PROPOSTA DI LEGGE COSTITUZIONALE - C0167


Onorevoli Colleghi! - Il 24 maggio 1995, nel corso della XII legislatura, la Camera dei deputati e il Senato della Repubblica erano convocati in quarta seduta comune per eleggere due giudici della Corte costituzionale. A differenza di quanto avvenuto per l'elezione dei membri laici del Consiglio superiore della magistratura, eletti rapidamente in ragione di una larga intesa, in assenza di un accordo fra i gruppi parlamentari la seduta congiunta delle Camere del 23 febbraio 1995 fu annullata.
La presente proposta di legge costituzionale - di modifica all'articolo 5 della legge costituzionale 22 novembre 1967, n. 2 - intende superare una grave lacuna dell'ordinamento costituzionale costituita dall'assenza di termini perentori per la reintegrazione del quorum della Consulta.
Si tratta di una lacuna resa ancora più grave dall'esclusione dell'istituto della prorogatio, per i giudici scaduti in attesa di una loro effettiva sostituzione, con la riforma costituzionale del 1967 che ha modificato l'articolo 135 della Costituzione. Seppure il ripristino di siffatto istituto non costituirebbe una effettiva soluzione, giacché il punto critico del problema è accertato nella non ottemperanza da parte degli organi collegiali che devono procedere alla sostituzione dei giudici costituzionali.
La Corte costituzionale, in violazione dei termini prescritti all'articolo 5 della legge costituzionale 22 novembre 1967, n. 2, si è trovata ad operare priva di una sua piena composizione e proprio in una fase della vita istituzionale e politica del nostro Paese in cui la Consulta ha dovuto giudicare in merito alla legittimità costituzionale di leggi o atti aventi forza di legge di particolare rilievo.
Tale condizione di sofferenza ha avuto origini differenti, di ordine legislativo e di natura politica o più esattamente partitica, che hanno rappresentato un vulnus costituzionale; tanto più evidente quanto più necessaria sarebbe stata l'introduzione di criteri innovativi di designazione, in luogo di una prerogativa delle forze politiche che non ha alcuna legittimità costituzionale e costituisce una grave lesione dei princìpi di una democrazia parlamentare.
Lesione, ad esempio, ancor più marcata, in questi anni, nella elezione dei membri laici del Consiglio superiore della magistratura. È del 1990 - per citare un caso di preminente rilievo - la polemica che portò alla rinuncia del professor Guido Neppi Modona che espresse la propria indisponibilità ad essere eletto al Csm con queste parole: «...l'esito del voto, in cui ben otto candidati su dieci non sono stati eletti, è il sintomo palese della crisi di un sistema che concepisce la componente laica del CSM come una longa manus del potere politico, e non come espressione delle diverse posizioni ideologiche e culturali esistenti nella società civile sui temi della giustizia.
Sino alle elezioni in corso, il metodo di designazione partitocratico, talvolta condizionato anche dagli equilibri interni tra le correnti dei partiti maggiori, aveva trovato un correttivo nel dato di fatto che la maggioranza dei candidati venivano eletti nei primi due scrutini, ottenendo il quorum - opportunamente previsto dalla legge - dei tre quinti degli aventi diritto al voto. I componenti laici apparivano così come rappresentanti della massima espressione del potere politico - il Parlamento riunito in seduta comune - e non del partito che li aveva designati...» suggerendo «...quantomeno per il futuro, nuovi metodi di designazione dei componenti laici al CSM, al fine di fare prevalere sui criteri di lottizzazione partitica le doti di professionalità, di esperienza e di equilibrio». Sono riflessioni di piena attualità che, senza per questo ricorrere a facili assimilazioni, hanno fatto e fanno riflettere non soltanto in merito alle violazioni dell'articolo 104 della Costituzione ma, al pari, di quelle dell'articolo 135 che è appunto oggetto della presente proposta di legge costituzionale.
Il cosiddetto, e in realtà tutt'altro che compiuto, passaggio dalla prima alla seconda Repubblica non sembra aver introdotto anticorpi strutturali a quell'involuzione del nostro sistema politico e istituzionale la cui denuncia fu alla base nella VIII legislatura (il 29 giugno 1982: atto Camera n. 3518) della presentazione della medesima proposta di legge costituzionale, ripresentata nella X legislatura al Senato (n. 2194) e nella XII legislatura alla Camera (n. 2563), e che si ripropone ancora in questa legislatura all'esame ed alla deliberazione delle Camere.
Non si intende, in questa fase, limitarsi ad un atto dovuto, giacché è nostra opinione che il Parlamento sia dinanzi ad una prova decisiva, ormai evidenti le ragioni e le motivazioni di una riforma costituzionale dell'articolo 135, palesi le deviazioni dallo spirito e dalla lettera della Carta costituzionale.
Dovrebbe essere ormai generalmente acquisito il rapporto consequenziale tra formazione della Corte e funzioni alla medesima attribuite, nonché evidente la necessità che essa possa svolgere la sua attività sempre nella completezza della sua composizione, appunto perché non si alterino quegli equilibri interni da cui dipende un corretto esercizio dei suoi compiti istituzionali. Eppure, come è già stato osservato, non è la prima volta che la Corte costituzionale sia stata costretta ad operare in assenza del proprio quorum. Sono stati ripetuti i casi in cui una simile situazione si è verificata, dal 1972 ad oggi, in concomitanza con un'insofferenza sempre più diffusa tra gli stessi parlamentari verso quella «convenzione», in virtù della quale si riconosce ai singoli partiti il «diritto» di designare i «loro» candidati in base a quote e, quindi, la pretesa che gli altri gruppi si uniformino a tali scelte e si assicurino la maggioranza indispensabile per l'elezione dei candidati medesimi. Più volte, da ultimo appunto nella XII legislatura, il Parlamento ha violato ampiamente il termine stabilito dall'articolo 5 della legge costituzionale 22 novembre 1967, n. 2, che prescrive che la sostituzione dei giudici, per qualunque causa cessati dall'ufficio, deve essere effettuata entro un mese.
Ciò che la presente proposta di legge costituzionale intende affrontare è il fatto che non esista alcun meccanismo istituzionale che possa costringere gli organi cui spetta l'elezione o la nomina dei giudici a rispettare tale termine.
Sotto questo profilo si può parzialmente condividere la critica di quella autorevole dottrina che ha lamentato l'imprevidenza della riforma costituzionale del 1967 che, modificando l'articolo 135 della Costituzione, ha escluso esplicitamente che per la Corte continuasse a valere l'istituto della prorogatio, che consentiva ai giudici scaduti di rimanere in funzione fino al momento della loro effettiva sostituzione, sì che la continuità del loro ufficio potesse essere assicurata (come innanzi previsto dalla norma di cui all'articolo 18 del regolamento generale approvato dalla Corte il 20 gennaio 1966, poi abrogata dalla stessa Corte - in data 7 luglio 1969 - per evidente incompatibilità con la nuova disciplina costituzionale).
Per sanare questa lacuna che ha creato e potrebbe ancora creare gravi inconvenienti nel funzionamento della Corte, appare urgente cercare un efficace rimedio che, peraltro, salvaguardi la logica del sistema.
A tal fine non paiono idonee talune soluzioni apparentemente semplici, come il ripristino dell'ammissibilità della prorogatio dei poteri dei giudici costituzionali, la quale non varrebbe di per se stessa a rendere più solleciti gli organi costituzionali (e il Parlamento, in particolare), ma che, anzi, potrebbe creare un ulteriore alibi alla loro intempestività e che, inoltre, disattenderebbe l'esigenza di una rigorosa temporaneità della funzione dei giudici costituzionali.
Così pure sarebbe certo un errore ipotizzare un ridimensionamento delle maggioranze qualificate previste per l'elezione dei giudici da parte del Parlamento in seduta comune (i due terzi dell'Assemblea fino al terzo scrutinio e successivamente a questo i tre quinti), perché tali elevati quorum servono a garantire il carattere super partes dell'organo di controllo costituzionale, il quale deve essere svincolato dall'indirizzo della maggioranza governativa. I membri della Corte costituzionale devono continuare ad essere sorretti da un consenso tale che prescinda da specifiche valutazioni e interessi di natura politica contingente e si fondi, invece, soprattutto sulla loro professionalità, competenza e sicura lealtà nei confronti dei fondamentali princìpi costituzionali. Ecco allora il senso della presente breve (un solo articolo) proposta di legge costituzionale che modifica l'articolo 5 della legge 22 novembre 1967, n. 2, la quale non altera la logica del sistema e introduce una sorta di «sanzione costituzionale» all'inottemperanza dei termini stabiliti da parte degli organi collegiali che devono procedere alla sostituzione dei giudici costituzionali cessati per qualsiasi causa. Ove questi non vengano rinnovati entro il termine (che così diventa perentorio) di due mesi, la competenza per la nomina dei nuovi giudici passa alla stessa Corte costituzionale, quale organo di chiusura e di massima garanzia dell'ordinamento, sovraordinato - nella logica del sistema - allo stesso Presidente della Repubblica, passibile di essere sottoposto al giudizio penale della Corte nelle ipotesi previste dall'articolo 90 della Costituzione.
Il potere di cooptazione attribuito alla Corte si configura indubbiamente come eccezionale e - lo si è già rilevato - rappresenta sostanzialmente una sorta di «sanzione» costituzionale all'inadempienza (ed all'inefficienza) di altri poteri dello Stato. In un tale contesto la Corte provvede alla nomina dei giudici mancanti a maggioranza assoluta dei giudici in carica ed entro un termine assai ridotto, che segnala, appunto, l'eccezionalità della situazione (quindici giorni dalla scadenza del termine assegnato ai poteri che avrebbero avuto titolo a sostituire i giudici costituzionali cessati dalla carica).
La soluzione proposta funzionerebbe dunque come efficace deterrente. Le Camere riunite (ed eventualmente anche le supreme magistrature) con ogni probabilità riuscirebbero a trovare l'accordo necessario nell'elezione dei giudici di loro spettanza e, in ogni caso, provvederebbero ad organizzare i propri lavori in maniera più congrua e tempestiva all'assolvimento di tale compito. L'intempestività da parte del Capo dello Stato nell'esercizio del suo potere autonomo sembra un'ipotesi di assai improbabile inveramento. Anche tale eventualità merita comunque di essere considerata, quantomeno, per ragioni di coerenza sistematica.
La preoccupazione di incorrere in nuove clamorose dimostrazioni di inefficienza e di scarsa rappresentatività nei confronti del paese, sanzionate con una perdita di potere, sarebbe - c'è da augurarselo - per una volta determinante.


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