I COMMISSIONE
AFFARI COSTITUZIONALI, DELLA PRESIDENZA DEL CONSIGLIO E INTERNI

AUDIZIONE


Seduta di mercoledì 11 novembre 1998


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La seduta comincia alle 16.10.

Sulla pubblicità dei lavori.

PRESIDENTE. Avverto che l'onorevole Armaroli ha chiesto che la pubblicità della seduta sia assicurata anche attraverso impianti audiovisivi a circuito chiuso.
Se non vi sono obiezioni, rimane così stabilito.

(Così rimane stabilito).

Audizione del ministro per le riforme istituzionali, Giuliano Amato, sulle prospettive delle riforme istituzionali.

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, ai sensi dell'articolo 143, comma 2, del regolamento, l'audizione del ministro per le riforme istituzionali, Giuliano Amato, sulle prospettive delle riforme istituzionali.
Prima di dare la parola al ministro Amato desidero rivolgergli un vivo ringraziamento per aver accettato di venire a riferire in questa Commissione, nonché formulargli i migliori auguri per il suo lavoro. Il fatto che in questo Governo vi sia un ministro per le riforme istituzionali, significa che l'esecutivo non ha più una posizione agnostica e neutrale sul tema: di questo, mi compiaccio. È chiaro che i problemi di riforma istituzionale sono preminentemente del Parlamento, però l'esistenza di un ministro può esercitare una sorta di preziosa funzione maieutica. Non mi pare che l'atmosfera sia tra le più felici per poter avviare un procedimento di riforme costituzionali; tuttavia dobbiamo ricordare che la XIII legislatura è nata con una duplice missione: condurre l'Italia nell'area della moneta unica ed ammodernare il nostro sistema politico. Credo che le forze politiche rifletteranno su questo e perciò sarà possibile nel prossimo futuro aprire una strada di riforme.
Detto questo, ringrazio ancora il ministro Amato e gli lascio la parola.

GIULIANO AMATO, Ministro per le riforme istituzionali. Ringrazio il presidente e la Commissione per l'opportunità che mi offrono, con questa audizione, di esporre ad alta voce le idee che ho cominciato a formarmi sulla base di consultazioni, peraltro non ancora interamente concluse, che ho avuto modo di fare nei giorni scorsi ed anche di sollecitazioni che mi sono arrivate da soggetti diversi dai gruppi parlamentari, in primis regioni ed enti locali, ed anche attraverso documenti che mi sono stati inviati. Tutto ciò mi ha fornito un primo quadro di temi, sui quali penso sia utile esporre il filo di argomentazioni che mi si è venuto costruendo in testa, filo che tra l'altro connette temi che in parte sono già all'attenzione delle Camere, o dell'una o dell'altra, in relazione a progetti di legge a volte solo presentati, a volte già radicati.
È di tutta evidenza che un tema spicca all'attenzione più di altri, ed è quello della legge elettorale per la Camera dei deputati, che è stato posto all'ordine del giorno in modo particolarmente rilevante sul piano istituzionale dall'iniziativa referendaria. È un'iniziativa che ancora deve essere valutata dalla Corte costituzionale e pertanto nessuno di noi è in grado di dare per acquisito se avremo o meno il referendum.


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Ma in ogni caso il tema esiste in termini politici così come è stato posto dai referendari e quand'anche non vi dovesse essere il referendum, il problema resterebbe aperto. Perderebbe una delle sue possibili soluzioni, ma non per questo potrebbe essere cancellato. Esiste un problema di rafforzamento del bipolarismo, secondo un orientamento che vedo largamente condiviso, e vi è un'esigenza non soltanto di bipolarizzazione ma anche di stabilizzazione di maggioranze. Su questo sono state presentate tanto alla Camera quanto al Senato proposte diverse ed è di tutta evidenza - non c'è bisogno di uno studio particolarmente accurato per avvertirlo - che vi sono posizioni diverse. Pur essendovi fini che appaiono condivisi, come accade tante volte nella storia e nella politica, nel loro perseguimento ragioni variamente sentite dalle varie parti politiche inducono alla prospettazione di mezzi diversi.
Vi è perciò il problema di valutare quale può essere il punto di incontro fra soluzioni che già in partenza si presentano diverse e che vengono espresse nella loro diversità con una esposizione di pro e di contro supportati, in genere, da argomenti rilevanti. Mi è capitato stamane di notare al Senato, in ragione di un facile confronto che in questi giorni si fa tra le nostre proposte ed il rapporto Jenkins, non tanto il fatto che altri vogliono la proporzionale mentre noi siamo su un'altra strada (considero questa un'ovvietà, perché paesi diversi in contesti storico-politici differenti risolvono i loro problemi in modo diverso; caso mai questo aiuta a far capire che i sistemi elettorali non sono dei tabernacoli all'interno dei quali si custodiscono delle verità assolute, ma degli strumenti relativi a specifici momenti storici e soggetti alla sclerosi che ciascun sistema elettorale può subire con il passare degli anni, e la sclerosi colpisce chi colpisce, non soltanto i cattivi o soltanto i buoni), quanto l'attenzione che tale rapporto riserva alla partecipazione elettorale. Il rapporto nota infatti che i doppi turni, se non hanno una posta molto rilevante da sottoporre agli elettori, di per sé possono provocare una caduta della partecipazione del corpo elettorale. Ebbene, fra gli argomenti che mi sono stati esposti pro e contro, quest'ultimo non è in prima fila. Forse meriterebbe di essere valutato più attentamente, non perché i doppi turni siano di per sé incapaci di provocare partecipazione, bensì perché quest'ultima ha bisogno di essere sollecitata da poste significative.
Al di là di questo elemento, che finora è entrato poco nella nostra discussione, ma che a mio avviso è utile che venga valutato perché i sistemi elettorali valgono in ragione della rappresentatività che consentono di fornire ai parlamentari eletti - e questo è un fattore da non sottovalutare - è chiaro che farei un'opera inutile se mi dilungassi nell'esporvi i pro ed i contro che ho sentito. Si tratta infatti di argomenti noti: il monoturno è criticato dai «doppioturnisti» anche perché, se lasciato a sé stesso in un paese ad alta frammentazione politica, può consentire l'elezione come rappresentante di una data circoscrizione di un candidato che ha avuto una minoranza di voti e quindi può risolversi nel suo contrario. Questa è un'osservazione che viene rivolta nei confronti dei sistemi monoturno quando non abbiano ulteriori elementi; il sistema inglese in quanto tale, trapiantato in un paese nel quale vi sia frammentazione politica, può portare all'elezione del candidato che abbia ottenuto il 20 per cento contro il 18 del secondo, il 15 del terzo ed il 10 del quarto. Questo, di per sé, è sicuramente un problema di democrazia e quindi deve essere esso stesso valutato.
Vi sono poi i profili che riguardano i rapporti fra la quota proporzionale ed il maggioritario; vi è indiscutibilmente, in relazione all'ipotesi del referendum incombente, la necessità di rivedere taluni aspetti, ma si tratta di una discussione che deve essere affrontata con calma. L'unica raccomandazione che ritengo essenziale e che ciascuno dovrebbe portare dentro di sé è che i sistemi elettorali non sono mai verità assolute, bensì strumenti per raggiungere dei risultati, che sono quindi modificabili ed hanno margini di adattabilità


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delimitati tuttavia dalla coerenza (per cui non tutti gli ingredienti del sistema A sono, per esempio, compatibili con il sistema B). Con questa premessa vi è un ampio margine per svolgere discussioni proficue.
Tuttavia, al di là di questo, quello che mi ha colpito è che, parlando di legge elettorale, in realtà si affronta un problema che ha una serie di addentellati, di conseguenze e di implicazioni che vanno oltre la legge elettorale della Camera dei deputati. In primo luogo, infatti, può esservi anche il problema della legge elettorale per il Senato: a seconda della soluzione alla quale si potrà arrivare (se ad una soluzione si arriverà) per la Camera dei deputati, possono esservi esigenze di coerenza che comportano dei correttivi anche per l'altra Assemblea. In secondo luogo, come molti mi hanno segnalato, il problema posto dalla revisione della legge elettorale non è esaurito dalla legge medesima, ma investe congegni ulteriori che hanno pari rilevanza ai fini del tema del rapporto fra voto elettorale e proiezione parlamentare del medesimo. Non c'è dubbio che, se fra le finalità perseguite vi sono la stabilizzazione delle maggioranze e la chiarezza dei ruoli in ragione delle scelte fatte dagli elettori, ci si deve chiedere se la regolamentazione del finanziamento dei gruppi parlamentari e la disciplina dei regolamenti parlamentari, che è materia di giustamente gelosa prerogativa interna alle Camere, oppure coerenti od incoerenti con le scelte compiute tramite la legge elettorale. Se quello che interessa è che le proiezioni parlamentari corrispondano il più possibile al voto degli elettori, può apparire opinabile che ciascun parlamentare sia in condizioni di portarsi, come le tartarughe, sulle spalle la quota di finanziamento corrispondente ad una unità in qualunque tipo di aggregazione; potrebbe apparire più coerente che il finanziamento segua i simboli che sono stati presentati agli elettori. È un tema che indiscutibilmente esiste, così com'è inutile sottolineare la questione del rapporto fra le norme dei regolamenti parlamentari relative alla costituzione dei gruppi ed il voto degli elettori.
Vi sono poi questioni affrontate con la riforma della legge elettorale le quali hanno ulteriori versanti ed attendono, magari con i margini di necessaria flessibilità che vanno sempre mantenuti, soluzioni coerenti anche su questi altri fronti.
Ci sono intanto altre elezioni all'attenzione del Parlamento e sarebbe incongruo affrontare il tema elettorale ignorando che si pongono problematiche per certi versi analoghe a proposito degli altri corpi elettivi; se vi sono principi condivisi e si arriva anche ad una strumentazione condivisa, perché non valutare l'opportunità di risolvere anche problemi aperti su altri versanti elettorali?
È all'esame della I Commissione della Camera la tematica della legge europea, che è in effetti sgradevole che arrivi all'attenzione delle Camere regolarmente quattro mesi prima delle elezioni: non ce se ne occupa mai e quando arriva il momento dell'attenzione è facile osservare che non si cambiano le regole del gioco quando il gioco è in corso; eppure - lo ripeto - quando il gioco non è in corso pochi se ne occupano. Ma nei limiti in cui il gioco quasi in corso lo consenta, sarebbe forse possibile verificare un consenso che potrebbe anche essere largo su alcuni dei temi posti dalle iniziative legislative in argomento. Senza voler pregiudicare decisioni che sono delle Camere, osservo che mi pare difficile che nell'imminenza delle elezioni europee vi possa essere un consenso largo sulla revisione delle circoscrizioni. Lo dico con realismo, anche se io sono tra coloro che ritengono che sono forse troppo grandi queste circoscrizioni. Però a distanza di poco tempo questa è una delle classiche cose su cui se ci fosse il consenso io non ne sarei affatto scontento, ma se non ci fosse lo riterrei quasi più prevedibile e non me ne stupirei.
Ma altri aspetti, quali per esempio quelli delle incompatibilità, sono importanti perché in un'epoca in cui riprende l'attenzione sui conflitti di interessi, ho sempre sostenuto, credo con coerenza, che


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l'Italia è un paese che non ha un solo conflitto di interessi ma ne ha diversi; e una volta che se ne occupa, sarebbe bene che se ne occupasse per intero. E le incompatibilità appartengono alla sfera dei conflitti di interessi, sia pure in un modo specifico. Spesso il conflitto di interessi è solo un conflitto di tempo, non altro, rientra in quel genus.
Vi sono questioni in materia regionale e locale. Noi tutti abbiamo apprezzato - ed è stata apprezzata anche all'estero dove l'Italia è considerata paese instabile (molti stranieri di italiano conoscono solo l'espressione «crisi di governo» perché la sentono più spesso di altre) - la stabilizzazione che la figura del sindaco ha avuto grazie alla nuova legge elettorale; è un elemento positivo che ha creato una situazione nuova in molte amministrazioni locali. Però è singolare che il sindaco che ha ricevuto meno voti, ha per questa ragione la prospettiva di avere una solida maggioranza e il sindaco che ha ricevuto più voti per questa ragione ha la prospettiva di avere la minoranza nel consiglio comunale.
In un momento in cui ci si preoccupa di problematiche del genere, questo è un problema che senza grande difficoltà potrebbe essere affrontato. La nostra è una Repubblica formata da uno Stato nazionale, da regioni e da enti locali, e quindi le preoccupazioni non si possono parcellizzare. La disciplina di questa materia è quasi in aula al Senato; se ci fosse la volontà di affrontare questioni di questo genere, si ha il tempo di farlo.
Proprio la cronaca di questi giorni ha portato all'attenzione il problema della stabilità dei governi regionali. Il problema si è posto in termini corretti perché, in un sistema così instabile, come ci si preoccupa della stabilità delle maggioranze nazionali ci si preoccupa di quelle regionali.
Voglio esprimere con tutta franchezza un'opinione che ho maturato ieri sera ascoltando in televisione il presidente Rastrelli, il quale a mio avviso giustamente diceva «in fondo io sono stato designato dagli elettori, e quindi perché devo essere cambiato?». Aveva ragione nei limiti in cui poteva sostenere che lo avevano scelto gli elettori, ma aveva istituzionalmente non ragione perché quel tipo di disciplina che abbiamo nelle regioni non consente in effetti la scelta del presidente.
La Commissione bicamerale aveva inventato una bella norma transitoria secondo la quale fino a quando non vi fosse un'autonomia regionale in questa materia la legge dello Stato avrebbe dovuto prevedere l'elezione diretta del presidente della regione. È questo il modo di stabilizzare la carica di presidente della regione.
Sono state presentate alla Camera proposte tanto in tal senso, proprio in questi giorni se non sbaglio, quanto proposte, che definirei «tampone», per risolvere il problema con legge ordinaria. A mio avviso sarebbe un errore vedere queste due proposte come esclusive l'una dell'altra. Il diritto, lo sappiamo tutti, è fatto di opinioni (non sempre due più due fa quattro), tuttavia qualche dubbio è già stato espresso sulla costituzionalità di una legge ordinaria che in qualche modo regoli e vincoli i poteri previsti dagli articoli 122 e 126, il potere di nomina da parte del consiglio, che è un potere permanente, e il potere di scioglimento. Può darsi che siano infondati, però teoricamente il giorno che un ex consigliere disciolto in applicazione di tale norma trovasse il modo di sollevare il via incidentale la questione di questa legge davanti alla Corte, non sappiamo che esito potrebbe avere un giudizio del genere. Magari nessun esito, ma la domanda che è naturale porsi è «ma non è forse questa l'occasione per introdurre l'elezione diretta del presidente della regione e quindi per collocare queste due iniziative in sequenza e non in alternativa l'una all'altra?».
Capisco che stabilizzare la forma di governo regionale significa usare la procedura di cui all'articolo 138 e capisco che in questa fase politica sono state espresse perplessità, se non addirittura pregiudiziali politiche, a seguire tale percorso. Ma quando tutti si convincessero che rispetto al problema questa è la soluzione più adeguata, forse sarebbe possibile ritenere che alla fin fine l'uso dell'articolo 138 è un


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problema formale: la soluzione su cui si è d'accordo esige quello strumento istituzionale per essere portata in porto.
Ciò allenterebbe alcune pressioni che ci sono nel paese e che investono fra l'altro l'intera tematica regionale. È una questione della quale vi è motivo di essere sinceramente preoccupati. L'istanza regionale non è un'istanza di palazzo, non è un'istanza di ceto politico; forse non lo è neanche la legge elettorale, per la verità, ma è più difficile renderla tema di interesse diretto dei cittadini. Ma in larga parte d'Italia un rafforzamento del nostro regionalismo è parte di quella politica vissuta dai cittadini che porta spinte forti, che, se non trovano la risposta corretta, finiscono per diventare distorsive e per distorcere, e finiscono per pretendere e magari ottenere risposte sbagliate.
È una responsabilità dei governi e dei parlamenti di dare risposte corrette a queste spinte prima che sia tardi. Già ora, con il carico di funzioni che in ragione delle deleghe che il Parlamento ha dato al Governo e dell'uso che il Governo ha fatto di tali deleghe, il motore regionale è stato portato ad una cilindrata molto elevata; non può stare in una carrozzeria di piccola utilitaria di latta, con una elevata instabilità, perché il giorno che qualcuno spinge l'acceleratore, le ruote - lo hanno già dimostrato - vanno ciascuna per conto suo. Si tratta quindi di un problema urgente. Le vicende politiche che hanno portato a cambi di maggioranza o hanno prospettato cambi di maggioranza in alcune regioni lo hanno reso ancora più drammatico. Sia adottata, se questo è l'intendimento, una soluzione a brevissimo termine ma, tenuto anche conto della non assoluta certezza sulla costituzionalità di tale soluzione, occorre far partire contestualmente l'altra che è la vera soluzione. Sarebbe un atto allo stesso tempo di prudenza e di saggezza da parte di tutti.
Vi confesso che qui non riesco a non vedere anche come tema connesso quello dello stesso cosiddetto federalismo: lo chiamo «cosiddetto» perché non tutti intendono la stessa cosa con questo termine, quindi è una formula che identifica posizioni in parte diverse. Ma anch'esso fa parte delle stesse spinte che è difficile lasciare inevase. Vedo arrivare documenti da province - non più solo da regioni - che chiedono l'autonomia speciale delle province della regione Trentino-Alto Adige. È significativo che questo accada. C'è bisogno di maggiore autonomia e la si cerca in quello strumento, che non ritengo sia quello corretto. La stessa autonomia speciale delle regioni continua a presupporre lo schema del 1946, secondo cui sono comunque enumerate e limitate le competenze degli enti decentrati, mentre il residuo, che è il più, spetta allo Stato.
Le società europee del nostro tempo hanno il principio di sussidiarietà radicato nelle coscienze, ormai, forse della larga maggioranza dei cittadini. Permettere, per un ritardo nel fornire la soluzione corretta, che poi magari a sbruffi, da valvole da cui esce una pressione alla quale non si riesce a resistere, escano a macchia di leopardo soluzioni in fondo arretrate come le autonomie speciali, ma che appaiono l'unico rampino al quale agganciare una maggiore autonomia in base alle carte che l'ordinamento attuale distribuisce, è un altro pericolo.
Il tema del federalismo è un tema che incombe. Mi pare difficile che un Parlamento che ritenga di avere davanti a sé una vita non misurata in giorni ma a dir poco in settimane possa ignorare un tema del genere e possa perciò far tendere rapporti nella società che poi, in quanto tesi, diventano forieri di soluzioni non sappiamo quali e non sappiamo quanto pericolose.
Aggiungo che in un processo che disegnasse soluzioni di questioni elettorali, stabilizzazione della forma di governo regionale, adozione di formule adeguate al principio di sussidiarietà, di regionalismo e di decentramento locale, l'elezione diretta di un Capo dello Stato, che suscita perplessità anche tra coloro che pure l'hanno accettata, apparirebbe come il naturale completamento di un disegno che, se ha da una parte un forte decentramento, direi quasi che esige dall'altra che il corpo elettorale nazionale abbia un


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momento di identificazione in una figura rappresentativa dell'unità nazionale. Quindi queste cose in realtà in qualche modo si tengono. Questo non me lo sono inventato, ho semplicemente fotografato un filo che ho visto esserci tra i temi che mi sono stati sottoposti.
Se il presidente mi dà ancora qualche minuto, vorrei dire che tra i temi che una legislatura dovrebbe affrontare, e che in parte questa Commissione ha già davanti, non si può ignorare quello che è emerso proprio in questi ultimi anni, e al quale il principio di sussidiarietà vuole in larga parte rispondere, che è quello della trasparenza dei processi democratici. Se posso autocitarmi, perché così sono rapido, ho scritto tempo fa che noi ingegneri delle istituzioni siamo stati bravi nell'indicare, non necessariamente nel praticare, soluzioni atte a dare maggiore efficienza all'azione pubblica, ma assai meno a trovare soluzioni atte a rispondere ad una domanda di trasparenza che è poi una domanda che quando arriva ad essere esacerbata genera addirittura il rifiuto dei meccanismi democratici. Questo è il pericolo che incombe sulle democrazie contemporanee davanti ad opinioni pubbliche che vogliono efficienza, cioè risposte alle loro domande, da chi li governa, ma vogliono anche sapere chi sta decidendo che cosa, come questo viene deciso, chi è responsabile di che cosa. Davanti a queste questioni siamo fermi alla legge n. 241, invenzione che io difendo perché sono tra i suoi padri degli anni ottanta, ma che riguarda l'uso del potere amministrativo, non l'uso del potere politico-costituzionale.
La questione qui è: quando parliamo e cerchiamo di tradurre in norme di legge ordinaria (come facemmo con la legge 400) la politica generale del Governo, l'indirizzo politico amministrativo, è possibile che siamo in grado soltanto di riprodurre testualmente le formule della Costituzione, come abbiamo fatto con la legge n. 400, e lì finisce? Oppure la maturazione che abbiamo avuto ci può consentire di arrivare a soluzioni che possano rendere insieme più efficiente e più trasparente l'azione di Governo e anche più efficace l'azione di controllo del Parlamento, dando alla stessa opposizione strumenti di intervento meno retoricamente minoritari? Mi sento a disagio quando, discutendo di statuto dell'opposizione, tale statuto lo si finisce per ridurre a dare qualcosa all'opposizione il giorno in cui presenta le sue proposte, perché questo è in qualche modo il diritto di parola che stava già nello statuto. Si può fare di più. Si può scarnificare l'azione di Governo in obiettivi definiti; si possono costruire attorno a tali obiettivi delle missioni di governo che hanno un responsabile politico e dei responsabili amministrativi; si può quantificare il tempo necessario, secondo lo stesso governo, a realizzare questi obiettivi; lo si può vincolare a presentarsi trimestralmente davanti alle Commissioni competenti per lo stato di avanzamento di questi obiettivi. Non c'è solo il 3 per cento di Maastricht tra gli obiettivi quantificabili e non ci sono soltanto gli obiettivi di una guerra a dar luogo ad una significativa tensione tra obiettivi, azione, mezzi e verifica degli stati di avanzamento.
Chi ricorda la nascita del DPEF non può dimenticare che quel documento non era nato per raggiungere il solo obiettivo del risanamento finanziario, che è diventato l'unico al quale lo si è finalizzato; il DPEF, come tutta la legge finanziaria, fu invece inventato per consentire di trasformare una politica generale in obiettivi specifici, di allocare risorse finanziarie a tali obiettivi e quindi di avere uno strumento legale che l'articolo 81 inizialmente non prevedeva perché questa allocazione diventasse operativa.
Si può riprendere tutto questo, lo si può proceduralizzare. Si può rafforzare il ruolo delle stesse Commissioni parlamentari in funzione di tutto questo, anche con una utopia che ebbi modo di esprimere proprio qui alla Camera: un modo di avvicinare l'opinione pubblica all'azione del Parlamento è quello di portare loro, per così dire, il Parlamento. L'esperienza di questi anni conduce sul territorio la sola Commissione antimafia: la mia candida domanda è perché solo la Commissione


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antimafia? È forse l'unica che tratta una questione che interessa singole aree del territorio, mentre le altre sono tutte da esaminare a Roma? Qual è la differenza da questo punto di vista? Vi sono molte questioni sulle quali sarebbe utile alle Commissioni parlamentari diventare itineranti, come itineranti erano gli agenti del re nel secondo Medioevo, quando le strade erano sufficientemente sicure da consentire di andare in giro.
Pertanto, in un processo di Governo che avesse obiettivi, politiche di missione, stati di avanzamento e verifiche parlamentari di questi ultimi, si potrebbe altresì stabilire un decentramento di tali verifiche, che potrebbero avvenire laddove i diretti interessati siano in grado di far sentire direttamente la loro voce ai componenti delle Commissioni parlamentari. È bene che questi ultimi subiscano pure il fastidio ed il disagio di sentire i consensi e i dissensi, non riportati attraverso i giornali e la televisione, bensì a viva voce, come avviene nei consigli comunali, che vivono questo tipo di esperienza molto salutare per gli organi democratici. Questa è materia di riforma istituzionale importante e si potrebbe agganciare ad un testo, che voi avete sotto mano, quello che riordina la legiferazione: al suo interno vi è un capo modificativo della legge n. 400 per la parte concernente le fonti normative. E perché, visto che la legge n. 400 viene modificata in tale parte, non la si potrebbe modificare anche per il titolo I? La legislazione ordinaria non crea problemi a nessuno ed appartiene a quel genere di strumenti attraverso i quali si persegue l'irrobustimento di un sistema democratico.

PRESIDENTE. Ringrazio il ministro per la sua esposizione così densa di stimoli e di suggerimenti, e per il quadro che ci ha fornito, realmente molto completo. Do la parola ai colleghi che intendano svolgere considerazioni o porre quesiti.

GIUSEPPE CALDERISI. Ringrazio a mia volta il ministro Amato per l'esposizione che ci ha fatto e per l'occasione che con la sua audizione offre alla Commissione di intervenire su questo tema. Ritengo che, se vogliamo riaprire il processo riformatore, probabilmente dobbiamo affermare cose scomode anche per lo schieramento del quale si fa parte. Chiarisco subito che non sto parlando ufficialmente a nome del gruppo di forza Italia, bensì di alcuni colleghi assieme ai quali ho avuto un colloquio con il Presidente del Consiglio e voglio precisare che, rispetto alla situazione inaccettabile di instabilità, trasformismi, ricatti e ribaltoni che si è creata, sono necessarie anche delle riforme costituzionali: mi riferisco all'elezione diretta del vertice dell'esecutivo, cioè di un Presidente della Repubblica con poteri di governo, nonché all'elezione diretta del presidente della regione. Non voglio dire che non siano opportune norme ordinarie ed immediate, ma che è necessario, se la Commissione bicamerale ha varato modifiche in gran parte inadeguate - ed io condivido questa valutazione del Polo - verificare se sia possibile fare riforme migliori ed adeguate invece di affermare, senza verificarlo, che non si devono fare riforme costituzionali. Bisogna che il Polo esca da questa situazione di immobilismo e lanci la sfida a varare riforme adeguate.
Per quanto riguarda l'elezione diretta del presidente della regione voglio ricordare che quattro anni fa - l'onorevole Selva era presidente di questa Commissione - tentammo di approvare questa riforma aggregando nell'ambito dell'opposizione di allora vasti settori, che andavano da Adornato al gruppo dei pattisti, all'attuale sindaco di Genova, Pericu, ai verdi con Reale, ma che incontrammo l'ostruzionismo di Bassanini ed Elia insieme a quello di rifondazione comunista. Il Polo si è battuto in sede di Commissione bicamerale a favore dell'elezione diretta del presidente della regione ed alla fine ha ottenuto una norma transitoria. Sembra infatti che almeno buona parte dei democratici di sinistra, ma non solo essi, siano favorevoli ad introdurre addirittura a regime, nell'articolo 122 della Costituzione, l'elezione diretta del presidente


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della regione. Siamo compiaciuti che si sia scelta la strada giusta e necessaria per dare stabilità ai governi regionali, ma riteniamo che si debbano garantire a questi ultimi la forza e l'autorevolezza per il processo federalista; occorre completare la riforma con la nomina e la revoca degli assessori, prevedendo anche un potere di scioglimento com'è avvenuto nel caso della legge per i sindaci.
Certamente ciò non basta a livello regionale ed occorre studiare anche una norma «antiribaltone», perché va posto rimedio alla situazione contingente, che è molto grave. Se davvero vogliamo avviare un processo riformatore, togliamoci da questa situazione in cui ciascuno sceglie o la via ordinaria oppure quella costituzionale: vanno perseguite entrambe.
Allo stesso modo a livello nazionale, se vogliamo assicurare stabilità, occorre l'elezione diretta del vertice dell'esecutivo: in questo paese, per stabilizzare il bipolarismo, a mio avviso è necessario questo passaggio. Nella Commissione bicamerale era stato formulato un testo a mio giudizio inadeguato perché io non credo in un Presidente eletto con funzioni di garanzia: l'Italia non è l'Austria, ministro Amato, dove c'é un sistema di grande coalizione permanente o consociativo, come vogliamo definirlo; l'Italia ha 57 e non 9 milioni di abitanti e non beneficia della pace sociale che regna in Austria. Da noi è impensabile che l'elezione del Presidente si possa svolgere se non attraverso il confronto tra programmi. Il testo Salvi, votato anche dalla lega, era un testo già temperato, che in definitiva coincideva con quello dell'ipotesi Maccanico della scorsa legislatura: occorre partire nuovamente da quel testo, che prevedeva funzioni di Governo analoghe a quelle che vi sono in Francia. Secondo il testo Salvi il Presidente aveva funzioni di governo, poteri di scioglimento e poteva presiedere il Consiglio dei ministri; ripeto, si trattava di un testo molto temperato, dove non erano previsti poteri eccezionali come avviene in Francia.
Sono uno dei promotori di questo come degli altri referendum passati e non ho mai aderito a nessuno dei due schieramenti in cui spesso si è diviso il dibattito in Italia, fra chi riteneva che fosse necessaria la sola riforma costituzionale (lo stesso ministro Amato in un certo momento ha fatto parte di questo fronte, che non voleva modificare la legge elettorale) e chi sosteneva che bisognasse cambiare soltanto la legge elettorale. Queste riforme vanno fatte entrambe e vanno fatte insieme: non si può pensare di realizzare in modo convincente la riforma elettorale senza capire a quale forma di governo viene agganciata. Personalmente, finché non vi sarà l'elezione diretta del Presidente della Repubblica con funzioni di governo o di un premier, ammesso e non concesso che sia possibile arrivare a questa riforma, sono a favore di un sistema monoturno. Una volta che vi fosse l'elezione diretta del Presidente della Repubblica con funzioni di governo credo che potrebbe essere adottato un sistema a doppio turno serio, e non una proporzionale mascherata, un doppio turno simile a quello del modello francese. Non ho pregiudiziali ideologiche sul sistema elettorale, ma come si fa a pensare che possa essere risolutiva la riforma elettorale?
Occorre cogliere la spinta alle riforme che proviene dal referendum, non perché quest'ultimo sia soltanto uno stimolo ma perché dal referendum discende un sistema che non è frutto del caso e che non può essere considerato da solo: occorre scegliere la legge elettorale insieme alla forma di governo. Temo fortemente che, se non vi sarà la celebrazione del referendum, le riforme non si faranno e che se la Corte costituzionale, smentendo la propria giurisprudenza, non dovesse ammettere il referendum vi sarà un rigurgito proporzionalista. Temo moltissimo tutto ciò e non so cosa si possa fare per fronteggiarlo. Ripeto, occorre cogliere la spinta che viene dal referendum per utilizzarla ai fini di un complessivo disegno riformatore. Considero con difficoltà la possibilità di riformare la legge elettorale al di fuori e prima del referendum, al di fuori di questo quadro di riforme complessive. Voglio dirlo con molta sincerità: vedo con difficoltà il doppio turno


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di collegio senza l'elezione diretta del Presidente della Repubblica con funzioni di governo e credo che difficilmente il sistema potrebbe divenire bipolare perché non vi è nessuna garanzia che le alleanze siano le stesse in tutti i collegi. Potrebbero addirittura aumentare i rischi di trasformismo perché non vi sarebbe alcuna garanzia di una competizione nazionale.
Quanto all'ipotesi di doppio turno di coalizione, o comunque di premio di maggioranza, che sia a uno o a due turni, voglio sottoporre al ministro alcune questioni perché vorrei evitare di alimentare sogni ed illusioni che sia possibile fare una riforma del genere a Costituzione vigente. Abbiamo un sistema bicamerale: come si fa a concepire una riforma elettorale con il premio di maggioranza in presenza di tale tipo di sistema? A quale delle leggi dei due rami del Parlamento si applicherebbe il premio di maggioranza, al di là del fatto che è comunque difficile tentare questa soluzione? In presenza di due Camere che devono votare la fiducia al Governo, la si applicherebbe soltanto alla Camera? Ed al Senato, se vi fossero due maggioranze diverse, che faremmo? È stato detto che si potrebbe ammettere il premio con la clausola che, qualora alla Camera ed al Senato non vincesse la stessa coalizione, il premio stesso non scatterebbe: sinceramente i dubbi mi risultano accresciuti, perché rischieremmo di fare una riforma inutile. Sappiamo infatti che per il Senato sono diversi i candidati, gli elettori sono diversi (votano i venticinquenni e non i diciottenni), i collegi e la distribuzione dei seggi sul territorio: pertanto il rischio di un risultato diverso esiste realmente.
Signor ministro, il bicameralismo è previsto nella Costituzione: come si può pensare che l'esito di un'elezione in un ramo del Parlamento condizioni la rappresentanza nell'altro? Il voto dei cittadini dai diciotto ai venticinque anni per la Camera andrebbe ad influenzare anche la rappresentanza del Senato? Come si può pensare di fare una legge basata sul premio di maggioranza in presenza di un sistema bicamerale e con quello che è scritto al riguardo nella Costituzione? Inoltre, il premio dovrebbe essere agganciato a chi ottiene più voti? In questo caso rischieremmo di creare una disparità, nel senso che chi prende più voti non è lo stesso che ottiene più seggi nei collegi uninominali. E se la distanza dei seggi non è colmata dal premio di maggioranza, la agganciamo al numero dei seggi, mettendo in moto un doppio meccanismo maggioritario, secondo il quale vi sarebbe un premio di maggioranza che agisce su un meccanismo di collegio uninominale maggioritario? Rischiamo veramente una manipolazione molto consistente della rappresentanza. Si tratta di sistemi che vanno bene per i sindaci, per le province e le regioni; non credo che la logica del premio di maggioranza sia adeguata al livello nazionale.
In sede di Commissione bicamerale ho presentato un emendamento nella convinzione che la strada giusta potesse essere quella del governo del premier: pensavo ad una indicazione al primo turno e poi ad un ballottaggio nel secondo tra i due candidati dei maggiori schieramenti. Ho anche provato a riscrivere la legge elettorale con il premio di maggioranza: è così complicata, manipolativa della rappresentanza e contorta da sembrare un teorema di matematica e non una legge elettorale, al punto che mi sono convinto come la strada migliore sia indubbiamente quella del sistema francese, dall'elezione diretta del Presidente con poteri di governo alla legge elettorale.
Aggiungo alcune considerazioni, tra le quali quella che occorre avere un respiro alto nel tentativo di riaprire il processo riformatore. Infatti, credo poco nella possibilità di piccoli passi, anche se capisco che sono necessari. Penso che immediatamente occorra introdurre con legge ordinaria l'estensione della norma antiribaltone, che a me pare incomprensibile dovesse durare solo due anni, come se per due anni fosse illecito fare ribaltoni e poi improvvisamente diventasse lecito. Sicuramente era un provvedimento inadeguato, e quindi bisogna modificarlo per dare un segnale netto e chiaro, chiedendo contestualmente


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a tutti la disponibilità alla riforma costituzionale per l'elezione diretta del presidente della regione. Così pure, a mio avviso, occorre tempestivamente realizzare a livello nazionale un complessivo disegno riformatore che tenga conto del risultato del referendum, per non deludere le aspettative dei cittadini.

PAOLO ARMAROLI. Signor presidente, professor Amato, lei ci ha tenuto oggi una dotta, ghiotta e per me godibilissima lezione di diritto costituzionale. Lei forse non sarà uomo della provvidenza, ma di sicuro si conferma uomo della previdenza. Da quella persona intelligente che è, ha preferito giocare in casa piuttosto che fuori casa, ha cioè parlato da professore - e ne ha avute di cose da dire, cose sempre scintillanti e intelligenti - perché come ministro avrebbe potuto dire ben poco. Ma la colpa non è sua: creato l'organo si deve creare la funzione. E lei, dovendo dimostrare di esistere come ministro, si sta ritagliando uno spazio a mio avviso come sempre intelligente, uno spazio limitato ma suggestivo, come ci ricordava il presidente Maccanico, nella buca del suggeritore. Lei compie un'opera di stimolo, di maieutica, da grillo parlante, anche se Collodi - che ha vissuto nella stessa regione nella quale abbiamo vissuto per tanti anni lei ed io - insegna che i grilli parlanti talvolta finiscono schiacciati contro il muro.

CLAUDIA MANCINA. Però poi vengono rimpianti, i grilli parlanti!

GIULIANO AMATO, Ministro per le riforme istituzionali. Questa è la loro grande soddisfazione!

PAOLO ARMAROLI. Il vecchio Carlo Marx, signor ministro, non è che ne abbia indovinate molte ma, siccome vedo in quest'aula il molto onorevole Cossutta, devo dire che una ne ha azzeccata: fu quando disse che la storia si manifesta una prima volta in tragedia e una seconda volta in farsa. La tragedia l'abbiamo avuta durante i lavori della Commissione bicamerale. Lei, signor ministro, anche come avveduto professore, avrà notato che l'incipit della Commissione bicamerale fu una dichiarazione estremamente impegnativa di colui che di lì a pochi minuti ne sarebbe diventato il presidente con un subisso di voti, ma non con i voti di alleanza nazionale che depositò scheda bianca: l'onorevole D'Alema disse infatti che non necessariamente la maggioranza avrebbe coinciso con la maggioranza di governo. Siccome però la sinistra vince spesso la battaglia delle parole, poi la colpa del fallimento della bicamerale fu addossata sulle spalle del cavaliere nero. Se tuttavia andiamo sotto il pelo dell'acqua, ci rendiamo conto che al momento della verità l'onorevole D'Alema preferì ancorarsi alla sua maggioranza di governo - che di lì a poco si è visto come ha retto! - e ha abbandonato sostanzialmente la maggioranza riformatrice.
Ora si sta ripetendo praticamente la stessa storia. Il Presidente del Consiglio Massimo D'Alema si comporta come certe signore dabbene: sta diventando o si sta confermando, signor ministro, il vorrei ma non posso della politica italiana. Lui le riforme le vorrebbe fare, vorrebbe fare una buona - a suo avviso - riforma elettorale, una buona - a suo avviso - riforma costituzionale, ma il decapartito non lo lascia andare. Così lei è costretto ad operare nella buca del suggeritore.
Più volte, in varie interviste al Corriere della Sera, a la Repubblica ed anche nel question time di mercoledì scorso, lei ha dichiarato di non avere il mandato, da parte del Presidente del Consiglio, di presentare un disegno di legge di riforma elettorale. Forse sarà un caso, ma un caso divertente, che lei, signor ministro, sieda accanto all'attuale presidente della Commissione affari costituzionali, che durante il famoso tentativo Maccanico fu costretto, anch'egli, ad ignorare, pur conoscendolo da quel giurista autorevole che è, l'articolo 71 della Costituzione che, elencando i titolari dell'iniziativa legislativa, vedi caso, pur in una Costituzione che privilegia le Assemblee e le loro prerogative, mette al primo posto il Governo. Anche nel caso del presidente Maccanico non era ignoranza


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delle leggi e tanto meno della Costituzione: era la situazione politica che non permetteva di spingersi più di tanto.
Allora, signor ministro, e mi avvio alla conclusione, mi pare che nei corsi e ricorsi vichiani questo Governo si stia omologando a quel settimo governo Andreotti che lei, signor ministro, conosce molto bene, non solo perché il suo governo succedette a quel governo, entrando in carica lei proprio il 28 giugno 1992. Dico questo perché, come si ricorderà, il Presidente della Repubblica dell'epoca, l'onorevole Cossiga, ha avuto, come è noto, tre fasi: un primo quinquennio di sardo muto, il biennio picconatorio e poi quest'ultima fase in cui è un adoratore di Depretis, come ha scritto Montanelli oggi sul Corriere della Sera: «Depretis (nomen, omen)». C'è in sostanza un ritorno all'antico, assume cioè il laudatore del trasformismo. Lei, signor ministro, sa meglio di chiunque altro che molti Presidenti della Repubblica, come capita spesso dai tempi di Pertini, ma forse anche prima, fino a Scalfaro in dosi addirittura industriali - hanno imposto questo o quel ministro in questo o quel dicastero; e lei sicuramente ricorderà che Cossiga volle come ministro delle riforme istituzionali Martinazzoli e pretese come sottosegretario D'Onofrio. Ma qualche mese dopo (il settimo governo Andreotti entrò in carica il 12 aprile 1991), esattamente il 26 giugno dello stesso anno, Cossiga inviò alle Camere il famoso messaggio sulle riforme istituzionali che - lei lo ricorda senz'altro anche come vecchio esponente del partito socialista - fu controfirmato non dal Presidente del Consiglio Andreotti, perché le riforme costituzionali a lui non piacevano neppure dipinte, ma dal ministro guardasigilli dell'epoca, cioè l'onorevole Martelli. Comunque, nel caso del settimo governo Andreotti, che pure durò più di un anno, né il ministro Martinazzoli né il sottosegretario D'Onofrio poterono far nulla nonostante le loro scintillanti teste. Con il Governo D'Alema ci sono molte analogie e una differenza. La differenza sta nel fatto che Andreotti le riforme non le voleva fare, mentre il Governo D'Alema le vorrebbe fare ma non può farle. Riteniamo infatti che, referendum o non referendum, fatta la legge elettorale si torni alle urne perché occorre un passaggio elettorale per un governo nato geneticamente ammalato di trasformismo. E visto che il settimo governo Andreotti è durato esattamente quattordici mesi, ci auguriamo che il Governo D'Alema, che ha tanti punti di similitudine con il governo Andreotti, duri altrettanto. Cioè noi ci auguriamo che, fatta la legge elettorale, passato il semestre bianco, nell'ottobre dell'anno prossimo si possa andare alle urne. Dopo il passaggio elettorale sicuramente si dovrà impostare la riforma costituzionale che è andata a picco in questa legislatura perché quando un governo ha una maggioranza variopinta come il vestito di Arlecchino non si può pretendere di andare oltre.
Concludo, signor ministro con un augurio. L'augurio è che dalla buca del suggeritore continuino ad arrivare intelligenti suggestioni e magari anche - nel senso migliore della parola - provocazioni; noi le raccoglieremo sul terreno della riforma elettorale. Come opposizione - parlo a nome di alleanza nazionale ma penso di interpretare tutta l'opposizione e comunque l'opposizione del Polo - siamo rammaricati dal fatto che, non starò a dire il Governo, ma comunque la maggioranza nella sua interezza, non presenti una proposta di legge ben congegnata con la quale ci si possa misurare. Temo che andando in ordine sparso non si arriverà da nessuna parte e quindi sarà il referendum, come in altre occasioni è avvenuto nella storia d'Italia, a sciogliere il nodo gordiano elettorale.

CLAUDIA MANCINA. Tra le molte cose che mi dividono dal collega Armaroli c'è la convinzione che invece la presenza di un ministro per le riforme istituzionali nell'attuale Governo sia molto importante, anche per superare la neutralità dell'esecutivo rispetto al compito delle riforme istituzionali e costituzionali, che - oggi possiamo dirlo - è stato forse un limite del governo Prodi.


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Credo che l'impegno del Governo sia fondamentale anche su questo tema, un impegno che non necessariamente si deve esprimere nella presentazione di progetti di legge, ma si può esprimere altrettanto efficacemente in un'opera di coordinamento e di guida della maggioranza, nonché di dialogo con l'opposizione, per vedere di arrivare a qualche conclusione opportuna ed efficace.
Non mi nascondo la difficoltà delle riforme, che paradossalmente corrisponde ad una forte domanda di riforme che gli elettori esprimono ogni volta che gliene viene data l'occasione. Questa non è la prima ma perlomeno la terza legislatura che nasce sotto l'egida e con l'obiettivo delle riforme. Già nella campagna elettorale del 1992 si disse che quella che stava per cominciare era una legislatura per le riforme, ma in queste tre legislature non si è riuscito a raggiungere l'obiettivo.
Indubbiamente la centralità della legge elettorale si ripropone adesso con forza, nonostante sia stata nell'ultima fase sottovalutata; e non casualmente è tornata alla ribalta proprio in seguito al fallimento della bicamerale che aveva escluso la legge elettorale dai suoi lavori, e anche in seguito alla crisi del governo Prodi, che ha messo in evidenza la debolezza dell'attuale legge elettorale della Camera nel formare maggioranze omogenee; ed è poi posta alla nostra attenzione - come è stato ricordato anche dal ministro Amato - dall'iniziativa referendaria.
Sono d'accordo che i sistemi elettorali non devono essere considerati verità indiscusse ma sono strumentali e adattabili ai momenti storici e agli obiettivi di evoluzione e di riforma del sistema politico. È chiaro tuttavia che c'è un problema di coerenza interna ad un sistema elettorale. Ed è un giudizio fin troppo scontato dire che l'attuale legge della Camera soffre di una mescolanza eccessiva ed impropria tra principio maggioritario e principio proporzionale, per di più esaltato dal meccanismo dello scorporo. Le due cose non possono andare insieme. Non sono certamente contraria ad un recupero proporzionale ex post oppure ad una quota modesta finalizzata al cosiddetto diritto di tribuna, ma il principio maggioritario deve avere la possibilità di agire in modo concreto e non può essere bloccato nella sua stessa efficacia, altrimenti rischiamo di avere i difetti dell'uno e dell'altro sistema. Ciascun sistema infatti ha i suoi pregi e i suoi difetti; si tratta di capire qual è il più adatto al momento che attraversiamo e all'attuale situazione del sistema politico.
Credo - ma questo mi sembra un giudizio condiviso, lo diceva anche nella sua introduzione in ministro - che la spinta deve essere verso un rafforzamento del maggioritario, per consolidare un bipolarismo ancora fragile e incerto e dare in modo più deciso agli elettori la possibilità di scegliere il Governo.
Sulla questione del doppio turno desidero dire che sono a favore perché lo ritengo più democratico per la scelta del candidato, ma soprattutto più funzionale all'obiettivo storico che abbiamo di fronte, quello cioè di favorire senza eccessive forzature la semplificazione del sistema politico italiano. Se il nostro male è la frammentazione politica, non è inutile ricordare che la quarta repubblica francese era molto simile alla nostra realtà e che il doppio turno ottenne appunto in termini abbastanza brevi la razionalizzazione del sistema politico.
Sono anche molto sensibile, signor ministro, al cenno che lei ha fatto anche ad altri aspetti che non attengono direttamente alla legge elettorale, e cioè alle modalità del finanziamento ed ai regolamenti parlamentari. Vi è infatti un'area che attiene alle condotte dei soggetti politici e che solo in parte può essere determinata dal sistema elettorale. Ciò eccede non solo la questione della legge elettorale, ma forse anche le competenze di questo ministero, ma credo non possa essere assente dal dibattito politico che si può svolgere attorno alla legge elettorale. Personalmente ritengo che si debba pensare anche ad una disciplina dei partiti, per condizionare il loro accesso al finanziamento, la partecipazione alle elezioni e la democraticità della vita interna, sia per


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quanto riguarda i loro organi, i diritti degli iscritti, le modalità di formazione delle decisioni, sia per quanto riguarda l'essenziale funzione democratica di scelta delle candidature, che oggi non può prevedere consultazioni vincolanti dei cittadini, soprattutto se la legge elettorale non prevede il doppio turno.
Per quanto riguarda il doppio turno di coalizione sono d'accordo su quanto affermava prima il collega Calderisi: è impossibile immaginare un doppio turno di coalizione fuori del contesto di una riforma costituzionale relativa al bicameralismo. Non credo inoltre che sia possibile inserire un premio di maggioranza nell'ambito di un sistema maggioritario.
Non entro nelle questioni relative alle altre leggi elettorali se non per sottolineare che sicuramente vi è un problema di omogeneizzazione. Non è una buona pedagogia elettorale e non aiuta certamente la partecipazione alle elezioni, che è un problema per tutte le democrazie contemporanee e potrebbe diventarlo anche per la nostra, quella che chiede agli elettori comportamenti profondamente diversi da un'elezione all'altra. Oggi il primo passo può essere quello di introdurre l'elezione diretta del presidente della regione, ma certamente il problema è più ampio e mi fa piacere che il ministro lo abbia toccato con decisione.
Mi sembra difficile sostenere che si possa fare soltanto la legge elettorale e non altre riforme di natura costituzionale. Vi sono connessioni dirette, alcune di natura tecnica, come nel caso del doppio turno di coalizione, altre di natura politica, e per intervenire in modo efficace bisogna farlo anche sulla forma di governo e quindi sulla designazione o elezione diretta di un vertice politico. Che sia il primo ministro o il Presidente della Repubblica, per il momento lascio impregiudicata la questione perché credo che su questo si debba riaprire una discussione.
Concludo con un riferimento al referendum perché anch'io faccio parte del comitato promotore e considero questa come un'iniziativa importante, che vuole essere soprattutto uno stimolo all'iniziativa legislativa del Parlamento, ma che tuttavia produce di per sé una legge elettorale che io considero positiva ed in grado di garantire maggioranze solide. Trovo assurdo dire che affidare la riforma ai referendum significhi criticare i partiti e limitare la loro funzione, come qualcuno ha affermato in questi giorni. È vero l'inverso, e cioè che i partiti vengono meno al loro ruolo se si dimostrano incapaci di produrre una riforma efficace, che risponda alla richiesta che viene con chiarezza dal paese anche attraverso l'iniziativa referendaria, ma non soltanto. Mi pare che il comportamento elettorale dei nostri concittadini dimostri ogni volta e con tutte le leggi elettorali che è forte la volontà di un sistema bipolare, che possa in modo inequivoco produrre maggioranze efficaci e quindi una stabilità e chiarezza dei Governi. Questo è il nostro compito e credo che il Governo abbia una funzione fondamentale per aiutare il Parlamento a svolgerlo. Se non saremo in grado di svolgerlo, il referendum è una risorsa democratica in mano ai cittadini.

LAPO PISTELLI. Ringrazio il ministro Amato, la cui attenzione vorrei focalizzare su un punto che ha richiamato sia giornalisticamente qualche giorno fa sia oggi nell'audizione, cioè quello della riforma della legge elettorale europea, la n. 18 del 1979, della quale sono relatore.
Il ministro Amato saprà che l'elemento prevalente delle proposte di partenza di riforma di tale legge era l'unico punto che oggi egli ha reputato irrealistico riformare, cioè il tema della regionalizzazione dei collegi. Il ministro ha fornito ampiezza di ragioni, ma alla fine ha rivelato motivazioni contraddittorie con l'unico dato vincolante che la legge elettorale europea deve avere, cioè l'impianto proporzionale. Avendo l'Italia regioni così diverse dal punto di vista democratico, se i collegi coincidessero con le regioni, in oltre la metà di queste ultime le elezioni si trasformerebbero in competizioni di tipo maggioritario, perché darebbero origine all'elezione di uno o due deputati al massimo.


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Il lavoro da noi svolto in sede di Comitato ristretto si è mosso su due principi: il primo era quello di un adeguamento ulteriore ai principi del documento Anastassopoulos, che era sostanzialmente rivolto ai paesi più lontani rispetto al nostro dai principi cardine della legislazione elettorale europea, ovvero la Francia e la Gran Bretagna per motivi diversi (in Gran Bretagna si sta ultimando proprio in queste settimane l'adeguamento proporzionale della vigente legge elettorale). Eravamo già in linea con i principi di tale documento e si trattava di essere ancora più in linea; eravamo, contrariamente ai parametri di Maastricht, già i più virtuosi rispetto a quel documento. L'altro elemento che ha animato il percorso era invece la ripulitura rispetto ad alcune eccentricità della legge, anche nel tentativo di adeguare il ruolo del Parlamento europeo dal nostro punto di vista di italiani non soltanto al ruolo nuovo che il Parlamento ha oggi alla luce del trattato di Amsterdam, ma al ruolo che noi italiani avremmo voluto che avesse, andando anche oltre la lettera di quel trattato.
In sintesi, la proposta che il Comitato ristretto alla fine ha depositato prevedeva vari punti. Circa i collegi, sui quali il ministro ha già esposto il suo pensiero, si trattava di scegliere una via intermedia, non i cinque attuali e neanche i venti regionali bensì nove, che era una via intermedia, non casualmente coincidente con il progetto di riforma francese. Vi era inoltre il tema dello sbarramento perché, anche se la legge deve rimanere proporzionale, questo non vuol dire che la proporzionalità debba coincidere con la frammentazione esasperata: infatti gli italiani sono gli unici che mandano i propri 87 deputati a spargersi in un raggio infinito di appartenenze politiche europee, laddove gli altri paesi hanno una selezione a monte più esigente.
Vi è poi il tema delle incompatibilità, trattato anche dal ministro e che noi avevamo articolato in modo ancora più restrittivo, sapendo che - utilizzo le parole del Presidente del Consiglio - se in un paese normale talvolta l'incompatibilità spinge ad una moralizzazione politica, in paesi che ancora non sono normali a tutti gli effetti occorre forzare la norma della incompatibilità prevedendola solo per alcuni e stabilendo l'ineleggibilità per altri; come principio orientativo del lavoro della Commissione occorre prevedere l'incompatibilità per tutti coloro che hanno un mandato elettivo e non di governo, in questo caso recependo un principio di Anastassopoulos, ma estendendolo su tutti i livelli dell'ordinamento istituzionale e trasformando invece in ineleggibilità il limite per tutti coloro i quali hanno un incarico di governo a livello nazionale.
Intendevamo inoltre armonizzare il numero delle preferenze a due e ridurre in modo degno e rapportato al numero dei collegi la possibilità di capolistature (il termine è orrendo, ma non me ne vengono in mente altri), che oggi è illimitato, potendo il capolista presentarsi su tutto il territorio nazionale. Volevamo altresì, in coerenza con la Commissione bicamerale, ridurre il limite di età dell'elettorato passivo, che oggi è il più elevato d'Europa, portandolo a 21 anni. Intendevamo poi superare il meccanismo di tutela delle minoranze linguistiche, oggi affidato a quell'atto di donazione liberale che i partiti maggiori fanno nei confronti delle minoranze politicamente organizzate, ed infine ci prefiggevamo di applicare interamente la legge sulle campagne elettorali. Oggi, proprio nella competizione elettorale che meno ha limiti di spesa e che più tende ad una sorta di americanizzazione, si fa applicare tale legge per la parte relativa alla par condicio televisiva ed al rimborso ai partiti, ma non per quella che moralizza le spese individuali dei candidati.
Approfitto di questa occasione perché siamo caduti - ed io come relatore ne porto la maggiore responsabilità - esattamente nel paradosso cui il ministro ha accennato nell'introduzione dell'audizione: abbiamo iniziato per tempo, abbiamo lavorato in fretta e molto prima dei quattro mesi dalla scadenza del traguardo ci si è cominciato a chiedere come si possano cambiare le regole mentre si avvicinano le elezioni, ancorché questo cambiamento fosse maturo non dieci ma


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diciotto mesi prima. Tutto ciò con il paradosso - è un'occasione per me importante per affermarlo pubblicamente - che, pur a fronte di un consenso unanime del Comitato ristretto su questo impianto, non si è mai riusciti ad entrare in sede referente in Commissione perché informalmente, una ad una, le delegazioni politiche non hanno espresso un dissenso su un punto specifico della legge, ma ciascuna ne ha sfilato uno ed, ahimè, tutti ne hanno sfilato uno diverso, con l'effetto che alla fine rimaneva la presa in giro dell'abbassamento dell'elettorato passivo, che non è motivo sufficiente per porre questo tema all'ordine del giorno.
Credo - e le ultime settimane ne hanno dato una riprova evidente dal mio punto di vista - che la competizione del giugno prossimo abbia innescato nel nostro paese dinamiche politiche rilevantissime anche in merito all'approdo possibile del bipolarismo italiano. Tanto per utilizzare anche questa come una sede non tecnica ma politica, colgo l'occasione per affermare che sono fra quelli che reputano che l'approdo possibile del bipolarismo italiano non sia necessariamente quello che lei ha disegnato in un forum, distinguendo in modo inevitabile da una parte la famiglia socialdemocratica e dall'altra la famiglia residuale dei popolari europei come tutti coloro i quali non sono socialdemocratici; sono molto attaccato all'iniziativa che fra i popolari è stata definita come quella del gruppo di Atene, secondo la quale il dato identificativo del popolarismo europeo non è l'essere alternativi ai socialdemocratici, definizione residuale e dunque politicamente infelice, ma avere in comune l'ispirazione cristiana che può vedere i partiti cooperare positivamente con un socialismo europeo in cui oggi la motivazione forte di alcune leadership è stranamente l'ispirazione religiosa. Questo vale per Blair, per Schroeder e per Delors , che non hanno mai fatto mistero di vedere non più nell'antica molla marxista, bensì nell'anglicanesimo, nel luteranesimo e nel protestantesimo un motivo forte per il loro impegno politico. Questa competizione è importante, una sorta di cruna dell'ago per il sistema politico italiano ed ho paura che non voler mettere mano alla legge elettorale ci faccia arrivare alla competizione con elementi truccati: ad esempio la trasformazione di tale competizione elettorale in un grande sondaggio di popolarità di leader vecchi e nuovi, sganciati da ogni riferimento al ruolo del Parlamento europeo e del bipolarismo italiano. Questa, per me, da cittadino prima che da parlamentare, è un'occasione persa.
La mia domanda è la seguente: pur conoscendo il limite dello strumento dell'audizione, vorrei sapere dal ministro come la pensa, oltre che in ordine ai due temi evocati, uno negativamente e uno positivamente, cioè quello dei collegi e quello delle incompatibilità, anche su altri punti che ho richiamato.
È possibile inoltre ottenere dal Governo e dal ministro del Governo D'Alema, che dunque non è più neutrale rispetto a questa partita, un interessamento attivo affinché materia in questione, tra le altre, esca dal binario morto e rientri invece in gioco?

ANTONIO SODA. Ringrazio il ministro, la cui presenza segna un passaggio politico significativo. Veniamo infatti dall'esperienza di un governo che aveva sostanzialmente dichiarato la sua neutralità rispetto al processo di riforma e siamo ora in presenza di un Governo che, pur non volendo essere il soggetto primario del percorso riformatore, lo vuole accompagnare e sostenere, possibilmente partecipando al suo esito positivo.
Desidero entrare subito nel merito di alcune riflessioni che la relazione del ministro mi ha suscitato. Condivido il giudizio sulla natura delle leggi elettorali quale strumento; non direi che il tema delle leggi elettorali si ponga in termini di verità assoluta o relativa, bensì affermerei che nelle società complesse e nelle democrazie più avanzate, superato il modello elettorale di proporzionalismo puro, che tende a tradurre nelle assemblee politiche la rappresentanza così com'è articolata e frantumata fra il popolo, quindi come specchio del paese, i modelli che vanno


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verso forme maggioritarie collegate ad un modello di democrazia responsabile e competitiva si esprimano sostanzialmente in termini di premi o castighi in relazione ai comportamenti adottati dalle forze politiche nella loro dialettica e di premi e castighi per i comportamenti del cittadino elettore. Non è facile trovare dei punti di equilibrio tra i premi ed i castighi, se vogliamo raggiungere gli obiettivi, che sembrano condivisi, della bipolarizzazione e della stabilizzazione delle maggioranze. Il ministro ha fatto riferimento ad un sistema elettorale che porta con sé alcune implicazioni; una riflessione aggiuntiva che dobbiamo fare è che un sistema politico-costituzionale è il frutto della combinazione di vari fattori, alcuni indubbiamente non regolabili dal diritto, come i processi politici e quelli storici, che sono il frutto di cammini tortuosi ed a volte contraddittori ma reali, non riconducibili a formule giuridiche. Le sfere nelle quali si può incidere sono i dispositivi costituzionali e la legge elettorale; non vedo la possibilità di perseguire i due fini della bipolarizzazione e della stabilizzazione (che - ripeto - sembrano condivisi) affidando esclusivamente alla legge elettorale la capacità di perseguirli. Pertanto la riflessione sulla legge elettorale - in questo sono parzialmente concorde con il collega Calderisi - va congiunta alla discussione e ad una indicazione sulla forma di governo.
È vero anche che, muovendoci verso un'articolazione federale dell'ordinamento della Repubblica, l'elezione diretta del Capo dello Stato può rappresentare quel momento unitario che tiene insieme un ordinamento caratterizzato da notevoli forze centrifughe. Tuttavia si poneva il problema del contributo che l'elezione diretta del Presidente della Repubblica - anche nella forma dei poteri che avevamo immaginato in sede di Commissione bicamerale, che non erano quelli del modello semipresidenziale francese ma di un modello definito da qualcuno come temperato - poteva dare ad una forma di governo stabilizzata attraverso l'esercizio del potere di scioglimento ogni qual volta si determinava una frattura fra volontà popolare manifestata e maggioranze espresse nel Parlamento.
Una riflessione aggiuntiva, oltre alle cose affermate dal ministro, riguarda il finanziamento dei gruppi, i regolamenti parlamentari, la legge sui partiti ed il problema del conflitto di interesse. Occorre dunque aggiungere anche l'aspetto che riguarda più direttamente il modello «forma di governo».
All'interno delle questioni che ha sollevato il ministro ho alcune considerazioni da fare. Come il ministro trae spunto dalle osservazioni fatte nel dibattito che si svolge attraverso i mezzi di comunicazione di massa, così io sono un ascoltatore al mattino della rubrica radiofonica Prima pagina durante la quale da alcuni giorni cittadini attenti si diffondono nel segnalare il dibattito fuorviante sul tema del conflitto di interessi, nel modo in cui si è sviluppato in quest'aula, nel modo in cui è stato risolto in prima lettura in Parlamento, nel modo in cui si sta sviluppando in Senato anche con gli emendamenti proposti dall'UDR.
Ebbene, si evidenzia che il conflitto di interessi, che in quest'aula era stato limitato soltanto ai membri del Governo, che con gli emendamenti dell'UDR viene esteso anche ai parlamentari, si risolve nel principio di segregazione del patrimonio, ma non affronta veramente il tema delle incompatibilità, che può essere affrontato soltanto rompendo lo schema della legge n. 1954 che definisce incompatibile chi contratta con lo Stato un determinato potere concessorio. Se non vogliamo affrontare il tema dello schermo societario, cioè il tema del controllo degli apparati produttivi delle industrie, soprattutto relativi ai mezzi di comunicazione di massa - controlli attraverso il potere reale, al di là della forma che assume il contraente con lo Stato - sul conflitto di interessi approveremo una legge parziale e comunque non risolutiva a fronte delle legittime aspettative dei cittadini.
Sul tema dei governi regionali siamo consapevoli, avendo presentato due proposte, l'una di modifica dell'articolo 8


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della legge n. 43 del 1995 e l'altra di modifica costituzionale dell'articolo 122, che la prima contiene in sé qualche perplessità costituzionale. Però abbiamo detto che ogni qual volta si determina una frattura fra la giunta, comunque espressione della volontà popolare, e il consiglio, l'estensione al quinquennio del principio di scioglimento limitato al biennio, già contenuto nell'articolo 8 della legge n. 43 del 1995 limitato al biennio, è nella logica di quella disposizione inserita in una legge a carattere largamente premiale, con meccanismi maggioritari fortemente incentivanti la costituzione di giunte solide. Quindi, ogni qual volta si rompe il circuito fiduciario tra giunta e consiglio il principio di scioglimento assolve alla funzione non di configurare un'ulteriore causa di scioglimento rispetto a quelle previste dall'articolo 126 (che sono la grave violazione di legge, la violazione della Costituzione, l'impossibilità di funzionamento e così via), ma all'interno di quella legge elettorale è una sanzione che revoca il premio di maggioranza. Tu hai costituito una giunta ed un consenso maggioritario in virtù del premio conseguito; distruggi il rapporto con il corpo elettorale che ti ha consentito di acquisire il premio di stabilità, ti si toglie tale premio e ti si rispedisce davanti agli elettori: questa è la logica della disposizione che stiamo esaminando. Poi ci rendiamo conto che ci sono delle perplessità e perciò vediamo - come giustamente lei ha detto - questa legge come un'anticipazione della riforma, a Costituzione vigente, perché lasciamo inalterata l'elezione del presidente.
Sono anche d'accordo che un tema veramente sentito dal popolo è quello della trasparenza, intesa proprio nel modo in cui lei l'ha definita: chi decide, dove decide, come decide. Ma questo è il grande tema della responsabilità delle democrazie competitive, che difficilmente si rinviene nelle democrazie assembleari e consociative nelle quali comunque continuiamo a muoverci; e la vicende del Governo in carica ne è il segno.
Allora, se si vuole percorrere la strada della trasparenza, e cioè per me è la strada della responsabilità, che veramente consegna al corpo elettorale gli strumenti di valutazione della giusta o non giusta decisione politica nello sviluppo di un percorso di legislatura parlamentare, occorre tornare al rafforzamento dei poteri del governo in Parlamento e ad un equilibrio diverso tra governo e Parlamento in questo tipo di democrazia.
Non la voglio fare lunga e mi limito pertanto ad una breve riflessione sul referendum. Credo che la Corte sarà veramente incerta sulla sua ammissibilità, anche perché le strade costituzionali sono duplici: se la Corte enfatizza il principio di chiarezza che ha sempre posto come limite di ammissibilità ai referendum, credo che questo tipo di referendum risulti confuso ed estremamente complesso (c'è un intervento normativo di manipolazione all'interno del testo della legge elettorale che investe 180 paragrafi, se non vado errato, cioè è un massacro della legge); anche se alla fine la lettura diventa agevole, rimane in ogni caso faticoso vedere quale obiettivo si persegue. Il risultato d'immagine è poi che si abolisce la quota proporzionale e si rafforza il maggioritario, ma è certamente un maggioritario bastardo, perché consegna il 25 per cento dei seggi agli sconfitti. Quindi in un quadro di valutazione di mancanza di chiarezza del quesito, la Corte potrebbe orientarsi a dire di no.
Se la Corte enfatizza, al contrario, il principio che ha elaborato sull'inesistenza del vuoto normativo, essendo la legge diretta a creare un sistema elettorale che non richiede interventi né del governo né del Parlamento per ridisegnare i collegi, potrebbe ammetterlo. Quindi, ci sono molte incertezze.
Abbiamo grande rispetto della volontà della Corte, ma certo è che come forze politiche abbiamo il dovere di non giocare il nostro ruolo in alternativa al referendum. Abbiamo il dovere di affrontare il tema della riforma della legge elettorale, che presenta i problemi noti a tutti in termini di garanzia di stabilità del Governo e delle maggioranze; il referendum è uno strumento democratico che scatterà nel momento


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in cui le forze politiche non saranno riuscite a dare una risposta. In questi termini va visto l'impegno che dobbiamo avere alla Camera e al Senato, o insieme, nei passaggi che avremo in relazione alla riforma della legge elettorale.
Mi fermo qui, non riuscendo a replicare al collega Armaroli. Mi sembra infatti che egli rappresenti l'espansione del principio fisico seicentesco ut expanditur vacuum absentibus rebus, e quindi non so veramente che cosa dire.

GIAN FRANCO ANEDDA. Signor ministro, l'ho ascoltata con sommo diletto, non inteso nel senso di divertimento, ma con grande piacere per il suo modo di esporre. Dalle mie parti, una terra, come lei sa, di allevatori, di pastori, e anche un po' di abigeatari, per coloro che devono riempire il tempo distraendolo al lavoro si usa dire che portano il cavallo al pascolo; più banalmente il proverbio in italiano dice «menare il can per l'aia».
La sua esposizione - glielo dico senza assolutamente mancare di rispetto, anche perché non ne ho i titoli - in fin dei conti per coloro che abbiano letto nella parte espositiva i libri di Sartori non ha aggiunto niente. Lei ha riassunto brillantemente quanto credo tutti i componenti della Commissione sapevano in ordine ai sistemi elettorali e alla compenetrazione tra questi e sistemi statuali. Ma la sede odierna non è quella di un convegno ma di una Commissione parlamentare, nella quale si esprimono opinioni politiche, e lei è venuto a dirci che il Governo non ha un'opinione o, più esattamente, che l'opinione del Governo è di non avere un'opinione. Un po' poco, ovviamente senza togliere niente al ringraziamento perché lei è qui, visita che consideriamo un atto di riguardo all'istituzione parlamentare nel momento in cui lei ha assunto la funzione di ministro.
Con questa premessa, le pongo brevemente alcune domande. La prima: a che cosa serve il suo ministero? Lei che funzione esercita? Per il Governo che funzione è delegato a rappresentare? L'arbitro? Il mediatore? Funzioni egregie, ma vi è bisogno di un ministro? Per sentire, ripeto, che non c'è un'opinione.
Rispetto a quanto lei ha dichiarato con riferimento a due punti, mi permetto di sottolineare una contraddizione, che ho colto, ed una incomprensione per me, che ho rilevato.
La contraddizione. È o no contrastante con l'autonomia delle regioni da lei invocata, nel quadro di quel cosiddetto federalismo che ha menzionato, il fatto che lo Stato pretenda di imporre alle regioni un'unica legge regionale togliendo alle regioni medesime il potere di darsi la legge che, nel bene o nel male, ritengono per quel territorio giusta?
Ciò che non ho compreso. Che cosa significa, in questa immagine brillante come tutto il suo discorso, scarnificare l'azione del Governo? Deve essere intesa come cessione di poteri alle regioni nel quadro di un avveniristico federalismo come depauperazione da parte del Governo di interventi diretti nell'autonomia dei singoli e dei cittadini nel campo dell'economia? Lei capisce che le interpretazioni sono talmente divaricanti da provocare reazioni diverse a seconda del pensiero di ciascuno di noi.
Perché mi sono permesso di porre questi rilievi? Proprio perché dalla parte dell'opposizione abbiamo necessità di un interlocutore, con il quale magari scontrarci non condividendo ciò che egli dice, ma ciò che non desideriamo avere è la nebbia, il bailamme di opinioni diverse in tema di legge elettorale, nel quale bailamme non si riesce nemmeno ad intravedere un filo conduttore che non sia quello degli interessi, nobili o meno nobili a seconda di quale parte si guardi la medaglia, delle singole forze politiche in quel determinato momento storico: i proporzionalisti difendono il proporzionalismo perché in quel momento ritengono sia il loro interesse legittimo, gli altri difendono altre soluzioni per lo stesso motivo. Ma il Governo vuole o no intervenire in questo dibattito per indicare, alla sua maggioranza nel contrasto con l'opposizione, la strada che traccia attraverso il ministro per le riforme istituzionali?


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Ecco la seconda domanda che molto sommessamente le pongo, proprio per consentire che il dibattito avviato possa vedere in prospettiva una soluzione, sia basato su un obiettivo concreto e non si riduca ad una mera esercitazione culturale.

ROLANDO FONTAN. Ho ascoltato con attenzione le parole del ministro Amato e devo dire che è stata una intelligente e sottile prolusione, però il tutto si è fermato alla prolusione. È comprensibile questa sua posizione di stand by completo perché la maggioranza e il Governo in materia di riforme elettorali, ma purtroppo anche per il resto, presentano molte incoerenze e molti contrasti al loro interno. È evidente infatti che le riforme che intende la parte cossuttiana sono diverse da quelle della parte dalemiana, che le riforme che intende la parte dalemiana sono diverse da quelle dei popolari e che comunque tutte e tre sono diverse da quelle che vuole la parte mastelliana. In questo quadro è evidente che il ministro non poteva dire più di tanto e quindi si è fermato alla prolusione.
Sinceramente noi della lega nord ci aspettavamo non un binario dritto, ma quantomeno qualche barlume di coraggio nell'assumere una posizione in materia di riforme. Constatiamo che emerge una volontà di riforma del sistema elettorale, che invece noi riteniamo un discorso di carattere secondario. A nostro avviso, ciò che non funziona è il motore dello Stato, non la legge elettorale; non si possono cambiare le ruote per far funzionare la macchina, bisogna prima cambiare il motore. È evidente che l'impostazione data dal ministro - dal discorso elettorale scivolando fino all'autonomia ed al federalismo - ci preoccupa moltissimo. Cerchiamo almeno di cambiare parte del sistema istituzionale e poi eventualmente procediamo alla riforma elettorale; riteniamo infatti che, se non si cambia il sistema, non si possa risolvere granché con alcun tipo di legge elettorale.
Gli interventi dei rappresentati del Polo mi hanno confermato un velato sbarramento della situazione: infatti continuare a parlare di elezione diretta del Presidente e di governo significa voler frapporre un velato sbarramento e quindi è scontato che il Polo punti al referendum. Tutto sommato, quest'ultimo non ci preoccupa più di tanto, perché non siamo fra quelli che si opporranno se la barca va verso il referendum. Invitiamo comunque, nell'ambito del confronto parlamentare, il Governo, il ministro e la maggioranza a proporre qualcosa di concreto, partendo dal sistema, cioè dal cosiddetto federalismo e lasciando per ultima la questione della legge elettorale.

DIEGO NOVELLI. Anch'io ho apprezzato la relazione del ministro, soprattutto per due ragioni: innanzitutto perché è una relazione aperta, piena di stimoli e di suggestioni, al di là delle polemiche, che tendono oggettivamente ad immiserire un dibattito come questo. Se vogliamo affrontare questa complessa materia, attorno alla quale questa legislatura e le precedenti hanno cercato invano di trovare una soluzione, uno dei compiti più alti che compete al Parlamento è proprio quello di realizzare le riforme che tutti dicono di volere ma che, nella realtà dei fatti, non si riescono a varare. L'altro motivo di apprezzamento è nei confronti di un'affermazione del ministro, quasi ovvia, che purtroppo tale non è in base all'esperienza vissuta: la legge elettorale non può essere disgiunta dalle riforme relative alla forma di Stato ed alla forma di governo che si intende stabilire.
Il ministro ha detto giustamente che la legge elettorale è uno strumento: dipende a che cosa si riferisce, a quale tipo di Parlamento, di Stato e di governo. Mi permetto dunque di richiamare rapidamente alcuni punti sui quali possiamo verificare se vi sia o meno una certa convergenza. Le riforme istituzionali dovrebbero tendere innanzitutto, in una realtà come la nostra - ha ragione il ministro Amato quando ricorda che i paesi sono diversi, con una storia ed una cultura differenti e che quindi non ci sono modelli universali che vadano bene per


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tutti - a restituire al cittadino elettore il diritto-dovere di scegliere con il voto uomini e programmi di legislatura. Purtroppo l'esperienza italiana ci insegna che i cittadini votavano per un determinato schieramento ma poi, dopo le elezioni, non si teneva conto dell'espressione di quella volontà e si instauravano governi di tipo diverso, sia centrali che a livello locale. Occorre dunque restituire al cittadino la propria sovranità, in base alla quale egli possa scegliere un governo o l'altro all'interno delle forze di maggioranza, lasciando gli altri all'opposizione.
Il secondo obiettivo è quello di normalizzare la vita politica non solo durante le campagne elettorali, ma per tutta la durata della legislatura. A questo proposito vi è una grossa contraddizione: in questi giorni si parla tanto di «ribaltino» contro il quale si è già pronti a fare una legge, ma gli stessi esponenti anche della mia parte politica, che oggi affermano di essere contro il ribaltone, sono quelli che sei mesi fa in sede di Commissione bicamerale sostenevano la sfiducia costruttiva. Scusate, cos'è la sfiducia costruttiva, se non un ribaltone? Se, per esempio, in Campania vi fosse una raccolta di firme e si ottenesse una diversa maggioranza, non si tratterebbe di un ribaltone? Dunque la sfiducia costruttiva altro non è che una forma di ribaltone. Eppure per anni abbiamo sentito in queste aule ed in questi Palazzi esaltare la sfiducia costruttiva; in sede di Commissione bicamerale abbiamo ascoltato addirittura relazioni attorno a questo tema.

PAOLO ARMAROLI. Salvi non è d'accordo!

DIEGO NOVELLI. Appunto, ogni riferimento al senatore Salvi non è puramente casuale.
Occorre poi ricondurre l'azione dei partiti e dei movimenti politici nell'alveo delle norme costituzionali. Dopo averli tanto demonizzati possiamo anche non chiamarli più partiti: chiamiamoli confraternite, associazioni o come volete, ma una forma organizzativa dovrà pur esservi. Il partito è uno strumento indispensabile per l'esercizio della democrazia e non il fine ultimo dell'azione politica: questa è la differenza.
Altro obiettivo è quello di garantire la stabilità di governo: quando si va a votare si spera che il governo duri per una legislatura. Avevo proposto nella Commissione bicamerale De Mita e poi Iotti addirittura la riduzione della durata del mandato perché sono convinto che quattro anni siano tanti; è la durata del mandato del Presidente degli Stati Uniti. Ora addirittura si propone di allungare la durata dei consigli comunali e dei sindaci perché non farebbero in tempo a realizzare i programmi. Dopo le elezioni politiche, una volta fatto lo scrutinio, già si sa chi deve governare e chi deve stare all'opposizione, si conosce addirittura il Governo e quali saranno i ministri. Sono queste le proposte che mi permetterò di avanzare in modo dettagliato in altra sede. Una settimana dopo dovrebbe entrare in esercizio il governo e realizzare il programma che ha presentato agli elettori ed in base al quale ha ottenuto la fiducia. Signor ministro, vogliamo sapere innanzitutto se si intende mantenere o meno il bicameralismo: conserviamo una Camera ed un Senato che ripetono le stesse procedure...

PAOLO ARMAROLI. Sentiamo Salvi!

DIEGO NOVELLI. È inutile fare delle battute, Armaroli. Si riforma la legge elettorale per eleggere che cosa? Spiegatemelo, visto che tutti correte in questa direzione, oppure verso il referendum, questa sciagura nazionale, che considero tale dopo il Vajont e Mario Segni...

PAOLO PALMA. E Di Pietro?

DIEGO NOVELLI. È un epigono. Abbiamo indetto un referendum, dopo il quale ci siamo ritrovati nei pasticci; non si può tagliare un pezzetto senza sapere a cosa si riferisce. È un problema di intelligenza media. Ora tutti corrono dietro al carro del referendum perché l'opinione pubblica è stata manipolata ancora una volta e ne vedremo delle belle nelle


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prossime settimane. Ora il Polo si è convertito al referendum: dopo gli abbracci di Occhetto con Mario Segni abbiamo assistito agli abbracci di quest'ultimo con Fini. E, se non troveremo un sistema di intervento, seguiranno altri abbracci prima della scadenza del referendum. Vorrei dunque sapere dal ministro quale sia il tipo di Parlamento che si intende perseguire; non è stato fatto un accenno alla riduzione del numero dei parlamentari - non è una mia fisima - perché un'Assemblea di 630 persone non può funzionare anche se abbiamo un super Presidente. È difficile anche lavorare in Commissione. Intendiamo riconfermare il bicameralismo così com'è, oppure vogliamo un sistema monocamerale? Siamo a favore di un sistema che preveda il Senato delle regioni? Su questi punti occorre dire una parola chiara.
Discorso analogo vale anche per la riduzione dei parlamentari: si parla tanto di sbarramento, ma sappiamo tutti che, riducendo di un terzo il numero dei parlamentari, per eleggerne uno non basta più il due o il tre per cento, ma esattamente il doppio. È automatico e meno antipatico dello sbarramento.
Per quanto riguarda la durata del mandato, ho già detto che secondo me quattro anni sono un'eternità, se già il giorno dopo si incomincia a lavorare e non ci sono crisi lungo il percorso. Invece, anche se vi sono crisi, si deve restituire al legittimo titolare della sovranità, cioè al cittadino, l'esercizio di quel potere. Ognuno è libero di cambiare opinione, però se si è votato un candidato in quanto esprimeva certi ideali ed una determinata politica e poi quest'ultimo ha cambiato opinione, in qualità di cittadini si deve poter richiedere indietro questa sovranità. Non si sfugge da questo.
Occorre inoltre sapere quale modello di Stato si intende realizzare e, per farlo funzionare, è necessario un sistema elettorale congruente, in affinità con quel modello di Stato.
Discorso analogo vale per la forma di governo: non sono mai stato un fanatico del proporzionale, ma ritengo che vi possa essere un sistema elettorale che consenta il proporzionale per l'elezione dell'Assemblea legislativa; per quanto riguarda l'Esecutivo sono contrario ad ogni forma di elezione diretta del premier, non per una ragione ideologica ma perché non ritengo che sia confacente con la tradizione e la cultura - o, se volete, la sottocultura - italiana. I fenomeni di personalizzazione - non voglio usare aggettivazioni troppo pesanti - sono preoccupanti; pertanto anche la spettacolarizzazione può arrivare a forme esasperate. Ritengo che il Presidente del Consiglio dovrebbe essere un primus inter pares, con una compagine di ministri già indicati che tuttavia possano essere sostituiti nel corso della legislatura, perché la sovranità popolare è stata delegata al Parlamento, ma nel momento in cui viene meno la fiducia di quest'ultimo, di coloro che hanno ricevuto la delega dell'esercizio della sovranità popolare, non rimangono che le elezioni. Non vi possono essere formule improvvisate o che discendono, come ricorda giustamente Montanelli dal connubio di Rattazzi-Cavour.
Procedo ancora per capitoli, per vedere qual è l'approssimazione di consenso in questa Commissione. Se un governo presenta una legge finanziaria, si dovrebbe dedurre che essa corrisponda al programma che quel governo ha presentato agli elettori. Spesso invece il Governo presenta una finanziaria e poi in Assemblea questa viene svilita o snaturata attraverso la formazione di maggioranze non corrispondenti a quella espressa dagli elettori; ricordo le tristi note degli anni passati, quando al quarto piano si svolgeva una sorta di foro boario al quale partecipava anche un illustre presidente di Commissione, che è stato anche ministro e che recentemente ho visto in qualche serata televisiva. Allora si formavano - e si formano ancora, perché non è ancora un mero ricordo del passato - maggioranze di categoria ed emendamenti merceologici o territoriali. Invece, quando un governo presenta la legge finanziaria, la finanziaria è quella; si introduca allora il principio della doppia lettura, si proceda, cioè, ad un prima lettura per raccogliere


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tutti i suggerimenti che il Parlamento può fornire nella sua più larga partecipazione, dopo di che il Governo riscriva in seconda lettura questo documento, lo presenti e lo si voti in blocco. Non si può togliere da una parte e mettere dall'altra.
Si dovrebbe procedere analogamente ai bilanci dei comuni - scusate se faccio riferimento ad un'esperienza diretta -, che vengono presentati dal sindaco e dalla giunta, senza che vengano sviliti da aggiustamenti che poi non corrispondono al programma di quella amministrazione.
Infine ho apprezzato l'accenno alle garanzie per cambiare le regole; tuttavia non capisco perché non si segua la via maestra dell'articolo 138 della Costituzione. Perché dobbiamo inventare altri meccanismi? Semmai all'articolo 138 bisognerebbe aumentare il quorum invece di eliminarlo. Ci troviamo infatti in una situazione assurda nella quale la maggioranza elettorale, che è una minoranza politica, può a suo piacere cambiare la Costituzione perché è maggioranza in Parlamento. Anche questa è una stortura sulla quale vi invito a riflettere. Propongo, senza con questo puntare la pistola sul ministro, di esaminare per approssimazione quali sono i punti che possano essere realizzati subito nell'ambito di un quadro di riferimento preciso. Bisogna evitare di assumere un provvedimento che vada in una direzione per poi, per esempio sei mesi dopo, sotto un'altra onda emotiva, assumerne un altro che segua un'altra linea. Adesso c'è l'onda dei ribaltoni e quindi tutti vogliono una legge contro i ribaltoni: tuttavia già sei mesi fa si sapeva che con la sfiducia costruttiva si sarebbe dato una sorta di belletto al ribaltone, citando Kohl, scomodando la Germania e via dicendo.
Invito dunque il ministro, in una prossima occasione di incontro, a voler esporre su determinati punti la posizione del Governo e possibilmente della maggioranza, in modo da poter aprire un confronto in questo senso.

MARCO BOATO. Considero anch'io positiva la decisione del Presidente D'Alema di nominare un ministro per le riforme istituzionali e di nominare questo ministro. La differenza rispetto al governo Prodi - poiché da un rappresentante del Polo e dalla collega Mancina si è sottolineato l'aspetto che quel governo non aveva il ministro per le riforme istituzionali - è che quel governo non aveva un ministro per le riforme istituzionali perché eravamo di fronte alla dichiarata volontà politica di istituire la Commissione bicamerale, in cui non è prevista - e non era prevista neanche nelle precedenti bicamerali - una figura rappresentativa del governo, e quindi era diversa la fase storico-politica e istituzionale. L'errore, semmai, è stato di manifestare ripetutamente avversità, ostilità, e perfino soddisfazione nei momenti di difficoltà, non comprendendo che la bicamerale e il governo Prodi si tenevano insieme l'una con l'altro e che anzi la bicamerale era l'assicurazione sulla vita di quel governo. Caduta la Commissione bicamerale, ovviamente per volontà non del governo Prodi ma di Berlusconi (e sembra con soddisfazione quasi generale), poco dopo è caduto anche il governo Prodi. Questa è la differenza, non il fatto che ci sia o non ci sia il ministro.
Questo confronto è utile, anche se mi pare che tutti stiamo rilevando che siamo ancora in una fase istruttoria. L'intenzione era comunque quella di una prima ricognizione, tant'è che, ministro Amato, sono stato io due settimane fa a proporre nell'ufficio di presidenza di questa Commissione, supplente Zeller essendo stata appena nominata la Jervolino ministro, la sua audizione, proprio per fare una prima ricognizione. E a me dispiace che da parte di alcuni colleghi non si capisca che non ha senso fare questi confronti parlando e poi andandosene: l'intero gruppo di forza Italia non c'è perché ha una riunione di gruppo, un suo rappresentante ha parlato per primo e sono andati via; vari gruppi non sono presenti, altri sono a ranghi ridotti. Secondo me questa è una spia molto brutta per verificare se ci sia o non ci sia la volontà di riprendere un percorso


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interrotto, perché se c'è volontà politica nei gruppi, allora c'è una presenta costante nel confronto parlamentare. Ad un certo punto ho contato otto o nove ex membri (anche se formalmente non c'è questo «ex») della Commissione bicamerale tra i colleghi che partecipano all'odierna seduta. E chi ha fatto quell'esperienza sa che nel momento delle scelte e delle decisioni c'era la presenza di tutti, o di quasi tutti. Perché quella è la spia della volontà politica, se si vuole andare da qualche parte; se invece si vuole soltanto la parata, cioè essere presenti quando c'è la ripresa televisiva, per poter dire «io c'ero», si ricava un brutto sintomo, non per il governo ma per il Parlamento.

PRESIDENTE. Onorevole Boato, i colleghi di forza Italia hanno una riunione di gruppo: lo avevamo preannunciato.

MARCO BOATO. L'ho detto anch'io. Ma che ci sia una riunione di un gruppo così importante in concomitanza con questa iniziativa fa già capire che si è deciso che le due cose potevano sovrapporsi. D'altronde, non credo che lei abbia ricevuto una richiesta di rinviare l'odierna audizione.
È stato un clamoroso errore del presidente Berlusconi, e di tutto il Polo con lui, rovesciare il tavolo della Commissione bicamerale. Non è l'unico che porta la responsabilità di quella scelta: ci sono anche responsabilità della maggioranza. Però la scelta di rovesciare il tavolo il 2 giugno è avvenuta per bocca del leader del Polo. Berlusconi era convinto di depotenziare il lavoro ai fianchi che gli stava facendo Cossiga, ma ha fatto esattamente quello che Cossiga da due anni diceva, e cioè che bisognava bloccare la bicamerale. Berlusconi oggi a mio parere si è pentito di questa scelta, perché Cossiga ha «usato» Berlusconi, si è congratulato con lui per aver rovesciato la bicamerale e un minuto dopo si è messo a lavorare per rovesciare Berlusconi. Non sarò io a piangere di questo, visto che faccio parte della maggioranza e non dell'opposizione - sto cercando di fare un'analisi politica disincantata e non ad usum delphini -, ma credo che oggi Berlusconi e il Polo si siano amaramente pentiti di quella scelta, e non solo in tema di forma di governo e di forma di Stato, ma anche in tema di garanzie.
Considero - parlerò schematicamente ma fuori dai denti, perché non serve a nulla un dibattito diplomatico - un gravissimo errore che si dia priorità alle riforme elettorali rispetto alle riforme costituzionali: è il gigantesco errore che si è compiuto nella seconda metà del 1993. Disperatamente in quella bicamerale tentai di far capire ai colleghi che non è vero che poi, una volta fatte e vinte le elezioni (questo era lo scenario: si fanno le elezioni con la nuova legge, le si vince, si fanno le riforme costituzionali) si sarebbero fatte le riforme costituzionali.
Quello schieramento perse le elezioni, l'altro schieramento non è stato in grado di produrre assolutamente nulla e noi, a distanza di cinque anni da allora, siamo ancora alla transizione interrotta, siamo ancora ad una intervista di Maccanico, in un libretto pubblicato da Laterza qualche anno fa, che faceva la ricognizione del blocco di quel processo. Adesso ripeteremo lo stesso identico errore: metteremo avanti le riforme elettorali convinti, un'altra volta cinque anni dopo, che quello sia lo strumento risolutivo dal punto di vista delle riforme istituzionali. Soda ha detto molto bene ad un certo punto: «Non illudiamoci che quello sia lo strumento esaustivo, anche se è uno strumento utile, necessario». Rifaremo lo stesso errore, ci troveremo di nuovo di fronte alla transizione incompiuta, alla transizione bloccata, e parleremo ancora di una seconda Repubblica, che non c'è, o di una seconda fase della prima Repubblica (non mi interessano le formule).
Abbiamo di fatto delegittimato la Costituzione vigente nella sua seconda parte, perché è vigente e dobbiamo rispettarla, ma di fatto ci siamo posti per la seconda volta (anzi per la terza, ma la prima era consultiva) l'obiettivo di cambiare l'intera seconda parte della Costituzione, quindi abbiamo detto a 55 milioni di italiani che quella seconda parte è desueta, obsoleta e


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quindi va rinnovata, aggiornata, riformata. Ma non lo abbiamo fatto, non siamo riusciti a fare riforme, e torniamo ad illuderci di riprendere il processo di transizione dalla coda della legge elettorale, che dovrebbe essere la conseguenza della riforma costituzionale e non la premessa.
A mio parere - ma naturalmente parlo come vox clamantis in deserto da questo punto di vista - dopo tre fallimenti parlamentari, dovuti a ragioni diverse l'uno dall'altro (diversa la Bozzi, diversa la De Mita-Iotti, quando ci sono state elezioni anticipate con un governo in carica che godeva della fiducia del Parlamento), adesso che la terza Commissione bicamerale è fallita ma non è finita (paradossalmente è fallita ma non finita, e dirò subito il perché), l'unica strada di un'ipotesi di revisione organica dell'ordinamento della Repubblica è quella di un'Assemblea per la revisione costituzionale (uso proprio un'espressione mutuata dall'attuale ministro Amato, che la usò qualche anno fa quando si parlava di Assemblea costituente) della seconda parte della Costituzione. Al riguardo, a giugno scorso, subito dopo il fallimento o il blocco della bicamerale, ho presentato un progetto di legge che nessuno prende in considerazione, ma non mi lamento di questo: ho messo uno strumento al servizio del Parlamento nel caso che lo avesse voluto utilizzare.
Se quella non è la strada, sono convinto che verso la fine di questa legislatura (da due settimane ne abbiamo superato la metà) quell'appuntamento ritornerà all'ordine del giorno, si riparlerà di un'Assemblea per la revisione costituzionale da eleggere contestualmente al nuovo Parlamento. Ma adesso - non voglio parlare a futura memoria - abbiamo due strade. Se fosse vero - e io me lo auguro - che, passati alcuni mesi da quel famigerato 2 giugno, festa della Repubblica, ci fosse di nuovo la volontà di rimettere in pista le riforme già approvate in prima lettura sul federalismo, l'ipotesi di elezione diretta del Capo dello Stato, tutta o in parte la proposta di riforma del sistema delle garanzie (adesso tutti riscoprono i principi del giusto processo; erano scritti lì, nel testo della bicamerale: polarità, contraddittorio, parità delle parti, terzietà del giudice; non ci sarebbe mai stata la sentenza della Corte che c'è stata, se quel processo fosse continuato). Se dunque davvero si verificasse una larga convergenza su quel terreno, che senso avrebbe che le prime Commissioni di Camera e Senato riprendessero su quei testi, ripresentati qui, lo stesso percorso? Eravamo già in aula, possiamo riprendere quel processo, avendo già svolto tutto il lavoro referente!
Se cioè matura, signor presidente, signor ministro - voi che avete tra l'altro una storia in queste riforme istituzionali -, la volontà politica di rimettere all'ordine del giorno il pacchetto forma di Stato, il pacchetto forma di governo, il pacchetto federalismo, tutto o in parte il pacchetto garanzie, allora, visto che abbiamo la procedura già in corso, riprendiamo quella.
Novelli si illude che con l'articolo 138 si fanno le riforme; addirittura ho sentito parlare di bicameralismo, di riduzione del numero dei parlamentari, tutte riforme sacrosante, ma ci illudiamo che in sede di prime Commissioni di Camera e Senato sia possibile riprendere tali questioni. Pensate che quello che non è riuscito a fare la bicamerale, appartata in qualche modo dal resto del Parlamento, possano farlo le prime Commissioni di Camera e Senato, cioè di autoriformare Camera e Senato, di autoriformare il numero dei parlamentari, di differenziare il bicameralismo perfetto? Tutto ciò è pura illusione.
Se questa è la strada da seguire, dobbiamo cercare - ecco il suo difficilissimo compito, ministro -, dopo alcune settimane istruttorie, dopo i dibattiti parlamentari, di trovare quei cinque o sei punti limitati che incidano sulla Costituzione vigente. Non una grande riforma, ma - diciamolo - una piccola ma importante riforma, che incida sull'elezione diretta del presidente della regione (articolo 122, ultimo comma), sui poteri del Presidente del Consiglio (nomina e revoca dei ministri, anche in momenti di questo


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genere), sui principi del giusto processo (non tutta la riforma delle garanzie ma quella norma, l'articolo 130 della bicamerale). Occorre trovare, ripeto, cinque o sei punti di questo tipo, da focalizzare e su cui trovare una larga convergenza trasversale (non l'unanimità ma almeno il 60-70 per cento del Parlamento, e c'è la possibilità di farlo). Ma allora non ci si prenda in giro, decidiamo di avviare le procedure subito, non sulla riforma da riportare qui dentro ai testi della bicamerale, perché ci cospargiamo noi stessi di ridicolo, ma su cinque o sei punti nodali che non abbiano più l'ambizione della grande riforme dell'intera seconda parte della Costituzione ma che permettano di razionalizzare il nostro sistema politico-istituzionale su alcune questioni decisive che non a caso sono riemerse nel dibattito di oggi.
Per quanto riguarda la legge elettorale, faccio una previsione. Siccome l'ho fatta identica all'inizio del 1993 e mi sono scontrato con i miei amici e colleghi di allora (poi è successo esattamente quello che avevo previsto), la rifaccio oggi perché sta succedendo la stessa cosa. Non esiste in questo momento la benché minima possibilità di trovare una convergenza larga (perché sulle regole elettorali o è larga o non è) su un'ipotesi di riforma elettorale. E lei, signor ministro, avrà fatto questa verifica con la ricognizione dei gruppi.
Sto parlando uti singulus, non sto rappresentando il mio gruppo, e per questo mi permetto di essere molto esplicito. Abbiamo due scenari. O la Corte a gennaio dichiara ammissibile quel referendum - ed è un referendum che non mi entusiasma ma penso che ci siano tutti i requisiti perché venga dichiarato ammissibile, se la Corte non smentisce se stessa -, e allora si celebri il referendum, decidano i partiti come collocarsi (io dirò «sì» a quel referendum, sia pure senza entusiasmo), e il Parlamento metta mano alle riforme elettorali dopo che si è pronunciato il popolo italiano. Ma non commettendo l'errore del 1993 (non cito l'autore, ma lo sapete, anche perché è un mio caro amico, oltre che il vertice istituzionale), cioè non sotto dettatura. Non esiste un Parlamento che legifera sotto dettatura, perché il referendum, proprio perché è abrogativo, non può dettare norme positive: può indicare la volontà politica della maggioranza del popolo italiano, che deve essere rispettata...
Non possiamo lamentare delle sentenze additive o manipolative della Corte Costituzionale e poi fare referendum additivi o manipolativi. Se il referendum darà un risultato positivo, a quel punto il Parlamento dovrà mettere mano alle legge elettorale della Camera e - il ministro lo ha accennato - presumibilmente anche a quella del Senato. Se non si fa il referendum, cioè se la Corte lo dichiara inammissibile, prevedo che non si farà nessuna riforma elettorale o, peggio, si rischierà di fare una riforma elettorale che ci farà compiere passi indietro, invece che passi avanti, rispetto ai requisiti della stabilità dei governi e dell'accentuazione della logica maggioritaria nel nostro paese.
Questi sono i due scenari che vedo sul piano delle leggi elettorali, come prima ho disegnato i due scenari sul piano delle riforme costituzionali. O si riprende il processo della Commissione bicamerale, che è possibile riprendere se si crea una volontà politica su alcune grandi questioni citate dal ministro ed anche da alcuni colleghi nel dibattito, oppure si vada puntualmente ad alcune riforme costituzionali, non illudendosi di rimettere in cantiere tutto, come abbiamo sentito poco fa. Non possiamo illuderci di ricominciare quel percorso per la decima volta in I Commissione.
Se tutto ciò non avverrà, penso che la legislatura andrà avanti, salvo che non si verifichino incidenti di percorso politico-parlamentari, non incidenti istituzionali, per il Governo. Vedo più facile, ministro Amato, che questo Governo trovi gravi difficoltà sul piano politico-parlamentare che non sul piano istituzionale. Questo è il rischio che il Governo correrà nelle prossime settimane e nei prossimi mesi. E non aver nominato un ministro per i rapporti con il Parlamento in grado di


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essere antenna di quello che succede in Parlamento, ed in particolare alla Camera dei deputati, forse sarà l'errore più grave che è stato compiuto nella composizione del Governo, tenuto conto che il ministro per i rapporti con il Parlamento è uno strumento delicatissimo e decisivo nei rapporti non solo con la propria maggioranza ma anche con le opposizioni.
Da ultimo, signor ministro, le indico una questione che è all'attenzione della I Commissione: essendone io relatore, è giusto che sia io ad indicargliela. Stiamo discutendo da alcuni mesi un tema di cui lei è maestro: la riforma degli articoli della prima parte della Costituzione in materia economica (41, 42 e 43). Molti colleghi non condividono il testo - che è stato presentato da parlamentari del Polo - da cui la discussione è iniziata; dico solo che quel testo ha il merito di averci messo all'ordine del giorno questo tipo di problematica. Poiché come relatore, d'accordo con il presidente e con l'ufficio di presidenza, intendo proseguire, sia pure lentamente e gradualmente, su questo terreno, essendo questo un tema - ricordo un suo articolo su Quaderni costituzionali del 1992 - di cui ci è maestro, le segnalo che avrei proposto di audirla prima che lei diventasse ministro, ma adesso la ascolteremo in questa sua nuova veste, lei assieme ad altri naturalmente. Le sottolineo dunque che in tanto baluginare di importanti tematiche sulla riforma dell'ordinamento, c'è questo percorso che sta andando avanti nella I Commissione della Camera su una materia che non è irrilevante dal punto di vista della presenza dell'Italia in Europa e sotto il profilo costituzionale; quindi una qualche attenzione da parte sua più avanti - non adesso che ha altre urgenze - sarebbe auspicabile.

LUCIANO CAVERI. Interverrò brevemente, anche perché sarebbe grottesco da parte mia parlare di argomenti troppo vasti o volermi occupare di massimi sistemi. Vorrei invece porre alcune questioni al ministro in qualità di rappresentante della Valle D'Aosta, ma anche con una annotazione che riguarda le autonomie speciali alle quali il ministro Amato ha fatto un riferimento preciso.
Per quanto riguarda la legge elettorale, mi limito ad una semplice battuta: in Valle D'Aosta pratichiamo da 51 anni e da 13 legislature il sistema maggioritario ad un solo turno, che per tale regione va bene, trattandosi di un collegio molto piccolo che ha caratteristiche di tipo anglosassone. Quando discutemmo della riforma elettorale soprannominata Mattarellum, che oggi è la legge in vigore, vi fu l'accortezza di considerare questa particolarità, peraltro difficilmente modificabile perché le circoscrizioni elettorali per Camera e Senato sono indicate nello statuto di autonomia, che è legge costituzionale dello Stato. Dunque non si potrebbe giocare con i resti perché nello statuto è contenuta l'indicazione di un maggioritario secco senza utilizzo ulteriore dei voti.
Per quanto concerne le autonomie speciali, il ministro le ha definite una soluzione arretrata: condivido questa sua interpretazione ed aggiungo che si tratta di una soluzione non solo arretrata ma anche parzialmente inattuata, perché la potenzialità contenuta in molti statuti di autonomia è rimasta lì, come una specie di messaggio in bottiglia in parte inespresso. Devo ammettere che sono stati compiuti degli sforzi da parte dei parlamentari e degli esponenti delle autonomie speciali per dare dinamicità alle autonomie, soprattutto attraverso l'uso - del quale sono stati veri maestri i sudtirolesi - delle norme di attuazione degli statuti. Tuttavia non si tratta di federalismo, come osservavano gli stessi esponenti autonomisti del mio movimento politico, l'Union Valdotaine, 50 anni fa, anzi subito dopo il decreto luogotenenziale, che è stata la prima forma di autonomia speciale.
Perché allora i veneti, i piemontesi ed i lombardi guardano alle autonomie speciali? Perché, tutto sommato, anche se può sembrare illusorio, è una fiammella di federalismo che è rimasta accesa; d'altra parte in Italia è stata una soluzione


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per evitare grossi problemi perché, in fin dei conti, queste forme di autonomia speciale sono una soddisfazione per quelli che anche in Europa si chiamano i popoli senza Stato. Pochi sanno che il catalano Pujol venne, nell'immediato dopoguerra, a studiare il nostro statuto speciale di autonomia, ipotizzando per la sua terra, come egli stesso ha affermato in un'intervista, l'idea di questo tipo di autonomia speciale. Tuttavia in questo momento baschi, catalani, scozzesi, gallesi ed i due popoli del Belgio stanno percorrendo una strada di autonomia speciale differente e più avanzata.
Ribadisco pertanto che, dal mio punto di vista, l'autonomia speciale è il punto di partenza contro le macroregioni, contro una visione economicistica delle autonomie, che è stata espressa autorevolmente dalla fondazione Agnelli. Affronto il problema delle autonomie speciali perché non possiamo immaginare che il processo riformatore venga soltanto dal Parlamento. Per esempio in questo momento in Valle D'Aosta è stato avviato un processo di riscrittura dello statuto di autonomia; sappiamo infatti che è ammesso dalla Costituzione e dagli statuti medesimi un processo dal basso per gli statuti di autonomia speciale di cui all'articolo 116. Pertanto, visto che non riusciamo mai a trovare il modo di dare inizio a questa voglia riformatrice, ritengo che uno dei problemi che il Governo dovrà porsi è di assecondare questi desideri costituenti che partono dal basso e capire quali procedure seguire, perché l'articolo 138 della Costituzione è molto complesso e vi è il rischio che gli statuti delle regioni ad autonomia speciale subiscano forti mutamenti nel passaggio parlamentare rispetto a quella volontà, che naturalmente è diversa rispetto alla logica degli statuti octroyés, che era caratteristica dell'epoca della Costituente.
L'ultima questione riguarda le elezioni europee. Ho molto apprezzato il suo riferimento alla necessità di trovare qualche regola, come potrebbe essere quella dell'incompatibilità ed in certi casi dell'ineleggibilità. Ribadisco qui, avendolo già evocato il collega Pistelli, relatore sulla legge sulle elezioni europee, che, se si deve apportare qualche modifica, essa deve tener conto dell'assoluto anacronismo della legge attuale in materia di tutela delle minoranze linguistiche nelle piccole regioni come la Valle D'Aosta e la provincia di Bolzano. Oggi quest'ultima, grazie ad un sistema di apparentamenti, riesce ad ottenere un europarlamentare, ma la cifra di preferenze prevista è assolutamente distante da ogni possibilità per i valdostani. Tuttavia l'esigenza è reale perché l'assenza di un parlamentare europeo è paragonabile ad un pezzo di scala mancante; e questa mancanza si sente in Valle D'Aosta come in Basilicata, in Molise ed in Sardegna.
Apprezzo molto quanto il ministro ha detto e non mi preoccuperei se su alcune vicende il Governo non ha ancora la necessaria unità di intenti; sono convinto che valga la concretezza dell'operare giorno per giorno e che, cominciando da qualche parte, potremo sfruttare il tempo che ci separa dalla fine della legislatura per apportare modifiche significative.

PRESIDENTE. Ringrazio di nuovo il ministro per aver accolto tempestivamente l'invito della Commissione e rinvio il seguito dell'audizione ad altra seduta.

La seduta termina alle 18.50.