PROGETTO DI LEGGE - N. 7123
Onorevoli Deputati! - 1. (Linee guida della
riforma).
Il legislatore del 1942 - nell'attuare l'unificazione del
codice civile e del codice di commercio - avvertì pienamente
come il dato economico di riferimento della normativa che
ancora oggi, per tradizione, viene chiamata "commerciale",
stava subendo uno spostamento dal commercio in senso economico
all'industria; recepì tale situazione ponendo al centro della
normativa non più l'atto di commercio ma l'impresa.
Parallelamente, il fenomeno societario fu costruito come
"forma di esercizio collettivo dell'impresa", così staccando
decisamente l'istituto dalla tradizione romanistica e
civilistica.
Per le società di capitali, cioè le società la cui
struttura organizzativa fa perno sul dato patrimoniale in
evidente connessione con la limitazione di responsabilità, il
sistema del codice del 1942 fece capo a tre
modelli: società per azioni; società a responsabilità
limitata; società in accomandita per azioni.
Tralasciando la accomandita per azioni, legata a
particolari esigenze, e di scarsa, marginale applicazione
pratica, il legislatore del 1942, nell'introdurre la società a
responsabilità limitata (figura derivata in principio, se pur
non completamente nella disciplina, dall'esperienza tedesca)
affermò che la creazione derivava dalla "necessità di
apprestare la responsabilità limitata a quelle organizzazioni
sociali di minore entità che finora assumevano le forme della
società per azioni e che per l'avvenire, di fronte alle
imposizioni di un capitale minimo di un milione della società
per azioni, questa forma non potrebbero più assumere"
(relazione al Re).
L'intento del legislatore non si è realizzato per una
pluralità di concorrenti ragioni: il venire meno di ogni
significato economico del capitale minimo; la circostanza che
la disciplina delle società a responsabilità limitata fu
modellata in principio, salvo modifiche non essenziali e
veramente caratterizzanti, sulla disciplina delle società per
azioni, così trasferendo all'istituto rigidità ed oneri
eccessivi rispetto al modello economico di riferimento; il
venire meno della possibilità delle azioni al portatore, con
riguardo alle quali la disciplina originaria delle società per
azioni fu costruita.
Si è così determinato nella pratica un massiccio, diffuso
ricorso al modello della società per azioni, ed una parallela
marginalizzazione del modello delle società a responsabilità
limitata, con un distacco tra schema legale e sua
applicazione, fatto palese dalla circostanza che in Germania
sussistono circa 3 mila società per azioni (l'80 per cento
delle quali quotate) e circa un milione di società a
responsabilità limitata.
Si ha dunque, oggi, una dilatazione eccessiva del ricorso
al modello della società per azioni, da un livello minimo, per
fenomeni cui sarebbe coerente in realtà il modello come lo
pensò il legislatore della società a responsabilità limitata,
fino ad un livello massimo, oggi rappresentato dalle società
quotate.
Sotto altro aspetto, la derivazione della disciplina della
società a responsabilità limitata dal modello della società
per azioni ha avuto l'effetto di scoraggiare l'adozione della
forma societaria "di capitale" per le imprese di minore
dimensione, soprattutto nella fase di iniziale sviluppo.
1.1. La riforma vuole dare una risposta ai problemi,
non più eludibili, conseguenti alla inadeguatezza della
disciplina del codice rispetto alla attuale realtà economica
del Paese.
L'economia italiana ha sperimentato negli anni novanta un
tasso di crescita dell'output potenziale inferiore di un
punto percentuale a quello dei principali Paesi
industrializzati. Tale divario non è spiegabile sulla base di
un calo della produttività dei fattori, ma è conseguenza dei
ridotti investimenti: il contributo dell'accumulazione di
capitale alla crescita del prodotto interno lordo (PIL) è
diminuito in Italia più che in altri Paesi europei,
soprattutto nell'ultimo decennio. Questo dato segnala un
problema di scarsa propensione agli investimenti delle imprese
italiane e un'insufficiente reazione ai rischi e alle
opportunità presentati dalla partecipazione all'unione
monetaria.
L'obiettivo di muovere verso una riforma che, nella tutela
dei diritti dei terzi, favorisca l'imprenditorialità, è
confortato dall'analisi economica che mostra come recentemente
il contributo maggiore alla crescita sia soprattutto offerto
da ciò che viene definito "residuo" (total factor
productivity), rispetto all'incremento di capitale e di
lavoro; esso comprende fattori quali la migliore qualità delle
risorse, le nuove modalità organizzative e il progresso
tecnico - in termini generali definiti "innovazione" - che
sono funzione delle capacità imprenditoriali di un sistema.
Tale "residuo" negli anni novanta ha contribuito per l'80 per
cento alla crescita in Germania, per il 60 per cento in
Francia e nel Regno Unito, per l'80 per cento in Italia, per
oltre il 90 per cento negli Stati Uniti. L'importanza di tali
fattori è destinata
certamente ad aumentare in un'era in cui lo sviluppo
tecnologico è più rapido e il progresso sempre più sostenuto
dai settori innovativi (si pensi al ruolo che l'informatica,
le telecomunicazioni e internet hanno avuto sul miracolo
economico americano).
Il supporto all'imprenditorialità e alle capacità
innovative diviene in questo contesto una componente
essenziale delle politiche volte a favorire la crescita di un
sistema: l'attenzione si concentra, quindi, sulle imprese e,
al loro interno, sulla funzione di amministrazione in
particolare.
La piena valorizzazione dell'imprenditorialità non può
prescindere dalla rimozione di tutte quelle incertezze
normative che, aggiungendosi alla normale alea dell'iniziativa
economica, condizionano le scelte imprenditoriali,
accrescendone la complessità e la rischiosità.
Strumenti di tutela e di garanzia sono indispensabili;
essi vanno opportunamente graduati in funzione delle esigenze
effettivamente meritevoli di tutela. Esiste infatti un
trade-off tra "certezza del controllo" e libertà di
iniziativa imprenditoriale da una parte, e garanzia per gli
investitori dall'altra, che va risolto in funzione della
struttura e delle caratteristiche proprie del soggetto.
Da un lato, le imprese che non necessitano di fonti di
finanziamento esterne, con compagine societaria relativamente
ristretta ed eventualmente caratterizzata da legami familiari,
non devono sopportare gli stessi vincoli normativi imposti
alle società quotate in materia di trasparenza, di
organizzazione, di comunicazione, di controllo (ciò a
vantaggio della libertà imprenditoriale e quindi della
capacità innovativa).
Dall'altro lato, perché permanga per le imprese un
vantaggio connesso alla quotazione, legato essenzialmente alla
maggiore disponibilità e al minore costo del capitale, va
mantenuto un differenziale nelle garanzie fornite agli
investitori, poiché queste rappresentano una delle ragioni di
riduzione del costo del finanziamento.
La finalità di offrire alle imprese un contesto normativo
coerente e adeguato diviene in questa situazione essenziale
per ridurre gli spazi di incertezza che influenzano
negativamente le decisioni di investimento.
Del resto, è largamente condivisa l'idea che la capacità
competitiva di un sistema dipende, tra l'altro, dalla
funzionalità delle regole che lo governano.
In questo senso, può certamente parlarsi di competitività
tra ordinamenti giuridici come elemento della competitività
dei sistemi economici in un quadro complessivo di
globalizzazione dell'economia.
Ciò è confermato, del resto, dalle molteplici iniziative
di riforma del diritto societario, assunte di recente o
attualmente allo studio, anche negli altri Paesi maggiormente
industrializzati, per cui la tempestività dell'intervento è
altresì funzionale ad evitare disparità concorrenziali.
La revisione del nostro diritto societario appare pertanto
indispensabile per garantire parità competitiva alle nostre
imprese rispetto a quelle estere: questa condizione,
considerati gli attuali ritmi della produzione e della
innovazione, va assicurata nel più breve tempo possibile.
La riforma si pone anche l'obiettivo di ridurre la
"asimmetria di disciplina" venutasi ancora più ad accentuare -
a seguito del decreto legislativo n. 58 del 1998, recante il
cosiddetto "testo unico della finanza" (TUF) - tra società
emittenti titoli sui mercati regolamentati e società che fanno
ricorso al pubblico risparmio con titoli non quotati, con
conseguente grave rischio di disincentivazione della
quotazione.
L'intersecarsi della disciplina del mercato e di quella
societaria in un disegno normativo volto soprattutto a
modernizzare il mercato si colloca in una prospettiva che
risulta chiara nella stessa indicazione del professor Draghi
secondo cui "le regole che disciplinano il governo delle
società e il mercato mobiliare sono, in certo senso, la
garanzia della qualità dei prodotti che vengono scambiati sul
mercato". Esiste, cioè, una relazione di causa ed effetto tra
qualità delle regole di governo
societario e qualità dei prodotti finanziari che vanno sul
mercato mobiliare.
Non vi è tuttavia da colmare solo questa "asimmetria" che,
aggravando costi e oneri della società con titoli negoziati
sui mercati regolamentati rispetto alle non quotate, ne
disincentiva le quotazioni; vi è altresì l'urgenza di
completare il disegno riformatore del TUF anche sotto il
profilo di "corporate governance" delle stesse quotate,
per la parte non ancora modificata, pervenendo quindi ad una
riforma organica del diritto societario.
Per altro verso vi è l'esigenza di introdurre garanzie,
tutele e controlli anche per le società che, pur raccogliendo
risorse tra il pubblico degli investitori, sfuggono alla
disciplina del TUF, non negoziando titoli su mercati
regolamentati.
1.2. Tenuto conto di tali esigenze complessive, e
ferma l'idea di fondo di una complessiva valorizzazione
dell'autonomia statutaria che consenta all'imprenditore di
adattare il "modello" alle proprie esigenze, la riforma
prevede:
a) un tipo società a responsabilità limitata,
regolato in maniera organica e autonoma (dunque non più
secondo la tecnica del rinvio adottata dal codice del 1942),
modellato sulle esigenze proprie delle imprese a ristretta
compagine sociale (ma non obbligatorio per queste ultime) e
caratterizzato per l'ampio spazio riconosciuto all'autonomia
statutaria, per la libertà delle forme organizzative e per la
centralità della persona del socio;
b) un tipo società per azioni, modellato sulle
esigenze proprie delle imprese a compagine sociale
"potenzialmente" ampia, caratterizzato dalla rilevanza
centrale dell'azione, dalla circolazione della partecipazione
sociale e dalla possibilità di ricorso al capitale di rischio:
si avrebbe dunque un modello di base, affiancato da ipotesi
nelle quali le società saranno soggette a regole
caratterizzate da un maggiore grado di imperatività in
considerazione dell'"effettivo ricorso al mercato dei
capitali".
Conseguentemente dovrebbero optare per la società a
responsabilità limitata le imprese, anche di grandi
dimensioni, con una ristretta compagine sociale e non
intenzionate ad aprire il capitale a soci esterni
investitori.
Le imprese a ristretta compagine sociale dovrebbero
trovare preferibile l'adozione del tipo società a
responsabilità limitata, perché è più semplice, lascia
maggiore spazio all'autonomia statutaria (soprattutto in
materia di articolazione dell'organizzazione interna) ed è
meno oneroso sotto il profilo amministrativo. Le società
"chiuse" costituite nella forma delle società a responsabilità
limitata che maturano l'intenzione di aprirsi al mercato dei
capitali potranno avvantaggiarsi di una discip1ina sulle
trasformazioni semplificata per transitare alla forma società
per azioni.
Dovrebbero, invece, adottare la forma società per azioni
oltre alle imprese aperte al capitale di rischio esterno,
quelle, anche di minori dimensioni, che intendono aprirsi nel
futuro.
Questa configurazione particolarmente elastica della
società per azioni fa evidentemente venire meno l'esigenza di
un tipo societario intermedio, destinato alle imprese che in
prospettiva intendono aprirsi al mercato dei capitali.
Le imprese con compagine sociale ristretta, ma
intenzionate ad aprirsi al mercato dei capitali, non
dovrebbero avere particolari problemi nell'adottare la forma
della società per azioni, posto che essa, una volta attuata la
riforma, dovrebbe godere di una disciplina semplificata
rispetto a quella attuale, salvo che si tratti di società
"aperte". Ciò è vero anche per le imprese minori, in quanto il
modello società per azioni verrebbe a porsi in maniera
neutrale rispetto alle dimensioni dell'impresa (ad esempio
nella fissazione del capitale sociale minimo).
Per ridurre il cosiddetto "scalino normativo" che il TUF
ha determinato tra società quotate e società che fanno
altrimenti ricorso al mercato dei capitali, è stata
configurata una disciplina di base del tipo società per azioni
- disponibile e
adatta, come si è detto, per tutte le imprese - sulla quale
si verrebbero ad innestare norme inderogabili per le società
che fanno ricorso al mercato dei capitali. Queste norme
imporrebbero vincoli normativi di entità intermedia tra la
disciplina ordinaria delle società per azioni e quella delle
società per azioni quotate stabilita dal TUF, al fine di
approntare maggiore tutela per i soci di minoranza (ad esempio
in materia di controlli contabili e sull'amministrazione
ovvero di azione sociale di responsabilità). Dovrebbe così
diminuire il disincentivo alla quotazione su mercati
regolamentati indotto da oneri normativi per le società che
intendono aprirsi al mercato dei capitali, garantendosi, nel
contempo, una protezione delle ragioni dei soci investitori
più penetrante rispetto al regime ordinario delle società per
azioni.
Per quanto riguarda il finanziamento delle società
attraverso l'emissione di titoli di debito, che può costituire
una prima forma di apertura al mercato dei capitali, anche in
vista di ammettere nuovi soci al capitale di rischio, la
riforma prevede:
che vengano rimossi o attenuati i vincoli attualmente
esistenti per l'emissione di obbligazioni da parte della
società per azioni (ad esempio abbattendo le attuali
restrizioni quantitative, semplificando le procedure,
ammettendo la possibilità che vengano emessi strumenti non
partecipativi di diversa natura);
che le società a responsabilità limitata possano
emettere titoli di debito, purché entro determinati limiti
previsti dalla legge, tra i quali necessariamente dovrà
rientrare il divieto di appello diretto al pubblico risparmio.
L'apertura delle società a responsabilità limitata al mercato
dei capitali dovrà in questa prospettiva avvenire per mezzo di
investitori professionali qualificati.
Per le cooperative, la riforma è diretta a favorire la
nascita e lo sviluppo anche di queste imprese e la loro
imprenditorialità, garantendo tuttavia la specificità del
perseguimento dello scopo mutualistico che ne caratterizza e
giustifica il "tipo".
In materia penale, la riforma, oltre a conferire
omogeneità alla normativa vigente, si propone da un lato
l'obiettivo di ottenere una riduzione del numero e dell'ambito
della fattispecie incriminatrici e, dall'altro, l'introduzione
di fattispecie ed istituti nuovi per colmare lacune da tempo
lamentate.
Sul piano della tutela giurisdizionale, la riforma vuole
garantire un maggiore grado di prevedibilità dei tempi e dei
risultati dell'intervento del giudice. Al conseguimento di
tali obiettivi sono dirette, da un lato, la configurazione di
un giudice professionalmente attrezzato a comprendere sia i
presupposti di fatto sia le conseguenze dell'intervento che
gli viene richiesto, dall'altro lato, la previsione di
strumenti processuali coerenti con le esigenze di certezza e
di celerità di questo intervento, tali per cui esso valga a
migliorare l'affidabilità dei rapporti commerciali senza
ostacolarne la fluidità.
I princìpi direttivi si articolano, perciò, su due piani:
quello ordinamentale, per dare vita ad un organo
giurisdizionale dotato di professionalità adeguata, e quello
processuale, in cui si ipotizza l'introduzione di un rito più
consono agli obiettivi sopra indicati.
Interventi tesi a favorire forme di risoluzione
conciliativa o arbitrale delle controversie sono opportuni in
questa materia; tuttavia, essi non possono dare vita ad un
circuito del tutto separato ed alternativo a quello della
giurisdizione pubblica, con la quale, invece, sono destinati
ad integrarsi. La loro previsione, lungi dal rendere superfluo
lo sforzo di adeguamento della risposta giudiziaria ai
problemi dell'economia e del mercato, deve quindi con questa
armonicamente coordinarsi.
2. (Princìpi generali).
L'articolo 2 dello schema, recante "Princìpi generali
in materia di società di capitali", ribadisce la concezione
della società come forma di esercizio collettivo dell'impresa,
accentuando anzi il riferimento
all'impresa come l'interesse primario da tutelare nella
riforma, il cui obiettivo prioritario viene appunto stabilito
<comma 1, lettera a)> nel: "favorire la nascita, la
crescita e la competitività delle imprese". Questa centralità
del fenomeno dell'impresa è costantemente ribadita nelle
lettere b), c), e), f), del comma 1 dell'articolo 2.
Nella scelta dei tipi di società di capitale <comma 1,
lettera f)> si è mantenuto, anche nella tradizionale
denominazione, la previsione di due modelli base: la società a
responsabilità limitata e la società per azioni. Ferma
peraltro una differenza fra i due modelli fondata sulla
necessità di un diverso capitale minimo, non sono stati
assunti parametri rigidi di capitale o di numero di soci per
l'adozione, o la conservazione, dell'uno o dell'altro modello,
preferendo, nel rispetto dei princìpi di libertà di iniziativa
economica e di libera scelta delle forme organizzative
dell'impresa, offrire modelli che, potenzialmente aderenti
alla grande varietà del fenomeno imprenditoriale e dei suoi
vari gradi di sviluppo, facciano perno sulla diversità di
composizione sociale e di modalità di finanziamento
dell'impresa. Tale impostazione si è tradotta nell'individuare
il dato di base caratteristico della società a responsabilità
limitata nella rilevanza centrale attribuita "al socio e ai
rapporti contrattuali tra soci" <articolo 3, comma 1, lettera
c)>, della società per azioni nella "rilevanza centrale
dell'azione" e nella sua possibilità di circolazione (articolo
4, comma 1).
Costituisce un principio generale profondamente innovativo
della disciplina quello stabilito nelle lettere c) e
d) del comma 1 dell'articolo 2, che impongono al
legislatore delegato una semplificazione della disciplina
delle società, al fine di eliminare costi e rigidità
strutturali ed operative non adeguati alla moderna realtà
dell'attività economica, al fine soprattutto di rendere
competitiva, anche sul piano internazionale, l'operatività
della società. Strettamente connesso, anzi complementare, al
principio di semplificazione è il principio di ampliamento
degli ambiti della autonomia statutaria, al fine di consentire
che la forma societaria sia adeguata alla esigenza della
impresa, ferma restando la disciplina imperativa volta alla
tutela di fondamentali interessi dei soci e dei terzi.
Anche per le spa, l'autonomia statutaria potrà snellire
l'attuale modello che, previsto nel 1942 per grandi imprese,
notevolmente capitalizzate e con partecipazione potenzialmente
diffusa (si pensi alle azioni al portatore), presenta rigidità
non necessarie quando l'adozione di tale forma avvenga per
fenomeni che per dimensione, partecipazione e programma
economico-finanziario non sempre giustificano l'impianto
normativo attuale, per mancanza degli interessi da
tutelare.
Costituisce una ulteriore manifestazione della centralità
che nella riforma ha il fenomeno imprenditoriale con le sue
esigenze, il principio che impone al legislatore delegato di
ridisegnare i compiti e le responsabilità degli organi
sociali, distinguendo i poteri e le responsabilità nella
gestione dell'impresa dalla necessaria regolamentazione della
dialettica tra i soci.
L'articolo 2, comma 1, lettera g), impone al
legislatore delegato di rivedere il complesso fenomeno della
partecipazione della società di capitali ad altri fenomeni
associativi.
La formula adottata nella delega consente al legislatore
delegato di risolvere problemi, sui quali si è creato un forte
contrasto dottrinale e giurisprudenziale, attinenti
soprattutto alla possibilità delle società per azioni di
partecipare a società di persone.
In tale contesto il legislatore delegato potrebbe anche
affrontare il problema della presenza, e partecipazione, del
modello società di capitali a forme organizzative non
lucrative, confermando l'indirizzo, già presente, a rendere lo
schema societario "modello" non necessariamente indirizzato a
scopo di lucro.
La lettera h) del medesimo comma 1 prevede
l'intervento del legislatore delegato sulla complessa tematica
dei gruppi, per i quali, anziché indicare un'articolata
disciplina, si è preferito dettare princìpi di trasparenza e
di contemperamento degli interessi coinvolti.
3. (Società a responsabilità limitata).
La riforma della disciplina della società a responsabilità
limitata assume un particolare rilievo nel disegno di legge
delega.
Anzitutto sul piano formale, in quanto la riforma si muove
lungo tre linee di demarcazione: una prima, relativa al
confine tra società azionarie quotate e non quotate; una
seconda, relativa al confine tra società a responsabilità
limitata e società di persone; una terza, relativa alla
distinzione, nell'ambito delle società di capitali non
quotate, tra società per azioni e società a responsabilità
limitata. Ne segue che il modello della società a
responsabilità limitata assume un ruolo centrale, venendosi a
collocare al confine tra società di persone e società per
azioni non quotate.
In secondo luogo sul piano sostanziale, in quanto il
modello della società a responsabilità limitata appare il più
congeniale all'esercizio e allo sviluppo delle imprese piccole
e medie. Al riguardo, va sottolineato che la realtà
economico-produttiva del nostro Paese è caratterizzata dalla
prevalenza in termini quantitativi delle piccole imprese (nel
1998, secondo i dati riportati nel Documento di programmazione
economico-finanziaria (DPEF) 2000-2003, il 98 per cento delle
imprese nazionali contava meno di 10 addetti) e da una
maggiore percentuale di imprese piccole e medie. Per elevare
la capacita competitiva del nostro sistema economico, appare
opportuna la previsione di una disciplina societaria
particolarmente agile che, per le sue caratteristiche di
flessibilità e di ampliamento degli spazi di autonomia
privata, faciliti la costituzione e lo sviluppo di imprese
collettive caratterizzate dalla presenza di soci-imprenditori,
ovvero di soggetti che investono capitali propri in una
società con l'intento di gestire personalmente l'impresa o
comunque di influire direttamente sulla sua gestione.
Per quanto il modello della società a responsabilità
limitata risulti più congeniale alle imprese piccole e medie,
non si impone né si riserva a queste ultime il ricorso a tale
modello; anzi, l'intento di fondo della riforma è quello di
porre a disposizione degli imprenditori diversi modelli
normativi, tra i quali gli stessi possano liberamente
scegliere a seconda delle loro esigenze.
Si deve quindi continuare ad ammettere per le imprese
piccole e medie il ricorso anche a società azionarie, specie
se si ha interesse ad una più agevole possibilità di
circolazione delle partecipazioni sociali e/o di emissione di
strumenti di debito.
Sul piano sistematico l'adozione di una disciplina
legislativa che assegni alle società a responsabilità limitata
uno spazio di autonomia organizzativa analogo a quello delle
società di persone potrà indurre ad un ricorso meno diffuso ai
modelli normativi corrispondenti a società di persone e ad un
maggiore ricorso ad un modello di società cui viene mantenuto
il riconoscimento del beneficio della responsabilità limitata.
Tale effetto, nella misura in cui si assicura nella disciplina
legislativa una adeguata tutela dell'affidamento e degli
interessi dei terzi, deve essere valutato con favore e trova
conferma nella diffusione di modelli normativi analoghi in
altri Paesi dell'Unione europea (Francia, e soprattutto
Germania).
3.1. La riforma della disciplina della società a
responsabilità limitata è prevista all'articolo 3, suddiviso
in due commi: il comma 1, nel quale vengono indicati i
princìpi generali; il comma 2, nel quale vengono previsti i
criteri direttivi che devono essere seguiti dal legislatore
delegato nel riformare aspetti particolari della disciplina
societaria.
Per quanto riguarda i princìpi generali, è anzitutto
confermata la previsione <già posta nell'articolo 2, comma 1,
lettera f)> della emanazione di un autonomo e organico
complesso di norme, modellato sulle esigenze proprie delle
imprese a ristretta compagine sociale. Ciò peraltro non
significa che il legislatore delegato debba necessariamente
eliminare le norme di rinvio ad altri modelli societari, ma
soltanto che la tecnica del rinvio dovrebbe avere
un'applicazione limitata.
Non si è ritenuto di seguire le proposte volte a fissare
in sede di legge delega un
limite massimo dimensionale (numero dei soci e/o dei
dipendenti; entità del capitale, o dell'attivo patrimoniale, o
del fatturato). La rigidità dei criteri limitativi (alcuni di
essi peraltro suscettibili di elusione) è apparsa in contrasto
con il riconoscimento della libertà di scelta del modello
societario, che potrebbe anche essere preferito dagli
interessati per ragioni diverse da quelle dimensionali; si è
pertanto ritenuta preferibile la previsione di una disciplina
di riforma congeniale alle esigenze di imprese a ristretta
base sociale, ma ad esse non esclusiva.
I princìpi generali sono completati dalla previsione di
un'ampia autonomia statutaria, e quindi di un'ampia libertà di
forme organizzative, nel rispetto del principio di certezza
nei rapporti con i terzi; viene altresì sottolineata la
rilevanza centrale della persona del socio e dei rapporti
contrattuali tra i soci: si tratta di princìpi generali che
possono essere tradotti nel concetto di ampia libertà di
autorganizzazione, di flessibilità e di semplificazione degli
assetti organizzativi della società.
La libertà di autorganizzazione trova soprattutto
riscontro nel riconoscimento, reso esplicito nel comma 2, di
un'ampia autonomia statutaria riguardo alle strutture
organizzative ed ai procedimenti decisionali. Libertà di
autorganizzazione ampia, ma non illimitata, giacché rimane di
competenza del legislatore delegato determinare la misura
minima del capitale sociale in coerenza con la funzione
economica del modello.
La libertà di autorganizzazione, rispetto al sistema
vigente, è ampliata anche quando può avere riflessi nei
confronti dei terzi, purché non pregiudichi la certezza dei
rapporti:
con riferimento ai processi decisionali, può anche
essere soppressa la previsione dell'organo assembleare e/o
dell'organo amministrativo (essa potrebbe essere mantenuta a
livello normativo, con carattere dispositivo e/o suppletivo);
la gestione dell'impresa sarebbe in questo caso affidata agli
accordi dei soci, assicurando comunque certezza sulla
rappresentanza legale e sui poteri dei rappresentanti legali
della società <articolo 3, comma 2, lettera e)>;
con riferimento al procedimento di costituzione è
prevista la eliminazione del giudizio di omologazione e in
questa prospettiva andrà precisata la modalità del controllo
notarile in relazione alla modifica dell'atto costitutivo. Il
conferimento della personalità giuridica, con il conseguente
beneficio della responsabilità limitata, verrà quindi
effettuato fuori del controllo di un organo dello Stato. Deve
intendersi applicabile anche alla società a responsabilità
limitata l'esigenza <posta esplicitamente per le società per
azioni: articolo 4, comma 3, lettera b)> di limitare la
rilevanza dei vizi della fase costitutiva;
con riferimento alla disciplina dei conferimenti: da un
lato si prevede l'acquisizione di ogni elemento utile per il
proficuo svolgimento dell'impresa sociale, a condizione che
sia garantita l'effettiva formazione del capitale sociale;
dall'altro lato, vi è la delega a semplificare le procedure di
valutazione dei conferimenti in natura nel rispetto del
principio di certezza del valore a tutela dei terzi;
con riferimento alla contabilità sociale, è stato
demandato al legislatore di stabilire i limiti oltre i quali è
obbligatorio il controllo legale dei conti: controllo che può
essere affidato a un collegio sindacale, e/o ad uno o più
revisori contabili esterni.
Il principio dell'autorganizzazione riguarda anche i
rapporti contrattuali tra soci, nel senso che è consentito
loro regolare l'incidenza delle rispettive partecipazioni
sociali, sia distinguendo tra apporti di capitale ed apporti
funzionalmente utili all'esercizio dell'impresa, quantunque
non idonei alla formazione del capitale (ad esempio, attività
professionale svolta nell'interesse della società) sia non
assegnando portata inderogabile alla regola per la quale il
valore delle partecipazioni sociali deve corrispondere al
valore dei conferimenti, ai fini patrimoniali e/o ai fini
amministrativi.
All'autonomia statutaria viene anche rimessa la disciplina
del trasferimento delle partecipazioni sociali, e quindi dei
suoi eventuali limiti: disciplina convenzionale necessaria,
specie per il trasferimento di partecipazioni corrispondenti
all'esercizio di attività professionali.
All'autonomia statutaria viene affidata pure
l'individuazione di strumenti di tutela degli interessi dei
soci, con particolare riferimento alle azioni di
responsabilità, nonché la disciplina del recesso. Alla base di
tale impostazione è l'idea che nelle società a responsabilità
limitata non vi siano le medesime esigenze di tutela delle
minoranze che si pongono nelle società per azioni: trattandosi
infatti di società tendenzialmente a ristretta compagine
sociale, e solitamente costituite da soci imprenditori, si
ritiene che competa agli stessi soci predisporre i mezzi di
tutela ritenuti più opportuni.
Il legislatore delegato detterà una disciplina che regoli,
quando non viene convenuto diversamente nell'atto costitutivo,
l'amministrazione della società e le modifiche del contratto
sociale. In questa prospettiva il legislatore delegato
potrebbe anche prevedere, con norma dispositiva,
l'applicazione della disciplina della società collettiva, per
cui anche la gestione della società a responsabilità limitata
sarebbe affidata disgiuntamente ai soci e le modifiche
dell'atto costitutivo potrebbero avvenire solo all'unanimità
<salvo per quanto riguarda il trasferimento delle quote, dove
anzi è previsto un ampliamento dell'autonomia statutaria:
comma 2, lettera f)>.
Qualora il legislatore delegato adotti tale soluzione,
verrebbe a porsi in termini diversi il problema
dell'autotutela dei soci di minoranza: poiché infatti le
modifiche del contratto sociale potrebbero avvenire a
maggioranza solo se così disposto nello stesso contratto, ogni
socio - in sede di stipula, ovvero di modifica del contratto -
potrebbe cautelarsi mediante l'introduzione di apposite
clausole di salvaguardia.
Tutela dell'integrità del capitale e degli interessi dei
creditori della società costituiscono in generale un limite
imperativo al principio della libertà di autorganizzazione:
limite che deve operare sia nella fase della costituzione
della società, per quanto riguarda la formazione del capitale
sociale, ed in particolare della valutazione dei conferimenti
in natura sia nella fase dello svolgimento dell'attività della
società, nella quale deve essere assicurata la conservazione
del capitale; sia nella fase della liquidazione della società,
dove si deve tenere ferma la regola inderogabile che il
capitale può essere restituito ai soci solo dopo il
soddisfacimento integrale dei creditori della società.
Particolare rilievo infine, anche per la caratterizzazione
della società a responsabilità limitata, assume la previsione
di una disciplina legale che ponga condizioni e limiti per
l'emissione e il collocamento di titoli di debito, anche
cartolarizzati, tipici o atipici; è, invece, posto
espressamente il divieto di appello diretto al pubblico
risparmio, con esclusione di ogni operazione di sollecitazione
all'investimento nel capitale di rischio.
4. (Società per azioni).
Coerentemente con la scelta di fondo intesa a selezionare
modelli di disciplina da porre a disposizione degli operatori
economici, per le soluzioni organizzative da essi ritenute più
adeguate, l'articolo 4 individua una serie di princìpi e
criteri direttivi destinati ad incidere profondamente
sull'attuale regolamentazione della società per azioni.
In tale senso, anche alla luce dell'esperienza di altri
ordinamenti europei vicini alla nostra tradizione giuridica,
si è ritenuto preferibile evitare la rigida distinzione tra
società per azioni "chiuse" o "aperte" al mercato. Tuttavia,
al fine di assicurare comunque il maggiore livello di cautela
e di tutela necessario per le ipotesi di apertura al mercato,
in cui gli ordinamenti che conoscono questa bipartizione
individuano la "società aperta", si sono introdotte specifiche
previsioni normative dettate, per l'appunto, per le società i
cui titoli siano negoziati su mercati regolamentati o siano
comunque diffusi tra il pubblico.
La scelta a favore del modello unitario è dettata,
soprattutto, dall'intento di evitare ostacoli non necessari
per il passaggio dall'una all'altra ipotesi ed evitare quindi
disincentivi ed ingiustificati aggravi di costi per la scelta
di rivolgersi al mercato dei capitali.
Da ciò la precisazione, fornita dal comma 1 dell'articolo
4, che la disciplina della società per azioni dovrà
imperniarsi da un lato sulla previsione di un "modello di base
unitario" e dall'altro su "ulteriori" regole specificamente
dettate per l'ipotesi di "effettivo" ricorso a tale
mercato.
Per il primo aspetto si sottolinea, infatti, l'esigenza di
una normativa coerente con una struttura organizzativa
imprenditoriale "potenzialmente" utilizzabile per il
reperimento sul mercato dei necessari mezzi finanziari. Essa
deve tenere conto dell'eventualità di una compagine sociale
ampia, individuando quindi soluzioni procedimentali a tale
fine adeguate, e deve così prevedere una disciplina la quale
non tanto assegni rilievo alla posizione personale dei singoli
soci, quanto alla partecipazione azionaria nella sua
oggettività. Si offre così al legislatore delegato anche la
possibilità di intervenire sui profili di disciplina della
società per azioni che, per i limiti della delega, non hanno
potuto essere affrontati dal TUF, colmando in qualche modo una
evidente lacuna soprattutto con riguardo alla disciplina
dell'amministrazione e dell'assemblea.
Connessa a quest'ultimo tema è la previsione dell'articolo
4, comma 6, lettera b), concernente le modalità tecniche
di tale negoziabilità; tale norma è volta ad operare un
coordinamento della legislazione speciale che a decorrere dal
1942 è intervenuta sul punto ed ha reso sostanzialmente
obsoleta la disciplina del codice civile in materia di
emissione e di circolazione dei titoli azionari.
Per il secondo aspetto, si è ritenuto che, in ragione
della diversità tra l'ipotesi in cui si ricorre effettivamente
al mercato dei capitali e quella nella quale tale possibilità
rimane allo stato potenziale, debba essere individuato un
grado maggiore o minore di imperatività della disciplina e
quindi lo spazio di operatività consentito all'autonomia
statutaria. Tale scelta corrisponde a tendenze rilevabili sul
piano internazionale e si spiega con le specifiche esigenze di
tutela, che non possono rimanere estranee alla disciplina
dell'organizzazione societaria, imposte dalla presenza sul
mercato dei titoli emessi dalla società. E' diffusa, del
resto, la constatazione che la tutela del risparmiatore solo
astrattamente può distinguersi dalla sua tutela come socio,
mentre, d'altro lato, storicamente proprio in questo specifico
contesto si sono avute le prime manifestazioni normative
espressamente intese a tutelare i "consumatori".
La prospettiva è nel senso che, nel mercato dei capitali,
la tutela del singolo risparmiatore non può in generale essere
affidata alle sole spontanee forze del mercato ed alla sua
efficienza, ma richiede interventi normativi in grado di
bilanciare sue possibili imperfezioni.
4.1. Questa scelta di fondo spiega perché si sia
ritenuto da un lato di proporre un generale ampliamento
dell'autonomia statutaria, dall'altro di richiedere per le
società che fanno effettivamente ricorso al mercato dei
capitali norme inderogabili riguardanti aspetti in cui più
specificamente può porsi un'esigenza di tutela del
socio-risparmiatore.
Infatti, a fronte di un assetto normativo nel quale il
modello di base unitario per la disciplina della società per
azioni si caratterizza per una mera potenzialità del ricorso
al mercato dei capitali, vengono a cessare le tradizionali
ragioni volte a rigidamente comprimere gli spazi per
l'autonomia statutaria: fin quando non si pongono concrete
esigenze di tutela del mercato e dei risparmiatori. Dunque,
non vi sono motivi di principio che impediscano di valorizzare
le scelte contrattuali dei privati; in un sistema di libera
iniziativa economica privata sembra coerente ritenere che
esse, nei limiti in cui non pregiudicano gli interessi dei
terzi e dei creditori, rappresentino il migliore veicolo per
promuovere l'efficienza dell'impresa sociale individuato
dall'articolo 4, comma 2, lettera b).
Quando, invece, vi è un effettivo ricorso al mercato dei
capitali, gli spazi per l'autonomia statutaria si riducono; si
è così scelto di rafforzare la tutela dei diversi interessi
che ruotano intorno ad una società che fa ricorso al mercato
dei capitali e a tale fine l'articolo 4, comma 2, lettera
a), individua tra gli altri alcuni istituti ove si pone
l'esigenza di siffatto intervento e quindi di riduzione di
quegli spazi: essi fondamentalmente riprendono gli aspetti più
caratterizzanti sui quali il TUF ha operato un rafforzamento
degli strumenti di controllo interno nella società a favore
dei soci.
Si segnala inoltre, al comma 2, lettera b), il
deciso accenno all'esigenza di garantire che la gestione
dell'impresa sociale si muova in modo da contemperare
l'efficienza dell'attività di direzione con la correttezza dei
momenti rilevanti dell'attività gestoria e quindi anche la
possibilità di conoscere e di valutare questi momenti.
4.2. Adottata una prospettiva per cui il modello
base di disciplina della società per azioni non presuppone di
per sé un effettivo ricorso al mercato dei capitali, diviene
anche possibile soddisfare l'esigenza vivamente sentita dagli
operatori di una semplificazione del procedimento di
costituzione.
Riaffermata, infatti, la necessità del rispetto del
principio di certezza e di tutela dei terzi <articolo 4, comma
3, lettera a)>, risultano in primo luogo possibile una
precisazione e una semplificazione del procedimento di
omologazione, sia per quanto concerne la fase costitutiva
della società, sia con riferimento a quella successiva di
modificazione dell'atto costitutivo. Non solo si è ritenuto
necessario un intervento volto a circoscrivere l'ambito di
tale giudizio, ma si è preso atto che nella prospettiva
generale del progetto possono considerarsi in buona parte
superate alcune delle ragioni storiche all'origine della
previsione dell'omologazione. Questa, sostituendo precedenti
sistemi di controllo di tipo politico e poi amministrativo, si
spiegava soprattutto per un'esigenza di tutela del mercato
finanziario ed era in particolare volta ad impedire che
operassero strutture imprenditoriali la cui affidabilità non
fosse stata verificata. Ne consegue che appare ora coerente,
in una riforma della società per azioni il cui modello di base
prescinde dall'effettivo ricorso a tale mercato ed in un
sistema ove si prevedono ulteriori e più specifici controlli
quando ad esso si vuole accedere, che il giudizio di
omologazione veda circoscritto il proprio ambito agli aspetti
in cui più specificamente si pongono esigenze di tutela dei
terzi.
In questo senso un profilo di particolare rilievo può
essere quello, individuato dall'articolo 4, comma 5,
concernente la disciplina dei conferimenti e della loro
valutazione. In proposito si individuano criteri i quali, nel
rispetto ovviamente di quanto prescritto dalla seconda
direttiva comunitaria in materia di società per azioni,
tendono a ricercare un migliore equilibrio tra le due
contrapposte esigenze che tradizionalmente si pongono al
riguardo: da un lato la funzionalità dei conferimenti per lo
svolgimento dell'impresa sociale, dall'altro la loro idoneità
a consentire un'effettiva formazione del capitale sociale.
Tale equilibrio è assicurato richiedendo a tutela dei
terzi la certezza del valore dei conferimenti, ma nel contempo
rendendo esplicita la scelta normativa, già presente nella
ricordata direttiva comunitaria, per cui oggetto di
conferimento può essere ogni elemento utile per il proficuo
svolgimento dell'impresa sociale: ciò alla sola condizione che
sia garantita l'effettiva formazione del capitale sociale.
In tale modo il criterio di individuazione del possibile
oggetto del conferimento non è più quello, statico, della
natura del bene o del diritto conferito, bensì quello,
dinamico, della sua funzionalità per l'attività della
società.
Merita anche di essere segnalato che l'articolo 4, comma
5, lettera a), distingue in tema di disciplina dei
conferimenti tra ciò che interessa per la tutela dei terzi e
ciò che, riguardando esclusivamente i rapporti tra i soci, può
trovare soluzione nelle loro scelte contrattuali. In questo
senso l'esigenza
di un'effettiva formazione del capitale sociale non è più
riferita analiticamente al singolo conferimento, ma viene
valutata globalmente: sicché si apre la possibilità, da tempo
auspicata nella pratica, che tale effettività risulti
assicurata con riferimento alla cifra totale del capitale
sociale e che la ripartizione tra i soci delle azioni tenga
conto anche di apporti utilizzabili per l'attività sociale pur
se, non possedendo i requisiti allo scopo necessari, non sono
imputabili di per sé a capitale. Si distingue in sostanza tra
la formazione del capitale in quanto tale e la definizione dei
criteri di assegnazione ai soci delle sue frazioni
rappresentate dalle partecipazioni azionarie.
4.3. Viene di nuovo incontro a significative
esigenze della pratica, e corrisponde ad una prospettiva di
ampliamento dell'autonomia statutaria, la soluzione indicata
nell'articolo 4, comma 4, lettera b). Essa prevede
infatti, in termini di rilevante novità, che la società possa
destinare parte del proprio patrimonio a specifici affari e
che in tale caso si possa realizzare una separazione
patrimoniale in grado di condurre ad un regime di autonomia
sul piano della responsabilità.
Si tratta di una soluzione che non può ormai considerarsi
estranea alle prospettive generali dell'ordinamento giuridico:
il quale sempre più conosce ipotesi, specie in settori
rilevanti per il mercato finanziario, di patrimoni separati.
Essa persegue un duplice obiettivo: rendere superflui
accorgimenti costosi e poco trasparenti che già vengono usati
nella pratica, come la costituzione di società ad hoc
anche per un singolo affare; rendere possibile una più
concreta tutela per coloro che intervengono nel finanziamento
dell'affare, i quali vengono resi consapevoli delle sue
caratteristiche e si trovano in una situazione ove il loro
rischio è circoscritto agli esiti economici dell'affare
stesso. Del resto un modello non solo di patrimonio separato,
ma anche di pluralità di patrimoni separati fra loro e
rispetto al patrimonio della società, si ha già nella legge 30
aprile 1999, n. 130 (recante disposizioni sulla
cartolarizzazione dei crediti), proprio in funzione della
esigenza di non moltiplicare, con aumento dei tempi e dei
costi, organismi societari per la mera funzione della
separatezza dei patrimoni. Sarà compito del legislatore
delegato dettare le opportune norme a garanzia degli interessi
coinvolti.
Consequenziale a questa soluzione è poi l'esplicita
ammissione dell'eventualità che siano emessi strumenti
finanziari di partecipazione all'affare cui è stata dedicata
la singola massa patrimoniale.
Naturalmente la soluzione proposta richiede una serie di
garanzie che sarà compito del legislatore delegato definire
tecnicamente. Esse dovranno soprattutto riguardare l'esigenza
che la separatezza patrimoniale trovi corrispondenza nelle
concrete modalità di gestione dell'affare, non sia quindi in
fatto contraddetta da una commistione di patrimoni. Sarà
pertanto necessario prevedere modalità di amministrazione
idonee e principalmente regole contabili in grado di
consentire in ogni momento una distinzione degli elementi
patrimoniali destinati al singolo affare rispetto al globale
patrimonio della società. Il legislatore delegato dovrà anche
tenere eventualmente presente la circostanza che la nozione di
patrimonio separato è contigua all'istituto del trust,
il cui riconoscimento nel nostro ordinamento è avvenuto con la
ratifica della Convenzione de L'Aja del 1985 e sul quale sono
già all'esame del Parlamento alcuni progetti di legge volti ad
introdurre una disciplina nazionale.
4.4. Ad una prospettiva di ampliamento
dell'autonomia statutaria si ispira il progetto di riforma
anche nell'articolo 4, comma 6, dedicato alla disciplina delle
azioni e delle obbligazioni. Qui si è ravvisata l'esigenza di
superare le attuali rigidità del sistema e di consentire alle
società per azioni, come già avviene in altri sistemi
giuridici, l'utilizzo di una più estesa gamma di prodotti
finanziari utilizzabili per la raccolta di capitale di credito
e di rischio.
In questo senso la lettera c) del comma 6 prevede
un'ampia possibilità di emissione di strumenti finanziari
partecipativi
e non partecipativi e consente una vasta scelta in merito
alla modulazione dei diritti patrimoniali e di quelli
amministrativi ad essi connessi: ciò, ovviamente, fatte salve
le riserve di attività previste dalle leggi vigenti.
Con riferimento specifico al tema delle obbligazioni, la
lettera d) dello stesso comma prevede una rilevante
riforma del sistema. Essa in particolare consente al
legislatore delegato di attenuare o persino rimuovere limiti
quantitativi all'emissione di obbligazioni che attualmente
sembrano ormai aver perso un reale significato economico; e
ammette, in considerazione del significato soprattutto
finanziario dell'operazione, una scelta dell'autonomia
statutaria volta ad attribuire la competenza deliberativa in
merito anche ad un organo diverso da quello tradizionalmente
rappresentato dall'assemblea.
4.5. Per quanto concerne l'assemblea, l'articolo 4,
comma 7, persegue soprattutto obiettivi di semplificazione di
una disciplina destinata a costituire il modello unitario di
base.
Si prevede così, sia per quanto riguarda i modi di
svolgimento del procedimento assembleare, sia per quanto
riguarda i quorum deliberativi ed il numero delle
convocazioni, la possibilità che l'autonomia statutaria
individui le soluzioni più adeguate alla concreta situazione,
al fine di raggiungere un migliore equilibrio tra l'esigenza
di facilitare le deliberazioni e quella di fornire una
sufficiente tutela agli azionisti.
Rilevante è inoltre la riforma che si propone per il
trattamento dei vizi delle deliberazioni nella lettera
b) del comma 7. Essa trae origine dalla constatazione
che il sistema vigente, in quanto imperniato sulla possibilità
di provocare la dichiarazione di nullità o l'annullamento
della deliberazione, per un verso non sempre è in grado di
fornire un'adeguata tutela al socio che si ritenga leso
(offrendo un rimedio a carattere solo negativo e quindi
inidoneo a consentire una effettiva realizzazione
dell'interesse perseguito), per un altro verso può
pregiudicare rilevanti interessi come quelli che attengono
alla funzionalità e certezza dell'attività sociale.
Il progetto, al fine di definire un migliore equilibrio
tra siffatti interessi, si orienta in una duplice concorrente
direzione. Da un lato apre la strada per l'adozione di
strumenti di tutela diversi dalla invalidità della
deliberazione: il che soprattutto potrebbe avvenire prevedendo
la possibilità (ora discussa e discutibile nel sistema
vigente, ma indubbiamente coerente con un'accentuazione del
significato contrattuale della società) di rimedi di tipo
risarcitorio (con l'ulteriore vantaggio sia di poter
ripristinare in termini economici l'interesse leso sia di
impedire che l'eventuale pregiudizio di interessi anche minimi
possa, a seguito di una dichiarazione di invalidità,
travolgere un'intera operazione e con essa legittimi interessi
anche di rilevantissima portata). Da un altro lato, prevede,
analogamente ad altri ordinamenti europei, una migliore
precisazione e delimitazione delle ipotesi di invalidità, dei
soggetti legittimati alla impugnativa e soprattutto dei
termini per la sua proposizione, secondo uno schema già
conosciuto dal nostro ordinamento (vedi in particolare
l'articolo 2504-quater del codice civile).
Significativa è anche la previsione della possibilità di
modifiche ed integrazioni delle deliberazioni. Ciò consente di
superare gli incerti confini applicativi, comunque
notevolmente ed eccessivamente ristretti dell'attuale quarto
comma dell'articolo 2377 del codice civile e dà più ampio
spazio a possibilità di "regolarizzazione" delle deliberazioni
viziate: il che, come avviene in altri ordinamenti europei,
potrebbe pure essere previsto a seguito di apposita
indicazione del giudice dell'impugnativa.
4.6. Per quanto concerne la disciplina dei patti
parasociali, la lettera c) del comma 7 dell'articolo 4
del progetto di riforma prevede una fondamentale distinzione
basata sulla presenza oppure no di una diffusione dei titoli
fra il pubblico. Si è ritenuto infatti che, in assenza di
diffusione, gli interessi rilevanti siano principalmente
quelli interni al gruppo dei soci
e che quindi possa essere sufficiente una disciplina che
limiti la durata temporale del vincolo obbligatorio derivante
da tali patti; che, invece, quando le partecipazioni siano
negoziate presso il pubblico, si ponga anche un'esigenza di
trasparenza e di conoscibilità da parte degli investitori.
A questo proposito il progetto si preoccupa inoltre di
precisare, al fine di impedire facili elusioni della norma,
che la disciplina dovrà essere applicabile ai patti
parasociali concernenti non solo le società per azioni, ma
anche le società di altro tipo che le controllano.
4.7. Per quanto concerne la disciplina
dell'amministrazione e del controllo, il progetto di riforma,
in coerenza con i princìpi generali cui si ispira, persegue
l'obiettivo di assicurare un largo margine di flessibilità per
la organizzazione della funzione gestoria offrendo ampi spazi
all'autonomia statutaria, nel rispetto, peraltro, di alcuni
irrinunziabili presìdi a tutela degli interessi dei terzi
creditori e delle aspettative del pubblico degli
investitori.
Si ribadisce altresì che di regola spettano all'organo
amministrativo la esclusiva competenza e responsabilità per le
scelte gestorie. In tale prospettiva dovranno essere con
precisione definite le competenze.
In ordine al ruolo affidato all'autonomia statutaria,
occorre sottolineare come in talune ipotesi il progetto
prevede la necessità che gli statuti affrontino alcuni
problemi, demandandone agli stessi la soluzione. E' questo, ad
esempio, il caso del comma 8, lettera a), prima parte,
concernente gli aspetti relativi alla articolazione interna
dell'organo amministrativo, al suo funzionamento, alla
circolazione di informazioni sia tra amministratori sia tra
amministratori e soggetti investiti della funzione di
controllo.
Altre volte il progetto indica un preciso principio di
disciplina suscettibile di un ampio spettro di applicazioni
lasciate alla autonomia statutaria. E' questo il caso
dell'ultima parte della medesima lettera a) del comma 8,
laddove si afferma non solo il principio della inammissibilità
di generiche e illimitate deleghe a singoli amministratori o a
comitati esecutivi, ma anche quello per cui spetta al
legislatore delegato individuare limiti alle deleghe
invalicabili da parte dell'autonomia statutaria. A
quest'ultima spetterà stabilire eventuali più stringenti
limiti, così come eventuali modalità di esercizio delle
deleghe. Secondo il principio generale che ispira la riforma i
limiti legislativi al rilascio di deleghe non dovranno
mortificare la necessaria flessibilità della organizzazione
dell'impresa, le esigenze di scelte tempestive, le specificità
che varie tipologie di imprese presentano.
Parimenti, il progetto <comma 8, lettera e)> afferma
il principio della necessità di una disciplina a livello
legislativo dei doveri degli amministratori sotto il profilo
anzitutto del dovere di fedeltà (il duty of loyalty
anglosassone) e quindi del conflitto di interessi che
costituisce la fattispecie tipica in cui si può verificare un
attentato al generale dovere di fedeltà. Spetterà poi
eventualmente all'autonomia statutaria meglio articolare la
disciplina legislativa (anche in senso più restrittivo o in
via preventiva attraverso, ad esempio, la fissazione di
requisiti di indipendenza per alcuni amministratori).
Anche in altri casi all'autonomia statutaria è lasciata
ampia facoltà in ordine alla scelta se introdurre o meno
determinate regole. Così, in tema di requisiti degli
amministratori il progetto, fatta salva la legislazione
speciale, si limita a precisare che gli statuti "possono"
prevedere requisiti di onorabilità, professionalità ed
indipendenza.
L'autonomia statutaria potrà anche, ovviamente, operare
attraverso l'adozione in determinati ambiti (ad esempio,
quello della organizzazione dei lavori consiliari e
dell'esercizio di deleghe) di regolamenti interni.
Nella prospettiva di consentire ad imprese operanti in più
ordinamenti europei di utilizzare moduli organizzativi
omogenei, oltre che in coerenza con la scelta di assicurare
grande flessibilità, il progetto di riforma consente
all'autonomia statutaria di optare, anziché per il modello
fondato sull'organo amministrativo e sull'organo di controllo
interno, per un modello articolato
su di un organo amministrativo ed un organo di sorveglianza
cui siano affidate non solo le funzioni proprie del collegio
sindacale, ma anche funzioni - che spetterà all'autonomia
medesima precisare - attinenti alla determinazione
dell'indirizzo strategico, anche opportunamente rivedendo la
competenza assembleare.
Tale prospettiva sembra inoltre coerente con gli avanzati
progetti in corso, in sede comunitaria, dello statuto di
società europea.
Il consiglio di sorveglianza dovrà essere di nomina
assembleare; stante la competenza attribuita, è previsto che
in esso siano rappresentate le minoranze in armonia con quanto
disposto per il collegio sindacale dal TUF. Ulteriori profili
attinenti la nomina, i poteri, i doveri e le responsabilità
dei componenti il consiglio di sorveglianza si uniformeranno a
quelli del collegio sindacale, poiché di questo il consiglio
di sorveglianza assorbe le funzioni.
4.8. La semplificazione caratterizza anche la
materia delle modificazioni statutarie. Essa potrà riguardare
sia il profilo procedurale (con possibile trasferimento - a
scelta di statuto - di competenze attinenti la struttura
gestionale ed i profili organizzativi, all'organo
amministrativo) sia quello dei controlli (possibile
eliminazione, per certe delibere, della omologazione).
La disciplina delle modifiche statutarie è destinata,
secondo il progetto, ad accogliere rilevanti innovazioni che
vanno al di là del ricorrente motivo della semplificazione.
Tali modifiche si raccordano all'esigenza, avvertita non solo
nei sistemi anglosassoni ma con crescente intensità anche in
quelli continentali, di agevolare il finanziamento con
raccolta di capitale proprio, ridimensionando la tutela
assicurata alla posizione amministrativa del socio dalla
tradizionale configurazione del diritto di opzione. Il che è
tanto più logico allorché la società abbia un azionariato
diffuso per il quale la suddetta tutela è meno rilevante.
Di qui la scelta di ridisegnare l'istituto del diritto di
opzione (e del sovrapprezzo), differenziando la disciplina a
seconda che la società abbia o meno titoli negoziati nei
mercati regolamentati e ferma comunque la tutela della
posizione patrimoniale (e così di adeguati controlli sulla
congruità del prezzo di emissione delle azioni). Il
legislatore delegato potrà agevolare (almeno in taluni casi,
come di recente avvenuto in Germania) l'esclusione o la
limitazione dell'opzione stessa. In questa prospettiva, si
prevede la delegabilità all'organo amministrativo anche di
aumenti di capitale con esclusione dell'opzione purché siano
previsti adeguati limiti temporali. Tale ultima precisazione,
in uno con il principio della tutela della congruità del
prezzo di emissione, varrà ad evitare che il consiglio possa
dare corso ad emissioni con esclusione dell'opzione a prezzo
difforme da quello congruo nel momento dell'autorizzazione
assembleare.
Sul versante della riduzione reale del capitale, il
progetto consente - con il limite della tutela dei creditori
sociali - non solo una semplificazione della procedura di
riduzione, ma un ampliamento dell'ambito di operatività della
fattispecie. Ciò è in linea con la prassi affermatasi sui
mercati finanziari più evoluti ove si ritiene opportuno fare
fruire gli azionisti dei benefìci della sovracapitalizzazione
determinata dal positivo corso degli affari.
Non meno innovativa appare la disciplina del recesso quale
delineata dal progetto. L'istituto viene rivalutato quale
forma di tutela delle minoranze alternativa alle altre fornite
dalla disciplina legale e statutaria, e alla cessione della
partecipazione sul mercato. Di qui l'abbandono del principio
della tassatività delle cause di recesso e la possibilità per
lo statuto di prevedere ulteriori cause di recesso rispetto a
quelle oggetto di previsione legislativa.
L'entrata e l'uscita da un gruppo (confrontare sub
articolo 9) potrà rappresentare una ulteriore ragione di
recesso. La efficienza dell'istituto del recesso postula
peraltro adeguati criteri di calcolo del valore di rimborso e
quindi verosimilmente,
per le società non quotate, l'abbandono del rigido criterio
del mero valore contabile dell'azione secondo l'ultimo
bilancio approvato.
In coerenza con i princìpi generali del progetto di
riforma, l'esercizio del recesso, nella dimensione più ampia
che potrà essere consentita dalla autonomia statutaria,
troverà comunque un preciso limite nelle esigenze di
salvaguardia dell'integrità del capitale sociale e degli
interessi dei creditori sociali, che, nelle ipotesi cosiddette
"facoltative" di recesso (previste cioè dallo statuto, ma non
dalla legge) non potranno non prevalere su quelli dei soci.
5. (Società cooperative).
La disciplina delle società cooperative oggi vigente
consta essenzialmente di due corpi normativi: quello dettato
dal codice civile (articoli 2511-2545) e quello costituito da
numerose norme speciali, anche profondamente innovative, che
hanno affrontato problemi specifici, soprattutto allo scopo di
rimuovere vincoli normativi ormai obsoleti (legge 31 gennaio
1992, n. 59; legge 23 dicembre 1998, n. 448).
L'insieme di queste norme, al di là dei problemi sollevati
dal loro coordinamento, non pare tuttavia in grado di offrire
alle imprese mutualistiche uno statuto capace di favorirne
adeguatamente lo sviluppo.
La vigente disciplina è inadeguata sotto diversi profili,
in quanto: a) non consente alle imprese in forma di
cooperativa di acquisire capitale di rischio nella misura
necessaria per fare fronte alle esigenze che i mercati in cui
operano pongono a tutte le imprese; b) non prevede
strumenti di governo societario che incentivino nella misura
necessaria l'efficienza e la qualità delle gestioni, non
sottoposte neppure ai vincoli che il mercato del controllo
societario impone alle imprese lucrative; c) presenta,
come del resto quello della società per azioni sul quale è
modellato, una rigidità incompatibile con la complessità e la
profonda articolazione che distinguono il mondo cooperativo in
relazione sia alla dimensione delle imprese sia al tipo di
attività esercitata.
Di qui la necessità di rimuovere tali insufficienze e di
dotare le imprese cooperative di uno statuto che non le
collochi in una condizione di inferiorità istituzionale nei
confronti delle imprese lucrative con le quali competono.
Non si è ritenuto di procedere ad una definizione dello
scopo mutualistico, rinviando alla percezione che dello stesso
ha la coscienza sociale, la quale normalmente individua lo
scopo mutualistico nell'interesse del socio a ricevere la
prestazione oggetto del rapporto di servizio e nella
possibilità, per lo stesso, di ricevere tale prestazione a
condizioni, anche qualitative, migliori di quelle offerte dal
mercato.
Nell'individuare i princìpi generali ai quali deve
uniformarsi la disciplina delle società cooperative,
l'articolo 5 "rinvia" alle disposizioni dettate per la riforma
delle società di capitali.
Sulla base dei princìpi richiamati il legislatore
delegato, anche nel disegnare lo statuto delle società
cooperative, dovrà:
a) perseguire l'obiettivo di favorire la nascita e
lo sviluppo delle imprese cooperative, anche attraverso il
loro accesso al mercato dei capitali;
b) valorizzare l'imprenditorialità delle società
cooperative, attraverso una precisa individuazione degli
organi ai quali sono demandate le scelte d'impresa e di quelli
ai quali sono affidati compiti di controllo sulla gestione;
c) semplificare la disciplina delle società
cooperative, tenendo conto dei costi che la regolamentazione
determina;
d) ampliare il ruolo dell'autonomia statutaria,
ferma restando l'esigenza di tutelare gli interessi dei terzi
e dei creditori e, ancora, dei soci cooperatori.
Poiché alle società cooperative si applicano, in quanto
compatibili con la disciplina specificamente per le stesse
stabilita, le norme dettate per la società per azioni e per la
società a responsabilità limitata, <comma 2, lettera e)>
ne segue che vengono
ipotizzati due "sottotipi" di società cooperativa: quello
modellato sulla società per azioni e quello modellato sulla
società a responsabilità limitata.
Così come previsto per le società di capitali, è
ragionevole che la cooperativa modellata sulla società a
responsabilità limitata sia destinata alle cooperative a
ristretta base sociale, dovendosi peraltro, nella
determinazione di tale scelta, tenere conto anche delle
caratteristiche dell'impresa cooperativa e del settore nel
quale la stessa opera.
Sarà comunque necessaria l'applicazione delle norme
dettate per la società per azioni quando la cooperativa abbia
collocato presso il pubblico strumenti finanziari in misura
rilevante, diventando in tale caso necessaria anche
l'applicazione delle norme previste per la società per azioni
che si trovi in siffatta condizione.
Il richiamo alle discipline previste per la società per
azioni e per la società a responsabilità limitata consente
anche di ritenere incompatibili con le discipline medesime
disposizioni, come quelle vigenti, che prevedono la
responsabilità personale dei soci per le obbligazioni della
società (articoli 2513 e 2514 del codice civile), mentre
rimangono fermi gli altri momenti caratteristici del modello
organizzativo oggi vigente (voto capitario, limite al possesso
azionario, principio della porta aperta).
La legge di delega <comma 2, lettera h)> affida al
legislatore delegato anche il compito di definire la
cooperazione "protetta" e cioè la cooperazione a carattere di
mutualità e senza fini di speculazione privata, della quale la
Costituzione riconosce la "funzione sociale" e che la legge
deve promuovere con i mezzi più idonei, assicurandone,
altresì, con gli opportuni controlli, il carattere e le
finalità.
Nell'ambito delle società cooperative sarà dunque
necessario individuare le società che presentano i "requisiti
mutualistici"; requisiti che il legislatore delegato dovrà
definire attenendosi ai criteri fissati dalla Carta
costituzionale.
5.1. Il comma 1 dell'articolo 5 fissa due princìpi
cardine del futuro statuto delle società cooperative, che
dovrà:
a) "assicurare il perseguimento dello scopo
mutualistico da parte dei soci cooperatori" e "favorire
l'accesso delle società cooperative al mercato dei capitali
anche attraverso un'adeguata tutela dei soci finanziatori";
b) "favorire la partecipazione dei soci
cooperatori alle deliberazioni assembleari e rafforzare gli
strumenti di controllo interno sulla gestione".
Le specificità dello statuto delle società cooperative
dovranno, dunque, essere individuate sia sotto il profilo
degli interessi dei soci sia sotto quello del governo
societario.
Sotto il profilo degli interessi dei soci la nuova
disciplina <comma 2, lettera b)> dovrà conciliare lo
scopo mutualistico dei soci cooperatori con lo scopo di lucro
dei soci finanziatori che apportano capitale di rischio.
La disposizione indica i criteri ai quali dovrà attenersi
il legislatore delegato nel dettare le norme che favoriscano
la conciliazione fra soci finanziatori e soci cooperatori:
questi criteri riguardano sia gli aspetti più strettamente
patrimoniali sia quelli amministrativi, fermo restando che,
anche a questo proposito, sarà necessario lasciare
all'autonomia statutaria il più ampio ruolo possibile.
Per quanto concerne i profili patrimoniali, ai soci
cooperatori sarà possibile riconoscere un diritto agli utili
(realizzati con le operazioni con non soci), necessariamente
limitato nelle cooperative protette, e soprattutto sarà
necessario attribuire una effettiva tutela del loro interesse
al conseguimento del vantaggio mutualistico attraverso la
protezione del loro diritto al ristorno; al riguardo la
riforma dovrà tenere conto dei criteri e degli orientamenti
comunitari.
I diritti dei soci di capitale saranno determinati dallo
statuto, consentendo così una più facile coincidenza fra
interesse della società emittente e interesse dei
risparmiatori
presso i quali dovrebbero trovare collocamento gli strumenti
finanziari emessi. Le società potranno emettere strumenti che
incorporano anche un diritto sulla quota di liquidazione,
diritto parametrato sul valore dell'apporto determinato con
riferimento all'ammontare complessivo del patrimonio. Gli
utili realizzati potranno così non solo concorrere a formare
una riserva indivisibile (nelle cooperative protette), ma
anche una riserva divisibile appartenente ai soci finanziatori
e quindi rilevante ai fini della concorrenzialità dei relativi
titoli.
Il legislatore delegato potrà, tuttavia, porre un limite
alla percentuale di utili attribuibili ai soci finanziatori e
alla riserva divisibile allo scopo di evitare che le risorse
della società vengano prevalentemente destinate al
conseguimento di scopi di lucro.
La conciliazione fra l'interesse dei soci cooperatori e
quello dei soci finanziatori, dovrà essere cercata anche sul
piano amministrativo, consentendo una tutela adeguata ai
secondi, senza compromettere la tutela dei primi. I soci
finanziatori dovrebbero così parametrare, al loro interno, i
diritti di intervento nella gestione alla consistenza della
loro partecipazione, ma non dovrebbero poter contare sulla
maggioranza dei voti nell'assemblea e avere posizioni di
controllo nell'ambito del consiglio di amministrazione. La
salvaguardia dell'interesse dei soci cooperatori imporrà che
la maggioranza dei voti assembleari e dei componenti
dell'organo di gestione sia riservata a questi stessi soci
cooperatori.
Per quanto attiene alle regole del governo societario per
le società cooperative con una compagine sociale molto diffusa
troveranno applicazione, in linea di principio, le nuove norme
previste per le società per azioni, che tendono proprio al
conseguimento di questo stesso obiettivo.
I problemi del governo cooperativo si porranno in termini
radicalmente diversi per le società cooperative a base
ristretta, per le quali troveranno, in linea di principio,
applicazione le norme dettate per la società a responsabilità
limitata.
E anche in materia di governo societario, sia per le
società cooperative modellate sulla società per azioni sia per
quelle modellate sulla società a responsabilità limita, sarà
necessario attribuire il più ampio ruolo possibile
all'autonomia statutaria, in modo da consentire che le regole
organizzative siano coerenti con le caratteristiche della
compagine sociale e dell'attività esercitata.
Le norme delegate potranno, peraltro, introdurre tutte le
regole ritenute necessarie per "favorire la partecipazione dei
soci cooperatori alle deliberazioni assembleari e rafforzare
gli strumenti di controllo interno sulla gestione" <comma 1,
lettera c)>. Gli interventi esplicitamente previsti
hanno come punto di riferimento essenzialmente le società
cooperative con una compagine sociale diffusa. Essi riguardano
sia l'assemblea dei soci sia l'organo amministrativo, e,
ancora prima, la formazione della compagine sociale.
Si è ritenuto importante rendere più stringente il
principio della porta aperta e rafforzare il ruolo delle
assemblee separate, pensate come strumento che consente di
coinvolgere nelle deliberazioni assembleari un maggiore numero
di soci; allo stesso fine si è ritenuto indispensabile una
riforma delle deleghe di voto che consenta un maggior ricorso
anche a tale strumento di partecipazione dei soci <comma 2,
lettera d)>. Per quanto riguarda quest'ultimo punto si
dovrà tenere presente la necessità di prevedere limiti alla
delegabilità dell'esercizio del diritto di voto coerenti con
la natura diffusa che il potere presenta nelle società
cooperative e si dovrà altresì consentire all'autonomia
statutaria di disciplinare le deleghe di voto nel modo
ritenuto più coerente con le caratteristiche della compagine
sociale.
Naturalmente, per l'esercizio del diritto di voto rimane
fermo il principio "una testa un voto", ma in alcune
situazioni questa regola può contrastare con una tutela
adeguata dell'interesse mutualistico dei soci: il che accade,
ad esempio, nelle cooperative fra imprenditori e nelle
cooperative di secondo grado, nelle quali l'interesse
mutualistico è commisurato alla
entità dell'apporto del socio. Per queste ipotesi il
legislatore delegato potrà introdurre una deroga al voto
procapite, sia pure ponendo eventuali limiti al numero dei
voti attribuibili al singolo socio.
Per favorire l'efficienza delle gestioni cooperative è
stato poi sottolineata la necessità che lo statuto ponga
limiti al cumulo delle cariche e alla rieleggibilità degli
amministratori, lasciando all'autonomia dei soci il potere di
individuare il contenuto delle relative clausole. E sempre
allo scopo di consentire alle società cooperative di acquisire
le necessarie competenze, si è ritenuto opportuno consentire
che una minoranza di amministratori possa essere costituita
anche da non soci <comma 2, lettera e)>.
5.2. Per quanto attiene al controllo dei sindaci e
al controllo legale dei conti troveranno applicazione le norme
dettate per la società per azioni o per quella a
responsabilità limitata.
Profondamente modificate dovranno, invece, risultare le
norme oggi vigenti in materia di controllo giudiziario e di
controllo governativo.
Le società cooperative dovranno essere sottoposte al
controllo giudiziario (oggi disciplinato dall'articolo 2409
del codice civile) come le società di capitali <comma 2,
lettera g)> non essendovi ragione per privare i soci
nelle società cooperative della possibilità di fare ricorso a
tale forma di tutela.
Viene, invece, eliminato il controllo governativo previsto
oggi dal codice civile sulla generalità delle società
cooperative mantenendolo solo sulle società cooperative
protette <comma 2, lettera i)>. I requisiti mutualistici
comportano, infatti, la creazione di un patrimonio (riserva)
che non appartiene ai soci, essendo destinato definitivamente
a scopi mutualistici, sicché i soci attuali gestiscono un
patrimonio che è in larga parte "altrui". Di qui la necessità
di un controllo esterno, come elemento essenziale del governo
delle società cooperative senza fini di speculazione privata.
E nello svolgimento di tale controllo potranno avere un ruolo
importante le associazioni di categoria, contribuendo così a
determinare un sistema che valorizza anche gli strumenti di
autodisciplina.
Per le società cooperative protette il legislatore dovrà
introdurre un necessario coordinamento fra controllo
giudiziario e controllo governativo. E per le stesse potranno
sussistere anche controlli introdotti dalla disciplina di
eventuali incentivi, in coerenza del resto con quanto previsto
dal dettato costituzionale.
Infine, si renderanno necessarie norme di coordinamento
con la disciplina sulla cooperazione bancaria.
6. (Bilancio).
I criteri di formazione del bilancio d'esercizio, come
pure di quello che segue all'effettuazione di operazioni
societarie straordinarie, richiedono un intervento riformatore
in modo che il bilancio possa rappresentare al meglio
l'effettiva situazione patrimoniale, finanziaria ed economica
delle società.
Il primo criterio di delega è diretto ad eliminare le
interferenze della normativa fiscale nella redazione del
bilancio e a stabilire le modalità con le quali occorre tenere
conto degli effetti delle imposte differite <comma 1, lettera
a)>.
Ciò che comunemente viene definito inquinamento fiscale
del bilancio d'esercizio ha la sua causa nell'onere - imposto
dall'articolo 75 del testo unico delle imposte sui redditi,
emanato con decreto del Presidente della Repubblica 22
dicembre 1986, n. 917, di seguito denominato "TUIR" - di far
transitare per il conto economico i componenti negativi di
reddito di cui si intende ottenere la deducibilità ai fini
fiscali.
In correlazione con tale disposizione, l'articolo 2426,
secondo comma, del codice civile, stabilisce che possono
essere imputate al conto economico "rettifiche di valore e
accantonamenti per (soli) motivi fiscali", rendendo possibile
alle imprese la fruizione di opportunità fiscali consistenti
nella maggior parte dei casi nella deduzione, in sede di
determinazione del reddito,
di spese e di componenti negativi forfettariamente
determinati dalla norma fiscale, senza particolari indagini di
merito sulla loro effettività economica. L'articolo 2426 del
codice civile rende, più precisamente, possibile il
soddisfacimento della condizione della previa imputazione a
conto economico richiesta per la deducibilità dalla norma
fiscale dell'articolo 75 del TUIR, consentendo la imputazione
al conto economico anche dei componenti in questione, benché
essi possano talora non risultare giustificabili proprio dal
lato economico e piegando così il bilancio alle esigenze
fiscali.
L'esperienza operativa di questi primi anni di
applicazione degli articoli 75 del TUIR e 2426, secondo comma,
del codice civile, ha però reso evidente l'opportunità di una
disciplina che restituisca al bilancio la sua autonomia
funzionale, senza che venga meno per le imprese la possibilità
di avvalersi della opportunità fiscale della deducibilità.
Le interferenze sul bilancio derivanti dalla applicazione
dell'articolo 2426, secondo comma, del codice civile, sono
state infatti più rilevanti di quello che si potesse
prefigurare, in quanto i componenti negativi fittizi hanno
ingenerato, come fenomeno a catena, incertezze di
comportamento anche sulle valutazioni di magazzino cui i
componenti in parola (o per lo meno alcuni di essi) verrebbero
ad accedere per natura. Si pensi agli ammortamenti dei beni
strumentali, i quali costituiscono in effetti un tipico costo
da includere nella determinazione dei valori dei beni
prodotti.
Inoltre, le imprese sono state spesso indotte, per
avvalersi delle anzidette opportunità fiscali, ad esporre
contabilmente un utile inferiore a quello reale, con
pregiudizio spesso della loro immagine; infatti non sempre
sono risultate sufficienti a fornire ai terzi una chiara
lettura del bilancio le spiegazioni contenute a tale fine
nella nota integrativa.
Tra le possibili soluzioni non si ritiene adeguata ed
opportuna quella fondata su regole di determinazione del
reddito di impresa che siano disancorate nella loro globalità
dalle risultanze civilistiche del bilancio, in tale modo
sovvertendo radicalmente una impostazione tradizionale
accettata e sperimentata da decenni e seguita anche da altri
Stati.
Una tale soluzione sarebbe sproporzionata rispetto ai fini
da perseguire: i componenti negativi forfettari rappresentano
ipotesi limitate di non coincidenza del risultato economico
con il reddito fiscale, rispetto, invece, agli elementi che
accomunano queste due entità. L'applicazione infatti, ormai
risalente nel tempo, del principio dell'articolo 52 del TUIR -
che afferma, per l'appunto, il tendenziale adeguamento del
reddito fiscale a quello economico - ha fatto sì che un
corredo sempre più rilevante di regole civilistiche e
contabili di determinazione dell'utile sia divenuto un
substrato fondamentale della stessa disciplina fiscale.
Peraltro, non può non rilevarsi che l'ancoramento del
reddito, almeno in via tendenziale, al risultato del bilancio
costituisce la migliore garanzia e per il contribuente e per
l'Amministrazione finanziaria. Per il contribuente, perché il
conto economico, in virtù delle sue finalità e dei
tradizionali princìpi di prudenza che assistono la sua
formazione, è la espressione più attendibile della effettiva
ricchezza prodotta dall'impresa.
Per l'Amministrazione finanziaria, perché il bilancio,
quale supporto della disciplina fiscale, è la prima e naturale
misura di garanzia della attendibilità del reddito dichiarato,
proprio per la plurifunzionalità che esso riveste e che ne fa
oggetto di una disciplina normativa avente, principalmente,
come finalità la tutela dei terzi.
E' necessaria, dunque, una soluzione che consenta di
eliminare le interferenze fiscali, senza tuttavia coinvolgere
l'assetto generale degli attuali equilibri fra disciplina del
bilancio civile e determinazione del reddito d'impresa.
La soluzione che si propone da una parte intende mantenere
fermo il principio, fissato dall'articolo 52 del TUIR, di
dipendenza della normativa fiscale da quella civile per quanto
riguarda la determinazione
del reddito d'impresa e, dall'altra, realizzare comunque il
disinquinamento del bilancio civilistico rispetto alla
determinazione delle relative risultanze fiscali.
In sintesi, lo schema di riferimento che si propone è il
seguente:
superamento del regime delineato dagli articoli 75 del
TUIR e 2426, secondo comma, del codice civile, e
riconoscimento, in sede di dichiarazione dei redditi, dei
componenti negativi del reddito misurati forfettariamente ai
fini fiscali, ove essi eccedano in tutto o in parte i costi
effettivamente imputabili al conto economico e, perciò, a
prescindere dalla loro imputazione al conto economico stesso;
ove questi componenti negativi afferiscano ad elementi
patrimoniali (ammortamenti eccedenti quelli economici,
svalutazioni parimenti eccedenti, eccetera), tali elementi
avranno, ai fini delle successive vicende reddituali, valori
di riferimento fiscale divergenti e più bassi di quelli
civili;
trattamento omogeneo dei componenti negativi forfettari
in questione e degli ammortamenti anticipati e dei componenti
positivi. Questi ora sono deducibili e non concorrono a
formare il reddito alla condizione che siano accantonati in
sospensione di imposta in un'apposita riserva di pari
ammontare. In forza del proposto principio di delega vanno
dunque interessati al disinquinamento non solo i costi
forfettari e gli ammortamenti anticipati, ma anche quei
componenti positivi di reddito che sono esclusi da tassazione
in applicazione di norme agevolative (le cosiddette "norme
sovvenzionali"). Tali ammortamenti anticipati e tali
componenti positivi di reddito potranno dunque,
rispettivamente, essere dedotti e non concorrere a formare il
reddito di impresa indipendentemente dalla loro imputazione a
specifiche poste di bilancio, alla sola condizione che siano
indicati in un apposito prospetto e nella dichiarazione dei
redditi.
Questa impostazione ha il pregio di semplificare il
problema dei rapporti tra norme civili e norme fiscali,
mantenendo la vigenza del citato articolo 52, comma 1, del
TUIR, e affidandone la soluzione ad una estremamente limitata
e sostanziale regola di doppio binario che non confligge con
il medesimo articolo 52 e che, del resto, già esiste in modo
implicito nella attuale disciplina fiscale.
La lettera a) del comma 1 dell'articolo 6, colmando
una lacuna dell'attuale disciplina, indica inoltre i criteri
per la evidenziazione e rappresentazione in bilancio delle
imposte differite o anticipate. Di quelle imposte, cioè,
dovute:
a) sia nel caso in cui la "differenza negativa"
tra il reddito imponibile di un esercizio e l'utile prima
delle imposte è destinata ad essere riassorbita negli esercizi
successivi, con il conseguente assoggettamento a tassazione in
tali esercizi della differenza stessa (imposte differite);
b) sia nel caso in cui la "differenza positiva"
tra il reddito imponibile di un esercizio e l'utile prima
dell'imposta è destinata ad essere annullata nei successivi
esercizi, con la conseguente imputazione delle imposte sulle
predette differenze positive all'imposta dovuta nei successivi
esercizi (imposte anticipate).
I criteri di rilevazione indicati sono dettati, in
particolare, per garantire la migliore aderenza di queste
poste ai princìpi di competenza e di rappresentazione
"veritiera e corretta" della situazione patrimoniale,
finanziaria e del risultato dell'esercizio. Più
specificatamente, il rispetto di tali princìpi - in una
prospettiva di continuazione dell'attività imprenditoriale -
richiede che il trattamento di un componente, negativo o
positivo, sia rilevato sulla base degli stessi criteri con cui
vengono determinati gli "altri" componenti del risultato
dell'esercizio.
6.1. Il principio indicato nella lettera b)
del medesimo comma 1 riguarda la regolamentazione delle poste
di patrimonio netto, in ordine alle quali si registrano
divergenze sui criteri di individuazione con riferimento alle
ipotesi: a) di copertura di
perdite aventi una certa influenza sul capitale piuttosto che
sul patrimonio netto (articoli 2446 e 2447 del codice civile);
b) di individuazione di ciò che può formare o meno
oggetto di distribuzione ai soci (classico è il caso del
rimborso dei cosiddetti "finanziamenti infruttiferi dei soci"
come pure dei cosiddetti "versamenti in conto capitale");
c) dell'apporto di "contributi" da parte di terzi;
d) di operazioni straordinarie (fusioni e scissioni), in
cui diventa decisivo computare correttamente il patrimonio
netto ai fini della determinazione del rapporto di cambio e,
poi, dei successivi avanzi o disavanzi di fusione o di
scissione.
Ma, oltre che con riferimento all'individuazione del
contenuto di ciò che concorre a formare il patrimonio netto,
ulteriori interrogativi sono sovente sorti anche con riguardo
al possibile utilizzo delle voci in questione, al riguardo,
distinguendosi fra parti del patrimonio netto "disponibili" e
parti del patrimonio netto considerate "indisponibili".
E' opportuno, quindi, da un lato individuare le
delimitazioni del patrimonio netto; dall'altro, evitare
tassative specifiche elencazioni delle relative voci che
rischiano di essere travolte da possibili interventi di
carattere normativo.
Per quanto attiene, invece, alle modalità di utilizzo
dovrà essere precisata la distinzione fra le singole parti del
patrimonio netto in funzione della destinazione che ad esso si
intende attribuire, indicando separatamente le parti
suscettibili di fuoriuscire "ordinariamente" dal patrimonio
sociale da quelle che, invece, non sono "ordinariamente
utilizzabili" a tali fini.
6.2. I criteri direttivi di delega in materia di
bilancio indicati alle lettere c) e d)del comma 1
sono finalizzati a consentire il superamento di alcune carenze
presenti nell'attuale quadro normativo e ad apportare gli
aggiustamenti necessari per recepire nell'ordinamento
contabile fattispecie contrattuali innovative generate dai
processi di evoluzione finanziaria. Gli interventi prospettati
attengono, in particolare, al trattamento valutativo-contabile
di alcune famiglie di strumenti finanziari <lettera c)>
e alla possibilità di adottare nel bilancio consolidato dei
gruppi societari i princìpi contabili internazionali <lettera
d)>.
Per quanto attiene al criterio di cui alla lettera
c), occorre mettere in evidenza che i limiti principali
della vigente disciplina codicistica sul bilancio riguardano
importanti famiglie di prodotti finanziari il cui utilizzo si
è andato negli ultimi tempi rapidamente diffondendo anche nel
mondo delle imprese non bancarie. Ci si riferisce in modo
particolare agli strumenti valutari, ai contratti derivati,
agli strumenti di copertura dei rischi, ai pronti contro
termine e alle locazioni finanziarie. Poiché tali fattispecie
non sono specificamente regolate dalle disposizioni
codicistiche in vigore, si sono sviluppate nel tempo prassi
operative ispirate alternativamente alla disciplina settoriale
delle banche (decreto legislativo 27 gennaio 1992, n. 87),
alle disposizioni tributarie sul reddito di impresa, ai
princìpi contabili (nazionali e internazionali).
Per favorire l'adozione di comportamenti contabili
omogenei e tecnicamente appropriati, si prevede che la
disciplina del codice civile venga integrata con
l'introduzione di apposite regole concernenti il regime di
bilancio dei suddetti strumenti e delle altre operazioni
finanziarie di carattere innovativo. Si è preferito da un lato
disporre che le operazioni in questione trovino nel codice uno
specifico dettato, dall'altro evitare di indicare il concreto
regime applicabile, dal momento che esso non potrà che
ispirarsi ai princìpi di formazione del bilancio che la delega
non intende affatto modificare.
Per quanto concerne l'adottabilità, nel bilancio
consolidato dei gruppi societari, dei princìpi contabili
internazionali <lettera d)>, si rileva preliminarmente
che l'articolo 117, comma 2, del TUF, riserva l'opzione di
impiegare, a determinate condizioni e anche in deroga alle
vigenti disposizioni nazionali, i princìpi contabili
riconosciuti in sede internazionale unicamente alle società
emittenti strumenti finanziari quotati contemporaneamente in
un qualunque mercato regolamentato dell'Unione
europea e in un mercato esterno (cosiddetti "global
players"). La norma definisce, in particolare, sia
l'oggetto della deroga, che viene circoscritto al bilancio
consolidato, sia i requisiti che i princìpi contabili devono
soddisfare perché ne sia ammessa la adottabilità (carattere
internazionale, compatibilità con le direttive dell'Unione
europea, accettazione nei mercati extraeuropei di
quotazione).
Tale disposizione costituisce la prima risposta elaborata
dal legislatore nazionale per corrispondere alle istanze di
competitività delle maggiori imprese multinazionali italiane e
per avviare il processo di ammodernamento della disciplina
legale di bilancio.
Tuttavia l'approccio seguito dall'articolo 117 del TUF, se
da un lato tende a stabilire per i global players
italiani condizioni di parità informativa rispetto ai
competitors extraeuropei, dall'altro introduce però una
potenziale, rilevante segmentazione nelle configurazioni di
bilancio dei suddetti global players e delle altre
società quotate, che rischia di inficiare per altro verso le
esigenze di omogeneità, di comparabilità e di trasparenza
informativa espresse dai mercati. Oltre a ciò, vanno pure
considerate, con specifico riferimento ai settori di imprese
sottoposte a forme di vigilanza pubblica (banche, finanziarie,
assicurazioni), le possibili implicazioni per i coefficienti
di tipo prudenziale cui dette imprese soggiacciono e che
impongono loro di rispettare livelli minimi di
capitalizzazione correlati ai rischi assunti. E' evidente che
in tali settori i requisiti di omogeneità e di comparabilità
dell'informativa societaria rilevano non soltanto per finalità
di trasparenza, ma anche perché favoriscono la corretta
applicazione dei coefficienti di solvibilità basati in larga
misura su aggregati di bilancio. L'eterogeneità dei criteri
contabili può, quindi, intaccare la funzionalità delle regole
prudenziali e creare inaccettabili situazioni di disparità
concorrenziale fra gli intermediari quotati e quelli non
quotati.
Per tali ragioni e tenuto conto delle soluzioni già
adottate in altri ordinamenti europei (Germania, Francia) il
principio di delega contemplato nella lettera d) è
diretto a stabilire le condizioni in base alle quali anche
altre società diverse dai global players potrebbero, nei
loro bilanci consolidati, fare uso di princìpi riconosciuti
internazionalmente, in considerazione della loro vocazione
internazionale e del carattere finanziario.
6.3. Il principio direttivo contenuto nella lettera
e) del comma 1 dell'articolo 6 è diretto ad estendere le
regole di applicazione del bilancio in forma abbreviata alle
imprese indicate nell'articolo 27 della direttiva 78/660/CEE
del Consiglio, del 25 luglio 1978, la quale ha previsto, per
le società di minori dimensioni, la redazione di schemi
semplificati di stato patrimoniale e di conto economico, con
possibili ulteriori semplificazioni in sede di redazione
dell'allegato (nota integrativa) e la possibile soppressione -
a certe condizioni - della relazione sulla gestione. In
particolare la direttiva ha individuato due categorie di
imprese di minori dimensioni che potremmo identificare per
semplicità come "piccole" e "medie" imprese, rispettivamente
in base ai seguenti parametri (in corso di elevazione del 25
per cento):
imprese "piccole":
attivo patrimoniale 4,7 (L/Mld);
volume d'affari 9,5 (L/Mld);
dipendenti 50.
imprese "medie":
attivo patrimoniale 12,4 (L/Mld);
volume d'affari 25,6 (L/Mld);
dipendenti 250.
Il legislatore nazionale, nel decreto legislativo n. 127
del 1991, si è avvalso della facoltà concessagli per quanto
attiene alle imprese "piccole", adottando le disposizioni ora
trasfuse nell'articolo 2435-bis del codice civile, ma
non ha utilizzato appieno i margini della direttiva con
riferimento alle imprese "medie", con il risultato di
assoggettare queste ultime al regime ordinario. Di qui la
necessità di ripensare la
logica minimalista seguita dal legislatore nel decreto
legislativo n. 127 del 1991, considerata l'esperienza nel
frattempo maturata circa le effettive necessità e tenuto conto
delle apprezzabili semplificazioni che attengono al processo
di formazione, di intellegibili conti annuali per le imprese
medio-piccole.
6.4. Infine, con la lettera f) del medesimo
comma 1 si è inteso attribuire al legislatore delegato il
potere di armonizzare la disciplina fiscale sul reddito di
impresa con gli interventi regolatori che precedono, allo
scopo di evitare che la nuova disciplina civilistica si
traduca in una modifica peggiorativa di quella sostanziale
tributaria. La rilevanza e la novità degli interventi
programmati dovrebbero inoltre spingere ad usare la massima
cautela nei tempi di applicazione della nuova disciplina, sia
nella sfera contabile sia in quella fiscale, prevedendo
disposizioni di carattere transitorio al fine di evitare, dove
necessario, che le innovazioni normative possano esplicare
indesiderabili, ancorché non voluti, effetti retroattivi.
7. (Trasformazione, fusione, scissione).
In materia di trasformazione, fusione e scissione il
criterio generale della semplificazione delle procedure si
traduce anzitutto nell'indicazione della ricerca del massimo
snellimento del procedimento compatibile, per le società di
capitali, con le direttive comunitarie <comma 1, lettera
a)>. La crescente rilevanza del registro delle imprese
potrà consentire, d'altro canto, forme di pubblicità omogenee
con quelle previste per le altre operazioni, evitando i più
lunghi tempi della pubblicazione nella Gazzetta
Ufficiale. La semplificazione delle procedure di
valutazione dei conferimenti, del procedimento assembleare in
generale e di omologazione di cui all'articolo 4 consentiranno
ulteriori snellimenti anche delle operazioni di
trasformazione, fusione e scissione.
Nella prospettiva di eliminare ostacoli alla libera
fruizione della forma che nel tempo appare più adeguata allo
svolgimento della attività di impresa, si dovranno
disciplinare in modo organico possibilità, condizioni e limiti
delle trasformazioni e delle fusioni eterogenee in un panorama
nel quale l'esercizio dell'impresa vede, accanto alla
tradizionale bipartizione tra società di persone e di
capitali, l'universo, in rapida evoluzione normativa, delle
cooperative, delle associazioni e delle fondazioni <comma 1,
lettera b)>.
Occorrerà quindi stabilire se e quali variazioni
introdurre nella disciplina a seconda dei soggetti coinvolti
nell'operazione.
Il legislatore delegato potrà prendere posizione sulla
questione, non sempre univocamente risolta, della continuità
dei rapporti nei confronti di terzi dopo operazioni di
fusione, scissione e trasformazione.
In questo contesto, nel rispetto delle norme comunitarie,
potranno essere prese in considerazione anche le operazioni
transnazionali e le cosiddette "trasformazioni" delle filiali
di imprese estere operanti in Italia.
Infine, dovranno essere disciplinati (naturalmente in
armonia con i princìpi di cui all'articolo 6) i criteri di
formazione del primo bilancio successivo ad operazioni di
fusione e di scissione.
Si tratta di riempire un vuoto normativo che ha finora
prodotto un certo disordine nella materia. I criteri seguiti
nella redazione del primo bilancio successivo all'operazione
in questione hanno, infatti, risentito nella prassi della
presenza di interessi contingenti piuttosto che della
tipologia di operazione realizzata. Così la "fusione con
cambio di azioni" tanto nella veste di fusione propria quanto
in quella della fusione per incorporazione, si risolve spesso
nell'adozione - nel primo bilancio "post fusione" - di valori
finalizzati al mero concambio e, come tali, difformi sia da
quelli storici, sia da quelli di mercato. Al contrario, nella
fusione per incorporazione "senza cambio di azioni" si assiste
sovente, ma solo nei casi in cui dalla fusione deriva un
disavanzo, a rettifiche di valore delle attività provenienti
dall'incorporata, spesso senza che dette valutazioni
siano compatibili con quelle già adottate dall'incorporante
per le "proprie" attività e mantenute tali anche dopo il
perfezionamento della fusione. Quando, invece, dalla medesima
fusione deriva un "avanzo" si tende a non apportare alcuna
modifica al valore dell'attivo portato dall'incorporata.
Osservazioni analoghe possono formularsi con riferimento
alla scissione.
Si aggiunga che la vigente disciplina fiscale sancisce la
piena neutralità fiscale delle operazioni in questione
comunque poste in essere (cioè con o senza cambio di azioni)
ed ha eliminato l'iscrizione di plusvalenze dal novero degli
eventi costituenti presupposto per l'applicazione dell'imposta
sul reddito personale.
Ne consegue che non sussistono più ragioni, neppure di
ordine fiscale, per mantenere un'ingiustificata asimmetria
nella scelta dei criteri di congiunzione delle scritture
contabili e di valutazione delle attività oggetto di
trasferimento nel primo bilancio successivo al perfezionamento
dell'operazione di fusione e di scissione.
8. (Scioglimento e liquidazione).
L'articolo 8 prevede la riforma della disciplina dello
scioglimento e della liquidazione delle società di capitali e
cooperative.
In primo luogo, in coerenza con i princìpi ispiratori di
fondo della riforma, è previsto un intervento diretto a
semplificare ed accelerare il procedimento di liquidazione sin
dalla fase iniziale dell'accertamento delle cause di
scioglimento e di nomina giudiziale dei liquidatori ove non vi
abbia provveduto la società stessa. Tale intervento deve
coordinarsi con quello diretto, più in generale, a
semplificare ed accelerare l'attività giudiziaria, di
volontaria giurisdizione e non, in materia societaria
contemplato dall'articolo 11.
In secondo luogo, il legislatore è chiamato a colmare la
lacuna della vigente disciplina in ordine agli effetti della
cancellazione della società, con particolare riferimento alle
responsabilità per sopravvenienze passive ed in genere alle
conseguenze dell'emersione, successivamente alla cancellazione
dal registro delle imprese, di sopravvenienze attive o
passive. L'intervento gioverà a porre le basi sistematiche
anche per una disciplina omogenea e coerente dell'insolvenza
dell'imprenditore cessato sopperendo, tra l'altro, alle gravi
incertezze cui dà origine la tesi giurisprudenziale
dell'assoggettamento al fallimento della società cancellata
dal registro delle imprese, allorquando emergano
sopravvenienze passive <comma 1, lettera a)>.
La delega lascia aperte tutte le soluzioni, sicché si
potrebbe codificare la "presunzione" iuris tantum di
estinzione della società con la cancellazione dal registro
delle imprese e da tale momento decorrerebbero i termini
previsti dall'articolo 10 della cosiddetta "legge
fallimentare" regio decreto n. 267 del 1942 per la
dichiarazione di fallimento dell'imprenditore cessato; si
potrebbe altresì prevedere ex lege che la cancellazione
comporti la definitiva estinzione della società a tutti i
fini, previo un "interpello" dei creditori, sì che la
successiva cancellazione in assenza di "dichiarazioni di
credito" lasciate insoddisfatte estingua sicuramente e
definitivamente la società.
L'esigenza di favorire, per evidenti ragioni di
efficienza, processi di ristrutturazione e quella di
salvaguardare i valori aziendali anche in caso di
riorganizzazione o crisi, stanno a base della necessità,
sancita nella lettera b) del comma 1 di disciplinare il
procedimento di revoca dello stato di liquidazione, nonché i
poteri ed i doveri di amministratori e liquidatori riguardo al
compimento di nuove operazioni.
Infine, la previsione di cui al comma 1, lettera c),
colma una lacuna del vigente sistema nel momento in cui
afferma la necessità di una disciplina dei bilanci nella fase
di liquidazione in base a criteri adeguati alle loro
specifiche finalità e pertanto non necessariamente identici a
quelli che presiedono alla redazione del bilancio di una
società operante nella prospettiva della continuità
dell'impresa.
9. (Gruppi).
L'articolo 9 delinea la disciplina del gruppo, sul
presupposto che lo stesso ha un valore in linea di principio
positivo e che si va diffondendo secondo forme diverse, in
assenza di una specifica disciplina, e senza che vi sia la
possibilità di una adeguata conoscenza dei rapporti fra le
società del gruppo e dell'esercizio in concreto dei poteri del
socio di controllo.
I criteri direttivi sono ispirati ad un principio di piena
trasparenza, in modo da consentire la conoscibilità in
funzione di valutazione e di controllo <comma 1, lettera
a)>.
La nuova disciplina deve, altresì, assicurare che
"l'attività di direzione e coordinamento contemperi
adeguatamente l'interesse del gruppo, delle società
controllate e dei soci di minoranza di queste ultime" <comma
1, lettera a)>. L'attività di "direzione e
coordinamento", propria della capogruppo, è presunta come dato
di fatto senza riconoscere alla stessa (a diversità di quanto
avviene nel sistema bancario) specifici poteri giuridici. Si
definisce, però, un principio di valutazione della correttezza
nell'esercizio di tale attività, imponendo che i costi a
carico della controllata (e con essa dei soci di minoranza),
in dipendenza dell'appartenenza al gruppo, siano adeguatamente
bilanciati dai benefici derivanti dall'appartenenza stessa.
Gli organi decisori della controllata, sui quali in
principio ricade la responsabilità dell'azione di questa sono,
quindi, tenuti a dare giustificazione imprenditorialmente
corretta dell'operazione, valutando l'interesse sociale non
solo con riferimento ad una operazione isolatamente
considerata, ma con riferimento al quadro generale di gruppo
nel quale si svolge l'impresa sociale.
Costituisce un'applicazione specifica del principio di
"trasparenza" la previsione <comma 1, lettera b)> di
analitica "motivazione" delle decisioni della controllata,
quando assunte valutando anche l'interesse di gruppo. La
necessità di considerare i costi/benefìci non solo
dell'operazione in sé, ma anche dell'appartenenza ad un
gruppo, impone, in funzione della verifica del rispetto del
principio di adeguatezza, che siano forniti completi elementi
di valutazione.
In armonia con la scelta di non attribuire alla
controllante poteri specifici, non è stato fissato un
principio generale di responsabilità; tuttavia, attesa
l'esigenza di prevedere una disciplina che assicuri il
contemperamento dell'interesse del gruppo, delle società
controllate e dei soci di minoranza di queste ultime, il
legislatore delegato potrà prevedere che alla responsabilità
primaria degli amministratori della controllata, si aggiunga
in casi di abuso, una responsabilità della controllante.
Non sono stati indicati princìpi direttivi per un modello
di gruppo; il legislatore delegato potrà dunque scegliere tra
le diverse definizioni di gruppo che si rinvengono nella
normativa in vigore, ovvero creare un modello di gruppo,
evitando di ispirarsi a quei modelli diffusi nella
legislazione in vigore che riflettono una concezione in
principio negativa del gruppo. In particolare il legislatore
dovrà evitare di seguire concezioni che, al fine di prevenire
o eliminare un pericolo potenziale, dilatino il perimetro del
gruppo al di là della sfera di possibile esercizio, in
concreto, dell'attività di direzione e coordinamento.
Poiché le condizioni di esercizio dell'impresa sociale
possono variare notevolmente a seconda che la società
appartenga o meno ad un gruppo, sono necessarie opportune
forme di pubblicità dell'appartenenza e quindi anche
dell'ingresso e dell'uscita della società da un gruppo <comma
1 lettera c)>.
Deriva dal medesimo presupposto l'esigenza di assicurare
al socio di minoranza adeguate tutele all'atto dell'ingresso o
dell'uscita delle società dal gruppo, compreso eventualmente
il diritto di recedere dalla società quando non sussistono le
condizioni per l'obbligo di offerta pubblica di acquisto
<comma 1, lettera d)>.
10. (Disciplina penale delle società commerciali).
L'articolo 10 del disegno di legge detta i princìpi e
criteri direttivi per la riforma
della disciplina penale delle società commerciali e delle
materie connesse.
Nella formulazione di tali princìpi e criteri direttivi,
si è partiti dalla diffusa constatazione dell'inadeguatezza
della disciplina vigente e della conseguente scarsa efficacia
del sistema punitivo di settore. Se, da un lato, infatti, le
disposizioni contenute nel codice civile del 1942 appaiono
inevitabilmente invecchiate, dall'altro la successiva
introduzione di leggi speciali, quasi sempre accompagnate da
misure sanzionatorie, ha appesantito non poco il sistema nel
suo complesso, generando numerose questioni di natura
interpretativa e sistematica, senza tuttavia aumentare
apprezzabilmente la capacità d'intervento sulle patologie
nella vita delle imprese. Le innovazioni degli ultimi
venticinque anni si collocano, inoltre, in prevalenza, in un
modello che assegna alle fattispecie penali un ruolo meramente
"sanzionatorio" rispetto alla disciplina civilistica: con una
conseguente eccessiva dilatazione della risposta penalistica,
la quale risulta, per di più, fortemente sprovvista di
autonomia.
In tale ottica, la norma di delega in esame prefigura una
incisiva revisione del comparto, da un lato restringendo il
numero e l'ambito di applicazione delle fattispecie criminose
e, dall'altro, introducendo fattispecie ed istituti nuovi
volti a colmare lacune da tempo lamentate. Le linee guida cui
si ispira, per tale aspetto, la riforma si compendiano
nell'esigenza del rispetto dei princìpi di determinatezza e
precisione dell'illecito penale, in modo da definire con
chiarezza il precetto penalmente sanzionato e da realizzare
una semplificazione dei modelli punitivi; del principio di
sussidiarietà, in modo da escludere l'intervento penalistico
là dove altri rimedi appaiano sufficienti a garantire una
efficace tutela del bene giuridico e da evitare, in ogni caso,
il ricorso alla sanzione penale qualora sia in giuoco
l'osservanza di regole di natura puramente "disciplinare"; ed
ancora, del principio di offensività, in modo da circoscrivere
la punibilità alle sole condotte concretamente offensive
dell'interesse protetto.
In materia di sanzioni, si è scelto di non prevedere mai
la comminatoria congiunta di pena detentiva e pena pecuniaria,
la quale non sembra aggiungere nulla all'efficacia dissuasiva
della pena detentiva, rendendo quella pecuniaria solo
un'appendice priva di autonomo significato. Si è prevista,
piuttosto, una formulazione estensiva dell'istituto della
confisca, in modo da allargarne il raggio di operatività:
risultato che appare particolarmente prezioso nel campo della
criminalità d'impresa.
Si è prevista inoltre l'introduzione di forme di
responsabilità delle persone giuridiche, idonee a rafforzare
la reazione complessiva dell'ordinamento ai fatti di
criminalità economica. La strada al riguardo prescelta non
poteva essere, peraltro, che quella della responsabilità
amministrativa, posto che l'eventuale introduzione di una
responsabilità penale, estranea alla tradizione del nostro
ordinamento, deve considerarsi un compito riservato al
legislatore del codice penale.
Riguardo all'organizzazione della materia, l'intervento di
riforma è stato scandito attorno ai poli tematici costituiti
dai principali beni giuridici del settore alla cui tutela può
utilmente essere apprestata la sanzione penale, beni così
individuati:
a) veridicità e compiutezza dell'informazione
societaria, di natura economica, nei confronti di categorie
aperte di destinatari (soci, creditori, risparmiatori,
eccetera);
b) veridicità e compiutezza dell'informazione nei
confronti di agenzie preposte al controllo ed al governo del
settore in cui opera la società;
c) effettività ed integrità del capitale
sociale;
d) conservazione del patrimonio sociale, in specie
rispetto agli atti finalizzati ad interessi extrasociali;
e) regolare funzionamento degli organi sociali,
nel rispetto delle attribuzioni di poteri;
f) regolarità ed affidabilità dei mercati
finanziari.
L'elencazione sopra riportata interessa una materia più
ampia di quella usualmente riportata al diritto penale delle
società. Ma nel momento in cui il disegno di legge delega
affrontava il tema di una riforma dei protagonisti - le
società - dell'agire economico, era inevitabile ampliare gli
orizzonti al di là dello stretto ambito che la tradizione ha
consegnato alla disciplina: i rapporti tra le fattispecie
classiche e quelle introdotte dalla legislazione speciale sono
infatti così stretti da rendere impossibile una considerazione
limitata unicamente al campo tracciato dalle norme del codice
civile. In alcuni casi, i criteri di delega si spingono quindi
direttamente in settori fin qui affidati alla legislazione
speciale; in altri casi, il compito spetterà al legislatore
delegato, sulla base dei princìpi di armonizzazione e di
livellamento sanzionatorio.
Per quanto attiene alla tecnica di redazione, si è tenuto
conto dell'esigenza di una maggiore specificità di dettato per
la materia penalistica - connessa anche a vincoli
costituzionali - rispetto alla materia civilistica, optando
conseguentemente per una formulazione analitica dei criteri
relativi alla prima.
Si sono inoltre indicate, per ciascuna fattispecie, la
specie e la misura della pena: opera nella quale è stato di
guida l'obiettivo di assicurare omogeneità di trattamento
sanzionatorio in presenza di illeciti incidenti su interessi
di pari rango e caratterizzati da analogo disvalore,
eliminando gli squilibri sanzionatori fra fattispecie similari
talora riscontrabili nella normativa vigente.
La lettera a) del comma 1 dell'articolo 10 detta i
princìpi riguardanti la formulazione dei singoli illeciti -
penali ed amministrativi - destinati a comporre il nuovo
sistema repressivo.
Il numero 1 della medesima lettera a) prevede
l'ipotesi della falsità in bilancio, nelle relazioni o in
altre comunicazioni sociali.
Alla radice del criterio di delega sta la netta
riaffermazione dell'esigenza di un'efficace tutela penalistica
della veridicità e della completezza dell'informazione
societaria, cui peraltro si affianca la necessità di una più
puntuale descrizione del fatto tipico, sia per evitare
eccessive ed imprevedibili dilatazioni della figura in sede
applicativa, sia per ridurre le oscillazioni
interpretative.
Sono stati quindi formulati princìpi volti a centrare la
fattispecie sulla falsa o incompleta informazione a categorie
"aperte" di soggetti destinatari, separandola nettamente
dall'informazione resa ad autorità di controllo o a singoli,
individuati destinatari.
Dal novero dei soggetti attivi sono stati espunti i
promotori e i soci fondatori, parallelamente alla scomparsa
della "costituzione" della società come oggetto di possibile
mendacio, in ragione dell'assoluta marginalità dell'ipotesi,
pressoché assente nella prassi: i casi che dovessero residuare
appaiono destinati a trovare tutela nella norma incriminatrice
comune della truffa.
Il mendacio trova caratterizzazione anzitutto nella
direzionalità offensiva, con la precisazione che deve essere
rivolto a soggetti indeterminati, i quali orientano le proprie
scelte economiche sulla base delle informazioni offerte. Alla
menzione del "pubblico" si è aggiunta quella dei "soci", per
segnalare l'applicabilità della norma incriminatrice anche a
comunicazioni rese solo a questi ultimi, avvenute con modalità
non "pubbliche", ancorché aventi carattere di ufficialità.
La precisazione della direzionalità offensiva del mendacio
esclude dall'ambito operativo della figura le comunicazioni
interorganiche e quelle rivolte ad un singolo destinatario.
Sullo sfondo delle vicende ora menzionate si stagliano
esigenze di tutela diversificate: quanto alla prima, miglior
presidio è offerto dalla figura generale dell'impedito
controllo <n. 4 della lettera a)>, oppure dallo schema
dell'articolo 48 del codice penale; mentre alla seconda si
rivolge la figura della truffa, tipica di un rapporto
intersoggettivo individuato (ad esempio cliente-banca) ed a
preciso contenuto
patrimoniale. Se, invece, la falsa informazione è resa alle
autorità di vigilanza, la repressione del mendacio è affidata
alle figure di cui alla lettera b), adeguatamente
armonizzate e coordinate.
Nella precisazione del veicolo del mendacio si è preferito
utilizzare il termine "informazioni", il quale, peraltro, va
sempre riferito a fatti materiali, ancorché oggetto di
valutazioni, esulando di necessità dall'ambito della
fattispecie le previsioni, i pronostici, l'enunciazione di
progetti o simili: ossia valutazioni di natura schiettamente
soggettiva, alle quali non si attaglia un giudizio basato
sull'antitesi vero-falso.
L'elemento soggettivo è stato oggetto di uno sforzo di
precisazione. In particolare, si è prevista una qualificazione
del dolo in termini di intenzionalità, allo scopo di evitare
il ricorso a soluzioni applicative basate sulla figura del
dolo eventuale; nel contempo si è puntualizzata la
conformazione del dolo specifico, stabilendo che lo stesso
debba risultare orientato al perseguimento di un ingiusto
profitto.
L'esigenza di assicurare alla figura l'indispensabile
lesività è affidata ad un requisito di natura oggettiva,
essendo apparse non sufficientemente sicure le soluzioni in
termini soggettivi. Le condotte incriminate devono essere cioè
idonee, in concreto, ad ingannare i soggetti destinatari
sull'effettiva situazione della società, dando luogo così ad
un concreto pericolo di sviamento nelle loro decisioni.
L'area di applicazione della figura è stata per altro
verso estesa -oltre che al mendacio sulla situazione
economica, patrimoniale o finanziaria del gruppo al quale la
società appartiene - anche in riferimento a beni da essa
amministrati o posseduti per conto di terzi, chiarendo così
che l'obbligo di trasparenza informativa vale, con la stessa
intensità, per i beni che sono estranei al patrimonio della
società ed a questa affidati.
Da ultimo, nell'ottica di fare chiarezza attorno ad un
argomento da sempre al centro di vivo dibattito, viene
demandato al legislatore delegato il compito di regolare i
rapporti tra la fattispecie in esame ed i delitti tributari in
materia di dichiarazione che, a seguito della riforma
recentemente attuata dal decreto legislativo 10 marzo 2000, n.
74, hanno sostituito il delitto di frode fiscale.
Al numero 2) della medesima lettera a) è previsto il
delitto di falso in prospetto, al quale si è attribuita
autonoma collocazione, soprattutto per evitare dubbi di natura
interpretativa legati alla particolare tipologia dei veicoli
dell'informazione. Il livello di lesività del falso in
prospetto, d'altro canto, non appare inferiore a quello del
falso in bilancio, posto che il prospetto è un documento per
sua natura rivolto al pubblico e dotato di caratteristiche
tali da determinare negli investitori un rilevante affidamento
circa l'idoneità delle informazioni in esso contenute per
l'effettuazione di scelte consapevoli di investimento.
Il numero 3) contempla il delitto di falsità nelle
relazioni o nelle comunicazioni della società di revisione.
Rispetto alla fattispecie attualmente prevista
dall'articolo 175 del TUF si prevede una semplificazione nella
descrizione della condotta ("attestano il falso od occultano
informazioni"), che appare meglio calibrata sulla peculiare
attività delle società di revisione. La garanzia di effettiva
lesività è affidata alla formula presente anche nelle due
precedenti ipotesi.
Il delitto di impedito controllo, di cui al numero 4),
accorpa in una fattispecie di carattere generale comportamenti
lesivi dello stesso interesse.
L'ipotesi resta centrata sul fatto degli amministratori,
come nell'attuale articolo 2623, numero 3, del codice civile,
ma si amplia ad offrire tutela al controllo, oltre che dei
soci o dei sindaci, anche delle società di revisione.
Un'ipotesi di illecito amministrativo è contemplata dal
numero 5) della lettera a) del citato comma 1, che
prevede la riformulazione in termini più generali, per evitare
minute previsioni sanzionatorie di scarso spessore (quale
l'attuale articolo 2635 del codice civile), della disposizione
dettata dall'articolo 2626 del codice civile.
Nei numeri 6), 7), 8) e 9) della medesima lettera a)
sono enunciati i criteri direttivi per la revisione delle
fattispecie
poste a tutela dell'effettività ed integrità del capitale
sociale.
Pur nel rispetto delle coordinate fondamentali del sistema
vigente, il nuovo regime prefigura una energica riduzione del
numero delle figure criminose, in chiave di adeguamento ai
princìpi di extrema ratio e di necessaria offensività
dell'illecito penale, con conseguente rinuncia all'attuale
estesa penalizzazione delle regole civili che presiedono alle
operazioni potenzialmente pericolose per il capitale.
In tale prospettiva, il numero 6) delinea, anzitutto, la
fattispecie della formazione fittizia del capitale, intesa a
colpire unitariamente le condotte che incidono, inquinandolo,
sul processo "genetico" del nucleo patrimoniale protetto, nei
due momenti della costituzione della società e dell'aumento di
capitale.
La fattispecie è costruita come reato di evento
(formazione o aumento fittizio del capitale) a condotta
vincolata. Le condotte integrative del delitto (attribuzione
di azioni o quote sociali per somma inferiore al loro valore
nominale, sottoscrizione reciproca di azioni o di quote,
rilevante sopravvalutazione dei conferimenti di beni in natura
o di crediti ovvero del patrimonio della società che si
trasforma) corrispondono, in parte, a quelle già contemplate
(nella cornice, peraltro, di reati di mera condotta) da norme
incriminatrici vigenti (articoli 2629, 2630, numeri 1) e 2),
del codice civile). Resta salva, comunque, in base alla
lettera b) del comma 1 dell'articolo 10 - per questa
come per le altre fattispecie di omologa ispirazione - la
possibilità di un coordinamento (anche mediante estensione
delle previsioni punitive a violazioni similari) con la nuova
disciplina del capitale sociale, delle riserve e delle azioni
che sarà introdotta in attuazione dei criteri civilistici di
delega.
Il numero 7) contempla la figura delittuosa dell'indebita
restituzione dei conferimenti, la quale, atteggiandosi a
fattispecie generale di salvaguardia dell'integrità del
capitale, punisce - sulla falsariga del vigente articolo 2623,
numero 2), del codice civile - la restituzione, anche in forme
simulate, dei conferimenti ai soci o la loro liberazione
dall'obbligo di eseguirli, fuori dei casi di legittima
riduzione del capitale sociale.
Il numero 8) propone la fattispecie dell'illegale
ripartizione degli utili e delle riserve, intesa a dare nuova
ed unitaria veste alle figure criminose attualmente previste
dai numeri 2) e 3) dell'articolo 2621 del codice civile.
Le novità attengono, in primo luogo, al pieno allineamento
delle due ipotesi - oggi soggette a trattamento differenziato
- della distribuzione di utili e di acconti sugli stessi:
prevedendosi, in entrambi i casi, che la reazione punitiva
scatti solo di fronte a ripartizioni di utili non
effettivamente conseguiti o non distribuibili, in quanto
destinati per legge a riserva.
Al fine di fugare le odierne incertezze interpretative
circa la riconducibilità al modello punitivo dell'indebito
riparto di riserve non formate con utili di gestione, è stata
altresì configurata come condotta autonomamente rilevante la
ripartizione di qualsiasi riserva, anche non da utili, che non
possa essere per legge distribuita.
Per converso, tanto in rapporto alla ripartizione degli
utili che delle riserve, l'area di protezione penalistica è
stata circoscritta alle sole riserve obbligatorie per legge,
con esclusione delle riserve non distribuibili per statuto. Si
è ritenuta, infatti, non sufficientemente giustificata,
nell'ottica della tutela del capitale, la salvaguardia
penalistica di un vincolo patrimoniale che, in quanto
originato da una deliberazione dei soci, attiene
essenzialmente alla sfera "interna" dei rapporti
amministratori-assemblea.
Riguardo alla figura delle illecite operazioni sulle
azioni o quote sociali o della società controllante, il
criterio dettato dal numero 9) prelude ad una costruzione
della norma incriminatrice nel segno dell'autonomia rispetto
alle disposizioni civili che regolano dette operazioni a fini
di tutela del capitale sociale e delle riserve. Non basterà,
cioè, ad integrare il delitto, come nel sistema vigente
(articolo 2630, primo comma, numero 2), in riferimento agli
articoli 2357, primo comma, e 2359-bis, primo comma, del
codice civile), la
mera inosservanza di dette disposizioni, ma occorrerà che la
stessa abbia effettivamente determinato una indebita
menomazione della sfera patrimoniale tutelata.
Viene ovviamente confermata, anche in rapporto alla
fattispecie in parola, la limitazione della protezione penale
alle sole riserve non distribuibili per legge.
Ugualmente nella direzione del rispetto del principio di
necessaria offensività del reato si muove il criterio
direttivo di cui al numero 10), concernente la fattispecie
delle operazioni in pregiudizio dei creditori.
Sganciandosi dalla logica della tutela penale puramente
"sanzionatoria", cui è ispirato il vigente articolo 2623,
numero 1, del codice civile, l'esecuzione di riduzioni di
capitale ovvero di fusioni con altra società o scissioni è
sottoposta a pena, non per la mera violazione delle
disposizioni di legge poste a tutela dei creditori sociali, ma
in quanto da tale violazione sia derivato un concreto
pregiudizio per i titolari dell'interesse protetto.
La fattispecie dell'indebita ripartizione dei beni sociali
da parte dei liquidatori, contemplata dal numero 11),
corrisponde a quella dell'articolo 2625 del codice civile. Il
tratto differenziale è rappresentato dalla previsione di un
evento di danno per i creditori, ad evitare che la punizione
dell'inosservanza della regola che impone di anteporre questi
ultimi ai soci nel riparto del ricavato della liquidazione si
risolva nella criminalizzazione di un mero criterio di
successione cronologica nei pagamenti.
Di particolare rilievo è il criterio enunciato dal numero
12), che prelude all'introduzione nel nostro ordinamento di
una fattispecie di infedeltà patrimoniale, ben nota (sia pur
con diverse configurazioni) nell'esperienza comparatistica.
La scelta si connette alla sperimentata incapacità
dell'attuale sistema repressivo a fornire risposte adeguate
alle esigenze di tutela del patrimonio sociale contro gli
abusi dei titolari di poteri gestori. E convinzione diffusa,
infatti, che la manifesta insufficienza dell'impianto di
settore - che propone, su tale versante, figure criminose poco
incisive e di taglio formalistico <vedi, in particolare, gli
articoli 2624, 2630, secondo comma, numero 1), e 2631 del
codice civile> - non trovi adeguato correttivo nelle
potenzialità delle norme incriminatrici comuni in tema di
delitti contro il patrimonio (in primis, appropriazione
indebita e truffa).
Riguardo alla concreta configurazione della fattispecie,
si sono peraltro scartate soluzioni imperniate su concetti del
tipo "abuso dei poteri" o "violazione dei doveri", il cui
impiego rischierebbe di dilatare eccessivamente la figura
criminosa e di renderne incerti i confini, collegando invece
la reazione punitiva (sulla falsariga di quanto già previsto,
nei rapporti tra intermediari finanziari e clientela,
dall'articolo 168 del TUF) agli atti di infedeltà posti in
essere in una situazione di conflitto di interessi.
Presupposto, quest'ultimo, da intendere peraltro riferito a
contrapposizioni d'interessi obiettive e preesistenti alla
condotta, e non già emergenti solo in occasione di
quest'ultima.
In pari tempo, la fattispecie è stata strutturata come
reato di azione con evento di danno, identificando la condotta
incriminata nel compimento o nella partecipazione alla
deliberazione di atti di disposizione dei beni sociali,
produttivi di danno patrimoniale per la società.
Sul versante soggettivo, la fattispecie è poi
ulteriormente circoscritta dalla previsione di un dolo
specifico di ingiusto profitto per l'agente o per altri.
Al fine di evitare disparità di trattamento prive di
razionale giustificazione, l'incriminazione risulta estesa ai
fatti commessi in relazione a beni posseduti o amministrati
dalla società per conto di terzi e che abbiano cagionato un
danno patrimoniale a questi ultimi.
L'ultima parte del numero 12) esclude il carattere
dell'ingiustizia del profitto della società collegata o del
gruppo, quando lo stesso risulti compensato da vantaggi, anche
se soltanto ragionevolmente prevedibili (e, dunque,
indipendentemente dalla loro effettiva verificazione o da
rigidi "bilanciamenti" quantitativi), derivanti dal
collegamento o dall'appartenenza al gruppo. L'obiettivo è
quello di evitare che la fattispecie si presti a qualificare
penalmente, in
presenza di situazioni di conflitto "formale" tra società del
medesimo gruppo, operazioni che, isolatamente considerate,
avvantaggino l'una società ai danni dell'altra, ma si
inseriscano in un panorama di scambi intragruppo, anche in
fieri, idonei ad assicurare in prospettiva un complessivo
riequilibrio dei rapporti.
Accogliendo puntuali istanze provenienti da sedi
internazionali e razionalizzando una direttrice d'intervento
già sottesa - sia pure allo stadio "embrionale" - a norme
incriminatrici vigenti, il numero 13) prevede una innovativa
fattispecie di corruzione, che esporta in campo privatistico
societario, con gli opportuni adattamenti (intesi anche ad
orientare la fattispecie in chiave di protezione del
patrimonio sociale, piuttosto che di un astratto "dovere di
fedeltà" degli amministratori, direttori generali, sindaci,
liquidatori e responsabili della revisione), il tradizionale
modello punitivo della corruzione (propria) di pubblico
ufficiale.
Al numero 14) sono enunciati i princìpi ispiratori per la
nuova formulazione del delitto di indebita influenza
sull'assemblea.
Questo si trasforma, da reato proprio, qual è attualmente,
in reato comune, essendo apparse meritevoli di sanzione anche
le condotte di manipolazione dell'assemblea ascrivibili a
soggetti che non rivestono la qualifica di amministratori,
quali ad esempio i soci. Viene altresì conferita maggiore
determinatezza alla condotta, precisando le note modali
dell'illecito; nel contempo, si richiede un concreto risultato
lesivo (l'illecita determinazione della maggioranza),
strumentale al conseguimento di un ingiusto profitto.
L'omessa convocazione dell'assemblea, attualmente prevista
come delitto, viene dal numero 15) trasformata in semplice
illecito amministrativo - configurazione che appare
sufficiente per un efficace presidio - e riferita in termini
unitari ad amministratori e sindaci, in modo da eliminare
l'odierna disparità di trattamento sanzionatorio fra gli uni e
gli altri.
Al fine di attribuire la necessaria determinatezza alla
fattispecie, si prevede, altresì, che il legislatore delegato
precisi, nell'eventuale silenzio della legge o dello statuto,
il termine per l'adempimento richiesto.
La rinnovata ipotesi di aggiotaggio, di cui al numero 16),
è destinata ad accorpare, in un'unica figura di reato, le
disperse e poco applicate fattispecie contenute nel codice
civile (articolo 2628), nel TUF (articolo 181) e nel decreto
legislativo n. 385 del 1993, di seguito denominato "testo
unico bancario" (articolo 138).
La disposizione risulta ispirata ad un obiettivo di
semplificazione e, nel contempo, di precisazione degli
elementi costitutivi. Viene eliminato, così, il riferimento
alle notizie "esagerate o tendenziose", espressione
sovrabbondante rispetto al requisito della falsità, risolvendo
le altre note modali della condotta nelle "operazioni simulate
o altri artifici". Un ulteriore affinamento - anche sul piano
della concreta lesività - è affidato al requisito
dell'idoneità a provocare un'alterazione dei prezzi,
qualificata anche da una specificazione dimensionale
("sensibile"), con funzione selettiva delle condotte
punibili.
Nella seconda parte è trasfuso quanto appare ancora
razionalmente attuale della figura dell'aggiotaggio
bancario.
La lettera b) del comma 1 affida al legislatore
delegato il compito di coordinare ed armonizzare le numerose
fattispecie, previste dalla legislazione vigente, in tema di
falsità nelle comunicazioni agli organi di vigilanza, di
ostacolo allo svolgimento delle funzioni e di omesse
comunicazioni alle autorità medesime: capitolo, questo, di
notevole rilievo per completare organicamente la tutela penale
dell'informazione societaria, considerata, questa volta, nella
sua destinazione all'autorità preposta alla vigilanza del
settore (CONSOB, Banca d'Italia, ISVAP, eccetera).
Sempre sul piano del coordinamento, è altresì demandato al
legislatore delegato di calibrare le norme incriminatrici a
tutela del capitale sociale - di cui ai numeri 6), 7), 8) e 9)
della lettera a)- con la nuova disciplina civilistica
del capitale sociale, delle riserve e delle azioni.
La lettera c) del citato comma 1 prevede
espressamente l'abrogazione di talune fattispecie
criminose, la cui perdurante presenza nel sistema appare
priva di adeguata giustificazione. Tali, in particolare, il
delitto di divulgazione di notizie sociali riservate, di cui
all'articolo 2622 del codice civile (praticamente ignoto nella
pratica applicativa e destinato ad essere surrogato da una
circostanza aggravante del reato comune di rivelazione del
segreto professionale, ex articolo 622 del codice penale) ed
il delitto di mendacio bancario (anch'esso finora quasi mai
applicato).
E' prevista, altresì, la soppressione dei delitti degli
amministratori giudiziari e dei commissari governativi:
mentre, infatti, per quanto attiene all'estensione delle
ipotesi di reati societari ai soggetti ora richiamati
(attualmente prevista dall'articolo 2636 c.c.), risponde
meglio allo scopo la previsione di carattere generale ora
introdotta alla lettera e), seconda parte, del citato comma 1
riguardo alle ipotesi speciali previste dagli articoli
2636-2639 del codice civile, non sussistono ragioni per
mantenere una disciplina derogatoria di quella generale in
tema di delitti dei pubblici ufficiali.
Nell'ottica di evitare un'eccessiva rigidità nella griglia
delle incriminazioni, la lettera d) del comma 1
dell'articolo 10 prevede l'introduzione di una circostanza
attenuante, applicabile alla generalità delle fattispecie,
basata sulla modesta lesività del fatto e destinata a
collocarsi in uno spazio autonomo rispetto alla circostanza
comune di cui all'articolo 62, numero 4), del codice penale,
per l'assenza di una valutazione in termini patrimoniali
dell'offesa. Viene altresì accordata al legislatore delegato
la facoltà di prevedere circostanze aggravanti specifiche
connesse alla qualifica soggettiva degli autori dei singoli
delitti, ove la stessa risulti significativa sul piano
dell'offensività della condotta.
La lettera e) reca indicazioni sul tema dei
"soggetti".
Nell'intento di garantire maggiore certezza
all'applicazione pratica delle norme incriminatrici, si
affronta, in particolare, il tema della individuazione del
cosiddetto "amministratore di fatto": figura largamente
riconosciuta in giurisprudenza ed al centro di vasto dibattito
dottrinale.
L'esercizio "di fatto" delle funzioni viene definito come
rilevante, per l'assunzione delle responsabilità inerenti alla
qualifica formale (non posseduta), solo qualora l'attività
svolta presenti elementi in grado di omologarla con quella
tipica: ossia continuità nel tempo (in modo da escludere che
atti isolati possano produrre conseguenze sul piano della
responsabilità) e significatività rispetto alla gestione
complessiva della società ed ai poteri caratteristici della
funzione.
L'istituto della confisca è oggetto, nella lettera
f), di un rafforzamento, in coerenza con le
sollecitazioni della dottrina e con il panorama
comparatistico. Si prevede, in particolare, la confisca
obbligatoria, oltre che del prodotto o del profitto dei reati
di cui alle lettere a) e b), anche dei beni
utilizzati per commetterli, introducendo altresì la forma "per
equivalente", ossia avente ad oggetto una somma di denaro o
beni di valore corrispondente ai predetti elementi, qualora
questi siano di impossibile recupero.
La confisca viene inoltre estesa ai beni appartenenti a
società, enti o soggetti, che altrimenti sarebbero definibili
come "estranei al reato" ai sensi dell'articolo 240 del codice
penale: alla condizione, peraltro, che il reato sia stato
commesso nell'interesse dei medesimi.
Si tratta di innovazioni che sono già in parte penetrate
nell'ordinamento: ad esempio con la modifica dell'articolo 644
del codice penale, in tema di usura.
In coerenza con le linee guida dell'impianto, la lettera
g) impone di riformulare le norme penali fallimentari
che richiamano reati societari (vedi, in particolare,
l'articolo 223, secondo comma, numero 2, della legge
fallimentare), in modo da limitarne l'applicazione ai soli
casi in cui tra la commissione dei reati societari ed il
dissesto sussista, in concreto, un rapporto causale.
Il tema della responsabilità delle persone giuridiche, e
in specie delle società, è stato affrontato alla luce delle
ormai univoche indicazioni in sede internazionale e
dei vincoli che gravano in questo settore sul nostro
ordinamento.
Una riforma nel senso del superamento del tradizionale
principio societas delinquere non potest coinvolge
valutazioni e misure che spettano solo al legislatore del
codice penale, trattandosi di un istituto di carattere
generale. Si è ritenuto, tuttavia, che nell'ambito della
riforma del diritto penale delle società non potesse non
trovare posto la previsione di una responsabilità di natura
amministrativa, essendo il coinvolgimento della persona
giuridica, per l'illecito commesso per suo conto o nel suo
interesse, un condizione necessaria per un'efficace tutela dei
beni esposti all'aggressione della criminalità d'impresa.
Cogliendo le preoccupazioni per le ripercussioni negative
che siffatta responsabilità potrebbe avere sulla stabilità
dell'impresa e sui molteplici interessi dalla stessa
coinvolti, si è comunque previsto che le sanzioni
amministrative pecuniarie siano comprese tra un minimo e un
massimo (con esclusione di meccanismi proporzionali), e siano
suscettibili di aumento o di diminuzione in rapporto alle
condizioni economiche della società, secondo il modello
dell'articolo 133-bis del codice penale. Appare invero
in ogni caso positivo, a fini preventivi, che i soci sappiano
che almeno parte del loro investimento può essere eroso dalla
condotta illecita dei managers, stimolando così
l'attività di controllo; ma lo stesso "circolo virtuoso" può
riferirsi anche alla struttura cui è affidata la gestione, che
dovrebbe essere sollecitata a intraprendere le azioni
necessarie per evitare che si creino condizioni favorevoli
alla commissione di reati.
Questa pressione sui vertici della società giustifica
anche la previsione di una responsabilità in capo alla società
nei casi in cui il reato sia stato bensì commesso da soggetti
non apicali, ma avrebbe potuto essere impedito da un'adeguata
e doverosa vigilanza dei soggetti sovraordinati.
Si prevede, infine, che la sanzione possa essere sospesa
qualora la società dimostri di aver adottato misure in grado
di scongiurare il ripetersi di altri fatti di reato. E qui
evidente il richiamo, seppur consapevolmente parziale,
all'esperienza dei cosiddetti "compliance program", la
quale illustra l'utilità di limitare l'applicazione della
sanzione ai soli casi nei quali la società non abbia mostrato
l'intenzione e la capacità di adottare misure volte
all'individuazione dei responsabili ed alla prevenzione degli
illeciti.
La lettera i) prevede l'abrogazione delle vigenti
norme in materia di reati societari, nonché di tutte le
disposizioni incompatibili con le nuove fattispecie. Al
legislatore delegato è altresì affidato il compito di
coordinare ed armonizzare con esse le norme vigenti,
individuandone la più opportuna collocazione, nella
prospettiva tendenziale dell' accorpamento e della
semplificazione.
11. (Nuove norme sulla giurisdizione).
Le disposizioni del comma 1 intendono anzitutto
prefigurare, in termini generali, il modello di giudice cui
devolvere le controversie e la trattazione di ogni altro
ricorso camerale in materie che richiedono un elevato tasso di
conoscenze specifiche nei settori dell'economia, del commercio
e della finanza. Dovrebbe trattarsi di un giudice inserito
nella struttura dei tribunali delle città sedi di corte
d'appello e, perciò, configurato come sezione specializzata
dei tribunali medesimi. Nell'area di competenza per materia di
tale sezione specializzata ricadono innanzitutto tutte le
questioni in materia societaria, ricomprese le cessioni delle
partecipazioni sociali e i patti parasociali. Tenuto conto
della elevata specializzazione di detta sezione nel settore
del diritto dell'economia, si è ritenuto di inserire anche le
questioni in materia di concorrenza, brevetti e segni
distintivi dell'impresa nel rispetto degli impegni comunitari
e internazionali, nonché le questioni disciplinate dal TUF e
dal testo unico bancario. Ciò anche per assicurare una "massa
critica" di controversie sufficiente a giustificare
l'istituzione di appositi organi giurisdizionali in tutte le
attuali sedi di corte d'appello.
Tenuto conto delle ragioni che sono alla base della
riforma si è ritenuto di ricomprendere
nella competenza delle sezioni specializzate anche la materia
concorsuale, la cui trattazione richiede un elevato grado di
comprensione dei problemi economici, finanziari e patrimoniali
delle imprese. Si è però ritenuto che fosse eccessivo e
controproducente porre a carico di dette sezioni l'onere di
fronteggiare l'ingente numero di istanze di fallimento (spesso
finalizzate solo ad esercitare pressione sul debitore per
accelerare il pagamento di debiti) da cui sono gravati i
tribunali italiani; e, per analoghe ragioni, è apparso
inopportuno attribuire alle medesime sezioni anche i compiti
gestori inerenti alle procedure concorsuali. Ciò anche in
ossequio al principio di terzietà del giudice, che male si
adatta a situazioni in cui il magistrato che valuta
l'opportunità di promuovere un'azione per il fallimento ed il
magistrato che su quell'azione è poi chiamato a giudicare
fanno parte del medesimo organo giurisdizionale. Il
legislatore delegato potrà poi valutare più in dettaglio come
articolare l'accennata distinzione di competenza (ad esempio,
attribuendo alla sezione specializzata la funzione di giudice
dell'opposizione a dichiarazione di fallimento).
Con riguardo a tutte le materie di cui si tratta, lo
stesso legislatore delegato dovrà disciplinare la competenza
in caso di connessione con procedimenti aventi oggetto diverso
e, più in generale, fissare regole processuali che agevolino
la definizione immediata e definitiva di qualsiasi dubbio in
tema di competenza.
La riforma è circoscritta all'area giurisdizionale oggi
riservata al giudice ordinario, e dunque prescinde da ogni
intento di rivedere gli incerti confini tra giurisdizione
ordinaria ed amministrativa, anche se, tenuto conto della
istituzione di un giudice specializzato, questi confini
potranno essere ripensati in un prossimo futuro soprattutto
nel settore del diritto dell'economia.
La regolamentazione dei mezzi di gravame avverso i
provvedimenti emessi dalla sezione specializzata non si presta
ad un approccio unitario. A parte le diversità di regime già
esistenti, in proposito, tra giurisdizione contenziosa e
volontaria, nonché in molte fattispecie comprese nell'una e
nell'altra di tali categorie, potrebbe essere opportuno
lasciare spazio ad ulteriori diversificazioni in ragione delle
differenti esigenze di tutela che di volta in volta si pongono
e che già ora hanno determinato, in taluni campi, la
previsione di un giudizio di merito in unico grado. E' apparsa
perciò preferibile una disposizione di carattere generico, che
faccia salve tali diversità, ma nel contempo eviti il rischio
di un giudice dell'impugnazione meno competente, in termini di
professionalità specifica, rispetto a quello che ha emesso il
provvedimento impugnato. Tale esigenza non può non valere
anche per la cassazione, non solo perché pure quel giudice può
essere oggi chiamato a valutazioni che attengono al merito
(confronta articolo 384, primo comma, del codice di procedura
civile) ma anche perché la corretta formulazione di un
giudizio di legittimità non può comunque prescindere dalla
totale comprensione dei profili di merito.
11.1. L'attuale dislocazione sul territorio nazionale di
un elevato numero di tribunali, molti dei quali con organici
di dimensioni medio-piccole, sconsiglia la istituzione di
sezioni specializzate presso ciascuno di tali tribunali, che
solo saltuariamente avrebbero occasione di trattare questioni
commerciali. Un adeguato grado di specializzazione nella
materia presuppone, viceversa, l'esame di una ricca e varia
casistica, che consenta al giudice di aggiornare costantemente
e di affinare progressivamente la propria esperienza
specifica. Donde la scelta di prevedere una competenza
territoriale di dimensione distrettuale; scelta cui, in un
settore fortemente dinamico qual è quello del diritto
commerciale, non sembrano ostare serie ragioni di
accessibilità del servizio giustizia per i cittadini più
decentrati.
Scartata l'ipotesi di un tribunale di commercio "alla
francese", formato solo da esponenti del mondo commerciale, e
che è attualmente oggetto di un intervento di riforma per
contrastare non solo situazioni degenerative ma anche per
recuperare
una terzietà del giudice, la composizione della sezione
specializzata potrebbe alternativamente ispirarsi a due
diversi modelli, già presenti nel nostro ordinamento: quello
del giudice del lavoro e quello del giudice agrario e
minorile. Il primo fa leva su un elevato grado di
specializzazione dei magistrati addetti alla trattazione
esclusiva della materia, il secondo integra nello stesso
organo giudicante esperti di settore dotati di professionalità
diverse da quelle del giudice togato. La seconda soluzione
presenta serie controindicazioni.
L'individuazione dei componenti non togati appare,
infatti, tutt'altro che agevole, dovendosi per un verso
assicurarne l'elevato livello professionale e, per altro
verso, evitare il rischio di far cadere la scelta su soggetti
che, proprio per la loro elevata professionalità, siano
consulenti abituali di imprenditori interessati all'affermarsi
dell'uno piuttosto che dell'altro indirizzo giurisprudenziale.
Quella scelta implicherebbe, poi, la necessità di configurare
l'organo giudicante sempre in forma collegiale. Ciò ha indotto
a privilegiare il primo dei due modelli suindicati.
Sembra in ogni caso opportuno prevedere strumenti
specifici di formazione ed aggiornamento professionale dei
magistrati che - secondo adeguati sistemi di rotazione -
comporranno le sezioni in esame, essendo notoriamente la
preparazione dei giuristi assai poco orientata alla conoscenza
dei fenomeni economici, la cui comprensione è del pari assente
nei criteri di selezione per l'accesso all'ordine
giudiziario.
11.2. E' nota la difficoltà di conciliare i tempi di un
processo ordinario con le esigenze di certezza degli atti e
dei rapporti giuridici in campo economico. Una pronuncia che
ponesse nel nulla gli effetti, ad esempio, di una
deliberazione di aumento di capitale sociale già da tempo
eseguito, dopo che siano stati già emessi i relativi titoli
azionari e questi abbiano preso a circolare, determinerebbe
una delicatissima situazione. Si rischierebbe,
alternativamente, di mettere a repentaglio una serie di
posizioni giuridiche derivate a catena da quella emissione,
oppure - ove ciò non fosse ritenuto possibile - di rendere la
pronuncia giudiziale sostanzialmente lettera morta. Proprio
per evitare situazioni di tal fatta sono state emanate, in
determinati settori, norme di sbarramento che impediscono di
invalidare atti societari dopo la loro iscrizione nel registro
delle imprese (si pensi all'articolo 2504-quater del
codice civile, sul cui modello potrebbero essere disciplinati
gli effetti sananti della pubblicità anche per altri tipi di
deliberazioni societarie). Per le medesime ragioni, in termini
anche più generali, accade però che la fase decisiva di quasi
tutte le controversie in tema di validità delle deliberazioni
assembleari di società si concentri nell'eventuale
provvedimento di sospensione della deliberazione impugnata. Se
la sospensione è concessa, quella deliberazione sarà ormai
infatti destinata a non avere mai più esecuzione; se,
viceversa, essa è negata, difficilmente sarà poi possibile
rimettere in discussione, a distanza di anni, gli effetti
irreversibilmente prodotti dalla deliberazione medesima:
sicché la causa, di fatto, continuerà ormai solo in una
prospettiva risarcitoria (se non soltanto per le spese).
Si è ritenuto pertanto opportuno introdurre in modo più
esplicito - e, soprattutto, più generale - un procedimento
d'urgenza espressamente destinato, in questo settore, alla
cosiddetta "tutela reale", sufficientemente rapido da
assicurare l'effettività di siffatta tutela, ma nel contempo
tale da salvaguardare il diritto di difesa degli interessati.
A questo scopo tende il procedimento di tipo cautelare,
previsto dal comma 2, lettera b), rispetto al quale la
successiva instaurazione del giudizio di merito è solo
facoltativa. Dovrebbe restare fermo, comunque, che il
provvedimento immediato, ancorché definitivo in punto di
tutela reale, non è suscettibile di produrre un vero e proprio
giudicato (incompatibile con i caratteri pur sempre sommari
del giudizio in questione) e quindi non pregiudica la
possibilità di rimettere in discussione ad altri fini la
validità dell'atto impugnato, promuovendo ad esempio un
successivo
giudizio ordinario avente ad oggetto eventuali pretese
risarcitorie.
Lo strumento conciliativo nelle controversie in materia
commerciale - vuoi quelle trattate con rito ordinario, vuoi
quelle incardinate nel procedimento d'urgenza - è di
particolare utilità. Potrebbe solo dubitarsi dell'opportunità
di prevedere il tentativo di conciliazione come obbligatorio o
come solo facoltativo nel corso del procedimento. I connotati
di particolare specializzazione del giudice ed il peculiare
carattere di alcune delle controversie che potrebbero essere
sottoposte al suo esame (si pensi, ad esempio, alle materie
previste dalla legislazione antitrust, dal testo unico
bancario o dal TUF), fanno propendere per la soluzione più
flessibile lasciando al giudice la valutazione circa
l'opportunità di esperire il tentativo.
Appare comunque utile, in tale contesto, prevedere
espressamente che il giudice abbia la possibilità di assegnare
un termine per la eventuale rimozione delle ragioni di
lite.
Per assicurare effettività e serietà al tentativo di
conciliazione viene attribuito al giudice il compito di
formulare concrete proposte conciliative e prevedere - sul
modello delle controversie in tema di pubblico impiego - che
si tenga conto dell'atteggiamento assunto al riguardo dalle
parti al fine di attribuire le spese di lite.
Il ricorso ai procedimenti camerali in materia commerciale
si è spesso rivelato un utile strumento di risoluzione rapida
di questioni che solo con molte difficoltà avrebbero trovato
uno sbocco in sede contenziosa. In questa stessa utilità si
nasconde, però, il rischio dell'abuso dello strumento, ossia
di trasformare quei procedimenti in scorciatoie per la
definizione di vertenze in modo sommario e senza adeguate
garanzie. Rischio soprattutto derivante dall'esilità e dalla
eccessiva multifunzionalità del modello processuale offerto
dal codice in tema di procedimenti camerali. Donde la
necessità di introdurre regole procedurali più specificamente
calibrate sulle diverse esigenze dei procedimenti camerali in
materia commerciale, con la conseguenza che il legislatore
delegato potrà, se del caso, fissare regole più aderenti alle
caratteristiche, ad esempio, del procedimento di omologazione,
di quello ex articolo 2409 del codice civile, di quello
per la nomina giudiziale dei liquidatori, eccetera.
Costituisce una significativa innovazione l'istituzione di
forme di pubblicità sui tempi medi di trattazione, distinti
per tipologie di questioni, nelle diverse sedi giudiziarie.
Così come sarebbe utile impegnare i responsabili degli uffici
giudiziari interessati a fare previsioni sui tempi di
trattazione futuri, per confrontare poi i risultati conseguiti
con le previsioni formulate. Il confronto e la necessità di
eventualmente giustificare un eccessivo allungamento dei tempi
potrebbero anche costituire un benefico stimolo per una più
razionale organizzazione delle risorse di cui ciascun ufficio
dispone.
Nella materia societaria sono spesso sorti dubbi circa la
possibilità di ricorrere allo strumento arbitrale, perché non
sempre è ben certo il confine tra l'area della disponibilità e
quella dell'indisponibilità dei diritti dedotti in lite. La
maggiore difficoltà risiede, com'è chiaro, nell'esistenza di
interessi di carattere generale (o comunque diffuso) spesso
toccati dalle deliberazioni impugnate. Per agevolare il
superamento di tali difficoltà si sono previsti arbitrati che,
pur vertendo su materie ritenute di per sé non disponibili,
siano circoscritti, nella loro effettiva portata, alla sola
posizione delle parti in lite e quindi, sostanzialmente, non
siano in grado di intaccare i profili reali degli atti oggetto
di controversia.
Infine, deve essere evitato il rischio che su uffici di
nuova istituzione, già per questo inevitabilmente bisognosi di
un periodo di rodaggio, si scarichi immediatamente il peso di
un arretrato. Il che potrebbe apparire penalizzante per chi
sia interessato alla trattazione di cause già da gran tempo
pendenti. Tuttavia, il pericolo di compromettere sin da
principio la prospettiva di una giustizia commerciale
funzionale sembra tale da giustificare una scelta che,
comunque, il
legislatore delegato resta libero in qualche misura di
graduare.
12. L'istituzione di sezioni specializzate presso i
tribunali sedi di corte di appello previste dall'articolo 11
non comporta oneri aggiuntivi, né in termini di spese di
personale amministrativo e di magistratura, né in termini di
spese di funzionalità delle sezioni stesse.
Alle sezioni, infatti, verrà applicato parte del personale
già in servizio negli uffici giudiziari, tenuto conto anche
dell'incremento dell'organico del personale di magistratura
previsto dal disegno di legge recante: "Aumento del ruolo
organico e disciplina dell'accesso in magistratura", approvato
dal Consiglio dei ministri nella riunione del 22 marzo 2000 ed
attualmente all'esame del Senato della Repubblica AS n.
4563.
Le spese di funzionamento, infine, possono essere
soddisfatte con gli ordinari stanziamenti di bilancio.