PROGETTO DI LEGGE - N. 7123




        Onorevoli Deputati! - 1. (Linee guida della riforma).

        Il legislatore del 1942 - nell'attuare l'unificazione del codice civile e del codice di commercio - avvertì pienamente come il dato economico di riferimento della normativa che ancora oggi, per tradizione, viene chiamata "commerciale", stava subendo uno spostamento dal commercio in senso economico all'industria; recepì tale situazione ponendo al centro della normativa non più l'atto di commercio ma l'impresa.
        Parallelamente, il fenomeno societario fu costruito come "forma di esercizio collettivo dell'impresa", così staccando decisamente l'istituto dalla tradizione romanistica e civilistica.
        Per le società di capitali, cioè le società la cui struttura organizzativa fa perno sul dato patrimoniale in evidente connessione con la limitazione di responsabilità, il sistema del codice del 1942 fece capo a tre modelli: società per azioni; società a responsabilità limitata; società in accomandita per azioni.
        Tralasciando la accomandita per azioni, legata a particolari esigenze, e di scarsa, marginale applicazione pratica, il legislatore del 1942, nell'introdurre la società a responsabilità limitata (figura derivata in principio, se pur non completamente nella disciplina, dall'esperienza tedesca) affermò che la creazione derivava dalla "necessità di apprestare la responsabilità limitata a quelle organizzazioni sociali di minore entità che finora assumevano le forme della società per azioni e che per l'avvenire, di fronte alle imposizioni di un capitale minimo di un milione della società per azioni, questa forma non potrebbero più assumere" (relazione al Re).
        L'intento del legislatore non si è realizzato per una pluralità di concorrenti ragioni: il venire meno di ogni significato economico del capitale minimo; la circostanza che la disciplina delle società a responsabilità limitata fu modellata in principio, salvo modifiche non essenziali e veramente caratterizzanti, sulla disciplina delle società per azioni, così trasferendo all'istituto rigidità ed oneri eccessivi rispetto al modello economico di riferimento; il venire meno della possibilità delle azioni al portatore, con riguardo alle quali la disciplina originaria delle società per azioni fu costruita.
        Si è così determinato nella pratica un massiccio, diffuso ricorso al modello della società per azioni, ed una parallela marginalizzazione del modello delle società a responsabilità limitata, con un distacco tra schema legale e sua applicazione, fatto palese dalla circostanza che in Germania sussistono circa 3 mila società per azioni (l'80 per cento delle quali quotate) e circa un milione di società a responsabilità limitata.
        Si ha dunque, oggi, una dilatazione eccessiva del ricorso al modello della società per azioni, da un livello minimo, per fenomeni cui sarebbe coerente in realtà il modello come lo pensò il legislatore della società a responsabilità limitata, fino ad un livello massimo, oggi rappresentato dalle società quotate.
        Sotto altro aspetto, la derivazione della disciplina della società a responsabilità limitata dal modello della società per azioni ha avuto l'effetto di scoraggiare l'adozione della forma societaria "di capitale" per le imprese di minore dimensione, soprattutto nella fase di iniziale sviluppo.

            1.1. La riforma vuole dare una risposta ai problemi, non più eludibili, conseguenti alla inadeguatezza della disciplina del codice rispetto alla attuale realtà economica del Paese.
        L'economia italiana ha sperimentato negli anni novanta un tasso di crescita dell'output potenziale inferiore di un punto percentuale a quello dei principali Paesi industrializzati. Tale divario non è spiegabile sulla base di un calo della produttività dei fattori, ma è conseguenza dei ridotti investimenti: il contributo dell'accumulazione di capitale alla crescita del prodotto interno lordo (PIL) è diminuito in Italia più che in altri Paesi europei, soprattutto nell'ultimo decennio. Questo dato segnala un problema di scarsa propensione agli investimenti delle imprese italiane e un'insufficiente reazione ai rischi e alle opportunità presentati dalla partecipazione all'unione monetaria.
        L'obiettivo di muovere verso una riforma che, nella tutela dei diritti dei terzi, favorisca l'imprenditorialità, è confortato dall'analisi economica che mostra come recentemente il contributo maggiore alla crescita sia soprattutto offerto da ciò che viene definito "residuo" (total factor productivity), rispetto all'incremento di capitale e di lavoro; esso comprende fattori quali la migliore qualità delle risorse, le nuove modalità organizzative e il progresso tecnico - in termini generali definiti "innovazione" - che sono funzione delle capacità imprenditoriali di un sistema. Tale "residuo" negli anni novanta ha contribuito per l'80 per cento alla crescita in Germania, per il 60 per cento in Francia e nel Regno Unito, per l'80 per cento in Italia, per oltre il 90 per cento negli Stati Uniti. L'importanza di tali fattori è destinata certamente ad aumentare in un'era in cui lo sviluppo tecnologico è più rapido e il progresso sempre più sostenuto dai settori innovativi (si pensi al ruolo che l'informatica, le telecomunicazioni e internet hanno avuto sul miracolo economico americano).
        Il supporto all'imprenditorialità e alle capacità innovative diviene in questo contesto una componente essenziale delle politiche volte a favorire la crescita di un sistema: l'attenzione si concentra, quindi, sulle imprese e, al loro interno, sulla funzione di amministrazione in particolare.
        La piena valorizzazione dell'imprenditorialità non può prescindere dalla rimozione di tutte quelle incertezze normative che, aggiungendosi alla normale alea dell'iniziativa economica, condizionano le scelte imprenditoriali, accrescendone la complessità e la rischiosità.
        Strumenti di tutela e di garanzia sono indispensabili; essi vanno opportunamente graduati in funzione delle esigenze effettivamente meritevoli di tutela. Esiste infatti un trade-off tra "certezza del controllo" e libertà di iniziativa imprenditoriale da una parte, e garanzia per gli investitori dall'altra, che va risolto in funzione della struttura e delle caratteristiche proprie del soggetto.
        Da un lato, le imprese che non necessitano di fonti di finanziamento esterne, con compagine societaria relativamente ristretta ed eventualmente caratterizzata da legami familiari, non devono sopportare gli stessi vincoli normativi imposti alle società quotate in materia di trasparenza, di organizzazione, di comunicazione, di controllo (ciò a vantaggio della libertà imprenditoriale e quindi della capacità innovativa).
        Dall'altro lato, perché permanga per le imprese un vantaggio connesso alla quotazione, legato essenzialmente alla maggiore disponibilità e al minore costo del capitale, va mantenuto un differenziale nelle garanzie fornite agli investitori, poiché queste rappresentano una delle ragioni di riduzione del costo del finanziamento.
        La finalità di offrire alle imprese un contesto normativo coerente e adeguato diviene in questa situazione essenziale per ridurre gli spazi di incertezza che influenzano negativamente le decisioni di investimento.
        Del resto, è largamente condivisa l'idea che la capacità competitiva di un sistema dipende, tra l'altro, dalla funzionalità delle regole che lo governano.
        In questo senso, può certamente parlarsi di competitività tra ordinamenti giuridici come elemento della competitività dei sistemi economici in un quadro complessivo di globalizzazione dell'economia.
        Ciò è confermato, del resto, dalle molteplici iniziative di riforma del diritto societario, assunte di recente o attualmente allo studio, anche negli altri Paesi maggiormente industrializzati, per cui la tempestività dell'intervento è altresì funzionale ad evitare disparità concorrenziali.
        La revisione del nostro diritto societario appare pertanto indispensabile per garantire parità competitiva alle nostre imprese rispetto a quelle estere: questa condizione, considerati gli attuali ritmi della produzione e della innovazione, va assicurata nel più breve tempo possibile.
        La riforma si pone anche l'obiettivo di ridurre la "asimmetria di disciplina" venutasi ancora più ad accentuare - a seguito del decreto legislativo n. 58 del 1998, recante il cosiddetto "testo unico della finanza" (TUF) - tra società emittenti titoli sui mercati regolamentati e società che fanno ricorso al pubblico risparmio con titoli non quotati, con conseguente grave rischio di disincentivazione della quotazione.
        L'intersecarsi della disciplina del mercato e di quella societaria in un disegno normativo volto soprattutto a modernizzare il mercato si colloca in una prospettiva che risulta chiara nella stessa indicazione del professor Draghi secondo cui "le regole che disciplinano il governo delle società e il mercato mobiliare sono, in certo senso, la garanzia della qualità dei prodotti che vengono scambiati sul mercato". Esiste, cioè, una relazione di causa ed effetto tra qualità delle regole di governo societario e qualità dei prodotti finanziari che vanno sul mercato mobiliare.
        Non vi è tuttavia da colmare solo questa "asimmetria" che, aggravando costi e oneri della società con titoli negoziati sui mercati regolamentati rispetto alle non quotate, ne disincentiva le quotazioni; vi è altresì l'urgenza di completare il disegno riformatore del TUF anche sotto il profilo di "corporate governance" delle stesse quotate, per la parte non ancora modificata, pervenendo quindi ad una riforma organica del diritto societario.
        Per altro verso vi è l'esigenza di introdurre garanzie, tutele e controlli anche per le società che, pur raccogliendo risorse tra il pubblico degli investitori, sfuggono alla disciplina del TUF, non negoziando titoli su mercati regolamentati.

            1.2. Tenuto conto di tali esigenze complessive, e ferma l'idea di fondo di una complessiva valorizzazione dell'autonomia statutaria che consenta all'imprenditore di adattare il "modello" alle proprie esigenze, la riforma prevede:

            a) un tipo società a responsabilità limitata, regolato in maniera organica e autonoma (dunque non più secondo la tecnica del rinvio adottata dal codice del 1942), modellato sulle esigenze proprie delle imprese a ristretta compagine sociale (ma non obbligatorio per queste ultime) e caratterizzato per l'ampio spazio riconosciuto all'autonomia statutaria, per la libertà delle forme organizzative e per la centralità della persona del socio;

            b) un tipo società per azioni, modellato sulle esigenze proprie delle imprese a compagine sociale "potenzialmente" ampia, caratterizzato dalla rilevanza centrale dell'azione, dalla circolazione della partecipazione sociale e dalla possibilità di ricorso al capitale di rischio: si avrebbe dunque un modello di base, affiancato da ipotesi nelle quali le società saranno soggette a regole caratterizzate da un maggiore grado di imperatività in considerazione dell'"effettivo ricorso al mercato dei capitali".

        Conseguentemente dovrebbero optare per la società a responsabilità limitata le imprese, anche di grandi dimensioni, con una ristretta compagine sociale e non intenzionate ad aprire il capitale a soci esterni investitori.
        Le imprese a ristretta compagine sociale dovrebbero trovare preferibile l'adozione del tipo società a responsabilità limitata, perché è più semplice, lascia maggiore spazio all'autonomia statutaria (soprattutto in materia di articolazione dell'organizzazione interna) ed è meno oneroso sotto il profilo amministrativo. Le società "chiuse" costituite nella forma delle società a responsabilità limitata che maturano l'intenzione di aprirsi al mercato dei capitali potranno avvantaggiarsi di una discip1ina sulle trasformazioni semplificata per transitare alla forma società per azioni.
        Dovrebbero, invece, adottare la forma società per azioni oltre alle imprese aperte al capitale di rischio esterno, quelle, anche di minori dimensioni, che intendono aprirsi nel futuro.
        Questa configurazione particolarmente elastica della società per azioni fa evidentemente venire meno l'esigenza di un tipo societario intermedio, destinato alle imprese che in prospettiva intendono aprirsi al mercato dei capitali.
        Le imprese con compagine sociale ristretta, ma intenzionate ad aprirsi al mercato dei capitali, non dovrebbero avere particolari problemi nell'adottare la forma della società per azioni, posto che essa, una volta attuata la riforma, dovrebbe godere di una disciplina semplificata rispetto a quella attuale, salvo che si tratti di società "aperte". Ciò è vero anche per le imprese minori, in quanto il modello società per azioni verrebbe a porsi in maniera neutrale rispetto alle dimensioni dell'impresa (ad esempio nella fissazione del capitale sociale minimo).
        Per ridurre il cosiddetto "scalino normativo" che il TUF ha determinato tra società quotate e società che fanno altrimenti ricorso al mercato dei capitali, è stata configurata una disciplina di base del tipo società per azioni - disponibile e adatta, come si è detto, per tutte le imprese - sulla quale si verrebbero ad innestare norme inderogabili per le società che fanno ricorso al mercato dei capitali. Queste norme imporrebbero vincoli normativi di entità intermedia tra la disciplina ordinaria delle società per azioni e quella delle società per azioni quotate stabilita dal TUF, al fine di approntare maggiore tutela per i soci di minoranza (ad esempio in materia di controlli contabili e sull'amministrazione ovvero di azione sociale di responsabilità). Dovrebbe così diminuire il disincentivo alla quotazione su mercati regolamentati indotto da oneri normativi per le società che intendono aprirsi al mercato dei capitali, garantendosi, nel contempo, una protezione delle ragioni dei soci investitori più penetrante rispetto al regime ordinario delle società per azioni.
        Per quanto riguarda il finanziamento delle società attraverso l'emissione di titoli di debito, che può costituire una prima forma di apertura al mercato dei capitali, anche in vista di ammettere nuovi soci al capitale di rischio, la riforma prevede:

            che vengano rimossi o attenuati i vincoli attualmente esistenti per l'emissione di obbligazioni da parte della società per azioni (ad esempio abbattendo le attuali restrizioni quantitative, semplificando le procedure, ammettendo la possibilità che vengano emessi strumenti non partecipativi di diversa natura);

            che le società a responsabilità limitata possano emettere titoli di debito, purché entro determinati limiti previsti dalla legge, tra i quali necessariamente dovrà rientrare il divieto di appello diretto al pubblico risparmio. L'apertura delle società a responsabilità limitata al mercato dei capitali dovrà in questa prospettiva avvenire per mezzo di investitori professionali qualificati.

        Per le cooperative, la riforma è diretta a favorire la nascita e lo sviluppo anche di queste imprese e la loro imprenditorialità, garantendo tuttavia la specificità del perseguimento dello scopo mutualistico che ne caratterizza e giustifica il "tipo".
        In materia penale, la riforma, oltre a conferire omogeneità alla normativa vigente, si propone da un lato l'obiettivo di ottenere una riduzione del numero e dell'ambito della fattispecie incriminatrici e, dall'altro, l'introduzione di fattispecie ed istituti nuovi per colmare lacune da tempo lamentate.
        Sul piano della tutela giurisdizionale, la riforma vuole garantire un maggiore grado di prevedibilità dei tempi e dei risultati dell'intervento del giudice. Al conseguimento di tali obiettivi sono dirette, da un lato, la configurazione di un giudice professionalmente attrezzato a comprendere sia i presupposti di fatto sia le conseguenze dell'intervento che gli viene richiesto, dall'altro lato, la previsione di strumenti processuali coerenti con le esigenze di certezza e di celerità di questo intervento, tali per cui esso valga a migliorare l'affidabilità dei rapporti commerciali senza ostacolarne la fluidità.
        I princìpi direttivi si articolano, perciò, su due piani: quello ordinamentale, per dare vita ad un organo giurisdizionale dotato di professionalità adeguata, e quello processuale, in cui si ipotizza l'introduzione di un rito più consono agli obiettivi sopra indicati.
        Interventi tesi a favorire forme di risoluzione conciliativa o arbitrale delle controversie sono opportuni in questa materia; tuttavia, essi non possono dare vita ad un circuito del tutto separato ed alternativo a quello della giurisdizione pubblica, con la quale, invece, sono destinati ad integrarsi. La loro previsione, lungi dal rendere superfluo lo sforzo di adeguamento della risposta giudiziaria ai problemi dell'economia e del mercato, deve quindi con questa armonicamente coordinarsi.


2. (Princìpi generali).

        L'articolo 2 dello schema, recante "Princìpi generali in materia di società di capitali", ribadisce la concezione della società come forma di esercizio collettivo dell'impresa, accentuando anzi il riferimento all'impresa come l'interesse primario da tutelare nella riforma, il cui obiettivo prioritario viene appunto stabilito <comma 1, lettera a)> nel: "favorire la nascita, la crescita e la competitività delle imprese". Questa centralità del fenomeno dell'impresa è costantemente ribadita nelle lettere b), c), e), f), del comma 1 dell'articolo 2.
        Nella scelta dei tipi di società di capitale <comma 1, lettera f)> si è mantenuto, anche nella tradizionale denominazione, la previsione di due modelli base: la società a responsabilità limitata e la società per azioni. Ferma peraltro una differenza fra i due modelli fondata sulla necessità di un diverso capitale minimo, non sono stati assunti parametri rigidi di capitale o di numero di soci per l'adozione, o la conservazione, dell'uno o dell'altro modello, preferendo, nel rispetto dei princìpi di libertà di iniziativa economica e di libera scelta delle forme organizzative dell'impresa, offrire modelli che, potenzialmente aderenti alla grande varietà del fenomeno imprenditoriale e dei suoi vari gradi di sviluppo, facciano perno sulla diversità di composizione sociale e di modalità di finanziamento dell'impresa. Tale impostazione si è tradotta nell'individuare il dato di base caratteristico della società a responsabilità limitata nella rilevanza centrale attribuita "al socio e ai rapporti contrattuali tra soci" <articolo 3, comma 1, lettera c)>, della società per azioni nella "rilevanza centrale dell'azione" e nella sua possibilità di circolazione (articolo 4, comma 1).
        Costituisce un principio generale profondamente innovativo della disciplina quello stabilito nelle lettere c) e d) del comma 1 dell'articolo 2, che impongono al legislatore delegato una semplificazione della disciplina delle società, al fine di eliminare costi e rigidità strutturali ed operative non adeguati alla moderna realtà dell'attività economica, al fine soprattutto di rendere competitiva, anche sul piano internazionale, l'operatività della società. Strettamente connesso, anzi complementare, al principio di semplificazione è il principio di ampliamento degli ambiti della autonomia statutaria, al fine di consentire che la forma societaria sia adeguata alla esigenza della impresa, ferma restando la disciplina imperativa volta alla tutela di fondamentali interessi dei soci e dei terzi.
        Anche per le spa, l'autonomia statutaria potrà snellire l'attuale modello che, previsto nel 1942 per grandi imprese, notevolmente capitalizzate e con partecipazione potenzialmente diffusa (si pensi alle azioni al portatore), presenta rigidità non necessarie quando l'adozione di tale forma avvenga per fenomeni che per dimensione, partecipazione e programma economico-finanziario non sempre giustificano l'impianto normativo attuale, per mancanza degli interessi da tutelare.
        Costituisce una ulteriore manifestazione della centralità che nella riforma ha il fenomeno imprenditoriale con le sue esigenze, il principio che impone al legislatore delegato di ridisegnare i compiti e le responsabilità degli organi sociali, distinguendo i poteri e le responsabilità nella gestione dell'impresa dalla necessaria regolamentazione della dialettica tra i soci.
        L'articolo 2, comma 1, lettera g), impone al legislatore delegato di rivedere il complesso fenomeno della partecipazione della società di capitali ad altri fenomeni associativi.
        La formula adottata nella delega consente al legislatore delegato di risolvere problemi, sui quali si è creato un forte contrasto dottrinale e giurisprudenziale, attinenti soprattutto alla possibilità delle società per azioni di partecipare a società di persone.
        In tale contesto il legislatore delegato potrebbe anche affrontare il problema della presenza, e partecipazione, del modello società di capitali a forme organizzative non lucrative, confermando l'indirizzo, già presente, a rendere lo schema societario "modello" non necessariamente indirizzato a scopo di lucro.
        La lettera h) del medesimo comma 1 prevede l'intervento del legislatore delegato sulla complessa tematica dei gruppi, per i quali, anziché indicare un'articolata disciplina, si è preferito dettare princìpi di trasparenza e di contemperamento degli interessi coinvolti.
3. (Società a responsabilità limitata).

        La riforma della disciplina della società a responsabilità limitata assume un particolare rilievo nel disegno di legge delega.
        Anzitutto sul piano formale, in quanto la riforma si muove lungo tre linee di demarcazione: una prima, relativa al confine tra società azionarie quotate e non quotate; una seconda, relativa al confine tra società a responsabilità limitata e società di persone; una terza, relativa alla distinzione, nell'ambito delle società di capitali non quotate, tra società per azioni e società a responsabilità limitata. Ne segue che il modello della società a responsabilità limitata assume un ruolo centrale, venendosi a collocare al confine tra società di persone e società per azioni non quotate.
        In secondo luogo sul piano sostanziale, in quanto il modello della società a responsabilità limitata appare il più congeniale all'esercizio e allo sviluppo delle imprese piccole e medie. Al riguardo, va sottolineato che la realtà economico-produttiva del nostro Paese è caratterizzata dalla prevalenza in termini quantitativi delle piccole imprese (nel 1998, secondo i dati riportati nel Documento di programmazione economico-finanziaria (DPEF) 2000-2003, il 98 per cento delle imprese nazionali contava meno di 10 addetti) e da una maggiore percentuale di imprese piccole e medie. Per elevare la capacita competitiva del nostro sistema economico, appare opportuna la previsione di una disciplina societaria particolarmente agile che, per le sue caratteristiche di flessibilità e di ampliamento degli spazi di autonomia privata, faciliti la costituzione e lo sviluppo di imprese collettive caratterizzate dalla presenza di soci-imprenditori, ovvero di soggetti che investono capitali propri in una società con l'intento di gestire personalmente l'impresa o comunque di influire direttamente sulla sua gestione.
        Per quanto il modello della società a responsabilità limitata risulti più congeniale alle imprese piccole e medie, non si impone né si riserva a queste ultime il ricorso a tale modello; anzi, l'intento di fondo della riforma è quello di porre a disposizione degli imprenditori diversi modelli normativi, tra i quali gli stessi possano liberamente scegliere a seconda delle loro esigenze.
        Si deve quindi continuare ad ammettere per le imprese piccole e medie il ricorso anche a società azionarie, specie se si ha interesse ad una più agevole possibilità di circolazione delle partecipazioni sociali e/o di emissione di strumenti di debito.
        Sul piano sistematico l'adozione di una disciplina legislativa che assegni alle società a responsabilità limitata uno spazio di autonomia organizzativa analogo a quello delle società di persone potrà indurre ad un ricorso meno diffuso ai modelli normativi corrispondenti a società di persone e ad un maggiore ricorso ad un modello di società cui viene mantenuto il riconoscimento del beneficio della responsabilità limitata. Tale effetto, nella misura in cui si assicura nella disciplina legislativa una adeguata tutela dell'affidamento e degli interessi dei terzi, deve essere valutato con favore e trova conferma nella diffusione di modelli normativi analoghi in altri Paesi dell'Unione europea (Francia, e soprattutto Germania).

            3.1. La riforma della disciplina della società a responsabilità limitata è prevista all'articolo 3, suddiviso in due commi: il comma 1, nel quale vengono indicati i princìpi generali; il comma 2, nel quale vengono previsti i criteri direttivi che devono essere seguiti dal legislatore delegato nel riformare aspetti particolari della disciplina societaria.
        Per quanto riguarda i princìpi generali, è anzitutto confermata la previsione <già posta nell'articolo 2, comma 1, lettera f)> della emanazione di un autonomo e organico complesso di norme, modellato sulle esigenze proprie delle imprese a ristretta compagine sociale. Ciò peraltro non significa che il legislatore delegato debba necessariamente eliminare le norme di rinvio ad altri modelli societari, ma soltanto che la tecnica del rinvio dovrebbe avere un'applicazione limitata.
        Non si è ritenuto di seguire le proposte volte a fissare in sede di legge delega un limite massimo dimensionale (numero dei soci e/o dei dipendenti; entità del capitale, o dell'attivo patrimoniale, o del fatturato). La rigidità dei criteri limitativi (alcuni di essi peraltro suscettibili di elusione) è apparsa in contrasto con il riconoscimento della libertà di scelta del modello societario, che potrebbe anche essere preferito dagli interessati per ragioni diverse da quelle dimensionali; si è pertanto ritenuta preferibile la previsione di una disciplina di riforma congeniale alle esigenze di imprese a ristretta base sociale, ma ad esse non esclusiva.
        I princìpi generali sono completati dalla previsione di un'ampia autonomia statutaria, e quindi di un'ampia libertà di forme organizzative, nel rispetto del principio di certezza nei rapporti con i terzi; viene altresì sottolineata la rilevanza centrale della persona del socio e dei rapporti contrattuali tra i soci: si tratta di princìpi generali che possono essere tradotti nel concetto di ampia libertà di autorganizzazione, di flessibilità e di semplificazione degli assetti organizzativi della società.
        La libertà di autorganizzazione trova soprattutto riscontro nel riconoscimento, reso esplicito nel comma 2, di un'ampia autonomia statutaria riguardo alle strutture organizzative ed ai procedimenti decisionali. Libertà di autorganizzazione ampia, ma non illimitata, giacché rimane di competenza del legislatore delegato determinare la misura minima del capitale sociale in coerenza con la funzione economica del modello.
        La libertà di autorganizzazione, rispetto al sistema vigente, è ampliata anche quando può avere riflessi nei confronti dei terzi, purché non pregiudichi la certezza dei rapporti:

            con riferimento ai processi decisionali, può anche essere soppressa la previsione dell'organo assembleare e/o dell'organo amministrativo (essa potrebbe essere mantenuta a livello normativo, con carattere dispositivo e/o suppletivo); la gestione dell'impresa sarebbe in questo caso affidata agli accordi dei soci, assicurando comunque certezza sulla rappresentanza legale e sui poteri dei rappresentanti legali della società <articolo 3, comma 2, lettera e)>;

            con riferimento al procedimento di costituzione è prevista la eliminazione del giudizio di omologazione e in questa prospettiva andrà precisata la modalità del controllo notarile in relazione alla modifica dell'atto costitutivo. Il conferimento della personalità giuridica, con il conseguente beneficio della responsabilità limitata, verrà quindi effettuato fuori del controllo di un organo dello Stato. Deve intendersi applicabile anche alla società a responsabilità limitata l'esigenza <posta esplicitamente per le società per azioni: articolo 4, comma 3, lettera b)> di limitare la rilevanza dei vizi della fase costitutiva;

            con riferimento alla disciplina dei conferimenti: da un lato si prevede l'acquisizione di ogni elemento utile per il proficuo svolgimento dell'impresa sociale, a condizione che sia garantita l'effettiva formazione del capitale sociale; dall'altro lato, vi è la delega a semplificare le procedure di valutazione dei conferimenti in natura nel rispetto del principio di certezza del valore a tutela dei terzi;

            con riferimento alla contabilità sociale, è stato demandato al legislatore di stabilire i limiti oltre i quali è obbligatorio il controllo legale dei conti: controllo che può essere affidato a un collegio sindacale, e/o ad uno o più revisori contabili esterni.

        Il principio dell'autorganizzazione riguarda anche i rapporti contrattuali tra soci, nel senso che è consentito loro regolare l'incidenza delle rispettive partecipazioni sociali, sia distinguendo tra apporti di capitale ed apporti funzionalmente utili all'esercizio dell'impresa, quantunque non idonei alla formazione del capitale (ad esempio, attività professionale svolta nell'interesse della società) sia non assegnando portata inderogabile alla regola per la quale il valore delle partecipazioni sociali deve corrispondere al valore dei conferimenti, ai fini patrimoniali e/o ai fini amministrativi.
        All'autonomia statutaria viene anche rimessa la disciplina del trasferimento delle partecipazioni sociali, e quindi dei suoi eventuali limiti: disciplina convenzionale necessaria, specie per il trasferimento di partecipazioni corrispondenti all'esercizio di attività professionali.
        All'autonomia statutaria viene affidata pure l'individuazione di strumenti di tutela degli interessi dei soci, con particolare riferimento alle azioni di responsabilità, nonché la disciplina del recesso. Alla base di tale impostazione è l'idea che nelle società a responsabilità limitata non vi siano le medesime esigenze di tutela delle minoranze che si pongono nelle società per azioni: trattandosi infatti di società tendenzialmente a ristretta compagine sociale, e solitamente costituite da soci imprenditori, si ritiene che competa agli stessi soci predisporre i mezzi di tutela ritenuti più opportuni.
        Il legislatore delegato detterà una disciplina che regoli, quando non viene convenuto diversamente nell'atto costitutivo, l'amministrazione della società e le modifiche del contratto sociale. In questa prospettiva il legislatore delegato potrebbe anche prevedere, con norma dispositiva, l'applicazione della disciplina della società collettiva, per cui anche la gestione della società a responsabilità limitata sarebbe affidata disgiuntamente ai soci e le modifiche dell'atto costitutivo potrebbero avvenire solo all'unanimità <salvo per quanto riguarda il trasferimento delle quote, dove anzi è previsto un ampliamento dell'autonomia statutaria: comma 2, lettera f)>.
        Qualora il legislatore delegato adotti tale soluzione, verrebbe a porsi in termini diversi il problema dell'autotutela dei soci di minoranza: poiché infatti le modifiche del contratto sociale potrebbero avvenire a maggioranza solo se così disposto nello stesso contratto, ogni socio - in sede di stipula, ovvero di modifica del contratto - potrebbe cautelarsi mediante l'introduzione di apposite clausole di salvaguardia.
        Tutela dell'integrità del capitale e degli interessi dei creditori della società costituiscono in generale un limite imperativo al principio della libertà di autorganizzazione: limite che deve operare sia nella fase della costituzione della società, per quanto riguarda la formazione del capitale sociale, ed in particolare della valutazione dei conferimenti in natura sia nella fase dello svolgimento dell'attività della società, nella quale deve essere assicurata la conservazione del capitale; sia nella fase della liquidazione della società, dove si deve tenere ferma la regola inderogabile che il capitale può essere restituito ai soci solo dopo il soddisfacimento integrale dei creditori della società.
        Particolare rilievo infine, anche per la caratterizzazione della società a responsabilità limitata, assume la previsione di una disciplina legale che ponga condizioni e limiti per l'emissione e il collocamento di titoli di debito, anche cartolarizzati, tipici o atipici; è, invece, posto espressamente il divieto di appello diretto al pubblico risparmio, con esclusione di ogni operazione di sollecitazione all'investimento nel capitale di rischio.


4. (Società per azioni).

        Coerentemente con la scelta di fondo intesa a selezionare modelli di disciplina da porre a disposizione degli operatori economici, per le soluzioni organizzative da essi ritenute più adeguate, l'articolo 4 individua una serie di princìpi e criteri direttivi destinati ad incidere profondamente sull'attuale regolamentazione della società per azioni.
        In tale senso, anche alla luce dell'esperienza di altri ordinamenti europei vicini alla nostra tradizione giuridica, si è ritenuto preferibile evitare la rigida distinzione tra società per azioni "chiuse" o "aperte" al mercato. Tuttavia, al fine di assicurare comunque il maggiore livello di cautela e di tutela necessario per le ipotesi di apertura al mercato, in cui gli ordinamenti che conoscono questa bipartizione individuano la "società aperta", si sono introdotte specifiche previsioni normative dettate, per l'appunto, per le società i cui titoli siano negoziati su mercati regolamentati o siano comunque diffusi tra il pubblico.
La scelta a favore del modello unitario è dettata, soprattutto, dall'intento di evitare ostacoli non necessari per il passaggio dall'una all'altra ipotesi ed evitare quindi disincentivi ed ingiustificati aggravi di costi per la scelta di rivolgersi al mercato dei capitali.
        Da ciò la precisazione, fornita dal comma 1 dell'articolo 4, che la disciplina della società per azioni dovrà imperniarsi da un lato sulla previsione di un "modello di base unitario" e dall'altro su "ulteriori" regole specificamente dettate per l'ipotesi di "effettivo" ricorso a tale mercato.
        Per il primo aspetto si sottolinea, infatti, l'esigenza di una normativa coerente con una struttura organizzativa imprenditoriale "potenzialmente" utilizzabile per il reperimento sul mercato dei necessari mezzi finanziari. Essa deve tenere conto dell'eventualità di una compagine sociale ampia, individuando quindi soluzioni procedimentali a tale fine adeguate, e deve così prevedere una disciplina la quale non tanto assegni rilievo alla posizione personale dei singoli soci, quanto alla partecipazione azionaria nella sua oggettività. Si offre così al legislatore delegato anche la possibilità di intervenire sui profili di disciplina della società per azioni che, per i limiti della delega, non hanno potuto essere affrontati dal TUF, colmando in qualche modo una evidente lacuna soprattutto con riguardo alla disciplina dell'amministrazione e dell'assemblea.
        Connessa a quest'ultimo tema è la previsione dell'articolo 4, comma 6, lettera b), concernente le modalità tecniche di tale negoziabilità; tale norma è volta ad operare un coordinamento della legislazione speciale che a decorrere dal 1942 è intervenuta sul punto ed ha reso sostanzialmente obsoleta la disciplina del codice civile in materia di emissione e di circolazione dei titoli azionari.
        Per il secondo aspetto, si è ritenuto che, in ragione della diversità tra l'ipotesi in cui si ricorre effettivamente al mercato dei capitali e quella nella quale tale possibilità rimane allo stato potenziale, debba essere individuato un grado maggiore o minore di imperatività della disciplina e quindi lo spazio di operatività consentito all'autonomia statutaria. Tale scelta corrisponde a tendenze rilevabili sul piano internazionale e si spiega con le specifiche esigenze di tutela, che non possono rimanere estranee alla disciplina dell'organizzazione societaria, imposte dalla presenza sul mercato dei titoli emessi dalla società. E' diffusa, del resto, la constatazione che la tutela del risparmiatore solo astrattamente può distinguersi dalla sua tutela come socio, mentre, d'altro lato, storicamente proprio in questo specifico contesto si sono avute le prime manifestazioni normative espressamente intese a tutelare i "consumatori".
        La prospettiva è nel senso che, nel mercato dei capitali, la tutela del singolo risparmiatore non può in generale essere affidata alle sole spontanee forze del mercato ed alla sua efficienza, ma richiede interventi normativi in grado di bilanciare sue possibili imperfezioni.

        4.1. Questa scelta di fondo spiega perché si sia ritenuto da un lato di proporre un generale ampliamento dell'autonomia statutaria, dall'altro di richiedere per le società che fanno effettivamente ricorso al mercato dei capitali norme inderogabili riguardanti aspetti in cui più specificamente può porsi un'esigenza di tutela del socio-risparmiatore.
        Infatti, a fronte di un assetto normativo nel quale il modello di base unitario per la disciplina della società per azioni si caratterizza per una mera potenzialità del ricorso al mercato dei capitali, vengono a cessare le tradizionali ragioni volte a rigidamente comprimere gli spazi per l'autonomia statutaria: fin quando non si pongono concrete esigenze di tutela del mercato e dei risparmiatori. Dunque, non vi sono motivi di principio che impediscano di valorizzare le scelte contrattuali dei privati; in un sistema di libera iniziativa economica privata sembra coerente ritenere che esse, nei limiti in cui non pregiudicano gli interessi dei terzi e dei creditori, rappresentino il migliore veicolo per promuovere l'efficienza dell'impresa sociale individuato dall'articolo 4, comma 2, lettera b).
        Quando, invece, vi è un effettivo ricorso al mercato dei capitali, gli spazi per l'autonomia statutaria si riducono; si è così scelto di rafforzare la tutela dei diversi interessi che ruotano intorno ad una società che fa ricorso al mercato dei capitali e a tale fine l'articolo 4, comma 2, lettera a), individua tra gli altri alcuni istituti ove si pone l'esigenza di siffatto intervento e quindi di riduzione di quegli spazi: essi fondamentalmente riprendono gli aspetti più caratterizzanti sui quali il TUF ha operato un rafforzamento degli strumenti di controllo interno nella società a favore dei soci.
        Si segnala inoltre, al comma 2, lettera b), il deciso accenno all'esigenza di garantire che la gestione dell'impresa sociale si muova in modo da contemperare l'efficienza dell'attività di direzione con la correttezza dei momenti rilevanti dell'attività gestoria e quindi anche la possibilità di conoscere e di valutare questi momenti.

        4.2. Adottata una prospettiva per cui il modello base di disciplina della società per azioni non presuppone di per sé un effettivo ricorso al mercato dei capitali, diviene anche possibile soddisfare l'esigenza vivamente sentita dagli operatori di una semplificazione del procedimento di costituzione.
        Riaffermata, infatti, la necessità del rispetto del principio di certezza e di tutela dei terzi <articolo 4, comma 3, lettera a)>, risultano in primo luogo possibile una precisazione e una semplificazione del procedimento di omologazione, sia per quanto concerne la fase costitutiva della società, sia con riferimento a quella successiva di modificazione dell'atto costitutivo. Non solo si è ritenuto necessario un intervento volto a circoscrivere l'ambito di tale giudizio, ma si è preso atto che nella prospettiva generale del progetto possono considerarsi in buona parte superate alcune delle ragioni storiche all'origine della previsione dell'omologazione. Questa, sostituendo precedenti sistemi di controllo di tipo politico e poi amministrativo, si spiegava soprattutto per un'esigenza di tutela del mercato finanziario ed era in particolare volta ad impedire che operassero strutture imprenditoriali la cui affidabilità non fosse stata verificata. Ne consegue che appare ora coerente, in una riforma della società per azioni il cui modello di base prescinde dall'effettivo ricorso a tale mercato ed in un sistema ove si prevedono ulteriori e più specifici controlli quando ad esso si vuole accedere, che il giudizio di omologazione veda circoscritto il proprio ambito agli aspetti in cui più specificamente si pongono esigenze di tutela dei terzi.
        In questo senso un profilo di particolare rilievo può essere quello, individuato dall'articolo 4, comma 5, concernente la disciplina dei conferimenti e della loro valutazione. In proposito si individuano criteri i quali, nel rispetto ovviamente di quanto prescritto dalla seconda direttiva comunitaria in materia di società per azioni, tendono a ricercare un migliore equilibrio tra le due contrapposte esigenze che tradizionalmente si pongono al riguardo: da un lato la funzionalità dei conferimenti per lo svolgimento dell'impresa sociale, dall'altro la loro idoneità a consentire un'effettiva formazione del capitale sociale.
        Tale equilibrio è assicurato richiedendo a tutela dei terzi la certezza del valore dei conferimenti, ma nel contempo rendendo esplicita la scelta normativa, già presente nella ricordata direttiva comunitaria, per cui oggetto di conferimento può essere ogni elemento utile per il proficuo svolgimento dell'impresa sociale: ciò alla sola condizione che sia garantita l'effettiva formazione del capitale sociale.
        In tale modo il criterio di individuazione del possibile oggetto del conferimento non è più quello, statico, della natura del bene o del diritto conferito, bensì quello, dinamico, della sua funzionalità per l'attività della società.
        Merita anche di essere segnalato che l'articolo 4, comma 5, lettera a), distingue in tema di disciplina dei conferimenti tra ciò che interessa per la tutela dei terzi e ciò che, riguardando esclusivamente i rapporti tra i soci, può trovare soluzione nelle loro scelte contrattuali. In questo senso l'esigenza di un'effettiva formazione del capitale sociale non è più riferita analiticamente al singolo conferimento, ma viene valutata globalmente: sicché si apre la possibilità, da tempo auspicata nella pratica, che tale effettività risulti assicurata con riferimento alla cifra totale del capitale sociale e che la ripartizione tra i soci delle azioni tenga conto anche di apporti utilizzabili per l'attività sociale pur se, non possedendo i requisiti allo scopo necessari, non sono imputabili di per sé a capitale. Si distingue in sostanza tra la formazione del capitale in quanto tale e la definizione dei criteri di assegnazione ai soci delle sue frazioni rappresentate dalle partecipazioni azionarie.

            4.3. Viene di nuovo incontro a significative esigenze della pratica, e corrisponde ad una prospettiva di ampliamento dell'autonomia statutaria, la soluzione indicata nell'articolo 4, comma 4, lettera b). Essa prevede infatti, in termini di rilevante novità, che la società possa destinare parte del proprio patrimonio a specifici affari e che in tale caso si possa realizzare una separazione patrimoniale in grado di condurre ad un regime di autonomia sul piano della responsabilità.
        Si tratta di una soluzione che non può ormai considerarsi estranea alle prospettive generali dell'ordinamento giuridico: il quale sempre più conosce ipotesi, specie in settori rilevanti per il mercato finanziario, di patrimoni separati. Essa persegue un duplice obiettivo: rendere superflui accorgimenti costosi e poco trasparenti che già vengono usati nella pratica, come la costituzione di società ad hoc anche per un singolo affare; rendere possibile una più concreta tutela per coloro che intervengono nel finanziamento dell'affare, i quali vengono resi consapevoli delle sue caratteristiche e si trovano in una situazione ove il loro rischio è circoscritto agli esiti economici dell'affare stesso. Del resto un modello non solo di patrimonio separato, ma anche di pluralità di patrimoni separati fra loro e rispetto al patrimonio della società, si ha già nella legge 30 aprile 1999, n. 130 (recante disposizioni sulla cartolarizzazione dei crediti), proprio in funzione della esigenza di non moltiplicare, con aumento dei tempi e dei costi, organismi societari per la mera funzione della separatezza dei patrimoni. Sarà compito del legislatore delegato dettare le opportune norme a garanzia degli interessi coinvolti.
        Consequenziale a questa soluzione è poi l'esplicita ammissione dell'eventualità che siano emessi strumenti finanziari di partecipazione all'affare cui è stata dedicata la singola massa patrimoniale.
        Naturalmente la soluzione proposta richiede una serie di garanzie che sarà compito del legislatore delegato definire tecnicamente. Esse dovranno soprattutto riguardare l'esigenza che la separatezza patrimoniale trovi corrispondenza nelle concrete modalità di gestione dell'affare, non sia quindi in fatto contraddetta da una commistione di patrimoni. Sarà pertanto necessario prevedere modalità di amministrazione idonee e principalmente regole contabili in grado di consentire in ogni momento una distinzione degli elementi patrimoniali destinati al singolo affare rispetto al globale patrimonio della società. Il legislatore delegato dovrà anche tenere eventualmente presente la circostanza che la nozione di patrimonio separato è contigua all'istituto del trust, il cui riconoscimento nel nostro ordinamento è avvenuto con la ratifica della Convenzione de L'Aja del 1985 e sul quale sono già all'esame del Parlamento alcuni progetti di legge volti ad introdurre una disciplina nazionale.

            4.4. Ad una prospettiva di ampliamento dell'autonomia statutaria si ispira il progetto di riforma anche nell'articolo 4, comma 6, dedicato alla disciplina delle azioni e delle obbligazioni. Qui si è ravvisata l'esigenza di superare le attuali rigidità del sistema e di consentire alle società per azioni, come già avviene in altri sistemi giuridici, l'utilizzo di una più estesa gamma di prodotti finanziari utilizzabili per la raccolta di capitale di credito e di rischio.
        In questo senso la lettera c) del comma 6 prevede un'ampia possibilità di emissione di strumenti finanziari partecipativi e non partecipativi e consente una vasta scelta in merito alla modulazione dei diritti patrimoniali e di quelli amministrativi ad essi connessi: ciò, ovviamente, fatte salve le riserve di attività previste dalle leggi vigenti.
        Con riferimento specifico al tema delle obbligazioni, la lettera d) dello stesso comma prevede una rilevante riforma del sistema. Essa in particolare consente al legislatore delegato di attenuare o persino rimuovere limiti quantitativi all'emissione di obbligazioni che attualmente sembrano ormai aver perso un reale significato economico; e ammette, in considerazione del significato soprattutto finanziario dell'operazione, una scelta dell'autonomia statutaria volta ad attribuire la competenza deliberativa in merito anche ad un organo diverso da quello tradizionalmente rappresentato dall'assemblea.

        4.5. Per quanto concerne l'assemblea, l'articolo 4, comma 7, persegue soprattutto obiettivi di semplificazione di una disciplina destinata a costituire il modello unitario di base.
        Si prevede così, sia per quanto riguarda i modi di svolgimento del procedimento assembleare, sia per quanto riguarda i quorum deliberativi ed il numero delle convocazioni, la possibilità che l'autonomia statutaria individui le soluzioni più adeguate alla concreta situazione, al fine di raggiungere un migliore equilibrio tra l'esigenza di facilitare le deliberazioni e quella di fornire una sufficiente tutela agli azionisti.
        Rilevante è inoltre la riforma che si propone per il trattamento dei vizi delle deliberazioni nella lettera b) del comma 7. Essa trae origine dalla constatazione che il sistema vigente, in quanto imperniato sulla possibilità di provocare la dichiarazione di nullità o l'annullamento della deliberazione, per un verso non sempre è in grado di fornire un'adeguata tutela al socio che si ritenga leso (offrendo un rimedio a carattere solo negativo e quindi inidoneo a consentire una effettiva realizzazione dell'interesse perseguito), per un altro verso può pregiudicare rilevanti interessi come quelli che attengono alla funzionalità e certezza dell'attività sociale.
        Il progetto, al fine di definire un migliore equilibrio tra siffatti interessi, si orienta in una duplice concorrente direzione. Da un lato apre la strada per l'adozione di strumenti di tutela diversi dalla invalidità della deliberazione: il che soprattutto potrebbe avvenire prevedendo la possibilità (ora discussa e discutibile nel sistema vigente, ma indubbiamente coerente con un'accentuazione del significato contrattuale della società) di rimedi di tipo risarcitorio (con l'ulteriore vantaggio sia di poter ripristinare in termini economici l'interesse leso sia di impedire che l'eventuale pregiudizio di interessi anche minimi possa, a seguito di una dichiarazione di invalidità, travolgere un'intera operazione e con essa legittimi interessi anche di rilevantissima portata). Da un altro lato, prevede, analogamente ad altri ordinamenti europei, una migliore precisazione e delimitazione delle ipotesi di invalidità, dei soggetti legittimati alla impugnativa e soprattutto dei termini per la sua proposizione, secondo uno schema già conosciuto dal nostro ordinamento (vedi in particolare l'articolo 2504-quater del codice civile).
        Significativa è anche la previsione della possibilità di modifiche ed integrazioni delle deliberazioni. Ciò consente di superare gli incerti confini applicativi, comunque notevolmente ed eccessivamente ristretti dell'attuale quarto comma dell'articolo 2377 del codice civile e dà più ampio spazio a possibilità di "regolarizzazione" delle deliberazioni viziate: il che, come avviene in altri ordinamenti europei, potrebbe pure essere previsto a seguito di apposita indicazione del giudice dell'impugnativa.

        4.6. Per quanto concerne la disciplina dei patti parasociali, la lettera c) del comma 7 dell'articolo 4 del progetto di riforma prevede una fondamentale distinzione basata sulla presenza oppure no di una diffusione dei titoli fra il pubblico. Si è ritenuto infatti che, in assenza di diffusione, gli interessi rilevanti siano principalmente quelli interni al gruppo dei soci e che quindi possa essere sufficiente una disciplina che limiti la durata temporale del vincolo obbligatorio derivante da tali patti; che, invece, quando le partecipazioni siano negoziate presso il pubblico, si ponga anche un'esigenza di trasparenza e di conoscibilità da parte degli investitori.
        A questo proposito il progetto si preoccupa inoltre di precisare, al fine di impedire facili elusioni della norma, che la disciplina dovrà essere applicabile ai patti parasociali concernenti non solo le società per azioni, ma anche le società di altro tipo che le controllano.

        4.7. Per quanto concerne la disciplina dell'amministrazione e del controllo, il progetto di riforma, in coerenza con i princìpi generali cui si ispira, persegue l'obiettivo di assicurare un largo margine di flessibilità per la organizzazione della funzione gestoria offrendo ampi spazi all'autonomia statutaria, nel rispetto, peraltro, di alcuni irrinunziabili presìdi a tutela degli interessi dei terzi creditori e delle aspettative del pubblico degli investitori.
        Si ribadisce altresì che di regola spettano all'organo amministrativo la esclusiva competenza e responsabilità per le scelte gestorie. In tale prospettiva dovranno essere con precisione definite le competenze.
        In ordine al ruolo affidato all'autonomia statutaria, occorre sottolineare come in talune ipotesi il progetto prevede la necessità che gli statuti affrontino alcuni problemi, demandandone agli stessi la soluzione. E' questo, ad esempio, il caso del comma 8, lettera a), prima parte, concernente gli aspetti relativi alla articolazione interna dell'organo amministrativo, al suo funzionamento, alla circolazione di informazioni sia tra amministratori sia tra amministratori e soggetti investiti della funzione di controllo.
        Altre volte il progetto indica un preciso principio di disciplina suscettibile di un ampio spettro di applicazioni lasciate alla autonomia statutaria. E' questo il caso dell'ultima parte della medesima lettera a) del comma 8, laddove si afferma non solo il principio della inammissibilità di generiche e illimitate deleghe a singoli amministratori o a comitati esecutivi, ma anche quello per cui spetta al legislatore delegato individuare limiti alle deleghe invalicabili da parte dell'autonomia statutaria. A quest'ultima spetterà stabilire eventuali più stringenti limiti, così come eventuali modalità di esercizio delle deleghe. Secondo il principio generale che ispira la riforma i limiti legislativi al rilascio di deleghe non dovranno mortificare la necessaria flessibilità della organizzazione dell'impresa, le esigenze di scelte tempestive, le specificità che varie tipologie di imprese presentano.
        Parimenti, il progetto <comma 8, lettera e)> afferma il principio della necessità di una disciplina a livello legislativo dei doveri degli amministratori sotto il profilo anzitutto del dovere di fedeltà (il duty of loyalty anglosassone) e quindi del conflitto di interessi che costituisce la fattispecie tipica in cui si può verificare un attentato al generale dovere di fedeltà. Spetterà poi eventualmente all'autonomia statutaria meglio articolare la disciplina legislativa (anche in senso più restrittivo o in via preventiva attraverso, ad esempio, la fissazione di requisiti di indipendenza per alcuni amministratori).
        Anche in altri casi all'autonomia statutaria è lasciata ampia facoltà in ordine alla scelta se introdurre o meno determinate regole. Così, in tema di requisiti degli amministratori il progetto, fatta salva la legislazione speciale, si limita a precisare che gli statuti "possono" prevedere requisiti di onorabilità, professionalità ed indipendenza.
        L'autonomia statutaria potrà anche, ovviamente, operare attraverso l'adozione in determinati ambiti (ad esempio, quello della organizzazione dei lavori consiliari e dell'esercizio di deleghe) di regolamenti interni.
        Nella prospettiva di consentire ad imprese operanti in più ordinamenti europei di utilizzare moduli organizzativi omogenei, oltre che in coerenza con la scelta di assicurare grande flessibilità, il progetto di riforma consente all'autonomia statutaria di optare, anziché per il modello fondato sull'organo amministrativo e sull'organo di controllo interno, per un modello articolato su di un organo amministrativo ed un organo di sorveglianza cui siano affidate non solo le funzioni proprie del collegio sindacale, ma anche funzioni - che spetterà all'autonomia medesima precisare - attinenti alla determinazione dell'indirizzo strategico, anche opportunamente rivedendo la competenza assembleare.
        Tale prospettiva sembra inoltre coerente con gli avanzati progetti in corso, in sede comunitaria, dello statuto di società europea.
        Il consiglio di sorveglianza dovrà essere di nomina assembleare; stante la competenza attribuita, è previsto che in esso siano rappresentate le minoranze in armonia con quanto disposto per il collegio sindacale dal TUF. Ulteriori profili attinenti la nomina, i poteri, i doveri e le responsabilità dei componenti il consiglio di sorveglianza si uniformeranno a quelli del collegio sindacale, poiché di questo il consiglio di sorveglianza assorbe le funzioni.

        4.8. La semplificazione caratterizza anche la materia delle modificazioni statutarie. Essa potrà riguardare sia il profilo procedurale (con possibile trasferimento - a scelta di statuto - di competenze attinenti la struttura gestionale ed i profili organizzativi, all'organo amministrativo) sia quello dei controlli (possibile eliminazione, per certe delibere, della omologazione).
        La disciplina delle modifiche statutarie è destinata, secondo il progetto, ad accogliere rilevanti innovazioni che vanno al di là del ricorrente motivo della semplificazione. Tali modifiche si raccordano all'esigenza, avvertita non solo nei sistemi anglosassoni ma con crescente intensità anche in quelli continentali, di agevolare il finanziamento con raccolta di capitale proprio, ridimensionando la tutela assicurata alla posizione amministrativa del socio dalla tradizionale configurazione del diritto di opzione. Il che è tanto più logico allorché la società abbia un azionariato diffuso per il quale la suddetta tutela è meno rilevante.
        Di qui la scelta di ridisegnare l'istituto del diritto di opzione (e del sovrapprezzo), differenziando la disciplina a seconda che la società abbia o meno titoli negoziati nei mercati regolamentati e ferma comunque la tutela della posizione patrimoniale (e così di adeguati controlli sulla congruità del prezzo di emissione delle azioni). Il legislatore delegato potrà agevolare (almeno in taluni casi, come di recente avvenuto in Germania) l'esclusione o la limitazione dell'opzione stessa. In questa prospettiva, si prevede la delegabilità all'organo amministrativo anche di aumenti di capitale con esclusione dell'opzione purché siano previsti adeguati limiti temporali. Tale ultima precisazione, in uno con il principio della tutela della congruità del prezzo di emissione, varrà ad evitare che il consiglio possa dare corso ad emissioni con esclusione dell'opzione a prezzo difforme da quello congruo nel momento dell'autorizzazione assembleare.
        Sul versante della riduzione reale del capitale, il progetto consente - con il limite della tutela dei creditori sociali - non solo una semplificazione della procedura di riduzione, ma un ampliamento dell'ambito di operatività della fattispecie. Ciò è in linea con la prassi affermatasi sui mercati finanziari più evoluti ove si ritiene opportuno fare fruire gli azionisti dei benefìci della sovracapitalizzazione determinata dal positivo corso degli affari.
        Non meno innovativa appare la disciplina del recesso quale delineata dal progetto. L'istituto viene rivalutato quale forma di tutela delle minoranze alternativa alle altre fornite dalla disciplina legale e statutaria, e alla cessione della partecipazione sul mercato. Di qui l'abbandono del principio della tassatività delle cause di recesso e la possibilità per lo statuto di prevedere ulteriori cause di recesso rispetto a quelle oggetto di previsione legislativa.
        L'entrata e l'uscita da un gruppo (confrontare sub articolo 9) potrà rappresentare una ulteriore ragione di recesso. La efficienza dell'istituto del recesso postula peraltro adeguati criteri di calcolo del valore di rimborso e quindi verosimilmente, per le società non quotate, l'abbandono del rigido criterio del mero valore contabile dell'azione secondo l'ultimo bilancio approvato.
        In coerenza con i princìpi generali del progetto di riforma, l'esercizio del recesso, nella dimensione più ampia che potrà essere consentita dalla autonomia statutaria, troverà comunque un preciso limite nelle esigenze di salvaguardia dell'integrità del capitale sociale e degli interessi dei creditori sociali, che, nelle ipotesi cosiddette "facoltative" di recesso (previste cioè dallo statuto, ma non dalla legge) non potranno non prevalere su quelli dei soci.


5. (Società cooperative).

        La disciplina delle società cooperative oggi vigente consta essenzialmente di due corpi normativi: quello dettato dal codice civile (articoli 2511-2545) e quello costituito da numerose norme speciali, anche profondamente innovative, che hanno affrontato problemi specifici, soprattutto allo scopo di rimuovere vincoli normativi ormai obsoleti (legge 31 gennaio 1992, n. 59; legge 23 dicembre 1998, n. 448).
        L'insieme di queste norme, al di là dei problemi sollevati dal loro coordinamento, non pare tuttavia in grado di offrire alle imprese mutualistiche uno statuto capace di favorirne adeguatamente lo sviluppo.
        La vigente disciplina è inadeguata sotto diversi profili, in quanto: a) non consente alle imprese in forma di cooperativa di acquisire capitale di rischio nella misura necessaria per fare fronte alle esigenze che i mercati in cui operano pongono a tutte le imprese; b) non prevede strumenti di governo societario che incentivino nella misura necessaria l'efficienza e la qualità delle gestioni, non sottoposte neppure ai vincoli che il mercato del controllo societario impone alle imprese lucrative; c) presenta, come del resto quello della società per azioni sul quale è modellato, una rigidità incompatibile con la complessità e la profonda articolazione che distinguono il mondo cooperativo in relazione sia alla dimensione delle imprese sia al tipo di attività esercitata.
        Di qui la necessità di rimuovere tali insufficienze e di dotare le imprese cooperative di uno statuto che non le collochi in una condizione di inferiorità istituzionale nei confronti delle imprese lucrative con le quali competono.
        Non si è ritenuto di procedere ad una definizione dello scopo mutualistico, rinviando alla percezione che dello stesso ha la coscienza sociale, la quale normalmente individua lo scopo mutualistico nell'interesse del socio a ricevere la prestazione oggetto del rapporto di servizio e nella possibilità, per lo stesso, di ricevere tale prestazione a condizioni, anche qualitative, migliori di quelle offerte dal mercato.
        Nell'individuare i princìpi generali ai quali deve uniformarsi la disciplina delle società cooperative, l'articolo 5 "rinvia" alle disposizioni dettate per la riforma delle società di capitali.
        Sulla base dei princìpi richiamati il legislatore delegato, anche nel disegnare lo statuto delle società cooperative, dovrà:

            a) perseguire l'obiettivo di favorire la nascita e lo sviluppo delle imprese cooperative, anche attraverso il loro accesso al mercato dei capitali;

            b) valorizzare l'imprenditorialità delle società cooperative, attraverso una precisa individuazione degli organi ai quali sono demandate le scelte d'impresa e di quelli ai quali sono affidati compiti di controllo sulla gestione;

            c) semplificare la disciplina delle società cooperative, tenendo conto dei costi che la regolamentazione determina;

            d) ampliare il ruolo dell'autonomia statutaria, ferma restando l'esigenza di tutelare gli interessi dei terzi e dei creditori e, ancora, dei soci cooperatori.

        Poiché alle società cooperative si applicano, in quanto compatibili con la disciplina specificamente per le stesse stabilita, le norme dettate per la società per azioni e per la società a responsabilità limitata, <comma 2, lettera e)> ne segue che vengono ipotizzati due "sottotipi" di società cooperativa: quello modellato sulla società per azioni e quello modellato sulla società a responsabilità limitata.
        Così come previsto per le società di capitali, è ragionevole che la cooperativa modellata sulla società a responsabilità limitata sia destinata alle cooperative a ristretta base sociale, dovendosi peraltro, nella determinazione di tale scelta, tenere conto anche delle caratteristiche dell'impresa cooperativa e del settore nel quale la stessa opera.
        Sarà comunque necessaria l'applicazione delle norme dettate per la società per azioni quando la cooperativa abbia collocato presso il pubblico strumenti finanziari in misura rilevante, diventando in tale caso necessaria anche l'applicazione delle norme previste per la società per azioni che si trovi in siffatta condizione.
        Il richiamo alle discipline previste per la società per azioni e per la società a responsabilità limitata consente anche di ritenere incompatibili con le discipline medesime disposizioni, come quelle vigenti, che prevedono la responsabilità personale dei soci per le obbligazioni della società (articoli 2513 e 2514 del codice civile), mentre rimangono fermi gli altri momenti caratteristici del modello organizzativo oggi vigente (voto capitario, limite al possesso azionario, principio della porta aperta).
        La legge di delega <comma 2, lettera h)> affida al legislatore delegato anche il compito di definire la cooperazione "protetta" e cioè la cooperazione a carattere di mutualità e senza fini di speculazione privata, della quale la Costituzione riconosce la "funzione sociale" e che la legge deve promuovere con i mezzi più idonei, assicurandone, altresì, con gli opportuni controlli, il carattere e le finalità.
        Nell'ambito delle società cooperative sarà dunque necessario individuare le società che presentano i "requisiti mutualistici"; requisiti che il legislatore delegato dovrà definire attenendosi ai criteri fissati dalla Carta costituzionale.

        5.1. Il comma 1 dell'articolo 5 fissa due princìpi cardine del futuro statuto delle società cooperative, che dovrà:

            a) "assicurare il perseguimento dello scopo mutualistico da parte dei soci cooperatori" e "favorire l'accesso delle società cooperative al mercato dei capitali anche attraverso un'adeguata tutela dei soci finanziatori";

            b) "favorire la partecipazione dei soci cooperatori alle deliberazioni assembleari e rafforzare gli strumenti di controllo interno sulla gestione".

        Le specificità dello statuto delle società cooperative dovranno, dunque, essere individuate sia sotto il profilo degli interessi dei soci sia sotto quello del governo societario.
        Sotto il profilo degli interessi dei soci la nuova disciplina <comma 2, lettera b)> dovrà conciliare lo scopo mutualistico dei soci cooperatori con lo scopo di lucro dei soci finanziatori che apportano capitale di rischio.
        La disposizione indica i criteri ai quali dovrà attenersi il legislatore delegato nel dettare le norme che favoriscano la conciliazione fra soci finanziatori e soci cooperatori: questi criteri riguardano sia gli aspetti più strettamente patrimoniali sia quelli amministrativi, fermo restando che, anche a questo proposito, sarà necessario lasciare all'autonomia statutaria il più ampio ruolo possibile.
        Per quanto concerne i profili patrimoniali, ai soci cooperatori sarà possibile riconoscere un diritto agli utili (realizzati con le operazioni con non soci), necessariamente limitato nelle cooperative protette, e soprattutto sarà necessario attribuire una effettiva tutela del loro interesse al conseguimento del vantaggio mutualistico attraverso la protezione del loro diritto al ristorno; al riguardo la riforma dovrà tenere conto dei criteri e degli orientamenti comunitari.
        I diritti dei soci di capitale saranno determinati dallo statuto, consentendo così una più facile coincidenza fra interesse della società emittente e interesse dei risparmiatori presso i quali dovrebbero trovare collocamento gli strumenti finanziari emessi. Le società potranno emettere strumenti che incorporano anche un diritto sulla quota di liquidazione, diritto parametrato sul valore dell'apporto determinato con riferimento all'ammontare complessivo del patrimonio. Gli utili realizzati potranno così non solo concorrere a formare una riserva indivisibile (nelle cooperative protette), ma anche una riserva divisibile appartenente ai soci finanziatori e quindi rilevante ai fini della concorrenzialità dei relativi titoli.
        Il legislatore delegato potrà, tuttavia, porre un limite alla percentuale di utili attribuibili ai soci finanziatori e alla riserva divisibile allo scopo di evitare che le risorse della società vengano prevalentemente destinate al conseguimento di scopi di lucro.
        La conciliazione fra l'interesse dei soci cooperatori e quello dei soci finanziatori, dovrà essere cercata anche sul piano amministrativo, consentendo una tutela adeguata ai secondi, senza compromettere la tutela dei primi. I soci finanziatori dovrebbero così parametrare, al loro interno, i diritti di intervento nella gestione alla consistenza della loro partecipazione, ma non dovrebbero poter contare sulla maggioranza dei voti nell'assemblea e avere posizioni di controllo nell'ambito del consiglio di amministrazione. La salvaguardia dell'interesse dei soci cooperatori imporrà che la maggioranza dei voti assembleari e dei componenti dell'organo di gestione sia riservata a questi stessi soci cooperatori.
        Per quanto attiene alle regole del governo societario per le società cooperative con una compagine sociale molto diffusa troveranno applicazione, in linea di principio, le nuove norme previste per le società per azioni, che tendono proprio al conseguimento di questo stesso obiettivo.
        I problemi del governo cooperativo si porranno in termini radicalmente diversi per le società cooperative a base ristretta, per le quali troveranno, in linea di principio, applicazione le norme dettate per la società a responsabilità limitata.
        E anche in materia di governo societario, sia per le società cooperative modellate sulla società per azioni sia per quelle modellate sulla società a responsabilità limita, sarà necessario attribuire il più ampio ruolo possibile all'autonomia statutaria, in modo da consentire che le regole organizzative siano coerenti con le caratteristiche della compagine sociale e dell'attività esercitata.
        Le norme delegate potranno, peraltro, introdurre tutte le regole ritenute necessarie per "favorire la partecipazione dei soci cooperatori alle deliberazioni assembleari e rafforzare gli strumenti di controllo interno sulla gestione" <comma 1, lettera c)>. Gli interventi esplicitamente previsti hanno come punto di riferimento essenzialmente le società cooperative con una compagine sociale diffusa. Essi riguardano sia l'assemblea dei soci sia l'organo amministrativo, e, ancora prima, la formazione della compagine sociale.
        Si è ritenuto importante rendere più stringente il principio della porta aperta e rafforzare il ruolo delle assemblee separate, pensate come strumento che consente di coinvolgere nelle deliberazioni assembleari un maggiore numero di soci; allo stesso fine si è ritenuto indispensabile una riforma delle deleghe di voto che consenta un maggior ricorso anche a tale strumento di partecipazione dei soci <comma 2, lettera d)>. Per quanto riguarda quest'ultimo punto si dovrà tenere presente la necessità di prevedere limiti alla delegabilità dell'esercizio del diritto di voto coerenti con la natura diffusa che il potere presenta nelle società cooperative e si dovrà altresì consentire all'autonomia statutaria di disciplinare le deleghe di voto nel modo ritenuto più coerente con le caratteristiche della compagine sociale.
        Naturalmente, per l'esercizio del diritto di voto rimane fermo il principio "una testa un voto", ma in alcune situazioni questa regola può contrastare con una tutela adeguata dell'interesse mutualistico dei soci: il che accade, ad esempio, nelle cooperative fra imprenditori e nelle cooperative di secondo grado, nelle quali l'interesse mutualistico è commisurato alla entità dell'apporto del socio. Per queste ipotesi il legislatore delegato potrà introdurre una deroga al voto procapite, sia pure ponendo eventuali limiti al numero dei voti attribuibili al singolo socio.
        Per favorire l'efficienza delle gestioni cooperative è stato poi sottolineata la necessità che lo statuto ponga limiti al cumulo delle cariche e alla rieleggibilità degli amministratori, lasciando all'autonomia dei soci il potere di individuare il contenuto delle relative clausole. E sempre allo scopo di consentire alle società cooperative di acquisire le necessarie competenze, si è ritenuto opportuno consentire che una minoranza di amministratori possa essere costituita anche da non soci <comma 2, lettera e)>.

        5.2. Per quanto attiene al controllo dei sindaci e al controllo legale dei conti troveranno applicazione le norme dettate per la società per azioni o per quella a responsabilità limitata.
        Profondamente modificate dovranno, invece, risultare le norme oggi vigenti in materia di controllo giudiziario e di controllo governativo.
        Le società cooperative dovranno essere sottoposte al controllo giudiziario (oggi disciplinato dall'articolo 2409 del codice civile) come le società di capitali <comma 2, lettera g)> non essendovi ragione per privare i soci nelle società cooperative della possibilità di fare ricorso a tale forma di tutela.
        Viene, invece, eliminato il controllo governativo previsto oggi dal codice civile sulla generalità delle società cooperative mantenendolo solo sulle società cooperative protette <comma 2, lettera i)>. I requisiti mutualistici comportano, infatti, la creazione di un patrimonio (riserva) che non appartiene ai soci, essendo destinato definitivamente a scopi mutualistici, sicché i soci attuali gestiscono un patrimonio che è in larga parte "altrui". Di qui la necessità di un controllo esterno, come elemento essenziale del governo delle società cooperative senza fini di speculazione privata. E nello svolgimento di tale controllo potranno avere un ruolo importante le associazioni di categoria, contribuendo così a determinare un sistema che valorizza anche gli strumenti di autodisciplina.
        Per le società cooperative protette il legislatore dovrà introdurre un necessario coordinamento fra controllo giudiziario e controllo governativo. E per le stesse potranno sussistere anche controlli introdotti dalla disciplina di eventuali incentivi, in coerenza del resto con quanto previsto dal dettato costituzionale.
        Infine, si renderanno necessarie norme di coordinamento con la disciplina sulla cooperazione bancaria.


6. (Bilancio).

        I criteri di formazione del bilancio d'esercizio, come pure di quello che segue all'effettuazione di operazioni societarie straordinarie, richiedono un intervento riformatore in modo che il bilancio possa rappresentare al meglio l'effettiva situazione patrimoniale, finanziaria ed economica delle società.
        Il primo criterio di delega è diretto ad eliminare le interferenze della normativa fiscale nella redazione del bilancio e a stabilire le modalità con le quali occorre tenere conto degli effetti delle imposte differite <comma 1, lettera a)>.
        Ciò che comunemente viene definito inquinamento fiscale del bilancio d'esercizio ha la sua causa nell'onere - imposto dall'articolo 75 del testo unico delle imposte sui redditi, emanato con decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, di seguito denominato "TUIR" - di far transitare per il conto economico i componenti negativi di reddito di cui si intende ottenere la deducibilità ai fini fiscali.
        In correlazione con tale disposizione, l'articolo 2426, secondo comma, del codice civile, stabilisce che possono essere imputate al conto economico "rettifiche di valore e accantonamenti per (soli) motivi fiscali", rendendo possibile alle imprese la fruizione di opportunità fiscali consistenti nella maggior parte dei casi nella deduzione, in sede di determinazione del reddito, di spese e di componenti negativi forfettariamente determinati dalla norma fiscale, senza particolari indagini di merito sulla loro effettività economica. L'articolo 2426 del codice civile rende, più precisamente, possibile il soddisfacimento della condizione della previa imputazione a conto economico richiesta per la deducibilità dalla norma fiscale dell'articolo 75 del TUIR, consentendo la imputazione al conto economico anche dei componenti in questione, benché essi possano talora non risultare giustificabili proprio dal lato economico e piegando così il bilancio alle esigenze fiscali.
        L'esperienza operativa di questi primi anni di applicazione degli articoli 75 del TUIR e 2426, secondo comma, del codice civile, ha però reso evidente l'opportunità di una disciplina che restituisca al bilancio la sua autonomia funzionale, senza che venga meno per le imprese la possibilità di avvalersi della opportunità fiscale della deducibilità.
        Le interferenze sul bilancio derivanti dalla applicazione dell'articolo 2426, secondo comma, del codice civile, sono state infatti più rilevanti di quello che si potesse prefigurare, in quanto i componenti negativi fittizi hanno ingenerato, come fenomeno a catena, incertezze di comportamento anche sulle valutazioni di magazzino cui i componenti in parola (o per lo meno alcuni di essi) verrebbero ad accedere per natura. Si pensi agli ammortamenti dei beni strumentali, i quali costituiscono in effetti un tipico costo da includere nella determinazione dei valori dei beni prodotti.
        Inoltre, le imprese sono state spesso indotte, per avvalersi delle anzidette opportunità fiscali, ad esporre contabilmente un utile inferiore a quello reale, con pregiudizio spesso della loro immagine; infatti non sempre sono risultate sufficienti a fornire ai terzi una chiara lettura del bilancio le spiegazioni contenute a tale fine nella nota integrativa.
        Tra le possibili soluzioni non si ritiene adeguata ed opportuna quella fondata su regole di determinazione del reddito di impresa che siano disancorate nella loro globalità dalle risultanze civilistiche del bilancio, in tale modo sovvertendo radicalmente una impostazione tradizionale accettata e sperimentata da decenni e seguita anche da altri Stati.
        Una tale soluzione sarebbe sproporzionata rispetto ai fini da perseguire: i componenti negativi forfettari rappresentano ipotesi limitate di non coincidenza del risultato economico con il reddito fiscale, rispetto, invece, agli elementi che accomunano queste due entità. L'applicazione infatti, ormai risalente nel tempo, del principio dell'articolo 52 del TUIR - che afferma, per l'appunto, il tendenziale adeguamento del reddito fiscale a quello economico - ha fatto sì che un corredo sempre più rilevante di regole civilistiche e contabili di determinazione dell'utile sia divenuto un substrato fondamentale della stessa disciplina fiscale.
        Peraltro, non può non rilevarsi che l'ancoramento del reddito, almeno in via tendenziale, al risultato del bilancio costituisce la migliore garanzia e per il contribuente e per l'Amministrazione finanziaria. Per il contribuente, perché il conto economico, in virtù delle sue finalità e dei tradizionali princìpi di prudenza che assistono la sua formazione, è la espressione più attendibile della effettiva ricchezza prodotta dall'impresa.
        Per l'Amministrazione finanziaria, perché il bilancio, quale supporto della disciplina fiscale, è la prima e naturale misura di garanzia della attendibilità del reddito dichiarato, proprio per la plurifunzionalità che esso riveste e che ne fa oggetto di una disciplina normativa avente, principalmente, come finalità la tutela dei terzi.
        E' necessaria, dunque, una soluzione che consenta di eliminare le interferenze fiscali, senza tuttavia coinvolgere l'assetto generale degli attuali equilibri fra disciplina del bilancio civile e determinazione del reddito d'impresa.
        La soluzione che si propone da una parte intende mantenere fermo il principio, fissato dall'articolo 52 del TUIR, di dipendenza della normativa fiscale da quella civile per quanto riguarda la determinazione del reddito d'impresa e, dall'altra, realizzare comunque il disinquinamento del bilancio civilistico rispetto alla determinazione delle relative risultanze fiscali.
        In sintesi, lo schema di riferimento che si propone è il seguente:

            superamento del regime delineato dagli articoli 75 del TUIR e 2426, secondo comma, del codice civile, e riconoscimento, in sede di dichiarazione dei redditi, dei componenti negativi del reddito misurati forfettariamente ai fini fiscali, ove essi eccedano in tutto o in parte i costi effettivamente imputabili al conto economico e, perciò, a prescindere dalla loro imputazione al conto economico stesso; ove questi componenti negativi afferiscano ad elementi patrimoniali (ammortamenti eccedenti quelli economici, svalutazioni parimenti eccedenti, eccetera), tali elementi avranno, ai fini delle successive vicende reddituali, valori di riferimento fiscale divergenti e più bassi di quelli civili;

            trattamento omogeneo dei componenti negativi forfettari in questione e degli ammortamenti anticipati e dei componenti positivi. Questi ora sono deducibili e non concorrono a formare il reddito alla condizione che siano accantonati in sospensione di imposta in un'apposita riserva di pari ammontare. In forza del proposto principio di delega vanno dunque interessati al disinquinamento non solo i costi forfettari e gli ammortamenti anticipati, ma anche quei componenti positivi di reddito che sono esclusi da tassazione in applicazione di norme agevolative (le cosiddette "norme sovvenzionali"). Tali ammortamenti anticipati e tali componenti positivi di reddito potranno dunque, rispettivamente, essere dedotti e non concorrere a formare il reddito di impresa indipendentemente dalla loro imputazione a specifiche poste di bilancio, alla sola condizione che siano indicati in un apposito prospetto e nella dichiarazione dei redditi.

        Questa impostazione ha il pregio di semplificare il problema dei rapporti tra norme civili e norme fiscali, mantenendo la vigenza del citato articolo 52, comma 1, del TUIR, e affidandone la soluzione ad una estremamente limitata e sostanziale regola di doppio binario che non confligge con il medesimo articolo 52 e che, del resto, già esiste in modo implicito nella attuale disciplina fiscale.
        La lettera a) del comma 1 dell'articolo 6, colmando una lacuna dell'attuale disciplina, indica inoltre i criteri per la evidenziazione e rappresentazione in bilancio delle imposte differite o anticipate. Di quelle imposte, cioè, dovute:

            a) sia nel caso in cui la "differenza negativa" tra il reddito imponibile di un esercizio e l'utile prima delle imposte è destinata ad essere riassorbita negli esercizi successivi, con il conseguente assoggettamento a tassazione in tali esercizi della differenza stessa (imposte differite);

            b) sia nel caso in cui la "differenza positiva" tra il reddito imponibile di un esercizio e l'utile prima dell'imposta è destinata ad essere annullata nei successivi esercizi, con la conseguente imputazione delle imposte sulle predette differenze positive all'imposta dovuta nei successivi esercizi (imposte anticipate).

        I criteri di rilevazione indicati sono dettati, in particolare, per garantire la migliore aderenza di queste poste ai princìpi di competenza e di rappresentazione "veritiera e corretta" della situazione patrimoniale, finanziaria e del risultato dell'esercizio. Più specificatamente, il rispetto di tali princìpi - in una prospettiva di continuazione dell'attività imprenditoriale - richiede che il trattamento di un componente, negativo o positivo, sia rilevato sulla base degli stessi criteri con cui vengono determinati gli "altri" componenti del risultato dell'esercizio.

        6.1. Il principio indicato nella lettera b) del medesimo comma 1 riguarda la regolamentazione delle poste di patrimonio netto, in ordine alle quali si registrano divergenze sui criteri di individuazione con riferimento alle ipotesi: a) di copertura di perdite aventi una certa influenza sul capitale piuttosto che sul patrimonio netto (articoli 2446 e 2447 del codice civile); b) di individuazione di ciò che può formare o meno oggetto di distribuzione ai soci (classico è il caso del rimborso dei cosiddetti "finanziamenti infruttiferi dei soci" come pure dei cosiddetti "versamenti in conto capitale"); c) dell'apporto di "contributi" da parte di terzi; d) di operazioni straordinarie (fusioni e scissioni), in cui diventa decisivo computare correttamente il patrimonio netto ai fini della determinazione del rapporto di cambio e, poi, dei successivi avanzi o disavanzi di fusione o di scissione.
        Ma, oltre che con riferimento all'individuazione del contenuto di ciò che concorre a formare il patrimonio netto, ulteriori interrogativi sono sovente sorti anche con riguardo al possibile utilizzo delle voci in questione, al riguardo, distinguendosi fra parti del patrimonio netto "disponibili" e parti del patrimonio netto considerate "indisponibili".
        E' opportuno, quindi, da un lato individuare le delimitazioni del patrimonio netto; dall'altro, evitare tassative specifiche elencazioni delle relative voci che rischiano di essere travolte da possibili interventi di carattere normativo.
        Per quanto attiene, invece, alle modalità di utilizzo dovrà essere precisata la distinzione fra le singole parti del patrimonio netto in funzione della destinazione che ad esso si intende attribuire, indicando separatamente le parti suscettibili di fuoriuscire "ordinariamente" dal patrimonio sociale da quelle che, invece, non sono "ordinariamente utilizzabili" a tali fini.

        6.2. I criteri direttivi di delega in materia di bilancio indicati alle lettere c) e d)del comma 1 sono finalizzati a consentire il superamento di alcune carenze presenti nell'attuale quadro normativo e ad apportare gli aggiustamenti necessari per recepire nell'ordinamento contabile fattispecie contrattuali innovative generate dai processi di evoluzione finanziaria. Gli interventi prospettati attengono, in particolare, al trattamento valutativo-contabile di alcune famiglie di strumenti finanziari <lettera c)> e alla possibilità di adottare nel bilancio consolidato dei gruppi societari i princìpi contabili internazionali <lettera d)>.
        Per quanto attiene al criterio di cui alla lettera c), occorre mettere in evidenza che i limiti principali della vigente disciplina codicistica sul bilancio riguardano importanti famiglie di prodotti finanziari il cui utilizzo si è andato negli ultimi tempi rapidamente diffondendo anche nel mondo delle imprese non bancarie. Ci si riferisce in modo particolare agli strumenti valutari, ai contratti derivati, agli strumenti di copertura dei rischi, ai pronti contro termine e alle locazioni finanziarie. Poiché tali fattispecie non sono specificamente regolate dalle disposizioni codicistiche in vigore, si sono sviluppate nel tempo prassi operative ispirate alternativamente alla disciplina settoriale delle banche (decreto legislativo 27 gennaio 1992, n. 87), alle disposizioni tributarie sul reddito di impresa, ai princìpi contabili (nazionali e internazionali).
        Per favorire l'adozione di comportamenti contabili omogenei e tecnicamente appropriati, si prevede che la disciplina del codice civile venga integrata con l'introduzione di apposite regole concernenti il regime di bilancio dei suddetti strumenti e delle altre operazioni finanziarie di carattere innovativo. Si è preferito da un lato disporre che le operazioni in questione trovino nel codice uno specifico dettato, dall'altro evitare di indicare il concreto regime applicabile, dal momento che esso non potrà che ispirarsi ai princìpi di formazione del bilancio che la delega non intende affatto modificare.
        Per quanto concerne l'adottabilità, nel bilancio consolidato dei gruppi societari, dei princìpi contabili internazionali <lettera d)>, si rileva preliminarmente che l'articolo 117, comma 2, del TUF, riserva l'opzione di impiegare, a determinate condizioni e anche in deroga alle vigenti disposizioni nazionali, i princìpi contabili riconosciuti in sede internazionale unicamente alle società emittenti strumenti finanziari quotati contemporaneamente in un qualunque mercato regolamentato dell'Unione europea e in un mercato esterno (cosiddetti "global players"). La norma definisce, in particolare, sia l'oggetto della deroga, che viene circoscritto al bilancio consolidato, sia i requisiti che i princìpi contabili devono soddisfare perché ne sia ammessa la adottabilità (carattere internazionale, compatibilità con le direttive dell'Unione europea, accettazione nei mercati extraeuropei di quotazione).
        Tale disposizione costituisce la prima risposta elaborata dal legislatore nazionale per corrispondere alle istanze di competitività delle maggiori imprese multinazionali italiane e per avviare il processo di ammodernamento della disciplina legale di bilancio.
        Tuttavia l'approccio seguito dall'articolo 117 del TUF, se da un lato tende a stabilire per i global players italiani condizioni di parità informativa rispetto ai competitors extraeuropei, dall'altro introduce però una potenziale, rilevante segmentazione nelle configurazioni di bilancio dei suddetti global players e delle altre società quotate, che rischia di inficiare per altro verso le esigenze di omogeneità, di comparabilità e di trasparenza informativa espresse dai mercati. Oltre a ciò, vanno pure considerate, con specifico riferimento ai settori di imprese sottoposte a forme di vigilanza pubblica (banche, finanziarie, assicurazioni), le possibili implicazioni per i coefficienti di tipo prudenziale cui dette imprese soggiacciono e che impongono loro di rispettare livelli minimi di capitalizzazione correlati ai rischi assunti. E' evidente che in tali settori i requisiti di omogeneità e di comparabilità dell'informativa societaria rilevano non soltanto per finalità di trasparenza, ma anche perché favoriscono la corretta applicazione dei coefficienti di solvibilità basati in larga misura su aggregati di bilancio. L'eterogeneità dei criteri contabili può, quindi, intaccare la funzionalità delle regole prudenziali e creare inaccettabili situazioni di disparità concorrenziale fra gli intermediari quotati e quelli non quotati.
        Per tali ragioni e tenuto conto delle soluzioni già adottate in altri ordinamenti europei (Germania, Francia) il principio di delega contemplato nella lettera d) è diretto a stabilire le condizioni in base alle quali anche altre società diverse dai global players potrebbero, nei loro bilanci consolidati, fare uso di princìpi riconosciuti internazionalmente, in considerazione della loro vocazione internazionale e del carattere finanziario.

        6.3. Il principio direttivo contenuto nella lettera e) del comma 1 dell'articolo 6 è diretto ad estendere le regole di applicazione del bilancio in forma abbreviata alle imprese indicate nell'articolo 27 della direttiva 78/660/CEE del Consiglio, del 25 luglio 1978, la quale ha previsto, per le società di minori dimensioni, la redazione di schemi semplificati di stato patrimoniale e di conto economico, con possibili ulteriori semplificazioni in sede di redazione dell'allegato (nota integrativa) e la possibile soppressione - a certe condizioni - della relazione sulla gestione. In particolare la direttiva ha individuato due categorie di imprese di minori dimensioni che potremmo identificare per semplicità come "piccole" e "medie" imprese, rispettivamente in base ai seguenti parametri (in corso di elevazione del 25 per cento):

            imprese "piccole":

                attivo patrimoniale 4,7 (L/Mld);

                volume d'affari 9,5 (L/Mld);

                dipendenti 50.

            imprese "medie":

                attivo patrimoniale 12,4 (L/Mld);

                volume d'affari 25,6 (L/Mld);

                dipendenti 250.

        Il legislatore nazionale, nel decreto legislativo n. 127 del 1991, si è avvalso della facoltà concessagli per quanto attiene alle imprese "piccole", adottando le disposizioni ora trasfuse nell'articolo 2435-bis del codice civile, ma non ha utilizzato appieno i margini della direttiva con riferimento alle imprese "medie", con il risultato di assoggettare queste ultime al regime ordinario. Di qui la necessità di ripensare la logica minimalista seguita dal legislatore nel decreto legislativo n. 127 del 1991, considerata l'esperienza nel frattempo maturata circa le effettive necessità e tenuto conto delle apprezzabili semplificazioni che attengono al processo di formazione, di intellegibili conti annuali per le imprese medio-piccole.

        6.4. Infine, con la lettera f) del medesimo comma 1 si è inteso attribuire al legislatore delegato il potere di armonizzare la disciplina fiscale sul reddito di impresa con gli interventi regolatori che precedono, allo scopo di evitare che la nuova disciplina civilistica si traduca in una modifica peggiorativa di quella sostanziale tributaria. La rilevanza e la novità degli interventi programmati dovrebbero inoltre spingere ad usare la massima cautela nei tempi di applicazione della nuova disciplina, sia nella sfera contabile sia in quella fiscale, prevedendo disposizioni di carattere transitorio al fine di evitare, dove necessario, che le innovazioni normative possano esplicare indesiderabili, ancorché non voluti, effetti retroattivi.


7. (Trasformazione, fusione, scissione).

        In materia di trasformazione, fusione e scissione il criterio generale della semplificazione delle procedure si traduce anzitutto nell'indicazione della ricerca del massimo snellimento del procedimento compatibile, per le società di capitali, con le direttive comunitarie <comma 1, lettera a)>. La crescente rilevanza del registro delle imprese potrà consentire, d'altro canto, forme di pubblicità omogenee con quelle previste per le altre operazioni, evitando i più lunghi tempi della pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale. La semplificazione delle procedure di valutazione dei conferimenti, del procedimento assembleare in generale e di omologazione di cui all'articolo 4 consentiranno ulteriori snellimenti anche delle operazioni di trasformazione, fusione e scissione.
        Nella prospettiva di eliminare ostacoli alla libera fruizione della forma che nel tempo appare più adeguata allo svolgimento della attività di impresa, si dovranno disciplinare in modo organico possibilità, condizioni e limiti delle trasformazioni e delle fusioni eterogenee in un panorama nel quale l'esercizio dell'impresa vede, accanto alla tradizionale bipartizione tra società di persone e di capitali, l'universo, in rapida evoluzione normativa, delle cooperative, delle associazioni e delle fondazioni <comma 1, lettera b)>.
        Occorrerà quindi stabilire se e quali variazioni introdurre nella disciplina a seconda dei soggetti coinvolti nell'operazione.
        Il legislatore delegato potrà prendere posizione sulla questione, non sempre univocamente risolta, della continuità dei rapporti nei confronti di terzi dopo operazioni di fusione, scissione e trasformazione.
        In questo contesto, nel rispetto delle norme comunitarie, potranno essere prese in considerazione anche le operazioni transnazionali e le cosiddette "trasformazioni" delle filiali di imprese estere operanti in Italia.
        Infine, dovranno essere disciplinati (naturalmente in armonia con i princìpi di cui all'articolo 6) i criteri di formazione del primo bilancio successivo ad operazioni di fusione e di scissione.
        Si tratta di riempire un vuoto normativo che ha finora prodotto un certo disordine nella materia. I criteri seguiti nella redazione del primo bilancio successivo all'operazione in questione hanno, infatti, risentito nella prassi della presenza di interessi contingenti piuttosto che della tipologia di operazione realizzata. Così la "fusione con cambio di azioni" tanto nella veste di fusione propria quanto in quella della fusione per incorporazione, si risolve spesso nell'adozione - nel primo bilancio "post fusione" - di valori finalizzati al mero concambio e, come tali, difformi sia da quelli storici, sia da quelli di mercato. Al contrario, nella fusione per incorporazione "senza cambio di azioni" si assiste sovente, ma solo nei casi in cui dalla fusione deriva un disavanzo, a rettifiche di valore delle attività provenienti dall'incorporata, spesso senza che dette valutazioni siano compatibili con quelle già adottate dall'incorporante per le "proprie" attività e mantenute tali anche dopo il perfezionamento della fusione. Quando, invece, dalla medesima fusione deriva un "avanzo" si tende a non apportare alcuna modifica al valore dell'attivo portato dall'incorporata.
        Osservazioni analoghe possono formularsi con riferimento alla scissione.
        Si aggiunga che la vigente disciplina fiscale sancisce la piena neutralità fiscale delle operazioni in questione comunque poste in essere (cioè con o senza cambio di azioni) ed ha eliminato l'iscrizione di plusvalenze dal novero degli eventi costituenti presupposto per l'applicazione dell'imposta sul reddito personale.
        Ne consegue che non sussistono più ragioni, neppure di ordine fiscale, per mantenere un'ingiustificata asimmetria nella scelta dei criteri di congiunzione delle scritture contabili e di valutazione delle attività oggetto di trasferimento nel primo bilancio successivo al perfezionamento dell'operazione di fusione e di scissione.


        8. (Scioglimento e liquidazione).

        L'articolo 8 prevede la riforma della disciplina dello scioglimento e della liquidazione delle società di capitali e cooperative.
        In primo luogo, in coerenza con i princìpi ispiratori di fondo della riforma, è previsto un intervento diretto a semplificare ed accelerare il procedimento di liquidazione sin dalla fase iniziale dell'accertamento delle cause di scioglimento e di nomina giudiziale dei liquidatori ove non vi abbia provveduto la società stessa. Tale intervento deve coordinarsi con quello diretto, più in generale, a semplificare ed accelerare l'attività giudiziaria, di volontaria giurisdizione e non, in materia societaria contemplato dall'articolo 11.
        In secondo luogo, il legislatore è chiamato a colmare la lacuna della vigente disciplina in ordine agli effetti della cancellazione della società, con particolare riferimento alle responsabilità per sopravvenienze passive ed in genere alle conseguenze dell'emersione, successivamente alla cancellazione dal registro delle imprese, di sopravvenienze attive o passive. L'intervento gioverà a porre le basi sistematiche anche per una disciplina omogenea e coerente dell'insolvenza dell'imprenditore cessato sopperendo, tra l'altro, alle gravi incertezze cui dà origine la tesi giurisprudenziale dell'assoggettamento al fallimento della società cancellata dal registro delle imprese, allorquando emergano sopravvenienze passive <comma 1, lettera a)>.
        La delega lascia aperte tutte le soluzioni, sicché si potrebbe codificare la "presunzione" iuris tantum di estinzione della società con la cancellazione dal registro delle imprese e da tale momento decorrerebbero i termini previsti dall'articolo 10 della cosiddetta "legge fallimentare" regio decreto n. 267 del 1942 per la dichiarazione di fallimento dell'imprenditore cessato; si potrebbe altresì prevedere ex lege che la cancellazione comporti la definitiva estinzione della società a tutti i fini, previo un "interpello" dei creditori, sì che la successiva cancellazione in assenza di "dichiarazioni di credito" lasciate insoddisfatte estingua sicuramente e definitivamente la società.
        L'esigenza di favorire, per evidenti ragioni di efficienza, processi di ristrutturazione e quella di salvaguardare i valori aziendali anche in caso di riorganizzazione o crisi, stanno a base della necessità, sancita nella lettera b) del comma 1 di disciplinare il procedimento di revoca dello stato di liquidazione, nonché i poteri ed i doveri di amministratori e liquidatori riguardo al compimento di nuove operazioni.
        Infine, la previsione di cui al comma 1, lettera c), colma una lacuna del vigente sistema nel momento in cui afferma la necessità di una disciplina dei bilanci nella fase di liquidazione in base a criteri adeguati alle loro specifiche finalità e pertanto non necessariamente identici a quelli che presiedono alla redazione del bilancio di una società operante nella prospettiva della continuità dell'impresa.
        9. (Gruppi).

            L'articolo 9 delinea la disciplina del gruppo, sul presupposto che lo stesso ha un valore in linea di principio positivo e che si va diffondendo secondo forme diverse, in assenza di una specifica disciplina, e senza che vi sia la possibilità di una adeguata conoscenza dei rapporti fra le società del gruppo e dell'esercizio in concreto dei poteri del socio di controllo.
        I criteri direttivi sono ispirati ad un principio di piena trasparenza, in modo da consentire la conoscibilità in funzione di valutazione e di controllo <comma 1, lettera a)>.
        La nuova disciplina deve, altresì, assicurare che "l'attività di direzione e coordinamento contemperi adeguatamente l'interesse del gruppo, delle società controllate e dei soci di minoranza di queste ultime" <comma 1, lettera a)>. L'attività di "direzione e coordinamento", propria della capogruppo, è presunta come dato di fatto senza riconoscere alla stessa (a diversità di quanto avviene nel sistema bancario) specifici poteri giuridici. Si definisce, però, un principio di valutazione della correttezza nell'esercizio di tale attività, imponendo che i costi a carico della controllata (e con essa dei soci di minoranza), in dipendenza dell'appartenenza al gruppo, siano adeguatamente bilanciati dai benefici derivanti dall'appartenenza stessa.
        Gli organi decisori della controllata, sui quali in principio ricade la responsabilità dell'azione di questa sono, quindi, tenuti a dare giustificazione imprenditorialmente corretta dell'operazione, valutando l'interesse sociale non solo con riferimento ad una operazione isolatamente considerata, ma con riferimento al quadro generale di gruppo nel quale si svolge l'impresa sociale.
        Costituisce un'applicazione specifica del principio di "trasparenza" la previsione <comma 1, lettera b)> di analitica "motivazione" delle decisioni della controllata, quando assunte valutando anche l'interesse di gruppo. La necessità di considerare i costi/benefìci non solo dell'operazione in sé, ma anche dell'appartenenza ad un gruppo, impone, in funzione della verifica del rispetto del principio di adeguatezza, che siano forniti completi elementi di valutazione.
        In armonia con la scelta di non attribuire alla controllante poteri specifici, non è stato fissato un principio generale di responsabilità; tuttavia, attesa l'esigenza di prevedere una disciplina che assicuri il contemperamento dell'interesse del gruppo, delle società controllate e dei soci di minoranza di queste ultime, il legislatore delegato potrà prevedere che alla responsabilità primaria degli amministratori della controllata, si aggiunga in casi di abuso, una responsabilità della controllante.
        Non sono stati indicati princìpi direttivi per un modello di gruppo; il legislatore delegato potrà dunque scegliere tra le diverse definizioni di gruppo che si rinvengono nella normativa in vigore, ovvero creare un modello di gruppo, evitando di ispirarsi a quei modelli diffusi nella legislazione in vigore che riflettono una concezione in principio negativa del gruppo. In particolare il legislatore dovrà evitare di seguire concezioni che, al fine di prevenire o eliminare un pericolo potenziale, dilatino il perimetro del gruppo al di là della sfera di possibile esercizio, in concreto, dell'attività di direzione e coordinamento.
        Poiché le condizioni di esercizio dell'impresa sociale possono variare notevolmente a seconda che la società appartenga o meno ad un gruppo, sono necessarie opportune forme di pubblicità dell'appartenenza e quindi anche dell'ingresso e dell'uscita della società da un gruppo <comma 1 lettera c)>.
        Deriva dal medesimo presupposto l'esigenza di assicurare al socio di minoranza adeguate tutele all'atto dell'ingresso o dell'uscita delle società dal gruppo, compreso eventualmente il diritto di recedere dalla società quando non sussistono le condizioni per l'obbligo di offerta pubblica di acquisto <comma 1, lettera d)>.

10. (Disciplina penale delle società commerciali).

            L'articolo 10 del disegno di legge detta i princìpi e criteri direttivi per la riforma della disciplina penale delle società commerciali e delle materie connesse.
        Nella formulazione di tali princìpi e criteri direttivi, si è partiti dalla diffusa constatazione dell'inadeguatezza della disciplina vigente e della conseguente scarsa efficacia del sistema punitivo di settore. Se, da un lato, infatti, le disposizioni contenute nel codice civile del 1942 appaiono inevitabilmente invecchiate, dall'altro la successiva introduzione di leggi speciali, quasi sempre accompagnate da misure sanzionatorie, ha appesantito non poco il sistema nel suo complesso, generando numerose questioni di natura interpretativa e sistematica, senza tuttavia aumentare apprezzabilmente la capacità d'intervento sulle patologie nella vita delle imprese. Le innovazioni degli ultimi venticinque anni si collocano, inoltre, in prevalenza, in un modello che assegna alle fattispecie penali un ruolo meramente "sanzionatorio" rispetto alla disciplina civilistica: con una conseguente eccessiva dilatazione della risposta penalistica, la quale risulta, per di più, fortemente sprovvista di autonomia.
        In tale ottica, la norma di delega in esame prefigura una incisiva revisione del comparto, da un lato restringendo il numero e l'ambito di applicazione delle fattispecie criminose e, dall'altro, introducendo fattispecie ed istituti nuovi volti a colmare lacune da tempo lamentate. Le linee guida cui si ispira, per tale aspetto, la riforma si compendiano nell'esigenza del rispetto dei princìpi di determinatezza e precisione dell'illecito penale, in modo da definire con chiarezza il precetto penalmente sanzionato e da realizzare una semplificazione dei modelli punitivi; del principio di sussidiarietà, in modo da escludere l'intervento penalistico là dove altri rimedi appaiano sufficienti a garantire una efficace tutela del bene giuridico e da evitare, in ogni caso, il ricorso alla sanzione penale qualora sia in giuoco l'osservanza di regole di natura puramente "disciplinare"; ed ancora, del principio di offensività, in modo da circoscrivere la punibilità alle sole condotte concretamente offensive dell'interesse protetto.
        In materia di sanzioni, si è scelto di non prevedere mai la comminatoria congiunta di pena detentiva e pena pecuniaria, la quale non sembra aggiungere nulla all'efficacia dissuasiva della pena detentiva, rendendo quella pecuniaria solo un'appendice priva di autonomo significato. Si è prevista, piuttosto, una formulazione estensiva dell'istituto della confisca, in modo da allargarne il raggio di operatività: risultato che appare particolarmente prezioso nel campo della criminalità d'impresa.
        Si è prevista inoltre l'introduzione di forme di responsabilità delle persone giuridiche, idonee a rafforzare la reazione complessiva dell'ordinamento ai fatti di criminalità economica. La strada al riguardo prescelta non poteva essere, peraltro, che quella della responsabilità amministrativa, posto che l'eventuale introduzione di una responsabilità penale, estranea alla tradizione del nostro ordinamento, deve considerarsi un compito riservato al legislatore del codice penale.
        Riguardo all'organizzazione della materia, l'intervento di riforma è stato scandito attorno ai poli tematici costituiti dai principali beni giuridici del settore alla cui tutela può utilmente essere apprestata la sanzione penale, beni così individuati:

            a) veridicità e compiutezza dell'informazione societaria, di natura economica, nei confronti di categorie aperte di destinatari (soci, creditori, risparmiatori, eccetera);

            b) veridicità e compiutezza dell'informazione nei confronti di agenzie preposte al controllo ed al governo del settore in cui opera la società;

            c) effettività ed integrità del capitale sociale;

            d) conservazione del patrimonio sociale, in specie rispetto agli atti finalizzati ad interessi extrasociali;

            e) regolare funzionamento degli organi sociali, nel rispetto delle attribuzioni di poteri;
            f) regolarità ed affidabilità dei mercati finanziari.

        L'elencazione sopra riportata interessa una materia più ampia di quella usualmente riportata al diritto penale delle società. Ma nel momento in cui il disegno di legge delega affrontava il tema di una riforma dei protagonisti - le società - dell'agire economico, era inevitabile ampliare gli orizzonti al di là dello stretto ambito che la tradizione ha consegnato alla disciplina: i rapporti tra le fattispecie classiche e quelle introdotte dalla legislazione speciale sono infatti così stretti da rendere impossibile una considerazione limitata unicamente al campo tracciato dalle norme del codice civile. In alcuni casi, i criteri di delega si spingono quindi direttamente in settori fin qui affidati alla legislazione speciale; in altri casi, il compito spetterà al legislatore delegato, sulla base dei princìpi di armonizzazione e di livellamento sanzionatorio.
        Per quanto attiene alla tecnica di redazione, si è tenuto conto dell'esigenza di una maggiore specificità di dettato per la materia penalistica - connessa anche a vincoli costituzionali - rispetto alla materia civilistica, optando conseguentemente per una formulazione analitica dei criteri relativi alla prima.
        Si sono inoltre indicate, per ciascuna fattispecie, la specie e la misura della pena: opera nella quale è stato di guida l'obiettivo di assicurare omogeneità di trattamento sanzionatorio in presenza di illeciti incidenti su interessi di pari rango e caratterizzati da analogo disvalore, eliminando gli squilibri sanzionatori fra fattispecie similari talora riscontrabili nella normativa vigente.
        La lettera a) del comma 1 dell'articolo 10 detta i princìpi riguardanti la formulazione dei singoli illeciti - penali ed amministrativi - destinati a comporre il nuovo sistema repressivo.
        Il numero 1 della medesima lettera a) prevede l'ipotesi della falsità in bilancio, nelle relazioni o in altre comunicazioni sociali.
        Alla radice del criterio di delega sta la netta riaffermazione dell'esigenza di un'efficace tutela penalistica della veridicità e della completezza dell'informazione societaria, cui peraltro si affianca la necessità di una più puntuale descrizione del fatto tipico, sia per evitare eccessive ed imprevedibili dilatazioni della figura in sede applicativa, sia per ridurre le oscillazioni interpretative.
        Sono stati quindi formulati princìpi volti a centrare la fattispecie sulla falsa o incompleta informazione a categorie "aperte" di soggetti destinatari, separandola nettamente dall'informazione resa ad autorità di controllo o a singoli, individuati destinatari.
        Dal novero dei soggetti attivi sono stati espunti i promotori e i soci fondatori, parallelamente alla scomparsa della "costituzione" della società come oggetto di possibile mendacio, in ragione dell'assoluta marginalità dell'ipotesi, pressoché assente nella prassi: i casi che dovessero residuare appaiono destinati a trovare tutela nella norma incriminatrice comune della truffa.
        Il mendacio trova caratterizzazione anzitutto nella direzionalità offensiva, con la precisazione che deve essere rivolto a soggetti indeterminati, i quali orientano le proprie scelte economiche sulla base delle informazioni offerte. Alla menzione del "pubblico" si è aggiunta quella dei "soci", per segnalare l'applicabilità della norma incriminatrice anche a comunicazioni rese solo a questi ultimi, avvenute con modalità non "pubbliche", ancorché aventi carattere di ufficialità.
        La precisazione della direzionalità offensiva del mendacio esclude dall'ambito operativo della figura le comunicazioni interorganiche e quelle rivolte ad un singolo destinatario. Sullo sfondo delle vicende ora menzionate si stagliano esigenze di tutela diversificate: quanto alla prima, miglior presidio è offerto dalla figura generale dell'impedito controllo <n. 4 della lettera a)>, oppure dallo schema dell'articolo 48 del codice penale; mentre alla seconda si rivolge la figura della truffa, tipica di un rapporto intersoggettivo individuato (ad esempio cliente-banca) ed a preciso contenuto patrimoniale. Se, invece, la falsa informazione è resa alle autorità di vigilanza, la repressione del mendacio è affidata alle figure di cui alla lettera b), adeguatamente armonizzate e coordinate.
        Nella precisazione del veicolo del mendacio si è preferito utilizzare il termine "informazioni", il quale, peraltro, va sempre riferito a fatti materiali, ancorché oggetto di valutazioni, esulando di necessità dall'ambito della fattispecie le previsioni, i pronostici, l'enunciazione di progetti o simili: ossia valutazioni di natura schiettamente soggettiva, alle quali non si attaglia un giudizio basato sull'antitesi vero-falso.
        L'elemento soggettivo è stato oggetto di uno sforzo di precisazione. In particolare, si è prevista una qualificazione del dolo in termini di intenzionalità, allo scopo di evitare il ricorso a soluzioni applicative basate sulla figura del dolo eventuale; nel contempo si è puntualizzata la conformazione del dolo specifico, stabilendo che lo stesso debba risultare orientato al perseguimento di un ingiusto profitto.
        L'esigenza di assicurare alla figura l'indispensabile lesività è affidata ad un requisito di natura oggettiva, essendo apparse non sufficientemente sicure le soluzioni in termini soggettivi. Le condotte incriminate devono essere cioè idonee, in concreto, ad ingannare i soggetti destinatari sull'effettiva situazione della società, dando luogo così ad un concreto pericolo di sviamento nelle loro decisioni.
        L'area di applicazione della figura è stata per altro verso estesa -oltre che al mendacio sulla situazione economica, patrimoniale o finanziaria del gruppo al quale la società appartiene - anche in riferimento a beni da essa amministrati o posseduti per conto di terzi, chiarendo così che l'obbligo di trasparenza informativa vale, con la stessa intensità, per i beni che sono estranei al patrimonio della società ed a questa affidati.
        Da ultimo, nell'ottica di fare chiarezza attorno ad un argomento da sempre al centro di vivo dibattito, viene demandato al legislatore delegato il compito di regolare i rapporti tra la fattispecie in esame ed i delitti tributari in materia di dichiarazione che, a seguito della riforma recentemente attuata dal decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74, hanno sostituito il delitto di frode fiscale.
        Al numero 2) della medesima lettera a) è previsto il delitto di falso in prospetto, al quale si è attribuita autonoma collocazione, soprattutto per evitare dubbi di natura interpretativa legati alla particolare tipologia dei veicoli dell'informazione. Il livello di lesività del falso in prospetto, d'altro canto, non appare inferiore a quello del falso in bilancio, posto che il prospetto è un documento per sua natura rivolto al pubblico e dotato di caratteristiche tali da determinare negli investitori un rilevante affidamento circa l'idoneità delle informazioni in esso contenute per l'effettuazione di scelte consapevoli di investimento.
        Il numero 3) contempla il delitto di falsità nelle relazioni o nelle comunicazioni della società di revisione.
        Rispetto alla fattispecie attualmente prevista dall'articolo 175 del TUF si prevede una semplificazione nella descrizione della condotta ("attestano il falso od occultano informazioni"), che appare meglio calibrata sulla peculiare attività delle società di revisione. La garanzia di effettiva lesività è affidata alla formula presente anche nelle due precedenti ipotesi.
        Il delitto di impedito controllo, di cui al numero 4), accorpa in una fattispecie di carattere generale comportamenti lesivi dello stesso interesse.
        L'ipotesi resta centrata sul fatto degli amministratori, come nell'attuale articolo 2623, numero 3, del codice civile, ma si amplia ad offrire tutela al controllo, oltre che dei soci o dei sindaci, anche delle società di revisione.
        Un'ipotesi di illecito amministrativo è contemplata dal numero 5) della lettera a) del citato comma 1, che prevede la riformulazione in termini più generali, per evitare minute previsioni sanzionatorie di scarso spessore (quale l'attuale articolo 2635 del codice civile), della disposizione dettata dall'articolo 2626 del codice civile.
        Nei numeri 6), 7), 8) e 9) della medesima lettera a) sono enunciati i criteri direttivi per la revisione delle fattispecie poste a tutela dell'effettività ed integrità del capitale sociale.
        Pur nel rispetto delle coordinate fondamentali del sistema vigente, il nuovo regime prefigura una energica riduzione del numero delle figure criminose, in chiave di adeguamento ai princìpi di extrema ratio e di necessaria offensività dell'illecito penale, con conseguente rinuncia all'attuale estesa penalizzazione delle regole civili che presiedono alle operazioni potenzialmente pericolose per il capitale.
        In tale prospettiva, il numero 6) delinea, anzitutto, la fattispecie della formazione fittizia del capitale, intesa a colpire unitariamente le condotte che incidono, inquinandolo, sul processo "genetico" del nucleo patrimoniale protetto, nei due momenti della costituzione della società e dell'aumento di capitale.
        La fattispecie è costruita come reato di evento (formazione o aumento fittizio del capitale) a condotta vincolata. Le condotte integrative del delitto (attribuzione di azioni o quote sociali per somma inferiore al loro valore nominale, sottoscrizione reciproca di azioni o di quote, rilevante sopravvalutazione dei conferimenti di beni in natura o di crediti ovvero del patrimonio della società che si trasforma) corrispondono, in parte, a quelle già contemplate (nella cornice, peraltro, di reati di mera condotta) da norme incriminatrici vigenti (articoli 2629, 2630, numeri 1) e 2), del codice civile). Resta salva, comunque, in base alla lettera b) del comma 1 dell'articolo 10 - per questa come per le altre fattispecie di omologa ispirazione - la possibilità di un coordinamento (anche mediante estensione delle previsioni punitive a violazioni similari) con la nuova disciplina del capitale sociale, delle riserve e delle azioni che sarà introdotta in attuazione dei criteri civilistici di delega.
        Il numero 7) contempla la figura delittuosa dell'indebita restituzione dei conferimenti, la quale, atteggiandosi a fattispecie generale di salvaguardia dell'integrità del capitale, punisce - sulla falsariga del vigente articolo 2623, numero 2), del codice civile - la restituzione, anche in forme simulate, dei conferimenti ai soci o la loro liberazione dall'obbligo di eseguirli, fuori dei casi di legittima riduzione del capitale sociale.
        Il numero 8) propone la fattispecie dell'illegale ripartizione degli utili e delle riserve, intesa a dare nuova ed unitaria veste alle figure criminose attualmente previste dai numeri 2) e 3) dell'articolo 2621 del codice civile.
        Le novità attengono, in primo luogo, al pieno allineamento delle due ipotesi - oggi soggette a trattamento differenziato - della distribuzione di utili e di acconti sugli stessi: prevedendosi, in entrambi i casi, che la reazione punitiva scatti solo di fronte a ripartizioni di utili non effettivamente conseguiti o non distribuibili, in quanto destinati per legge a riserva.
        Al fine di fugare le odierne incertezze interpretative circa la riconducibilità al modello punitivo dell'indebito riparto di riserve non formate con utili di gestione, è stata altresì configurata come condotta autonomamente rilevante la ripartizione di qualsiasi riserva, anche non da utili, che non possa essere per legge distribuita.
        Per converso, tanto in rapporto alla ripartizione degli utili che delle riserve, l'area di protezione penalistica è stata circoscritta alle sole riserve obbligatorie per legge, con esclusione delle riserve non distribuibili per statuto. Si è ritenuta, infatti, non sufficientemente giustificata, nell'ottica della tutela del capitale, la salvaguardia penalistica di un vincolo patrimoniale che, in quanto originato da una deliberazione dei soci, attiene essenzialmente alla sfera "interna" dei rapporti amministratori-assemblea.
        Riguardo alla figura delle illecite operazioni sulle azioni o quote sociali o della società controllante, il criterio dettato dal numero 9) prelude ad una costruzione della norma incriminatrice nel segno dell'autonomia rispetto alle disposizioni civili che regolano dette operazioni a fini di tutela del capitale sociale e delle riserve. Non basterà, cioè, ad integrare il delitto, come nel sistema vigente (articolo 2630, primo comma, numero 2), in riferimento agli articoli 2357, primo comma, e 2359-bis, primo comma, del codice civile), la mera inosservanza di dette disposizioni, ma occorrerà che la stessa abbia effettivamente determinato una indebita menomazione della sfera patrimoniale tutelata.
        Viene ovviamente confermata, anche in rapporto alla fattispecie in parola, la limitazione della protezione penale alle sole riserve non distribuibili per legge.
        Ugualmente nella direzione del rispetto del principio di necessaria offensività del reato si muove il criterio direttivo di cui al numero 10), concernente la fattispecie delle operazioni in pregiudizio dei creditori.
        Sganciandosi dalla logica della tutela penale puramente "sanzionatoria", cui è ispirato il vigente articolo 2623, numero 1, del codice civile, l'esecuzione di riduzioni di capitale ovvero di fusioni con altra società o scissioni è sottoposta a pena, non per la mera violazione delle disposizioni di legge poste a tutela dei creditori sociali, ma in quanto da tale violazione sia derivato un concreto pregiudizio per i titolari dell'interesse protetto.
        La fattispecie dell'indebita ripartizione dei beni sociali da parte dei liquidatori, contemplata dal numero 11), corrisponde a quella dell'articolo 2625 del codice civile. Il tratto differenziale è rappresentato dalla previsione di un evento di danno per i creditori, ad evitare che la punizione dell'inosservanza della regola che impone di anteporre questi ultimi ai soci nel riparto del ricavato della liquidazione si risolva nella criminalizzazione di un mero criterio di successione cronologica nei pagamenti.
        Di particolare rilievo è il criterio enunciato dal numero 12), che prelude all'introduzione nel nostro ordinamento di una fattispecie di infedeltà patrimoniale, ben nota (sia pur con diverse configurazioni) nell'esperienza comparatistica.
        La scelta si connette alla sperimentata incapacità dell'attuale sistema repressivo a fornire risposte adeguate alle esigenze di tutela del patrimonio sociale contro gli abusi dei titolari di poteri gestori. E convinzione diffusa, infatti, che la manifesta insufficienza dell'impianto di settore - che propone, su tale versante, figure criminose poco incisive e di taglio formalistico <vedi, in particolare, gli articoli 2624, 2630, secondo comma, numero 1), e 2631 del codice civile> - non trovi adeguato correttivo nelle potenzialità delle norme incriminatrici comuni in tema di delitti contro il patrimonio (in primis, appropriazione indebita e truffa).
        Riguardo alla concreta configurazione della fattispecie, si sono peraltro scartate soluzioni imperniate su concetti del tipo "abuso dei poteri" o "violazione dei doveri", il cui impiego rischierebbe di dilatare eccessivamente la figura criminosa e di renderne incerti i confini, collegando invece la reazione punitiva (sulla falsariga di quanto già previsto, nei rapporti tra intermediari finanziari e clientela, dall'articolo 168 del TUF) agli atti di infedeltà posti in essere in una situazione di conflitto di interessi. Presupposto, quest'ultimo, da intendere peraltro riferito a contrapposizioni d'interessi obiettive e preesistenti alla condotta, e non già emergenti solo in occasione di quest'ultima.
        In pari tempo, la fattispecie è stata strutturata come reato di azione con evento di danno, identificando la condotta incriminata nel compimento o nella partecipazione alla deliberazione di atti di disposizione dei beni sociali, produttivi di danno patrimoniale per la società.
        Sul versante soggettivo, la fattispecie è poi ulteriormente circoscritta dalla previsione di un dolo specifico di ingiusto profitto per l'agente o per altri.
        Al fine di evitare disparità di trattamento prive di razionale giustificazione, l'incriminazione risulta estesa ai fatti commessi in relazione a beni posseduti o amministrati dalla società per conto di terzi e che abbiano cagionato un danno patrimoniale a questi ultimi.
        L'ultima parte del numero 12) esclude il carattere dell'ingiustizia del profitto della società collegata o del gruppo, quando lo stesso risulti compensato da vantaggi, anche se soltanto ragionevolmente prevedibili (e, dunque, indipendentemente dalla loro effettiva verificazione o da rigidi "bilanciamenti" quantitativi), derivanti dal collegamento o dall'appartenenza al gruppo. L'obiettivo è quello di evitare che la fattispecie si presti a qualificare penalmente, in presenza di situazioni di conflitto "formale" tra società del medesimo gruppo, operazioni che, isolatamente considerate, avvantaggino l'una società ai danni dell'altra, ma si inseriscano in un panorama di scambi intragruppo, anche in fieri, idonei ad assicurare in prospettiva un complessivo riequilibrio dei rapporti.
        Accogliendo puntuali istanze provenienti da sedi internazionali e razionalizzando una direttrice d'intervento già sottesa - sia pure allo stadio "embrionale" - a norme incriminatrici vigenti, il numero 13) prevede una innovativa fattispecie di corruzione, che esporta in campo privatistico societario, con gli opportuni adattamenti (intesi anche ad orientare la fattispecie in chiave di protezione del patrimonio sociale, piuttosto che di un astratto "dovere di fedeltà" degli amministratori, direttori generali, sindaci, liquidatori e responsabili della revisione), il tradizionale modello punitivo della corruzione (propria) di pubblico ufficiale.
        Al numero 14) sono enunciati i princìpi ispiratori per la nuova formulazione del delitto di indebita influenza sull'assemblea.
        Questo si trasforma, da reato proprio, qual è attualmente, in reato comune, essendo apparse meritevoli di sanzione anche le condotte di manipolazione dell'assemblea ascrivibili a soggetti che non rivestono la qualifica di amministratori, quali ad esempio i soci. Viene altresì conferita maggiore determinatezza alla condotta, precisando le note modali dell'illecito; nel contempo, si richiede un concreto risultato lesivo (l'illecita determinazione della maggioranza), strumentale al conseguimento di un ingiusto profitto.
        L'omessa convocazione dell'assemblea, attualmente prevista come delitto, viene dal numero 15) trasformata in semplice illecito amministrativo - configurazione che appare sufficiente per un efficace presidio - e riferita in termini unitari ad amministratori e sindaci, in modo da eliminare l'odierna disparità di trattamento sanzionatorio fra gli uni e gli altri.
        Al fine di attribuire la necessaria determinatezza alla fattispecie, si prevede, altresì, che il legislatore delegato precisi, nell'eventuale silenzio della legge o dello statuto, il termine per l'adempimento richiesto.
        La rinnovata ipotesi di aggiotaggio, di cui al numero 16), è destinata ad accorpare, in un'unica figura di reato, le disperse e poco applicate fattispecie contenute nel codice civile (articolo 2628), nel TUF (articolo 181) e nel decreto legislativo n. 385 del 1993, di seguito denominato "testo unico bancario" (articolo 138).
        La disposizione risulta ispirata ad un obiettivo di semplificazione e, nel contempo, di precisazione degli elementi costitutivi. Viene eliminato, così, il riferimento alle notizie "esagerate o tendenziose", espressione sovrabbondante rispetto al requisito della falsità, risolvendo le altre note modali della condotta nelle "operazioni simulate o altri artifici". Un ulteriore affinamento - anche sul piano della concreta lesività - è affidato al requisito dell'idoneità a provocare un'alterazione dei prezzi, qualificata anche da una specificazione dimensionale ("sensibile"), con funzione selettiva delle condotte punibili.
        Nella seconda parte è trasfuso quanto appare ancora razionalmente attuale della figura dell'aggiotaggio bancario.
        La lettera b) del comma 1 affida al legislatore delegato il compito di coordinare ed armonizzare le numerose fattispecie, previste dalla legislazione vigente, in tema di falsità nelle comunicazioni agli organi di vigilanza, di ostacolo allo svolgimento delle funzioni e di omesse comunicazioni alle autorità medesime: capitolo, questo, di notevole rilievo per completare organicamente la tutela penale dell'informazione societaria, considerata, questa volta, nella sua destinazione all'autorità preposta alla vigilanza del settore (CONSOB, Banca d'Italia, ISVAP, eccetera).
        Sempre sul piano del coordinamento, è altresì demandato al legislatore delegato di calibrare le norme incriminatrici a tutela del capitale sociale - di cui ai numeri 6), 7), 8) e 9) della lettera a)- con la nuova disciplina civilistica del capitale sociale, delle riserve e delle azioni.
        La lettera c) del citato comma 1 prevede espressamente l'abrogazione di talune fattispecie criminose, la cui perdurante presenza nel sistema appare priva di adeguata giustificazione. Tali, in particolare, il delitto di divulgazione di notizie sociali riservate, di cui all'articolo 2622 del codice civile (praticamente ignoto nella pratica applicativa e destinato ad essere surrogato da una circostanza aggravante del reato comune di rivelazione del segreto professionale, ex articolo 622 del codice penale) ed il delitto di mendacio bancario (anch'esso finora quasi mai applicato).
        E' prevista, altresì, la soppressione dei delitti degli amministratori giudiziari e dei commissari governativi: mentre, infatti, per quanto attiene all'estensione delle ipotesi di reati societari ai soggetti ora richiamati (attualmente prevista dall'articolo 2636 c.c.), risponde meglio allo scopo la previsione di carattere generale ora introdotta alla lettera e), seconda parte, del citato comma 1 riguardo alle ipotesi speciali previste dagli articoli 2636-2639 del codice civile, non sussistono ragioni per mantenere una disciplina derogatoria di quella generale in tema di delitti dei pubblici ufficiali.
        Nell'ottica di evitare un'eccessiva rigidità nella griglia delle incriminazioni, la lettera d) del comma 1 dell'articolo 10 prevede l'introduzione di una circostanza attenuante, applicabile alla generalità delle fattispecie, basata sulla modesta lesività del fatto e destinata a collocarsi in uno spazio autonomo rispetto alla circostanza comune di cui all'articolo 62, numero 4), del codice penale, per l'assenza di una valutazione in termini patrimoniali dell'offesa. Viene altresì accordata al legislatore delegato la facoltà di prevedere circostanze aggravanti specifiche connesse alla qualifica soggettiva degli autori dei singoli delitti, ove la stessa risulti significativa sul piano dell'offensività della condotta.
        La lettera e) reca indicazioni sul tema dei "soggetti".
        Nell'intento di garantire maggiore certezza all'applicazione pratica delle norme incriminatrici, si affronta, in particolare, il tema della individuazione del cosiddetto "amministratore di fatto": figura largamente riconosciuta in giurisprudenza ed al centro di vasto dibattito dottrinale.
        L'esercizio "di fatto" delle funzioni viene definito come rilevante, per l'assunzione delle responsabilità inerenti alla qualifica formale (non posseduta), solo qualora l'attività svolta presenti elementi in grado di omologarla con quella tipica: ossia continuità nel tempo (in modo da escludere che atti isolati possano produrre conseguenze sul piano della responsabilità) e significatività rispetto alla gestione complessiva della società ed ai poteri caratteristici della funzione.
        L'istituto della confisca è oggetto, nella lettera f), di un rafforzamento, in coerenza con le sollecitazioni della dottrina e con il panorama comparatistico. Si prevede, in particolare, la confisca obbligatoria, oltre che del prodotto o del profitto dei reati di cui alle lettere a) e b), anche dei beni utilizzati per commetterli, introducendo altresì la forma "per equivalente", ossia avente ad oggetto una somma di denaro o beni di valore corrispondente ai predetti elementi, qualora questi siano di impossibile recupero.
        La confisca viene inoltre estesa ai beni appartenenti a società, enti o soggetti, che altrimenti sarebbero definibili come "estranei al reato" ai sensi dell'articolo 240 del codice penale: alla condizione, peraltro, che il reato sia stato commesso nell'interesse dei medesimi.
        Si tratta di innovazioni che sono già in parte penetrate nell'ordinamento: ad esempio con la modifica dell'articolo 644 del codice penale, in tema di usura.
        In coerenza con le linee guida dell'impianto, la lettera g) impone di riformulare le norme penali fallimentari che richiamano reati societari (vedi, in particolare, l'articolo 223, secondo comma, numero 2, della legge fallimentare), in modo da limitarne l'applicazione ai soli casi in cui tra la commissione dei reati societari ed il dissesto sussista, in concreto, un rapporto causale.
        Il tema della responsabilità delle persone giuridiche, e in specie delle società, è stato affrontato alla luce delle ormai univoche indicazioni in sede internazionale e dei vincoli che gravano in questo settore sul nostro ordinamento.
        Una riforma nel senso del superamento del tradizionale principio societas delinquere non potest coinvolge valutazioni e misure che spettano solo al legislatore del codice penale, trattandosi di un istituto di carattere generale. Si è ritenuto, tuttavia, che nell'ambito della riforma del diritto penale delle società non potesse non trovare posto la previsione di una responsabilità di natura amministrativa, essendo il coinvolgimento della persona giuridica, per l'illecito commesso per suo conto o nel suo interesse, un condizione necessaria per un'efficace tutela dei beni esposti all'aggressione della criminalità d'impresa.
        Cogliendo le preoccupazioni per le ripercussioni negative che siffatta responsabilità potrebbe avere sulla stabilità dell'impresa e sui molteplici interessi dalla stessa coinvolti, si è comunque previsto che le sanzioni amministrative pecuniarie siano comprese tra un minimo e un massimo (con esclusione di meccanismi proporzionali), e siano suscettibili di aumento o di diminuzione in rapporto alle condizioni economiche della società, secondo il modello dell'articolo 133-bis del codice penale. Appare invero in ogni caso positivo, a fini preventivi, che i soci sappiano che almeno parte del loro investimento può essere eroso dalla condotta illecita dei managers, stimolando così l'attività di controllo; ma lo stesso "circolo virtuoso" può riferirsi anche alla struttura cui è affidata la gestione, che dovrebbe essere sollecitata a intraprendere le azioni necessarie per evitare che si creino condizioni favorevoli alla commissione di reati.
        Questa pressione sui vertici della società giustifica anche la previsione di una responsabilità in capo alla società nei casi in cui il reato sia stato bensì commesso da soggetti non apicali, ma avrebbe potuto essere impedito da un'adeguata e doverosa vigilanza dei soggetti sovraordinati.
        Si prevede, infine, che la sanzione possa essere sospesa qualora la società dimostri di aver adottato misure in grado di scongiurare il ripetersi di altri fatti di reato. E qui evidente il richiamo, seppur consapevolmente parziale, all'esperienza dei cosiddetti "compliance program", la quale illustra l'utilità di limitare l'applicazione della sanzione ai soli casi nei quali la società non abbia mostrato l'intenzione e la capacità di adottare misure volte all'individuazione dei responsabili ed alla prevenzione degli illeciti.
        La lettera i) prevede l'abrogazione delle vigenti norme in materia di reati societari, nonché di tutte le disposizioni incompatibili con le nuove fattispecie. Al legislatore delegato è altresì affidato il compito di coordinare ed armonizzare con esse le norme vigenti, individuandone la più opportuna collocazione, nella prospettiva tendenziale dell' accorpamento e della semplificazione.

11. (Nuove norme sulla giurisdizione).

        Le disposizioni del comma 1 intendono anzitutto prefigurare, in termini generali, il modello di giudice cui devolvere le controversie e la trattazione di ogni altro ricorso camerale in materie che richiedono un elevato tasso di conoscenze specifiche nei settori dell'economia, del commercio e della finanza. Dovrebbe trattarsi di un giudice inserito nella struttura dei tribunali delle città sedi di corte d'appello e, perciò, configurato come sezione specializzata dei tribunali medesimi. Nell'area di competenza per materia di tale sezione specializzata ricadono innanzitutto tutte le questioni in materia societaria, ricomprese le cessioni delle partecipazioni sociali e i patti parasociali. Tenuto conto della elevata specializzazione di detta sezione nel settore del diritto dell'economia, si è ritenuto di inserire anche le questioni in materia di concorrenza, brevetti e segni distintivi dell'impresa nel rispetto degli impegni comunitari e internazionali, nonché le questioni disciplinate dal TUF e dal testo unico bancario. Ciò anche per assicurare una "massa critica" di controversie sufficiente a giustificare l'istituzione di appositi organi giurisdizionali in tutte le attuali sedi di corte d'appello.
        Tenuto conto delle ragioni che sono alla base della riforma si è ritenuto di ricomprendere nella competenza delle sezioni specializzate anche la materia concorsuale, la cui trattazione richiede un elevato grado di comprensione dei problemi economici, finanziari e patrimoniali delle imprese. Si è però ritenuto che fosse eccessivo e controproducente porre a carico di dette sezioni l'onere di fronteggiare l'ingente numero di istanze di fallimento (spesso finalizzate solo ad esercitare pressione sul debitore per accelerare il pagamento di debiti) da cui sono gravati i tribunali italiani; e, per analoghe ragioni, è apparso inopportuno attribuire alle medesime sezioni anche i compiti gestori inerenti alle procedure concorsuali. Ciò anche in ossequio al principio di terzietà del giudice, che male si adatta a situazioni in cui il magistrato che valuta l'opportunità di promuovere un'azione per il fallimento ed il magistrato che su quell'azione è poi chiamato a giudicare fanno parte del medesimo organo giurisdizionale. Il legislatore delegato potrà poi valutare più in dettaglio come articolare l'accennata distinzione di competenza (ad esempio, attribuendo alla sezione specializzata la funzione di giudice dell'opposizione a dichiarazione di fallimento).
        Con riguardo a tutte le materie di cui si tratta, lo stesso legislatore delegato dovrà disciplinare la competenza in caso di connessione con procedimenti aventi oggetto diverso e, più in generale, fissare regole processuali che agevolino la definizione immediata e definitiva di qualsiasi dubbio in tema di competenza.
        La riforma è circoscritta all'area giurisdizionale oggi riservata al giudice ordinario, e dunque prescinde da ogni intento di rivedere gli incerti confini tra giurisdizione ordinaria ed amministrativa, anche se, tenuto conto della istituzione di un giudice specializzato, questi confini potranno essere ripensati in un prossimo futuro soprattutto nel settore del diritto dell'economia.
        La regolamentazione dei mezzi di gravame avverso i provvedimenti emessi dalla sezione specializzata non si presta ad un approccio unitario. A parte le diversità di regime già esistenti, in proposito, tra giurisdizione contenziosa e volontaria, nonché in molte fattispecie comprese nell'una e nell'altra di tali categorie, potrebbe essere opportuno lasciare spazio ad ulteriori diversificazioni in ragione delle differenti esigenze di tutela che di volta in volta si pongono e che già ora hanno determinato, in taluni campi, la previsione di un giudizio di merito in unico grado. E' apparsa perciò preferibile una disposizione di carattere generico, che faccia salve tali diversità, ma nel contempo eviti il rischio di un giudice dell'impugnazione meno competente, in termini di professionalità specifica, rispetto a quello che ha emesso il provvedimento impugnato. Tale esigenza non può non valere anche per la cassazione, non solo perché pure quel giudice può essere oggi chiamato a valutazioni che attengono al merito (confronta articolo 384, primo comma, del codice di procedura civile) ma anche perché la corretta formulazione di un giudizio di legittimità non può comunque prescindere dalla totale comprensione dei profili di merito.

        11.1. L'attuale dislocazione sul territorio nazionale di un elevato numero di tribunali, molti dei quali con organici di dimensioni medio-piccole, sconsiglia la istituzione di sezioni specializzate presso ciascuno di tali tribunali, che solo saltuariamente avrebbero occasione di trattare questioni commerciali. Un adeguato grado di specializzazione nella materia presuppone, viceversa, l'esame di una ricca e varia casistica, che consenta al giudice di aggiornare costantemente e di affinare progressivamente la propria esperienza specifica. Donde la scelta di prevedere una competenza territoriale di dimensione distrettuale; scelta cui, in un settore fortemente dinamico qual è quello del diritto commerciale, non sembrano ostare serie ragioni di accessibilità del servizio giustizia per i cittadini più decentrati.
        Scartata l'ipotesi di un tribunale di commercio "alla francese", formato solo da esponenti del mondo commerciale, e che è attualmente oggetto di un intervento di riforma per contrastare non solo situazioni degenerative ma anche per recuperare una terzietà del giudice, la composizione della sezione specializzata potrebbe alternativamente ispirarsi a due diversi modelli, già presenti nel nostro ordinamento: quello del giudice del lavoro e quello del giudice agrario e minorile. Il primo fa leva su un elevato grado di specializzazione dei magistrati addetti alla trattazione esclusiva della materia, il secondo integra nello stesso organo giudicante esperti di settore dotati di professionalità diverse da quelle del giudice togato. La seconda soluzione presenta serie controindicazioni.
        L'individuazione dei componenti non togati appare, infatti, tutt'altro che agevole, dovendosi per un verso assicurarne l'elevato livello professionale e, per altro verso, evitare il rischio di far cadere la scelta su soggetti che, proprio per la loro elevata professionalità, siano consulenti abituali di imprenditori interessati all'affermarsi dell'uno piuttosto che dell'altro indirizzo giurisprudenziale. Quella scelta implicherebbe, poi, la necessità di configurare l'organo giudicante sempre in forma collegiale. Ciò ha indotto a privilegiare il primo dei due modelli suindicati.
        Sembra in ogni caso opportuno prevedere strumenti specifici di formazione ed aggiornamento professionale dei magistrati che - secondo adeguati sistemi di rotazione - comporranno le sezioni in esame, essendo notoriamente la preparazione dei giuristi assai poco orientata alla conoscenza dei fenomeni economici, la cui comprensione è del pari assente nei criteri di selezione per l'accesso all'ordine giudiziario.

        11.2. E' nota la difficoltà di conciliare i tempi di un processo ordinario con le esigenze di certezza degli atti e dei rapporti giuridici in campo economico. Una pronuncia che ponesse nel nulla gli effetti, ad esempio, di una deliberazione di aumento di capitale sociale già da tempo eseguito, dopo che siano stati già emessi i relativi titoli azionari e questi abbiano preso a circolare, determinerebbe una delicatissima situazione. Si rischierebbe, alternativamente, di mettere a repentaglio una serie di posizioni giuridiche derivate a catena da quella emissione, oppure - ove ciò non fosse ritenuto possibile - di rendere la pronuncia giudiziale sostanzialmente lettera morta. Proprio per evitare situazioni di tal fatta sono state emanate, in determinati settori, norme di sbarramento che impediscono di invalidare atti societari dopo la loro iscrizione nel registro delle imprese (si pensi all'articolo 2504-quater del codice civile, sul cui modello potrebbero essere disciplinati gli effetti sananti della pubblicità anche per altri tipi di deliberazioni societarie). Per le medesime ragioni, in termini anche più generali, accade però che la fase decisiva di quasi tutte le controversie in tema di validità delle deliberazioni assembleari di società si concentri nell'eventuale provvedimento di sospensione della deliberazione impugnata. Se la sospensione è concessa, quella deliberazione sarà ormai infatti destinata a non avere mai più esecuzione; se, viceversa, essa è negata, difficilmente sarà poi possibile rimettere in discussione, a distanza di anni, gli effetti irreversibilmente prodotti dalla deliberazione medesima: sicché la causa, di fatto, continuerà ormai solo in una prospettiva risarcitoria (se non soltanto per le spese).
        Si è ritenuto pertanto opportuno introdurre in modo più esplicito - e, soprattutto, più generale - un procedimento d'urgenza espressamente destinato, in questo settore, alla cosiddetta "tutela reale", sufficientemente rapido da assicurare l'effettività di siffatta tutela, ma nel contempo tale da salvaguardare il diritto di difesa degli interessati. A questo scopo tende il procedimento di tipo cautelare, previsto dal comma 2, lettera b), rispetto al quale la successiva instaurazione del giudizio di merito è solo facoltativa. Dovrebbe restare fermo, comunque, che il provvedimento immediato, ancorché definitivo in punto di tutela reale, non è suscettibile di produrre un vero e proprio giudicato (incompatibile con i caratteri pur sempre sommari del giudizio in questione) e quindi non pregiudica la possibilità di rimettere in discussione ad altri fini la validità dell'atto impugnato, promuovendo ad esempio un successivo giudizio ordinario avente ad oggetto eventuali pretese risarcitorie.
        Lo strumento conciliativo nelle controversie in materia commerciale - vuoi quelle trattate con rito ordinario, vuoi quelle incardinate nel procedimento d'urgenza - è di particolare utilità. Potrebbe solo dubitarsi dell'opportunità di prevedere il tentativo di conciliazione come obbligatorio o come solo facoltativo nel corso del procedimento. I connotati di particolare specializzazione del giudice ed il peculiare carattere di alcune delle controversie che potrebbero essere sottoposte al suo esame (si pensi, ad esempio, alle materie previste dalla legislazione antitrust, dal testo unico bancario o dal TUF), fanno propendere per la soluzione più flessibile lasciando al giudice la valutazione circa l'opportunità di esperire il tentativo.
        Appare comunque utile, in tale contesto, prevedere espressamente che il giudice abbia la possibilità di assegnare un termine per la eventuale rimozione delle ragioni di lite.
        Per assicurare effettività e serietà al tentativo di conciliazione viene attribuito al giudice il compito di formulare concrete proposte conciliative e prevedere - sul modello delle controversie in tema di pubblico impiego - che si tenga conto dell'atteggiamento assunto al riguardo dalle parti al fine di attribuire le spese di lite.
        Il ricorso ai procedimenti camerali in materia commerciale si è spesso rivelato un utile strumento di risoluzione rapida di questioni che solo con molte difficoltà avrebbero trovato uno sbocco in sede contenziosa. In questa stessa utilità si nasconde, però, il rischio dell'abuso dello strumento, ossia di trasformare quei procedimenti in scorciatoie per la definizione di vertenze in modo sommario e senza adeguate garanzie. Rischio soprattutto derivante dall'esilità e dalla eccessiva multifunzionalità del modello processuale offerto dal codice in tema di procedimenti camerali. Donde la necessità di introdurre regole procedurali più specificamente calibrate sulle diverse esigenze dei procedimenti camerali in materia commerciale, con la conseguenza che il legislatore delegato potrà, se del caso, fissare regole più aderenti alle caratteristiche, ad esempio, del procedimento di omologazione, di quello ex articolo 2409 del codice civile, di quello per la nomina giudiziale dei liquidatori, eccetera.
        Costituisce una significativa innovazione l'istituzione di forme di pubblicità sui tempi medi di trattazione, distinti per tipologie di questioni, nelle diverse sedi giudiziarie. Così come sarebbe utile impegnare i responsabili degli uffici giudiziari interessati a fare previsioni sui tempi di trattazione futuri, per confrontare poi i risultati conseguiti con le previsioni formulate. Il confronto e la necessità di eventualmente giustificare un eccessivo allungamento dei tempi potrebbero anche costituire un benefico stimolo per una più razionale organizzazione delle risorse di cui ciascun ufficio dispone.
        Nella materia societaria sono spesso sorti dubbi circa la possibilità di ricorrere allo strumento arbitrale, perché non sempre è ben certo il confine tra l'area della disponibilità e quella dell'indisponibilità dei diritti dedotti in lite. La maggiore difficoltà risiede, com'è chiaro, nell'esistenza di interessi di carattere generale (o comunque diffuso) spesso toccati dalle deliberazioni impugnate. Per agevolare il superamento di tali difficoltà si sono previsti arbitrati che, pur vertendo su materie ritenute di per sé non disponibili, siano circoscritti, nella loro effettiva portata, alla sola posizione delle parti in lite e quindi, sostanzialmente, non siano in grado di intaccare i profili reali degli atti oggetto di controversia.
        Infine, deve essere evitato il rischio che su uffici di nuova istituzione, già per questo inevitabilmente bisognosi di un periodo di rodaggio, si scarichi immediatamente il peso di un arretrato. Il che potrebbe apparire penalizzante per chi sia interessato alla trattazione di cause già da gran tempo pendenti. Tuttavia, il pericolo di compromettere sin da principio la prospettiva di una giustizia commerciale funzionale sembra tale da giustificare una scelta che, comunque, il legislatore delegato resta libero in qualche misura di graduare.

        12. L'istituzione di sezioni specializzate presso i tribunali sedi di corte di appello previste dall'articolo 11 non comporta oneri aggiuntivi, né in termini di spese di personale amministrativo e di magistratura, né in termini di spese di funzionalità delle sezioni stesse.
        Alle sezioni, infatti, verrà applicato parte del personale già in servizio negli uffici giudiziari, tenuto conto anche dell'incremento dell'organico del personale di magistratura previsto dal disegno di legge recante: "Aumento del ruolo organico e disciplina dell'accesso in magistratura", approvato dal Consiglio dei ministri nella riunione del 22 marzo 2000 ed attualmente all'esame del Senato della Repubblica AS n. 4563.
        Le spese di funzionamento, infine, possono essere soddisfatte con gli ordinari stanziamenti di bilancio.




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