? Io penso che ricada ancora una volta in quel 50 per cento che a mio avviso dovrebbe invece essere erogato - e poi dirò a chi - venendo in questo modo anche a vanificare un esercizio di impresa. Ritengo quindi ci siano molte motivazioni a favore di una scelta chiara, nel senso che le fondazioni debbono essere per il 50 per cento grant making.
Vorrei ricordare, infine, che questa discussione si sta dipanando proprio nel momento in cui Governo e Parlamento sono impegnati nella grande questione relativa allo Stato sociale.
Mi chiedo quale migliore occasione per domandare anche alle fondazioni bancarie, nella loro specifica autonomia, di concorrere a progetti di innovazione dello Stato sociale. Come ed in che modo? Non mettendosi a gestire, per esempio, ospedali od università, come potrebbe accadere con questo provvedimento, ma operando sul terreno di una sollecitazione di quei soggetti di impresa che stanno nascendo e rafforzando nel settore del no profit, nel terzo settore. In questo individuo la natura peculiare delle fondazioni bancarie, ossia soggetti erogatori che aiutano a crescere ed a sviluppare il terzo settore, in una realtà che vede lo Stato ed il mercato, il pubblico ed i privato, entrare in scena, ai fini dell'innovazione
dello Stato sociale, un altro soggetto importante qual è appunto quello del terzo settore.
Questa è la questione che vorrei porre e mi auguro che nel Parlamento, anche all'interno dei vari gruppi parlamentari vi sia una grande sensibilità - so che è avvertita in molti di essi -intorno alla questione del no profit. Non è un caso per esempio che nella discussione in corso nella Commissione affari sociali a proposito dello sviluppo del no profit vi sia una posizione univoca tra i vari gruppi parlamentari. Siamo ad un punto delicato, al punto dove lo sviluppo del no profit può avere o meno un incisivo incentivo; ritengo perciò che non possiamo perdere tale occasione.
Infine permettetemi di ricordare a questo proposito che con la proposta che è stata presentata - pongo una domanda ed avanzo una proposta - non viene forse del tutto garantita una delle finalità storiche delle fondazioni sociali, ossia quella di devolvere un quindicesimo al volontariato sociale. Vorrei ricordare che l'articolo 15, comma 1, della legge n. 266, che regola il volontariato, prescrive che una parte delle dotazioni delle risorse delle fondazioni siano destinate a finanziare i centri-servizi. Se nella legge non prevediamo l'immodificabilità di questa disposizione, potremmo trovarci domani - è una domanda ed insieme un'affermazione - di fronte al fatto che potrebbero essere cambiati gli statuti delle fondazioni e quindi eliminata quella norma di cui alla legge n. 266. Qualcuno potrebbe rispondere che la modifica degli statuti avviene soltanto su parere dell'autorità di controllo; è vero, ma non vorrei fidarmi di una tale autorità, visto che oggi esiste un dispositivo legislativo che rende automatica questa possibilità. In proposito, quindi, bisognerebbe prevedere qualcosa che ponesse come condicio iuris nelle trasformazioni delle fondazioni bancarie da soggetti pubblici a soggetti privati il mantenimento di questa destinazione.
Ancora un'ultima considerazione, se mi rimane un minuto di tempo.
Anche in questo caso - mi rivolgo ai relatori ed al Governo - abbiamo giustamente previsto, ed io lo condivido, una forma di authority che per i primi quattro anni fa capo al Ministero del tesoro e poi, completato l'iter di dismissione, diventerà un'autorità indipendente. Perfetto, sono d'accordo, anche sui compiti e sui poteri dell'authority, ma vorrei ricordare che nel dispositivo legislativo del ministro Visco, poi diventata legge in materia di defiscalizzazione delle ONLUS, è prevista un'altra autorità, in quel caso di carattere amministrativo. Ritengo, coerentemente con il mio discorso, che non sia saggio dopo i primi quattro anni prevedere due forme di authority.
Ritengo sia utile e giusto prevedere una sola authority che sovrintenda a tutto il mondo del terzo settore. Di questa authority, quindi, farebbero parte le fondazioni, ma anche tutte le associazioni, le cooperative sociali, il volontariato. Mi sembra che anche questo andrebbe nella direzione di una coerenza legislativa (Applausi dei deputati del gruppo dei democratici di sinistra-l'Ulivo).
È iscritto a parlare l'onorevole Antonio Pepe. Ne ha facoltà.
emendamenti mirati, ha cercato invano di rendere realmente più libere e private le fondazioni bancarie.
L'onorevole Carlo Pace, relatore di minoranza, ha cercato di evidenziare in Commissione prima e nella sua brillante e corposa relazione poi tutte le incongruenze e le carenze presenti nel testo, un testo con il quale, ancora una volta - ma ormai è una costante di questa maggioranza - il Governo chiede una delega, di fatto espropriando, o comunque riducendo, la potestà legislativa del Parlamento.
La chiusura della maggioranza ha impedito di migliorare il testo che, nella sostanza, lede il principio dell'autonomia delle fondazioni, al punto da dettare alle stesse le attività da svolgere. Dobbiamo aggiungere che, rispetto al testo governativo, la libertà di azione delle fondazioni è stata ulteriormente ridotta durante i lavori in Commissione. Basti pensare che, ove approvato il testo come proposto, le fondazioni bancarie saranno obbligate a devolvere almeno la metà del reddito «esclusivamente nei settori della ricerca scientifica, dell'istruzione, dell'arte, della sanità e dell'assistenza alle categorie sociali deboli», potendo destinare solo le ulteriori disponibilità agli eventuali altri fini statutari, al reinvestimento, all'accantonamento e a riserva.
Quindi, la possibilità per l'ente di definire autonomamente i propri fini statutari viene di fatto annullata dall'impossibilità di destinare effettivamente reddito per raggiungere detti fini, se non nei limiti minimi previsti dall'articolo 2.
Dire ancora che le fondazioni devono operare secondo principi di economicità è sicuramente una limitazione per l'ente nella scelta degli interventi da effettuare. Basti pensare agli interventi diretti a realizzare scopi sociali o quelli tipici delle associazioni no profit od a favore del territorio, i quali sono certamente utili ma che, magari, alla luce del testo, non saranno possibili perché non rispondenti a principi di economicità.
In Commissione abbiamo lottato invano. Non sono stati accolti, se non in misura marginale, gli emendamenti proposti dai parlamentari di alleanza nazionale, emendamenti che miravano ad ampliare la libertà di azione delle fondazioni e la loro autonomia. Non sono stati accolti emendamenti che miravano a dare al consiglio di amministrazione delle fondazioni la possibilità di scegliere la quota di reddito da investire. Non sono stati accolti nemmeno emendamenti che miravano ad estendere il campo di azione delle fondazioni anche nei settori della promozione, salvaguardia e custodia del patrimonio culturale ed artistico, della formazione professionale, delle attività sportive, della conservazione e valorizzazione dei beni culturali - che poi sono la vera ricchezza della nostra Italia - della lotta all'usura (per inciso ricordo che molte fondazioni sono nate proprio con il fine della lotta all'usura). Non sono stati poi accolti emendamenti che miravano ad ampliare l'attività delle fondazioni anche nei settori previsti in relazione alle necessità del territorio, delle collettività interessate; emendamenti che comunque miravano a valorizzare i settori connessi allo sviluppo dei territori locali ed a salvaguardare gli scopi fissati negli statuti degli enti conferenti.
Non è stata accolta neppure una osservazione della Commissione affari costituzionale, che nel suo parere chiedeva di inserire tra gli scopi delle fondazioni anche quelli religiosi.
Il provvedimento, oltre a ledere la libertà di azione delle fondazioni, costringerà, se approvato nel testo proposto, di fatto anche le piccole fondazioni a vendere le partecipazioni nelle aziende bancarie controllate. Forte sarà il rischio che vada perduto il contatto tra realtà locali e fondazioni, contatto invece importantissimo specie dove vi sono piccole fondazioni locali, fortemente collegate al territorio ed interessate al suo sviluppo.
Nel corso del dibattito in Commissione finanze gli esponenti del Polo e tra loro, in primis l'onorevole Carlo Pace, hanno evidenziato che imporre alle fondazioni di vendere le loro partecipazioni nelle banche locali, cosa che per poter sopravvivere
fiscalmente saranno costrette a fare tutte le fondazioni, significherà costringerle a cedere le loro partecipazioni alle grandi banche.
Le banche locali ne soffriranno in termini di autonomia e di sopravvivenza. Ne soffriranno i territori che nelle banche locali trovano credito e sostegno. Ne soffriranno le piccole e medie imprese operanti in ambito locale, poiché esse spesso fanno ricorso al sostegno degli istituti di credito locale. Tale piccole e medie imprese andrebbero, invece, incoraggiate perché possono essere fonte di sviluppo e di occupazione.
Il Polo si è battuto per far affermare la reale natura privata degli enti fondazioni, per salvaguardare il loro patrimonio e la loro autonomia anche gestionale senza imposizioni dall'alto, come è giusto che sia in uno Stato realmente libero e democratico; in una parola, per renderle realmente e non solo fittiziamente private.
La maggioranza ha dimostrato, però, una completa chiusura. Poca vera libertà nel testo, tanto che un importante giornale ha potuto titolare a proposito delle fondazioni: «Si scrive privato e si legge pubblico», tanto che qualcuno ha parlato di esproprio proletario e tanto che preoccupazioni e riserve sono state sollevate anche da organi della Banca d'Italia.
Al di là di ogni ulteriore considerazione dobbiamo chiederci se il provvedimento sia costituzionalmente corretto, se sia vera privatizzazione quella prevista dal testo e, ancora, che senso abbia dire che detti enti diventano, dopo aver adeguato gli statuti, persone giuridiche private, se poi si trascurano gli articoli 12 e seguenti del codice civile, se si dettano norme illiberali che opprimono l'autonomia e la libertà d'azione delle fondazioni.
Il provvedimento appare in contrasto con la nostra Carta costituzionale, perché si realizza un'ingerenza sicuramente indebita nell'autonomia gestionale dell'ente e nella facoltà di disposizione del patrimonio, con compressione di diritti garantiti dalla Costituzione: vi è violazione dell'articolo 41 che sancisce la libertà dell'iniziativa economica privata; vi è violazione dell'articolo 42, che tutela la proprietà; vi è violazione dell'articolo 3, in considerazione della disparità di trattamento tra gli enti conferenti e qualsiasi altro soggetto che detenga partecipazioni in società bancarie e tra ente conferente e qualsiasi altra persona giuridica privata che opera senza fini di lucro.
Il provvedimento parte dal presupposto che le fondazioni bancarie sono tutte persone giuridiche pubbliche e che diventano private solo dopo aver provveduto ad adeguare i loro statuti alle disposizione dettate dai decreti legislativi previsti dal provvedimento in parola. Esso sostanzialmente muove dall'erronea convinzione che la materia da regolare attenga alla sfera degli enti pubblici e quindi ad enti sottratti al diritto comune ed assoggettabili ad una disciplina legislativa ideata specificatamente dal legislatore.
Ove fosse vero il contrario, e cioè che le fondazioni in parola o almeno parti di esse hanno natura privata, l'impalcatura dell'articolo 2 del testo cadrebbe, a meno di non voler ritenere legittimo un intervento così rilevante, al punto da ridurre la sfera privata.
La vexata quaestio sulla natura pubblica o privata degli enti conferenti non può essere certo risolta sulla base di un'interpretazione letterale del decreto legislativo n. 356 del 1990, connesso alla legge Amato, ed in particolare dal comma 2 dell'articolo 11, ove è previsto che detti enti hanno piena capacità di diritto pubblico e di diritto privato, attesa la genericità della disposizione e non essendo vincolante la lettera della legge.
Decisiva è invece la natura effettiva dell'ente, come ha più volte sancito la Corte costituzionale. Del resto già il decreto legislativo non considera uguali tutte le fondazioni: l'articolo 12 detta una distinzione tra enti conferenti a composizione non associativa (per i quali prevede disposizioni particolari per la redazione degli statuti) ed enti conferenti a composizione associativa (ai quali viene riconosciuto il diritto di perseguire gli scopi originari propri degli associati).
Per tornare alla individuazione della natura pubblica o privata delle fondazioni bancarie, dobbiamo innanzitutto considerare che non è più necessariamente pubblico tutto ciò che ha a che fare con finalità a rilevanza pubblica, collettiva o comunque con quelli che sono definiti interessi superiori, ma soprattutto dobbiamo fare ricorso alla giurisprudenza della Corte costituzionale.
Ricordo la sentenza n. 396 del 1988, con la quale è stata dichiarata l'incostituzionalità dell'articolo 1 della legge n. 6972 del 1890, conosciuta come legge Crispi, nella quale si prevedeva una generalizzata pubblicizzazione delle istituzioni di beneficenza e di assistenza per il solo fatto che esse svolgono attività di tipo sociale.
Si è così inteso affermare il principio secondo cui non basta il perseguimento di fini pubblicistici per qualificare come pubblica una istituzione.
Si sono relativizzati i criteri tradizionalmente utilizzati per distinguere l'ente pubblico da quello privato.
È questo il panorama in cui deve essere inquadrato anche il problema delle fondazioni bancarie. In verità, la storia di molte fondazioni bancarie derivate dalle casse di risparmio o dai monti su pegno si intreccia con quella delle istituzioni di beneficenza. La maggior parte delle casse di risparmio, infatti, nasce per impulso di iniziative private con lo scopo di perseguire, con l'utilizzo di capitali privati, finalità di tipo filantropico, essendo volte ad incitare le classi sociali al risparmio e a sottrarre all'usura le classi più deboli. La citata sentenza della Corte costituzionale deve quindi ritenersi applicabile anche alle cosiddette fondazioni bancarie.
Vorrei aggiungere altre due importanti novità: il referendum che nel 1993 ha abrogato le norme sulle nomine governative di presidenti e vicepresidenti delle casse di risparmio e l'approvazione del testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia, il decreto legislativo n. 385 del 1993. Con questo provvedimento si abrogano espressamente tanto il testo unico del 1929 quanto la legge bancaria del 1938, le cui norme avevano costituito il substrato normativo della qualificazione delle casse di risparmio come enti pubblici creditizi.
Alla luce di tutto ciò, risulta assai improbabile riuscire a negare il compimento di quella che è stata definita la «depubblicizzazione» tanto degli enti conferenti quanto delle società per azioni conferitarie.
Non si può fare a meno di constatare che istituzioni nate come private e rese pubbliche per effetto di concezioni stataliste siano tornate ad essere istituzioni private, che trovano il loro fondamento nei rispettivi atti costitutivi e statuti, che si presentano come atti di autonomia privata con lo scopo di perseguire finalità superindividuali. Come per gli enti di assistenza e beneficenza, quindi, anche per molti enti conferenti possiamo tranquillamente affermare che sono da considerarsi enti privati quando sono sorti per iniziativa e volontà privata ed operano con mezzi privati. L'aver dimostrato che anche gli enti conferenti possono essere enti privati rende sicuramente più pericoloso ed insopportabile qualsiasi intervento statale che pretenda di sostituirsi a fisiologici atti di autonomia privata di detti enti. Il voler privatizzare qualcosa che è già privato ci fa pensare che si voglia in effetti rendere questo qualcosa meno privato, per poter magari interferire nella gestione attraverso l'organo di vigilanza e per mettervi sopra un cappello politico.
L'invasione statale diviene ancora più grave se si considera che le formazioni sociali in cui si svolge la personalità dell'uomo (tra le quali rientrano sicuramente anche le fondazioni bancarie) trovano un'espressa tutela nell'articolo 2 della Costituzione. La tutela costituzionale di tali enti è peraltro rintracciabile anche nell'articolo 18, che intende garantire la libertà di associazione.
Nell'esaminare il provvedimento non bisogna dimenticare che gli originali enti di credito da cui derivano molte fondazioni bancarie nacquero talvolta sotto forma di associazioni e talvolta sotto
forma di fondazioni. Indipendentemente dalla struttura associativa o non, i cosiddetti enti conferenti non possono essere assoggettati a direttive incisive sulla loro autonomia, che dovrebbe avere come unico limite solo quanto è stabilito dal codice civile per le comuni associazioni e fondazioni. L'abbandono di una logica di tipo pubblicistico dovrà necessariamente portare ad evitare che dall'esterno vengano fissate in maniera rigida le finalità da perseguire, la composizione degli organi amministrativi o l'introduzione di controlli invasivi ulteriori o diversi rispetto a quelli previsti dal codice civile.
Esaminando da vicino il testo, rileviamo che l'articolo 2 (che nel suo insieme comprime l'autonomia dell'ente fondazione ed è carente anche con riferimento al profilo della gestione e della vigilanza) prevede che i cosiddetti enti conferenti «debbono provvedere ad adeguare i loro statuti ai decreti legislativi» e che «con l'approvazione delle relative modifiche statutarie gli enti diventano persone giuridiche private». Mi chiedo e chiedo al relatore: e se non adeguano i loro statuti? Ragionando a contrario, dovremmo pensare che le fondazioni (che, per quanto si è detto prima, sono enti privati), ove non adeguino gli statuti, diventino ope legis di diritto pubblico. Ciò mi pare veramente eccessivo. Se già sono enti privati, non capisco perché dovrebbero diventare, solo con l'adeguamento degli statuti, persone giuridiche private.
Il provvedimento, dopo aver mostrato l'intenzione di attribuire la personalità giuridica privata alle fondazioni bancarie, non prosegue in questa direzione fino in fondo. L'aver attribuito la personalità giuridica privata, infatti, imporrebbe di rinviare anche per la disciplina delle fondazioni bancarie a quanto previsto dagli articoli 12 e seguenti del codice civile per le persone giuridiche private, anche per non creare disparità tra le varie persone giuridiche private.
Così non è nel testo in esame. Potranno sorgere certamente problemi interpretativi e problemi sorgeranno per il riconoscimento. Nel codice è previsto che gli enti di carattere privato acquistano la personalità giuridica mediante il riconoscimento concesso con decreto del Presidente della Repubblica ovvero del presidente della regione o del prefetto. Tale riconoscimento è un provvedimento amministrativo con efficacia costitutiva e pertanto, nella impalcatura normativa del codice civile, detto riconoscimento sembra essere il perno di tutta la disciplina della personalità giuridica privata.
Nella impalcatura del provvedimento in esame, invece, gli enti conferenti diventano persone giuridiche private solo dopo avere adempiuto a quanto previsto nel testo, ma non si fa alcun accenno al riconoscimento. Non sappiamo se tale riconoscimento necessiti comunque o se si debba ritenere che si sia pensato ad una sorta di automatismo e quindi ad un riconoscimento che avvenga ope legis, con la sola approvazione delle modifiche statutarie da parte dell'organo di vigilanza. In realtà, ove si fosse voluta prevedere intenzionalmente una deroga di tale portata al codice, sarebbe stato opportuno renderla in maniera espressa; se invece di deroga non si tratta il provvedimento è carente perché né rinvia alla disciplina generale indicata dal codice, né prevede espressamente una disciplina speciale.
Dei tipici elementi delle persone giuridiche private, tuttavia, non manca soltanto il riconoscimento come atto formale; il provvedimento nel restringere la libertà delle fondazioni bancarie viola anche lo spirito dell'articolo 16 del codice civile. Questa norma si limita a predeterminare gli elementi essenziali (denominazione, scopo, patrimonio) che devono indicarsi nell'atto costitutivo e nello statuto delle persone giuridiche private; elementi che però nel contenuto possono essere autonomamente determinati dagli enti. Analoga autonomia è prevista dal codice anche per tutte le modifiche statutarie.
Nel testo al nostro esame, invece, all'articolo 2, le fondazioni vengono obbligate ad adeguare i loro statuti alle disposizioni dei decreti legislativi. La lettera g) di tale articolo, poi, stabilisce che negli statuti debbano prevedersi distinti
organi di indirizzo, di amministrazione e di controllo. Non vorremmo che in sede di delega venisse negato alle fondazioni il diritto di decidere autonomamente circa il migliore assetto degli organi stessi.
L'impressione che si ricava dalla lettura del provvedimento è dunque che tutto sia predeterminato e che nulla sia rimesso all'autonomia privata delle fondazioni. Nel testo vi è anche poca chiarezza. Si parla per esempio di «distinti organi di indirizzo», ma non si comprende se questi siano propriamente le assemblee o qualcos'altro, né quali poteri abbiano; non si capisce, poi, perché detti organi di indirizzo debbano ritenersi qualcosa di distinto e quindi di separato dalla fondazione, laddove le assemblee costituiscono con l'ente un tutt'uno.
Nessun accenno vi è poi all'obbligo della registrazione delle persone giuridiche, di cui all'articolo 33 del codice civile, il che non è di poca rilevanza se si considerano le conseguenze previste dal codice civile in caso di mancata registrazione: da una parte, gli amministratori di un ente riconosciuto ma non registrato rispondono personalmente e solidalmente, insieme con la persona giuridica, delle obbligazioni assunte; dall'altra, la mancata iscrizione di qualsiasi modificazione comporta l'inopponibilità ai terzi.
I controlli per le fondazioni, soggetti privati, sono disciplinati dall'articolo 25 del codice civile. Anche per i controlli, invece, nel provvedimento si è ritenuto di derogare all'articolo 25 del codice civile (almeno a non voler pensare, ma sarebbe assurdo, ad un doppio controllo) prevedendosi, alla lettera h) dell'articolo 2 del provvedimento in esame, la sottoposizione dell'ente fondazione ad un'autorità di vigilanza molto più invasiva, autorità che, tra l'altro, ha anche il potere di verificare «la sana e prudente gestione» (così violando la autonomia gestionale di un ente privato), «la redditività del patrimonio» (così impedendo magari operazioni a lungo respiro, dovendosi gli enti preoccupare della immediata redditività), di determinare il limite minimo di reddito da destinare ai fini statutari, di sciogliere gli organi gestori e di controllo per gravi e ripetute irregolarità nella gestione, potendo disporre la liquidazione dell'ente. Aggiungo che dare all'organo di vigilanza il compito di stabilire un limite minimo di reddito da destinare a fini statutari non solo comprime, offendendola, l'autonomia gestionale dell'ente, ma va contro la tendenza a ridurre i controlli sugli enti no profit. Nasce un controllo di fatto politico e ciò ci preoccupa, come ci preoccupa la discrezionalità data agli organi di vigilanza. L'organo di controllo ha poteri di vigilanza molto ampi, può imporre vincoli anche quantitativi alle modalità di investimento del patrimonio da parte delle fondazioni; diventa non solo un organo di vigilanza e di controllo, ma un organo di indirizzo.
Non ci convince questo comma, vi è troppa rigidità, troppa compressione dell'autonomia. Non ci convince, sebbene, grazie anche alla ferma opposizione di alleanza nazionale, il testo in esame sul punto in questione sia migliore rispetto a quello governativo, non essendo più prevista per l'organo di vigilanza la possibilità di esprimere pareri di merito circa le decisioni assunte, laddove nel testo governativo l'organo di vigilanza poteva addirittura esercitare poteri sostitutivi con riferimento a singoli atti e poteri di revoca degli organi gestori.
Si potrebbero poi sollevare obiezioni anche in ordine alla delega impropria prevista nel testo - nell'ultimo periodo della lettera h) -, con la quale si autorizza il Governo ad emanare disposizioni di coordinamento con la disciplina relativa alle ONLUS. È bene qui rilevare la diversità della vigilanza prevista dal decreto legislativo n. 460 del 1997 sulle ONLUS, e comunque sulle associazioni no profit in genere, da quella prevista nel testo in esame. Lì il legislatore ha attribuito alla vigilanza solo il compito di verificare l'esistenza delle condizioni previste per godere delle agevolazioni fiscali o per conservare la denominazione di ONLUS; qui l'organo di vigilanza entra nel merito, dà direttive, dispone in ordine al reddito, diventa organo di indirizzo.
L'articolo 3 del testo in esame presenta aspetti di criticità in ordine al regime tributario degli enti, anche se devo rilevare che la Commissione ha accolto un emendamento di alleanza nazionale il quale prevede che la titolarità di diritti reali su immobili acquisiti a titolo gratuito non fa perdere all'ente la qualificazione di ente non commerciale per due anni dall'acquisto, pur in presenza di immobili non strumentali. Va forse meglio chiarito il concetto di immobile strumentale e va forse previsto, per la titolarità di beni in sola nuda proprietà (titolarità che si verificherà sempre più frequentemente, perché assisteremo sempre più a donazioni con riserva di usufrutto o a disposizioni testamentarie gravate da usufrutto a favore di terzi) che il termine dei due anni decorre non dall'acquisto, ma dal relativo consolidamento. Peraltro, la norma presenta ulteriori aspetti di incertezza, è troppo penalizzante. Forse potrebbe inserirsi nel testo una disposizione che consenta all'ente la locazione di immobili, anche per venire incontro alle esigenze abitative, o comunque si potrebbe prevedere la possibilità per l'ente di detenere immobili in una percentuale predeterminata, senza perdere la qualifica di ente non commerciale.
Anche l'articolo 4, sul regime fiscale delle partecipazioni bancarie, presenta aspetti da modificare. Considero negativo aver imposto il limite di quattro anni per la vendita delle partecipazioni nella società bancaria conferitaria in esenzione da plusvalenza e non avere previsto, come nel testo originario, una tassazione ridotta, dopo i quattro anni e fino ai sette. Considero poi negativo che si sia prevista la perdita della natura non commerciale per l'ente che dopo i quattro anni risulti ancora titolare di partecipazione di controllo nella società bancaria conferitaria. Mi chiedo, e chiedo al relatore: che avviene se l'ente vende questa partecipazione dopo quattro anni e un giorno? Perde per sempre la natura di ente non commerciale? Sarebbe forse più logico prevedere, anche per impedire vendite non ben ponderate, che l'ente il quale si sia adeguato, anche se in ritardo, alla normativa ed abbia ceduto le partecipazioni dopo il quadriennio, riacquisti, a cessione avvenuta, la qualifica di ente non commerciale.
Sugli articoli 5 e 6 mi richiamo a quanto ha già detto brillantemente Carlo Pace nella sua relazione di minoranza: su tali temi torneremo in sede di esame degli emendamenti.
Concludo affermando che tutte le considerazioni sopra esposte determinano in noi un atteggiamento fortemente critico verso il provvedimento governativo. Esso rappresenta un passo indietro nel processo di privatizzazione. Vi è anche il rischio di interferenze politiche. Prevale una logica dirigistica, con il rischio di danni irreversibili per il sistema economico e finanziario del paese.
Mi auguro che l'Assemblea accolga le proposte contenute nella relazione di minoranza e le proposte che alleanza nazionale prospetta con i suoi emendamenti: in tal modo potremmo approvare una legge migliore, che dia certezza normativa e faciliti realmente i processi di privatizzazione e di ristrutturazione del sistema bancario italiano (Applausi dei deputati dei gruppi di alleanza nazionale e di forza Italia - Congratulazioni).
Dobbiamo ringraziarlo, perché, quantunque in disaccordo con noi, ha colto bene il motivo del nostro disappunto. Noi riteniamo infatti che questo provvedimento, pur ponendosi finalità importanti e condivisibili di razionalizzazione del
settore, violi seriamente l'autonomia dei soggetti che vi si troveranno sottoposti. Devo ricordare innanzitutto che, assieme alle fondazioni vere e proprie che controllano aziende creditizie, vi sono istituzioni su base associativa che sono già private. A queste l'intento privatizzatore - peraltro, come dirò più avanti, più che altro apparente - del Governo non ha ragione dunque di essere applicato; ove lo fosse, avrebbe l'effetto di rendere un po' meno private istituzioni che già private sono.
Il tentativo di fare passare per pubbliche e quindi da privatizzare queste istituzioni costituite su basi associative e cioè naturalmente private si basa su due errori fondamentali. Il primo è di ritenere che il loro patrimonio si sia formato con apporti pubblici: non è così. In molti, rilevanti casi le istituzioni a cui mi riferisco non hanno avuto una lira dallo Stato o dal settore pubblico ed i loro patrimoni si sono accumulati nei secoli sulla base di apporti privati che soddisfacevano il senso civico di comunità solidali con le esigenze del proprio naturale ambito territoriale. È dunque contraddittorio parlarne come di un patrimonio pubblico ed aggiungere che si tratta di patrimonio accumulatosi attraverso donazioni, attività, opere di intere collettività, come si legge in una delle relazioni al disegno di legge.
L'altro errore è contenuto nella seconda relazione, dove la natura pubblica si vorrebbe evincere dal fatto che sarebbero beni pubblici la ricerca scientifica, l'istruzione, l'arte, la sanità, cioè quelli prodotti dalle fondazioni bancarie. Ma chi lo ha detto che questi beni sono pubblici per necessità o per definizione? Certo che se si parte da queste premesse il principio di sussidiarietà che noi vorremmo introdurre in Costituzione avrà ben poche speranze di trovare credito.
L'intento è quello, come si diceva, di privatizzare. A parte dunque che esso ha un senso solo nei casi in cui di istituzioni pubbliche si tratti, tuttavia il dirigismo della sinistra riesce ad alterare anche il significato dei suoi interventi classificati come privatizzatori. Ecco infatti che si fissa la percentuale del reddito da destinare ai fini sociali; si prevede l'ennesima authority, con poteri di controllo non solo di legittimità ma anche di merito e che comportano addirittura la sostituzione degli atti, la revoca degli organi gestori, lo scioglimento dell'ente, come dire poteri di vita e di morte. E naturalmente, in attesa dell'authority, chi eserciterà questo potere se non il solito Ministero del tesoro, che sta diventando più potente dello stesso Governo? La stessa adeguatezza o meno del ROE sarà il risultato di una decisione di natura dirigistica: dopo l'equo canone avremo l'equo ROE. Si dice che negli Stati Uniti si è preoccupati perché nella stratosfera vi sarebbero troppe astronavi; noi siamo preoccupati perché nel cielo italiano navigano troppe authority (siamo già ad una ventina) (Applausi dei deputati dei gruppi di forza Italia e di alleanza nazionale).
Mentre le relazioni sostengono entrambe che le resistenze al provvedimento provengono - cito ancora letteralmente - da «consorterie e gruppi ristretti locali» oppure - sempre citando letteralmente - dal «timore di perdita di poteri dei gruppi politici locali», il disegno di legge che cosa predispone? Nuove invadenze degli enti locali, con la possibilità che entrino negli organi di indirizzo, amministrazione e controllo, appunto, persone che detengono cariche politiche.
Così, dal confronto tra le critiche a coloro che resisterebbero al disegno di legge e l'apertura degli accessi a coloro che si vogliono far entrare, sembra emergere chiara e tonda una finalità di lottizzazione ulivista che sostituisce quelle precedenti.
Voi pensate che da tutto ciò possa derivare una condizione di migliore efficienza del sistema? A parte il fatto che le inefficienze bancarie non sono prevalenti nel settore in questione ma sono tipiche di tutto il sistema bancario, a parte il fatto che semmai sul settore ha gravato in particolare la sottrazione di una parte degli utili al reinvestimento aziendale per essere destinati al sociale (limite questo che - ricordatelo - caratterizzerà tutto il
no profit al quale si affidano forse speranze eccessive di crescita), a parte il fatto che sul rendimento del capitale ha anche pesato il conferimento all'azienda bancaria, deciso dal Governo Amato, di beni e partecipazioni non strumentali, a parte tutto ciò dicevo, a noi pare che il dirigismo e le interferenze politiche ed i lacci e le regolamentazioni renderanno le fondazioni ben poco efficienti.
Sono queste nostre critiche, critiche di parte? Certo, noi le abbiamo sollevate per primi, ma gli ambienti tecnici e non politici le hanno fatte proprie. Sandro Molinari, presidente dell'ACRI, su Il Sole 24 Ore del 28 maggio 1997 definiva alcuni articoli del provvedimento come lesivi dell'autonomia degli enti; Emmanuele, presidente della Cassa di Roma, sul Corriere della Sera del 4 giugno 1997, ha definito l'effetto del provvedimento come un esproprio; Giuseppe Guzzetti, presidente della fondazione Cariplo, sul Corriere della Sera del 31 maggio 1997 ha definito il provvedimento come troppo centralista, facendo intravedere anche l'ipotesi di ricorso alla Corte costituzionale; Giuseppe De Rita, presidente del CNEL, si è espresso in termini di esproprio proletario su il Mondo e il governatore della Banca d'Italia non ha condiviso l'istituzione di un'apposita authority (si veda il Corriere della Sera del 28 maggio 1997).
Ma non avete tenuto conto dei moniti dell'opposizione e delle proteste che provengono dai tecnici più qualificati; avete cioè voluto dimostrare la supponenza di chi ritiene di essere l'unica forza depositaria del giusto. Ma vi rendete conto della responsabilità che vi assumete di fronte alla frattura che si sta operando non tra maggioranza ed opposizione, della quale non ci preoccupiamo tanto perché contiamo che tornerà a nostro favore, ma tra questo Governo e il paese reale, rappresentato nella specie da esperti che operano con prestigio nella banca e nella finanza nazionale?
Il nostro è dunque, conclusivamente, un invito al ripensamento e a migliorare il provvedimento in oggetto con gli opportuni emendamenti da noi proposti (Applausi dei deputati dei gruppi di forza Italia e di alleanza nazionale).
Ho da fare poche riflessioni sul testo in esame, condividendo sostanzialmente la relazione di minoranza del collega Carlo Pace e le osservazioni fatte poc'anzi dal collega Marzano. Tra queste osservazioni la prima riguarda il forzato ed estensivo utilizzo della delega da parte del Governo.
Non devo certamente richiamare ai colleghi, in questa sede, che la Costituzione all'articolo 76 consente al Parlamento di delegare la funzione legislativa solo per oggetti definiti e previa determinazione dei principi e dei criteri direttivi cui il Governo deve ispirarsi.
Con riferimento al disegno di legge di delega al Governo in materia di disciplina delle fondazioni di origine bancaria oggi al nostro esame, vi sono alcuni punti essenziali che appaiono manifestamente poco chiari e che possono portare ad una compressione delle autonomie statutarie ed operative delle fondazioni. Si tratta, quindi, di un provvedimento importante e che interessa un settore strategico. Tuttavia, esso deve essere migliorato sotto taluni profili e ciò è quanto ci proponiamo di fare con i nostri emendamenti.
Mi interessa in particolare richiamare l'attenzione dei colleghi sull'esproprio che si vuole effettuare nei confronti delle fondazioni. Giustamente l'onorevole Carlo Pace, a conclusione del suo intervento, ha detto che si vogliono mettere le mani su un patrimonio di 80 mila miliardi e, con la scusa di privatizzare, si rende pubblico o semipubblico ciò che è già privato.
Mi riferisco in particolare ai poteri attribuiti alle autorità di vigilanza, alla composizione degli organi ed infine al profilo stesso della gestione. Per quanto attiene al primo aspetto, trattandosi di vigilanza su istituzioni private e non su organi pubblici o su enti pubblici strumentali, è opportuno specificare che l'unico controllo possibile è quello di legittimità, onde evitare interventi di dirigismo finanziario per quanto riguarda le libere scelte di investimento patrimoniale. In particolare la fissazione di un livello di redditività per gli investimenti patrimoniali delle fondazioni può essere suscettibile di interpretazioni tali da consentire comportamenti invasivi da parte delle istituzioni presenti sul territorio. Ciò è particolarmente pericoloso anche tenendo conto della complessità e delle variabilità proprie del periodo di transizione che stiamo vivendo e del fatto che si tratta di enti che gestiscono patrimoni costituiti senza alcun apporto statale o di pubblica istituzione.
Per quanto attiene poi alla composizione degli organi, è certamente condivisibile il principio che prevede una articolazione degli organi delle fondazioni su tre livelli - indirizzo, amministrazione e controllo -, in quanto essa garantisce una corretta ripartizione di funzioni, tanto più che oggi solo le fondazioni associative hanno l'organo di indirizzo, cioè l'assemblea che elegge il consiglio di amministrazione e il collegio sindacale. È però opportuno prevedere che dovranno essere gli statuti delle fondazioni a definire autonomamente la composizione, le modalità elettive e procedurali di tali organi, escludendo in tal modo che il Governo detti norme dirigiste in materie riservate all'autonomia delle fondazioni.
Pericoloso in proposito appare un inciso che prevede negli organi di indirizzo anche la rappresentanza del territorio. Come tutti sanno, molte fondazioni sono connesse ad enti locali, ai quali spetta designare i componenti di organi statutari. Per queste fondazioni, che sono la maggioranza, l'inciso appare dunque superfluo. Potrebbe tuttavia prestarsi a consentire norme direttive o delegate dell'autorità di vigilanza che estendano ad altri enti locali o a rappresentanze territoriali il diritto di effettuare le designazioni, così alterando la natura delle singole fondazioni o violando un'autonomia costituzionalmente garantita.
Le fondazioni dell'altra categoria, cioè quelle a natura associativa, hanno ovunque corpi sociali rappresentativi dei più qualificati ambienti locali, secondo una ininterrotta tradizione; inoltre in tali assemblee, a seguito della normativa del 1990 (articolo 23 del decreto-legge n. 356) almeno il 70 per cento dei componenti deve essere designato da istituzioni culturali, da enti ed organismi economico-professionali nonché da enti locali territoriali. Con tale disposizione del 1990, pur censurabile sotto il profilo della conformità costituzionale, le assemblee sono state integrate. Una ulteriore distorsione della struttura associativa privatistica sarebbe perciò inaccettabile e non si comprende perché il Governo non raccolga queste nostre sottolineature. Il fatto che non le raccolga fa sorgere seri dubbi sulla serenità dei comportamenti del Governo stesso.
Appare pertanto inutile o subdolamente pericoloso il menzionato inciso. Occorre dunque abrogarlo o, quanto meno, sostituire la parola che consideriamo equivoca - «rappresentanze» - con la parola «espressioni», dopo aver comunque rimesso agli statuti l'autonoma disciplina della composizione degli organi, come in precedenza ho sostenuto.
Per quanto attiene l'autonomia gestionale, occorre sottolineare la non conformità costituzionale del principio per cui tra gli investimenti delle fondazioni sono escluse partecipazioni di controlli in enti e società che non siano strumentali alle finalità statutarie, quali la ricerca, l'istruzione, l'arte, la sanità, l'assistenza stessa. Si tratta di una limitazione assurda in questi tempi, in quanto possono aversi investimenti sicuri e redditizi in settori diversi da quelli strumentali là dove la partecipazione al controllo societario può essere opportuna per garantire il risultato.
Mi riferisco al comparto delle ONLUS, più volte richiamato dai colleghi nel corso del dibattito.
La formula usata è equivoca perché non è chiaro se venga impedito il controllo esclusivo ovvero anche una partecipazione al controllo e non è altresì chiaro se le fondazioni possano continuare ad avere partecipazioni significative nelle loro banche conferitarie. A tale proposito è bene ricordare che le fondazioni di cui si tratta erano all'origine casse di risparmio e, anche dopo il conferimento della funzione bancaria ad una distinta società di credito di enti originari, cioè le fondazioni bancarie, hanno tuttora un rapporto positivo con la banca da loro generata e ne garantiscono il legame con il territorio. Pur essendo positive le dismissioni da parte delle fondazioni di parte cospicua della loro partecipazione nella banca, perché ciò può consentire razionalizzazioni strutturali, quali fusioni e integrazioni societarie, nonché presenze azionarie nuove ed innovatrici, non di meno una presenza della fondazione, seppure congiuntamente ad altri azionisti nel gruppo di controllo della banca figlia, è auspicabile (come nel caso della fondazione Cariplo in Banca intesa e della compagnia di San Paolo nella San Paolo-IMI) che si intervenga per limitare l'esercizio di impresa da parte delle fondazioni, lasciando però all'autonomia decisionale delle fondazioni la gestione patrimoniale.
Signor Presidente, onorevoli colleghi, mi sono permesso di fare queste brevi considerazioni sull'intero provvedimento. Ci auguriamo che il Governo possa raccogliere attraverso i nostri emendamenti questi consigli che abbiamo offerto con il mio intervento nella discussione sulle linee generali. Mi auguro inoltre di incontrare questa sensibilità da parte del Governo. Ove tale sensibilità fosse manifestata, potremmo avere un atteggiamento di larga disponibilità per l'approvazione del provvedimento; se ciò non si verificasse, invece, esprimeremo un parere molto negativo su questo provvedimento e, riguardo agli aspetti che non ho trattato in questo intervento, mi rifaccio all'ampia e puntuale esposizione fatta in questa sede dal collega Carlo Pace (Applausi dei deputati dei gruppi del CDU-CDR e di alleanza nazionale).
Il cosiddetto riordino degli enti conferenti come ente del settore no profit (quanto meno per almeno il 50 per cento dei loro redditi) è già di per sé una negazione di quella piena autonomia statutaria e gestionale di cui si parla: locuzione questa del «piena» che si legge non solo nella relazione che accompagna il provvedimento, ma persino nella lettera i) del comma 1 dell'articolo 2. Sarebbe stato più conforme alla disciplina del riordino sostituire la locuzione «piena» con la locuzione «mutilata»!
Il terreno di coltura dell'impianto normativo è quello del «filo rosso» ricordato dal relatore Agostini, al quale ha fatto eco l'onorevole Giannotti che vorrebbe una legislazione più vincolistica e che reclama l'impresa sociale, ossia il superamento del concetto e della funzione dell'impresa chiamata ad operare sul mercato, e non nel sociale soltanto!
I dubbi di costituzionalità non sono solo quelli indicati nella pregiudiziale Contento ed altri n. 1, ma sono già stati sollevati nel mio intervento presso la Commissione affari costituzionali del 21 ottobre 1997 non solo con riferimento agli articoli 3, 41, 42, 43 e 47 della Costituzione, ma anche alla giurisprudenza della Corte costituzionale che, pronunciandosi sulle associazioni di volontariato, ha affermato l'illegittimità costituzionale dell'unicità di tipologia di dette associazioni, come da sentenza n. 75 del 1992. Anche
con il riordino al nostro esame avremo una tipologia unica di ente conferente, che non tiene conto della differente fisionomia tra fondazioni-Casse e fondazioni-associazioni. Da qui nasce il palese contrasto della normativa anche con gli articoli 2 e 18 della Costituzione.
Nel riallacciarmi per il merito alle valutazioni critiche fatte dagli onorevoli Armosino e Marzano, non posso in primo luogo esimermi dal sottolineare che la delega legislativa che viene richiesta dal Governo al Parlamento (e che la maggioranza ulivista si appresta ad accordare) è l'ennesima mortificazione del Parlamento. Le Camere, infatti, sempre più frequentemente sono state dalla maggioranza di sinistra-centro indotte a dismettere la veste di legislatore e ad indossare la divisa di sentinelle del Governo.
Si è detto - di certo per difetto - che il Governo «detiene» già 62 deleghe; a questo punto, sarebbe importante proporre l'istituzione di un apposito osservatorio che avesse la funzione di monitorare il fenomeno ancora in crescita delle deleghe a |fa go go chieste ed ottenute dal Governo, nonché quello dei decreti legislativi che alle deleghe danno seguito.
In tema di decreti legislativi la similitudine che mi viene più spontanea è quella con i convogli ferroviari: alcuni di essi non partono o non si sa se partano o meno (ad esempio, quello dell'IRI 2); altri partono ed arrivano a destinazione ed altri ancora deragliano dal binario delle deleghe proprio come i treni di Burlando.
Per il riordino della disciplina civilistica e fiscale degli enti conferenti, o fondazioni bancarie, e per la disciplina fiscale delle operazioni di ristrutturazione c'era bisogno di una disciplina legislativa forgiata dal Parlamento. La maggioranza ci impone, invece, l'ennesima delega al Governo. Adesso la maggioranza non si limita ad accordare la delega richiesta dal Governo, ma ne aggiunge una nuova, quella che si rinviene nell'ultimo periodo della lettera h) del comma 1 dell'articolo 2.
La delega richiesta dal Governo ha enorme rilevanza perché in base ad essa il Governo completerà la riforma dell'ordinamento creditizio senza che siano decisi dal Parlamento, sul tema del riordino bancario, criteri precisi, idonei cioè a far pervenire a soluzioni che siano adeguate alla complessità dei problemi. I criteri ci sono, ma sul tema degli enti conferenti; si privatizzano fondazioni bancarie, non solo quelle sorte nell'ambito pubblicistico, ma persino quelle che hanno avuto da sempre e che hanno in atto natura privatistica. Se per un verso si dice di privatizzare, dall'altro si determinano con leggi i fini statutari, i criteri di composizione degli organi e le penetranti funzioni delle autorità di controllo.
Il Parlamento dovrebbe chiedersi come mai istituti di credito di primo piano siano andati in crisi malgrado l'esistenza di controlli di legge e se non sia il caso di adeguare questi controlli e non quelli sulle fondazioni. Sotto questo profilo non credo che sia stato utile agli interessi del paese, alla tutela dei risparmiatori, quanto operato dalla maggioranza allorché ha respinto la proposta di istituzione di una commissione d'inchiesta sulla crisi del Banco di Napoli.
Sulle linee generali della legge di delega denuncio un pericolo: quello del sacrificio dei tanti istituti di credito minori, ma che in tante realtà territoriali svolgono una funzione importante e che potranno sparire in virtù di un processo di concentrazione favorito dal legislatore delegato e che vedrà avvantaggiate le grandi realtà bancarie a scapito delle minori. Ancora sulle linee generali: si agganceranno le risorse finanziarie delle fondazioni alle prossime privatizzazioni di imprese pubbliche? Se sì, è il cane che rincorre la sua coda!
Passo quindi a valutare uno degli aspetti di maggiore allarme nell'opinione pubblica. La maggioranza sta privatizzando le fondazioni, o le sta politicizzando nel senso di consentire l'inserimento in seno agli organi delle fondazioni medesime di persone da tenere al guinzaglio dei partiti? Perché sono stati respinti
gli emendamenti del Polo per le libertà, volti ad evitare l'ingresso negli organi delle fondazioni di soggetti già titolari, o titolari in atto, di cariche politiche nell'ambito degli enti locali?
In sede di discussione sui profili di costituzionalità esaminati dalla Commissione affari costituzionali nella seduta del 21 ottobre 1997 avevo suggerito che potessero permanere le finalità di religione o di culto eventualmente previste dagli statuti o da atti fondazionali. La proposta aveva in particolare suscitato l'interesse dei parlamentari del partito popolare e l'adesione dei deputati pidiessini facenti parte della Commissione. Vedo che il testo proposto dalla VI Commissione in ordine all'articolo 2, comma 1, lettera a) non ha tenuto in alcun conto a tal riguardo il parere della I Commissione, che sul punto aveva accolto la mia proposta con apposita osservazione ivi inserita. Forse i popolari della VI Commissione non la pensano come i colleghi Jervolino Russo e gli altri della I Commissione?
Mi pare che la locuzione «scopi di utilità sociale», preceduta dall'avverbio «esclusivamente», sia il segnale rinforzato di una concreta direzione della riforma in senso più antitetico alla privatizzazione. Perché il testo proposto si preoccupa di far salvi i compiti e le funzioni attribuite dalla legge ad altre istituzioni e non fa salvi quanto meno i compiti e le funzioni di religione e di culto previsti dagli statuti o dagli atti fondazionali? Mi è sembrato giusto farmi carico della presentazione di un emendamento ad hoc, volto cioè a far rientrare nel novero degli scopi di utilità sociale quelli di religione e di culto eventualmente previsti. Mi esprimo con un esempio: Sturzo fondò a Caltagirone sin dal 1896 la Cassa rurale artigiana san Giacomo che alle finalità sociali aggiungeva finalità religiose. Perché le funzioni, peraltro marginali, di assistenza religiosa dovrebbero essere cancellate? Si pensi all'erogazione di somme per sacerdoti e suore in condizione di assoluta indigenza, bisognosi di interventi chirurgici o di cure costose all'estero, ovvero agli interventi per l'educazione religiosa dei giovani, eccetera.
Aggiungo una considerazione. Se l'atto di fondazione prevede interventi ed erogazioni di somme per finalità localistiche, perché privare le collettività locali di tali risorse? Faccio l'esempio di una fondazione che preveda contributi per un'associazione folcloristica o culturale. Perché privare - ripeto - le collettività locali di tali tradizionali risorse?
Giova sottolineare che la mancata presa in considerazione da parte della Commissione VI del parere reso dalla Commissione I la si desume anche dal fatto che alla lettera d), comma 1, dell'articolo 2, si prevedono contabilità speciali per interventi esclusivamente - e sottolineo esclusivamente - nei settori della ricerca scientifica, dell'istruzione, dell'arte, della sanità e dell'assistenza alle categorie sociali deboli. Come si vede, anche nella lettera d) non si menziona affatto un intervento per finalità di culto o di religione. Quanto poi alla lettera g), del comma 1, dell'articolo 2, non si evidenzia alcuna ipotesi di incompatibilità dei componenti gli organi fondazionali con i titolari di cariche negli enti locali, il che farà incrementare la politicizzazione delle fondazioni.
Un'ultima non meno importante considerazione critica. Quanta cura vi è nella lettera h), comma 1, dell'articolo 2, nel sottoporre le fondazioni ad un'autorità di vigilanza? Nessuna obiezione avanzerei per le fondazioni sorte in ambito pubblicistico; non comprendo invece il perché della sottoposizione a vigilanza di fondazioni che, secondo la legislazione vigente, sono già persone giuridiche private, ammesso che di semplice vigilanza si tratti. Non si tratta di un'autorità di semplice vigilanza, dal momento che ad esse dovranno essere sottoposte per l'approvazione (e quindi, ribadisco, di tutela e non di vigilanza si tratta) le operazioni di trasformazione e di concentrazione, la fissazione del reddito minimo da destinare a fini statutari e persino le semplici modifiche statutarie. Ma non è finita,
l'autorità preposta può sciogliere gli organi gestori di controllo e può infine disporre la messa in liquidazione dell'ente: altro che privatizzare le fondazioni, già da tempo persone giuridiche e private!
Vi è la ciliegina finale: in via transitoria e fino all'entrata in vigore della novella disciplina della ventesima autorità di controllo delle persone giuridiche, ma anche successivamente all'entrata in vigore della normativa sulla stessa autorità, il ministro del tesoro eserciterà le funzioni di controllo sulle fondazioni aventi titolarità di partecipazione e di controllo in società bancarie.
Colleghi deputati, il titolo del disegno di legge governativo non ha la spudoratezza di parlare di privatizzazione delle fondazioni, ma solo del loro riordino. Trovo persino umoristico, oltre che fuorviante, la considerazione del relatore, onorevole Mauro Agostini, là dove nella seduta di Commissione del 14 maggio 1997 ha affermato, con riferimento all'articolo 2 ed alla disciplina civilistica ivi tratteggiata, che detta disposizione ha il fine di attribuire alle fondazioni personalità giuridica di diritto privato per dare loro piena autonomia statutaria e gestionale. Mai l'autonomia statutaria e gestionale si è trovata ad essere negata come nel provvedimento al nostro esame che finisce con il rendere più dirigistica e compressiva la già dirigistica legislazione pregressa e quella vigente.
Forse l'accoglimento degli emendamenti potrebbe salvare la malapianta: me lo auguro, perché solo in tale eventualità l'orientamento contrario del gruppo parlamentare di forza Italia potrebbe mutare (Applausi dei deputati del gruppo di forza Italia).
Questa previsione mi lascia perplesso se la si legge contemporaneamente al comma d), secondo il quale le fondazioni possono esercitare, con contabilità separate, imprese direttamente strumentali ai fini statutari esclusivamente nei settori della ricerca scientifica, dell'istruzione, dell'arte, della sanità e dell'assistenza e detenere partecipazioni di controllo in enti e società che abbiano per oggetto esclusivo l'esercizio di tali imprese. Credo che in questo modo, di fatto, si consenta alle fondazioni di poter gestire direttamente in questo paese strutture sanitarie.
Credo inoltre che, al di là del problema della gestione diretta, lo stesso tipo di preoccupazione valga anche per la gestione indiretta. Mi domando come questo tipo di previsione si concordi con il testo in questo momento all'esame della Commissione affari sociali della Camera per la razionalizzazione del sistema sanitario nazionale e come sia ipotizzabile che una struttura come la fondazione possa gestire direttamente strutture sanitarie al di fuori della programmazione sanitaria nazionale e, soprattutto, delle programmazioni sanitarie regionali. Mi chiedo altresì come sia possibile ipotizzare che possano avvenire gestioni dirette ed anche interventi diretti al di fuori di un meccanismo di autorizzazione all'interno della programmazione sanitaria. Al di là dell'utilità sociale espressa nel comma a), non dobbiamo garantire solo la finalità generale dell'intervento, ma accertarci che anche per quanto riguarda l'accesso alle eventuali strutture sanitarie od all'impresa sanitaria che ha avvio, sia garantito il rispetto dell'articolo 32 della Costituzione, che questo non sia un ulteriore modo surrettizio di ipotizzare la presenza di cittadini di serie A e di serie B né un modo surrettizio di accedere a meccanismi diversi da quello del sistema sanitario nazionale.
Allora, plaudendo alle ipotesi che le fondazioni possano investire parte dei loro fondi in interventi per la ricerca scientifica ed anche per la sanità, credo che, più che in gestione diretta ciò dovrebbe avvenire all'interno dei piani sanitari regionali, collegati agli obiettivi di salute che si vogliono raggiungere ed ai livelli essenziali che si intende mantenere, per far sì che la struttura pubblica possa essere posta in condizione di raggiungere, in collaborazione con i finanziamenti delle fondazioni, gli obiettivi che insieme sono stati determinati per tutelare la salute dei cittadini.
Se questa specificazione non viene introdotta, di fatto, si consente alle fondazioni una gestione diretta od in concorso con altri al di fuori della programmazione e delle autorizzazioni che saranno richieste ed inserite nella delega che il Consiglio dei ministri ha approvato. Si creerebbe così un precedente pericoloso, ossia che il nostro sistema sanitario nazionale potrebbe trovarsi di fatto, senza un dibattito reale rispetto alle strutture sanitarie così gestite, di fronte ad un meccanismo di assistenza integrativo o di «seconda gamba» del sistema sanitario nazionale non previsto, come dicevo, con un dibattito corretto (Applausi dei deputati del gruppo dei popolari e democratici-l'Ulivo).
A me è utile ripercorrere alcune tappe di questa strada, perché mi pare ci aiutino a porre una questione politica relativa al provvedimento alla nostra attenzione. Noi tutti ricordiamo il periodo, non lontanissimo, in cui addirittura la Corte di cassazione di questo paese diceva che chi «faceva» la banca era un pubblico ufficiale od un incaricato di pubblico servizio, che la banca fosse privata o pubblica.
Con la legge Amato il paese ha affermato che «fare banca» era svolgere attività di impresa, che quindi da queste attività di impresa andavano separati i fini di utilità sociale che erano storicamente legati ad alcune banche italiane, ma che avevano dignità e logica autonome. Abbiamo provveduto ad una privatizzazione formale della banca pubblica, dicendo appunto che anche la banca pubblica era impresa, ma abbiamo mantenuto la proprietà pubblica di gran parte del sistema bancario italiano. L'abbiamo mantenuta attraverso il sistema delle partecipazioni statali, attraverso gli istituti di credito di diritto pubblico ed attraverso il sistema delle casse di risparmio.
Addirittura il paese affermò allora - è nella legge Amato e nei decreti di attuazione della stessa - che è vero che le banche ex casse di risparmio venivano private dei fini di utilità sociale che restavano alle fondazioni, ma che era necessario che quelle fondazioni tenessero il controllo di quelle banche. Ricordo questo per la storia, perché quel provvedimento che ha tanti meriti ebbe forse tale demerito.
Da allora abbiamo fatto alcuni passi in avanti: il recepimento della direttiva in materia bancaria, il testo unico del credito, la scelta importante che questo paese ha compiuto - che non è ovvia come oggi ci sembra - quando, in un momento particolare, ha affermato che le leggi a tutela della concorrenza si applicavano, e senza eccezioni, nel sistema bancario. Infatti la legge a tutela della concorrenza e del mercato stabilì una competenza specifica, negando però l'esistenza di eccezioni alle norme di tutela della concorrenza e del mercato nel settore del credito.
Abbiamo privatizzato alcune banche pubbliche. C'è stato dunque un momento di svolta.
Qui arriva, allora, il punto che a me pare politicamente rilevante: con la legge n. 474 del 1994 e con la direttiva Dini del 18 novembre 1994 - ricordo le date: spiegherò poi perché - abbiamo rovesciato l'assunto secondo il quale l'attività di impresa bancaria che nasceva da una banca pubblica doveva restare sotto il controllo della proprietà pubblica. Dicemmo «no»: la politica italiana scelse di privatizzare la proprietà di quelle banche e di incentivare chi le possedeva a vendere la proprietà per privatizzarla.
Quella scelta, cioè la scelta di dare incentivi, nel caso specifico alle fondazioni e agli enti conferenti, per privatizzare le banche è stata importante perché ha segnato un passo in avanti verso la crescita del grado di concorrenza del sistema bancario italiano.
Ho citato le date perché entrambi quei provvedimenti sono riconducibili al Governo del Polo per le libertà, sono riconducibili cioè al Governo sostenuto nelle aule parlamentari e davanti al paese da alleanza nazionale, da forza Italia e dalla lega nord per l'indipendenza della Padania. Non riesco a comprendere, dunque, come chi ha sostenuto quei provvedimenti, ritenendoli giusti, oggi possa sostenere la tesi esattamente contraria, che è sbagliato incentivare la privatizzazione della proprietà delle banche pubbliche.
Ho sentito più volte citare - mi pare in modo improprio - l'espressione «liberale»: non capisco perché sarebbe illiberale favorire la privatizzazione della proprietà delle banche. Non conosco infatti liberali in giro per il mondo che difendano la proprietà pubblica delle banche!
Grazie al cielo, in questo percorso, nel quale si alternano maggioranze politiche diverse, complessivamente la direzione nella quale si è mosso l'ordinamento italiano nel settore bancario è positiva, perché va verso la crescita del ruolo della concorrenza. La cosa incredibile e in qualche misura preoccupante è che a questa coerenza complessiva dell'ordinamento non corrisponde una coerenza delle forze politiche che si esprimono in Parlamento.
Credo che qui emerga uno dei problemi del nostro bipolarismo, che peraltro ne ha molti (alcuni anche legati ai meccanismi elettorali, ma non è questa la sede per parlarne). Ne ha però uno evidente: l'incapacità dell'opposizione di farsi rappresentante di interessi generali alternativi per governare il paese. In questi giorni abbiamo avuto in aula esempi chiari del fatto che l'opposizione tende sistematicamente a dare rappresentanza agli interessi specifici, sezionali e, se vogliamo, di natura corporativa, nella convinzione sbagliata per i sistemi bipolari che, inseguendo ciascuna delle singole pretese corporative che si frappongono all'azione riformatrice del Governo, si componga un'alternativa. No, così si compone una rappresentanza politica per un sistema di impianto proporzionale e non l'alternativa di Governo tipica di un sistema bipolare, perché in esso l'opposizione non cerca di dare rappresentanza agli interessi specifici e corporativi, quanto piuttosto ad un modo diverso di vedere l'interesse generale complessivo del paese.
Su questa strada il testo sottoposto alla nostra attenzione compie un ulteriore passo avanti. Un altro passo avanti è l'effettiva separazione tra le funzioni di pubblica utilità e la gestione bancaria e un passo ulteriore - ce lo auguriamo - è la separazione di tali funzioni dalla proprietà delle banche.
Non mi soffermerò sui singoli contenuti specifici del provvedimento e rinvio all'illustrazione svolta dai relatori. Voglio fare una considerazione di carattere più politico.
Ritengo che in questo caso il testo già positivo presentato al Parlamento dal Governo sia stato migliorato, nel senso che il Parlamento si è interrogato sugli interessi in gioco e sugli obiettivi, ha lavorato seriamente ed è pervenuto ad un miglioramento del testo. Per questo dobbiamo ringraziare i relatori e la Commissione, che ha lavorato con intensità. Ciò dimostra ancora una volta come non sia vera
l'affermazione secondo la quale il Parlamento riesce soltanto a peggiorare le leggi. Questo non è stato vero per quanto riguarda l'esperienza di queste settimane con riferimento al testo unico sulla finanza, che è stato migliorato dal Parlamento. E non è vero neppure per il provvedimento in esame, che a mio avviso può uscire dal Parlamento migliore di come vi sia giunto. Esprimo quindi su di esso un giudizio complessivamente positivo.
Il gruppo di rinnovamento italiano ha presentato un numero limitato di emendamenti perché il testo è stato approvato nel luglio dello scorso anno. Da allora nel sistema bancario italiano si sono verificati alcuni fatti importanti, che hanno riguardato anche i soggetti di cui stiamo parlando, le banche ex pubbliche. Noi crediamo che questi fatti importanti debbano portarci a compiere un ulteriore passo avanti verso la separazione delle funzioni di interesse pubblico da quelle bancarie. Non mi soffermerò sul contenuto dei nostri emendamenti perché avremo modo di farlo quando si passerà all'esame degli articoli.
Mi avvio rapidamente alla conclusione. L'utilità del provvedimento in esame è stata spiegata da molti punti di vista, in particolare dalle forze di maggioranza. A me pare che vi sia un punto di vista ulteriore per spiegarla. Se le Camere, come spero, vareranno il provvedimento, ci apprestiamo ad avere una serie di soggetti tra loro indipendenti, dotati di risorse finanziarie affatto trascurabili, che saranno in grado di finanziare progetti nel campo della ricerca scientifica, dell'istruzione, dell'arte, della sanità, dell'assistenza. Molti di questi settori sono caratterizzati da una forte presenza pubblica e molte delle loro risorse finanziarie provengono dal settore pubblico, dalle scelte della politica.
Si tratta di settori decisivi per la qualità della vita ed anche per lo sviluppo di un paese. A me piace che soggetti diversi dal settore pubblico, dalla politica, contribuiscano al loro finanziamento, perché ritengo che in tal modo si accresca la policentricità della nostra società, che a mio avviso diventa un po' più aperta. Anche in campi in cui è difficile fare ricorso al finanziamento dei singoli privati le fondazioni, così riformate, potranno accrescere il pluralismo. Ogni tanto si lamenta il rischio che i sistemi bipolari evolvano verso sistemi nei quali chi vince prende tutto. Credo che in Italia non sia così o forse che lo sia troppo poco; però, certamente questo rischio in generale esiste. Il fatto che in settori così rilevanti vi siano possibilità di finanziamento al di fuori del settore pubblico, dello Stato, della politica, è un passo avanti, anche perché banche che sentono maggiormente il morso di una proprietà attenta alla redditività del proprio investimento sono più attive e più capaci di competere sui mercati. E noi sappiamo che banche di questo tipo riducono il costo dell'intermediazione, cioè il costo del credito, che è un fattore che entra in tutti i processi produttivi.
Il grado di concorrenza del sistema bancario è particolarmente importante perché gli errori nell'allocazione delle risorse nel credito determinano errori di allocazione in altri settori produttivi. Ritengo che con il provvedimento in esame si compia un passo ulteriore verso un sistema creditizio più concorrenziale e quindi più capace di rispondere alle esigenze di sviluppo della nostra società (Applausi dei deputati del gruppo di rinnovamento italiano).
Vorrei rispondere al collega D'Amico, il quale ha rimproverato il Polo per le
libertà perché, nonostante lo sforzo di incentivi alla concorrenza e per la liberalizzazione del mercato del credito operato da questa splendida legge, voterà contro e critica il provvedimento. Ebbene, vorrei ricordare al collega D'Amico che vi sono alcuni punti essenziali, che emergono chiaramente dalla relazione di Carlo Pace. In primo luogo l'ambito della delega è soprattutto veicolato verso un regime tributario che favorisce i trasferimenti delle partecipazioni, quindi il loro smobilizzo e il regime fiscale degli scorpori. Ciò significa secondo il collega D'Amico liberalizzare, privatizzare, aprire alla concorrenza queste escrescenze medioevali che sono state le casse di risparmio, le banche del monte ed anche alcune banche di diritto pubblico. Faccio rilevare all'onorevole D'Amico che non è affatto detto che la concentrazione bancaria sia un bene, cioè che i grandi organismi bancari concentrati, frutto della sommatoria di tanti piccoli organismi, di tanti sportelli, siano necessariamente un bene. Vede, onorevole D'Amico, io ho forse qualche anno più di lei ed ho vissuto a lungo nell'IRI, che aveva tre banche. Ebbene ognuna di queste tre banche andava per i fatti suoi ed ogni anno dovevamo verificare i bilanci. Ad un certo momento un presidente dell'IRI, che oggi è Presidente del Consiglio, con un'alzata di ingegno ha deciso di svendere - è stato infatti venduto il 51 per cento del Banco di Santo Spirito quando l'IRI ne deteneva l'82 per cento ed il premio di maggioranza è stato pagato solo sul 51 e non sull'82 per cento, tanto è vero che adesso l'IRI liquida una sua partecipazione diretta residua nel Banco di Santo Spirito -; ebbe l'alzata di ingegno di concentrare il Santo Spirito e poi di regalare alla holding che nacque dalla fusione tra questo e la Cassa di Roma, anche il Banco di Roma. Si creò un grande organismo, un mastodonte che ancora oggi rappresenta una delle più grandi concentrazioni bancarie italiane, ma che - ahimè! - ha un livello di perdita, di sofferenze enorme. Inoltre ha da un lato sommato tante presenze territoriali una sovrapposta all'altra (la densità degli sportelli esistente al momento della fusione tra Santo Spirito e Cassa di Roma nel Lazio era particolarmente intensa) e dall'altro presenta oggi un problema di esuberanza occupazionale cospicuo. Tant'è vero che il sistema bancario deve farsi carico di tale esuberanza occupazionale, creando un fondo per veicolare fuori dal sistema bancario stesso gli esuberanti o per pagare eventuali riconversioni professionali.
Non è affatto detto, quindi, che con il sistema localistico italiano (che corrisponde poi anche ad un sistema di piccole e medie imprese distribuite sul territorio, che è caratteristica del nostro sistema di sviluppo economico) la concentrazione bancaria sia un bene. Certo, devono esserci grossi conglomerati bancari per poter competere con le grandi banche, con i conglomerati bancari del resto d'Europa e del mondo, ma poi vi sono anche le banche locali e soprattutto in Italia, onorevole D'Amico, queste ultime hanno una certa importanza, se lo ricordi bene; e lo ricordi bene anche l'assente sottosegretario Pinza, che è il responsabile della commissione che ha creato questo mostro di disegno di legge che stiamo esaminando. Mostro, sì, perché oltre a produrre un vulnus al localismo ed a versare incenso su questa concentrazione, che poi non è detto che sia la soluzione di tutti i mali del sistema bancario, crea anche una struttura di vigilanza su questo sistema. Finché le fondazioni avranno le partecipazioni bancarie, tale struttura di vigilanza sarà rappresentata dal Ministero del tesoro, dopo di che diventerà un'ennesima authority. Il collega Marzano ha detto che, come esiste un eccessivo numero di satelliti nel cielo, così esistono in Italia troppe authority. Ebbene, così se ne creerà un'altra, la quale avrà tra l'altro poteri di vigilanza, ma, soprattutto, di sostituzione, in molti casi: con la scusa della verifica della redditività del patrimonio, avrà poteri sostitutivi rispetto agli organi delle fondazioni, i quali però manterranno le loro responsabilità. Pertanto, se l'authority deciderà che il tasso di redditività di un determinato patrimonio o
determinate scelte non saranno considerati adeguati, si imporrà affinché vengano prese decisioni diverse, dopo di che le responsabilità ricadranno soltanto sugli organi statutari delle fondazioni, le quali probabilmente poi raccoglieranno i cocci di queste decisioni sballate.
Vi è poi un altro elemento importante che va sottolineato e che purtroppo è una costante di questo Governo. Io ho fatto parte della commissione dei trenta ed affermo che la dual income tax è l'espressione della discriminazione. Sostanzialmente, cioè, è il legislatore fiscale che decide se sia bene che un'azienda si capitalizzi o se sia male che, viceversa, un'azienda accumuli debiti, ben sapendo che, specialmente oggi che i tassi di interesse ed il tasso d'inflazione (auspice il ministro Ciampi) si sono ridotti, effettivamente la distinzione tra mezzi propri e mezzi di terzi non ha più quella rilevanza epocale che aveva ai tempi della grande inflazione a due cifre. Quindi, sostanzialmente si crea, per le operazioni di scorporo e di trasferimento, una discriminazione fiscale tra le banche di proprietà delle fondazioni bancarie che avranno le agevolazioni e le altre banche che, viceversa, non essendo possedute da fondazioni, dovranno sopportare il sistema fiscale normale. Affidare al legislatore la decisione su quello che l'imprenditore bancario e industriale deve scegliere nel suo rapporto con il mercato è un residuo del dirigismo che, purtroppo, ancora connota questa maggioranza e che emerge in modo chiaro anche con l'istituzione dell'authority. Sarà ancora il grande fratello, l'authority sulle fondazioni bancarie, sulle attività non lucrative, che deciderà per voi e si sostituirà a voi. Beh, l'egemonia gramsciana è sempre presente, caro Presidente, ed è difficile schiodarla dall'esperienza e dalla cultura di questa maggioranza (Applausi dei deputati del gruppo di alleanza nazionale).
Quello che noi critichiamo e che contestiamo è il concetto, se vogliamo, la filosofia secondo cui l'iniziativa dei privati e quella dei corpi intermedi in campo sociale debbano essere poste sotto la tutela dello Stato centrale; altro che privatizzazioni! Riteniamo in fondo che non risponda alla definizione di una linea direttrice tesa al rispetto dell'autonomia privata nello svolgimento di iniziative in campo sociale il riconoscere - come si propone nel testo all'esame questa sera in quest'aula - personalità giuridica di diritto privato ad enti, definendone il regime civilistico con una serie di vincoli pesanti, a nostro giudizio, quanto mai. Le nostre perplessità, ma di più, la nostra opposizione forte a questo progetto, ancorché responsabile, è in relazione ai vincoli e alla natura dei vincoli imposti a questo mondo e ai condizionamenti che, a nostro avviso, hanno connotazioni di carattere politico.
Molta attenzione, quindi, noi poniamo a questo provvedimento; molta attenzione per un argomento che vale 80 mila miliardi. Non si nega dunque l'interesse per una nuova disciplina per gli enti conferenti, al fine di consentire lo sviluppo del ruolo che possono svolgere in campo sociale. Non si nega l'urgenza, se
volete, colleghi della maggioranza, di immaginare, di realizzare la diversificazione degli enti proprietari e le operazioni di ristrutturazione delle banche conferitarie che facilitino e consentano il raggiungimento di livelli dimensionali ed operativi adeguati alle esigenze del mercato. Ma affermiamo altresì e parallelamente a questo che quando si mettono le mani su argomenti di questo genere non si può dimenticare, non possiamo dimenticare, che il sistema italiano della produzione - che è un sistema prevalentemente di piccole imprese, che formano la gran parte del prodotto interno lordo; un sistema che rappresenta una risorsa fortissima, che ci viene riconosciuta da tutto il mondo, e una realtà storica che fa dell'Italia un paese diverso da questo punto di vista dagli altri paesi industrializzati - ha trovato modalità operative correnti nel rapporto con banche locali e territoriali di dimensione medio-piccola. Io ho un'esperienza di questi giorni. Un grande istituto bancario ha fatto pervenire ad un suo cliente una lettera con la quale comunicava che il tasso di interessi passivi addebitati sul conto corrente intrattenuto da quel cliente era aumentato dal 27 ottobre al 14,75 per cento; la lettera di tre mesi prima, del 27 luglio, invece indicava un tasso del 13,75 per cento. Nel momento in cui i tassi ufficiali di sconto diminuivano, questo grande ente invece applicava aumenti nelle condizioni di rapporto con il suo cliente. Questo nelle casse di risparmio e dalle casse di risparmio io non l'ho mai verificato. Ecco allora la correttezza del rapporto tra banche territoriali di dimensione media e piccola con imprese di quella stessa dimensione.
I motivi per i quali queste banche sono sorte negli anni non sono scomparsi oggi nell'epoca della globalizzazione. Il sistema finanziario corrisponde sempre - questa è una regola di carattere generale - alle caratteristiche dell'economia. Noi riteniamo che questo sistema finanziario risulti alla fine penalizzato dal provvedimento e, se mi consentite, farò alcune riflessioni di merito. Si badi che è a conoscenza di tutti che bisogna provvedere, alla vigilia dell'euro, al riordino del sistema bancario e alla creazione di istituti di credito anche attraverso aggregazioni in grado di competere in Europa e nel mondo.
Sappiamo che in Europa e nel «sistema euro» occorrono strutture bancarie adeguate, ma questa consapevolezza non fa passare in secondo piano nella nostra attenzione e nella nostra coscienza la necessità che sentiamo di un sistema finanziario che aiuti le piccole e medie imprese magari a compiere quel salto di dimensioni indispensabili per essere competitivo nel mercato globale.
Allora la normativa al nostro esame deve certamente tornare utile per le fondazioni che partecipano al capitale delle banche di grande dimensione ma deve tornare utile anche per le fondazioni proprietarie di istituti di più ridotte dimensioni perché questa è la dimensione che risponde alle peculiari caratteristiche della nostra economia.
Parliamoci chiaro! La realtà del mercato finanziario italiano così com'è non agevolerà giammai la cessione delle azioni delle piccole banche detenute dalle fondazioni attraverso un collegamento se volete a raggiera nel territorio ove le banche operano, al contrario la cessione potrà più facilmente essere realizzata da istituti di dimensioni ampie. Allora le fondazioni minori devono poter far riferimento, ad esempio, ai provvedimenti fiscali, ai vantaggi fiscali, ma a nostro avviso sono forti gli elementi di compressione dell'autonomia delle fondazioni (e le fondazioni più piccole li subiscono di più) presenti nel testo al nostro esame, con riferimento al profilo gestionale, alle modalità di dismissioni delle partecipazioni, ai poteri attribuiti alla authority e al profilo organizzativo degli enti.
Per entrare un po' nel merito dirò che la norma di delega prevede, ai fini dell'applicazione delle agevolazioni fiscali, consistenti nella riduzione a metà dell'IRPEG e nel credito d'imposta sui dividendi, che si siano verificate alcune condizioni.
La prima: configurabilità della fondazione come ente non commerciale. La
seconda: il perseguimento delle finalità indicate nell'articolo 12 del decreto legislativo del 1990, n. 356.
Sulla natura di ente non commerciale è intervenuto anche il Governo che nella relazione al disegno di legge delega sottolinea che gli enti conferenti svolgono normalmente attività non commerciale per cui vanno considerati, salvo casi eccezionali, alla stregua di quegli enti non commerciali previsti nell'articolo 87 del testo unico delle imposte sul reddito.
Ma la perplessità viene ingenerata dalla nota del Ministero del tesoro, il quale, sentito il Ministero delle finanze, in occasione del parere espresso dalla V Commissione bilancio di questo ramo del Parlamento, afferma che la norma di delega lungi dal riconoscere la qualificazione di ente non commerciale alle fondazioni, per di più in via retroattiva, intende lasciare impregiudicato questo problema interpretativo. Non c'è stato chiarimento e non c'è chiarezza. Noi auspichiamo che si trovi la possibilità di far chiarezza in questa sede e su questo siamo fortemente impegnati.
Sempre sugli aspetti fiscali del provvedimento vale la pena soffermarsi sull'articolo 3, comma 1, lettera c), che riconosce alle fondazioni un credito di imposta sui dividendi in misura però non superiore all'imposta dovuta sui dividendi stessi.
Le fondazioni sono poste, per questo, in una situazione svantaggiata rispetto alla generalità degli altri contribuenti. Che la norma sia finalizzata ad incentivare il processo di dismissioni delle partecipazioni bancarie attraverso una disposizione che penalizza il possesso dal punto di vista fiscale, è chiaro. Ma se è così, non si vede perché si estenda l'applicazione di questa norma di sfavore a tutto il comparto dei titoli azionari. Che cosa c'entri questo con la privatizzazione non l'ho capito.
Tale estensione determina due conseguenze: la prima è quella del dubbio di legittimità costituzionale, di cui hanno già parlato i colleghi in precedenza e del quale probabilmente torneremo a parlare quando esamineremo la pregiudiziale Contento ed altri n. 1; la seconda condiziona duramente e senza giustificazione le fondazioni nella scelta degli investimenti. Sarebbe perciò il caso che il limite al godimento del credito di imposta sia riferito ai soli dividendi distribuiti dalle società conferitarie.
Nello stesso articolo 3 sono disegnati i casi in cui la fondazione perde la natura non commerciale. Questo si verifica sia quando la fondazione possiede immobili non strumentali sia in caso di mantenimento del controllo nelle società conferitarie. Infatti, la lettera b) dell'articolo 3 prevede che, dall'entrata in vigore dei decreti legislativi, la fondazione assuma la veste di ente non commerciale anche se per perseguire le finalità istituzionali esercita esclusivamente attività di impresa. Nella stessa disposizione è prevista la perdita della veste di ente non commerciale se la fondazione risultasse titolare di diritti reali su immobili diversi da quelli strumentali per l'attività svolta dall'ente medesimo o dalle società strumentali di cui all'articolo 2.
Signori colleghi, noi non abbiamo capito per quale motivo la fondazione debba subire una così forte penalizzazione dal punto di vista fiscale per il solo fatto di possedere immobili non strumentali. Chiediamo di conoscere il motivo per cui una forma di investimento del patrimonio quale la locazione di immobili - perché è di questo che stiamo parlando -, che pertanto non sono strumentali, debba essere preclusa per evitare la penalizzazione fiscale rispetto a quella, ad esempio, dell'investimento dello stesso patrimonio in titoli di Stato, che potrebbe peraltro risultare meno conveniente, più svantaggiosa.
L'unicità di investimento, imposta dalla legge, potrebbe peraltro confliggere con i vincoli di redditività che sono anche in questo caso fissati dalla norma. Il nostro gruppo ha dato delle indicazioni in proposito con l'intento di contemperare le esigenze di gettito con il diritto delle fondazioni di effettuare i propri investimenti nel rispetto della logica del mercato
e della redditività. Si è data, ad esempio, l'indicazione di fissare un tetto di valore degli immobili non strumentali posseduti rapportato al patrimonio; entro tale tetto non verrebbe meno la natura non commerciale dell'ente.
Nel concetto di strumentalità potrebbe essere ricompresa la locazione dei beni effettuata nel rispetto e per raggiungere le finalità dell'ente. Il rischio che la fondazione possa perdere, dalla data di entrata in vigore dei decreti legislativi, la qualifica di ente non commerciale è costituito dal caso di quelle fondazioni che posseggono immobili per effetto del conferimento attivato ai sensi della legge n. 218 del 1990. Infatti, la norma di delega non distingue ipotesi di possesso anteriore o posteriore ad una certa data; almeno si dovrebbe prevedere un numero di anni di congelamento dell'ipotesi di perdita della qualità di ente non commerciale in caso di possesso di immobili non strumentali per consentire alla fondazione di cercare le soluzioni che le consentano altre collocazioni.
L'altro caso di perdita della natura tributaria di ente non commerciale è quello contenuto nell'articolo 4 e cioè il possesso di partecipazioni di controllo nella società conferitaria allo scadere del quarto anno dalla data di entrata in vigore dei decreti legislativi.
Riteniamo che alla fondazione che si adegui anche dopo il quadriennio spetti il riconoscimento di ente non commerciale. Qui non ripeto quanto è stato detto dai colleghi che mi hanno preceduto e scritto nella relazione di minoranza e cioè che non si sa come nella normativa in esame si collochi il concetto di possesso di partecipazione di controllo della società conferitaria che non può essere definita da una percentuale di azioni possedute, bensì dal ventaglio delle altre partecipazioni.
Al di là di queste valutazioni, va sottolineato il pericolo che tale disposizione possa, a regime, determinare discriminazioni tra fondazioni che abbiano perso il controllo della conferitaria entro questi quattro anni oppure in un'epoca successiva, sia pure di un giorno. Anche qui si manifesta il nostro impegno per chiarire che compete comunque la natura di ente non commerciale alla fondazione che si sia adeguata alle previsioni dell'articolo 4 anche dopo il quadriennio.
In questo provvedimento vi sono altri aspetti che non ci convincono. Se la maggioranza lo voterà senza tener conto delle proposte contenute nei nostri emendamenti, si assumerà una grande responsabilità sostenendo un provvedimento nonostante le riflessioni che in qualità di opposizione stiamo offrendo e che i tecnici più accreditati - lo ha ricordato il collega Marzano - hanno fatto conoscere. Mi riferisco in particolare alla disposizione recata dalla lettera d) dell'articolo 2 in base alla quale le fondazioni possono detenere partecipazioni di controllo in enti e società che abbiano per oggetto esclusivo l'esercizio di imprese strumentali ai fini statutari nei settori indicati dalla stessa lettera d). Relativamente a tale aspetto è stato evidenziato che la norma, determinando incertezze profonde in ordine al mantenimento da parte delle fondazioni di partecipazioni già acquisite e che non rientrino nella previsione, si pone in contrasto con le soluzioni operative che gli enti hanno adottato o si trovano ad adottare nell'ambito dei processi di ristrutturazione delle imprese bancarie.
In ordine alle modalità di dismissione delle partecipazioni, la lettera c) dell'articolo 2 ha destato notevoli perplessità interpretative al di là del merito per quanto attiene alla previsione secondo cui gli enti devono adottare modalità idonee a garantire la trasparenza e l'«equità» (lo dico tra virgolette) per le operazioni di dismissione. Appaiono certamente comprensibili la portata del termine «trasparenza» e la finalità della previsione, mentre non appare chiaro il riferimento all'equità. La norma inoltre appare di difficile applicazione sotto il profilo economico e di difficile comprensione sotto quello normativo.
Credo di poter affermare che abbiamo fatto la nostra parte per migliorare il testo e che quello allegato alla relazione di minoranza sia ispirato a principi liberali e si muova in modo forte e deciso verso la privatizzazione. Ora spetta al Parlamento e alla maggioranza fare la propria parte e riflettere sugli argomenti offerti (Applausi dei deputati dei gruppi di alleanza nazionale e di forza Italia).