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Doc. XVI n. 5


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3) IL SISTEMA PENITENZIARIO: LE PRINCIPALI QUESTIONI EMERSE

La nostra società guardia indubbiamente con occhio distratto al sistema carceri e l'attenzione delle stesse istituzioni risulta intermittente. Il carcere è rimasto sostanzialmente chiuso alla società civile che ne giustifica l'esistenza come istituzione ma solo allo scopo di rimuovere una realtà scomoda, difficile ed inquietante che è meglio dimenticare e rimuovere e di cui è più conveniente tacere. È difficile negare che il vecchio detto «occhio non vede, cuore non duole» è più che mai attuale in riferimento alla situazione dell'universo carcerario.
«Il carcere, - scrive Don Ciotti -, è una specie di moderno lazzaretto, chiamato a contenere fasce di povertà culturale e materiale di disagio e malattia».
Con la riforma dell'ordinamento penitenziario del 1975 e l'ampio dibattito seguito alla legge Gozzini del 1986, il problema carceri si era posto all'attenzione dell'opinione pubblica, che ha sempre visto con sospetto l'apertura del carcere verso l'esterno che una politica volta all'introduzione di misure alternative alla detenzione faceva intravedere. Dopo la crisi dell'ideologia della pena come retribuzione, si era fatta strada una teoria emendativa che vedeva la pena come occasione di ripensamento e reinserimento del reo nella società.
Dopo una fase di entusiasmo riformatore, il cui fulcro era il concetto di cd. flessibilità della pena, tra la fine degli anni 80 e l'inizio degli anni 90, si è aperta per le carceri una fase critica.


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La pregiudiziale «sicurezza», che non era del resto scomparsa negli anni dello slancio riformatore, torna prepotente a farsi sentire negli anni novanta sotto la spinta dei durissimi colpi della criminalità organizzata, con il risultato principale di produrre un irrigidimento della normativa penitenziaria.
Pur ricordando che già la legge n. 55 del 1990 era intervenuta in senso restrittivo sulla concedibilità dei permessi premio, tale nuova fase può farsi coincidere in particolare con la legislazione emergenziale introdotta principalmente con il decreto-legge n. 152 del 1991 nonché, nell'estate del 1992, con l'entrata in vigore del decreto Scotti-Martelli n. 306 del 1992, contemporaneo alle stragi mafiose Falcone e Borsellino.
Le condizioni di vivibilità all'interno degli istituti (nel frattempo era esplosa la vicenda di Tangentopoli) nel periodo 1993-1994, vedono aggravarsi drammaticamente il problema del sovraffollamento e, soprattutto, sembra emergere come nuovo comune sentire una nuova concezione che potremmo definire utilitaristica della pena: la pena come forma di riequilibrio sociale che serve essenzialmente a placare i sentimenti di una società offesa dal crimine.
La situazione, ad oggi, sotto molti punti di vista, appare complessa e foriera di sviluppi imprevedibili in assenza di un diversa impostazione e ripensamento della politica penitenziaria. Le carceri pullulano soprattutto di emarginati: tossicodipendenti ed extracomunitari in gran numero, ma soprattutto criminalità di piccolo cabotaggio. Basta guardare la tipologia dei reati ascritti alla popolazione detenuta per rendersene conto: si tratta per lo più di violazioni al testo unico del '90 sulla droga, reati contro il patrimonio e contro la persona. È chiaro che il regime vigente in materia di stupefacenti, la crescente immigrazione, indotta e non, che non trova sbocchi leciti alle proprie aspettative, producono una massa in costante aumento di potenziale devianza criminale. Il numero di coloro che commettono un reato, soprattutto di microcriminalità, è in ascesa e ciò accresce il senso di insicurezza della comunità. Anche sull'onda di recenti gravi fatti di cronaca nera nelle grandi città, sempre più sembra farsi strada la «zero tollerance» di importazione statunitense e conseguentemente una richiesta di maggiore rigidità anche nella fase di esecuzione della pena. Sembra si sia passati, quindi, alla convinzione che, se la risposta alla sicurezza sociale debba essere la detenzione, il carcere, come un tempo, debba tornare ad essere la pietra angolare del sistema penale.
Quello che perciò in generale appare mutato in questo momento è l'atteggiamento collettivo culturale nei confronti della pena e del carcere e sembra indubitabile che le esigenze della cd. città sicura rendono di difficile comprensione le politiche di deflazione penitenziaria mirate ad una sostanziale esecuzione extramuraria delle pene, in qualsiasi forma effettuata.
In relazione alle risultanze delle audizioni effettuate ed alla esperienza tratta dalle prime visite presso gli indicati istituti penitenziari, il Comitato ha riscontrato problemi, sia di tipo particolare e locale che di natura più generale, in quanto emersi continuativamente nel corso delle visite stesse. Questi ultimi, in particolare, devono

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costituire un'area problematica di più attenta riflessione da parte dei membri del Comitato e della Commissione giustizia.
Si tratta dei problemi di sovraffollamento degli istituti; della necessità di disegnare nuovi percorsi di carriera per un personale, di custodia e civile, attualmente scontento e demotivato; dell'urgenza di apprestare nuovi strumenti legislativi volti ad incentivare le occasioni di lavoro dei detenuti; delle difficoltà della sanità penitenziaria; dell'opportunità di rafforzare e riorganizzare la cd. area penale esterna, al fine di facilitare il ricorso alle misure alternative alla detenzione; dei problemi inerenti la magistratura di sorveglianza.
Nel quadro generale delle tematiche emerse, appare particolarmente grave l'attuale situazione del trattamento che non corrisponde affatto a quanto previsto dalla legge sull'ordinamento penitenziario.
L'attività trattamentale praticata negli istituti, pur differenziata da caso a caso, risulta infatti nel complesso molto limitata, prevalendo ancora una attività di custodia, finalizzata soltanto al mantenimento dell'ordine e della disciplina interna; la sottoposizione dei detenuti ad un programma rieducativo individuale, in particolare fin dall'inizio dell'ingresso in istituto, è eventualità ancora rara e ciò sia per la cronica, grave carenza di personale di trattamento che per la mancanza di strumenti idonei: rare occasioni di lavoro, limitata attività scolastica e di formazione professionale, scarse possibilità di praticare attività diverse a fini risocializzanti, anche per mancanza di locali e mezzi idonei. I migliori risultati, quando si ottengono, sembrano dovuti più alla buona volontà degli operatori, dei volontari (altra importante realtà del mondo delle carceri) e di qualche direttore illuminato che ad un disegno complessivo coscientemente perseguito e nell'ambito del quale vanno ricondotti i trattamenti individualizzati. Superfluo aggiungere come tale situazione influisca pesantemente sulla concessione dei benefici penitenziari e sulla effettiva piena funzionalità dei tribunali di sorveglianza, spesso sprovvisti, al momento delle decisioni, delle necessarie relazioni individuali sull'osservazione del detenuto.
Prima di soffermarsi sulle singole tematiche può essere utile conoscere i dati più recenti sulle carceri forniti dall'amministrazione penitenziaria. La popolazione carceraria, alla data del 29 febbraio 2000, era arrivata in totale alla preoccupante cifra di 52.784 unità (50.531 uomini e 2.253 donne), 3.252 in più rispetto alle presenze di fine febbraio 1999 (49.532). Il sottosegretario alla giustizia Corleone, in risposta ad un'interpellanza dell'On. Cento, riferiva alla Camera, nel dicembre scorso, che al 30 novembre 1999, i detenuti presenti risultavano essere addirittura 53.389 (il massimo storico); e ciò, nonostante la concessione nel corso dello stesso anno di 6.999 detenzioni domiciliari, 22.030 affidamenti in prova al servizio sociale e 2.196 semilibertà.
Si sono registrate 52.784 presenze, quindi, a fronte di una capienza regolamentare di 42.830 detenuti e di una capienza tollerabile di 49.565 unità. Rispetto alle posizioni giuridiche, gli imputati erano 24.182 (23.097 uomini, 1085 donne) e i condannati 28.602 (27.434 uomini, 1.168 donne); di questi ultimi, 1.568 (1499 uomini, 69 donne) risultavano in regime di semilibertà. Sul totale dei detenuti presenti, il 54% era quindi in esecuzione di pena ed il restante 46% era costituito da non definitivi.

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Alla stessa data del 29 febbraio 2000, gli stranieri detenuti nelle carceri italiane erano 14.416 (il 27,3% del totale) di cui solo 391 comunitari. Tra i 14.025 extracomunitari, più della metà risultava provenire da Paesi africani (7.754 detenuti, di cui ben 5.320 di nazionalità tunisina o marocchina) mentre comincia a farsi consistente il numero dei detenuti originari della ex Jugoslavia, dell'Albania e degli altri Paesi dell'est europeo (4.288). Continua quindi il trend di crescita delle presenze straniere ed è interessante ricordarne brevemente la crescita esponenziale: nel '90, erano poco più di 4.000 (4.017), nel '92 erano già 7.237, nel '94 8.481, nel '96 9.373, nel '98 11.973 e nel '99 14.057.
Meno recente, ma comunque significativo, l'ultimo rilevamento dell'amministrazione penitenziaria relativo ai detenuti tossicodipendenti e affetti da AIDS. I dati, al 31 dicembre 1999, registravano nelle carceri italiane, sugli allora 51.604 detenuti presenti, ben 15.097 tossicodipendenti (14.423 uomini, 674 donne) il che significa il 29,2% del totale. I sieropositivi erano 1.638 mentre gli affetti da AIDS erano invece in tutto 163. La percentuale dei detenuti provenienti dallo stato di libertà che si sottopone volontariamente allo screening per l'accertamento dell'infezione da HIV rimane attestata intorno al 34%; tra i nuovi giunti, quindi, due su tre rifiutano di sottoporsi al test (3).
In relazione ai dati sul lavoro penitenziario, alla stessa data del 31 dicembre 1999, il totale dei detenuti lavoranti ammontava a 11.903 unità (circa il 23% del totale) di cui la stragrande maggioranza (10.421) alle dipendenze dell'amministrazione penitenziaria, con ben 9.579 detenuti impegnati non in attività produttive ma occupati nei cd. servizi d'istituto.
Nel 1999, per quel che riguarda gli eventi critici avvenuti nelle carceri (il conteggio riguarda le persone fisiche che hanno posto in essere il singolo fatto), le statistiche dell'amministrazione penitenziaria hanno registrato 53 suicidi (due in più del '98), 920 tentativi di suicidio, 6.536 atti di autolesionismo mentre i decessi in carcere sono stati 83. Su un totale di 11.039 manifestazioni di protesta, 5.522 hanno riguardato scioperi della fame.
I detenuti evasi dalle carceri italiane nel 1999 sono stati 186, di cui 19 direttamente dagli istituti; le altre modalità di evasione hanno riguardato mancati rientri dai seguenti benefici: permessi (10), permessi premio (105), lavoro esterno (7), misure alternative (45). In relazione a questi ultimi dati, deve essere segnalato, a fini di completezza, come la percentuale dei detenuti evasi durante la fruizione dei benefici penitenziari dal 1992 ad oggi non abbia mai superato l'1%; tale percentuale, nel 1999, è stata appena dello 0,51%.
Per quel che riguarda il personale in servizio, al 31 dicembre 1999, l'amministrazione penitenziaria contava su un totale di 48.088 unità di cui 42.106 di polizia penitenziaria e 5.982 tra amministrativi e tecnici.


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Aumento del numero dei condannati e sovraffollamento delle carceri

Un primo dato oggetto di riflessione dovrebbe essere il costante aumento del numero dei condannati: aumenta, quindi, il numero delle persone che ricevono risposte sanzionatorie dal nostro ordinamento. Se si pensa che la popolazione delle carceri è attualmente intorno alle 53.000 unità, che i soggetti a misure alternative sono circa 30.000, cui vanno aggiunti i fruitori delle sanzioni sostitutive, non si è lontani dalla realtà se si valuta in ben più di 100.000 persone il numero dei condannati con sanzioni esecutive (senza contare quindi il numero delle sanzioni sospese). E ciò sia pur in presenza, nonostante il complessivo persistente malfunzionamento del sistema processuale-sanzionatorio, del costante decremento del numero degli imputati detenuti, cioè di coloro che costituiscono popolazione carceraria ma non sono condannati: tali soggetti che fino a pochi anni fa erano circa il 60% dei detenuti oggi sono scesi, come accennato, a circa il 46% del totale. Nonostante le depenalizzazioni, compensate peraltro dalla tendenza a introdurre nuove ipotesi di fattispecie penali nelle leggi speciali più disparate, il numero dei condannati in Italia appare quindi in salita.
Il fenomeno del sovraffollamento delle carceri è forse il più immediatamente collegabile all'aumento del numero dei condannati. Del resto, tale rilievo varrebbe forse a spiegare il motivo per il quale nonostante la diminuzione del numero degli imputati (i processi, quindi, in un modo o nell'altro si fanno) quello globale dei detenuti, dopo un periodo di flessione, nell'ultimo biennio tende addirittura ad aumentare. Tornando al sovraffollamento, va detto che è stato soprattutto il periodo 94-95 che ha storicamente costituito il periodo più critico in tal senso: è del gennaio 1995 il fonogramma del direttore di San Vittore al Ministero di grazia e giustizia con cui avvertiva che il carcere non era più in grado di accogliere alcun detenuto e che la soglia di vivibilità era stata ormai raggiunta e superata. Era il tutto esaurito. Nel giugno del 1994 i detenuti nelle carceri italiane risultavano più di 54.000 (nel dicembre del 1990, dopo l'ultima amnistia, erano circa 26.000, meno della metà). Da allora alla fine del 1996 si è riscontrato un sostanziale sia pur non costante decremento del numero dei detenuti presenti negli istituti penitenziari italiani, le cui presenze sono di nuovo in ascesa: l'ultimo dato, di fine '99, registra, come detto, poco meno di 53.000 presenze, circa 10.000 in più di quelle regolamentari.
Si ricorda, del resto, che l'attuale capienza regolamentare degli istituti penitenziari (definita sulla base delle norme emanate nel 1988 dal ministero della sanità) prevede in 9 metri quadri l'area minima di una cella singola, con un aumento di 5 metri quadri per ogni detenuto in più; nonostante gli sforzi degli addetti ai lavori, tali parametri non sempre possono essere rispettati. Esiste, infatti un altro tipo di capienza, cd. tollerabile, che è quella che in concreto viene utilizzata per le assegnazioni ai diversi istituti.
Il problema è una seria realtà per gran parte delle carceri anche se non in tutti esso si manifesta con la stessa intensità e dimensione.


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In riferimento alle sole visite effettuate dal Comitato per i problemi penitenziari, gli istituti con problemi di sovraffollamento sono, ad esempio, risultati le carceri milanesi di Opera e San Vittore; soprattutto in quest'ultimo, la situazione pur migliorata rispetto al recente periodo di Tangentopoli, risulta ancora molto problematica.
Va comunque rilevato che accanto ad un sovraffollamento che è definibile come quantitativo, esiste anche un affollamento di carattere qualitativo. Esso si può ricondurre alle diverse tipologie di popolazione detenuta, ciascuna di essa portatrice di diverse istanze ed esigenze. La forzata convivenza in pochi metri quadri, per mancanza di idonee strutture, di detenuti giovani e adulti, imputati e condannati, di diverse razze e religione, sani e con problemi di tossicodipendenza (quando non addirittura di sieropositività; i dati più recenti dimostrano, infatti, che solo un terzo dei nuovi giunti in carcere si sottopone a screening volontario per l'accertamento del virus HIV) crea notevoli problemi di promiscuità e di tensione anche in situazioni dove l'affollamento non è particolarmente rilevante.
Al tema del sovraffollamento delle carceri è, ovviamente legato, quello, complementare, dell'edilizia carceraria. Oltre le ridotte disponibilità economiche conseguenti ad una politica di bilancio volta ad un drastico contenimento delle spese, il problema centrale in tale settore appare quello, ormai obsoleto, della sostanziale estraneità dell'amministrazione penitenziaria rispetto alla realizzazione delle opere edilizie. Il D.A.P. è, infatti, sostanzialmente privo di competenze nella progettazione e realizzazione delle strutture, pur essendo il soggetto destinato a servirsene (4). Il programma di risanamento e potenziamento del patrimonio immobiliare penitenziario è gestito infatti direttamente dal Ministero dei lavori pubblici, sulla base di un programma predisposto congiuntamente con il Ministero della giustizia nell'ambito del «Comitato paritetico per l'edilizia penitenziaria».
Un ulteriore e non secondario limite ad un corretto sviluppo dell'edilizia penitenziaria è derivato dalla lunghezza dei tempi di realizzazione delle opere (che, a volte, rendono gli istituti finiti ormai obsoleti) e dalla scarsa funzionalità di essi in relazione alle nuove esigenze trattamentali e di sicurezza che nel tempo vengono a manifestarsi.
Va dato atto, comunque, che l'Amministrazione penitenziaria, pur vincolata dalle disponibilità finanziarie, ha attuato negli anni un piano di costante rinnovamento dell'edilizia carceraria. Secondo l'ultima relazione sullo stato di attuazione del programma di edilizia penitenziaria (legge 404/1977) pervenuta pochi giorni orsono al Parlamento, e riferita all'anno 1999, risultano realizzati dal 1971 (anno di avvio del programma) 78 nuovi istituti mentre 7 sono in corso di costruzione; ciò, pur tra le difficoltà di utilizzazione dei fondi erogati negli anni attraverso leggi finanziarie sempre più restrittive e tra continue rimodulazioni e blocchi degli impegni (con conseguente cadute in economia dei fondi stessi).


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Nell'ultimo decennio risultano in particolare costruiti 39 nuovi istituti (che in parte hanno sostituito quelli già esistenti) ed effettuati interventi di ristrutturazione dei vecchi, per adeguarne la ricettività e la funzionalità ai principi dell'ordinamento penitenziario.

Il personale degli istituti penitenziari

La polizia penitenziaria

Il Comitato ha in generale registrato uno stato di diffuso malessere negli appartenenti all'ex Corpo degli agenti di custodia. Le principali lamentele hanno riguardato asserite carenze di organico e di mezzi (in particolare dopo l'assunzione da parte della polizia penitenziaria del servizio di traduzione dei detenuti precedentemente svolto dall'Arma dei Carabinieri e dalla Polizia di Stato), l'inadeguatezza degli stipendi, le incerte prospettive di avanzamento nella carriera, la durezza dei turni di lavoro nonché l'essere esposti, spesso, a gravi rischi nel quotidiano contatto con i detenuti.
Va precisato che un discreto contributo alla creazione di vuoti negli organici degli agenti è causato dal loro utilizzo in compiti amministrativi e di collaborazione in aree diverse da quella di appartenenza, allo scopo di rimediare alla carenza del relativo personale.
Un ulteriore fattore di scontento degli agenti appare quello relativo alle difficoltà di attuazione di un aspetto fondamentale della riforma del 1990, che ha espressamente delineato, accanto alle funzioni tipiche, di natura custodiale, anche funzioni diverse che disegnavano una nuova figura professionale: l'articolo 5 della legge n. 395 del 1990 infatti espressamente prevede la partecipazione degli agenti «anche nell'ambito di gruppi di lavoro, alle attività di osservazione e di trattamento rieducativo dei detenuti e degli internati ». L'agente penitenziario, quindi, che in definitiva è l'operatore maggiormente a contatto con il detenuto, risulta inserito a pieno titolo nella catena trattamentale. Tale partecipazione alla rieducazione è però, secondo quella che sembra essere l'opinione prevalente degli agenti, rimasta una enunciazione di principio, stante il numero insufficiente di corsi di formazione ed aggiornamento e soprattutto la scarsa considerazione riservata ad essi dalla vigente normativa che, concretamente, ha poi riservato il trattamento del detenuto ad altro personale (educatori, assistenti sociali, esperti ex articolo 80 dell'Ordinamento Penitenziario), peraltro anch'esso afflitto da gravi carenze di organico.
A tale partecipazione al trattamento sembra, in verità, essere di ostacolo anche una consolidata mentalità di parte degli agenti più (soprattutto i più anziani) in base alla quale il detenuto è visto come «controparte» e l'ambito custodiale come il momento esclusivo e comunque assorbente in cui si esplica la professionalità dell'agente penitenziario.
In relazione alle modalità operative dell'attività del Corpo di polizia penitenziaria, deve segnalarsi che, a distanza di ben 8 anni dall'entrata in vigore della legge n. 395 del 1990, è stato finalmente emanato con il decreto del Presidente della Repubblica 15 febbraio


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1999, n. 82, il regolamento di servizio previsto dall'articolo 29 della legge stessa. Tale fondamentale documento dovrebbe permettere di disciplinare in modo chiaro ed organico la molteplicità degli aspetti operativi del personale di custodia, di individuarne con maggior esattezza i doveri e le responsabilità concrete anche, quindi, in riferimento a quella partecipazione all'attività trattamentale di cui si diceva poc'anzi. In particolare, è ribadita la partecipazione degli agenti all'espletamento dell'osservazione della personalità ed al gruppo di lavoro finalizzato alla stesura del programma individualizzato di trattamento (artt. 28 e 29 del decreto del Presidente della Repubblica n. 431 del 1976, regolamento di esecuzione dell'ordinamento penitenziario). Il rinvio alla disciplina del vecchio regolamento degli agenti di custodia ha infatti mostrato tutta la sua inadeguatezza dopo che gli anni successivi alla riforma del Corpo del '90 hanno trasformato notevolmente la cultura professionale e la metodologia di lavoro dell'agente penitenziario.
Un ulteriore grave problema è costituito dal fatto che il Corpo, gerarchicamente suddiviso nei ruoli di ispettore, sovrintendente, agente e assistente, si presenta sostanzialmente acefalo, non essendo previsti al suo interno quadri direttivi e dirigenziali (i più alti in grado sono gli ispettori superiori, anche per effetto dell'inquadramento in un ruolo ad esaurimento degli ex ufficiali del disciolto Corpo degli agenti di custodia) con il risultato che l'unico referente con attribuzioni dirigenziali finisce con l'essere il direttore dell'istituto, ovvero un estraneo al Corpo di polizia penitenziaria. Se si pensa poi che alcuni di questi ispettori possono dirigere reparti di 600-700 uomini, appare evidente la sperequazione tra concreta responsabilità e qualifica posseduta.
Secondo quanto riferito dagli agenti risulterebbero inoltre carenti anche gli organici dei sovrintendenti che svolgono un fondamentale ruolo di coordinamento delle unità operative e operano efficacemente da tramite tra gli ispettori e gli assistenti.
Una causa di ulteriore disagio degli agenti penitenziari deriva dalla asserita inadeguatezza degli stipendi; sono notevoli le difficoltà economiche che molti, soprattutto al Nord (dove in gran parte sono stati raggiunti dalle famiglie), devono sopportare a causa del maggior costo della vita nonché della mancanza di alloggi ad essi riservati, circostanza che li costringe a rivolgersi all'oneroso mercato privato degli affitti.

Il personale dei ruoli civili

Tra il personale civile penitenziario, come già accennato, particolarmente difficile si presenta la situazione degli operatori dediti all'attività di trattamento. Si tratta di figure professionali di notevole responsabilità, educatori soprattutto ma anche sociologi, psicologi, assistenti sociali, esperti, i cui ruoli organici, di per sé già carenti rispetto all'ampiezza ed ai compiti loro affidati, presentano una notevole percentuale di scoperture. Le sedi che in tal senso patiscono maggiormente appaiono ancora una volta quelle del Nord per le note propensioni del personale (e il fenomeno riguarda anche la polizia


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penitenziaria) a rientrare nelle località di provenienza, per lo più meridionali.
Il numero degli operatori dell'area trattamento in servizio è quindi del tutto insufficiente e ciò comporta per ognuno un numero eccessivamente alto di detenuti da seguire con conseguente ritardo nel funzionamento del circuito penitenziario-area penale esterna.
La situazione più allarmante, come emerso anche dall'audizione del marzo 1998, riguarda forse gli educatori penitenziari. Il rapporto numerico attuale educatore-detenuto a livello nazionale è di circa 1 a 100 (in particolare, nel carcere di Opera tale rapporto era, nel marzo 1998, al momento della visita del Comitato di 1 a 200 mentre a S. Vittore era poco meno di 1 a 300); ciò impedisce la formulazione in tempi adeguati dei programmi individualizzati di trattamento (che, ai sensi dell'articolo 27 del citato decreto del Presidente della Repubblica 431/1976, dovrebbe essere ultimato entro nove mesi dall'inizio dell'esecuzione) nonché della predisposizione delle cd. «relazioni di sintesi» sull'osservazione del detenuto e sui suoi progressi nella rieducazione, indispensabile premessa temporale alla concessione delle eventuali misure alternative e dei permessi premio da parte della magistratura di sorveglianza. Tale ultima circostanza che spesso rende difficili i rapporti dei detenuti con gli educatori, esposti a volte a gravi rischi personali in quanto visti come prima e più immediata causa della impossibilità di accesso a dette misure, è purtroppo situazione comune che si aggiunge alla lentezza della risposta dei giudici di sorveglianza, da parte loro afflitti da analoghi problemi di organico, anche amministrativo.
Troppo spesso la valutazione dell'educatore, che la legge n. 354 del 1975 individua come il soggetto preposto ad offrire i punti cardine dell'individualizzazione e umanizzazione del trattamento, deve limitarsi ad un generico giudizio di buona condotta del detenuto «allo stato degli atti», indipendentemente cioè da un effettiva valutazione di congrua durata sul buon esito del percorso rieducativo; giudizio di buona condotta che diventa, per il magistrato, l'unico parametro per la concessione del «premio» delle misura alternativa.
Appare, purtroppo, una eccezione l'attività di osservazione del detenuto fin dall'inizio dell'esecuzione (è abituale solo il colloquio coi nuovi giunti) così come la preparazione di un programma di trattamento individualizzato per la cui realizzazione appaiono, del resto, carenti sia gli strumenti che gli spazi di risocializzazione idonei allo scopo.
In generale, gli educatori lamentano, poi, una collocazione inadeguata della loro figura professionale (non è attualmente necessaria la laurea) per la quale non è prevista una formazione professionale di base (come invece è avvenuto per gli assistenti sociali) e la cui operatività appare ad essi condizionata dalla «tuttologia» delle loro attribuzioni, come emerge dalla molteplicità dei compiti loro affidati dall'articolo 82 dell'Ordinamento Penitenziario; sarebbe, a loro avviso, preferibile e maggiormente funzionale, anche in relazione alla effettiva consistenza numerica, prevedere compiti ben determinati nell'ambito del circuito trattamentale.

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Viene poi lamentato che la reale effettuazione delle attività trattamentali viene ad essere troppo condizionata da direttori di maggiore o minore «buona volontà» nonché la sostanziale assenza di controlli in tal senso da parte dell'amministrazione penitenziaria; amministrazione, invece, molto zelante nella ricostruzione del percorso rieducativo in caso di suicidio di un detenuto o quando questi, nel corso della fruizione di un beneficio, compie un grave reato fuori dal carcere con conseguenti polemiche verso l'atteggiamento troppo «garantista» del personale di osservazione e trattamento e della magistratura di sorveglianza.
Sembra emergere come dato anche una sostanziale mancanza di collaborazione tra gli addetti all'area educativa e la polizia penitenziaria, che pure dovrebbe partecipare attivamente all'attività di trattamento ma la cui cultura, ad opinione degli educatori, è ancora portatrice soltanto o prevalentemente di istanze custodiali e di sicurezza. Pur ritenendo necessario l'apporto del personale di polizia, sembra necessario agli operatori dell'area educativa che il contributo degli agenti alla rieducazione vada delimitato attraverso le istanze dell'equipe di trattamento.
Di particolare gravità sembra inoltre la situazione professionale relativa ai cd. esperti ex articolo 80 dell'Ordinamento Penitenziario, legati all'Amministrazione da rapporti libero-professionali e la cui attività è stata oggetto di notevoli tagli a causa delle sempre più ridotte disponibilità finanziarie. Si tratta di psicologi, assistenti sociali, esperti in pedagogia, criminologi clinici, psichiatri che recano un insostituibile supporto all'attività degli altri operatori dell'area trattamentale. Con riferimento a quest'ultima categoria di personale è stata posta da più parti, ma soprattutto da parte degli stessi esperti, la necessità di passare ad una diversa configurazione del rapporto di lavoro sul modello indicato dalla legge 740/1970 relativa ai medici incaricati.
Assolutamente da riconsiderare è poi l'organico degli addetti all'area penale esterna, ovvero gli assistenti sociali dei C.S.S.A. (Centri di servizio sociale per adulti). Tale ripensamento appare strettamente collegato ad una riflessione sulla effettiva volontà politica di creare una efficiente rete di supporti al sistema dell'esecuzione delle pene alternative alla detenzione. Gli operatori dei Centri di servizio sociale ascoltati nel corso delle visite effettuate dal Comitato, oltre a lamentare gravi carenze di organico, evidenziano anche la contraddittorietà dell'impianto normativo che incide pesantemente sulla concreta operatività quotidiana nonché la inadeguata dotazione di mezzi e strumenti e la mancata copertura degli incarichi direttivi.
Anche gli organici degli addetti all'area amministrativa-contabile risulta certamente carente; per ovviare a tali scoperture, è frequente, come ricordato, l'utilizzazione di agenti penitenziari in compiti estranei a quelli d'istituto. Il profilo professionale dei ragionieri, oltre ai ricordati problemi di personale che provocano ritardi nella gestione, lamenta una eccessiva complessità dei bilanci di esercizio nonché una notevole lentezza della macchina amministrativa nella acquisizione di beni e servizi.

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Appare inoltre necessario definire con maggiore chiarezza l'area professionale degli appartenenti al ruolo degli assistenti amministrativi che lamentano soprattutto la vaghezza dei compiti loro attribuiti dalla legge.

La magistratura di sorveglianza

Le audizioni dei presidenti dei tribunali di sorveglianza di Napoli e di Milano hanno evidenziato uno stato di diffuso disagio che è ragionevole pensare proprio di tutta la categoria. Tra le cause di tale malessere vengono citate, tra le altre, la insufficienza e contraddittorietà dell'impianto normativo, le carenze organiche sia del personale di magistratura che amministrativo, l'insufficiente raccordo con i diversi operatori dell'amministrazione penitenziaria, la giurisprudenza spesso difforme delle diverse magistrature di sorveglianza sul territorio, nonché la prassi di assegnare troppi uditori giudiziari ai tribunali di sorveglianza.
Tale settore della magistratura sembra continuare a costituire una sorta di zona di frontiera, un passaggio professionale per molti assai poco appetibile in relazione alla mole di lavoro da sopportare, alla scarsità di motivazioni, alle responsabilità che si assumono (soprattutto in relazione ai comportamenti fuori dal carcere di detenuti che usufruiscono di benefici penitenziari) nonché, e non ultimo, alla scarsa visibilità professionale.
Secondo quanto emerso, è inoltre opinione prevalente che, in linea generale, nonostante il numero dei benefici concessi, notevolmente superiore alle previsioni, gli obiettivi fondamentali della legge Gozzini siano stati mancati; le difficili condizioni di lavoro degli operatori del trattamento penitenziario si riflettono direttamente sulla realizzazione dei principi di rieducazione e risocializzazione introdotti col nuovo ordinamento del '75, ancor più valorizzati dalle modifiche della legge Gozzini dell'86. L'impossibilità per il personale trattamentale di seguire da vicino i detenuti, sommandosi al malfunzionamento di alcuni degli strumenti chiave della riforma (si pensi in particolare al lavoro interno ed esterno agli istituti) nonché agli stessi problemi della magistratura di sorveglianza, comporta in molti casi la vanificazione dello spirito della riforma penitenziaria. Il problema centrale, più volte evidenziato in tutte le sedi e da tutti gli interessati, rimane quello per cui la concessione delle misure alternative (così come degli altri benefici in senso stretto) rimane, in assenza di una costante ed effettiva attività di osservazione, frutto pressoché esclusivo anche per i magistrati, della buona condotta del detenuto. Assoluta insufficienza, quindi, quando non addirittura mancanza di strumenti valutativi da parte del magistrato nell'assunzione delle sue decisioni. Nella stragrande maggioranza dei casi, il beneficio penitenziario è quindi il premio che la magistratura di sorveglianza concede al detenuto per il fatto di avere una «fedina penale intramuraria» pulita.
Anche la normativa vigente sembra non rispondere più alle esigenze di corretto e spedito funzionamento degli uffici di sorveglianza:


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troppi adempimenti, troppi interventi obbligatori ex lege che potrebbero essere evitati, soprattutto in quei casi in cui le decisioni da prendere non sembrano essere frutto di un penetrante uso di un potere discrezionale da parte del giudice. Molte delle decisioni attualmente di stretta competenza della magistratura di sorveglianza sembrano avere poco a che fare con lo ius dicere; in definitiva, le stesse potrebbero essere prese in via amministrativa dai direttori delle carceri: si pensi, tra le altre, alle autorizzazioni alla corrispondenza telefonica dopo la sentenza di primo grado e fino al passaggio in giudicato, su cui la competenza del giudice appare del tutto residuale e non discrezionale; alle autorizzazioni all'utilizzo del cd. fondo vincolato, ovvero il peculio non disponibile; ai permessi e alle licenze agli internati e ai semiliberi, quando la fruizione del beneficio debba avvenire in luogo contemplato nel piano di trattamento già approvato dal magistrato di sorveglianza, il cui provvedimento di concessione diventa un fatto automatico. Altre decisioni, soprattutto quando trattasi di provvedimenti meramente attuativi di decisioni già adottate dall'organo collegiale, potrebbero invece essere utilmente trasferite dal tribunale al magistrato di sorveglianza.
È poi un dato incontestabile che i magistrati di sorveglianza siano numericamente pochi rispetto agli altri giudici (120 giudici in servizio nei tribunali e 45 negli uffici di sorveglianza) soprattutto, rispetto ai delicati compiti loro attribuiti dal legislatore dal 1975 in poi: come tappe di questa evoluzione legislativa basta citare la legge di depenalizzazione n. 689 del 1981, la legge Gozzini n. 663 del 1986, il nuovo codice di procedura penale introdotto col decreto del Presidente della Repubblica n. 447 del 1988, il testo unico sugli stupefacenti approvato con il decreto del Presidente della Repubblica n. 309 del 1990, la legge n. 11 del 1998 sul dibattimento penale a distanza e, da ultimo, la legge Simeone n. 165 del 1998. Ciò senza contare come la legge sull'ordinamento penitenziario abbia subito notevoli modifiche con l'introduzione della legislazione emergenziale degli anni 1991-92, modifiche che hanno reso sempre più complesso il quadro normativo di riferimento, la cui interpretazione da parte della magistratura di sorveglianza è stata resa ancora più insidiosa dai frequenti interventi della Corte costituzionale. La complessità del lavoro e la mole dello stesso avrebbero dovuto certamente comportare da parte del legislatore un adeguamento degli organici dei giudici, rimasto negli anni sostanzialmente invariato. Tra l'altro, lo stesso sovraffollamento delle carceri ed il fenomeno dell'incremento delle misure alternative con la conseguente notevole crescita della cd. area penale esterna avrebbero dovuto costituire un forte segnale in tal senso.
In riferimento al cennato problema dell'assegnazione degli uditori alla magistratura di sorveglianza è di immediata percezione come un settore così delicato come quello della sorveglianza sull'esecuzione penale (che incide sul diritto di libertà, uno dei diritti inviolabili dell'uomo garantiti dalla Costituzione) anche in considerazione dei notevoli carichi di lavoro, debba essere preferibilmente affidato a magistrati più esperti che possano dare giudizi filtrati dall'esperienza pregressa ed essere più rapidamente operativi. Negli ultimi anni, costantemente, così non è stato e anche tale

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segnale induce a considerare come sottostimata l'importanza della sorveglianza sull'esecuzione penale rispetto ad altri settori della giurisdizione.

Il problema del lavoro

In un sistema carcerario che si pone come fine ultimo la riabilitazione e la reintegrazione sociale del detenuto, il momento del lavoro rappresenta, oltre che un formidabile strumento di prevenzione di nuova criminalità, una forma essenziale ed una possibilità concreta di riscatto morale ed umano per il soggetto in trattamento.
Sulla spinta di una riforma del sistema che sempre più deve cercare sia la valorizzazione di forme individualizzate di trattamento rieducativo, sia un aumento significativo delle misure alternative assieme alla promozione di attività culturali, sportive formative e lavorative, la dimensione del rapporto carcere-lavoro si costituisce come fattore cruciale di risocializzazione e riabilitazione del detenuto.
All'interno di questa logica risulta determinante ricercare e costruire opportunità di lavoro dentro e fuori dal carcere (sia durante che dopo la detenzione), accrescere la formazione di base e professionale del detenuto, supportarne il percorso di reintegrazione lavorativa tramite l'utilizzazione di figure professionali di sostegno, di servizi sociali efficienti e di strutture amministrative ad hoc; a monte di tutto ciò, tale risultato può però essere ottenuto soltanto attraverso la ricostruzione di un rapporto positivo della persona con il lavoro, inteso ad un tempo come attività e come mercato competitivo in cui dimostrare le proprie capacità e la propria volontà di riscatto.
L'articolo 20 dell'ordinamento penitenziario sancisce addirittura la obbligatorietà del lavoro per i condannati ed i sottoposti alle misure di sicurezza della colonia agricola e della casa di lavoro.
I dati relativi alla quota di detenuti lavoranti presenti nelle nostre carceri non sono però, malgrado le affermazioni di principio, incoraggianti. Come già rilevato, alla data del 31 dicembre 1999, solo il 23% dei detenuti (11.903) risulta occupato in attività lavorative, per lo più non qualificate, mentre solo 1.482 (semiliberi, ammessi al lavoro esterno, lavoranti in carcere) non risultano alle dipendenze del D.A.P.
Del resto nel corso degli ultimi anni, si è sempre registrata una lieve ma costante flessione del numero detenuti non lavoranti per l'amministrazione penitenziaria, che è passato dai 1746 del '96 ai 1.677 del '97 ai 1.443 del '98. Nel corso del 1999, quindi, la quota di tale categoria di detenuti si è almeno mantenuta costante.
Se si guarda alle forme di lavoro maggiormente praticate nelle carceri è del resto evidente che sono poche le occasioni di intraprendere attività veramente «moderne» ovvero professionalità in ogni caso spendibili all'esterno dopo l'espiazione della pena. Ciò, naturalmente, pur tenendo conto delle difficoltà di un mercato del lavoro in crescente trasformazione ed in costante difficoltà nella creazione di nuovi posti di lavoro. La legge n. 354 del 1975 sull'ordinamento penitenziario, tra l'altro, esplicitamente prevede (articolo 20) che l'organizzazione ed i metodi del lavoro penitenziario devono riflettere quelli del lavoro nella


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società libera al fine di far acquisire ai soggetti una preparazione professionale adeguata alle normali condizioni lavorative per permetterne un proficuo reinserimento sociale.
I lavori cd. domestici costituiscono, come invece accennato, la quasi totalità delle attività in carcere, lavori offerti dalla stessa amministrazione penitenziaria che le ridotte disponibilità finanziarie hanno ultimamente drasticamente ridotto (da qui la necessità di ricorrere a turnazione o di ridurre il numero delle ore di lavoro giornaliero); si tratta di attività non produttive che svolgono una funzione per lo più assistenziale, mirata all'erogazione di un minimo di reddito ai detenuti più bisognosi e di cui, in ogni caso, appare scarso il valore rieducativo.
Diversi sono i fattori che possono aver causato, seppur indirettamente, il mancato decollo del lavoro carcerario. Uno degli elementi principali di stagnazione appare soprattutto la rigidità del mercato sul versante degli oneri che, riducendo i margini di profitto dell'imprenditore, ha di fatto ostruito gli sbocchi occupazionali, sottraendo occasioni di lavoro ai detenuti. L'ordinamento penitenziario avendo vincolato per finalità garantistiche, in linea di principio peraltro condivisibili, il lavoro carcerario alla ordinaria disciplina sul lavoro subordinato e sul collocamento ha determinato un netto calo delle occupazioni intramurarie per la forte diminuzione delle commesse. L'obbligo di retribuzione dei detenuti con mercedi pari a due terzi della tariffa sindacale, se da un lato ha imposto un regime di protezione rispetto a possibili fenomeni di sfruttamento, dall'altro ha provocato un nettissimo calo dell'offerta di lavoro; deve peraltro considerarsi che la manodopera detenuta è notoriamente meno qualificata professionalmente e meno produttiva di quella reperibile ordinariamente sul mercato del lavoro. Tale minore produttività deriva comunque, almeno in parte, dalla rigidità dell'organizzazione della giornata dei detenuti nonché dalla scarsa o nulla disponibilità di moderni fattori produttivi; non a caso, l'attività più facilmente praticabile in carcere è quella artigianale.
Nell'assegnazione dei soggetti al lavoro si dovrebbe, inoltre, tener conto dell'anzianità di disoccupazione durante la detenzione, dei carichi familiari, della professionalità nonché delle precedenti attività svolte e di quelle cui potranno dedicarsi dopo la dimissione. Disposizioni, queste, che diventano un ulteriore eloquente indicatore dei limiti di carattere strutturale, economico ed organizzativo che frenano, in misura assai elevata, i meccanismi di recupero sociale di cui il lavoro è il fattore determinante.
In definitiva, l'istituzione di lavorazioni organizzate e gestite da imprese pubbliche e private rimane di problematica attuazione. L'amministrazione penitenziaria si è tuttavia impegnata a promuovere l'allestimento di lavorazioni intramurarie da parte di terzi mediante la stipula di convenzioni nelle quali vengono regolati in via pattizia i relativi obblighi delle parti.
Un segnale concreto di inversione di tendenza in materia di lavoro penitenziario potrebbe costituire la recente definitiva approvazione da parte del Senato (14 giugno 2000) del cd. progetto Smuraglia, ora in attesa di pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale.

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Il provvedimento è volto, in particolare, a favorire il lavoro carcerario tramite la defiscalizzazione degli oneri contributivi a carico di imprese che investano nel lavoro dei detenuti, introducendo quindi elementi di flessibilità che potrebbero incentivare gli interessati ad investimenti nel lavoro intramurario.
La legge estende l'ambito di applicazione della legge 8 novembre 1991, n. 381, sulle cooperative sociali. Tali cooperative, grazie soprattutto alle agevolazioni introdotte dalla legge citata, appaiono, in effetti, come la realtà più rilevante nel settore in relazione all'offerta di lavoro a detenuti ammessi alle misure alternative, semiliberi o ex detenuti, anche se le scarse dimensioni produttive impediscono a queste realtà di proporsi in maniera più incisiva nella creazione di un maggior numero di posti.
Le innovazioni relative all'ambito operativo della legge 381/1991, riguardano un duplice profilo:
in primo luogo, rimuovendo una notevole limitazione normativa (i cui negativi effetti sono stati segnalati più volte dall'Amministrazione penitenziaria) vengono inclusi tra i soggetti svantaggiati, per la occupazione dei quali le cooperative sociali possono beneficiare di sgravi contributivi (da determinare ogni biennio con decreto interministeriale), categorie di soggetti attualmente non contemplate dalla legge n. 381/1991 come gli ex degenti di istituti psichiatrici giudiziari, le persone detenute o internate negli istituti penitenziari, gli internati ammessi alle misure alternative alla detenzione, i condannati e gli internati ammessi al lavoro esterno;
in secondo luogo, tali sgravi contributivi, oltre che alle cooperative sociali, sono estesi anche alle aziende pubbliche o private che organizzano attività produttive o di servizi all'interno degli istituti penitenziari impiegando manodopera detenuta.

Il provvedimento prevede, inoltre, la concessione di sgravi fiscali alle imprese che assumono lavoratori detenuti per un periodo di tempo minimo di trenta giorni (e nel semestre successivo allo stato di detenzione) ed a quelle che svolgono attività formative nei confronti degli stessi reclusi. L'entità di tali agevolazioni sono determinate annualmente (sulla base delle risorse finanziari previste, pari a 9 miliardi l'anno a decorrere dal 2000) con decreto interministeriale, sul quale è peraltro previsto il parere delle competenti Commissioni parlamentari.
I soggetti pubblici e privati e le cooperative sociali che intendono investire nel lavoro carcerario debbono comunque preventivamente procedere alla stipula di apposite convenzioni con l'amministrazione penitenziaria che prevedano le condizioni di svolgimento dell'attività, l'attività formativa ed il trattamento retributivo dei detenuti, senza oneri per la finanza pubblica.
Il direttore del D.A.P., Giancarlo Caselli, intervenendo il 31 marzo 2000 ad un convegno al carcere milanese di S. Vittore sul tema «Il lavoro oltre le sbarre», ha affermato che il lavoro carcerario costituisce la principale priorità del suo programma. Garantendo il suo massimo


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impegno per istituire corsi di formazione permanenti negli istituti, Caselli ha reso noto di avere approntato un protocollo d'intesa, ministero della giustizia-ministero del lavoro per la definizione di un programma politico comune volto a garantire il diritto al lavoro dei detenuti. In relazione al citato provvedimento Smuraglia sul lavoro penitenziario, di particolare interesse la proposta avanzata dallo stesso Caselli (e che potrebbe costituire oggetto di apposito emendamento da parte del Governo) relativa alla possibilità di concedere prestiti d'onore, metà a fondo perduto e metà da restituire nel tempo, a detenuti ed ex detenuti che vogliano avviare un'attività commerciale o artigianale in proprio.
Oltre al provvedimento citato, la cui approvazione definitiva inizierebbe intanto a sciogliere alcuni nodi, va ricordato che a seguito di intese tra l'amministrazione penitenziaria e il ministero del lavoro, era stata introdotta con il decreto legislativo 468/1997 la possibilità di impiego di detenuti in attività di pubblica utilità, come la tutela e il recupero ambientale. Il decreto prevede però specifiche limitazioni: i soggetti utilizzabili nei lavori socialmente utili extramurari sono soltanto i detenuti per i quali, nell'ambito del trattamento, è prevista l'ammissione al lavoro esterno, mentre, nelle attività lavorative (relative a progetti predisposti dal D.A.P. e dalla giustizia minorile) destinate a svolgersi all'interno degli istituti possono essere utilizzati anche gli altri detenuti, con preferenza per quelli per i quali il termine di espiazione della pena ricada nell'ambito del progetto. Nel corso del 1998, una prima fase sperimentale di impiego di detenuti in lavori socialmente utili risulta avviato nelle regioni Emilia Romagna e Sicilia. Nell'ultima relazione annuale (1999) sull'attuazione delle disposizioni in materia di lavoro penitenziario pervenuta alla Camera il 10 maggio 2000 segnala un ulteriore peggioramento dei dati sull'impiego di manodopera detenuta. Pur proseguendo, gradualmente, l'opera di adeguamento delle officine esistenti alla normativa antinfortunistica di cui alla legge 626/1994 nonché l'allestimento di lavorazioni di tipo industriale presso gli istituti di nuova costruzione - si legge nella relazione - permangono grosse difficoltà nell'incrementare i posti di lavoro all'interno del circuito penitenziario. E ciò, nonostante il D.A.P., per assicurare l'impiego di un maggior numero di detenuti possibile ricorra, per attività non particolarmente qualificate, ad istituti come il part-time o il lavoro a tempo determinato.

Tra le più interessanti iniziative va in particolare segnalato un accordo siglato nel febbraio del '98 tra il Ministero di grazia e giustizia, il Ministero del lavoro e Telecom Italia Mobile s.p.a. che ha, in tale contesto, previsto l'impiego di manodopera detenuta nella gestione di banche-dati tramite strumenti informatici. In attuazione di tale accordo, ha preso avvio un progetto sperimentale che prevede dopo un periodo di formazione professionale l'impiego in forma cooperativistica di 50 detenuti (25 presso Milano-S. Vittore e altrettanti presso Roma-Rebibbia) in attività di elaborazioni dati, gestione archivi e realizzazione supporti informatici e telematici. Il 24 luglio 1998 è poi stato siglato un protocollo d'intesa tra il D.A.P. e Confcooperative Federsolidarietà (organismo che

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riunisce numerose coop. di solidarietà sociale e i loro consorzi a fini di recupero sociale e di occupazione di persone bisognose e a rischio-emarginazione) per favorire lo sviluppo di opportunità di lavoro intramurarie per i detenuti mediante un progetto di colonie agricole in Sardegna.

Sulla base delle esperienze già acquisite, lo strumento forse più importante attraverso il quale dare una risposta alla richiesta di occupazione e formazione professionale da parte dei detenuti può sempre più spesso arrivare da forme di collaborazione istituzionali tra il Ministero e gli enti locali.
Al fine di realizzare un programma di interventi coordinato e concordato, molte regioni, singolarmente, hanno infatti stipulato accordi formali attuando una collaborazione sistematica e diffusa con il D.A.P. Come rilevabile dalla tabella, alcune regioni, in primis, Emilia Romagna e Toscana hanno non solo stipulato Protocolli d'intesa con il Ministero della giustizia ma hanno già operato un aggiornamento degli accordi e stipulato nuovo Protocolli, mentre con altre regioni l'aggiornamento è in corso (5).
In altre realtà regionali, la collaborazione avviene a livello di singole realtà ed istituti locali, pur permanendo difficoltà nel realizzare intese valide su tutto il territorio regionale.
Nell'ambito delle diverse esperienze locali, un ruolo importante ha certamente assunto negli ultimi anni la Toscana, dove, come accennato, c'è già un protocollo d'intesa a livello regionale. Molti enti locali hanno infatti avviato o concluso accordi con l'amministrazione penitenziaria: tra questi, si segnala il Protocollo d'intesa del Comune di Livorno con il villaggio penitenziario dell'isola di Gorgona, la «Carta d'intenti» siglata dal Comune e la Provincia di Arezzo con la locale Casa Circondariale, il protocollo sulla custodia attenuata firmato dalla Provincia e dal Comune di Firenze e il «Progetto Carcere» finanziato dal Comune di Prato e gestito in collaborazione con l'A.R.C.I. volto a migliorare l'accoglienza sul territorio di detenuti ed ex detenuti, a fini di reintegrazione sociale e lavorativa. Ad analoghe finalità risponde il progetto C.A.O.S. (promosso dalla Provincia di Firenze, in collaborazione con il Ministero del lavori, l'A.R.C.I. ed il Fondo Sociale Europeo), progetto di iniziativa comunitaria di occupazione e valorizzazione delle risorse umane, mirante alla costituzione di Centri di ascolto, orientamento e servizi alla persona, per il reinserimento di detenuti ammessi alle misure alternative alla detenzione, persone in esecuzione penale esterna ed ex detenuti.
In tema di reinserimento sociale e lavorativo deve infine essere segnalato che l'8 giugno 1999 è stato firmato un Protocollo d'intesa tra


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la Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia, il Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria e l'Ufficio centrale della giustizia minorile. Il documento impegna in particolare questi ultimi a facilitare l'attività di volontariato ed a cooperare nella promozione e nello svolgimento di programmi e progetti predisposti «anche in modo congiunto» finalizzati al reinserimento lavorativo e sociale dei soggetti in esecuzione penale.

PROTOCOLLI D'INTESA TRA IL MINISTERO DI GRAZIA E GIUSTIZIA E LE REGIONI
Regione Data prima stesura protocollo Data seconda stesura protocollo In corso di elaborazione Protocollo d'intesa con altri enti locali
TOSCANA
22/1/19865/4/1990  
EMILIA ROMAGNA
20/2/19875/3/1998  
VENETO
29/7/1998 Istruttoria in corso per la seconda stesura 
PROVINCIA AUTONOMA
VALLE D'AOSTA
25/10/1989   
PIEMONTE
4/12/1992 Istruttoria in corso per la seconda stesura 
PROVINCIA AUTONOMA
DI TRENTO
12/11/1993   
LAZIO
18/4/1994   
ABRUZZO
21/7/1997   
LIGURIA
15/9/1997   
LOMBARDIA
22/3/1999   
CAMPANIA
  Ministero della giustizia e Regione firmano una «Dichiarazione d'intenti» per la stesura di un protocollo (12 /11/1999) 

Altri entiData prima stesura protocolloData seconda stesura protocolloIn corso di elaborazioneProtocollo d'intesa con altri enti locali
U.I.S.P.
(Un. Ital. Sport per tutti)
12/3/1997   
C.O.N.I.
3/1997   
Confcooperative
Federsolidarietà
24/7/1998  

La medicina penitenziaria

Le principali problematiche emerse in tema di assistenza sanitaria durante le visite effettuate dal Comitato agli istituti penitenziari hanno riguardato essenzialmente l'inadeguatezza delle strutture sanitarie interne, la carenza di fondi, l'annoso problema della cura e dell'assistenza ai malati di AIDS nonché alcune questioni relative alle visite specialistiche.


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Sulla base dei dati acquisiti dal Comitato, se si eccettuano alcune strutture sanitarie (il centro clinico del carcere Don Bosco di Pisa, - probabilmente quello più all'avanguardia - quelli di Genova Marassi, Rebibbia e Secondigliano), il livello medio dei centri sanitari penitenziari appare decisamente inferiore alle necessità dei detenuti. Tutto ciò a fronte di una situazione che ha recentemente registrato tagli a carico della sanità penitenziaria per circa il 30%, mentre, per l'assistenza ai quasi 53.000 attuali detenuti, ci sarebbe in verità urgente bisogno di ulteriori fondi per medicina specialistica e per l'acquisto di farmaci e attrezzature.
Un particolare problema, causa, peraltro, di notevoli disagi segnalati nel corso delle visite del Comitato agli istituti penitenziari (nonché oggetto di atti di sindacato ispettivo parlamentare), veniva segnalato in relazione alle visite specialistiche. In generale, il cittadino, una volta detenuto, dal punto di vista della personale posizione sanitaria, passa in carico all'amministrazione penitenziaria e le spese, compresi i costi per i consulti specialistici, sono sostenuti dalla stessa amministrazione che vi provvede direttamente ovvero tramite convenzioni senza, comunque, alcun onere per il detenuto. Il ticket per le prestazioni e gli accertamenti diagnostici non ricadenti nel pronto soccorso, invece, a seguito dell'entrata in vigore della legge 724/1994, legge finanziaria per il 1995, era stato indirettamente (e incautamente) posto a carico del detenuto; ciò per una interpretazione letterale della norma che prevede, ai fini della gratuità del ticket, la dimostrazione del proprio stato di disoccupazione tramite la timbratura periodica del cartellino di disoccupazione presso l'ufficio di collocamento. La sin troppo ovvia impossibilità, per un recluso, di timbrare regolarmente tale documento non sembra essere stata considerata come esimente e più di un detenuto, nel corso delle visite effettuate, aveva riferito di collette per aiutare i detenuti più indigenti. Al problema ha definitivamente posto rimedio il decreto legislativo n. 230 del 1999 (v. oltra).
Uno dei problemi di maggiore gravità nella gestione sanitaria delle carceri manifestatosi nel corso degli ultimi anni appare il problema dell'assistenza ai numerosi detenuti tossicodipendenti, che come rilevato costituiscono quasi il 30 % del totale dei reclusi. L'assistenza fornita dai locali servizi per le tossicodipendenze e dai presidi sanitari interni agli istituti si è rivelata quasi ovunque insufficiente, in relazione sia ai problemi di pronto intervento e di gradualità terapeutica che di specializzazione nella prestazione sanitaria da fornire a soggetti spesso difficili. Strettamente correlato a quello dei tossicodipendenti, appare poi il problema della crescita della popolazione carceraria affetta da virus HIV.
Il drammatico problema della presenza di affetti da sieropositività e da Aids è progressivamente divenuto un fattore endemico degli istituti di detenzione senza che essi siano strutturalmente in grado di affrontarlo. Il rischio di trasmissione non controllabile del contagio aumenta per il sovraffollamento degli istituti, per la frequente assenza di elementari norme di igiene nonché per la promiscuità dei rapporti tra i detenuti.
Al problema ha recentemente inteso porre rimedio la citata legge 12 luglio 1999, n. 231 che sancisce il principio generale dell'incompatibilità

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del regime carcerario per i malati di AIDS ed affetti da altre gravi malattie.
L'iniziativa legislativa ha tratto origine da molteplici fattori: la necessità di contemperare le esigenze di difesa della collettività con la tutela del diritto alla salute dei detenuti nonché per mantenere alla pena la caratteristica di non contrarietà al senso di umanità previsto dal comma terzo dell'articolo 27 della Costituzione; la caduta dell'automatismo stabilito dalla disciplina introdotta dal decreto-legge 139/1993 convertito nella legge n. 222 del 1993 che stabiliva l'incompatibilità assoluta tra la detenzione e l'affezione da HIV, ridimensionato dall'intervento della Corte costituzionale; e, non ultima, la constatazione dell'inadeguatezza delle strutture sanitarie penitenziarie ad affrontare efficacemente la malattia.
Sul piano dell'applicazione della disciplina normativa susseguente alle sentenze della Consulta, i decreti con cui sono in concreto venivano stabiliti i parametri clinici in base ai quali il giudice doveva decidere sulla incompatibilità o meno con la detenzione hanno lasciato, sulla base della giurisprudenza accertata, eccessivi margini di discrezionalità, dando luogo a disparità di trattamento.
La legge n. 231 del 1999 prevede ora il rinvio obbligatorio dell'esecuzione della pena nonché l'impossibilità di disporre o mantenere la custodia cautelare in carcere per gli imputati e i condannati affetti da AIDS conclamato, da gravi immunodeficienze o altre patologie di particolare gravità. Per rendere operativo il provvedimento, il Ministero della sanità ha emanato il decreto 21 ottobre 1999 che ha definito le procedure diagnostiche e medico legali per l'accertamento delle indicate patologie.
Tale accertamento comporterà, per il soggetto così gravemente malato, la concessione degli arresti domiciliari presso un luogo di cura, assistenza o accoglienza quando risulti impossibile prestare cure adeguate in carcere; è introdotta poi una nuova disposizione che prevede che gli affetti da AIDS e gravi immunodeficienze che hanno in corso o vogliono iniziare un programma riabilitativo presso attrezzati centri clinici possono chiedere l'affidamento al servizio sociale o la detenzione domiciliare, anche in deroga ai limiti di pena stabiliti dall'ordinamento penitenziario. L'intervento legislativo prevede infine una norma «di chiusura» del sistema che risponde essenzialmente ad esigenze umanitarie: non può essere disposta o mantenuta la custodia cautelare e deve essere obbligatoriamente rinviata l'esecuzione della pena quando la persona si trova nello stadio terminale della patologia ovvero «in una fase della malattia così avanzata da non rispondere più, secondo le certificazioni del servizio sanitario penitenziario o esterno, ai trattamenti disponibili e alle terapie curative».
La vicenda dell'incompatibilità tra il carcere e l'affezione da HIV di cui alla legge n. 231 del 1999 si inserisce in un quadro normativo inerente la sanità penitenziaria in fase di profonda trasformazione. Fino ad oggi, nel delineare i contenuti di tale disciplina il legislatore si è ispirato al principio della «complementarità» tra strutture sanitarie interne ed esterne al carcere.
Da una parte gli istituti penitenziari sono stati dotati di strutture proprie (servizi medici e farmaceutici, reparti clinici e chirurgici), in

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grado di far fronte ai bisogni sanitari più generali della popolazione detenuta, così come a quelli di particolari categorie di soggetti (puerpere, gestanti, malati di mente etc.). È stata, d'altra parte, fatta salva la possibilità di ricorrere ai servizi sanitari pubblici locali, caratterizzati da una maggiore specializzazione, nei casi più urgenti e complessi e quella di potersi avvalere del loro apporto per l'organizzazione ed il funzionamento del servizio sanitario interno.
L'amministrazione penitenziaria è stata quindi chiamata ad attuare la propria programmazione valorizzando il ruolo partecipativo e promozionale dei servizi pubblici, i quali forniscono il proprio apporto, ferma restando la responsabilità gestionale dell'amministrazione.
In questo contesto legislativo si inserisce ora la recente riforma della sanità penitenziaria, destinata a produrre strutturali innovazioni.
L'effettività del diritto alla salute dei detenuti è infatti destinato ad essere garantito tramite una riorganizzazione della medicina penitenziaria da effettuarsi (e questa è la novità) nell'ambito del servizio sanitario nazionale.
L'articolo 5 della legge 30 novembre 1998, n. 419 in materia di razionalizzazione del servizio sanitario nazionale aveva, infatti, previsto una apposita delega al Governo in tal senso, da esercitare entro sei mesi dalla data di vigenza della legge.
In attuazione della delega, è stato emanato il decreto legislativo 22 giugno 1999, n. 230 di riordino della medicina penitenziaria, il cui contenuto era stato preventivamente illustrato nel corso dell'audizione del 15 giugno 1999 dai ministri della sanità e della giustizia Bindi e Diliberto (rappresentati per l'occasione dai sottosegretari Brandani e Corleone) presso la Commissione giustizia della Camera.
Nonostante la prima fase attuativa della delega non contemplasse un parere formale delle Commissioni parlamentari, tale passaggio (cui al Senato ha corrisposto l'ufficio di presidenza della XII Commissione igiene e sanità del 16 giugno, allargato ai rappresentanti dei gruppi, cui ha preso parte il sottosegretario Corleone) avvenuto in attuazione dell'ordine del giorno Olivieri, accolto dal Governo nella seduta del 10 novembre 1998 della Camera dei deputati, ha permesso il controllo del Parlamento anche nelle more dell'emanazione della legislazione delegata intermedia, attuativa della riforma.
Sulla base del testo del decreto emanato, appare evidente come i suggerimenti emendativi al testo illustrato dai rappresentanti del Governo siano stati in gran parte accolti.
Il decreto legislativo stabilisce principi, diritti e competenze in materia di sanità penitenziaria sancendo il diritto alla salute dei detenuti ed internati «alla pari dei cittadini in stato di libertà» sia per quel che concerne la prevenzione che per quanto riguarda la diagnosi, la cura e la riabilitazione, l'assistenza sanitaria per la gravidanza e la maternità e l'assistenza pediatrica ai bambini, che le donne recluse possono tenere in istituto durante la primissima infanzia. Tale diritto alla salute si dovrà ora realizzare nell'ambito del Servizio Sanitario Nazionale.
Con la disposizione che sancisce la definitiva esclusione per i detenuti ed internati dal sistema di compartecipazione alla spese

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sanitarie (ticket), importante appare anche la norma che mantiene l'iscrizione al S.S.N. per tutti i detenuti, anche stranieri, limitatamente al periodo di detenzione. Per gli stranieri in stato di libertà valgono ovviamente le norme dettate dal regime dettato dalla legge sull'immigrazione. È inoltre stabilito che ogni azienda sanitaria locale adotti una «Carta dei servizi dei detenuti», da predisporre consultando sia gli stessi detenuti che le associazioni di volontariato.
Le competenze saranno articolate a diversi livelli: al Ministero della sanità spetteranno gli indirizzi generali; alle regioni e alle provincie autonome saranno riservate le funzioni loro proprie di organizzazione e programmazione dei servizi sanitari regionali negli istituti penitenziari ed il controllo sul relativo funzionamento; alle A.S.L. competeranno la gestione ed il controllo dei servizi sanitari negli istituti penitenziari e saranno tali strutture quindi a provvedere direttamente all'erogazione delle prestazioni sanitarie ai detenuti e agli internati.
Le competenze in tema di sicurezza restano, invece, affidate al Ministero della giustizia, mentre è demandato ad un decreto interministeriale giustizia-sanità il compito di dettare norme sulle modalità di accesso agli istituti del personale appartenente al Servizio sanitario nazionale, a sua volta tenuto all'osservanza delle norme dell'ordinamento penitenziario e dei singoli regolamenti di istituto.
Un contingente di personale medico e sanitario da destinare all'amministrazione penitenziaria è definito in relazione alle esigenze della stessa amministrazione; di tale personale apposito provvedimento interministeriale dovrà stabilire requisiti e compiti specifici all'interno degli istituti. È poi previsto, nell'ambito del Piano sanitario nazionale, un Progetto obiettivo, di durata triennale, per la tutela della salute dei detenuti stabilendo, inoltre, in capo al Ministro della sanità uno specifico obbligo di relazione sull'assistenza sanitaria in carcere all'interno della Relazione annuale sullo stato sanitario del Paese.
Il Progetto obiettivo indica gli indirizzi specifici volti al miglioramento dei servizi offerti in carcere dal servizio sanitario nazionale; i modelli organizzativi dei servizi sanitari penitenziari, anche di tipo dipartimentale (eventualmente differenziati per tipologia di istituto); le esigenze concernenti la specifica formazione per l'assistenza da prestare negli istituti; le linee-guida volte a favorire lo sviluppo di sistematici criteri di revisione e valutazione dei servizi sanitari forniti, finalizzate ad assicurare un uniforme ed appropriato livello di assistenza; gli obiettivi sanitari da raggiungere nel triennio.
Il primo Progetto obiettivo triennale per la tutela della salute in ambito penitenziario è stato approvato con il decreto ministeriale sanità 21 aprile 2000.
Rispetto al personale, il primo adempimento è l'individuazione, con uno o più decreti interministeriali, del personale degli istituti penitenziari da trasferire al S.S.N. man mano che vengono trasferite le diverse funzioni; il personale di ruolo sarà inquadrato nei ruoli nominativi regionali sanitari e quindi assegnato alle aziende sanitarie locali territorialmente competenti. Tale trasferimento (con quello delle attrezzature, arredi e beni strumentali), che sarebbe dovuto avvenire

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entro trenta giorni dalla vigenza del decreto legislativo, non risulta al momento ancora effettuato.
In relazione alle funzioni trasferite, sono naturalmente assegnate al Fondo sanitario nazionale le relative risorse finanziarie iscritte nello stato di previsione della spesa del ministero della giustizia: il trasferimento avverrà con decreto del Ministro del tesoro, del bilancio e della programmazione economica che dovrà definire anche i criteri e le modalità di gestione delle risorse stesse.
Dal 1o gennaio 2000 è partita una prima fase attuativa nella quale, secondo le previsioni dell'articolo 8 del decreto legislativo n. 230 del 1999, sono trasferite al S.S.N. le funzioni sanitarie svolte dall'amministrazione penitenziaria con riferimento ai soli settori della prevenzione e dell'assistenza ai detenuti ed internati tossicodipendenti. Attualmente, tali funzioni sono svolte in carcere prevalentemente dal personale penitenziario operante nei cd. presidi per le tossicodipendenze; ciò, anche per le note difficoltà del servizio sanitario nazionale (competente alle prestazioni socio sanitarie per i detenuti tossicodipendenti ex articolo 96 del decreto del Presidente della Repubblica 309/1990) a provvedervi attraverso gli appositi servizi (SERT).
In mancanza della normativa di attuazione, che avrebbe permesso con il trasferimento al S.S.N. delle funzioni sanitarie relative ai citati settori anche quello contestuale delle relative risorse (umane, logistiche, strumentali e finanziarie), il Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria, in data 29 dicembre 1999, ha provveduto all'emanazione di una circolare che impartisce direttive di carattere generale volte a permettere l'avvio della fase sperimentale. Le istruzioni fornite, in attesa dei decreti attuativi, riguardano in particolare le modalità di trasferimento delle funzioni sanitarie, lo status giuridico ed economico del personale, il regime autorizzatorio e le modalità di accesso del personale del S.S.N. agli istituti penitenziari.
Viene poi prevista una ulteriore fase di sperimentazione, da attuare in almeno tre regioni, nella quale sono trasferite tutte le altre funzioni non passate immediatamente alla competenza del servizio sanitario nazionale, ovvero la medicina di base, ospedaliera, specialistica ecc. Nel periodo sperimentale non avverrà un effettivo trasferimento di personale o risorse, applicandosi pertanto solo una dipendenza di tipo funzionale dal servizio sanitario nazionale; soltanto alla fine di tale periodo, e sulla base del suo esito, avverrà il trasferimento delle ulteriori funzioni in tutto il territorio nazionale. Le regioni individuate dal decreto ministeriale sanità 20 aprile 2000 per l'avvio del trasferimento graduale delle competenze sono la Toscana, il Lazio e la Puglia; il provvedimento ha previsto anche l'istituzione di un comitato presso il ministero della sanità (6) con compiti di monitoraggio e di valutazione della suddetta fase di sperimentazione.
Spetterà, in definitiva, alla ulteriore legislazione delegata prevista dall'articolo 5, comma 2 della legge n. 419 del 1998, il cui termine di scadenza è fissato in due anni dalla vigenza della stessa legge, a dare


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l'assetto definitivo alla riforma. Come previsto dalla delega, il Parlamento potrà, in tale decisiva fase, essere coinvolto nel progetto di elaborazione normativa mediante il prescritto parere delle competenti Commissioni sugli schemi di decreto legislativo.

Misure alternative alla detenzione e area penale esterna

Si è in precedenza brevemente accennato alle contrastate vicende della nuova legge penitenziaria del '75 il cui spirito riformatore era stato profondamente rinnovato dalla legge Gozzini 633 del 1986. Dopo gli interventi legislativi dei primi anni novanta, omogeneamente rivolti ad un recupero della carcerizzazione e delle esigenze di sicurezza (ne è un segno rilevante la notevole ripresa dell'organico del personale di custodia cui non è stato affiancato un analogo potenziamento del personale di trattamento e dell'area penale esterna), sembrava logico aspettarsi una forte diminuzione della concessione delle misure alternative ed in generale dei benefici penitenziari.
In realtà, di fronte ad una normativa che diventava sempre più restrittiva, si è assistito nel corso degli anni novanta ad un sempre maggior ampliamento dell'area effettiva delle misure alternative. Tale situazione, in effetti, nasceva non da un rinnovato riformismo penitenziario del legislatore bensì da modesti ritocchi legislativi, da interventi della Corte costituzionale nonché dalla giurisprudenza della giurisdizione ordinaria. Di tale stato di fatto hanno beneficiato, in particolare, le fasce medio basse (dal punto di vista della pena) della popolazione detenuta con speciale riferimento a soggetti in situazioni di particolare difficoltà come i tossicodipendenti, i malati gravi. In effetti, l'area penale esterna che si è venuta formando e che raccoglie le persone in misure alternative è formata per circa tre quarti da affidati in prova al servizio sociale. Dai più recenti dati disponibili risulta che quest'area penale esterna, formata da circa 30.000 persone, in termini quantitativi ha superato i detenuti in esecuzione di pena (28.602) ovvero l'area penale interna (con l'esclusione degli imputati). Una situazione penitenziaria normale per paesi come gli Stati Uniti dove i soggetti in trattamento penale fuori dal carcere supera più o meno di 4-5 volte il numero dei detenuti, ma del tutto nuova per il nostro Paese; tale dato numerico avrebbe tra l'altro potuto essere ancora più accentuato se la legge 165 del 1998, da più parti definita «svuotacarceri», avesse avuto più incisivi effetti. Analizzando i dati forniti dal D.A.P. relativi ai detenuti scarcerati sulla base della legge n. 165 del 1998 (legge Simeone) dal 27 maggio 1998 al 30 giugno 1999 (ad un anno quindi dall'entrata in vigore della legge), si può notare come tali detenuti siano stati soltanto 870 (822 uomini e 48 donne), un andamento del tutto fisiologico rispetto agli anni passati e costituente comunque un dato ben lontano dalle 10-15 mila scarcerazioni, da più parti paventate prima della entrata in vigore della legge.
In realtà, la legge n. 165 del 1998 più che ad uno sfollamento della popolazione penitenziaria è sembrata mirare a limitare il ricorso al carcere per l'espiazione di pene particolarmente brevi facilitando l'accesso alle misure alternative di soggetti condannati dallo stato di


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libertà (in particolare, la detenzione domiciliare, come accennato in precedenza, ha registrato un notevole incremento). Appare però come dato incontestabile che le difficoltà applicative della legge Simeone nel suo primo anno di vita siano derivate soprattutto dal metro restrittivo usato dai magistrati di sorveglianza nella valutazione dei requisiti di ammissibilità delle domande (circa il 4% di scarcerazioni su circa 25.000 richieste).
Tornando alla politica sull'esecuzione penale degli anni novanta, si è già accennato all'allargamento dell'area di concessione dei benefici penitenziari, fenomeno in controtendenza rispetto all'irrigidimento della normativa di settore. Tale situazione appare degna di particolare rilievo soprattutto in considerazione del fatto che le risposte da parte della magistratura di sorveglianza alle richieste di benefici, vuoi per la mole di lavoro da sopportare vuoi per i ritardi con cui pervengono le relazioni trattamentali, salvo particolari casi, non sono sembrate assolutamente tempestive. Anzi, spesso tale risposte sono arrivate quando il detenuto non era più tale avendo riacquistato la libertà o stava per riacquistarla; inutile dire che tali ritardi hanno inciso pesantemente sui diritti dei detenuti puniti con pene di minore entità che sono risultati i più penalizzati, finendo per scontare in carcere tutta la pena prima di ricevere una qualsivoglia risposta sull'istanza di misura alternativa. La legge Simeone ha tentato di ovviare anche a tale situazione prevedendo un termine perentorio per la decisione della magistratura di sorveglianza sull'istanza di concessione della pena alternativa.
Con quello appena indicato, l'altro grande problema che è stato posto al Comitato per i problemi penitenziari come del tutto vitale ed assorbente per la sopravvivenza di un processo di decarcerizzazione ed umanizzazione della pena è risultato quello dell'organizzazione dell'area penale esterna. Un'area penale che in relazione al tipo di reato ed alla scarsa pericolosità sociale dei soggetti che vi accedono dovrebbe consentire di predisporre più facilmente programmi di recupero.
Il coacervo di norme che invece si sono sovrapposte, intersecate, contraddette nell'impianto giuridico vigente hanno creato una situazione che incide pesantemente sulla concreta operatività dei C.S.S.A., i centri di servizio sociale per adulti, che di fatto gestiscono con grandi difficoltà le misure alternative. In particolare, gli operatori dei Centri lamentano pesantissime carenze di personale che vanificano qualsiasi ipotesi di gestione di misure alternative ed in genere di decarcerizzazione. Inoltre, essi hanno riferito di trovarsi quotidianamente ad affrontare numerosi problemi legati a complesse situazioni giuridiche: affidamenti concessi contemporaneamente a libertà controllate; doppi provvedimenti (affidamenti e arresti domiciliari) presi da diverse magistrature (ordinaria e di sorveglianza) per diverse esigenze e che comportano obblighi e divieti a volte incompatibili tra loro; prosecuzione di affidamenti dopo la conclusione dell'affidamento originario, con la difficoltà di considerare dal punto di vista giuridico il periodo intercorrente; detenzioni domiciliari spesso prolungate dalla Polizia dopo la scadenza, con conseguenti problemi di fungibilità della pena non da tutte le magistrature riconosciuta. In tanti Centri è stato necessario improvvisare veri e propri uffici matricola per la verifica

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delle posizioni giuridiche dei soggetti affidati, della durata effettiva della misura, dei giorni mancanti al fine pena, ecc., con conseguente assorbimento di parte delle già scarse risorse di personale in compiti meramente amministrativi.
Se sono necessarie modifiche su piano legislativo appare poi urgente intervenire sul piano amministrativo dell'area penale esterna individuando le competenze con maggior precisione, competenze oggi frammentate tra C.S.S.A, Istituti penitenziari, Magistratura e Forze di Polizia. I troppi referenti sembrano infatti portare ad una situazione di difficile attribuzione di effettive responsabilità. Nella realtà, il D.A.P. non ha potuto impedire che ogni Centro di servizio sociale si organizzasse autonomamente, ed in materia diversa rispetto ad altri, nella gestione delle misure. Può essere opportuno, in definitiva, concentrare in un unico ufficio opportunamente attrezzato la gestione sul piano giuridico e amministrativo delle misure alternative alla detenzione.

I costi di gestione

Una indagine sui costi dell'amministrazione penitenziaria, conclusa nel marzo 1999, commissionata dall'allora Ministro Flick e condotta dalla Commissione tecnica per la spesa pubblica del Ministero del Tesoro, ha evidenziato una situazione generale di notevole diseconomicità.
Individuando uno standard di efficienza teorico sulla base del quale ha poi esaminato la gestione dei singoli istituti penitenziari, la Commissione ha valutato in almeno 500 miliardi annui il risparmio che un uso efficiente delle risorse finanziarie (circa 4.000 mld. annui) e del personale in servizio renderebbe possibile. Tenuto conto di ciò, gli istituti potrebbero teoricamente assorbire mediamente l'8% in più di detenuti. Nella prima fase della ricerca è emersa una minore spesa gestionale nelle carceri del nord del Paese e costi più alti in quelli del centro-sud, rilevando nel contempo come l'indicatore di produttività aumentasse con l'aumentare della dimensione degli istituti; le carceri dove si sono registrati i maggiori sprechi sono risultate, in sostanza, quelle di minori dimensioni.
La seconda parte della ricerca è stata invece dedicata alla gestione di un vasto campione di penitenziari; le tecniche econometriche hanno permesso l'individuazione, per ogni istituto, di standard teorici di efficienza in base al quale sono stati valutati i risultati di gestione. La verifica è in sostanza avvenuta sulla base di quattro parametri: l'inefficienza di costo (l'eccesso di costi rispetto allo standard teorico di efficienza che tiene conto del livello di affollamento del carcere); l'inefficienza di produzione (l'aumento potenziale del numero dei detenuti che il carcere potrebbe sopportare in considerazione delle risorse a disposizione); la produttività media del personale (il rapporto tra il numero dei detenuti e quello del personale, civile e penitenziario); l'affollamento (il rapporto tra il numero dei detenuti e la capienza del carcere).
Risultato della ricerca è, sul fronte dei costi, l'inefficienza di tutti gli istituti con punte di spreco di risorse notevolissime; una delle


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principali cause delle diseconomie (se non la maggiore) appare agli esperti del Ministero del tesoro, la cattiva distribuzione del personale, civile e penitenziario, troppo concentrato nel Meridione. È augurabile che i prossimi concorsi, su base regionale, possano migliorare la situazione attuale.

(3) Da segnalare lo scarto che si registra nella percentuale degli screening effettuati, con una percentuale doppia al Nord rispetto sia al Centro che al Sud. Il rilevamento presenta, a livello regionale, oscillazioni molto ampie: si va dal massimo di 78,9% di screening effettuati in Liguria al minimo di 10,2% di quelli effettuati in Campania.
(4) Esempio limite di tale assetto normativo è stato il divieto più volte posto in passato a funzionari del D.A.P. di visitare i cantieri edili nonostante la esplicita previsione in tal senso dell'articolo 35 della legge 395/1990 di riforma del Corpo di polizia penitenziaria.
(5) Dai dati della tabella è immediatamente rilevabile la mancanza di organici protocolli d'intesa stipulati con il Ministero della giustizia in quasi tutte le regioni meridionali. La situazione al Sud è invece più in movimento a livello di provincie e comuni; dai rilevamenti dell'amministrazione penitenziaria risultano infatti in corso diverse iniziative nel settore della formazione professionale e del reinserimento lavorativo dei detenuti: Regione Puglia (Comuni di Bari e di Corato, Provincia di Taranto; Comuni di Palagianello e di Maruggio); Regione Basilicata (Comune di Potenza); Regione Sicilia (Comuni di Barcellona Pozzo di Gotto (ME);Caltanissetta, Agrigento, Gela (CL), Catania).
(6) Il Comitato è costituito da nove membri: tre designati dal ministero della sanità, tre dal ministero della giustizia e uno per ognuna della tre regioni.

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