Commissione parlamentare d'inchiesta sul ciclo dei rifiuti e sulle attività ad esso connesse - Mercoledì 7 marzo 2001


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ALLEGATO 1

DOCUMENTO SULLO SMALTIMENTO DEGLI SCARTI DI MACELLAZIONE E DELLE FARINE ANIMALI

Prime indagini e riflessioni sull'attuale sistema normativo e sul funzionamento del mercato.
(relatore: Presidente Massimo Scalia)

1. Premessa: il quadro normativo e gli organi di controllo.

Le problematiche connesse al manifestarsi, in alcuni Paesi europei, del fenomeno noto come «mucca pazza» hanno comportato l'adozione di numerosi provvedimenti sia a livello comunitario che nazionale. Questi hanno riguardato tutti gli aspetti di tutela della salute, a partire dall'attività di prevenzione fino alle garanzie per il consumatore ed alle modalità per il trattamento dei rifiuti a rischio, nonché la previsione di una serie di attività di controllo relative all'immissione sul mercato dei rifiuti di origine animale destinati a fini diversi dal consumo umano.
La forte preoccupazione per la diffusività della malattia dei bovini ha investito delicati aspetti di tutela del bene primario della salute collettiva, ma ha avuto altresì ripercussioni non trascurabili sull'andamento economico di un intero settore. Vanno considerate, infatti, le forti ricadute che l'emergenza BSE ha determinato nel mercato italiano ed europeo delle carni e prodotti derivati e, dunque, l'avvertita necessità, da parte della comunità, di ripristinare la fiducia dei consumatori nella qualità delle carni bovine e dei derivati.
Nell'ambito di una tematica così complessa, la Commissione ha ritenuto suo compito approfondire, in questo scorcio di legislatura, gli aspetti dell'emergenza BSE che attengono più specificamente allo smaltimento degli scarti da macellazione e delle farine animali. A tal fine ha avviato una serie di attività conoscitive su un campione di stabilimenti di macellazione, impianti di pretrattamento ed inceneritori, che consentissero di ricostruire l'intera filiera carni e derivati.
Scopo del lavoro è offrire i dati e le valutazioni di una prima analisi che, se pure non completa, per la qualità degli impianti presi in considerazione, il tipo di lavorazioni effettuate ed i prodotti ottenuti è comunque - come vedremo - rappresentativa del panorama nazionale circa le modalità di smaltimento degli scarti da macellazione e delle farine animali, nonché delle problematiche che agitano il settore.

1.1 Il quadro normativo.

La normativa italiana - di ricezione delle direttive comunitarie - è costituita da disposizioni specifiche, relative alla lotta contro


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l'encefalopatia spongiforme bovina (BSE), e da disposizioni di carattere più generale che riguardano il controllo sulla produzione, macellazione e smaltimento degli animali e degli scarti di lavorazione.
Va ricordato che la BSE, in Italia, è stata inclusa tra le malattie infettive e diffusive degli animali con ordinanza ministeriale 10 maggio 1991 (1) ed il successivo decreto legislativo n. 508/1992 (2) ha introdotto le norme sanitarie per l'eliminazione, la trasformazione e l'immissione sul mercato dei rifiuti di origine animale, nonché la protezione dagli agenti patogeni degli alimenti di origine animale.

(1) Ministero della sanità.
(2) Recepimento nazionale della direttiva 90/667/Ce.

È seguita l'emanazione di una ricca normativa più specifica relativa sia ai profili sanitari e di polizia veterinaria, che all'immissione sul mercato di tali rifiuti ed alle modalità di esercizio delle attività di stoccaggio, trasporto e pretrattamento degli animali e delle carni; ciò soprattutto a partire dal 1996, in relazione alla scoperta della probabile trasmissione della BSE attraverso le farine di carne incorporate nei mangimi.
Basta citare di seguito: il decreto legge n. 429 del 1996, convertito nella legge n. 532/1996, che ha disposto una serie di misure per far fronte all'insorgenza della malattia negli animali ed ha istituito il certificato di garanzia della carne bovina; i decreto ministeriale 29 gennaio 1997 e 7 gennaio 2000 (3), che hanno, rispettivamente, introdotto un'unità operativa d'intervento presso il centro di referenza nazionale delle encefalopatie degli animali - operante in stretta collaborazione con il dipartimento alimenti, nutrizione e sanità pubblica veterinaria del Ministero della sanità e con l'Istituto superiore di sanità - ed appositi controlli sanitari, da attuarsi attraverso un sistema nazionale di sorveglianza epidemiologica, che si avvale dei servizi veterinari delle aziende ASL; l'ordinanza ministeriale 15 giugno 1998 (4), che ha eliminato dal consumo umano ed animale il materiale specifico a rischio ottenuto da animali della specie bovina, ovina e caprina proveniente da alcuni Stati membri dell'Unione europea in cui veniva già adottato il sistema di sorveglianza contro la BSE.

(3) Ministero della sanità.
(4) Ministero della sanità.

Sotto il profilo di più stretto interesse per l'indagine della Commissione, relativo all'immissione sul mercato dei rifiuti di origine animale ed al loro sistema di smaltimento, vanno ricordati: il decreto 15 maggio 1993, sulla determinazione dei sistemi di trattamento dei materiali ad alto rischio, e la circolare esplicativa n. 22 del 1993 del Ministero della sanità; il decreto interministeriale 26 marzo 1994 (5) e la circolare applicativa n. 25 del 1994 del Ministero della sanità, sulle procedure per la raccolta ed il trasporto dei rifiuti di origine animale.

(5) Ministero della sanità di concerto con il Ministero dell'ambiente.

Vale rammentare che nel 1997 - a seguito della comparsa nel Regno Unito di una variante della malattia Creutzfeldt-Jacob, per la quale non poteva escludersi una connessione con la comparsa della


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versione animale della BSE - la Commissione europea individuava la categoria del materiale specifico a rischio, vietandone qualsiasi impiego; tale decisione, mai applicata, è stata abrogata dalla successiva decisione 2000/418/Ce, che ha fornito la definizione del materiale specifico a rischio e ne ha disciplinato l'impiego. Tale decisione è stata tempestivamente recepita dallo Stato italiano con il decreto ministeriale 29 settembre 2000 del Ministero della sanità, che definisce le modalità per la rimozione, lo stoccaggio e la distruzione del materiale specifico a rischio, individuato nei tessuti animali, nell'intero corpo degli animali morti o abbattuti della specie bovina di età superiore ai dodici mesi e delle specie ovina e caprina di qualunque età ed in qualsiasi prodotto derivato od ottenuto dai predetti materiali (6).

(6) Vedi art. 1 ed allegato F del decreto 29 settembre 2000.

Ulteriori disposizioni sono state introdotte con l'ordinanza ministeriale 13 novembre 2000 (7), la quale - tenuto conto delle difficoltà di reperire in tempi brevi impianti di incenerimento - prevede un allegato tecnico elaborato dal Ministero dell'ambiente, al fine del recupero energetico in impianti di coincenerimento.

(7) Ministero della sanità.

Quest'ultima ordinanza, però - come il sottosegretario alla sanità ha rappresentato alla Commissione (8) - ha riscontrato una serie di difficoltà applicative proprio per i requisiti tecnici previsti nell'allegato, ritenuti non applicabili, tanto da creare una situazione di emergenza sanitaria per l'impossibilità di smaltimento del materiale specifico a rischio, sia tal quale che trattato. Si è infatti determinato uno stoccaggio eccessivo di materiale specifico a rischio fresco e pretrattato negli impianti di pretrattamento, nei macelli e depositi, fino a rendere necessaria, in alcuni casi, la loro chiusura nonché la chiusura dei mattatoi.

(8) Vedi audizione del 15 febbraio 2001.

A fronteggiare la situazione d'emergenza è intervenuta l'ordinanza ministeriale 3 gennaio 2001 (9) che, in particolare, ha fatto obbligo ai titolari degli impianti d'incenerimento di accettare, ai fini della distruzione: il materiale specifico a rischio sia tal quale che trattato; le farine provenienti dalla trasformazione del materiale ad alto rischio come definito dall'articolo3 del decreto legislativo n. 508/1992, oggetto dell'ordinanza del Ministero della sanità 17 novembre 2000, che, peraltro, ha posto il divieto di somministrazione delle proteine animali agli erbivori.

(9) Ministero della sanità di concerto con il Ministero dell'ambiente.

Ancora: con il decreto legge n. 1/2001 è stato ribadito l'obbligo di incenerimento o coincenerimento, prevedendo indennità ed agevolazioni per i soggetti che lo assicurino, ed è stata altresì definita la procedura relativa all'ammasso pubblico temporaneo delle proteine animali ottenute dal materiale a basso rischio, a cui deve provvedere l'Agenzia per le erogazioni in agricoltura.
Da ultimo, il recentissimo decreto legge del 14 febbraio 2001, n. 8, oltre a misure di sostegno ed agevolazioni per gli operatori del


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settore, ha disposto l'incenerimento o coincenerimento anche delle proteine animali ottenute dal materiale a basso rischio finora destinate all'ammasso pubblico, affidando alla citata Agenzia il compito di predisporre a tale scopo uno specifico programma operativo.
La destabilizzazione provocata nel mercato delle carni dalla comparsa della BSE ha, poi, indotto le autorità comunitarie all'adozione - a partire dal 1997 - di una serie di misure finalizzate a ripristinare la fiducia dei consumatori nella qualità delle carni bovine consumate. In particolare, è stato introdotto un sistema per la etichettatura delle carni e dei prodotti a base di carne con l'indicazione di alcune informazioni relative al macello ed al laboratorio di sezionamento delle carcasse; è stata altresì istituita l'anagrafe zootecnica bovina, dove vanno a confluire tutte le informazioni sugli animali.
Il sistema, inizialmente su base volontaria, è divenuto obbligatorio con il regolamento 1760/2000 Ce ed è entrato in vigore in Italia dall'1 settembre 2000; ulteriori informazioni sugli animali (come il luogo di nascita e di ingrasso, di allevamento e macello, nonché le varie fasi di lavorazione delle carni ottenute) diverranno obbligatorie dall'1 gennaio 2002, così concorrendo a realizzare quell'esigenza di garantire la rintracciabilità dell'origine del prodotto carne e del suo intero ciclo produttivo di cui si è detto, che è posta a garanzia della sua stessa qualità di fronte al consumatore.

1.2 Le sanzioni - In particolare, le sanzioni per le attività di raccolta e trasformazione degli scarti di macellazione e delle farine animali.

Quanto esposto sulla disciplina di prevenzione dettata dall'emergenza BSE e - come vedremo - la previsione di controlli incrociati a garanzia della sicurezza alimentare, dimostra come la Comunità europea e gli Stati membri si siano trovati sottoposti a fortissime pressioni e alla necessità di organizzare la sicurezza alimentare, al fine di ristabilire la fiducia dei consumatori nella qualità delle carni bovine e dei prodotti derivati; al contempo, si continua a valutare e rafforzare l'adozione di misure in funzione dell'evoluzione delle conoscenze scientifiche della malattia.
In tale direzione si muove anche il sistema delle sanzioni previste per le violazioni alla disciplina del settore. Infatti, al quadro sanzionatorio generale applicabile all'emergenza BSE, presente nel decreto legislativo n. 508 del 1992, si sono andate via via aggiungendo o sostituendo sanzioni più rigorose e indirizzate alle varie categorie dei soggetti coinvolti nel ciclo produttivo delle carni bovine, tutte finalizzate a far meglio rispettare la normativa nell'intera filiera e garantire una maggiore trasparenza ai consumatori.
In particolare, per quanto riguarda le attività di raccolta e di trasformazione dei materiali a rischio che qui interessano, accanto alle sanzioni amministrative e di natura strettamente sanitaria, il decreto citato già prevedeva la misura dell'arresto sino a due anni o dell'ammenda sino a cento milioni nei confronti del soggetto che


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inizia l'attività di raccolta e trasformazione dei materiali ad alto rischio senza aver ottenuto il preventivo riconoscimento, ovvero con riconoscimento sospeso, rifiutato o revocato da parte della competente autorità.
L'arresto sino ad un anno o l'ammenda sino a un milione sono previste, invece, a carico di chi inizia l'attività di raccolta e trasformazione dei materiali a basso rischio. Anche chi effettua l'attività di raccolta e trasporto dei materiali a basso ed alto rischio, è punito con la sanzione amministrativa pecuniaria da cinque milioni a trenta milioni, mentre sanzioni più basse sono dettate per i responsabili degli impianti che non effettuano controlli ed ispezioni nelle loro strutture.
Con il decreto del Ministero della sanità 29 settembre 2000, è stata altresì prevista per i contravventori la possibilità della chiusura temporanea degli impianti per un periodo massimo di sei mesi. Da ultimo, in armonia con il dettato comunitario, è intervenuto il decreto legge 14 febbraio 2001, n. 8, il quale - nell'ambito di una serie di interventi urgenti finalizzati a fronteggiare l'emergenza BSE - ha dettato misure più rigorose nel settore zootecnico, volte a colpire atteggiamenti fraudolenti e «furbeschi» lesivi o comunque pericolosi per la salute collettiva.
Esse vanno: dalle sanzioni amministrative pecuniarie previste per le attività di vendita o messa in commercio o, comunque, finalizzate alla distribuzione per il consumo delle carni e dei prodotti di carne bovina non rispondenti alle prescrizioni stabilite; alla revoca di eventuali contributi ed agevolazioni; alla sospensione dell'attività per un periodo da tre mesi a un anno (in caso di comportamenti reiterati); fino alla chiusura definitiva dello stabilimento o dell'esercizio, con impossibilità per il titolare di ottenere una nuova autorizzazione nei cinque anni successivi, previste per i fatti di particolare gravità da cui sia derivato un pericolo per la salute pubblica.
Il decreto in questione fa salve, naturalmente, le ipotesi in cui ricorra una fattispecie penale, come, per citare quelle più ricorrenti, il commercio di sostanze alimentari contraffatte o adulterate o nocive (artt. 442 - 444 cp), la diffusione di una malattia delle piante o degli animali (articolo 500 cp), l'inosservanza dei provvedimenti dell'autorità (articolo 650 cp) ed altre ipotesi illecite di attività truffaldine.
Inoltre, secondo quanto riferito dal sottosegretario alla sanità dinanzi alla Commissione (10), in sede comunitaria è forte il dibattito sulla necessità di ripristinare le sanzioni penali in tutto il settore dei mangimi (11), dei farmaci utilizzati in zootecnia (12) e dei residui (13): settori che direttamente e maggiormente incidono sulle aspettative di tutela della salute pubblica.

(10) Vedi audizione del 15 febbraio 2001.
(11) Vedi decreto legislativo n. 90/93.
(12) Vedi decreto legislativo n. 119/92.
(13) Vedi decreto legislativo n. 336/99.


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1.3 Il sistema dei controlli e gli organi di controllo.

La normativa vigente contempla controlli sulla filiera carni affidati ad organi istituzionali diversi, a seconda che l'azione di controllo abbia finalità di tutela preventiva e repressiva della salute collettiva o del bene ambiente, ovvero di controllo e regolazione del sistema di mercato in funzione di quelle esigenze. Ciò, purtroppo - come vedremo - ingenera spesso una confusione e sovrapposizione di ruoli e responsabilità dei soggetti, che intaccano la stessa efficienza ed efficacia dell'attività di controllo e finiscono, piuttosto, con l'agevolare la commissione delle violazioni.
Vi sono anzitutto i controlli sanitari e la sorveglianza epidemiologica della BSE, a cui sono preposti da una parte i servizi veterinari, dipendenti dal Ministero della sanità, compresi quelli di confine, porto, aeroporto e quelli per gli adempimenti degli obblighi comunitari; dall'altra, gli istituti zooprofilattici sperimentali, che operano nell'ambito del Servizio sanitario nazionale.
In particolare, i servizi veterinari - i quali si avvalgono delle prestazioni e della collaborazione degli istituti zooprofilattici sperimentali - operano presso le aziende sanitarie locali o in ambiti più ampi, individuati dalla regione secondo la distribuzione e le attitudini produttive del settore delle carni e dei prodotti di origine animale in una determinata area.
È altresì compito delle regioni stabilire le modalità di raccordo funzionale tra i vari organi deputati al controllo e provvedere alla loro eventuale integrazione.
La disciplina dei controlli sanitari prevede che negli impianti di macellazione il veterinario ufficiale sia presente a tutte le operazioni di macellazione, mentre negli impianti di sezionamento il predetto garantisce il controllo sulla lavorazione delle carni e le condizioni di igiene generale dello stabilimento. Il riconoscimento di tali impianti è di competenza del Ministero della sanità, che ne accerta l'idoneità alle operazioni (14).

(14) In particolare, si ricordano le seguenti fonti normative: decreto legislativo n. 508/92, legge n. 532/96, decreto legislativo n. 270/93, decreto ministeriale 29 settembre 2000 e decreto ministeriale 7 gennaio 2001.

Norme specifiche regolano, poi, i controlli sugli scambi di animali e dei prodotti di origine animale, contemplando nel primo caso il controllo all'origine e nel luogo di destinazione; nel secondo, invece, i controlli sono effettuati al momento della produzione e presso il luogo di destinazione.
A tal fine animali e prodotti di origine animale devono essere accompagnati dai certificati sanitari e - ove siano destinati all'esportazione - dai documenti previsti nello Stato di destinazione (15). Appositi controlli sanitari sul rischio BSE sono stati di recente introdotti con il decreto del Ministero della sanità del 7 gennaio 2001 di cui si è già detto, attraverso l'istituzione del sistema nazionale di sorveglianza epidemiologica.

(15) Vedi in particolare decreto legislativo n. 28/93 e decreto legislativo n. 196/99.


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Venendo al profilo più specifico dei controlli sugli scarti e sulle proteine animali ottenute dal processo di lavorazione (materiale specifico a rischio e materiale ad alto rischio), la legislazione d'emergenza ha previsto che i controlli sanitari presso i depositi temporanei ed i centri di trasformazione e/o distruzione vengano effettuati a cura, sempre, del servizio veterinario dell'azienda sanitaria locale; mentre il Ministero della sanità e l'Istituto superiore per la prevenzione e la sicurezza del lavoro mantengono compiti ispettivi. Anche alle regioni è attribuito un potere di sorveglianza e di controllo sulle predette attività (16).

(16) Vedi decreto ministeriale 29 settembre 2000.

Accanto ai controlli sanitari descritti, vi sono quelli posti a garanzia della correttezza delle lavorazioni e dei prodotti ottenuti, affidati all'Agenzia per le erogazioni in agricoltura, che può avvalersi del Corpo forestale dello Stato e del reparto speciale dell'Arma dei carabinieri per l'effettuazione di controlli sulle operazioni di stoccaggio ed incenerimento del materiale specifico a rischio e ad alto rischio (17).

(17) Vedi decreto legge n. 1 dell'11 gennaio 2001, sopra citato.

A tal fine, è stato altresì istituito l'ufficio del commissario straordinario per il coordinamento dell'emergenza BSE, il quale può promuovere l'attivazione del potere di ordinanza presso i competenti organi dello Stato (le prefetture) anche in deroga alla normativa vigente, al fine di fronteggiare situazioni di eccezionale emergenza.
A questi controlli si aggiungono poi le varie forme di vigilanza e di controllo curate dal Corpo forestale dello Stato, dal reparto speciale dell'Arma dei carabinieri e dalle altre forze di polizia.
Ulteriori controlli sono diretti alla prevenzione e repressione delle violazioni nella preparazione e commercializzazione dei prodotti agro-alimentari e delle sostanze di uso agrario e forestale. Questi ultimi sono affidati all'Ispettorato centrale per la repressione delle frodi, dipendente dal Ministero delle politiche agricole e forestali.
Al fine proprio di garantire una maggiore efficienza delle strutture locali dell'Ispettorato, il legislatore dell'emergenza ha autorizzato il ministro delle politiche agricole e forestali alla razionalizzazione funzionale di tali unità locali, sì da garantirne una presenza capillare ed adeguata sul territorio nazionale (18).

(18) Vedi legge n. 462/86, legge n. 898/86 e decreto legislativo n. 507/99.

Ebbene, accanto al descritto sistema di controlli incrociati, dovrebbero rimanere comunque di competenza delle strutture Arpa e delle asl locali le attività di controllo finalizzate, rispettivamente, alla prevenzione e repressione degli illeciti ambientali, nonché alla tutela della salute e delle condizioni di lavoro negli stabilimenti.
È evidente come tale situazione di complicato intreccio e, talvolta, sovrapposizione di organi tutori crei - analogamente a quanto avviene in altri settori dell'attività amministrativa - confusioni e difficoltà nell'individuazione dei soggetti tenuti ad operare e delle loro responsabilità, in tal modo rischiando di compromettere le stesse finalità del sistema dei controlli in termini di efficienza ed efficacia dei medesimi.


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Ad evitare ciò, la Commissione ritiene importante un riordino dell'intera materia e, soprattutto, la realizzazione di uno scambio continuo di informazioni e di un'azione mirata di coordinamento delle attività tra i vari soggetti istituzionalmente preposti ai controlli in questo settore.

2. I lavori svolti dalla Commissione.

2.1 Premessa.

In questo complesso quadro - come anticipato - la Commissione ha ritenuto opportuno un approfondimento, anche alla luce delle più recenti disposizioni normative dell'emergenza BSE. A tal fine, ha avviato una serie di attività conoscitive, individuando alcuni stabilimenti di macellazione, gli impianti di pretrattamento autorizzati e taluni inceneritori che sono stati visitati da consulenti della Commissione nel periodo compreso tra il 24 gennaio ed il 9 febbraio 2001, con lo scopo di ricostruire l'intera filiera delle carni e dei prodotti derivati dalla carne, avendo particolare attenzione - in ragione dei suoi compiti istituzionali - alle attività di smaltimento degli scarti di lavorazione (materiale specifico a rischio).

2.2 Le audizioni.

La Commissione ha proceduto all'audizione del ministro per le politiche agricole e forestali, del sottosegretario di Stato alla sanità e del commissario straordinario per l'emergenza BSE, che hanno illustrato lo stato della normativa attuale e le principali difficoltà che incontra il mercato dei rifiuti di origine animale.
In particolare, i predetti hanno riferito degli interventi urgenti adottati di recente o da adottare secondo le indicazioni comunitarie, tutti finalizzati a minimizzare il rischio BSE ed a riconquistare la fiducia dei consumatori nella qualità della carne bovina e dei prodotti derivati; hanno altresì rappresentato alla Commissione le prospettive tecnologiche che possono assicurare lo smaltimento dei quantitativi di materiale specifico a rischio e ad alto rischio, prodotti in ambito nazionale (19).

(19) Vedi audizione del 15 febbraio 2001.

Sono stati anche sentiti i rappresentanti delle associazioni di categoria interessate, Assograssi e Assalzoo (20), ed il responsabile dell'Istituto superiore di sanità (21), al fine di conoscere gli interessi e le problematiche degli operatori del settore nell'attuale situazione di emergenza. I predetti hanno riferito alla Commissione in merito alle tecnologie disponibili per le attività di trasformazione e/o

(20) Vedi audizione di Gennaro Papa, presidente dell'Assograssi, e di Giordano Veronesi, presidente del gruppo mangimi semplici dell'Asselzoo, del 19 febbraio 2001.
(21) Vedi audizione di Giuseppe Viviano, dirigente di ricerca presso l'Istituto superiore di sanità, del 23 febbraio 2001.


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distruzione degli scarti da macellazione e delle farine animali, nonché in ordine alle effettive capacità aziendali di adeguamento alla normativa e di reazione alla crisi provocata dall'allarme BSE nel mercato.
Il 23 febbraio 2001, la Commissione ha ascoltato il presidente dell'Agea, il direttore dell'Anpa (22), che hanno fornito alcuni dati relativi agli impianti d'incenerimento e coincenerimento esistenti sul territorio e dotati della tecnologia necessaria per la distruzione del materiale specifico a rischio e ad alto rischio, in condizioni di sicurezza per l'ambiente e la salute pubblica.

(22) Vedi audizione di Pierluigi Bertinelli, presidente dell'Agenzia per le erogazioni in agricoltura, e di Giovanni Damiani, direttore dell'Agenzia nazionale per la protezione dell'ambiente, del 23 febbraio 2001.

I predetti hanno, poi, riferito delle possibili alternative al sistema dell'incenerimento di tali materiali e sulla necessità di assicurare controlli mirati e costanti sulle strutture impiantistiche e sulla correttezza delle operazioni, in maniera analoga a quanto avviene in altre esperienze europee.

2.3 Le visite presso gli impianti.

Nel dettaglio, gli stabilimenti di macellazione oggetto di attenzione sono stati i seguenti: «Centro Carni» di Roma; «F.lli Schellino spa» di Formigliana (VC); «Consorzio Grossisti Industria e Commercio Carni scrl» di Torino; «ICAM snc» di Grosseto; «In. Al.Ca. spa» di Castelvetro di Modena (MO); «Roda spa» di Pontevico (BS).
Gli impianti di pretrattamento presi in considerazione sono stati tutti quelli che ad oggi, secondo i dati in possesso della Commissione, risultano autorizzati dal competente Ministero della sanità a ricevere per il trattamento il materiale specifico a rischio e quello ad alto rischio come individuati dalla normativa vigente, e precisamente l'impianto «PETERGRASS» snc di Caivano (NA), «IMAR» srl di Como, «ECO RENDERING» srl di Fenegrò (CO), «ML LORENZIN» srl di Galliera Veneta (PD), «FARM SERVICE» srl di Reggio Emilia, «SALGAIM ECOLOGIC» spa di Morsano al Tagliamento (PN) ed «AGROLIP SARDA» srl di Cagliari.
L'impianto di incenerimento visitato dai consulenti della Commissione è quello di Brescia, trattandosi dell'impianto dotato della tecnologia adeguata ad uno smaltimento corretto delle farine animali (circa 150 tonnellate al giorno), il quale - unitamente ad altro impianto similare esistente in Sardegna - risulta attualmente destinatario del materiale specifico a rischio trattato sul territorio nazionale.

2.3.1 Gli impianti di macellazione.

Il «CENTRO CARNI» di Roma.
Il 24 gennaio 2001 alcuni consulenti della Commissione si sono recati presso lo stabilimento di macellazione del comune di Roma


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dove viene lavorato, per conto terzi, un ridotto quantitativo di capi bovini. Il «Centro Carni» assicura lo smaltimento degli scarti di macellazione, mediante incenerimento presso l'impianto di Ponte Malnome di proprietà dell'«AMA» spa
Le fasi di lavorazione sono le seguenti: le teste, le ghiandole ipofisarie, l'ileo, il pacco intestinale e il midollo spinale (materiale specifico a rischio) vengono colorati con inchiostro di colore blu ed inseriti in appositi contenitori di materiale plastico a chiusura ermetica (acquistati in loco dagli stessi allevatori) contraddistinti da una banda rossa trasversale, della capienza di circa 20-25 litri, su cui il veterinario annota il nome dell'allevamento di provenienza; il materiale di scarto, già sigillato all'interno dei contenitori, viene stoccato nell'apposita cella frigorifera, in attesa dell'invio allo smaltimento finale; i contenitori vengono successivamente caricati sui mezzi autorizzati, alla presenza del veterinario del servizio interno al macello, il quale attesta la corrispondenza tra il documento di trasporto e gli scarti di macellazione effettivamente caricati dal vettore; l'automezzo si reca direttamente all'inceneritore, preventivamente avvertito, dove il carico viene nuovamente controllato da altro veterinario incaricato della verifica; i contenitori vengono scaricati direttamente sul nastro convogliatore e avviati all'incenerimento; il prezzo, comprensivo di contenitori, trasporto e incenerimento finale, è di circa 2100 lire/kg iva inclusa.

L'«INALCA» spa di Castelvetro di Modena (MO).
Questo impianto, prima dell'allarme «mucca pazza», macellava per cinque giorni lavorativi settimanali circa 2200 capi di bestiame al giorno, di cui un terzo era rappresentato da razze bovine francesi. Attualmente la macellazione si è ridotta a soli 730 capi bovini al giorno, quindi con una riduzione dell'attività di circa il 65 per cento; il peso degli scarti di lavorazione (materiale specifico a rischio) ammonta a circa 40 kg per capo bovino, contro i precedenti 5/6 kg per animale. Nel corso della visita i consulenti hanno rilevato che, a differenza del centro carni di Roma, presso questa azienda gli scarti di macellazione sono raccolti in cassoni custoditi presso una cella frigorifera adibita allo stoccaggio; giornalmente, i cassoni colmi degli scarti vengono raccolti da una società di trasporto conto terzi, la «Raccoglitori Mantovani» srl, incaricata di portare il carico presso il centro di pretrattamento; il materiale, così raccolto, viene certificato dal veterinario di turno che ne attesta il peso, l'origine e la pericolosità sanitaria.

Lo stabilimento «RODA» spa di Pontevico (BS).
L'attività alimentare della Roda spa ha un volume di affari che si aggira intorno ai 35 miliardi (è bene precisare che l'azienda si occupa di trasformazione e trasporto di energia elettrica, oltre che del commercio all'ingrosso di carni). Dal primo gennaio 2001 l'attività di macellazione delle carni bovine si è ridotta del 90 per cento circa.


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La procedura di gestione del materiale specifico a rischio che si è riscontrata, è la seguente:
teste, tonsille, midollo spinale vengono stoccate in una cella frigorifera; le teste sono riposte in ceste di plastica, il resto in buste trasparenti di nylon. Tutti i prodotti descritti vengono colorati con inchiostro indelebile;
gli intestini sono riposti in ceste di plastica nel piazzale antistante la «tripperia» e colorati con inchiostro indelebile.
Di tali rifiuti di origine animale, le teste vengono ritirate dalla ditta «Paris Giovanni Noris» di Ciserano (BG), mentre le tonsille, il midollo spinale e gli intestini vengono ritirati a 800 \P/kg dalla «Rodella Paolo» srl di Travagliato (BS), che li trasporta presso il proprio centro di stoccaggio autorizzato; una volta raggiunto un considerevole quantitativo, la «Rodella Paolo» srl provvede a consegnare gli scarti, dietro pagamento di 550-600 \P/kg, alla ditta «F.lli Alberio» spa di Cirimido (CO) che, a sua volta, li trasporta al centro di pretrattamento.

L'impianto «F.LLI SCHELLINO» spa di Formigliana (VC).
La lavorazione annuale media di questo impianto è pari complessivamente a 60.000 capi circa, rappresentati esclusivamente da bovini. I dati raccolti dai consulenti relativamente all'ultima settimana di lavorazione, hanno evidenziato un netto calo dell'attività di macellazione a seguito dell'insorgenza BSE; infatti, le vendite della carne bovina si sono ridotte drasticamente, scendendo da una media di oltre 1000 capi macellati a quella di circa 160.
I rifiuti di origine animale prodotti - ad alto e basso rischio, nonché quelli a rischio specifico - vengono prelevati e smaltiti da terzi nei relativi impianti di trasformazione, trattamento ed eliminazione; in particolare, i materiali ad alto rischio ed a rischio specifico sono conferiti alla ditta «Eco Rendering» di Fenegrò (CO) presso il proprio impianto di pretrattamento. Gli accordi contrattuali con la «Eco Rendering» per lo smaltimento dei predetti rifiuti prevedono un costo del servizio pari a 600 \P/kg, comprensivo del trasporto e pretrattamento.

Il «CONSORZIO GROSSISTI INDUSTRIA E COMMERCIO CARNI scrl» di Torino.
Il consorzio (ex macello civico comunale) effettua una lavorazione annuale media pari complessivamente a 35.000 capi, rappresentati all'incirca dal 65 per cento di bovini, 20 per cento ovini/caprini ed il restante di altre specie animali; anche presso questo stabilimento, si è dovuto registrare un netto calo dell'attività a seguito dell'allarme BSE, tanto che le vendite di carne bovina sono scese da una media di 700 capi macellati a quella di circa 200 capi.
Il materiale ad alto e basso rischio ed a rischio specifico prodotto dal Consorzio viene - anche in questo caso - prelevato e smaltito da terzi nei relativi impianti di trasformazione, trattamento ed eliminazione. In particolare, il materiale ad alto rischio ed a rischio specifico viene conferito, tramite la ditta di trasporto «Nicola Ferruccio» di Casellette (TO), alla società «Eco Rendering» di Fenegrò (CO).


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Gli accordi contrattuali con la «Eco Rendering» per lo smaltimento dei predetti rifiuti prevedono un costo del servizio pari a 750 \P/kg comprensivo del trasporto e pretrattamento, quindi un costo leggermente maggiore di quello praticato dalla società all'impianto «F.lli Schellino» spa della provincia di Vercelli (vedi sopra).

Il mattatoio «ICAM snc» di Grosseto.
La lavorazione media annuale del mattatoio è pari complessivamente a 60.000 capi circa, di cui 12.500 bovini, 36.000 ovini ed i restanti di altre specie animali; come per il resto del paese, le ultime lavorazioni hanno risentito di un'evidente flessione dovuta al calo dell'attività di macellazione. Vengono prodotti rifiuti di origine animale ad alto e basso rischio, nonché a rischio specifico; in particolare, i materiali ad alto rischio ed a rischio specifico vengono eliminati mediante l'impianto di incenerimento attivo all'interno dello stesso stabilimento di macellazione.

2.3.2 I centri di pretrattamento.

La «FARM SERVICE» srl di Reggio Emilia.
Il 30 gennaio 2001 i consulenti hanno visitato l'impianto di pretrattamento del materiale specifico a rischio «Farm Service» di Reggio Emilia, autorizzato dal Ministero della sanità in data 3 ottobre 2000; qui il materiale arriva e viene immediatamente scaricato nella tramoggia di lavorazione o sul piazzale, dove non si è riscontrato alcun controllo da parte del veterinario che, invece, dovrebbe essere presente alla fine del ciclo di lavorazione per certificare le farine in partenza.
In verità, le condizioni igienico-sanitarie dell'impianto verificate dai consulenti lasciano a desiderare sia per l'ammasso indiscriminato di carcasse e scarti di macellazione, sia per l'impianto di aerazione apparentemente non efficiente.
Lo stabilimento è rimasto chiuso per quindici giorni, nel mese di dicembre, a causa dell'impossibilità a smaltire le farine prodotte e il grasso stoccato.
I prezzi praticati sono di 500 \P/kg escluso il trasporto, che si aggira intorno alle 50/100 \P/kg. Gli scarti di macellazione e le carcasse bovine provengono da varie regioni del nord Italia ed in piccole quantità dal centro sud. Le farine prodotte vengono inviate all'impianto d'incenerimento di Brescia.

L'impianto «PETERGRASS» snc di Caivano (NA).
Si tratta dello stabilimento autorizzato al trattamento del materiale specifico a rischio e ad alto rischio ubicato più a sud del paese, ed è l'ultimo che risulta (al 9 febbraio 2001) aver ricevuto tale l'autorizzazione da parte del dicastero della sanità. I produttori e/o detentori che intrattengono rapporti commerciali con la «Petergrass»


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snc sono - data l'ubicazione dell'impianto - per lo più appartenenti alle regioni dell'Italia meridionale, qualcuno del basso Lazio e dell'Abruzzo.
I prezzi praticati dall'impianto per la presa in carico del materiale specifico a rischio e di quello ad alto rischio sono di 700-800 \P/kg, giustificati dal costo di raccolta e trasporto elevati in rapporto alle quantità di materiale prodotte. Ogni carico è sottoposto al controllo del veterinario in partenza (ossia presso il detentore e/o produttore) e in arrivo (presso l'impianto «Petergrass»).
In verità, il titolare dell'azienda ha espresso alcune perplessità in merito al futuro dell'attività aziendale, lamentando, in particolare, di non aver trovato nella zona termovalorizzatori disponibili al ritiro delle farine animali ad un prezzo accettabile.

Lo stabilimento «ML LORENZIN» srl di Galliera Veneta (PD)
Questa impresa a conduzione familiare si è di recente (2001) riconvertita da impianto ad alto rischio solo per i volatili, ad impianto per il trattamento del materiale specifico a rischio; applica per le operazioni di trasformazione il prezzo di 500 \P/kg, maggiorato di 100 \P/kg se il trasporto degli scarti viene effettuato con i propri automezzi.
Per quanto hanno potuto verificare i consulenti nel corso del sopralluogo presso l'impianto, il veterinario è presente alle operazioni saltuariamente durante la giornata; certifica e «piomba» esclusivamente i camion in uscita contenenti le farine animali, da inviare all'incenerimento presso l'impianto di Brescia.
Questo centro di pretrattamento è l'unico che sia riuscito a smaltire il grasso prodotto, ad un costo di 180 \P/kg, presso una società tedesca che lo utilizza come combustibile.

La «SALGAIM ECOLOGIC» spa di Morsano al Tagliamento (PN).
L'impianto è autorizzato al trattamento del materiale specifico a rischio dall'ottobre 1998: si presenta, però, carente sotto l'aspetto igienico-sanitario, con carcasse animali e scarti di macellazione che i consulenti hanno trovato ammassati in uno spiazzo di cemento, privo di buche di contenimento e con emissioni di odori nauseabondi generati dal deperimento del predetto materiale organico.
La società è autorizzata pure al trasporto del materiale specifico a rischio e raccoglie gli scarti di macellazione prodotti da alcuni allevamenti della regione. Il prezzo praticato per le attività di pretrattamento è di lire 700/800 \P/kg, comprensivo del trasporto. Anche in questo caso le farine animali prodotte sono destinate all'incenerimento presso l'impianto di Brescia.

Lo stabilimento «IMAR» srl di Molteno (LC).
Questo stabilimento ha iniziato le lavorazioni di pretrattamento all'inizio del mese di ottobre 2000; precedentemente, era un'azienda a conduzione familiare (padre e figlia) che effettuava lavorazioni sul materiale a basso rischio. Nel settembre del 2000 la «F.lli Alberio» spa ha proposto la formazione dell'attuale società «Imar», chiedendo


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l'autorizzazione al trattamento del materiale specifico a rischio; ha versato il 60 per cento del capitale, ma con scrittura privata ha lasciato ai vecchi proprietari il pieno potere decisionale nella gestione dell'attività aziendale, che ha ad oggetto quasi esclusivamente le operazioni di trasformazione del materiale specifico a rischio per conto della stessa «F.lli Alberio». Quest'ultima, periodicamente, scarica dai propri mezzi il materiale destinato al pretrattamento e provvede successivamente al ritiro delle farine proteiche, per portarle al termoutilizzatore di Brescia. Il prezzo di lavorazione è definito in 500 \P/kg.

L'impianto «AGROLIP SARDA» srl di Cagliari.
Lo stabilimento raccoglie gli scarti di macellazione provenienti da tutta la Sardegna e si trova a breve distanza dal secondo inceneritore (il primo - abbiamo visto - è quello di Brescia) che attualmente provvede allo smaltimento delle farine proteiche prodotte sul territorio nazionale, gestito dalla società «Tecnocasic».
L'autorizzazione alle attività di pretrattamento del materiale specifico a rischio rilasciata alla «Agrolip sarda» risale al mese di ottobre 2000; per tale attività, la società richiede 350 \P/kg comprensivo di tutte le fasi di movimentazione degli scarti, dal loro ritiro presso l'impianto di macellazione fino all'incenerimento.
L'emergenza BSE non ha colto impreparata l'azienda che, per far fronte alla precedente epidemia ovina denominata «lingua blu», già nell'ottobre 2000 aveva iniziato ad inviare all'incenerimento le farine animali ottenute dai capi ovini. L'amministratore dell'impresa ha rappresentato ai consulenti la consuetudine - purtroppo ancora molto radicata nella regione - di sotterrare gli animali morti, anziché consegnarli agli impianti per il pretrattamento, arrecando così un danno ingente anche all'impresa.

L'«ECO RENDERING» srl di Fenegrò (CO).
Lo stabilimento risulta in esercizio da oltre 60 anni ed in passato è stato gestito dalla ditta individuale «Farioli», successivamente società «Farioli» srl; effettua attività di trattamento del materiale ad alto e basso rischio, mentre dal giugno 1997 lavora il materiale specifico a rischio.
Le farine proteiche prodotte dal ciclo di pretrattamento vengono stoccate in appositi silos o big bags, per essere poi trasferite presso l'impianto di incenerimento «ASM» di Brescia, mentre i grassi sono stoccati in appositi silos. I prezzi, trasporto escluso, sono nell'ordine delle 600 \P/kg.

2.3.3 L'impianto di incenerimento ASM spa di Brescia.

Questo inceneritore è attualmente - con una capacità autorizzata di 220.000 ton/anno - il più grande termoutilizzatore d'Italia (per un certo periodo, lo scorso dicembre è stato fermato perché erano state incenerite circa 400 mila tonnellate di rifiuti).


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A partire dal mese di gennaio 2001 l'impianto si è dichiarato disponibile ad accettare le farine animali provenienti dagli impianti di pretrattamento, con il limite di 1.500 ton/settimana, poiché tali farine, per essere bruciate, vanno «mescolate» con gli altri rifiuti conferiti all'impianto, al fine di evitare che filtrino attraverso la griglia della fornace.
Ogni carico di farina animale che entra all'interno del comprensorio della «ASM» viene controllato e vistato dal veterinario ufficiale.
Per quanto riguarda il profilo commerciale, invece, alla data della visita da parte dei consulenti della Commissione (30 gennaio 2001) non è risultato alcun contratto, ma solo un accordo teso a fissare il prezzo finale dell'attività intorno alle 120-150 \P/kg.

2.4 Le procedure di smaltimento del materiale specifico a rischio: incenerimento con pretrattamento ed incenerimento diretto.

Dalle visite effettuate presso gli impianti, è emerso che per lo smaltimento del materiale specifico a rischio vengono seguite due procedure, completamente differenti nella metodologia adottata e sotto il profilo dei rispettivi costi di smaltimento.
La prima procedura, peraltro utilizzata dalla quasi totalità degli operatori, è quella dell'incenerimento del materiale specifico a rischio previo pretrattamento del medesimo.
In linea generale, in questo caso il produttore/macellatore invia periodicamente il materiale specifico a rischio ad uno stoccaggio provvisorio (23).

(23) Fa eccezione la testa che, invece, viene inviata ad una ditta autorizzata ad estrarne le parti che possono essere commercializzate, destinando la parte restante al pretrattamento; per quest'ultima operazione il macellatore non paga alcuna somma alla ditta che effettua il ritiro.

Il pre-trattatore sottopone il materiale specifico a rischio ad operazioni di disidratazione e sminuzzatura che lo riducono a farine ovvero a grassi liquidi.
Le farine così ottenute vengono inviate all'inceneritore, mentre per i grassi liquidi - in attesa di indicazioni da parte del governo - attualmente si procede allo stoccaggio presso le ditte di pretrattamento.
Le fasi del ciclo possono prevedere un altro passaggio intermedio degli scarti presso un centro di stoccaggio temporaneo: in questo caso, è lo stoccatore ad inviare il materiale alle società di pretrattamento. Le attività di stoccaggio costano al produttore/macellatore \P80 + iva; il titolare del centro di stoccaggio paga il servizio \P/kg 550 + iva.
Va ricordato che norme specifiche regolano tutte le fasi di trasporto del materiale specifico a rischio, fino alla sua destinazione allo stabilimento d'incenerimento, prevedendo che esso sia: contraddistinto con colore indelebile e stoccato in celle frigorifere dedicate, in attesa del conferimento presso l'impianto di pretrattamento; conferito tramite i contenitori o gli automezzi dotati dei requisiti di cui al decreto Interministeriale 26/3/1994, relativo alla raccolta e al


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trasporto di rifiuti di origine animale. Tale decreto prevede l'identificazione mediante una targa da apporre sui due lati del mezzo di trasporto, recante la dicitura «Materiale specifico a rischio» di dimensioni non inferiori a cm 50x35; nonché l'apposizione sul contenitore o sull'automezzo di una striscia inamovibile di colore rosso alta almeno 15 cm). Il carico deve essere accompagnato dal documento di trasporto, controfirmato dal veterinario ufficiale; inoltre, entro sette giorni lavorativi successivi alla ricezione del materiale specifico a rischio, va inviata copia del documento di trasporto allo stabilimento di provenienza con la dichiarazione di ricezione debitamente sottoscritta.
Per ciò che concerne le forme d'incenerimento diretto del materiale specifico a rischio, va osservato che si tratta di procedura costosa per l'impresa di macellazione.
Ad esempio - come i consulenti della Commissione hanno potuto verificare - presso il macello di Roma, il produttore porta i capi al mattatoio dove il materiale specifico a rischio viene raccolto in appositi contenitori di plastica, forniti dal produttore, e lo ripone all'interno di celle frigorifere per inviarlo periodicamente all'azienda municipalizzata di Roma (AMA).
I costi sostenuti dal mattatoio ed imputati ai singoli produttori per lo smaltimento è davvero molto alto, poiché ammonta a: \P /kg 1.115 + iva per l'incenerimento, cui va aggiunta una quota fissa di \P 200.000 per ogni conferimento, a prescindere dal peso; \P 9.000 + iva per ogni contenitore che contiene in media 15/20 kg di MSR; costi di trasporto dal macello all'inceneritore, da quantificare.
In totale, l'incenerimento diretto del materiale specifico a rischio costa ai produttori non meno di \P/kg 2.200.

3. Le principali problematiche riguardanti le attività di trasformazione e distruzione dei rifiuti di origine animale.

3.1 Premessa.

L'inchiesta condotta dalla Commissione ha consentito di individuare una serie di tematiche che, senza alcuna pretesa di esaurire le problematiche che agitano l'intera filiera, sono certamente rappresentative delle difficoltà principali opposte ai momenti fondamentali di snodo delle attività di trasformazione e/o distruzione degli scarti e delle farine proteiche (materiale specifico a rischio e materiale ad alto rischio).
Sono queste, infatti, le attività oggetto dei lavori della Commissione e rispetto ad esse le aziende osservate riflettono il panorama nazionale nel settore, poiché - per quanto si è evidenziato sopra - sono stati presi in considerazione tutti gli stabilimenti autorizzati alle operazioni di pretrattamento ed i mattatoi che lavorano i maggiori quantitativi di carne bovina prodotta nell'intero territorio, secondo i dati forniti dal Ministero della sanità. È stato poi visitato l'impianto d'incenerimento di Brescia che, insieme a quello di Cagliari, risulta


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abilitato ad oggi alla distruzione delle farine animali ottenute dal materiale specifico a rischio e ad alto rischio prodotto in ambito nazionale.

3.2 Le tecnologie utilizzabili per lo smaltimento delle farine e dei grassi animali.

Le verifiche effettuate dalla Commissione mostrano come l'incenerimento del materiale specifico a rischio segue alle attività di trasformazione del medesimo, ad opera delle aziende di pretrattamento.
Del resto, la generale inadeguatezza degli impianti esistenti sul territorio nazionale e ragioni di ordine economico sconsigliano la distruzione della carcassa animale tal quale. Sotto quest'ultimo profilo, infatti, va considerato che il contenuto d'acqua della carcassa si aggira intorno al 50 per cento e, quindi, buona parte del combustibile necessario per bruciarla verrebbe consumato per far evaporare l'acqua stessa. Inoltre, le filiere di produzione delle farine e dei grassi animali verranno comunque mantenute attive per evitare ulteriori problemi al settore dei mangimifici e, quindi, lo smaltimento di tali rifiuti di origine animale, non utilizzabili per scopi alimentari, deve essere effettuato per termodistruzione.
Va osservato che la termodistruzione delle farine può avvenire in forni a griglia, a tamburo rotante ed anche in letto fluido ricircolante, in considerazione del tenore dei residui di umidità che si aggira intorno al 10 per cento. Analogamente, i grassi con tenore di umidità del 2 per cento e potere calorifico intorno alle 9000 Kcal/Kg, possono essere termodistrutti nei forni sopra menzionati. La loro viscosità somiglia a quella di un gasolio pesante.
L'Agenzia nazionale di protezione dell'ambiente (ANPA) ha effettuato un censimento degli impianti d'incenerimento di rifiuti solidi urbani, sanitari e speciali, nonché degli impianti di coincenerimento presenti sul territorio, dove poter avviare il materiale specifico a rischio (24). Ebbene, secondo i dati del censimento, in Italia vi sono circa 99 impianti di incenerimento il 20 per cento dei quali, tuttavia, non è ancora disponibile, spesso a causa di problemi tecnici di adeguamento delle emissioni alla normativa vigente. Inoltre, secondo il dato fornito dal commissario per l'emergenza BSE, dei predetti 99 impianti d'incenerimento disponibili, 42 sono gli inceneritori per rifiuti urbani.

(24) Vedi audizione del direttore dell'Agenzia nazionale per la protezione dell'ambiente del 23 febbraio 2001.

Per la termodistruzione delle farine animali possono essere utilizzati anche i cementifici, la cui omogenea dislocazione geografica sul territorio (circa 61) risolverebbe anche diversi problemi di tipo organizzativo e di trasporto del materiale specifico a rischio, oltre che di remunerazione del servizio. Si pensi solo che nelle regioni meridionali non vi sono stabilimenti d'incenerimento, mentre sono presenti 15 cementifici.


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Certo, anche per i cementifici si pone un problema di idoneità alle operazioni di smaltimento ma, secondo calcoli attendibili, la loro capacità dovrebbe essere più che sufficiente a coprire il fabbisogno prevedibile di mercato. Infatti, secondo quanto riferito dal commissario straordinario, circa 46 - 47 dovrebbero essere gli impianti in regola con la normativa vigente, per una capacità complessiva di circa 500 mila tonnellate, che corrispondono all'incirca ai quantitativi di farine animali prodotte prima dell'emergenza BSE (25).

(25) Vedi audizione di Guido Alborghetti, commissario straordinario del Governo per il coordinamento delle iniziative volte a fronteggiare le conseguenze della BSE, del 15 febbraio 2001.

Al fine, comunque, di garantire che lo smaltimento dei materiali a rischio presso i cementifici autorizzati avvenga in condizioni di sicurezza, occorre che essi siano dotati di sistemi adeguati alla gestione di tali materiali (sistemi di monitoraggio in continuo delle emissioni, come previsto dal DM 5 febbraio 1998; idonei sistemi di stoccaggio, movimentazione ed alimentazione dei rifiuti ecc.).
Va aggiunto che i cementifici, a differenza dell'inceneritore, offrono il vantaggio tecnologico di non rilasciare residui di combustione; occorre tuttavia prestare per essi una particolare attenzione alla fase di carico e di alimentazione. Infatti, lo smaltimento presso i cementifici avviene a temperature che assicurano la distruzione del «prione», ma i problemi di filiera, come la difficoltà di disporre di meccanismi adeguati per buttare nel forno il materiale da bruciare, determina livelli di contaminazione nell'area, attraverso le farine, oltre che nei sistemi filtro, facendo ritrovare materiale contaminato (amminoacidi) persino nelle ceneri, nonostante esse abbiano subito temperature molto elevate. Ad evitare tali pericoli - come ha rappresentato il direttore dell'ANPA - occorrerebbe, in particolare, che il processo lavorativo degli scarti di macellazione si attestasse su una pezzatura delle farine molto superiore; ciò garantirebbe una maggiore pulizia in sede di smaltimento sia nel cementificio che presso un inceneritore.
Una grande attenzione a questo «sporco di filiera» - innanzitutto per i rischi sulla salute dei lavoratori che inalano le polveri di farina - viene prestata da alcuni paesi europei, dove i controlli presso gli stabilimenti sono molto rigorosi. È interessante, al riguardo, l'esperienza della Gran Bretagna, dove è stato redatto un rigido protocollo operativo proprio perché residui di farine, sfuggiti nella fase di combustione (attraverso le griglie, o durante il caricamento e la movimentazione), hanno causato contaminazione delle scorie per problemi di non corretta housekeeping. Nelle scorie, infatti, sono stati trovati amminoacidi (residui di proteine), con pericolo non trascurabile della presenza del «prione».
Le norme tecniche inglesi per la distruzione delle farine e per la lavorazione delle carcasse e delle ossa prevedono, inoltre, che gli stoccaggi debbano essere totalmente chiusi, con porte e serrande a chiusura automatica a prova di uccelli, roditori e insetti. Le emissioni vanno monitorate con sistemi in continuo, mentre i COV (composti


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organici volatili), gli odori e le diossine sono controllati periodicamente. Le ceneri, per quanto sopra detto, debbono essere controllate giornalmente. Anche lo stoccaggio di carni ed ossa sottoposti a pretrattamento e triturazione deve avvenire in ambiente chiuso a prova di uccelli roditori e insetti. Tali norme precauzionali hanno lo scopo di impedire che le specie animali in questione entrino nella catena alimentare.
Rispetto al nostro Paese, il dottor Viviano dell'Istituto superiore di sanità ha informato la Commissione (26) che il quadro tecnologico degli impianti in funzione è comunque sufficientemente adeguato per la distruzione delle farine e dei grassi.
In riferimento al cloro totale presente nelle farine, il predetto ha affermato che i valori sono bassi e si attestano intorno allo 0,2 per cento. L'azoto non termico (termico è quello derivante dall'azoto dell'aria in fase di combustione) derivante dalla sostanza organica (l'azoto delle proteine), fa aumentare il valore delle emissioni di ossidi d'azoto, ma anche ciò non dovrebbe costituire un problema, essendo disponibili sistemi efficienti di abbattimento delle emissioni.

(26) Vedi audizione del 23 febbraio 2001.

Secondo quanto riferito dal responsabile della sanità, qualche anno fa una Commissione del Ministero della sanità si è interessata sulla fattibilità di bruciare carcasse animali nei forni crematori delle strutture ospedaliere, ma i risultati del gruppo di lavoro non hanno sortito risultati apprezzabili. Per il futuro, in ogni regione si potrebbero realizzare forni crematori di idonea potenzialità.
Per quanto riguarda il problema degli ossidi di azoto in emissione, va detto che numerosi inceneritori sono ormai equipaggiati con combustori tipo low - nox (a basso ossido di azoto) e con sistemi di abbattimento di nox, tramite iniezione a valle della combustione di urea o ammoniaca.
Una ottimizzazione del sistema di termodistruzione si potrebbe, poi, realizzare qualora anche gli impianti Enel si rendessero disponibili per tale operazione.
È stata altresì segnalata alla Commissione una via alternativa alla termodistruzione che sembra promettente; si tratta della tecnologia denominata «Sistema di smaltimento Polimass - carne» della società Ecoenergy Ricerche di Trapani, che consiste in un processo di ossidodistruzione messo a punto in collaborazione con l'università di Messina.
Premesso che l'impianto utilizzato può essere fisso o carrellabile ed ha una potenzialità di trattamento di 15 tonnellate/ora, il processo di ossidodistruzione consiste, in sintesi, dei seguenti passaggi: la carcassa animale, posta in apposito cassone, viene triturata fino ad una pezzatura di dieci centimetri ed ulteriormente triturata a pezzature più fini; il materiale triturato viene immesso in un reattore di ossidodistruzione a bagno ossidante, in cui si innesca un processo di depolimerizzazione che si completa in circa 50 secondi.
Il prodotto della polimerizzazione è un poliglicol, che viene mescolato con biomasse a grandi superfici e fatto reagire con un


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additivo denominato MDI. Il materiale ancora in fase di reazione, detto polixano espanso, viene depositato in cassoni metallici e si solidifica. Il prodotto finale che si ottiene dal procedimento è sterile e può essere utilizzato in campo industriale nella fabbricazione di materie plastiche.
Va, infine, segnalato che nel corso di un recente sopralluogo nella regione Puglia, la Commissione ha apprezzato il sistema a forno rotante per la termodistruzione di rifiuti industriali in fase di start-up che si trova nell'area industriale di Brindisi, presso il consorzio Sisri. Questo forno potrebbe essere utilizzato anche per la distruzione termica delle farine e dei grassi animali; la sua potenzialità è di circa 100 tonnellate/giorno ed il sistema di abbattimento delle emissioni è costituito da filtri a manica, da assorbitori con carbone attivo in polvere e da un lavaggio acido/base. Le temperature in gioco nella camera di post-combustione, a valle della camera di combustione del forno rotante, sono dell'ordine di 1200oC. Tale impianto dispone altresì di un sistema di abbattimento degli ossidi di azoto con urea posto a valle della combustione.

3.3 In particolare, i problemi di smaltimento del grasso e del sangue bovino.

Problemi particolari si pongono per lo smaltimento del grasso e del sangue bovino.
Per quanto concerne il primo, seri motivi di preoccupazione derivano dalla giacenza presso gli impianti di pretrattamento di notevoli quantitativi di grassi risultanti dal processo di colatura degli scarti animali.
Invero, mentre esiste un divieto di utilizzo delle farine animali, è invece consentito l'uso dei grassi ottenuti dalle lavorazioni degli scarti.
L'attuale situazione di incertezza sulle possibili destinazioni ha comportato che le aziende del settore proseguano nelle attività di trasformazione e stoccaggio e, quindi, i grassi continuino ad accumularsi, rendendo facilmente prevedibile una prossima saturazione dei magazzini e la paralisi delle attività di trasformazione, come, del resto, si è già verificato nello scorso anno (27).

(27) Sul punto, vedi audizione citata di Gennaro Papa, presidente dell'Assograssi.

A ciò va aggiunto che per i grassi ottenuti dalle lavorazioni del materiale a basso rischio, la situazione è resa più difficile dalla mancata previsione dell'indennità per il loro smaltimento. Il problema si pone perché tali grassi, se pure potrebbero essere utilizzati in zootecnia e nel settore industriale, nell'attuale situazione d'allarme BSE non vengono più richiesti dal mercato e, quindi, i produttori subiscono danni non indifferenti: essi, infatti, stanno proseguendo nell'attività di stoccaggio e di accantonamento, ma di fatto non riescono a collocare sul mercato i grassi ottenuti, né ricevono aiuti per provvedere al loro smaltimento.


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La Commissione auspica, pertanto, un sollecito intervento dell'organo esecutivo, che ponga fine all'attuale stato di blocco del settore (con costante e preoccupante aumento dei quantitativi in deposito presso le aziende), prevedendo, anzitutto, un ammasso pubblico anche per i grassi animali, al fine di consentire alle imprese di continuare il ciclo di lavorazione e di tutelare un corretto smaltimento; in secondo luogo, chiarendo le possibilità di utilizzo di tali grassi ed, in particolare, predisponendo norme che consentano l'uso come combustibile, presso le centrali termiche, dei grassi ottenuti dal materiale a rischio specifico.
Al riguardo, va detto che i costi di smaltimento dei grassi provenienti dal materiale specifico a rischio sono pressoché corrispondenti a quelli riconosciuti per le farine animali - a dispetto delle previsioni originarie, si dovrebbe passare da 726.000 \P./t. a 1.450.000 \P./t. (28) - e più convenienti, proprio in considerazione della possibilità di utilizzare il grasso per processi di autoconsumo energetico.
Lo smaltimento del sangue, invece, pone una serie di problemi dipendenti soprattutto dalla difficoltà di reperire impianti tecnologicamente attrezzati a tale attività: in Italia infatti - come ha rappresentato alla Commissione il ministro delle politiche agricole e forestali - gli impianti disponibili sono soltanto due. Ad ovviare in parte alla situazione, è finalmente intervenuta la circolare del Ministero della sanità 16 febbraio 2001, la quale osserva che il sangue proveniente da animali abbattuti ai sensi del regolamento 2777/2000 Ce, deve essere distrutto mediante incenerimento o coincenerimento.
Le difficoltà operative legate al numero estremamente ridotto di impianti in grado di trattare il sangue (due), ha indotto le autorità a riconoscere la possibilità di trattarlo presso gli impianti autorizzati al basso e all'alto rischio, al fine di renderlo idoneo all'incenerimento; in tal senso si era espresso l'Istituto superiore di sanità nel parere richiestogli dal dipartimento alimenti e nutrizione del competente Ministero.

(28) Vedi audizione di Alfonso Pecoraro Scanio, ministro delle politiche agricole e forestali, del 15 febbraio 2001.

3.4 Il funzionamento del mercato dei rifiuti di origine animale - I costi di smaltimento.

I lavori svolti hanno evidenziato il costo elevato dello smaltimento del materiale specifico a rischio tal quale, per le ragioni che si sono ampiamente esposte nel paragrafo che precede.
Interessa qui, invece, porre all'attenzione come la riscontrata dislocazione non omogenea sul territorio nazionale delle poche aziende autorizzate alle attività di pretrattamento - quasi tutte concentrate nell'area nord del Paese - concorre a determinare una lievitazione dei costi di mercato nella procedura d'incenerimento previo trattamento, nonché l'esposizione a possibili attività illecite da


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parte di operatori attratti dal facile business, secondo quanto la stessa Commissione ha potuto verificare ed hanno altresì rappresentato gli operatori del settore.
Un terzo profilo riguarda i pericoli insiti nell'inidoneità dei processi di pretrattamento ad eliminare con certezza il «prione» agente della BSE e, di conseguenza, il pericolo per la diffusione dello stesso nell'ambiente, rischio rilevante anche per le grandi quantità di materiali da trattare.
D'altra parte, proprio la scarsa presenza di aziende abilitate alle attività di lavorazione e trasformazione degli scarti da macellazione e la loro non funzionale dislocazione geografica, ha determinato una proliferazione delle strutture di stoccaggio temporaneo degli scarti tal quali, sì da ovviare all'eccessiva distanza degli impianti di pretrattamento dalle zone di produzione, ma con costi aggiuntivi notevoli nella filiera.
Sul punto, non possono che condividersi le preoccupazioni espresse da esponenti istituzionali (29) relativamente al fatto che l'esistenza di numerosi intermediari rende ancora più difficoltosa l'attività di controllo sulla movimentazione delle carni bovine e dei prodotti derivati, riportando in evidenza il grave problema della tutela della salute pubblica.

(29) Vedi, in particolare, l'audizione di Giovanni Damiani, direttore dell'Anpa, del 23 febbraio 2001.

D'altra parte la filiera, così come strutturata ad oggi, dipende anche dalla convenienza del produttore ad inviare il materiale specifico a rischio agli operatori intermedi (vedi stoccaggi provvisori), al fine di ridurre i propri costi di smaltimento.
Un'ulteriore notazione, però, va fatta: alla prevedibile propensione del mercato delle carni e dei derivati al pretrattamento prima dell'invio alla distruzione, dipendente dal numero ridotto di impianti abilitati e dalle esposte ragioni di convenienza economica, va aggiunto un altro elemento non trascurabile, e cioè che l'indennità prevista dal legislatore per coloro che assicurano la distruzione copre pressoché interamente l'attuale costo di smaltimento del materiale specifico a rischio trattato, ma non quello che occorrerebbe per forme di smaltimento mediante incenerimento diretto del materiale tal quale. Quest'ultimo, infatti, richiederebbe prezzi più elevati, in considerazione della complessità delle tecnologie necessarie e non assicurerebbe quei profitti derivanti dalla trasformazione del materiale specifico a rischio e ad alto rischio in fonte di energia.
In verità, le ragioni di prevenzione e tutela della salute pubblica che ispirano tutta la normativa d'emergenza BSE ed, in particolare, la necessità di eliminare in tempi brevi dal mercato il materiale a rischio evitando troppi passaggi dalla macellazione e produzione degli scarti all'incenerimento, si scontra con l'estrema difficoltà ad individuare impianti idonei alle operazioni d'incenerimento (attualmente solo Brescia e Cagliari), comunque insufficienti ad assicurare l'eliminazione dei quantitativi prodotti sul territorio nazionale.


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Tale situazione, se non sarà modificata nel breve periodo, oltre ad agire sui prezzi di mercato - facilmente condizionabili da parte di coloro che assicurano la distruzione del materiale a rischio previo trattamento - è altresì foriera di facili violazioni da parte di operatori senza scrupoli.
Va detto, peraltro, che la scarsa chiarezza della normativa d'emergenza circa i soggetti destinatari dell'indennità per la distruzione del materiale specifico a rischio, ingenera ulteriore confusione e possibilità di speculazione, anche se sembra ormai prevalere l'orientamento ad una ripartizione di tale indennità fra i vari operatori (dall'azienda di allevamento a quella di macellazione, allo stabilimento di trasformazione fino all'impianto di incenerimento) (30). In particolare, un'equa ripartizione delle indennità vale ad evitare che sui produttori dei materiali a rischio finiscano col gravare costi esosi di smaltimento, spingendoli ad affidare i materiali ai centri di stoccaggio temporaneo al fine di ridurre i propri costi di smaltimento.

(30) Vedi, da ultimo, il decreto-legge 18 febbraio 2001, n. 8.

Sarebbe opportuno che sul punto intervenisse con chiarezza l'organo di governo, al fine di ovviare all'attuale situazione di stallo del mercato che spesso si deve registrare, oltre che per un riequilibrio tra le varie posizioni economiche che eviti speculazioni di mercato del tipo di quelle descritte.
Da ultimo, la Commissione deve rilevare la necessità di chiarire al più presto alcune modalità di eliminazione dei rifiuti di origine animale, ponendo la distinzione su quanto va effettivamente distrutto mediante incenerimento o coincenerimento e quanto, invece, può essere riutilizzato in zootecnia, nell'industria farmaceutica e altro.
L'orientamento, sia a livello comunitario che governativo, sembra quello di favorire la distruzione anche del materiale a basso rischio, prevedendone un utilizzo esclusivamente per la produzione di alimenti per animali familiari, prodotti tecnici e farmaceutici, come hanno riferito alla Commissione il ministro delle politiche agricole e forestali, il sottosegretario alla sanità ed il commissario straordinario per l'emergenza BSE (31).

(31) Vedi audizione del 15 febbraio 2001.

Anche il recentissimo decreto legge del 14 febbraio 2001 n. 8 - che ha introdotto ulteriori interventi urgenti ed agevolazioni per operatori chiamati a fronteggiare l'emergenza BSE - pare muoversi in questa direzione, laddove ha previsto che l'Agenzia per le erogazioni in agricoltura provveda all'incenerimento o coincenerimento delle proteine animali trasformate finora destinate all'ammasso pubblico (articolo 8). La decisione interviene finalmente in una situazione di mercato in forte crisi, poiché da un lato il ciclo di produzione delle farine ottenute dal materiale a basso rischio sta continuando; dall'altra, le aziende del settore sono ormai colme di tali farine, in attesa dei conferimenti. A ciò, va aggiunto che finora l'ammasso pubblico non era neppure iniziato ed il mercato delle farine proteiche ottenute dal basso rischio versava in una situazione


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assolutamente precaria per il trasferimento di tali farine nei magazzini dell'Agea, come hanno riferito alla Commissione i rappresentanti delle associazioni di categoria interessate (Assograssi e Assalzoo) (32).

(32) Vedi audizione di Gennaro Papa, presidente dell'Assograssi, e di Giordano Veronesi, presidente del gruppo mangimi semplici dell'Assalzoo, del 19 febbraio 2001.

La prevista destinazione delle farine all'incenerimento o coincenerimento, pur se non risolutiva della crisi del mercato, interrompe almeno l'attuale situazione di stallo. La decisione appare ispirata all'esigenza, del tutto condivisibile, di evitare ogni rischio di contaminazione fra tipi di farine diverse, nonché il pericolo di una distribuzione della farina ottenuta dal materiale a basso rischio, che rimane comunque vietata per l'alimentazione animale.
Si auspica, comunque, che sul punto vengano al più presto assunte le determinazioni a livello comunitario sulle destinazioni del materiale a basso rischio, che sarebbero utili anche alla gestione della politica agricola comune oltre che della sicurezza sanitaria.

3.5 I rapporti tra alcune imprese della filiera.

Un dato che lascia perplessi riguarda i rapporti che la Commissione ha dovuto registrare tra alcune imprese del settore, che operano su distinte aree geografiche.
L'allarme BSE ha portato in breve tempo alla nascita e/o trasformazione di poche società che effettuano le attività di pretrattamento. Secondo i dati in possesso della Commissione sono, infatti, sette le società autorizzate alle operazioni di pretrattamento del materiale specifico a rischio e del materiale ad alto rischio.
Il primo elemento riscontrato riguarda la dislocazione di tali società, localizzate prevalentemente nell'area settentrionale del paese; questa dislocazione non appare omogenea né funzionale alle reali esigenze produttive di quelle aree.
Inoltre, tale situazione - come abbiamo illustrato al paragrafo che precede - concorre a determinare la lievitazione dei costi e dei servizi nell'ambito del mercato dei rifiuti di origine animale.
La Commissione ha dovuto registrare l'esistenza di collegamenti diretti o indiretti tra alcune delle società di pretrattamento con altre aziende che operano nel settore e che, in molti casi, hanno rilevanza nazionale.
Ad esempio, la «Imar» srl di Como - società di pretrattamento del materiale specifico a rischio - è controllata dalla «F.lli Alberio» spa di Cirimido (CO); quest'ultima è attiva nel trattamento del materiale a basso rischio ed è, a sua volta, compartecipe nella «Farm Service» di Reggio Emilia, altra società autorizzata al pretrattamento del materiale specifico a rischio.
La «Farm Service» è altresì compartecipata dalla «Lipitalia 2000» spa della provincia di Torino i cui esponenti, attraverso


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un'altra società, sono cointeressati nella «Eco Rendering» srl di Fenegrò (CO). Ebbene, la «Eco Rendering» rientra fra le sette società autorizzate al pretrattamento dei materiali a rischio.
In sostanza, su un campione di sette aziende - tutte quelle sino ad oggi autorizzate alle operazioni di trasformazione dei materiali a rischio - ben tre risultano tra loro collegate.
Al riguardo, la Commissione non può che manifestare legittime perplessità in ordine alle concrete possibilità che si realizzi un equilibrio del mercato e la trasparenza dei servizi, tenuto anche conto di altri fattori di disturbo come la scarsità ed inadeguatezza degli impianti, il crollo delle vendite nel settore, le incertezze sulle possibilità di utilizzo di taluni materiali a rischio ed altro.
Né possono sottovalutarsi le possibili conseguenze negative che potrebbero derivare dalla registrata proliferazione di attività intermedie nel ciclo produttivo delle carni bovine: il riferimento, nel caso di specie, è ai numerosi centri di stoccaggio temporaneo del materiale specifico a rischio e ad alto rischio, che si prestano ad operazioni di smistamento incontrollato ed illegale degli scarti stoccati. Inoltre, le suddette attività intermedie non aiutano a ricostruire i vari passaggi della filiera e, quindi, a risalire ai quantitativi prodotti e smaltiti; occorre che, almeno, vengano intensificati i controlli su tali attività, al fine di ridurre il pericolo della commissione di violazioni pericolose per la salute pubblica.

3.6 Alcune problematiche connesse ai controlli della filiera carni.

L'attenzione della Commissione va soprattutto alla necessità di garantire la trasparenza della filiera carni: dalla macellazione allo smaltimento finale degli scarti e delle farine animali, passando attraverso le fasi intermedie del trasporto, stoccaggio e pretrattamento.
Il problema richiama immediatamente la tematica dei controlli.
La proliferazione delle fasi di stoccaggio e dei conseguenti trasporti favorisce la commissione di violazioni, poiché aumenta la possibilità di sottrarsi ai controlli previsti dalla normativa vigente, con conseguenze negative sia per il mercato che per la tutela della salute pubblica.
La situazione è resa ancora più difficile dal fatto che al materiale a rischio, da smaltire secondo i criteri dettati dalla normativa d'emergenza, si aggiunge quello degli animali deceduti per cause naturali, in quantitativi che sono, purtroppo, difficilmente stimabili. È quanto rappresentato alla Commissione dal commissario straordinario per l'emergenza BSE (33).

(33) Vedi audizione del 15 febbraio 2001.

Se prima dell'insorgenza della malattia il quantitativo complessivo stimabile degli scarti di macellazione si collocava tra 2.200.000 e 2.400.000 tonnellate, equivalenti a circa 550 mila - 600 mila


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tonnellate di farine proteiche, nelle attuali condizioni di mercato perturbato dall'allarme BSE risulta difficile operare una stima dei quantitativi di materiale a rischio prodotti (e del numero dei bovini coinvolti), tenuto anche conto dell'impossibilità attuale di ricollegare documentalmente gli scarti di macellazione del capo bovino all'avvenuto smaltimento delle farine ottenute dagli stessi.
Da ciò consegue l'estrema difficoltà di verifica delle violazioni: il permanere di destinazioni finali diverse delle farine animali prodotte dal materiale a basso rischio ed a rischio specifico e la possibilità di ottenere indennità per lo smaltimento delle seconde (ai sensi del decreto legge 11 gennaio 2001 n. 1) consentirebbe facili spostamenti di grosse quantità da una categoria all'altra, in funzione dei maggiori profitti, nonché un aumento dei quantitativi mediante false dichiarazioni attestanti operazioni mai effettuate o non rispondenti al vero e difficilmente riscontrabili.
Gioverebbe al sistema che venissero al più presto chiarite alcune modalità di eliminazione dei rifiuti di origine animale e si operasse la distinzione tra quanto va effettivamente distrutto e quanto, invece, può essere riutilizzato in zootecnia, nell'industria farmaceutica ed altro.
Tornando all'analisi della filiera, l'intero sistema rivela la necessità di potenziare i controlli sulla movimentazione dei bovini, in modo da assicurare la loro rintracciabilità e quella delle loro carni, degli scarti e delle farine, dotando anzitutto la banca dati per l'identificazione e la registrazione del bestiame, che non opera ancora a regime, dei mezzi e delle risorse necessarie. Occorre, poi, definire le modalità di controllo dell'intero sistema, compresa la predisposizione di un protocollo di monitoraggio specifico per le attività di trasformazione e gli impianti d'incenerimento con i loro prodotti finali (le ceneri).
Indicativa della situazione è la circostanza, evidenziata dal sottosegretario alla sanità (34), che si continuino a scoprire mattatoi clandestini sul territorio nazionale, nonostante l'intensificazione dei controlli ad opera del NAS dei carabinieri. Anche i servizi ispettivi della Commissione dell'Unione europea hanno lamentato, per l'Italia, carenze di personale per le attività di coordinamento e vigilanza sia a livello centrale che periferico.

(34) Vedi audizione del 15 febbraio 2001.

Bisogna in ogni caso garantire che le operazioni di pretrattamento avvengano con le più rigorose garanzie ed i più rigorosi controlli sanitari ed ambientali. Ciò soprattutto in relazione al fatto che il «prione» può sopravvivere alle temperature che si raggiungono nei processi industriali di pretrattamento e pertanto potrebbe essere rilasciato nelle acque e, peggio, finire nei fanghi di depurazione che vengono poi usati come fertilizzanti e concimi.
Assai debole è, poi, il coordinamento tra i vari organi deputati alla vigilanza ed al controllo del settore; come evidenziato dal direttore dell'Agenzia nazionale di protezione dell'ambiente (ANPA), sul territorio nazionale si registra un'assenza generalizzata di


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informazioni sui problemi connessi allo smaltimento degli scarti e delle farine animali. Gli operatori richiedono, inoltre, precise indicazioni sul tipo di strumenti ed azioni da intraprendere per fronteggiare l'emergenza.
Vi è, quindi, l'esigenza di individuare le problematiche connesse alla gestione dell'intero ciclo di trattamento dei materiali a rischio, dalla ricezione e stoccaggio sino all'incenerimento. Lo scambio di informazioni, che alle autorità di controllo pervengono da canali diversi (ad esempio attività di accertamento sanitario ed amministrativo delle imprese), consentirebbe una maggiore conoscenza dei problemi dell'intero ciclo, realizzando una più efficace azione di contrasto.
Del resto, preoccupazioni sull'attuale funzionamento del sistema dei controlli sono state espresse dal ministro delle politiche agricole e forestali, dal sottosegretario alla Sanità e dal commissario straordinario per l'emergenza BSE (35), i quali hanno convenuto sulla necessità di rendere capillari e sistematici i controlli sul territorio, nonché sulla possibilità di promuovere l'attivazione del potere straordinario di ordinanza spettante alle prefetture, al fine di fronteggiare situazioni di eccezionale emergenza e di reprimere qualsiasi tentativo di speculazione nella filiera carni (articolo 4 del decreto legge n. 1 dell'11 gennaio 2001).

(35) Vedi audizione del 15 febbraio 2001.

3.7 Brevi cenni sulla natura degli scarti di macellazione e delle farine proteiche.

La questione relativa alla natura degli scarti da macellazione e delle farine proteiche è oggetto di discussione sia da parte dello Stato italiano che degli Stati membri della Comunità europea.
In Italia, a seguito dell'emanazione del «decreto Ronchi» che - in attuazione della normativa comunitaria - ha disciplinato la materia dei rifiuti, si è posto il problema della qualificazione dei predetti materiali; soprattutto l'Agenzia nazionale di protezione dell'ambiente (Anpa), anche attraverso le sue unità operative territoriali (Arpa e Appa), ha ritenuto che l'intera materia degli scarti e delle farine animali non rientri nel campo di applicazione della normativa speciale sanitaria (decreto legislativo n. 22/92), ma vada correttamente ricondotta alla disciplina dettata dal «decreto Ronchi», trattandosi di rifiuti di origine animale, secondo - del resto - la definizione adottata dalla stessa normativa comunitaria. In tal senso, si sono registrati anche diversi interventi della magistratura ordinaria che ha irrogato sanzioni, ai sensi del decreto Ronchi, nei confronti dei titolari di stabilimenti di raccolta e trasformazione di tali rifiuti.
La Commissione europea è di contrario avviso, poiché ritiene che le attività di raccolta, trasporto, trasformazione e commercializzazione dei rifiuti di origine animale ricadono nell'ambito della direttiva


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90/667/Ce, recepita nel nostro ordinamento con il decreto legislativo n. 508 del 1992 (vedi sopra). In sostanza, secondo il legislatore comunitario, gli scarti e le farine animali non destinati al consumo umano, pur venendo classificati come «rifiuti di origine animale» dalla direttiva 90/667/Ce, non possono considerarsi «rifiuti» ed essere assoggettati alla relativa disciplina, perché essi non vengono eliminati, ma soltanto trasformati per essere immessi nel ciclo produttivo.
I recenti interventi per fronteggiare l'emergenza BSE (nazionali e comunitari), specie in relazione alla scoperta della probabile trasmissione della malattia attraverso le farine di carne presenti nei mangimi, sembrano, però, indurre la Commissione europea a porsi nuovamente il problema della natura e di una corretta ed omogenea classificazione degli scarti e delle farine animali, anche in relazione alle decisioni tutte finalizzate alla minimizzazione del rischio di trasmissione delle encefalopatie spongiformi bovine.
In Italia, basta ricordare il susseguirsi di una serie di provvedimenti di tutela preventiva: l'ordinanza ministeriale 15 giugno 1998, che ha eliminato dal consumo umano ed animale il materiale specifico a rischio ottenuto da animali della specie bovina, ovina e caprina provenienti da alcuni Stati della Comunità in cui veniva già adottato il sistema di sorveglianza contro la BSE; le più recenti ordinanze che hanno posto il divieto di somministrazione delle proteine animali a tutti gli erbivori, laddove precedentemente si faceva riferimento ai soli ruminanti, nonché l'obbligo di distruzione del materiale specifico a rischio e ad alto rischio, con il divieto assoluto di impiego; il decreto legge n. 8 del 14 febbraio 2001, che ha previsto la destinazione all'incenerimento o coincenerimento anche delle proteine animali ottenute dal materiale a basso rischio e destinate all'ammasso pubblico.
In questo contesto, è necessaria un'opera di razionalizzazione del sistema normativo comunitario ed interno, poiché la divergenza nelle regolazioni nazionali sugli scambi può determinare una diffusione della malattia anche all'esaurirsi della fase emergenziale.
Si tratta del problema che maggiormente sta impegnando la Commissione europea, poiché è di tutta evidenza che la concreta possibilità di realizzare il raccordo tra le normative dei singoli Stati passa, anzitutto, attraverso la previsione di una classificazione omogenea dei rifiuti di origine animale; in quella sede, è positivo l'orientamento ad una codificazione cer, secondo quanto riferito dal sottosegretario alla sanità e dal commissario straordinario per l'emergenza BSE.
A livello di normazione interna, occorre procedere ad un'armonizzazione delle leggi speciali del settore, specie in considerazione dei numerosi interventi d'urgenza, disordinati e non sempre coordinati tra loro e con la normativa generale in materia di carni e prodotti derivati; tutti fattori che rendono difficile la consultazione e la corretta applicazione delle leggi da parte degli operatori.

4 Conclusioni.

A conclusione di questa esposizione dell'indagine svolta dalla Commissione, fermo restando che la complessità della situazione


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richiede un'analisi completa di tutte le fasi di filiera ed ulteriori approfondimenti, è possibile qui tracciare delle considerazioni su quanto è stato possibile osservare nel ciclo produttivo delle carni bovine e dei sottoprodotti, con particolare riferimento alle fasi delle attività di trasformazione e distruzione degli scarti di macellazione e delle farine proteiche.
La Commissione - se pure valuta favorevolmente la risposta tempestiva da parte dei dicasteri preposti (sanità, ambiente e politiche agricole e forestali) a fronteggiare l'attuale situazione di emergenza - non può fare a meno di evidenziare, per un verso i problemi di pratica attuazione della normativa esistente, con ovvie conseguenze sul meccanismo di funzionamento della filiera; dall'altro, le numerose difficoltà che permangono a livello organizzativo e di coordinamento fra le strutture delegate ai controlli.
Sotto il primo profilo, un elemento di incertezza da sciogliere riguarda le possibili destinazioni dei grassi ottenuti dalle lavorazioni degli scarti: nell'attuale situazione di emergenza, le aziende proseguono nelle attività di trasformazione e stoccaggio e, quindi, i grassi continuano ad accumularsi, rendendo facilmente prevedibile una prossima saturazione dei magazzini e la paralisi delle stesse lavorazioni.
La Commissione sollecita, pertanto, un intervento del Governo che preveda, nel breve termine, l'ammasso pubblico anche per i grassi animali, al fine di consentire alle imprese di continuare il ciclo di lavorazione e di tutelare un corretto smaltimento. Vanno altresì disciplinate le modalità di utilizzo dei grassi come combustibili presso le centrali termiche.
Un altro elemento di difficoltà che, nell'attuale situazione di emergenza, era rappresentato dalla carenza di impianti dotati della tecnologia adeguata allo smaltimento del sangue (soltanto due nel territorio nazionale), pare, invece, in via di superamento, grazie alle previsioni della recentissima circolare del dicastero della sanità, secondo cui il sangue proveniente da animali abbattuti ai sensi del regolamento 2777/2000 Ce, va distrutto mediante incenerimento o coincenerimento; inoltre, le aziende possono trattarlo presso gli impianti autorizzati al basso e all'alto rischio, al fine di renderlo idoneo all'incenerimento.
La scarsa chiarezza della normativa d'urgenza, circa i soggetti destinatari dell'indennità per la distruzione del materiale specifico a rischio, ingenera ulteriore confusione e possibilità di speculazioni. In realtà, l'orientamento di tutti gli operatori del settore è per una ripartizione di tale indennità fra coloro che partecipano dell'intero processo produttivo (dall'azienda di allevamento a quella di macellazione, allo stabilimento di trasformazione fino all'impianto di incenerimento) (36); sarebbe, però, opportuna un'indicazione precisa sul punto da parte del Governo, al fine di ovviare alle attuali incertezze e ristabilire l'equilibrio tra le varie posizioni economiche.

(36) Vedi, da ultimo, il decreto-legge 18 febbraio 2001, n. 8.


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Altro elemento di difficoltà che impedisce un corretto funzionamento del mercato dei rifiuti di origine animale - da risolvere con sollecitudine - è rappresentato dalla mancanza di una chiara distinzione tra rifiuti di origine animale che vanno distrutti mediante incenerimento o coincenerimento e quelli che, invece, possono essere riutilizzati in zootecnia, nell'industria farmaceutica e altro. Si è visto che l'orientamento generale, espresso anche dalle disposizioni contenute nel decreto legge n. 8 del 14 febbraio 2001, sembra quello di favorire la distruzione anche del materiale a basso rischio, prevedendone un utilizzo esclusivamente per la produzione di alimenti per animali familiari, prodotti tecnici e farmaceutici
La Commissione auspica, comunque, che vengano al più presto assunte chiare ed univoche determinazioni a livello comunitario sulle destinazioni del materiale a basso rischio, che sarebbero utili anche alla gestione della politica agricola comune oltre che della sicurezza sanitaria.
Va, poi, rilevata la necessità di razionalizzazione del sistema normativo vigente all'esaurirsi della fase emergenziale, attraverso un riordino sistematico dei numerosi interventi normativi che si sono succeduti, in aggiunta o sostituzione a precedenti provvedimenti, rendendo talvolta complicata anche l'individuazione dei vari referenti istituzionali, si tratti dell'organo di controllo o di quello che deve rilasciare le autorizzazioni, ovvero dell'organo che ha compiti di sola vigilanza nel settore (si pensi alle regioni).
Il problema di armonizzare la normativa vigente si pone anche nei rapporti tra Stati membri della Comunità europea, al fine di minimizzare il rischio BSE negli scambi. Al riguardo, si ritiene importante che la Commissione europea continui nei lavori che in tale direzione sta svolgendo, anche attraverso l'istituzione di commissioni e tavoli tecnici di confronto su temi specifici, che vedono la partecipazione dei partners europei.
In quelle sedi, va valutato positivamente l'orientamento espresso per una codificazione CER dei rifiuti di origine animale. Altrettanto positivamente la Commissione valuta i recenti obblighi introdotti dai regolamenti comunitari, che mirano a garantire la rintracciabilità del prodotto carne e dei suoi sottoprodotti.
Dall'indagine della Commissione emerge, infine, l'importanza dei controlli nell'intera filiera delle carni bovine.
Va ribadito che i controlli devono essere intensificati ed attuati con sistematicità da parte dei vari organi preposti (servizi veterinari centrali e regionali, ispettorato per la repressione delle frodi, forze di polizia, Asl, Arpa); da un lato, infatti, occorrono maggiori e più efficienti controlli sui movimenti degli animali e sugli aspetti sanitari; dall'altro, vanno effettuati maggiori e più efficienti controlli amministrativi sulle attività.
Bisogna in ogni caso garantire che le operazioni di pretrattamento avvengano con le più rigorose garanzie ed i più rigorosi controlli sanitari ed ambientali. Ciò soprattutto in relazione al fatto che il «prione» può sopravvivere alle temperature che si raggiungono nei processi industriali di pretrattamento e pertanto potrebbe essere rilasciato nelle acque e, peggio, finire nei fanghi di depurazione che vengono poi usati come fertilizzanti e concimi.


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Una maggiore incisività nei controlli consentirebbe di arginare fenomeni di distorsione del mercato (vedi i raggruppamenti di imprese, i costi alti di smaltimento) e di accertare la reale attività svolta dai numerosi centri di stoccaggio provvisorio degli scarti di macellazione, che si prestano a violazioni da parte di eventuali operatori senza scrupoli, i quali agiscono in dispregio delle norme vigenti, con conseguente pericolo per la salute pubblica.
Al contempo, va realizzata una maggiore collaborazione tra gli organi di controllo, in modo da rendere più incisive le verifiche delle attività in questione ed efficace il contrasto a possibili fenomeni illegali.
Conclusivamente, in ragione delle circostanze e dei fenomeni che si registrano, può affermarsi che gli elementi acquisiti consentono di valutare positivamente l'azione del governo, ma che appare necessario uno sforzo comune per superare taluni punti critici del sistema, che preoccupano per i delicati profili di tutela della salute collettiva su cui vanno ad incidere.
Va realizzata, a tal fine, una strategia di prevenzione generale e speciale, nonché un'adeguata cultura del controllo tra i vari soggetti istituzionali, che garantisca ai cittadini la qualità delle carni e dei prodotti di carne bovina consumati.
Da ultimo, va mantenuto e rafforzato l'impegno a seguire con attenzione l'evolversi della situazione, investendo mezzi e risorse che favoriscano la progressione della ricerca medico-scientifica verso soluzioni contro la diffusività e gli esiti letali dell'encefalopatia spongiforme bovina (BSE o TSE).


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ALLEGATO 2

DOCUMENTO SULLE TECNOLOGIE RELATIVE ALLO SMALTIMENTO DEI RIFIUTI ED ALLA BONIFICA DEI SITI CONTAMINATI

(Relatore: senatore Franco Asciutti)

PREMESSA.

Con l'avvicinarsi della chiusura dei lavori della XIII legislatura, è necessario fare un bilancio sullo stato dell'arte delle tecnologie di smaltimento dei rifiuti e sulla bonifica dei siti contaminati, utilizzando il bagaglio di esperienze e di informazioni acquisito dalla Commissione nel corso di specifici sopralluoghi presso gli impianti che producono o gestiscono lo smaltimento o la bonifica, durante gli incontri e le audizioni delle associazioni degli industriali locali, delle forze di polizia giudiziaria, della magistratura, dei prefetti, delle associazioni ambientaliste, dei comitati dei cittadini, degli operatori del settore , dei consorzi, di tutte quelle realtà, cioè, che nella problematica dello smaltimento e della bonifica sono coinvolti a diversi livelli di responsabilità. Nel presente documento si è pertanto tenuto conto delle relazioni tematiche già emanate dalla Commissione in materia di amianto, di rifiuti solidi urbani, di rifiuti ospedalieri, di rifiuti industriali, di incentivi alle aziende che operano traguardando allo sviluppo sostenibile e ai principi dell'Emas (Environmental management Audit Scheme) o che si sottopongono volontaristicamente alle procedure di certificazione del sito e dell'attività. In sostanza la Commissione, nel corso dei suoi tre anni di lavoro, ha sempre guardato con estremo interesse al panorama nazionale dell'imprenditoria nel settore dei rifiuti e delle bonifiche, studiandone le evoluzioni, cercando di cogliere segnali ed evidenze che facessero capire se essa stesse percorrendo la strada di un sistema industriale di gestione dei rifiuti tecnologicamente avanzato, in grado di realizzare una vera e propria gestione integrata del ciclo globale non solo dei rifiuti urbani ma soprattutto di quelli speciali industriali. Occorre a questo punto riflettere sulla considerazione che i rifiuti speciali industriali, per qualità e quantità in gioco, costituiscono il vero problema da affrontare, senza con ciò minimizzare sulle realtà emergenziali dei rifiuti solidi urbani che affliggono al momento 4 grandi regioni del sud del Paese e che proprio in questi giorni si sono estremamente amplificate nella regione Campania. L'argomento della gestione dei rifiuti nell'ottica di uno sviluppo sostenibile, è stato di cosi grande interesse per la Commissione che questa, a conferma di quanto illustrato in un dibattito alla Camera dei deputati nel novembre 1999 dal Presidente Scalia con la relazione sul biennio di attività della Commissione, ha organizzato a Milano il 29 giugno 2000, presso l'Università Bocconi, il convegno- dibattito «Verso un sistema


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industriale per la gestione dei rifiuti». Il decreto legislativo n. 22/97 ha recepito 3 importanti direttive comunitarie in materia di rifiuti ed imballaggi (91/186, 91/685 e 94/62/CE). Ha rappresentato un punto di svolta epocale per la gestione dei rifiuti che era impostata, unicamente, sulla filosofia dello smaltimento (rifiuto a perdere) spostando il baricentro delle attività sui temi del recupero e del riciclo. Senza facili ottimismi si può affermare che, a quattro anni dall'entrata in vigore della riforma, il settore dei rifiuti sta entrando in una fase di profonde e radicali trasformazioni che dovrebbero consentirgli di superare gli attuali limiti strutturali e tecnologici che sono all'origine della scarsa qualità ambientale dei servizi erogati a fronte di costi elevati e crescenti (fenomeno molto più accentuato nelle regioni del Mezzogiorno). La situazione di partenza d'altronde era di estrema arretratezza con alcune patologie tipiche di sistemi pubblici «protetti», come sono i servizi ambientali nel nostro Paese, con una forte regolazione ambientale ed una regolazione economica insufficiente. Ciò che appare oggi necessario, come riconoscono tutti gli osservatori, è un sistema di gestione integrata in grado di farsi carico, con continuità ed in modo economicamente ed ecologicamente sostenibile, del problema dei rifiuti affermando, concretamente, i principi comunitari: riduzione all'origine, riuso, riciclo e recupero di materiali ed energia di cui lo smaltimento in sicurezza rappresenta la fase finale e residuale dell'intero ciclo. C'è la necessità di superare alcuni ritardi, costituiti in particolare dal completamento della normativa attuativa prevista dal decreto legislativo n. 22/97 (rifiuti pericolosi, compost, cdr, assimilabilità, discariche, ecc.) dal recepimento da parte delle regioni del quadro normativo, adeguando i rispettivi piani di gestione dei rifiuti dalla definizione degli ambiti territoriali ottimali (ATO) (avviati timidamente in pochissime realtà), dalla realizzazione di un sistema di impianti integrato e tecnologicamente avanzato. Gravi e numerose sono altresì le deviazioni da un sistema corretto di gestione che producono gravi danni ambientali, a volte irreversibili. La produzione nazionale di rifiuti viene stimata dalla Commissione in circa 108 milioni di tonnellate di cui irca 28 di rifiuti solidi urbani e il rimanente di rifiuti speciali pericolosi e non pericolosi. Il sistema di smaltimento nazionale già a partire dagli anni '80 ha mostrato forti carenze e lacune , alimentando le attività e i traffici illegali assai lucrosi della malavita organizzata. La Commissione valuta che oltre il 30% di rifiuti speciali industriali non sia gestito correttamente o lo sia in maniera illecita per cui almeno 35 milioni di tonnellate non si conosce il destino finale. Le cifre del «fatturato in nero» sono allarmanti e sono stimate dalla Commissione in circa 15.000 miliardi l'anno con una evasione di almeno 2000 miliardi da parte del circuito illegale. Nel settore della termodistruzione in cui fino agli anni '80 l'Italia aveva investito in ricerca e tecnologie , il non efficace abbattimento delle diossine e dei furani emessi dagli inceneritori di prima generazione, alimentava la «sindrome di Seveso», la paura cioè delle popolazioni per la dispersione in ambiente delle diossine come nell'incidente Icmesa di Seveso. Qesta situazione è alla base della perdita, nel nostro Paese,dell'innovazione nel campo tecnologico, della ricerca e dello sviluppo, nel momento in cui, nel resto dell'Europa, si sviluppavano tecnologie di combustione


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e di abbattimento delle emissioni in grado di garantire i limiti assai stringenti imposti dalle direttive comunitarie in tema di emissioni. Ancora oggi, nel nostro Paese, il ricorso alla discarica rimane, per il 79%, circa la via di smaltimento preferita mentre la termodistruzione è ferma al 6.6%, valore che colloca l'Italia come fanalino di coda di tutti i Paesi europei in cui il ricorso alla termodistruzione si attesta intorno ad un valore medio del 25%. Il nostro parco impiantistico, mostra ormai i suoi anni ed è pressoché inadeguato, se si escludono come vedremo, alcuni casi di eccellenza per cui è sempre più difficile e costoso contenere le emissioni entro i limiti di legge. La situazione appare meno drammatica di quanto in effetti sia poichè non sempre i controlli delle ARPA vengono effettuati sugli impianti con la necessaria frequenza e attenzione. A fronte di un deficit impiantistico, si segnalano iniziative da parte dei privati che operano con i loro impianti di trattamento o all'interno di grandi aziende o con proprie piattaforme e di alcuni comuni come quello di Modena da tempo impegnati nei trattamenti. Il ruolo degli Enti di ricerca quali Enea e CNR, si è dimostrato negli ultimi tempi in grado di reagire e sviluppare alcune tecnologie , alcune delle quali brevettate, per il trattamento di termodistruzione di prodotti organici e di inertizzazione dei rifiuti pericolosi industriali come per esempio l'amianto. La presa di coscienza, da parte della Commissione, di tale situazione deficitaria a livello nazionale, ha stimolato i Commissari ad effettuare dei confronti con le altre realtà gestionali dei Paesi del nord Europa recandosi in visita, nel mese di settembre 2000, presso alcuni siti di trattamento della Germania, Finlandia, Svezia, Danimarca, al fine anche di verificare l'esistenza di un sistema industriale per la gestione integrata dei rifiuti. Di certo, la cultura nord europea ( statunitense e canadese nel caso dei Paesi d'oltre Oceano), mostra di essere più avanzata, più strutturata e interiorizzata rispetto alla nostra. Anche il sistema delle filiere, apprezzabile per certi versi per i risultati raggiunti sul versante degli imballaggi derivanti dal sistema produttivo, non è ancora ad un livello adeguato sul versante delle filiere da raccolte differenziate comunali, risentendo delle difficoltà iniziali per organizzare il CONAI e soffrendo la mancanza di un mercato consistente del recupero dei materiali. Certo è comunque che il rallentamento che ancora si registra nelle operazioni di riciclo e in quelle di riciclaggio nelle filiere, ha risentito del ricorso alle procedure semplificate da parte della imprenditoria degli ecofurbi che ha colto l'occasione per realizzare ricicli virtuali e non virtuosi di materiali con evidenti danni per l'ambiente e con attività truffaldine, come purtroppo la Commissione ha avuto modo di verificare in più occasioni, «de visu». Alcune filiere inoltre, come quella della plastica, contrariamente a quella dell'alluminio assai profittevole e ad alto risparmio energetico, non sembrano economicamente appetibili per il riciclo materiale, atteso che la plastica di riciclo sfiora il costo della materia prima vergine e le sue caratteristiche meccaniche si deteriorano notevolmente a partire dal terzo ciclo di recupero, anche se è possibile in alcuni casi specifici spingersi a ricicli superiori alle tre volte. Occorre tuttavia rilevare qualche caso di eccellenza riferibile all'attività di alcune aziende quali la Cobea di Bergamo e la Ecoselecta che opera in Trentino-Alto Adige e che si stanno sempre


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più imponendo sul mercato per il riciclo delle plastiche nel settore del PET e di altri polimeri plastici. La Ecoselecta, peraltro, ha vinto un progetto Life della Comunità europea in materia di riciclo.In alcuni casi, può essere economicamente più profittevole in tema di rapporto costi/benefici, l'avvio dei materiali plastici alla termodistruzione con recupero energetico. Occorre però ricordare che proprio per tali materiali, in ogni caso contenenti significative percentuali di cloro, la combustione determina i maggiori problemi ambientali e sanitari in rapporto alle già ricordate condizioni medie del nostro parco di inceneritori. Ritardi sensibili si osservano anche nel settore della raccolta differenziata delle frazioni secche ed umide dei rifiuti solidi urbani e dell'impiantistica esistente ad esso correlata, in alcuni casi obsoleta e che, di là dai valori previsti dalla normativa, si attesta mediamente al 14% a livello nazionale. Un dato preoccupante da segnalare e che non facilità di certo il consenso delle popolazioni alla installazione di qualsivoglia impianto di trattamento o di recupero di rifiuti è una sorta di ipersensibilità, da qualche tempo ingeneratasi nella popolazione che vive anche in realtà urbane o suburbane degradate. Si tratta di una vera e propria sindrome Nimby (Not in my backyard) che esaspera gli animi, non aiuta e incoraggia l'imprenditoria e favorisce i lucrosi affari della malavita organizzata. Il caso eclatante della Campania di questi giorni è sotto gli occhi di tutti, dove, in molte situazioni, gli amministratori -sindaci in testa- hanno addirittura respinto la localizzazione in aree industriali di impianti di vagliatura e di compostaggio, a basso impatto ambientale, e, in ogni caso, necessari per evitare di trasformare la crisi dei rifiuti in emergenza sanitaria. Il confronto con i Paesi nord europei ci vede, al momento e per quanto sopra detto, perdenti non solo in riferimento alla quantità degli impianti in esercizio ma anche alla qualità tecnologica. Non appare diversa la situazione per ciò che riguarda le tecnologie di bonifica dei siti contaminati in quanto, oltre ai ritardi accumulati nella emanazione della norma attuativa, si registra ancora un basso interesse da parte della imprenditoria nostrana. Non è difficile infatti vedere all'opera aziende straniere (europee e americane) che per tempo hanno sviluppato tecnologie in situ, on site ed off site in grado di soddisfare tutte le esigenze delle imprese chiamate a bonificare i propri siti. La contaminazione dei suoli e dei sottosuoli peraltro, nel nostro Paese, è assai diffusa. Almeno 15 siti sono stati dichiarati di importanza nazionale e quindi i relativi progetti di bonifica sono avocati a sè dal Ministero dell'ambiente (che, a fronte di un primo finanziamento di circa 560 miliardi con la legge n. 426/98 ha stanziato con l'ultima manovra finanziaria un ulteriore finanziamento di circa 500 miliardi) presso il quale solo ora, a seguito dell'ultima legge finanziaria, si sta formando una commissione di esperti per valutarli. I grandi siti contaminati sono quelli di aziende come l'Enichem di Porto Marghera, di Priolo, di Gela, di Brindisi, come l'Acna di Cengio, come altri siti della costiera domiziana compromessi dagli interramenti abusivi di rifiuti pericolosi, come gli impianti di Bagnoli etc. A questi «grandi» siti contaminati occorre aggiungere quelli derivanti dai censimenti ai senso del decreto del ministero dell'Ambiente del 16 maggio 1989 e quelli assai diffusi e derivanti dalla dismissione dei


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serbatoi interrati del settore petrolifero della distribuzione e vendita di carburanti. In tale settore, infatti, sono previsti almeno 25000 interventi per il prossimo futuro. In conclusione si deve constatare che il sistema Italia è in forte ritardo nel settore dello smaltimento e dell'impiantistica ad esso correlata, mostra forti dipendenze dalle tecnologie straniere, anche se all'orizzonte cominciano a profilarsi iniziative di privati e degli Enti di ricerca in grado di mettere a disposizione impianti e innovazioni tecnologiche.

CAPITOLO I

4.1 LE TECNOLOGIE DEL CICLO DEI RIFIUTI

LA NORMATIVA NAZIONALE SULLA GESTIONE DEI RIFIUTI.

Tutte le operazioni di impianto relative allo smaltimento e al recupero dei rifiuti, nonché quelle relative alla bonifica dei siti contaminati sono regolate, per ciò che riguarda le autorizzazioni e/o le comunicazioni, dal decreto legislativo 5 febbraio 1997, n. 22. Infatti, all'articolo 27 dello stesso, si fa riferimento esplicito «alla approvazione del progetto degli impianti di smaltimento e di recupero dei rifiuti». L'articolo 28 tratta invece della «autorizzazione all'esercizio di smaltimento e recupero», mentre l'articolo29 è relativo «all'autorizzazione di impianti di ricerca e sperimentazione». L'articolo 33 regolamenta inoltre le operazioni di recupero, mentre il decreto del Ministero dell'Ambiente del 5 febbraio 1998 si riferisce alle norme tecniche per il recupero dei rifiuti non pericolosi come materiali con procedure semplificate. La deliberazione del Comitato interministeriale del 27 luglio 1984, ancora vigente, contiene le disposizioni per la prima applicazione dell'articolo 4 del decreto del Presidente della Repubblica 10 settembre 1982 n. 915 e concerne lo smaltimento dei rifiuti. La Commissione deve rilevare che l'attuale ricorso alla disciplina attuativa del 1984 sopra specificato, oltre che incompatibile con i dettami e le finalità del decreto legislativo n. 22/97, potrebbe altresì causare dei pregiudizi per l'ambiente e la salute pubblica. Infatti va evidenziato che il decreto legislativo n. 22/97 ha ampliato le classi di pericolosità dei rifiuti dalle due previste dal decreto del Presidente della Repubblican. 915/82 (tossicità e nocività) alle 14 attuali, tra cui vanno certamente ricompresi rifiuti, quali per esempio, i fanghi di alchilazione, le sode esauste ed altri. Per tali rifiuti è fatto oggi divieto di smaltimento secondo i criteri e le concentrazioni imposti dall'allegato A del decreto del Presidente della Repubblica n. 915/82, cui la deliberazione del 27.7.84 fa riferimento. Né d'altra parte appare corretto il ricorso al sistema dei codici CER in questo specifico settore perché, per un verso quei codici rispondono a criteri e finalità ben diversi (criteri definiti dalle norme sull'etichettatura), per l'altro, proprio quel codice contiene in sé l'indicazione della natura pericolosa del rifiuto. Si rende pertanto necessario un intervento deciso del Governo per


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colmare la contraddizione insita nel sistema, attraverso l'emanazione della norma di attuazione prevista. Ciò anche al fine di consentire la possibilità di controlli univoci nel settore. In attesa dell'auspicato intervento normativo di cui sopra, la Commissione ritiene opportuno evidenziare come l'utilizzo di tecnologie di trattamento e recupero dei rifiuti consentirebbe, se applicato correttamente, quantomeno di minimizzare gli effetti pregiudizievoli causati dal ricorso alla vecchia normativa. Va inoltre evidenziato che, relativamente alle disposizioni generali dettate dal Decreto legislativo n. 22/97, sono vigenti anche le norme seguenti norme integrative:
DM 19 novembre 1997 n. 503 « Regolamento recante norme per l'attuazione delle direttive 89/369/CEE e 89/429/CEE , concernenti la prevenzione dell'inquinamento atmosferico provocato dagli impianti di incenerimento dei rifiuti urbani e la disciplina delle emissioni e delle condizioni di combustione degli impianti di incenerimento di rifiuti urbani, di rifiuti speciali non pericolosi, nonché di taluni rifiuti sanitari»
DM 20 novembre 1997 n. 476 « Regolamento recante norme per il recepimento delle direttive 91/157/CEE e 93/68/CEE in materia di pile ed accumulatori contenenti sostanze pericolose»
Decreto legislativo 22 maggio 1999 n. 209 « Attuazione della direttiva 96/59/CE relativa allo smaltimento dei policlorodifenili e dei policlorotrifenili (PCB/PCT)»
DM n. 124 del 25 febbraio 2000 « Regolamento recante i valori limite di emissione e le norme tecniche riguardanti le caratteristiche e le condizioni di esercizio degli impianti di incenerimento e coincenerimento dei rifiuti pericolosi in attuazione della direttiva 94//67//CE ai sensi del decreto del Presidente della Repubblica 24/05/88 n. 203 e del Decereto legislativo n. 22/97».

LE CINQUE R: RIDUZIONE ALL'ORIGINE, RIUSO, RECUPERO DI MATERIALI, RICICLO DI MATERIALI, RICICLO DI ENERGIA.

La regola delle 5 R è il principo cardine su cui si basa il nuovo sistema gestionale dei rifiuti.Come si è visto in premessa, l'emanazione del decreto legislativo n. 22 del 5 febbraio 1997 prevede un cambiamento di rotta nel settore dei rifiuti in quanto si passa dalla filosofia dello smaltimento del rifiuto a perdere a quella del «rifiuto da recuperare» come materiale o energia attraverso una gestione integrata che permetta la realizzazione dei principi dello sviluppo sostenibile. L'obiettivo di tale gestione integrata è quello di realizzare una riduzione a monte della quantità e della pericolosità dei rifiuti, di aumentare la quota parte destinata al riciclo dei materiali (carta, plastica, vetro, metalli) nelle filiere partendo dalla raccolta differenziata dei rifiuti solidi urbani, di favorire la termodistruzione con recupero di energia dai materiali non riciclabili recependo nel contempo le direttive CEE 89/1369, 89/429 e 94/67 sull'incenerimento e di destinare solo una quota residuale alle discariche controllate che dovranno accogliere solo rifiuti inerti o resi inerti.


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a) Riduzione all'origine.
Significa produrre meno rifiuti sia in termini volumetrici che quantitativi. Si può realizzare con la modifica delle lavorazioni, scegliendo opportunamente le materie prime, realizzando l'ottimizzazione dei cicli di produzione. In tal modo per es, si possono produrre contenitori di plastica più leggeri ma egualmente resistenti meccanicamente, realizzati con polimeri a minor impatto ambientale (es plastica realizzata con PET, polietilen-tereftalato, anzichè con PVC, polivinil-cloruro. Si possono produrre in sostanza imballaggi meno voluminosi , più leggeri, più facili da riciclare.

b) Riuso
Riscoprire le buone abitudini di una volta, quando la bottiglia del latte per es.veniva restituita al lattaio, lavata, sterilizzata e riempita nuovamente e ciò per tantissime volte. Il concetto dei contenitori riutilizzabili per i detersivi liquidi e solidi, per gli oli lubrificanti, per tanti altri beni anche alimentari, fatte salve le norme igienico-sanitarie, sta nuovamente facendosi strada in Europa. La buona pratica dei «dispensers» significa in fondo andare a rifornirsi di prodotti distribuiti da grossi contenitori nei supermercati o in genere nei sistemi di grande distribuzione utilizzando sempre lo stesso contenitore fino al termine del suo ciclo naturale di vita. Quindi è come rifornirsi di prodotti «alla spina» utilizzando sempre lo stesso contenitore pulito : così facendo spariranno tutti i contenitori intermedi e le confezioni più varie e quindi notevoli quantità di rifiuti.

c) Recupero dei materiali.
Viene realizzato con le cosiddette «raccolte differenziate». I rifiuti solidi urbani possono essere già separati in casa per singole tipologie immessi in appositi contenitori di vario colore per la plastica, carta, vetro, metalli, frazione umida etc e conferiti quindi in piattaforme attrezzate dalle autorità comunali oppure essere raccolti in casa per frazione secca(carta, plastica, vetro, metallo) e frazione umida e conferiti a cassonetti per multimateriale(secca) e frazione umida. O ancora conferiti tal quali in cassonetti verdi con separazione a valle da parte di appositi impianti di cernita e separazione realizzati dai Comuni o da consorzi misti (pubblico-privato)

d) Riciclo dei materiali.
Le frazioni secche vengono avviate ad impianti di riciclo (le cosiddette filiere) in cui la carta, la plastica, il vetro, il metallo, il legno vengono rilavorati ossia immessi in un ciclo produttivo (riciclaggio) che li trasforma nuovamente in materiali riutilizzabili. La frazione umida è invece avviata agli impianti di compostaggio per ottenere compost da riutilizzare per ripristini ambientali ( es.riempimenti di cave abbandonate ) se ottenuto dai rifiuti tal quali o come ammendante agricolo nei terreni o come fertilizzante se ottenuto da frazioni organiche selezionate (es. sfalci di giardini, residui verdi da mercatali etc).


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Il nostro Paese, tradizionalmente povero di materie prime, ha da tempo sviluppato tecnologie e tecniche di riciclaggio delle materie residuali dai cicli produttivi per mezzo di una serie di circuiti di raccolta e di valorizzazione dei rifiuti. Tali sistemi di recupero sono stati, ed in parte lo sono ancora, legati all'attività di singoli soggetti sia nelle fasi di raccolta, che in quelle di selezione, trattamento, commercializzazione e reimpiego. A seguito della emanazione del decreto legislativo n. 22 del 5 febbraio 1997, si è costituito il Consorzio Nazionale Imballaggi (CONAI) ai sensi dell'articolo 41 dello stesso decreto. Il CONAI opera utilizzando l'esistenza dei circuiti già attivi di cui sopra, integrandosi e inserendosi nelle strutture esistenti con il compito di adempiere alla raccolta dei rifiuti da imballaggio e per garantire il raccordo con l'attività di raccolta differenziata (frazioni secche e d umide) dei rifiuti raccolti dalla Pubblica Amministrazione (Comuni). Il CONAI e i sei Consorzi hanno, rispetto ai tradizionali circuiti di raccolta e valorizzazione, una peculiarità che consiste nel profilo istituzionale del sistema Conai-Consorzi di filiera che, per legge è costituito dai produttori e dagli utilizzatori di imballaggi secondo il principio della «responsabilità condivisa». Vale però la pena notare che, il decollo del Consorzio Nazionale Imballaggi è avvenuto dopo che con la legge n. 426/98 si è stabilita l'obbligatorietà dell'adesione al CONAI, peraltro su indicazione stessa del sistema delle imprese. La normativa ha fissato obiettivi di recupero e di riciclaggio. I sei Consorzi per il recupero e riciclo sono il CNA (acciaio), alluminio (CIAL), la carta (Comieco), il legno (Rilegno), la plastica (Corepla), il vetro (Coreve). Occorre tenere presente che il riciclo, indicato all'interno dell'attività di recupero dal decreto legislativo n. 22/97, è da intendersi come l'insieme delle attività e delle operazioni che, a partire dalla selezione e dal trattamento dei rifiuti raccolti, comportano l'impiego della materia prima secondaria attraverso i processi di riciclaggio. Il riciclaggio invece è da intendersi come un processo di produzione in cui vengono utilizzati i rifiuti come materia prima per ottenere un nuovo prodotto finito. In tal senso sui parla di processi di riciclaggio. Va quindi chiarito che vi sono due filoni industriali: uno è quello dell'industria del riciclo in senso stretto che si riferisce ai processi di riciclaggio in cui la materia prima seconda, per come sopra detto, è trasformata in un nuovo prodotto finito (che quindi esclude tutte le fasi a monte di tale processo: quelle, per esempio, svolte dagli operatori che esercitano attività di raccolta e selezione) e un altro che attiene all'industria del riciclo in senso più ampio che si riferisce alle attività successive alla raccolta che vanno dalla selezione, al trasporto, al trattamento, finalizzate alle operazioni di riciclaggio ed in più ai processi di riciclaggio in senso proprio. Con l'intenzione di rendere chiara la presentazione dei dati, si è costruito un modello che raffigura anno per anno i quantitativi di imballaggi post-consumo avviati a recupero e riciclo. La suddivisione in Tabelle, riportate in allegato, mantiene il criterio, adottato dal CONAI, di distinguere tra i diversi flussi di provenienza, per arrivare ai quantitativi di recupero complessivo:
Rifiuti di imballaggio riciclati provenienti da servizio pubblico (rientranti nella privativa comunale).


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Rifiuti di imballaggio riciclati provenienti da superfici private.
Rifiuti di imballaggi avviati a recupero energetico.
Rifiuti di imballaggi recuperati complessivamente.

Tutti i quantitativi riportati nelle Tabelle dell'allegato ed inerenti il riciclo si intendono al netto degli scarti e delle impurità eventualmente presenti in fase di raccolta. Si tratta di dati consolidati fino al 1998 -1999 e delle proiezioni al 2002, nella ipotesi che il trend di crescita sia proporzianale ad una maggiore interiorizzazione dei principi dello sviluppo sostenibile da parte di tutti i soggetti coinvolti. L'analisi delle tabelle cui si è fatto riferimento precedentemente, evidenzia un trend di crescita annuale significativo e costante. Appare importante sottolineare come, nel caso di due materiali (alluminio e vetro), il raggiungimento degli obiettivi complessivi di recupero sia attuato attraverso il riciclo di materiale proveniente da raccolte urbane. La seconda componente del recupero prevista dalla normativa è costituita dal recupero energetico effettuato negli impianti presenti sul territorio nazionale. Lo sviluppo, considerato nel corso degli anni a venire, risulta essere congruente con quello ipotizzato dai diversi attori del sistema in merito alle previsioni di messa in funzione di nuovi impianti dedicati alla termovalorizzazione del rifiuto urbano tal quale e alla costruzione di impianti dedicati alla trasformazione del rifiuto in combustibile derivato da rifiuti (C.D.R.). Con l'implementazione operativa dell'accordo quadro ANCI-CONAI, relativo al materiale raccolto su superficie pubblica, le prospettive di sviluppo sono contraddistinte da una fase di decollo significativo dell'intero sistema. È opportuno ora fare alcune considerazioni filiera per filiera, dello stato dell'arte e del posizionamento dell'industria italiana nel più generale contesto internazionale.

La filiera dell'acciaio.

L'acciaio rappresenta uno dei materiali maggiormente impiegati nei più svariati campi e settori produttivi, tra i quali, quello degli imballaggi. Per le sue caratteristiche presenta la possibilità di essere agevolmente riciclato, vale a dire reimpiegato nei processi di produzione come materia prima secondaria nelle acciaierie e nelle fonderie, assicurando in tale modo anche un risparmio energetico rispetto ai processi produttivi basati sulla trasformazione del minerale.Paese notoriamente povero di giacimenti minerari, l'Italia ha saputo sviluppare una industria siderurgica elettrica tra le più avanzate ed efficienti al mondo sfruttando come fonte di materia prima proprio i rottami di metalli ferrosi.Nel 1998 l'industria siderurgica nazionale ha movimentato più di 15 milioni di tonnellate di rottame di ferro, di cui circa 10,1 milioni di tonnellate di provenienza domestica e quasi 5 di importazione estera. Il riciclaggio vero e proprio, vale a dire il reimpiego del materiale ottenuto dagli imballaggi ferrosi domestici o industriali raccolti, avviene presso acciaierie o fonderie con le quali il CNA stipula accordi commerciali diretti.Confrontando la siderurgia nazionale con quella dei partner europei e dei principali produttori mondiali di acciaio è possibile


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evidenziare come l'industria nazionale presenti una potenzialità di movimentazione dei rottami di ferro assolutamente superiore alla media europea e di gran lunga più elevata di quella dei maggiori produttori mondiali di acciaio (USA, Russia, Giappone e Cina).La leadership nazionale nell'impiego di tecnologie di riciclo nel settore siderurgico sì conferma anche a livello mondiale, dove nessuno dei maggiori Paesi produttori possiede una specializzazione analoga a quella italiana. Le tabelle 8, 9 e 10, mostrano rispettivamente, un bilancio quantitativo dei rottami di provenienza nazionale ed estera, il ricilaggio degli imballaggi in acciaio, ed un confronto a livello internazionale tra i processi di produzione in Europa e nei principali Paesi, riferito al 1998.

La filiera dell'alluminio.

Il riciclo dei manufatti di alluminio ha da sempre rappresentato una attività redditizia e diffusamente praticata, per le caratteristiche del materiale che ne consentono un reimpiego pressoché infinito, e per le economie che permette di conseguire. Poiché la composizione chimica dell'alluminio rimane inalterata durante le rifusione, il reimpiego si presenta infatti privo di significative problematiche. La rifusione dei rottami dei rottami di allumino consente inoltre di risparmiare circa il 95% dell'energia altrimenti richiesta per ottenere un equivalente quantitativo di alluminio primario dalla bauxite. L'industria nazionale ha impiegato nel 1998 circa 785.000 t di rottami di alluminio di provenienza nazionale ed estera (vedi Tabella 11, riferita al 1998) , a fronte di un consumo complessivo di alluminio primario (ottenuto dal minerale) e secondario (ottenuto dalla rifusione di rottami) di circa 1.540.000 t (Tabella 12).Sulla base di questi dati si può notare come più del 50% del consumo nazionale di alluminio venga soddisfatto da rottami di provenienza nazionale ed estera. Gli imballaggi hanno rappresentato nel 1998 circa il 2,8% dei rottami di raccolta domestica complessivamente riciclati. Le Tabelle 13 e 14, riportano rispettivamenete, il reimpiego dei rottami di alluminio per il 1998 e la produzione di alluminio secondario nei principali Paesi europei.

La filiera della carta.

Per avere un quadro completo dell'utilizzo di carta e cartone da macero nell'industria cartaria è necessario considerare, oltre ai quantitativi di rifiuti di imballaggio raccolti ed avviati a processi di riciclaggio, anche le dinamiche import/export ed i quantitativi di rifiuti cellulosici non di imballaggio raccolti e riciclati. Analizzando la tipologia e la provenienza del macero utilizzato dall'industria cartaria nazionale (vedi Tabelle 15 e 16, riferite al 1998) risulta evidente come la maggior parte delle importazioni provenga dalla raccolta differenziata estera (importazioni di macero post-consumo), mentre la maggiore incidenza relativa sia rappresentata dalle importazioni di maceri di qualità superiore, evidenziando una certa dipendenza del Paese rispetto a tali flussi di importazione. La raccolta nazionale di carte e cartoni provenienti dall'industria e dal


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commercio (macero di qualità A4, A5, A6 e qualità D), di cui la quota di imballaggi rappresenta circa il 75% sembra invece essere il «canale» interno che presenta la maggiore capacità di raccolta.Per quanto concerne l'identificazione dei settori merceologici in cui avviene il reimpiego della carta e cartone da macero diprovenienza nazionale ed estera (vedi Tabella 17), le stime fornite da Assocarta elaborando i dati Istat evidenziano come il comparto in cui maggiormente si concentra l'attività di riciclo sia quello della carta e del cartone per imballaggi, che raggiunge un tasso di utilizzo di macero prossimo alla saturazione (92,4% nel 1998), posto che non è possibile, per ragioni tecniche ed in parte normative, impiegare solo fibra secondaria nei cicli di trasformazione. I settori della produzione di carte per usi igienico-sanitari e per usi grafico-editoriali presentano invece margini di incremento dell'utilizzo di materia prima secondaria.In riferimento al raggiungimento del complessivo obiettivo di recupero degli imballaggi cellulosici, i risultati conseguiti nel corso del biennio 1997-1998 sono riportati in Tabella 18. I dati riferiti agli anni 1997-1998 sono ricostruiti sulla base di stime effettuate sui quantitativi accertati, mentre quelli riferibili al 1999 riguardano stime e previsioni del centro studi di Comieco. Confrontando l'industria cartaria italiana con gli analoghi settori produttivi dei partner europei (vedi Tabella 19 che riporta i dati riferiti al 1998) è possibile notare come il nostro Paese sia ancora abbastanza dipendente dall'estero per gli approvvigionamenti di carta e cartone da macero, ed una raccolta nazionale insufficiente a soddisfare la elevata richiesta dell'industria cartaria, benché rispetto al passato la quota di importazioni stia annualmente riducendosi a fronte di un incremento della raccolta interna, per la quale si ritiene esistano significativi margini di miglioramento stimabili nell'ordine delle 650.000 t di incremento della raccolta differenziata.

La filiera della plastica.

Per quanto concerne l'individuazione dei canali specifici di raccolta dei rifiuti di imballaggio in materiale plastico, la Tabella 20, evidenzia i due principali circuiti: quello della raccolta differenziata urbana (raccolta da superfici pubbliche) e quello della raccolta di imballaggi da superfici private effettuata da operatori indipendenti dal Consorzio.Le rilevazioni di cui alla tabella 20, si basano sui censimenti effettuati annualmente da Unionplast presso i riciclatori di materie plastiche e sulle relative autocertificazioni. La stessa Unionplast stima comunque che il dato sia approssimato per difetto almeno del 10% a causa della carenza di informazioni rispetto ad alcune imprese. Sulla base dei quantitativi riportati è possibile evidenziare come nel 1999 siano state riciclate in Italia almeno 821.000 tonnellate di materie plastiche, 762.640 nel 1998 e 684.228 nel 1997, con un incremento nel 1999 del 7,6% rispetto all'anno precedente. Di queste 820.752 tonnellate riciclate dall'industria nazionale, circa il 71% deriva da raccolte interne ed il 29% ha invece provenienza estera. I dati mostrano inoltre una costante, per quanto limitata, riduzione delle importazioni, frutto di una raccolta interna più significativa. Rapportata al consumo interno di materie plastiche,


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invece, l'incidenza dell'impiego di plastiche riciclate ammonta al 12,51% nel 1999, al 12,41% nel 1998 ed all'11,55% nel 1997, ricordando che per le ragioni sopraesposte i dati appaiono sicuramente sottostimati. L'impiego di materie plastiche riciclate -vedi Tabella 21- presenta inoltre un andamento crescente nel tempo, ed un valore che evidenzia il ruolo non marginale del comparto rispetto ai canali di approvvigionamento di materiali vergini. Con riferimento al raggiungimento dei complessivi obiettivi di recupero e riciclaggio fissati dal decreto Ronchi, i risultati conseguiti nel biennio 1998-1999 sono riportati nella Tabella 22. I dati sono ricostruiti sulla base dei quantitativi accertati, mentre i quantitativi per il 2000 riguardano stime verosimili dei risultati conseguibili, anche alla luce dei nuovi canali di raccolta ed intercettazione dei flussi attivati o da attivare nel corso dell'anno. I quantitativi 1999 gestiti non da Co.Re.Pla., vale a dire da operatori privati, sono invece pre-consuntivi soggetti ad eventuale revisione in occasione delle rilevazioni definitive. Per definire la dimensione dell'industria europea del riciclo di materie plastiche, i dati proposti da APME (Association of Plastics Manufacturers in Europe) riportano un quantitativo di circa 6.000.000 di tonnellate di materie plastiche riciclate nell'Europa occidentale, di cui 2,5 milioni riconducibili al cosiddetto «in-house production scrap recycling», vale a dire ciò che comunemente viene definito autoriciclo e che tendenzialmente viene escluso dall'ambito d'analisi del presente rapporto, mentre ammonta ad 1,9 milioni di tonnellate il riciclaggio dei rifiuti plastici pre-consumo (production waste for recycling), e ad 1.8 milioni di tonnellate quello dei rifiuti post-consumo (post-user waste material). Analoghe rilevazioni condotte dall'AMI (Applied Market Information) stimano invece il riciclaggio dei rifiuti in plastica nell'Europa occidentale in circa 1,4 milioni di tonnellate nel 1997. Nell'ambito di questo scenario, ed alla luce di dati quantitativi disponibili limitati e comunque in parte contraddittori, l'Olanda è considerata la maggiore importatrice e riciclatrice di rifiuti plastici post-consumo, seguita da Gran Bretagna e Svizzera, mentre è la Germania la maggiore esportatrice europea di rifiuti plastici, seguita dall'Austria.In termini di numero di aziende riciclatrici è ancora netto il ruolo di leadership della Germania, che annovera circa il 32% degli operatori europei del settore, benché l'Italia si posizioni al secondo posto con il 18%, seguita da Gran Bretagna/Irlanda (12%), da Belgio/Lussemburgo (10%) e dalla Francia (10%).Anche da un punto di vista tecnologico l'esperienza tedesca in materia di riciclaggio delle materie plastiche presenta specificità e tecnologie ancora poco diffuse a livello internazionale, quale ad esempio il procedimento cosiddetto di «riciclo chimico» o feedstock recycling. Le potenzialità di tale sistema risiedono essenzialmente nella possibilità di scomporre, attraverso processi di natura chimica (termica e/o catalitica), i rifiuti di materiali plastici nei polimeri che li costituiscono, per poi effettuare una successiva «ricomposizione» degli stessi in tutta una serie di prodotti di sintesi utilizzabili nell'industria petrolchimica. Tale procedimento risulta per il momento diffuso soprattutto in Germania, Francia e Stati Uniti, tanto che lo stesso Co.Re.Pla. ha progettato di avviare alcune sperimentazioni attraverso


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l'invio di rifiuti di materiale plastico presso riciclatori esteri al fine di verificare le potenzialità del sistema.

La filiera del legno.

L'utilizzo di rifiuti e rottami di legno nei cicli produttivi dell'industria nazionale del mobile e dell'arredo rappresenta, fino dagli anni '50-'60, una esigenza ed una necessità, vista la scarsa rilevanza delle risorse boschive del Paese. In modo particolare, i rifiuti ed i rottami di legno sono quasi esclusivamente assorbiti dalla produzione di agglomerati lignei (pannelli truciolari). In questo specifico settore, l'Italia ha sviluppato competenze e tecnologie di livello mondiale.Le fonti stimano il quantitativo totale di rifiuti di legno riciclati nella produzione di manufatti lignei (essenzialmente truciolari) in circa 2 milioni di tonnellate nel 1999, a fronte di una produzione di circa 3 milioni di tonnellate di manufatti. Il tasso di riciclo sulla produzione raggiunge quindi circa il 67%, vale a dire che circa i 2/3 della produzione nazionale di pannelli truciolari avviene utilizzando rifiuti di varie fonti e provenienze. a restante parte, circa 1 milione di tonnellate del fabbisogno di acquisto del comparto, è coperta attraverso l'utilizzo del cosiddetto «bosco», vale a dire rottami di legno provenienti generalmente dalle attività di manutenzione forestale che, ai sensi normativi, non rientrano nella categoria di rifiuto. Per quanto concerne i canali di approvvigionamento e provenienza del legno utilizzato, questi sono essenzialmente rappresentati, per il 70% (circa 1,5 milioni di tonnellate), da rifiuti di legno di raccolta nazionale e, per la restante parte, circa 500-600.000 tonnellate, da importazioni. Con riferimento ai circuiti di raccolta dei rifiuti, ed agli obiettivi di recupero e riciclaggio fissati dalla normativa, la tabella seguente evidenzia la situazione nello specifico.Sulla base della scelta gestionale del Consorzio di prevedere ed incentivare soprattutto l'utilizzo dei rottami di legno come materia prima secondaria, l'opzione prioritaria presa in considerazione per il raggiungimento degli obiettivi fissati dal Decreto Ronchi è essenzialmente quella del riciclaggio. Benché praticabile la via della valorizzazione energetica è considerata non solo residuale, ma il Consorzio non fornisce al proposito dati quantitativi sui quali calcolare gli obiettivi di recupero. Allo stesso modo, non vengono prese in considerazione, ai fini degli obiettivi da raggiungere, le ulteriori opzioni di recupero di materia rappresentate dall'impiego dei rottami nella produzione di pasta di cellulosa per cartiere o compostaggio. Per riciclaggio si intende quindi avvio dei rifiuti raccolti alla produzione di manufatti lignei. Per quanto concerne la quantificazione dei flussi complessivi di imballaggi in legno immessi sul mercato negli anni 1997, 1998 e 1999, la tabella 7.20 ne evidenza il dettaglio.I dati relativi al riciclo del legno, come si può notare dalle Tabelle 23 e 24 si riferiscono a stime dell'Istituto Italiano Imballaggi per gli anni 1997, e del Conai per gli anni 1998 e 1999.

La filiera del vetro.

Nonostante l'industria vetraria nazionale dipenda largamente, per quanto riguarda la disponibilità di rottame di vetro, dal circuito di


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raccolta dei rifiuti di imballaggio, per avere un quadro complessivo è necessario considerare anche le dinamiche import/export ed i rottami non di imballaggio raccolti e riciclati. L'industria nazionale del vetro cavo ha utilizzato infatti annualmente, nel triennio assunto come riferimento, rottami di vetro «pronto al forno» per un quantitativo di più di 1.000.000 di tonnellate (Vedi Tabella 25), con una crescita contenuta ma costante in relazione all'aumento della raccolta domestica. Di questi quantitativi, più del 70% sono rappresentati da rifiuti di imballaggio di provenienza nazionale. A differenza di altri materiali ed altri settori, quindi, per i quali la raccolta ed il riciclaggio degli imballaggi rappresentano una frazione modesta delle materie prime secondarie complessivamente movimentate (si pensi al caso dell'alluminio o, soprattutto, dell'acciaio), il comparto del vetro cavo costituisce un esempio in cui l'incidenza del recupero di materia secondaria da imballaggi determina un rilevante impatto sul totale della produzione nazionale. La restante parte del fabbisogno di rottami dell'industria è stato coperto attraverso il canale delle importazioni ed attraverso la raccolta di rottami differenti dagli imballaggi, quali ad esempio rottami di vetro piano e vetri per auto. Per quanto concerne il grado di raggiungimento degli obiettivi fissati dal decreto Ronchi, la Tabella 26, permette di valutare come il tasso di riciclaggio abbia raggiunto nel 1999 il valore del 35,6%, distante dall'obiettivo di recupero complessivo del 50%, ma ampiamente superiore rispetto al traguardo del 25% di recupero di materia.

Il compostaggio.

Il compostaggio consiste in un processo biologico aerobico con il quale la componente organica del rifiuto solido urbano, detta anche frazione umida, da sola o insieme ai fanghi di depurazione delle acque civili, viene trasformata in un prodotto con caratteristiche di ammendante dei terreni, dopo maturazione in impianti idonei. La tecnologia in tale campo ha registrato numerosi progressi negli ultimi anni ed ora il «sistema Italia» , pur dipendendo ancora dall'estero per il compost di qualità, si avvia a percorrere la strada del compostaggio con sempre maggiore convinzione. Gli esempi sul territorio nazionale, per come risulta alla Commissione, si riferiscono generalmente ad impianti di compostaggio della frazione umida da rsu tal quali come quello di Colfelice nel Lazio, di Sambatello a Reggio Calabria, del Consorzio Milano pulita di Segrate (MI) Segrate, di Udine, di Tempio Pausania, Perugia. Sono però in fase di programmazione e realizzazione, sul territorio nazionale, impianti che utilizzano la frazione umida dei mercatali, in grado di produrre compost di qualità e di garantire una minore dipendenza dalle importazioni.

Recupero di energia.

Tutti quei materiali che, pur attuando la raccolta differenziata, non possono essere riciclati e che comunque costituiscono ancora una buona percentuale utilizzabile, vengono avviati ad impianti di


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termovalorizzazione per il recupero di energia che verrà utilizzata per produrre vapore o energia elettrica. In tal caso il materiale di alimentazione degli impianti, viene chiamato CDR, ossia combustibile derivato dai rifiuti, ha un suo potere calorifico e una precisa composizione prevista e fissata per legge. Tale CDR è preparato in appositi impianti in cui viene vagliato, selezionato, triturato, omogeneizzato e ridotto sotto forma di cilindretti a basso contenuto di umidità o in forma «coriandolata». Accanto alla voce del recupero di energia attraverso la termovalorizzazione va considerato, nell'ambito dei bilanci energetici anche il recupero di energia assicurato nella forma di risparmio dovuto al riciclaggio e al recupero dei materiali raccolti in maniera differenziata, un risparmio dovuto alla minore energia utilizzata nella produzione dei materiali attraverso il riciclaggio ed il recupero rispetto a quella che si dovrebbe spendere per la produzione ex novo degli stessi materiali.

La valorizzazione energetica.

Per termovalorizzazione si intende la termodistruzione con recupero di energia (con produzione di energia elettrica e/o calore utilizzabile per riscaldamento o altri usi).La termovalorizzazione, ossia il trattamento dei rifiuti ad alta temperatura, secondo la normativa vigente, va inquadrata nell'ambito del cosiddetto «sistema integrato di gestione dei rifiuti» in linea con le direttive comunitarie. La termovalorizzazione, non solo consente di ridurre drasticamente il volume dei rifiuti da conferire in discarica, di smaltire più facilmente i residui della combustione ma anche di recuperare quantità consistenti di energia come si può desumere da uno studio effettuato dal Politecnico di Milano nel 1997 (1). La termodistruzione con recupero di energia è anche definita con il termine di «termovalorizzazione». Tante le ragioni che si possono addurre sul ritardo del nostro Paese ad adeguarsi ai principi della gestione integrata dei rifiuti e, tra questi, la già richiamata «sindrome di Seveso» mentre, nell'ultimo decennio, sono state messe a disposizione degli operatori del settore tecnologie ed impianti per la termodistruzione sicuri ed affidabili non solo per i rifiuti solidi urbani ma anche per i rifiuti speciali di origine industriale a prevalente componente organica, come peraltro ha potuto constatare una delegazione della Commissione d'inchiesta sul ciclo dei rifiuti nel corso della visita ad alcuni impianti europei di smaltimento nel mese di settembre del


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2000. Il nuovo modello di gestione integrata quindi deve caratterizzarsi quindi con la centralità del recupero e della valorizzazione delle componenti merceologiche presenti nei rifiuti solidi urbani sia sotto forma di materia che di energia, relegando il ricorso alla discarica solo per quei rifiuti che residuano dal trattamento e che non sono suscettibili di ulteriori valorizzazioni. La strada da percorrere quindi è quella di realizzare e localizzare gli impianti di termovalorizzazione con recupero di energia nell'ambito degli ATO (ambiti territoriali ottimali) che facciano parte integrante di un sistema in cui siano attivate le raccolte differenziate dei RSU e in cui le discariche, asservite ai termodistruttori, ai residui inerti o resi inerti derivanti dal recupero dei materiali, giuochino solo un ruolo marginale: solo cosi il nostro Paese potrà gradualmente avvicinarsi a quegli obiettivi che la norma nazionale ed europea indicano. Come si è visto nel paragrafo dedicato alla discarica, i diversi sistemi di gestione dei rifiuti che vengono praticati nei paesi europei, sono di gran lunga più integrati rispetto a quello nostrano e a quello inglese (che fanno ancora ricorso per almeno l'80% alla discarica) in termini di recupero e termodistruzione. In tali Paesi il ricorso al recupero e alla termodistruzione ha comportato di fatto la riduzione dell'uso della discarica a circa il 60% del totale peso degli RSU. Le strade che si possono percorrere utilizzando la termodistruzione dei rifiuti sono quella della sola produzione di energia elettrica (2) e quella della co-generazione consistente nella produzione di calore e di energia elettrica (3). La scelta dell'una o dell'altra strada può essere dettata o imposta dalla richiesta di calore nell'arco dell'anno. Nel nostro Paese, il ricorso al riscaldamento per usi civili è limitato ad un determinato periodo dell'anno in considerazione delle temperature medie nazionali e pertanto, almeno che non si voglia utilizzare il calore per produrre acqua calda nei periodi di fermata del riscaldamento, alla cogenerazione è di norma preferibile la produzione di energia elettrica più semplice da distribuire utilizzando la


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rete nazionale esistente. Un esempio di teleriscaldamento tramite impianto di cogenerazione da rifiuti è quello della città di Brescia con il quale, in considerazione della temperatura media annuale non rigida, anche d'estate è attiva la rete di distribuzione di acqua calda nelle abitazioni. Uno studio di Federambiente(4) mostra che in Europa sono attivi 270 impianti di termodistruzione in buona parte installati in Danimarca, Francia e Svizzera, di cui buona parte in Svizzera, Danimarca e Francia. In Italia si rileva invece che gli impianti in funzione sono 38, molti dei quali al nord, destinati ad aumentare a circa 70 per aggiunta di quelli in fase di realizzazione.

(1) «Riflessioni sulle strategie per lo smaltimento dei rifiuti in Italia». E. Pedrocchi-Facoltà di Ingegneria del Politecnico di Milano-Aprile 1997.
«Una tonnellata di rifiuti solidi urbani corrisponde a 200 chilogrammi di petrolio, a 250 normal metri cubi di gas naturale, a 600 kilowattora elettrici di energia, a 25 tonnellate di acqua riscaldata da 15oC a 95oC. Considerando che ogni italiano produce circa 0.5 tonnellate di rifiuti solidi urbani all'anno, corrispondenti a circa 300 chilowattora/anno di energia elettrica, ciò significa che tale quantità di rifiuti prodotti in un anno, se valorizzata energeticamente, corrisponde ad un terzo del suo fabbisogno per usi domestici.
(2) E. Pedrocchi- op.cit.
I rendimenti negli impianti di termodistruzione dei rifiuti solidi urbani con produzione di energia elettrica hanno rendimenti bassi in quanto, se si opera a temperature elevate, i fumi mostrano caratteristiche di corrosività sui materiali. Dall'entrata in vigore del Decreto legislativo n. 22/97 è presumibile che tale inconveniente tenderà a ridursi notevolmente man mano che si effettuerà la raccolta differenziata per cui i forni di termodistruzione verranno sempre più alimentati non più con rifiuti solidi urbani tal quali ma con combustibile derivato dai rifiuti (CDR), ossia con frazioni secche a basso tenore di umidità.
(3) E. Pedrocchi- op.cit.
Negli impianti di cogenerazione, generalmente, per ogni chilowattora di energia elettrica prodotta in meno si possono produrre circa 4 chilowattora di energia termica. Le due alternative sono però uguali da un punto di vista termodinamico in quanto il valore termodinamico del calore dipende dal livello termico a cui è fornito. Nel sistema cogenerativo il calore (le quattro unità termiche9 è prodotto a bassa temperatura e quindi il suo valore termodinamico equivale a meno della maggiore produzione di energia elettrica della prima alternativa (1 unità).

La termodistruzione in Italia.

Un rapporto Federambiente del 1998 (4) riporta un quadro assai aggiornato della situazione nazionale dei termodistruttori e confronta i dati con il rapporto Anpa del 1998 con studi del 1995 effettuati da Ausitra e Assoambiente, con una ricerca Anida del 1997, con un rapporto Federambiente-Amia Verona del 1995 e con una ricerca Enea del 1995. Risulta dal rapporto che il parco nazionale dei termodistruttori di rsu è costituito da 60 impianti di cui il 68% operativi (41 impianti), il 23.3% ( ossia 14 impianti non ancora in esercizio e progettati o in fase avanzata di costruzione), 8.3% sono temporaneamente inattivi (5 impianti).Le tecnologie di combustione utilizzate dicono che il 70% degli impianti (ossia 42 impianti) sono con forni a griglia, che 11.7% sono a tamburo rotante (7 impianti), 13.3 a letto fluido (8 impianti) e 5% (3 impianti) sono gassificatori. Sul totale impianti in esercizio vi è da rilevare che quelli aderenti a Federambiente sono il 78%. La percentuale si alza al 85% se si considerano gli impianti che al momento sono attivi. La distribuzione geografica degli impianti Federambiente mostra una netta prevalenza del Nord Italia con il 75% , una presenza del 20% al Centro e una trascurabile presenza al sud (intorno al 2%).

(4) Federambiente:
Impianti di smaltimento, analisi sui termocombustori - Roma, 1995.
Impianti di smaltimento, analisi sui termocombustori di rsu - Roma, 1998.

Dei 41 impianti di termodistruzione operativi molti sono stati costruiti negli anni settanta e soltanto 7 dopo il 1990; 23 impianti hanno subito un processo di revamping tra il 1987 e il 1993. Ciò indica la presenza di un parco inceneritori datato che, nonostante i processi di revamping ,non presenta nel suo complesso sufficienti garanzie di affidabilità rispetto alle emissioni, in particolare per quello che riguarda le temperature di esercizio: è noto infatti che una delle condizioni necessarie per spingere l'abbattimento delle diossine a un livello inferiore a 0.1 nanogrammi/Nmc -livello assicurato dalle migliori tecnologie oggi disponibili- le temperature devono essere adeguatamente elevate (al di sopra dei 1200 oC).
Relativamente ai limiti imposti dalla normativa (D.M 97/503, DM 5 febbraio 1998) per le diossine (0.1 nanogrammi/Nmc), vi è da


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rilevare che solo 8 (il 25 percento) impianti Federambiente già rispettano tali limiti. Nell'ambito di tali impianti si segnalano i termodistruttori di Cremona, Bolzano, Brescia, Busto Arsizio, Roma e Siena. Nel settore della termodistruzione dei rifiuti industriali in Italia vanno menzionati il termodistruttore di Melfi (installato presso la Fiat), quelli interni alle aree Enichem di Porto Marghera, Ferrara, Mantova, quello della società Ecolombardia 4 di Filago (Bergamo) con una potenzialità di 30.000 tonnellate/anno, quello della piattaforma di trattamento rifiuti di Modena, il forno della società Basf di Caronno Pertusella e il recentisimo impianto F3 installato presso Enichem di Ravenna in grado, con le sue moderne tecnologie di trattamento delle emissioni di soddisfare il limiti stringenti dei microinquinanti tra cui le diossine. Tale forno è adatto a bruciare anche prodotti contenenti cloro. Il polo Enichem Ferrara-Ravenna-Porto Marghera, ha una capacità autorizzata di termodistruzione di circa 160.000 tonnellate/anno che si può paragonare a quella di altre realtà europee. Nel corso di un recente sopralluogo della Commissione nella regione Puglia, ha destato una buona impressione il forno rotante per la termodistruzione di rifiuti industriali, in fase di start-up che potrebbe essere utilizzato anche per la distruzione termica delle farine animali, delle carcasse e dei grassi animali, installato nell'area industriale di Brindisi presso il Consorzio Sisri. La potenzialità è di circa 100 tonnellate/giorno e il sistema di abbattimento delle emissioni è costituito da filtri a manica, da assorbitori con carbone attivo in polvere e da un lavaggio acido/base. Le temperature in gioco nella camera di post-combustione, posta a valle della camera di combustione del forno rotante, sono dell'ordine di 1200oC. All'interno delle raffinerie Erg di Siracusa, Api di Falconara, Saras di Sarroch (Cagliari) sono già operativi tre impianti di gassificazione del Tar, residuo pesante derivante dagli impianti di visbreaking e classificato rifiuto pericoloso dalla direttiva comunitaria n. 91/689/CEE al punto 11 Annex 1A e all'allegato D del Decreto legislativo n. 22 del 5 febbraio 1997.Dal processo di gassificazione si ottiene un gas che sottoposto a lavaggio, viene a sua volta bruciato per produrre energia elettrica distribuita nella rete Enel. Un recente censimento dei termodistruttori presenti sul territorio nazionale ( per rifiuti urbani, sanitari, industriali) è stato effettuato dall'Anpa per fare il punto delle potenzialità impiantistiche per distruggere i grassi e le farine animali a seguito della emergena della BSE (mucca pazza).Il censimento ha rilevato la presenza di almeno 99 impianti di incenerimento il 20% dei quali, tuttavia, non è ancora disponibile spesso, per problemi tecnici di adeguamento delle emissioni alle nuove normative. Pur se non compresa nei processi di termodistruzione, vale la pena di ricordare che una nuova tecnologia innovativa si affaccia all'orizzonte ed è quella della «torcia al plasma».
Tale tecnologia ha un impatto sull'ambiente senz'altro positivo ma, in Italia, occorre bene precisarlo, essa è ancora allo stato embrionale di sperimentazione su bassa scala :Infatti un'azienda bolognese la Itea, con la supervisione dell'Enea, sta valutando una torcia Dismo (dissociazione molecolare). Stupisce pertanto la notizia che sul mercato nazionale venga proposto l'utilizzo di tale tecnologia da parte di aziende (es. S&P, Celtica Ambiente), probabilmente


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licenziatarie dei brevetti della GPSC (Global Plasma System Corporation) e che non hanno ancora realizzato impianti per trattare combustibili derivati dai rifiuti (cdr). È questo il caso, per esempio, della proposta di Celtica Ambiente di utilizzare la torcia al plasma per produrre energia da cdr in un sito dell'area industriale di Brindisi. La Commissione ritiene che l'utilizzo di tecnologie di assai alto livello di sofisticazione, nella ipotesi della realizzazione di impianti aventi un size industriale, dovrebbe riguardare più che il cdr (per il quale sono oggi disponibili impianti di termodistruzione con recupero di energia provvisti di sistemi di abbattimento emissioni ormai ampiamente consolidati) il trattamento di rifiuti pericolosi quali il pcb (policlorobifenile), i solventi clorurati, le miscele di solventi aromatici, gli idrocarburi policiclici aromatici, difficili da smaltire per altra via, se non in tempi lunghi (es. bioremediation).

L'IMPATTO AMBIENTALE DEGLI IMPIANTI DI TRATTAMENTO E SMALTIMENTO DEI RIFIUTI.

Gli impianti di trattamento, qualsiasi sia la tecnologia applicata, comportano comunque un impatto ambientale che deve essere minimizzato, come peraltro è ampiamente riscontrabile nell'articolato della vigente normativa sulla gestione dei rifiuti ed anche nella norma secondaria in cui si riscontra il concetto che il trattamento dei rifiuti, sia ai fini dello smaltimento che ai fini del recupero, e che i trattamenti di bonifica, sono autorizzati purchè siano fatte salve tutte le norme ambientali in materia di acque, suolo, aria, igiene ambientale, nell'ambito cioè di un rispetto globale dell'ambiente e della salute della popolazione esposta. L'applicazione della best available technology, dovrebbe garantire tale principio. In assoluto il, principio della best available technology è ambientalmente corretto ma, non può prescindere dalla valutazione dei fattori economici ossia dal rapporto costi/benefici, per cui sarebbe più corretto parlare di migliore tecnologia disponibile a costi economicamente praticabili, fermo restando che i costi praticabili non vengano minimizzati a punto tale da vanificare l'efficacia dell'intervento a protezione e salvaguardia dell'ambiente e della salute dell'uomo. Nella cultura occidentale, sta interiorizzandosi tale concetto e le popolazioni esposte nei pressi degli impianti di trattamento dei rifiuti, ove la corretta informazione, i controlli e il rispetto dei limiti di legge sono assolutamente garantiti, danno il consenso ed accettano la installazione degli impianti, convinti che un trattamento dei rifiuti, se ben gestito, debba considerarsi a tutti gli effetti un impianto industriale , utile comunque alla comunità alla produttività e alla crescita economica del Paese, con inoltre risvolti positivi in tema di occupazione. In nord Europa, ma anche oltre Oceano, a cavallo degli anni 70-80 si era in verità manifestata la sindrome Nimby (Not in my backyard), in quanto la gente non si sentiva del tutto garantita da alcune applicazioni tecnologiche per es, termodistruttori di prima generazione con sistemi di abbattimento fumi non del tutto efficienti. Oggi possiamo costatare che ovunque, in Germania, Danimarca,


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Svezia, Finlandia, Francia , gli impianti di trattamento di rifiuti, vere e proprie piattaforme industriali, sorgono a poca distanza dai centri abitati, con il consenso delle popolazioni residenti, come la Commissione ha potuto costatare nel corso della visita nel nord Europa del settembre 2000. Il consenso della popolazione si ottiene se vi è un rapporto di fiducia e consapevolezza tra il cittadino, lo Stato che controlla e l'azienda che applica le tecnologie. In Italia purtroppo in tema di impianti di trattamento dei rifiuti, persiste ancora assai diffusa la sindrome Nimby (Not in my backyard), in qualche caso motivata dalle numerose situazioni di degrado ambientale. Prevalentemente però si assiste ad una eccessiva enfatizzazione ed esasperazione di tale sindrome e forse con un eccesso di sensibilità sul tema ambientale. Tale ipersensibilità vanifica ogni sforzo delle amministrazioni e degli operatori teso alla soluzione dei problemi di smaltimento/recupero dei rifiuti. Il caso recente della Campania, che deve affrontare drammaticamente il problema dello smaltimento dei rifiuti urbani, nonostante sia da sei anni in commissariamento per l'emergenza rifiuti e bonifiche, costituisce un precedente pericoloso che deve essere visto come un segnale preoccupante. Ma come arrivare al consenso? Un ruolo fondamentale, riteniamo lo abbia la scuola in cui dovrebbero essere fatti sforzi in tutte le direzioni affinché sia imposto l'insegnamento dell'ecologia negli istituti di ogni ordine e grado con la collaborazione, pensiamo, di tutte le forze del volontariato e dell'associazionismo ambientale. Se si vuole che i comportamenti degli adulti siano virtuosi e tendano al rispetto dei principi dello sviluppo sostenibile, occorre educare gli adulti di domani cioè i giovani delle scuole di oggi. Peraltro, tutta la norma ambientale a livello internazionale nord europeo e nazionale, si basa sullo sviluppo sostenibile dopo il cambiamento di rotta imposto dalla Conferenza di Rio de Janerio del 1992 alla cultura dello spreco, dell'usa e getta. Un dato preoccupante quindi, tale ipersensibilità, che non facilità di certo il consenso delle popolazioni alla installazione di qualsivoglia impianto di trattamento o di recupero di rifiuti e che non aiuta e incoraggia l'imprenditoria. Il caso eclatante della Campania di questi giorni è sotto gli occhi di tutti. Su tale versante, probabilmente, occorrerà ritarare il sistema e oltre al già citato problema della educazione ambientale nelle scuole, si deve facilitare e potenziare la corretta informazione e la tecnica di comunicazione. Ma quali sono gli impatti ambientali che possono originare dalla installazione degli impianti di trattamento dei rifiuti e da quello di smaltimento definitivo,di recupero e di bonifica? Qui di seguito se ne fornisce una illustrazione esemplificativa:

Trasporto dei rifiuti.

Il trasporto dei rifiuti è una delle fasi più delicate del ciclo dei rifiuti, in termini di impatto ambientale. La normativa vigente in tema di gestione dei rifiuti, prevede che essi, durante il trasporto siano individuabili e classificati secondo la normativa per mezzo di bolle di trasporto e che i mezzi siano idonei, attrezzati con apparecchiature e materiali di pronto intervento per affrontare le


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emergenze e che rispettino tutte le norme di sicurezza in maniera che siano minimizzati i danni per l'ambiente e per l'uomo, in caso di incidenti Non sono rari i casi di gravi contaminazioni ambientali a seguito di trasporto di rifiuti pericolosi via terra che si registrano quasi quotidianamente. Una segnalazione pervenuta alla Commissione riferisce che, nello scorso mese di agosto, una motrice che trasportava rifiuti pericolosi (melme petrolifere catramose della raffineria Agip di Priolo) su cassoni né telonati né sigillati, si è ribaltata all'uscita del viadotto Boccetta, nelle immediate vicinanze della città di Messina, e che il carico ha contaminato le zone circostanti causando grave disagio alle popolazioni del posto esposte per tanti giorni a odori nauseabondi di prodotti petroliferi e di benzene. Anche i trasporti di rifiuti via mare o via fiume in qualche caso, alla stessa stregua dei trasporti di prodotti, possono essere causa di gravi impatti sull'ambiente. sulle vie fluviali. L'agenzia per l'ambiente degli Stati Uniti d'America (EPA) in un recente rapporto (EPA 310-R-97-002, vedi bibliografia) ha ben evidenziato i rischi per l'ambiente generati dal non corretto utilizzo dei mezzi di trasporto, dalla mancanza di norme di sicurezza e di pronto intervento. Sono purtroppo numerosi i casi registrati riferibili al trasporto di rifiuti in autostrada da parte di aziende che utilizzano cisterne da cui fuoriescono liquidi pericolosi per gocciolamento. Vi è da notare che a volte da parte di operatori senza scrupoli, il sistema del gocciolamento viene utilizzato come via di smaltimento del carico lungo il percorso specialmente in occasione di avverse condizioni meteorologiche. L'impatto ambientale del trasporto dei rifiuti attiene al suolo, alle acque, all'aria. Un rifiuto liquido trasportato senza cura e attenzione, emette sostanze pericolose in atmosfera e quando il carico viene sversato sul suolo provoca contaminazione anche delle falde per percolamento del contaminate nel sottosuolo. La via che statisticamente più sicura e che comporta minori rischi per l'ambiente è quella dell'utilizzo del trasporto ferroviario dal momento che, salvo, cause accidentali, vi è una «strada obbligata» da percorrere con bassi rischi di impatto con altri mezzi o veicoli. Il trasporto via ferrovia, auspicato dalla Commissione anche in occasione della presentazione del biennio di attività della stessa, nel novembre 1999 presso la Camera dei deputati, comporta anche un bassissimo rischio, prossimo allo zero per ciò che riguarda le emissioni in atmosfera essendo la trazione di tipo elettrico. Se paragonato al trasporto con altri mezzi e altri sistemi tir, cisterne, camions,etc), il trasporto ferroviario dei rifiuti (che peraltro in tale settore è sotto l'attenzione del management delle Ferrovie , date le potenzialità di sviluppo) risulta vincente in quanto a ridotto impatto ambientale relativamente ai comparti acqua, aria, suolo. L'opzione di trasportare i rifiuti delle lagune dell'Acna di Cengio via ferrovia, (in aggiunta a quanto già viene fatto per i rifiuti dell'inceneritore di Brescia e dell'area di Porto Marghera), tramite un accordo tra la società Ecolog (costituita dalla Ferrovie dello Stato) e la proprietà Acna, è da vedere, quindi, positivamente nel momento in cui i rifiuti delle «lagune» verranno conferiti presso la miniera di Teutschenthal nei pressi di Lipsia. Il ridotto impatto ambientale del sistema «trasporto ferroviario/ ripristino ambientale in miniera» realizza


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inoltre globalmente una significativa riduzione del carico inquinante sul territorio comunitario.

Discariche controllate.

Nella filosofia europea della gestione dei rifiuti, recepita dagli Stati membri, la discarica assume, com'è noto, un ruolo marginale e residuale. Essa, infatti, può accogliere rifiuti inerti o resi inerti o derivanti dai trattamenti di recupero e comunque a bassissima matrice organica per minimizzare, se non eliminare, la possibilità che si formi il percolato.Per come visto nel capitolo relativo alla normativa nazionale di gestione dei rifiuti, la deliberazione del Comitato interministeriale del 27 luglio 1984 contiene le disposizioni per la prima applicazione dell'articolo 4 del decreto del Presidente della Repubblica 10 settembre 1982 n. 915 e concerne lo smaltimento dei rifiuti in discarica o per termodistruzione. In tale deliberazione sono contenuti i criteri tecnico-scientifici, quelli amministrativi, le procedure di autorizzazione, le tecniche di smaltimento, nonché i criteri classificatori dei rifiuti. Tale norma secondaria, da innovare in alcune sue parti, come auspicato anche in un importante documento del CISA dell'Università di Cagliari del 1997 (Linee guida per le discariche controllate di rifiuti solidi urbani), rimane ancora, in attesa della emanazione del decreto di attuazione dell'articolo 5 comma 6 previsto dal decreto legislativo del 5 febbraio 1997 n. 22, lo strumento tecnico che regolamenta la materia dello smaltimento in discarica dettandone:
a) criteri per la distanza di sicurezza dai punti di approvvigionamento delle acque destinate ad uso potabile, dall'alveo di piena di laghi, fiumi, torrenti, dai centri abitati e dai sistemi viari di grande comunicazione;
b) criteri per la ubicazione in suoli stabili tali da evitare rischi di frane o cedimenti della struttura di smaltimento;
c) criteri di gestione (compattazione, rimozione del percolato, captazione del biogas, ripristino ambientale del sito dopo coltivazione ecc.).

Tutto ciò a seconda che si tratti di discariche di prima categoria, di seconda categoria di tipo A, di tipo B e di tipo C e di terza categoria. La legge 33/2000 (legge comunitaria 2001) ha recepito la direttiva 31/99//CE prevedendo la nuova normativa sulle discariche con dei tempi di attuazione graduale diversificati per impianti nuovi ed esistenti ed il differimento dei termini di cui all'articolo 3, commi 6 e 6-bis, del decreto legislativo n. 22/97 per il conferimento dei rifiuti in discarica (pretrattamento preventivo). Per ciò che riguarda lo smaltimento dei rifiuti pericolosi in discarica, il decreto del Ministero dell'Ambiente n. 141 del 11marzo 1998 cataloga e identifica tali rifiuti in attuazione dell'articolo 28, comma 2 del decreto legislativo 5 febbraio 1997 n. 22. Tra i vantaggi che offre la discarica si possono riportare quelli relativi ai minori costi di investimento


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rispetto ad altri impianti a tecnologia più complessa come i termodistruttori. Per realizzare ed avviare una discarica infatti i tempi non sono molto lunghi, per la sua gestione si richiedono macchinari a semplice tecnologia (compattatori, macchine per movimento terra etc) e lo smaltimento dei rifiuti che in essa avviene è da considerarsi definitivo. Inoltre, ove le condizioni geologiche lo consentano, la discarica può essere utilizzata come recupero di vecchie cave purchè i sistemi di impermeabilizzazione siano installati correttamente. La coltivazione avviene in continuo (eccetto condizioni meteorologiche avverse) e non vi sono quindi tempi morti per manutenzione. A sfavore della discarica giocano invece tanti fattori tra i quali vi è l'eccessivo consumo e l'estesa occupazione di territorio, la produzione di percolato , derivante per la gran parte dalla presenza di rifiuti organici putrescibili e degradabili che, oltre a comportare problemi per lo smaltimento, può essere causa di pericolose infiltrazioni nelle falde di acqua potabile destinata al consumo umano. Il percolato inoltre, con il suo carico inquinante di microroganismi e specie chimiche tossiche, continua a prodursi anche ad ultimazione della coltivazione della discarica e quindi occorre considerare un ulteriore costo per i controlli post-gestione La stessa matrice organica presente nella discarica, a causa di processi fermentativi, è all'origine della produzione di biogas stimato in circa 250-350 metri cubi per tonnellata di rifiuto smaltito e la cui scarsa o minima captazione comporta la liberazione in atmosfera di metano (gas ad effetto serra notevolmente più alto dell'anidride carbonica) ed altri gas in aggiunta a emissioni maleodoranti assai fastidiose per gli insediamenti abitativi spesso prossimi alla discarica stessa. Inoltre, il biogas derivante dalla decomposizione aerobica e anaerobica, produce una miscela di anidride carbonica e metano con innalzamento delle temperature locali. Tali gas possono dar luogo a miscele esplosive con l'aria ove il biogas non sia correttamente captato e combusto. Un caso recente di esplosione con vittime umane si è purtroppo verificato di recente nei pressi di una discarica a La Spezia. I fenomeni sopra descritti vengono accentuati e diventano più gravi quando la discarica è abusiva, cosa assai ricorrente nel nostro Paese , come la Commissione ha avuto modo di constatare nel corso degli ultimi tre anni. In tal caso, in mancanza dei requisiti previsti dalle norme vigenti sia in fase di progettazione che di esercizio, il sito di smaltimento può insistere non su terreni argillosi o impermeabilizzati bensì su suoli non idonei, ad alta permeabilità per cui i rifiuti cedono il loro carico di inquinanti percolando fino alla falda idrica. Ancora più grave, in tal caso, è la contaminazione dell'atmosfera a causa delle emissioni di sostanze maleodoranti, derivanti dai processi fermentativi e di sostanze cancerogene prodotte dai processi di autocombustione o da incendi dolosi dei rifiuti. In quest'ultimo caso , data la gestione illegale del sito, tra i rifiuti conferiti, possono essere presenti contaminanti di ogni tipologia (pericolosi e non pericolosi) contenenti per esempio cloro legato a matrici organiche (plastiche, solventi, vernici, scarti industriali, materiali intrisi di policlorobifenili, i cosiddetti PCB,etc) precursori della formazione di diossine , furani ed altri composti pericolosi per la salute dell'uomo, in considerazione anche delle basse temperature in gioco al momento della combustione


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incontrollata (500-700oC). Il ripristino della discarica, dopo la cessazione della coltivazione, è un costo gravoso e l'utilizzo alternativo del sito« ripristinato» non è molto remunerativo in quanto non si presta per scopi abitativi nè per usi agricoli con coltivazione di speci destinate all'alimentazione umana e animale. Va rilevato infine che una discarica in coltivazione, la cui gestione non sia del tutto corretta, può costituire un punto di attrazione per i volatili che possono essere a loro volta veicolo di pericolose infezioni. La dispersione di microorganismi in atmosfera, a causa dei venti, può comportare infine la trasmissione di agenti patogeni all'uomo. Al fine di ridurre la produzione di gas serra, di emissioni maleodoranti e di percolato, causa spesso, per come si è detto, di contaminazione delle falde, la normativa comunitaria ha posto forti vincoli all'utilizzo futuro delle discariche, riservando ad esse un ruolo che, nel tempo, diventerà marginale rispetto a quello attuale. La normativa comunitaria recepita dal decreto legislativo del 5 febbraio 1997 n. 22, proprio nell'ottica di una gestione integrata dei rifiuti, all'articolo 6 di tale decreto, prevede che dal 1o gennaio del 2001 sia consentito smaltire in discarica solo rifiuti inerti, rifiuti individuati da specifiche norme tecniche e rifiuti che residuano dalle operazioni di riciclaggio, di recupero e di smaltimento il che, tradotto nella pratica del conferimento, significa espresso divieto di smaltimento di rifiuti a componente organica. Nel caso dei rifiuti urbani ciò significherà avviare tali matrici organiche al compostaggio mentre relativamente ai rifiuti speciali si tratterà di avviarli o alla termodistruzione o ai processi di inertizzazione che immobilizzino i contaminanti nei materiali usati per i processi di fissazione chimica. Le discariche di oggi dovranno quindi accogliere i rifiuti inerti, quelli derivanti dai processi di recupero delle frazioni secche ed umide delle raccolte differenziate e saranno asservite agli impianti di termodistruzione per accogliere le ceneri tal quali o rese inerti. Purtroppo dati i ritardi nell'attuazione della normativa vigente e il lento adeguamento ad essa di numerosi piani regionali, si deve oggi constatare che il termine del gennaio 2001 fissato dalla norma non è ancora assai difficile da rispettare per cui è presumibile che il legislatore debba ricorrere ad una ulteriore proroga dei termini. Quando si decide di realizzare un impianto di discarica, occorre tenere presente che il costo pagato dalla comunità, considerando effetti diretti e indiretti, sulla popolazione esposta e sull'ambiente, è da considerarsi alto nell'insieme delle componenti ambientale, paesaggistica, economica, sociale. Sul territorio, infatti, si accumulano rifiuti e conseguentemente viene deprezzato il valore materiale e culturale del sito stesso.Il ripristino ambientale a fine chiusura è anch'esso un costo. Sulla rivista «The Lancet» è stato reso noto di recente il risultato di una ricerca finalizzata alla valutazione dei possibili rischi di malformazioni congenite a carico di coloro che risiedono nei pressi di discariche controllate di rifiuti pericolosi. La ricerca è stata condotta utilizzando i dati di sette registri regionali delle malformazioni su cui viene annotata l'evoluzione del fenomeno in cinque Paesi europei. Per l'Italia, il referente è l'Istituto di fisiologia clinica del Consiglio Nazionale delle Ricerche di Pisa. Si è appurato che, per i residenti entro un raggio di tre chilometri dai siti di discarica di rifiuti


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industriali, vi sarebbe un rischio di incremento del 33% delle malformazioni, con una particolare incidenza per le malformazioni del tubo neurale, del cuore e dei grandi vasi sanguigni. Ovviamente gli autori della ricerca, nell'evidenziare la natura indiziaria e non probante delle ricerche e delle indagini epidemiologiche, manifestano la necessità di ulteriori approfondimenti (che sono tutt'oggi in corso), in maniera tale da poter stabilire un nesso causale tra il rischio e le anomalie congenite e la distanza dalle discariche. La notizia è stata fatta propria anche dal Ministero dell'Ambiente che, nel dicembre del 1998, ha inviato una lettera circolare agli assessorati all'ambiente e alla sanità di alcune regioni dove sono presenti discariche di rifiuti pericolosi, per ottenere informazioni circa la localizzazione delle discariche, circa eventuali localizzazioni di discariche abusive, e relativamente a eventuali azioni di monitoraggio e disponibilità di dati epidemiologici. I rischi connessi all'esistenza di discariche controllate evidentemente si amplificano quando le discariche sono abusive o mal gestite.

Impianti di stoccaggio, di riciclo, di trattamento dei rifiuti.

Relativamente allo stoccaggio di rifiuti, questi vanno considerati alla stessa stregua delle sostanze pericolose per le quali esistono ben precise norme derivate da quella primaria sulla etichettatura. Per minimizzare l'impatto ambientale per l'atmosfera l'acqua e il suolo, una delle prime regole da rispettare è quella di evitare il superamento delle quantità da stoccare e da trattare autorizzate nonché i tempi di permanenza. Durante le operazioni di trattamento (volumetrico, di inertizzazione, di miscelazione, vanno evitate operazioni che comportino incompatibilità chimiche che potrebbero comportare i rischi di sviluppo eccessivo di calore, reazioni esotermiche con conseguenti esplosioni e incendi. I contenitori dei rifiuti debbono essere ermeticamente sigillati e ispezionabili, integri e non debbono presentare segni di corrosione con perdita di liquidi nel suolo. Le condizioni di aerazione debbono essere garantite e gli eventuali odori presenti debbono essere captati da un sistema in leggera depressione con assorbimento su mezzi assorbenti (es carboni attivi) nel pieno rispetto delle normative vigenti in materia di qualità dell'aria. Debbono essere disponibili piani di pronto intervento di emergenza e di antincendio. In caso di incendi, la combustione di rifiuti pericolosi può avere gravi conseguenze sull'ambiente e sulla salute dei cittadini. La Commissione ha riscontrato quanto successo recentemente (aprile del 2000 ) presso lo stoccaggio provvisorio della società Orim di Macerata, in cui, a seguito di un incendio, sono andati a fuoco materiali pericolosi vari (oli, catalizzatori e solventi) provocando una nuvola nera persistente per tutto il giorno.

Impianti di selezione dei rifiuti ed impianti di compostaggio.

Il problema più importante delle aree in cui avviene la selezione, la cernita delle frazioni secche ed umide dei rifiuti solidi urbani,


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nonché quello degli impianti di compostaggio è comune (certamente più accentuato negli impianti di compostaggio), e consiste nella presenza di odori, a volte nauseabondi, derivanti dalla fermentazione e putrescibilità delle frazioni organiche presenti nel rifiuto. L'impatto ambientale riguarda essenzialmente l'atmosfera ma anche il suolo e la falda se i liquidi di percolazione che si formano durante la biodegradazione non vengono allontanati e smaltiti correttamente. Per risolvere il problema degli odori è necessario intervenire su due fronti: il primo riguarda l'applicazione di procedure di housekeeping in grado di assicurare la continua e costante pulizia delle aree dove vengono manipolati i rifiuti, la seconda riguarda la captazione degli odori tramite un sistema di aspirazione in leggera depressione e il collettamento dell'aria contaminata in un sistema di abbattimento che può essere costituito da scrubbers ad umido con relativo trattamento delle acque o da biofiltri a letto torbiero o da sistemi di assorbimento su supporti ceramici contenenti microorganismi. Il sistema di assorbimento degli odori può altresì essere costituito da filtri a carbone attivo che, una volta esauriti, possono essere rigenerati o smaltiti. Uno dei motivi che provoca il disagio delle popolazioni che vivono nei pressi di tali impianti è costituito principalmente dagli odori che in qualche caso possono provocare nausee e gravi fastidi anche agli operatori addetti dell'impianto.

Impianti di termodistruzione.

Un impianto di termodistruzione, che sia tuttavia equipaggiato con un adeguato sistema di trattamento delle emissioni e che realizzi un effettivo recupero energetico, non aumenta l'impatto ambientale complessivo anzi contribuisce alla sua riduzione. In discarica è noto che la frazione organica viene trasformata in anidride carbonica, metano, e percolato, senza alcuna produzione di energia eccettuata la minima quota parte che può derivare dalla combustione del biogas a fase avanzata di coltivazione della discarica stessa. La termodistruzione, invece, oltre a produrre energia non provoca emissioni aggiuntive ma sostitutive e di qualità migliore rispetto ai combustibili convenzionali. È come dire che le emissioni di anidride carbonica e di metano si contraggono e ciò costituisce un modo per ridurre l'effetto serra, atteso che sia la CO2 e molto di più il metano sono gas a forte effetto serra. Si consideri che la produzione di energia da rifiuti fa risparmiare combustibile fossile e quindi CO2 derivante dalla combustione dello stesso. In tal senso si ha un miglioramento dell'impatto ambientale Un confronto tra l'energia prodotta dai rifiuti e quella prodotta dai combustibili tradizionali e convenzionali (carbone, olio combustibile denso, metano) fa costatare che l'impatto ambientale del ciclo completo dei combustibili convenzionali dovuto alla estrazione, alla separazione, alla depurazione e al trasporto gioca a favore dell'energia dai rifiuti venendo a mancare tutte le operazioni che comportano forti impatti ambientali quali il consumo di energia, le emissioni nelle varie fasi del ciclo, l'alterazione del paesaggio, la produzione di rifiuti e di reflui idrici da smaltire, il traffico, i rischi di incidenti e sversamenti. Da un punto di vista di compatibilità


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ambientale va inoltre rimarcato che la produzione energetica da termodistruzione proiettata al teleriscaldamento permette di risparmiare energia primaria con un doppio vantaggio: da una parte si concentra la produzione di calore in poche e significative centrali con il risultato che si ottimizzano e razionalizzano i parametri e si riducono al minimo le emissioni inquinati. La cogenerazione (calore + energia elettrica) non solo è vantaggiosa come consumi ma è anche una delle strade con cui l'Italia potrà tentare di adeguarsi al protocollo di Kyoto diminuendo entro il 2010 le emissioni di anidride carbonica del 6.5%, rispetto a quelle del 1990. Ciò significa una contrazione del 25-30% rispetto a quelle che sarebbero diventate in assenza del protocollo di Kyoto. Peraltro il sistema di cogenerazione di Brescia è un chiaro esempio degli ottimi risultati che si possono raggiungere e che è assai diffuso nei comuni nel Nord Europa. La termodistruzione, in quanto opera sul rifiuto in maniera definitiva, non trasferisce nel tempo la soluzione del problema ambientale come la discarica o nello spazio attraverso le materie che si recuperano dalla selezione e cernita dei rifiuti, operazioni pur esse importanti e da ottimizzare percentualmente fino a valori auspicabili del 50% nell'ambito della gestione integrata dei rifiuti. La termodistruzione va intesa come un metodo efficace per la riduzione del volume dei rifiuti, consuma meno territorio.
Certamente, un impianto di termodistruzione può rappresentare una fonte di contaminazione per l'ambiente esterno se essa è condotta in maniera poco accurata, se le apparecchiature di depurazione dei fumi e di combustione non sono efficienti e se non si fa ricorso alle tecnologie oggi disponibili per minimizzare gli impatti ambientali (lowNOx burners per abbattere gli ossidi di azoto, combustion improvers per migliorare la combustione, additivi per abbattere la SO2, scrubbers ad alta efficienza, filtri a maniche, depolveratori a cicloni, assorbitori a carboni attivi etc). La combustione riduce infine la pericolosità dei rifiuti organici rispetto alla discarica nella quale questi permangono per tanto tempo specie nel medio e lungo termine. Le scorie di combustione, specie se inertizzate, hanno sicuramente caratteristiche migliori dal punto di vista dei rilasci rispetto ai rifiuti tal quali depositati in discarica. Non va trascurato nemmeno il fatto che la combustione distrugge batteri e virus cosa che non succede in discarica.

Impatto ambientale dei siti contaminati.

Un sito contaminato è fonte continua di disagio e preoccupazione per le popolazioni residenti nelle immediate vicinanze infatti sono da prendere in seria considerazione i danni che a loro insaputa può aver causato la contaminazione nel tempo. La presenza di un sito contaminato, oltre a costituire elemento di degrado, ha un impatto negativo anche di ordine economico, in quanto deprezza il valore dell'ambiente, dei manufatti, delle strutture e degli immobili siti in prossimità. La preoccupazione permane fino a che alla popolazione non si danno serie garanzie di soluzione del problema in maniera definitiva. In tal senso vi è da considerare una sorta di ipersensibilità


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anche nel caso dei siti contaminati. A La Spezia, ove la discarica di Pitelli attende ancora di essere bonificata, un altro recente caso, quello della ex area della raffineria IP, costituisce per la popolazione un forte elemento di disagio e preoccupazione, come si evince dai numerosi articoli apparsi di recente sulla stampa locale. Quando si verificano tali situazioni, oltre alle giuste preoccupazioni per la salute pubblica, insorgono anche ripercussioni notevoli di impatto socio-economico.

Il problema diossine.

Generalmente con il termine «diossine» si intende la famiglia di composti organici clorurati tossici - le cosiddette PCDD, policlorodibenzodiossine - in numero di 75 composti diversi e con diversa tossicità, dipendentemente dalla loro struttura chimica. Già nel 1800 furono identificate le prime diossine ma si sa che erano presenti sul pianeta da tempi molto antichi, come dimostrato da numerosi studi su tessuti animali, su piante, su numerosi reperti archeologici. Le diossine sono presenti sul pianeta in maniera ubiquitaria e le fonti di emissione sono le più disparate. Le diossine si formano insieme ad altre sostanze organiche come i furani nel corso delle combustioni incomplete di materiali organici in ambienti in cui sia presente cloro sia in forma organica che inorganica come ormai accertato internazionalmente. Quando si bruciano rifiuti solidi urbani (in cui comunque sono già presenti piccole quantità di diossine a volte superiori a quelle emesse con i fumi di combustione) a temperature inferiori a 850oC (temperature normalmente presenti negli inceneritori di vecchia generazione) in cui insieme alla matrice organica è contenuto anche cloro sotto varie forme chimiche, è certa la formazione di diossine. L'Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro (IARC), che è una sezione dell'Organizzazione Mondiale della Sanità, ha definito la tetraclorodibenzodiossina (2,3,7,8,TCDD) come un potente cancerogeno di classe 1 per l'uomo. In generale le diossine sono persistenti nell'ambiente e possono essere causa di gravi problemi a danno del sistema riproduttivo e dello sviluppo e del sistema immunitario. Esse inoltre interferiscono con gli ormoni regolatori. Le diossine sono solubili nei grassi e si accumulano nella catena alimentare. Sono state trovate nella carne, nel latte, nei polli, nei maiali, nei pesci, nelle uova. A cavallo degli anni '70 furono scoperte da scienziati olandesi le diossine nei fumi degli inceneritori. Nel 1984 inoltre in Svezia, Paese che ha studiato molto approfonditamente il problema delle diossine, si stabilì addirittura una sorta di «moratoria» e per un dato periodo si sospese la costruzione di impianti nuovi fino a che un gruppo di lavoro, coordinato dall'Agenzia per la protezione dell'Ambiente e che coinvolgeva illustri scienziati ed esperti del settore, non avesse chiarito i termini del problema. Nel giugno 1986, l'Agenzia emise il «verdetto» fissando tutti i presupposti ritenuti indispensabili per una gestione corretta della termodistruzione dei rifiuti e ne venne fuori che l'uso dei rifiuti per la produzione di energia non deve confliggere con altre destinazioni che possono essere importanti per la società, che si debbono inoltre


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rispettare i limiti delle emissioni prefissate per legge e che la combustione è da ritenersi un valido sistema per il trattamento dei rifiuti teso al recupero di energia tenendo tuttavia in considerazione tutti i requisiti gestionali ed impiantistici necessari e fissati dal rapporto. Conseguenza di tale azione dell'Agenzia fu che dal 1986, la Svezia, riprese la costruzione di nuovi impianti di termodistruzione. Lo studio svedese fu poi confermato da una analoga ricerca effettuata in Canada dal National Incinerator Testing and Evaluation Program (NITEP). Quanto avvenuto in Svezia costrinse i progettisti degli impianti di incenerimento che fino allora avevano privilegiato la tecnologia della combustione, a mirare con maggiore attenzione anche ai sistemi di abbattimento delle emissioni. Oggi, il limite di emissione per gli impianti di termodistruzione di numerosi paesi Europei, compresa l'Italia, è di 0.1 nanogrammi di TEQ/ Normal metro cubo in cui il termine TEQ indica l'equivalente tossico di tutte le diossine .é noto che oggi vi sono impianti di termodistruzione (in Europa e di recente anche in Italia) che emettono mediamente cento volte meno rispetto a quanto veniva emesso dieci anni fa e comunque in grado di rispettare ampiamente il limite di 0.1 nanogrammi per normal metro cubo. Per abbattere le diossine nelle emissioni non è sufficiente il rispetto della cosiddetta regola delle « tre T» cioè, temperatura di combustione elevata, tempo di combustione adeguato a bruciare tutto il materiale organico, turbolenza dei fumi che garantisce condizioni di omogeneità (1). Infatti, è stato verificato che i fumi che lasciano la camera di combustione, dopo raffreddamento, presentavano concentrazioni più alte di diossine in quanto alcune di esse si riformavano intorno ai 200-330 oC. I progettisti degli impianti di termodistruzione hanno quindi operato per migliorare le tecnologie di abbattimento delle emissioni cosa che non si è fatta in Italia, in quanto essi erano penalizzati a causa della paura della gente per il problema «diossine» dopo il ben noto incidente che provocò la nube tossica di Seveso. La conseguenza era stata quindi che essi avevano abbandonato la strada della ricerca nella quale primeggiavano fino agli anni '70. Negli anni dei fatti di Seveso e anche dopo assai particolare era stata l'apprensione di una opinione pubblica scarsamente informata sul problema e in grado quindi di condizionare fortemente la correttezza scientifica e le scelte dei processi di decisione. Oggi il sistema Italia, a fronte di tecnologie che vengono importate da altri Paesi europei, sta reagendo con proprie installazioni cercando di recuperare il tempo perduto. Per tenere sotto stretto controllo le emissioni di diossine riveste un ruolo importante non solo la gestione dei sistemi di combustione ma anche quella dei sistemi di abbattimento delle emissioni. Vi è da notare che, certamente le alte temperature sull'ordine dei 1000oC -1100 oC favoriscono la completa distruzione delle diossine sia di quelle presenti nella carica che di quelle che si possono formare intorno ai 300-400 oC in fase di combustione. Ma, per come si è detto, l'efficienza dei sistemi di abbattimento è altrettanto necessaria perchè

(1) T come Termoutilizzazione - La termoutilizzazione nello smaltimento dei rifiuti cura della Fondazione Lombardia per l'Ambiente n. 20 dicembre 1996.


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vengano rispettati gli stringenti limiti delle emissioni (0.1 nanogrammi TEQ per Nmc). Come sopra detto, le diossine sono ubiquitarie e quindi le possiamo trovare un po' dappertutto. Una stima delle emissioni nazionali di diossine e furani(2) è riportata nel documento redatto da Enea per l'inventario Corinair e mostra che sono numerose le sorgenti di emissione delle diossine. Anche le discariche producono diossine(3). Infatti esse in parte entrano in atmosfera attraverso il biogas che si libera o viene bruciato (0.02-5 microgrammi per tonnellata di RSU), in parte si trovano nel percolato (0.002-0.0025 microgrammi per tonnellata RSU) e in parte nella discarica stessa (0.013-0.050 microgrammi per tonnellata di RSU).Anche negli impianti di compostaggio le diossine si concentrano nel compost, in ragione di 0.4-4 microgrammi per tonnellata. Nelle discariche abusive (per come detto nel capitolo dedicato alle discariche) il fenomeno è più rilevante in quanto la presenza di rifiuti contenenti cloro organico e inorganico è maggiore. Anche il combustibile derivato da rifiuti il cosiddetto CDR contiene diossine(4) e può sviluppare diossine in fase di combustione ove le condizioni di controllo non siano volte ad una accurata gestione della combustione e dei sistemi di abbattimento fumi. In conclusione, sul problema diossine, sulla base di quanto sopra detto si può dire che esso, oggi, costituisce un «falso problema» quantomeno se lo si associa ai termodistruttori per come fatto in passato. Certamente la paura della gente ha costituito un elemento emotivo che ha avuto un ruolo notevole portando ad una opinione distorta nella opinione pubblica. Occorre infine rilevare che la diossina è ubiquitaria e che è presente da molto tempo sul nostro pianeta, che la combustione non ha avuto un ruolo determinante sulle emissioni totali in considerazione del fatto che altri processi contribuiscono, per come visto, alla emissione di diossine e che la moderna tecnologia è in grado, oggi, di abbattere quasi a zero e comunque a valori molto bassi e trascurabili le concentrazioni al camino.

(2) I dati della stima delle emissioni Corinair Enea per l'Italia espressi in grammi di TEQ (equivalemte tossico) di diossine e furani:


1990 2000 contributo massimo
Centrali elettriche pubbliche
23.4
17.3
olio combustibile
Imp.combustione terziario e agricoltura
23.6
23.9
legna
Combustione industria
Impianti combustione
92.0
71.0
olio combustibile
Cementifici
6.1
5.3
Sinterizzazione acciaio
67.9
50.0
Processi produttivi (forni elettr.) 29.5
28.6
Trasporti stradali 6.4
2.8
benzina con Piombo
Incenerimento rifiuti solidi urbani 276.0
195.2
Incenerim. rifiuti. solidi industriali. 97.4
48.7

(3) «Riflessioni sulle strategie per lo smaltimento dei rifiuti in Italia». E. Pedrocchi-Facoltà di Ingegneria del Politecnico di Milano-Aprile 1997.
(4) Da: Energia blu Novembre 1998
In un chilogrammo di CDR sono contenuti dai 5 ai 25 nanogrammi di diossine. Un Kg di CDR genera 150 grammi di scorie (in cui sono contenuti da 1 a 20 nanogrammi di diossine), 7 metri cubi di gas che contengono 0-3 nanogrammi di diossine.


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LA VISITA DELLA COMMISSIONE IN ALCUNI STATI EUROPEI.

La Commissione parlamentare d'inchiesta sul ciclo dei rifiuti ha effettuato, nel mese di settembre del 2000, una visita presso alcuni impianti di trattamento e smaltimento di rifiuti (urbani, speciali pericolosi e non pericolosi) in alcuni Paesi europei: Germania, Finlandia, Svezia, Danimarca.

Germania: il sito minerario di Teuthschenthal (Lipsia).

Nella miniera di Teuthschenthal, attiva sin dal 1907,si estraeva la carnallite ossia un cloruro idrato di potassio e magnesio spesso associato con silvina e salgemma nei depositi salini evaporitici e di colore lattiginoso o rossastro.Il sito minerario appare una buona soluzione per lo smaltimento di rifiuti solidi pericolosi o resi solidi attraverso trattamenti di inertizzazione. I problemi da superare sono quelli degli odori sia sul piazzale esterno che all'interno della miniera. Nelle aree esterne, al momento della visita, si avvertiva odore di solventi organici provenienti dal collettore di scarico del sistema di depurazione ed aspirazione dell'aria interna al sito. All'interno delle gallerie sotterranee era invece evidente l'odore di ammoniaca. Data la profondità e la natura geologica del sito non sembra vi possano essere controindicazioni allo smaltimento di rifiuti solidi la cui massa cementata collocata per spinta con pala meccanica appositamente predisposta riempirebbe (come avviene) tutta la sezione libera della galleria stessa fungendo così non solo da riempimento ma da supporto vero e proprio al tetto impedendo a questo di crollare. Si tratterebbe secondo le autorizzazioni del Land tedesco di un vero e proprio recupero ambientale che sarebbe auspicabile, a detta dei tecnici del sito, auspicabile anche in Italia. La potenzialità del sito appare di lungo termine almeno per venti anni. La lunghezza della galleria (circa 13 chilometri) assicurerebbe lo smaltimento di quantità di rifiuti solidi rilevante. Le operazioni di riempimento stanno riguardando per ora la prima parte della miniera (circa 4 chilometri) che a causa dell'abbandono nel passaggio della proprietà dalla Germania est a quella unificata, era stata soggetta ad un crollo delle pareti laterali in alcuni tratti. In tale sito vengono attualmente smaltiti rifiuti dell'inceneritore di Brescia, di alcune bonifiche Enichem di Porto Marghera e sono in corso trattative per il conferimento dei residui dei lagoons dell'Acna di Cengio, opportunamente solidificate.

Finlandia: Ecokem OY AB (Helsinky).

L'inceneritore della società Ekokem ha una potenzialità di trattamento di rifiuti industriali pericolosi e non pericolosi (solventi, vernici, stracci imbevuti di vernici, pitture ) di 65.000 tonnellate/anno. Sono operative due linee di termodistruzione ed è in fase avanzata di realizzazione una terza linea dotata di un sistema di abbattimento fumi assai sofisticato. Le emissioni del forno di termodistruzione rispettano ampiamente i limiti imposti dalla normativa europea per


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i microinquinanti tra cui le diossine. La temperatura di termodistruzione è di 1300 oC. I fumi di combustione del forno a tamburo rotante vengono post-combusti con tempi di permanenza tali da permettere una completa ossidazione del rifiuto. Nella linea di termodistruzione N.1 i fumi caldi vengono inviati ad una caldaia per la generazione di vapore da destinare a sua volta alla produzione di energia elettrica per autoconsumo all'interno dell'impianto e di energia termica per teleriscaldamento della vicina città di Riihimaki. L'energia prodotta dalla seconda linea di termodistruzione viene invece utilizzata nei processi di evaporazione delle acque reflue. Il lavaggio dei fumi avviene con calce per eliminare le emissioni di acido cloridrico e di anidride solforosa. I residui di diossine, furani e mercurio vengono abbattuti con l'utilizzo di carbone attivo. L'impianto Ekokem è una vera e propria piattaforma di trattamento: Esiste infatti una unità di trattamento chimico-fisico di inertizzazione di alcuni reflui quali cianuri, cromati, sali e soluzioni saline che, dopo inertizzazione, vengono avviati alla discarica asservita all'impianto. La Ekokem opera anche nel settore del recupero dei solventi e degli oli usati ed è dotata di un impianto di depurazione di acque industriali e di recupero del mercurio dalle lampade fluorescenti.

Svezia: Impianto sperimentale di combustione di Chalmers (università di Goteborg).

In tale impianto sperimentale si stanno effettuando combustioni sperimentali di miscele di combustibili al fine di verificare le condizioni ottimali di combustione. Tutti i parametri di combustione vengono registrati in numerosi punti della camera di combustione al fine di ottenere un modello previsionale per l'ottimizzazione dei processi di combustione.

Danimarca: impianto di termodistruzione rsu di Arhus.

L'impianto di Arhus tratta il 28% dei rifiuti prodotti ogni anno nel distretto (620.000 tonnellate). Esso è costituito da tre forni ognuno della capacità di 7.6 tonnellate /ora di rifiuto urbano. La linea 3 ha una capacità di 8.0 ton/h. Completano l'impianto 2 forni per rifiuti sanitari da 200Kg/ora e tre dryers per l'essiccamento dei fanghi di depurazione, in grado di essiccare ognuno 2 tonnellate/ora di fango. Le ceneri della termodistruzione ammontano a 2775 tonnellate/anno. La termodistruzione oraria è di 23 tonnellate di rifiuti il cui calore è utilizzato nel distretto di Arhus per produrre vapore (teleriscaldamento) e per produrre elettricità. L'impianto è dotato di depolveratori a ciclone, di un elettrofiltro, e di un sistema di scrubbers per il trattamento dei fumi.

SISTEMI DI RILEVAZIONE E DI CONTROLLO.

L'applicazione delle tecnologie di monitoraggio ambientale, oggi più che mai, costituisce un passaggio fondamentale per garantire il controllo, la salvaguardia e la tutela del territorio. Le tecnologie oggi


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disponibili permettono agli operatori, agli addetti ai lavori ma anche alla popolazione di seguire le evoluzioni dei fenomeni di degrado, di fornire informazioni sullo stato di salute del pianeta e di programmare interventi mirati di risanamento. Grazie alla rapida evoluzione tecnologica degli ultimi tempi, una vasta gamma di apparecchiature per il controllo e il monitoraggio dell'atmosfera, delle acque, del suolo e del sottosuolo è disponibile sul mercato. I controlli automatici stanno sempre di più sostituendosi a quelli manuali dei quali tuttavia non si potrà mai fare a meno. Nel settore delle acque di scarico esistono ormai da un trentennio apparecchiature di prelievo e di controllo «on line» che forniscono direttamente dati di concentrazione di inquinanti presenti nel mezzo idrico e che spesso riproducono metodi di analisi manuali (es. quelli colorimetrici) di laboratorio. È evidente, tuttavia, per come detto che per quanto i sistemi di taratura automatica siano assai sofisticati non può mai prescindersi dalle tarature manuali periodiche di tutta la strumentazione coinvolta nel sistema di monitoraggio e controllo. Nel settore dell'inquinamento atmosferico, le centraline mobili e fisse, di cui normalmente sono equipaggiate le reti di rilevamento della qualità dell'aria nelle città, sono ormai in grado di monitorare una vasta gamma di inquinanti (ossidi di azoto, biossido di zolfo, monossido di carbonio, idrocarburi totali, benzene, polveri totali, polveri inalabili etc). Anche nel campo delle emissioni atmosferiche da sorgenti puntiformi esiste una serie di strumenti «on line» in grado di misurare le polveri, gli ossidi di azoto, l'acido cloridrico etc. Per ciò che riguarda invece il monitoraggio dei microinquinanti organici (es. idrocarburi policiclici aromatici, diossine, policlorobifenili, e inorganici (es. i metalli tossici quali il nichel, cadmio, mercurio, cromo etc), il dato «on line» non è ancora disponibile e ci si limita, date le bassissime concentrazioni in gioco, a prelevare grandi quantità di aria ambiente utilizzando campionatori «high volume» o di emissioni da sorgenti puntiformi in modo da arricchire la concentrazione delle specie chimiche interessate per mezzo di filtri o mezzi assorbenti da analizzare successivamente e manualmente in laboratorio. Nel settore della geofisica applicata esiste una serie di metodologie per l'analisi non invasiva del sottosuolo in grado di evidenziarne le anomalie dovute o a motivi strutturali o a modificazioni avvenute a seguito di contaminazioni o interramenti di oggetti. Rispetto ai metodi convenzionali diretti (pozzi di monitoraggio, carotaggi, escavazioni etc), le tecnologie non invasive offrono il vantaggio di non alterare le condizioni attuali del suolo e comunque, nell'ambito di un sistema integrato possono essere accoppiate alle tecniche invasive «mirate». Si hanno cosi metodi radar (ground penetrating radar), a induzione elettromagnetica, a resistività elettrica, a rifrazione sismica, con «metal detector», con apparecchiature magnetometriche etc. Le tecniche non invasive sono meno costose di quelle invasive e tra i vari scopi permettono di caratterizzare un sito rilevandone le caratteristiche geologiche, permettendo per es. la scoperta di fusti interrati, come la Commissione ha verificato nel caso della contaminazione di Riano Flaminio attraverso una indagine condotta dal Dr Marchetti dell'Istituto Nazionale di geofisica. L'analisi dei vapori organici presenti nel suolo , in caso di interramenti di rifiuti effettuata per


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mezzo di una sonda infissa nel suolo e analizzati per via gas-cromatografica on line, può ascriversi a tali tecniche e metodologie non invasive. Le più rilevanti prospettive per un controllo e monitoraggio su vasta scala vengono però offerte dalle tecnologie di telerilevamento. Com'è noto il telerilevamento è una tecnica di acquisizione di informazioni sul territorio e sull'ambiente da postazione remota. Fanno parte del telerilevamento la fotografia convenzionale, le riprese multispettrali sia fotografiche che condotte con sistemi elettronici (scanner, telecamere, radiometri a microonde, radar ottici o lidar). Il telerilevamento aereo per esempio costituisce oggi uno degli strumenti più efficaci ed utilizzati di monitoraggio ambientale ed ha come scopo l'analisi delle caratteristiche fisiche del soprasuolo e dell'immediato sottosuolo, della superficie di corpi idrici e dei fenomeni quali il trasporto dei sedimenti che intervengono fino alla profondità di alcuni metri. Le immagini provenienti dal telerilevamento, peraltro, ormai da tempo trovano impiego in molteplici direzioni, per la stesura di mappe tematiche e per una conoscenza delle risorse planetarie. Il censimento delle risorse per mezzo del telerilevamento è un passaggio assai importante per mettere in pratica i principi dello sviluppo sostenibile e della conservazione della biodiversità enunciati nella conferenza di Rio de Janeiro del 1992. Il rilevamento aereo e da satellite dà la possibilità di effettuare indagini ad ampia scala su aree assai estese del pianeta, è veloce nell'acquisire dati e permette nel contempo una riduzione dei controlli a terra. È da considerare inoltre che una buona conoscenza del territorio è oggi una «conditio sine qua non» per orientare una qualsiasi scelta di intervento sia esso antropico che di prevenzione, di recupero o valorizzazione ambientale. In particolare il telerilevamento può orientare le scelte sulle priorità degli interventi da realizzare in materia di riassetto del territorio e di organizzazione dello smaltimento dei rifiuti. È quindi necessaria la creazione di una piattaforma di dati territoriali che costituisca la base di un sistema informativo di gestione di tutti i dati ambientali del territorio nazionale. Il CNR (Consiglio nazionale delle ricerche) ha messo a punto un'apparecchiatura di ripresa iperspettrale Mivis (multispectral visible and infrared imaging spectrometer) a 102 canali (bande spettrali), installata su un aereo (L.A.R.A, laboratorio aereo ricerche ambientali) equipaggiato anche con una struttura di gestione del software (Mivas) specifico per il processamento geometrico e radiometrico dei dati iperspettrali Mivis ad elevata risoluzione spaziale e spettrale. La configurazione del sistema Mivis è modulare e ne fanno parte n. 4 spettrometri che riprendono simultaneamente la radiazione visibile, quella dell'infrarosso vicino e dell'infrarosso termico provenienti dalla superficie terrestre. Il MIVIS è il più avanzato sistema iperspettrale al mondo e viene impiegato per la caratterizzazione di fenomeni ambientali da Enti nazionali ed esteri. Indagini Mivis sono state effettuate sull'area di Trecate a seguito della esplosione di un pozzo petrolifero, sul lago di Como, sulle aree vulcaniche dell'Etna, di Vulcano, Stromboli, sulle lagune di Orbetello, Venezia, Marsala, sull'area archeologica di Selinunte e di Alesa, sulla pineta di Castelfusano, sulla discarica di Pitelli (La Spezia),sul Delta del Po, nella regione Molise e Basilicata, nella provincia di Roma e all'estero


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nell'area Hehenfels (Germania), nell'area Crau-Camargue (Francia), in Austria, e nel breve futuro anche in Cina, Paese con cui sono in corso e ben avviate trattative di collaborazione. Le discipline in cui opera il Mivis sono la geologia, l'inquinamento dei suoli, la idrogeologia, la geofisica, l'urbanistica, le foreste, l'archeologia, l'agricoltura, la vulcanologia, l'oceanografia, l'inquinamento atmosferico etc. Si possono così monitorare le colate laviche, i corpi idrici aperti e chiusi, l'apparato fogliare delle piante, lo fotosintesi, i sedimenti dei laghi, le aree soggette a rischio sismico, le discariche abusive, il percolato delle discariche, l'interramento di fusti, le fughe di calore e di gas dalle discariche di rifiuti solidi urbani, l'amianto in miscela con il cemento presente sui tetti degli edifici etc. Le apparecchiature di telerilevamento da aereo e da satellite sono oggi in uso a livello nazionale e internazionale. In Italia, apparecchiature simili al Mivis sono installate su aereo e sono in dotazione di Enea, Guardia di finanza (apparecchiatura Daedalus) Alenia, capitanerie di porto. Tali apparecchiature nazionali operano nel visibile ma con pochi canali multispettrali al massimo in numero di dodici.Il telerilevamento da satellite (TLR) è in uso come insieme di tecniche mediante le quali si effettuano misurano a grande distanza della energia riflessa ed emessa dalle superfici presenti sulla superficie terrestre. A proposito del telerilevamento, merita di essere menzionata l'esperienza condotta dal Corpo Forestale dello Stato con il telerilevamento satellitare per mezzo del quale si è riusciti ad accertare la presenza, in alcuni pozzi di«reiniezione» di attività di estrazioni petrolifere nel territorio di Matera, di sostanze estranee ai processi estrattivi di idrocarburi quali mercurio, fenoli, solventi clorurati. In Basilicata esistono ben 345 pozzi di estrazione petrolifera e l'indagine del Corpo Forestale ancora in corso, sta cercando di accertare eventuali smaltimenti illegali di rifiuti nei pozzi non più utilizzati. Il Corpo Forestale ha inoltre messo a punto un sistema informatico della montagna (SMI) in grado di realizzare il catasto delle aree boscate, delle cave, delle discariche regolari ed abusive, dei movimenti franosi, etc. Vi sono satelliti «in movimento» che operano a distanze di 700-900 chilometri e satelliti geostazionari che operano a distanze di 30.000 chilometri. Vi è da osservare che il contenuto delle immagini riprese dalle attuali piattaforme orbitali, pur essendo stato elaborato con varie tecniche digitali, non può portare ad una definizione operativa, inequivocabile e attendibile a causa della bassa risoluzione spaziale di queste immagini e del numero estremamente limitato di canali di ripresa. L'innovazione tecnologica torna assai utile anche nel settore della gestione dei rifiuti in particolare nelle fasi di trasporto, stoccaggio, smaltimento definitivo. Com'è noto il sistema MUD ha mostrato qualche limite per problemi sia strutturali che gestionali (come evidenziato nel corso delle audizioni della Commissione con funzionari del Ministero dell'Ambiente), in particolare si sono evidenziati problemi per un poco efficiente collegamento tra le banche dati delle Camere di Commercio e l'ANPA. Di qui la necessità di trovare nuovi strumenti gestionali più snelli e con possibilità di acquisizione dati in tempo reale su tutta la rete nazionale. La tecnologia che è in fase sperimentale presso l'ANPA, si fonda sull'adozione di apposite apparecchiature fisse e mobili simili a quelle utilizzate negli esercizi


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commerciali con le carte di credito e con i bancomat. Questa sorta di carta di credito del rifiuto, RIFCARD, acquisisce i dati del formulario di trasporto del rifiuto, li trasmette attraverso rete telefonica all'ANPA (in caso di apparecchiature mobili, i dati vengono trasmessi attraverso il sistema GPS). L'acquisizione continua di dati consente di rendere disponibile un conto corrente rifiuti denominato CONTRIF per cui ogni soggetto coinvolto nella gestione del rifiuto (detentore produttore, trasportatore smaltitore) riceve periodicamente un estratto conto rifiuti, Con tale sistema si può costruire una nuova base utile per un catasto nazionale rifiuti, che può meglio colloquiare con le ARPA, garantendo non solo un monitoraggio in tempo reale sul flusso dei rifiuti che transita sul territorio nazionale ma anche di intervenire per rapidi controlli «in contemporanea» su tutto il territorio nazionale in caso di segnalazioni su traffici sospetti.

CAPITOLO II

LE BONIFICHE DEI SITI CONTAMINATI

LA NORMATIVA NAZIONALE SULLE BONIFICHE DEI SITI CONTAMINATI.

Com'è noto l'articolo17 del decreto legislativo n. 22 del 5 febbraio 1997 recita: «bonifica e ripristino ambientale dei siti contaminati». Altri punti dell'articolato del decreto riguardano le competenze dello stato, della regione, delle province e del comune (artt. 18-21), i piani regionali di bonifica (articolo 22), il sistema autorizzatorio degli impianti mobili di bonifica (articolo28), l'iscrizione all'albo per le imprese che intendono effettuare bonifiche (articolo30), il sistema sanzionatorio per i soggetti che provocano contaminazione o concreto pericolo di contaminazione. Il decreto legislativo n. 22 del 5 febbraio 1997, anche se in maniera non omogenea (meglio sarebbe stata una legge quadro in materia di bonifiche), ha costituito un passo avanti rispetto alla precedente legge n. 441/87 che imponeva alle regioni, come è noto, di approvare piani di bonifica delle aree contaminate sulla base anche dei censimenti previsti dal successivo decreto del Ministero dell'ambiente del. 16 maggio 1989. Furono poche allora, per la verità, le regioni che ottemperarono (soltanto 8) a quanto previsto dalla legge n. 441/87, con criteri tra loro non uniformi, in assenza di una norma tecnica nazionale. Dai censimenti di cui al decreto ministeriale sopra richiamato, le regioni, avrebbero dovuto poi ricavare indicazioni per interventi di bonifica a breve e medio termine. L'articolo 17 del dlgs n. 22/97, pur se con ritardo, è stato attuato con decreto del ministero dell'Ambiente n. 471 del 25 ottobre del 1999 che detta i criteri, le procedure e le modalità per la messa in sicurezza, per la bonifica e per il ripristino dei siti contaminati. È da rilevare, inoltre, che il censimento regionale dei siti contaminati delle aree esterne ai siti produttivi, previsto dal decreto ministeriale. del 16.5.89 è stato esteso tramite il comma 1-bis dell'articolo17 del


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dlgs n. 22/97 alle «aree interne ai luoghi di produzione, raccolta, smaltimento e recupero dei rifiuti, in particolare agli impianti a rischio di incidente rilevante di cui al decreto del Presidente della Repubblica del 17 maggio 1988 n. 175 e successive modificazioni». Le iniziative del legislatore, per come visto sopra, mostrano l'interesse a mettere ordine in una materia assai complessa per la quale è prevedibile, e lo si coglie già adesso, che il nostro paese debba impegnare, nell'immediato futuro, risorse economiche ed umane notevoli. La legge 9 dicembre 1998, n. 426, ha inoltre introdotto nell'articolo 17 del decreto legislativo 5 febbraio 1997, n. 22, il comma 15-bis secondo il quale «il ministro dell'ambiente, di concerto con il ministro dell'università e della ricerca scientifica e tecnologica e con il ministero dell'industria, del commercio e dell'artigianato, emana un decreto recante indicazioni ed informazioni per le imprese industriali ed artigiane che intendano accedere a incentivi e finanziamenti per la ricerca e lo sviluppo di nuove tecnologie di bonifica previsti dalla vigente legislazione».Tale legge come è noto ha disciplinato gli accordi di programma di cui all'articolo 25 del Dlgs n. 22/97 ed il concorso pubblico nella realizzazione di interventi di bonifica e ripristino ambientale dei siti inquinati e che ha individuato, in fase di prima attuazione, come interventi di bonifica di interesse nazionale quelli compresi nelle aree industriali e nei siti ad alto rischio ambientale. Ai siti di Porto Marghera, Napoli orientale, Gela e Priolo, Manfredonia, Brindisi, Taranto, Cengio e Saliceto, Piombino, Massa e Carrara, Casale Monferrato, Balangero, Pieve Vergonte, litorale Domizio-Flegreo, agro aversano, Pitelli (La Speza), si è aggiunto di recente anche quello della ex raffinerie Esso ed Aquila di Trieste. Per la gran parte di tali siti sono stati già emanati i decreti di perimetrazione.

Il censimento dei siti contaminati in Italia.

I dati dei censimenti regionali dei siti contaminati finora ottenuti a seguito dell'applicazione del decreto ministeriale 16 maggio 1989, si sono rivelati incompleti (alcune regioni non hanno ancora effettuato i censimenti, es. Calabria, Lazio, Abruzzo, Friuli Venezia Giulia), sottostimati (es. quelli della Regione Puglia, troppo teorici e non supportati da evidenze sperimentali, carotaggi, analisi chimiche, e quelli della regione Campania), con il risultato che appare sempre più drammatico lo scenario che si profila all'orizzonte, relativamente ai reali costi di bonifica di intere porzioni del nostro territorio. Lo scopo del censimento ai sensi del DM del 16.5.89, per come sopra detto, era quello di individuare le aree contaminate su cui intervenire con programmi di bonifica a breve e medio termine. La mancanza, allora, di precise norme tecniche per individuare e per bonificare i siti contaminati faceva si che, tranne alcuni casi, difficilmente l'entità della contaminazione veniva ben evidenziata. Non ha dato ancora i risultati sperati quanto previsto dal comma 1-bis del Dlgs n. 22/97 che estendeva il censimento, tra l'altro, ai siti operativi a rischio di incidente rilevante. Infatti pochissimi sono i casi di accordi di programma tra il Ministero dell'Ambiente con gli enti provvisti delle tecnologie di rilevazione più avanzate (es. CNR, ENEA), per realizzare


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la mappatura nazionale dei siti oggetto dei censimenti e la loro verifica con le regioni. Di tale situazione ha preso piena coscienza la «Commissione parlamentare d'inchiesta sul ciclo dei rifiuti e sulle attività illecite ad esso connesse» che, a seguito di evidenze nel corso dei sopralluoghi e delle audizioni rese da soggetti istituzionali informati sull'argomento, ha ritenuto necessario invitare in audizione il prof. Bianco, Presidente del CNR, per illustrare l'ampia gamma di possibilità di monitoraggio aereo del territorio con il sistema L.A.R.A (Laboratorio aereo di ricerche ambientali).
Tale sistema, se applicato ed utilizzato a mezzo di convenzioni tra le Regioni, le amministrazioni locali e il CNR, come auspicato dalla stessa Commissione d'Inchiesta, può costituire un valido e certo punto di riferimento da cui partire per programmare ogni iniziativa tesa al contenimento e/o bonifica delle contaminazioni in atto sul territorio nazionali. È da rilevare inoltre che, con D.M n. 426/98, il Governo prevedeva interventi urgenti di bonifica di alcuni siti di priorità nazionale relativi ad aree industriali dismesse, ad aree fatte oggetto di discariche abusive e a discariche di rifiuti pericolosi gestite in maniera illegale. A tutt'oggi, nonostante gli sforzi del legislatore, risulta tuttavia incompleto il quadro nazionale dei siti contaminati e preoccupano assai la Commissione i recenti casi di siti contaminati all'interno di siti industriali di aziende importanti a livello nazionale, mai denunciati, e per i quali la magistratura ha condotto indagini con le forze di polizia giudiziaria (es. Enichem di Porto Marghera) o ha posto sotto sequestro (es. Enichem di Brindisi e Raffineria Esso di Augusta), ampie zone dei siti produttivi per la presenza di aree interne contaminate da rifiuti pericolosi (polveri di PVC, catalizzatori, solventi clorurati etc) interrati. Il recente differimento dei termini temporali per l'autodenuncia dei siti contaminati, al 31 marzo del 2001, da parte dei soggetti interessati, non favorisce certamente la soluzione dei problemi connessi alle bonifiche e all'impatto negativo che i siti contaminati possono comportare non solo sull'ambiente ma anche sulla salute della popolazione esposta. Destano anche preoccupazione i dati rilevati da questa Commissione sugli impianti di marketing e della rete vendita carburanti del settore petrolifero. La ristrutturazione della rete vendita (si ipotizza interventi su circa 25000 punti vendita), ai sensi del Dlgs n. 32/98 e nel rispetto del decreto ministeriale n. 246/99 sui serbatoi interrati, fa prevedere notevoli interventi di bonifica e ripristino ambientale una volta rimossi i serbatoi che nel tempo hanno causato la contaminazione delle falde da idrocarburi, tra cui il benzene, e da MTBE sostanza cancerogena già oggetto di indagine specifica negli USA in tempi assai recenti, per come sopra detto.

LE TECNOLOGIE DI BONIFICA.

USA.

Nell'ambito del «Superfund innovative Technology evaluation program» sono state sviluppate, come sopra detto, numerose tecnologie per lo smaltimento dei rifiuti derivanti dalle operazioni


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di bonifica e per la bonifica stessa effettuata in tre modi: « in situ» ossia all'interno del sito contaminato, on site, ossia nell'area contaminata, e off site, ossia al di fuori e comunque all'esterno dell'area contaminata. Le tecnologie sviluppate inoltre sono applicate sia in cantieri fissi con apparecchiature fisse, sia con impianti mobili installati su trailers. Il rapporto EPA/540/R-97/502 del dicembre 1996 da la situazione aggiornata dei profili tecnologici dei sistemi di bonifica. Il «Site program» relativo alle bonifiche è lungi dal considerarsi concluso, infatti, al suo interno sono contenuti programmi dimostrativi di nuove tecnologie, programmi tecnologici per le emergenze, programmi di caratterizzazione e monitoraggio dei siti contaminati o dopo bonifica, programmi inerenti al trasferimento di tecnologia. Alla data del dicembre 1996 risultavano presentati all'EPA n. 80 progetti dimostrativi riguardanti la termodistruzione, la bioremediation in situ, la bioremediation on pile, il soil washing, l'estrazione con solvente, la fitoremediation (orocesso di bonifica dei suoli attraverso l'apparato radicale delle piante, molto efficace per rimuovere i metalli pesanti), la solidificazione e la stabilizzazione, l'ossidazione catalitica, l'iniezione di vapore in situ, la termoessiccazione, la declorinizzazione, la stabilizzazione in situ, la vetrificazione in situ. il riscaldamento a radiofrequenze, la thermal desorption, il trattamento biologico con funghi, il pump and treat, il bioventing in situ, lo steam stripping, la vetrificazione ad arco, l'estrazione in situ e on site sotto vuoto, la gassificazione, l'ossidazione con raggi ultravioletti,

Canada, Australia.

In Canada sono state sviluppate tecnologie analoghe a quelle sperimentate negli Stati Uniti d'America. È stato attivato un buon mercato di operatori del settore. Le tecnologie sviluppate riguardano la bioremediation dei suoli contaminati da idrocarburi, e da pentacloro fenoli, il lavaggio dei suoli con unità mobili, impianti pilota per la demercurizzazione dei suoli inquinati, la decontaminazione dei terreni contaminati da PCB, il trattamento di bioremediation con biopile, la bioremediation dei terreni contaminati da benzina a seguito della foratura dei serbatoi interrati, l'inertizzazione dei metalli pesanti presenti nei terreni e nei fanghi, il landfarming (bioremediation) di terreni contaminati da idrocarburi policiclici aromatici.È stato anche sviluppato e brevettato un progetto di termodistruzione denominato Eco-logic capace di trattare 340 tonnellate di riifuti pericolosi e il costo di investimento si aggira sui 350 miliardi.In Australia, nel Piano regionale rifiuti del 1998 «Inner Sydney Waste Board: Regional Waste Plan 1998» viene data grande enfasi ai programmi di minimizzazione dei rifiuti e al riciclo per quanto possibile ed una serie di raccomandazioni per la gestione delle bonifiche dei suoli contaminati. Le tecnologie che sono più ricorrenti sono quelle di bioremediation. È stato sperimentato un impianto di termodistruzione il Plascon, capace di trattare 250 tonnellate di rifiuti con un costo di investimento di 2.5 miliardi.


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Il risanamento dei siti contaminati.
L'esperienza internazionale sulle tecnologie di bonifica.
Gli Stati Uniti d'America hanno sviluppato nel corso degli ultimi anni un programma (site programme) che, permettendo agli operatori del mercato di sperimentare proprie tecnologie sotto la supervisione dell'EPA (Environmental Protection Agency), ha condotto all'ottenimento di una serie di brevetti per la bonifica di siti contaminati da varie sostanze chimiche. per attuare il risanamento dei siti contaminati, l'agenzia americana si avvale dei fondi fiduciari. Il «comprehensive environmental response, compensation and liability act» (cercla) o superfund, entrato in vigore nel 1980, conferisce all'Epa l'autorità di perseguire i responsabili della contaminazione di un sito, costringendoli a provvedere al suo risanamento. qualora i responsabili non siano reperibili, o in caso d'urgenza, l'Epa provvede, in proprio, al risanamento con i fondi fiduciari, ferma restando la sua facoltà di rivalsa verso i responsabili per il recupero delle spese sostenute. Il problema dei rifiuti e del risanamento dei siti contaminati e' molto sentito negli Stati Uniti d'America, come evidenziato dai notevoli stanziamenti (circa 2 miliardi di dollari nel 1999) destinati dal governo a questo problema. Si è accertato infatti che, conseguenza del non corretto smaltimento dei rifiuti, è la contaminazione delle falde acquifere, che rappresentano la sorgente di acqua potabile per la metà del popolo americano. Per tale motivo, l'azione dell'Epa viene svolta su tre fronti: (1) risanamento dei siti contaminati, (2) interventi presso i serbatoi interrati nei quali siano state riscontrate delle perdite, (3) prevenzione degli spargimenti di petrolio. Una volta identificato il sito contaminato, viene effettuata una valutazione preliminare, l'hazard ranking system (hrs), per determinare se lo stesso meriti l'inclusione nella national priority list« (npl), ovvero la lista dei siti peggiori, che comprende oltre 1400 siti, il cui risanamento è previsto (almeno nella maggior parte dei casi) per il 2001. Le perdite dai serbatoi interrati rappresentano una delle principali sorgenti di contaminazione delle falde acquifere (circa il 20% delle falde acquifere degli Stati Uniti risulta contaminato da MTBE (metilterziariobutiletere), un composto ossigenato che si aggiunge alle benzine riformulate per ridurre le emissioni di un certo numero di inquinanti dell'aria presenti nei gas di scarico delle automobili). Infine, ogni anno, si verificano negli Stati Uniti circa 12 mila versamenti accidentali di petrolio, che in gran parte coinvolgono acque interne e litorali. Al fine di garantire un'adeguata protezione contro questi eventi e la predisposizione di adeguate misure di emergenza, è prevista una stretta collaborazione tra l'EPA. i governi degli Stati e le amministrazioni locali. L'Hazard Ranking System, HRS, è il principale meccanismo di cui l'EPA dispone per inserire i siti di rifiuti incontrollati nella lista di priorità nazionale (NPL). È un sistema di vaglio che utilizza le informazioni ottenute dalle indagini preliminari e dall'ispezione in loco per valutare il potenziale del rischio del sito per la salute umana e l'ambiente. Nel settore degli interventi di messa in sicurezza e di bonifica (sia con impianti mobili che con installazioni fisse) si è consolidata una notevole esperienza internazionale che vede gli Stati Uniti d'America giocare un ruolo dominante grazie anche ai sopracitati programmi sperimentali attivati con il Site Programm e con i finanziamenti del Superfund. Il risultato si


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è concretizzato in brevetti e riconoscimenti che hanno consentito agli operatori di esportare le loro tecnologie in altri Paesi.Un esame comparativo delle tecnologie di biorisanamento «in situ» è stato presentato di recente dal «Department of Defense - National Environmental Technology Test Site«, con riferimento all'attenuazione naturale, all'iniezione d'ossigeno ed aria ed all'iniezione microbica, per la bonifica della falde contaminate da idrocarburi aromatici e da MTBE. Un'altra tecnologia USA, assai promettente, appare quella denominata «In-situ Air Sparging» (IAS), che consiste nell'insufflare nel sottosuolo dell'aria mediante diffusori orizzontali. Tale sistema, rispetto al «Ex-situ Stripping», presenta il vantaggio di evitare i costi associati all'estrazione ed alla restituzione dell'acqua di falda. Un processo col quale è possibile ottenere l'eliminazione rapida di MTBE e di composti aromatici è quello dell'ossidazione con microbolle di ozono. Infine per la rapida eliminazione delle sorgenti di idrocarburi dall'acquifero sono state utilizzate in combinazione le tecnologie «In-situ Air Sparging» e «Soil Vapor Extraction». L'Europa ha per prima assorbito l'esperienza USA, metabolizzandola ed attivando, a sua volta, propri sistemi di intervento. Ne è derivato di conseguenza un interessante sviluppo di specifiche tecnologie (soil washing, bioremediation, inertizzazione, air sparging, air stripping, etc.). Il travaso di tecnologia dagli USA all'Europa, è stato accompagnato nel contempo da expertise professionale, anch'essa recepita ed integrata dai Paesi comunitari. Il risultato è che oggi in Europa esistono tecnologie e professionalità consolidate, in Francia, Gran Bretagna, Olanda, Danimarca, Germania.

Lo scenario dei siti contaminati nella Comunità europea.
In considerazione della complessità della materia, la Comunità Europea non ha ancora emanato una specifica direttiva sui siti contaminati ma ha tuttavia finanziato studi sperimentali, progetti, interventi, premessa indispensabile per creare una cultura specifica di settore. Pur tuttavia, sono numerosi i Paesi comunitari che, singolarmente, anche dietro pressione dell'opinione pubblica e delle associazioni ambientaliste, si stanno cimentando, già da qualche tempo e con successo (i casi dell'Olanda, della Danimarca, della Germania, lo dimostrano) nel settore degli interventi di bonifica dei siti contaminati, sviluppando, implementando, applicando e adattando alle proprie necessità tecnologie USA, non senza aver elaborato prioritariamente regole applicative ed amministrative. Secondo stime accreditate, la quantità totale di terreni contaminati nei paesi europei si aggirerebbe intorno a 150.000 siti mentre quella relativa ai rifiuti della contaminazione si attesterebbe intorno ad un miliardo di metri cubi.

GLI INTERVENTI DI BONIFICA NAZIONALI.

Una delegazione del Ministero dell'Ambiente composta da esperti nazionali, ebbe modo di verificare, nel corso di una serie di sopralluoghi in Danimarca nel mese di settembre del 1995, quanto avanti fosse quel Paese nel settore delle bonifiche . Si constatò infatti, in quella occasione,


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che la tecnologia del lavaggio del suolo realizzato con progetto Life a Copenaghen su un'area contaminata da catrami da carbon coke, dell'air stripping seguito da assorbimento su carbone attivo applicato su terreni di stazioni di servizio contaminati da benzina, della bioremediation applicata ai terreni sottostanti ai supermercati Ikea contaminati da PCB, era applicata quasi routinariamente. Da quell'esperienza non sono stati ricavati purtroppo utili insegnamenti per il nostro Paese, dal momento che il settore degli interventi di bonifica risulta ancora in forte ritardo, in considerazione anche dei forti costi economici associati. Non tutti i piani regionali di gestione dei rifiuti comprendono la programmazione degli interventi di bonifica come invece previsto dall'articolo 22 p.5 del Dlgs n. 22/97.A fronte di una disomogeneità dei piani regionali di gestione dei rifiuti, vi è tuttavia da prendere in considerazione anche il fatto che la imprenditoria nazionale non è stata ancora in grado di sviluppare un'azione tendente a ricercare tecnologie di intervento autoctone come dimostrato dal fatto che i pochi operatori presenti sul mercato, spesso si avvalgono di expertise nord europea o d'oltre Oceano. In alcuni casi si è assistito ad interventi di «pseudo bonifica» consistenti in un semplice trasferimento di rifiuti da discariche abusive a discariche controllate autorizzate, senza tentare interventi «in situ» che hanno indubbi vantaggi sia in termini di costi che di minor impatto ambientale. Negli ultimi tempi, la Commissione ha verificato altresì il verificarsi del fenomeno per cui, chi è chiamato ad intervenire, privilegia sempre più la filosofia dell'intervento di messa in sicurezza permanente di un sito contaminato ( previsto dalla norma tecnica solo quando l'applicazione della best available technology non è sufficiente o ha costi altissimi), piuttosto che un intervento più radicale e definitivo di bonifica e ripristino ambientale. A questo punto occorre però rilevare che una norma rigida basata solo sulla fissazione di limiti di concentrazione dei contaminanti nei suoli, avulsi da una valutazione di rischio ha senz'altro sfavorito il ricorso alle operazioni di bonifica come peraltro ha mostrato l'esperienza dei limiti tabellari che in alcuni Paesi si sono rivelati inefficaci in assenza di riferimenti scientifici certi ed affidabili per definire gli obiettivi di qualità sia per la componente inorganica del siti e a maggior ragione per quella organica. Il criterio di accettabilità di un sito non può non considerare prioritariamente la riduzione del rischio per la salute umana fino a livelli accettabili. Non è detto infatti che per due suoli, differenti per caratteristiche geologiche e idrogeologiche, una concentrazione residua di un determinato inquinante, fissata per legge, sia cautelativa per entrambi i siti e che non sia necessario in qualche caso intervenire con operazioni di clean-up al di sotto del limite di soglia fissato dal legislatore. Ciò significa che, dato l'alto impatto delle bonifiche sulle risorse economiche del Paese, si deve privilegiare, nel pieno rispetto del rapporto costi/benefici per la comunità, un criterio misto che assegni ai suoli limiti di accettabilità generici e limiti di clean-up realistici da raggiungere sulla base delle valutazioni di rischio, caso per caso, quasi una sorta di negoziazione fondata su progetti di bonifica in cui sia ampiamente riportato e dimostrato il criterio di valutazione scelto per quel sito specifico, supportato ovviamente e obbligatoriamente da dati sperimentali incontrovertibili. È questa la strada, riteniamo, da percorrere come sembra peraltro auspicabile con il ricorso agli «accordi di programma di risanamento» ambientale ad


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ampio respiro. Con tale ottica, le autorità locali non dovranno sentirsi in un certo senso costrette a traguardare in maniera rigida e asettica la concentrazione di un determinato inquinante, avulsa dal contesto di risanamento ambientale globale. In tale contesto deve essere invece vista la valutazione del rischio come prioritaria ad ogni intervento. È questa, forse, la chiave di lettura per spiegare i pochi esempi di iniziative autonome orientate soprattutto al settore della messa in sicurezza (vedi il caso dell'Acna di Cengio), alla bioremediation (siti Montedison),ed a un impianto sperimentale di estrazione dei suoli contaminati con solvente, in corso di costruzione a Roma e frutto della esperienza della società Ecotec e di Enitecnologie. Tale situazione, per certi versi paradossale, per come sopra detto, ha ingenerato finora, una forte dipendenza dalle tecnologie di importazione e dagli operatori esperti stranieri. Né sono sufficienti le iniziative che negli ultimi due anni si sono timidamente affacciate all'orizzonte da parte di alcune aziende private, dell'Enea, dell'Università di Pisa presso l'Istituto del professor Petruzzelli, dell'Università di Roma presso l'Istituto di chimica organica del professor Ortaggi, del CNR di Bari che sta perfezionando studi sulla fitoremediation. È giunto il momento che le iniziative, sia nel settore privato che in quello della ricerca pubblica, data la posta in palio (i numerosissimi interventi di risanamento), siano supportate da un forte e coraggioso investimento di risorse da parte dello Stato, o da finanziamenti pubblico-privati, sulla falsariga del modello americano che mette alla prova, aiutandoli, i soggetti che vogliono sperimentare nuove tecnologie sia nel settore delle smaltimento che delle bonifiche, se non altro per accelerare i tempi di crescita dell'azienda Italia e rendere il nostro sistema, competitivo ed autosufficiente. Sarà altrettanto necessario, per recuperare il gap che ci separa dall'Europa e dagli USA, promuovere, con maggiore efficacia di quanto finora fatto, la formazione professionale specifica sulla materia dedicata a coloro che negli uffici tecnici comunali saranno chiamati ad esprimere valutazioni e quindi approvare progetti di bonifica, messa in sicurezza, ripristino ambientale presentati da terzi. Tale formazione dovrebbe essere centrata su conoscenze di base di idrogeologia e geologia del territorio, chimismo dei contaminanti nel suolo e nelle falde, valutazione dei rischi per la salute dell'uomo e per l'ambiente, migliori tecnologie disponibili a costi praticabili. Non si potrà nemmeno prescindere dal promuovere l'adozione, negli atenei nazionali, di corsi di laurea specifici e mirati alla problematica delle bonifiche e della messa in sicurezza e dall'incentivare il ricorso alla certificazione ambientale e alla dichiarazione di bonifica ultimata per tutti quei siti destinati ad usi alternativi, specie nelle aree delle periferie urbane. In allegato è riportata un'ampia descrizione delle più ricorrenti tecnologie di bonifica.

Conclusioni.

In conclusione, si deve constatare che il sistema Italia è in forte ritardo nel settore dello smaltimento, delle bonifiche e dell'impiantistica ad essi correlata. Esso mostra forti dipendenze dalle tecnologie straniere, come peraltro verificato dalla Commissione nel corso della sua missione nel nord Europa nel settembre del 2000. Vi è però da


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rilevare che, nel nostro Paese, cominciano a profilarsi all'orizzonte iniziative di privati e di Enti di ricerca in grado di mettere a disposizione impianti e innovazioni tecnologiche la cui ricaduta applicativa comunque è prevista non prima dei prossimi due o tre anni. Non è ancora vincente l'idea di un sistema di gestione industriale dei rifiuti tecnologicamente avanzato né, occorre rilevare, si fa strada la volontà di realizzare bonifche, preferendo a queste interventi di messa in sicurezza complice anche una normativa che necessita di aggiustamenti e modifiche. Le iniziative nel settore pubblico e privato richiedono un forte incentivo da parte dello Stato, tramite lo stanziamento di fondi superiori a quelli già erogati e ciò al fine di accelerare i tempi di crescita delle aziende nostrane e rendere il «sistema Italia» autosufficiente. Sono ancora lunghi i tempi di recupero richiesti per realizzare il sistema integrato dei rifiuti che soffre ancora di problemi strutturali, di ritardi dovuti alla emanazione della normativa secondaria e alla difficoltà di adeguamento di quella regionale a quella nazionale. Occorre rilevare che è necessario elevare la quota della raccolta differenziata nazionale e quella della termovalorizzazione con recupero di energia, abbandonando o limitando fortemente la logica programmatoria ancora e per buona parte delle Regioni volta all'utilizzo pieno della discarica piuttosto che ad un utilizzo residuale. Per fare ciò un ruolo findamentale lo possono assolvere le tecnologie disponibili sul mercato anche se ancora di prevalente origine internazionale.Fatte salve tutte le difficoltà sopra descritte, sarà altrettanto necessario, per recuperare il gap che ci separa dall'Europa e dagli USA, promuovere, con maggiore efficacia di quanto finora fatto, la formazione professionale specifica sulla materia dedicata a coloro che negli uffici tecnici comunali saranno chiamati a concedere autorizzazioni per impianti tecnologici di smaltimento dei rifiuti o di recupero degli stessi o ad esprimere valutazioni e quindi approvare progetti di bonifica, messa in sicurezza, ripristino ambientale presentati da terzi. Tale formazione dovrebbe essere centrata su conoscenze di base di idrogeologia e geologia del territorio, chimismo delle inertizzazioni e chimismo dei contaminanti nel suolo e nelle falde, valutazione dei rischi per la salute dell'uomo e per l'ambiente, migliori tecnologie disponibili a costi praticabili, valutazioni di impatto ambientale delle aree di stoccaggio e degli impianti di smaltimento Non si potrà nemmeno prescindere dal promuovere l'adozione, negli atenei nazionali, di corsi di laurea specifici e mirati alla problematica delle bonifiche e della messa in sicurezza e dall'incentivare il ricorso alla certificazione ambientale e alla dichiarazione di bonifica ultimata per tutti quei siti destinati ad usi alternativi, specie nelle aree delle periferie urbane.Solo un radicale cambio culturale nella direzione dello sviluppo sostenibile e di una maggiore coscienza ecologica della popolazione potrà contrastare una sempre più crescente sindrome nimby (not in my backyard) che, alimentando oltre misura la sensibilità della popolazione, esaspera i toni di un ambientalismo catastrofista che non incoraggia e non aiuta l'imprenditoria ma favorisce solo il malaffare sempre pronto a rendere i propri servigi a bassi costi, negando ogni competetitività del sistema dell'imprenditoria. Un ruolo importante di supporto all'attuazione dei principi dello sviluppo sostenibile dovrà giocarlo la scuola con programmi di educazione e sensibilizzazione ecologica.


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Panoramica sugli impianti di termodistruzione.

Stati Uniti d'America.

Fino agli anni '80 negli Stati Uniti d'America venivano bruciati rifiuti urbani tal quali solo al fine di ridurne il volume e senza preoccuparsi di recuperare energia. Dal 1980 si sono programmanti interventi per recupero di energia sotto forma di vapore e di elettricità, Nel 1997 si contavano n. 112 termodistruttori con recupero di energia per una capacità di 101.360 tonnellate/giorni di rifiuti tal quali da trattare mentre solo n. 19 erano i termodistruttori senza recupero di energia in grado di trattare 2.445 tonnellate giorno di rifiuti solidi urbani. In questi ultimi anni sta crescendo l'interesse di sottoporre a termodistruzione rifiuti solidi urbani non più tal quali ma provenienti da una separazione a monte. È sviluppata la termodistruzione dei pneumatici, del legno, della carta e della plastica per un totale di 2.5 milioni di tonnellate. Oggi il dato consolidato è di 36.7 milioni di tonnellate di rifiuti totali che vengono sottoposti alla termodistruzione, ossia il 17% del totale prodotto.

Europa.

Come si è visto, in Europa, in cui si contano 270 termodistruttori, il ricorso alla tecnologia della termodisutruzione con recupero di energia è prevalente rispetto allo smaltimento in discarica. È infatti, come conferma uno studio di Federambiente (1), assai consolidata la filosofia che dal «bene» rifiuto si può ricavare energia da destinare alla produzione di calore da utilizzare con il teleriscaldamento delle città e di energia elettrica da distribuire in rete o per l'autoproduzione. Riguardo al tipo di forni (2) vi sono numerose installazioni e progetti in fase avanzata di realizzazione che utilizzano la combustione con letto fluido circolante, la pirolisi a letto fluido e la gassificazione sia a letto fisso che a letto fluido circolante. Numerose sono altresì le installazioni con «treni» di trattamento delle emissioni assai sofisticati in quanto le normative locali richiedono valori assai stringenti sui microinquinanti tra cui le diossine. Anche il problema delle ceneri ha trovato una soluzione tecnica soddisfacente con i trattamenti e lo smaltimento in discarica.

La termodistruzione dei rifiuti industriali in Europa.

Sul fronte della termodistruzione dei rifiuti industriali, in Europa vi sono almeno 17 unità assai importanti cui fanno ricorso anche numerose aziende italiane che conferiscono i loro rifiuti attraverso società intermediarie (3).

Aspetti tecnici della termodistruzione.

Si può affermare che con il termine «termodistruzione» si può indicare un insieme di processi termici (1) nel quale le molecole del rifiuto vengono distrutte per via termica sia per semplice riscaldamento che per reazioni chimiche esotermiche.


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La combustione.

Nel processo di combustione le sostanze ossidabili del rifiuto contenenti carbonio e idrogeno e che costituiscono il «combustibile», vengono a contatto con ossigeno o con aria e, in condizioni ottimali di processo, attraverso una serie di reazioni chimiche esotermiche, danno luogo alla formazione di vapore acqueo e di anidride carbonica. Se nel rifiuto è contenuto, cloro, fosforo, zolfo, fluoro, metalli, nel gas finale di combustione si avrà, oltre all'anidride carbonica, al vapore acqueo si troverà anche acido cloridrico, anidride fosforica, biossido di zolfo, acido fluoridrico, ossidi di metalli, ossidi di azoto. Normalmente la quantità di aria (comburente) necessaria alla completa combustione viene detta «stechiometrica» e per ogni chilogrammo di CH2 è richiesta una quantità di 15.7 chilogrammi di aria. Se invece si opera con quantità di aria superiori o inferiori a quella stechiometrica si dice che la combustione avviene in eccesso o in difetto d'aria. Le combustioni in difetto di aria, in quanto non vi è ossigeno sufficiente per una combustione completa, danno origine a sostanze intermedie di combustione e a monossido di carbonio. Quando si opera con eccessi di aria, la combustione si completa ma i gas di combustione sono più diluiti ed inoltre si ha un abbassamento della temperatura rispetto alla reazione stechiometrica. Nei processi di combustione in cui sono coinvolti i rifiuti o comunque sostanze che possono comportare problemi ambientali occorre che la combustione permetta la massima ossidazione dei componenti il rifiuto e la minima produzione di sostanze inquinanti, dette «microinquinanti» che, anche in bassa concentrazione, interagiscono negativamente con l'ambiente. Ovviamente, un risultato ottimale si ottiene se, oltre al controllo della combustione, l'impianto è dotato di sistemi efficienti di abbattimento delle emissioni.

La combustione catalitica.

Si parla di combustione catalitica quando una sostanza organica, in presenza di un catalizzatore viene combusta a temperature di gran lunga più basse rispetto a quelle della combustione normale. Le sostanze usate come catalizzatori possono essere il platino, il cromo, il manganese, gli ossidi di rame. Il platino ha la capacità di abbassare di più la temperatura di combustione. Le temperature in gioco nella combustione catalitica completa sono di norma comprese tra 500oC e 550oC. Il processo di combustione catalitica è complesso e comprende la diffusione dei reagenti sulla superficie del catalizzatore, l'adsorbimento di questi sulla superficie, la reazione tra le sostanze adsorbite, l'abbandono della superficie del catalizzatore da parte dei prodotti della combustione e la loro diffusione nei gas finale. La combustione catalitica è utilizzata per la distruzione di sostanze organiche presenti in basse concentrazioni che ,in un processo di combustione normale, non sarebbero in grado di sostenere il processo ossidativo.

La pirolisi.

È un processo di distruzione delle sostanze organiche che avviene termicamente in assenza di ossigeno. I gas della reazione pirolitica


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sono costituiti da metano, monossido di carbonio, vapore acqueo. Tali gas sono miscele a loro volta combustibili. La pirolisi è un processo assai complesso in cui avvengono reazioni di decomposizione, di cracking esotermiche ed endotermiche ed è controllato essenzialmente da due fattori: la trasmissione di calore, spesso predominante e la velocità di reazione. Un processo di pirolisi generalmente si completa ad una temperatura intorno ai 1000oC con tempi di riscaldamento (più precisamente di pirolisi) che vanno da qualche secondo a qualche decina di minuti. La natura dei prodotti della pirolisi è strettamente dipendente da quella del rifiuto di partenza, dalle temperature raggiunte nel processo e dai tempi di permanenza del rifiuto nel reattore di pirolisi.

La gassificazione.

Il processo di gassificazione è un insieme di altri processi il cui risultato finale, a partire da un combustibile solido, consiste nella produzione di un combustibile generalmente gassoso o sotto forma di vapore. Il gas prodotto, composto principalmente di monossido di carbonio, di metano e da altri idrocarburi leggeri e di idrogeno, dopo una serie di lavaggi, viene utilizzato come combustibile il cui potere calorifico si aggira intorno ai 1500-2500 kcalorie per normal metro cubo. I processi di gassificazione, di norma, sono condotti in difetto di aria. Quando nel processo di gassificazione si opera a temperature dell'ordine di 900oC -1000oC, aumenta la concentrazione del monossido di carbonio, mentre per temperature intorno ai 700-800 oC prevale la formazione di idrogeno.

La torcia al plasma o dissociatore molecolare.

Il plasma è un gas ionizzato che costituisce il quarto stato della materia ed è presente in natura, per esempio, quando si verifica il fenomeno dell'aurora boreale. Per produrre artificialmente il plasma si utilizzano le cosiddette «torce al plasma» con le quali si ottengono altissime temperature, fino a 14.000 oC che non è possibile raggiungere con altre tecnologie disponibili. Nelle condizioni termiche che si producono con la torcia al plasma avviene una «dissociazione molecolare» di ogni tipologia di rifiuto sia esso organico che inorganico, pericoloso o non pericoloso. Il processo con torcia al plasma avviene in assenza di ossigeno e non dà luogo quindi a combustione. I tempi della dissociazione molecolare alle alte temperature sono dell'ordine di millesimi di secondo. Se la dissociazione viene accompagnata da aggiunta di quantità precise di acqua, nel reattore si ha la gassificazione istantanea di ogni rifiuto organico in gas di sintesi e si evita cosi la formazione di diossine. Alle temperature in gioco (3000oC) avviene anche la fusione e l'inertizzazione delle specie metalliche tossiche che possono essere recuperate e non si formano scorie o ceneri. I gas prodotti dalla torcia al plasma, iniettati in una turbina, permettono la generazione di energia. La Global Plasma System Corporation (GPSC) di Washington DC, USA, detiene due brevetti di pirolisi e vetrificazione mediante torce al plasma, mentre la Westinghouse Electric, associata alla GPSC, è la


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fornitrice del sistema plasma.Infine la Babcock Wilcox Espana, di Bilbao è la società associata alla GPSC per la parte impiantistica Waste to Energy, ed è la partner europea specialista in impianti «chiavi in mano». La tecnologia al plasma è certamente promettente per il suo impatto positivo sull'ambiente ma in Italia, per come detto in precedenza è ancora allo stato embrionale di sperimentazione.

I sistemi di combustione.

Forni a griglia.

La combustione dei rifiuti, in particolare di quelli solidi urbani avviene spesso nei forni a griglia assai diffusi a livello mondiale. La tecnologia di tali forni è ormai consolidata e i miglioramenti possibili attengono alla natura dei refrattari ed ai profili fluidodinamici della combustione e l'ottimizzazione della griglia. La potenzialità di tali forni va dalle 40 alle 1000 tonnellate/giorno. L'aria di combustione (primaria) viene iniettata sotto la griglia e quella secondaria sopra il letto del rifiuto per favorirne una più completa distruzione. Spesso la griglia è del tipo mobile e il rifiuto è tenuto in continuo movimento. Esistono griglie a rulli e a gradini che assumono diverse configurazioni a seconda delle ditte che le costruiscono: Si hanno così griglie D.B.A. (Deutsche Babcock Anlagen), Von Roll, Martin, Riley etc. In tale forno i tempi di residenza sono normalmente compresi tra 30 e 60 minuti. Una elevata efficienza di combustione si può ottenere valutando bene il carico termico superficiale della griglia e i tempi di residenza non troppo brevi. Importanti sono pure la geometria e il volume della camera di combustione. La natura della griglia, la sua durata, le caratteristiche, sono elementi fondamentali per garantire una buona combustione. Per esempio essa non deve deformarsi con il calore e non deve intasarsi impedendo cosi il passaggio dell'aria di combustione.

Tamburo rotante.

Si tratta di forni costituiti da un cilindro rotante inclinato da 1 a 3% per favorire il movimento del rifiuto solido. La combustione in tali tamburi avviene per contatto con la parete del forno rivestita con mattoni refrattari. Le scorie di combustione vengono scaricate dall'estremità opposta alla testa di carico del rifiuto. In tali forni non vi è un efficace mescolamento e un contatto sufficiente con l'aria di combustione per cui, a valle della combustione, sono necessari sistemi di post-combustione per migliorare e completare la combustione. Se il flusso del letto di rifiuto e il gas comburente avviene nella stessa direzione si hanno i forni in equicorrente, se i due flussi avvengono in direzioni opposte si hanno i forni controcorrente. Il tempo di permanenza nel forno è controllato dalla lunghezza del cilindro, dal diametro interno, dalla inclinazione e dal numero di giri. Data la sua flessibilità, al di là dei limiti su esposti, si può affermare che il forno rotante, e l'esperienza operativa lo conferma, sia un sistema di incenerimento semplice ed affidabile, capace di operare in diverse condizioni di alimentazione purchè vi sia una attenta gestione.


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Letto fluido.

Il forno a letto fluido è costituito da un cilindro verticale in cui il rifiuto da distruggere è tenuto in sospensione per mezzo di una corrente d'aria che attraversa una griglia su cui è posato un letto di sabbia che si mescola al rifiuto in fase di sospensione. Un fattore che regola il funzionamento del letto è la velocità superficiale dell'aria detta anche di fluidificazione che è data dalla portata volumetrica dell'aria divisa per la sezione del letto. La diffusione di tale forno nel settore petrolifero e petrolchimico ora si è estesa anche al settore dei rifiuti urbani, al residual derived fuel (RDF) e si pensa che si estenderà anche al CDR. In tale forno è possibile un miglior controllo degli inquinanti in fase di combustione e una buona flessibilità rispetto al carico che si ottiene con il controllo dell'aria di combustione: Sono poche le parti meccaniche in movimento e vi è un basso contenuto organico nelle scorie. Tra i fattori negativi vi è la possibilità che il letto sinterizzi e si defluidifichi a causa della fusione della sabbia con sostanze basso fondenti presenti nel rifiuto. Il forno può operare a pressione atmosferica o a pressione più alta .Normalmente si preferisce la pressione atmosferica. Esistono anche varianti di forni ricircolati dove si ha un trascinamento di particolato che viene ricircolato e depositato sul letto dopo essere passato in un ciclone di separazione e prima che i fumi lascino il letto. Ciò consente una turbolenza che evita le disomogeneità del processo e favorisce l'efficienza dello scambio termico. L'alimentazione deve avvenire con pezzature opportune di materiale da 50 a 60 millimetri. Le temperature in gioco sono dell'ordine degli 850oC anche se spesso alla combustione viene associata una camera di post-combustione che porta la temperatura fino a 950-1000 oC. Tali forni operano con eccessi d'aria compresi tra il 20 e il 40 per cento e si possono raggiungere rendimenti termici del 99% dove per rendimento termico si intende il rapporto in volume tra la CO2 nei fumi e la somma di CO e CO2.

Forno a suola a piani multipli.

Tale tipo di forno trova impiego nell'incenerimento dei fanghi con una umidità che si aggira tra il 50% e l'85%. Non si adatta per l'incenerimento di solidi. I piani di tali forni, vere e proprie fornaci, sono variabili tra i 5 e i 12.I fanghi vengono introdotti sul primo piano a partire dall'alto e, tramite bracci rotanti, passano ai piani inferiori successivi. La combustione avviene nei piani centrali del forno con temperature dell'ordine dei 900-1000oC, mentre i gas in uscita hanno temperature nel range 400 - 700oC. Problemi di tali forni sono costituiti dagli odori dei gas in uscita( che richiedono una fase di post-combustione) e dalla fusione delle ceneri,

Camere di post-combustione.

Le camere di combustione, poste a valle delle camere di combustione, vengono utilizzate per completare la combustione dei gas prodotti nella camera primaria. I parametri che di norma sono


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controllati nella camera di post-combustione sono il tempo medio di residenza dei fumi, la temperatura dei fumi, la turbolenza, il contenuto di ossigeno dei fumi.

Le tecnologie di trattamento delle emissioni.

Filtri elettrostatici.

Nonostante abbiano avuto finora largo impiego, tali sistemi sono sempre di più sostituiti da sistemi filtranti più efficaci ed efficienti per l'abbattimento delle emissioni e il raggiungimento degli standard fissati dalle severe leggi sull'inquinamento dell'aria. Tali filtri permettono la separazione delle particelle solide e liquide dai gas che vengono convogliati in un campo elettrostatico. In tale passaggio le particelle si caricano elettricamente e una volta immerse in un campo elettrico, si raccolgono sull'elettrodo, vengono rimosse e liberano l'elettrodo che raccoglie poi le successive particelle. I vantaggi offerti da tali filtri sono costituiti dalle elevate efficienze di rimozione dell'ordine del 99% anche per basse granulometrie dell'ordine dei 5 microns. Sono anche basse e modeste le perdite di carico in confronto ad altri sistemi di uguale efficienza. Tra i fattori negativi vi è l'alto costo di installazione, il rischio di incendi e di esplosioni e l'impiego di mano d'opera specializzata per le operazioni di gestione e manutenzione.

Mezzi filtranti.

Sono considerati i migliori sistemi per l'abbattimento delle polveri negli impianti di termodistruzione dei rifiuti. Il particolato presente nei fumi secchi viene catturato aerodinamicamente su mezzi assorbenti costituiti da tessuti o mezzi porosi. Dopo un primo assorbimento si forma uno strato di materiale particolato che funge anch'esso da mezzo filtrante. L'accumulo di particolato, tuttavia, abbassa l'efficienza del mezzo filtrante e provoca perdite di carico che richiedono la rimozione delle polveri stratificate. Normalmente tali mezzi filtranti sono costituiti da uno o più comparti distanziati tra loro e aventi forma di maniche o sacchi. I vantaggi di tali filtri rispetto ad altri sistemi simili sono costituiti dalla elevata efficienza, valutata intorno al 99% di captazione per ogni tipo di granulometria. Non vi sono problemi di corrosione ne di scarichi liquidi. A volte si utilizzano additivi che vengono iniettati nel flusso gassoso e permettono l'assorbimento e la rimozione dei gas sul letto filtrante. Lo svantaggio consiste nell'usura delle maniche a causa delle temperature in gioco, nell'intasamento del tessuto se sono presenti nei gas sostanze igroscopiche o adesive.

Depolveratori a umido.

Si usano quando vengono termodistrutti i fanghi o alcuni tipi di residui industriali. Quando nel gas che contiene le polveri è presente anche un inquinante gassoso solubile in mezzo acquoso, il sistema ad umido è capace di trasferire la massa dell'inquinante nella fase


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liquida. Il liquido di depolverazione è a volte costituito da goccioline atomizzate stese sulle pareti del condotto in cui transita il flusso gassoso. I depolveratori ad umido più utilizzati sono le torri di lavaggio a spruzzo con anelli o materiali di riempimento fissi o in movimento e i sistemi Venturi. L'efficienza massima si ottiene con i Venturi ed è regolata dalla velocità del gas nella parte più stretta del sistema e dal grado di dispersione dell'acqua. La depolverazione ad umido offre indubbi vantaggi in quanto, oltre al trattamento di emissioni gassose, ha buona efficacia anche sulle particelle solide fini, riduce i rischi di esplosioni e di incendio e offre ingombri bassi. Gli svantaggi sono il conseguente inquinamento delle acque e la produzione di fanghi, la bassa temperatura dei fumi che vengono emessi dal camino allo stato molto umido.

Sistemi di assorbimento.

L'assorbimento di gas e vapori acidi o basici su liquidi è un processo ad umido in cui il liquido esausto può generalmente essere rigenerato in sistemi di deassorbimento rimettendo in ciclo il liquido stesso di assorbimento. Esistono anche processi a secco che utilizzano il calcare, la calce atomizzata per l'assorbimento dei gas. L'efficienza di tali sistemi è alta per gas molto reattivi come per esempio la SO2, l'acido cloridrico, l'acido fluoridrico. I problemi di tali sistemi sono legati allo smaltimento dei prodotti di assorbimento ove questi non possano essere riciclati.

Sistemi avanzati.

In alcuni impianti complessi di trattamento dei rifiuti per termodistruzione, esiste una serie di configurazioni particolarmente predisposte per l'abbattimento dei microinquinanti in cui sono installati anche altri sistemi per l'abbattimento o la riduzione degli ossidi di azoto. Tali sistemi prendono il nome di SNCR ossia «selective non catalytic reduction» o SCR «selective catalytic reduction».

- SNCR -

In camera di combustione viene addizionata urea o ammoniaca o composti ammidici per cui si ha una reazione ad alta temperatura tra gli ossidi di azoto e l'additivo immesso che porta alla formazione di azoto molecolare. Per ottenere la massima efficienza del processo e la minima perdita di ammoniaca (aggiunta in eccesso) occorre ben posizionare gli ugelli di iniezione nelle zone comprese in ben determinati intervalli di temperatura tra 900oC e 1000 oC. Il rendimento di rimozione degli ossidi di azoto può raggiungere valori anche del 70%. È da notare che in tali condizioni, la presenza di ammoniaca comporta anche una riduzione delle diossine a valle della caldaia. Tale fenomeno sembra sia collegato alla inibizione dell'attività catalitica delle ceneri volanti nei processi di riformazione delle diossine a bassa temperatura.


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-SCR -

In questo caso la conversione degli ossidi di azoto avviene a basse temperature dell'ordine dei 250-350oC, in quanto si utilizzano catalizzatori a base di platino, titanio, vanadio. L'unità catalitica di conversione viene collocata a valle del sistema di depolverazione e assorbimento. In tal modo si ridurranno notevolmente i rischi di disattivazione del catalizzatore. Tale sistema di catalisi incide efficacemente anche sulla conversione di composti organici in quanto, essendo esso in grado di fissare l'ossigeno libero presente nei fumi, innesca reazioni di ossidazione. Le riduzioni degli ossidi di azoto sono intorno all'80%. Se il convertitore catalitico viene inserito a valle di un elettrofiltro , di un lavaggio a due stadi con un condensatore ed un Venturi, si hanno anche conversioni elevate dell'ordine del 90-95% anche per le diossine e furani il che consente di raggiungere valori di concentrazione residua di TCDD nei fumi inferiori a 0.1 nanogrammi/ Nmc. Nel caso in cui il convertitore catalitico sia posto a valle di un impianto a semisecco con filtro a maniche, il dosaggio di solfuro sodico è efficace per la rimozione del mercurio.

(1) Istituto per l'Ambiente 1995 - Tecnologie per il trattamento e lo smaltimento dei rifiuti di origine industriale - 1 la Termodistruzione - a cura di D. Pitea, M. Giugliano.
(2) Fondazione Lombardia per l'Ambiente 1996 - La termoutilizzazione nello smaltimento dei rifiuti.

Norme tecniche per la realizzazione delle discariche

La deliberazione del 27 luglio 1984, come sopra detto, detta i criteri tecnici per la progettazione, installazione , gestione, delle discariche controllate per ospitare rifiuti urbani e speciali. La normativa tecnica è derivata da quella dei Paesi del nord-Europa e d'oltre Oceano degli anni '80.Il principio fondamentale che deve guidare chi si accinge a progettare una discarica controllata di rifiuti è quello di prevedere un sistema di impermeabilizzazione naturale a base di argille di determinato spessore o artificiale a base di teli plastici aventi spessori e caratteristiche di resistenza atti ad evitare comunque che, a causa di rotture o fessurazioni del manto, possano insorgere contatti diretti tra il percolato e la falda idrica sottostante. La severità costruttiva delle discariche secondo la norma italiana è strettamente connessa con la tipologia e con le caratteristiche dei rifiuti che in esse verranno ospitate e cresce dalla I categoria A (che ospita i rifiuti solidi urbani) alle categoria B e C che ospitano rifiuti speciali. L'esperienza nazionale della gestione delle discariche controllate ha mostrato che la norma tecnica deve essere implementata e in tal senso urge l'emanazione del decreto attuativo dell'articolo5, comma 6, del decreto legislativo 5 febbraio 1997 n. 22 che relativamente ai rifiuti solidi urbani, a nostro giudizio, dovrebbe tenere in considerazione se non inglobare del tutto quanto riportato nelle «linee guida per le discariche controllate di rifiuti solidi urbani»


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ossia il documento redatto dal CISA (Centro di ingegneria ambientale e sanitaria dell'Università di Cagliari) nel 1997 cui hanno aderito almeno 80 esperti nazionali di pianificazione ambientale, fisici, chimici, ingegneri, igienisti, legali, amministrativisti. Nel documento viene dato ampio risalto:
ai criteri di pianificazione sia su vasta scala che a scala locale;
alla scelta del sito e alla sua caratterizzazione attraverso un attento studio della topografia, delle attività antropiche;
alle caratteristiche naturalistiche ed agroforestali, geologiche, pedologiche, idrografiche, geotecniche etc.;
agli aspetti di stabilità e deformazione delle discariche sia del corpo dei rifiuti, sia dei rivestimenti, della copertura finale in fase di ripristino, delle arginature e delle opere di sostegno;
al «sistema barriera di base» con la scelta dei materiali e degli strati di impermeabilizzazione, al sistema di drenaggio, raccolta del percolato, gestione, monitoraggio del percolato;
al sistema di prevenzione della contaminazione della falda;
al sistema di gestione del biogas sia in termini di captazione che di trasporto, di controllo della diffusione e dello smaltimento;
alla gestione della discarica (organizzazione, aree di servizi, piani di gestione, raccolta dati, aspetti economici ed amministrativi etc);
modalità di gestione post-esercizio;
ai sistemi di tutela della popolazione, della sicurezza dei lavoratori;
agli aspetti igienico-sanitari e ai programmi di certificazione di qualità sia della gestione che del sito scelto.

Nel panorama internazionale delle tecniche di realizzazione delle discariche controllate va rilevato che, il manuale tecnico «Solid waste disposal facility criteria» redatto dall'EPA-USA nel 1993 e aggiornato nel mese di aprile del 1998 come documento EPA 530-R-93-017, è oggi da ritenersi uno strumento assai avanzato da utilizzare da parte di chi è chiamato a normare, progettare, costruire nel settore delle discariche a minor impatto ambientale.

Il panorama internazionale delle discariche.

Nel panorama internazionale si evidenzia che il ricorso alla discarica come sistema di smaltimento è ancora assai diffuso e variegato pur con diverse percentuali di utilizzo. Negli Stati Uniti d'America, per esempio, in cui la produzione di rifiuti solidi urbani è passata da 88 milioni di tonnellate del 1988 a 217 milioni di tonnellate del 1997, pur vigendo un approccio di gestione integrata, il ricorso alla discarica controllata (landfill) nei 2200 siti comunali


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risultava nel 1997 dell'ordine del 45% a fronte di un 27% di riciclo includente il compostaggio e di un 18% di termodistruzione. In Giappone il dato del ricorso alla discarica si attesta mediamente intorno al 25% essendo prevalente la termodistruzione (circa il 73%) e poco praticato il recupero. In ambito europeo la situazione, per ciò che attiene ai rifiuti solidi urbani, a metà degli anni '90 era la seguente:

per cento di scarica per cento termodistruzione per cento altro (tra cuiriciclo)
Francia50 45 5
Austria45 16 39
Germania45 20 35
Gran Bretagna80 10 10
Danimarca20 65 15
Svezia35 55 10
Olanda- 33 -
Belgio- 23 -
Svizzera23 47 30

In Italia agli inizi degli anni '90 si avevano valori intorno al 90% per la discarica, al 6% per la termodistruzione e al 4% per il recupero. Dal secondo rapporto sui rifiuti solidi urbani e sugli imballaggi e rifiuti da imballaggio, elaborato dall'Osservatorio Nazionale rifiuti e dall'Anpa e riferito al periodo 1996-1997, si evince che lo smaltimento in discarica si è attestato al 79.9%, la termodistruzione al 6.6%, la produzione di compost e CDR (combustibile derivato dai rifiuti) intorno al 9.4% e gli altri trattamenti intorno al 1.2%.

I sistemi di trattamento.

Il trattamento dei rifiuti solidi urbani.

I rifiuti solidi urbani sono sottoposti a procedure diverse a seconda della loro destinazione. Nel caso dell'avviamento in discarica o alla termodistruzione tal quali (tale pratica è ancora in uso, nonostante la normativa vigente imponga la raccolta differenziata, il recupero e la limitazione dell'utilizzo delle discariche da 1 gennaio 2001), il rifiuto raccolto dai servizi comunali, viene avviato alle stazioni di trasferenza nelle quali viene pressato in macchine compattatrici, regettato e avviato allo smaltimento. Una volta abbancato in discarica viene deodorizzato utilizzando opportuni agenti chimici o poliuretani sotto forma di spray, ricoperto con inerte e successivamente compattato. Il percolato prodotto dai processi fermentativi e dal dilavamento delle piogge viene periodicamente raccolto e avviato agli impianti di depurazione o riciclato in testa alla discarica. Se invece il rifiuto urbano viene sottoposto a raccolta differenziata sia con il sistema di raccolta porta a porta in contenitori


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separati messi a disposizione dei cittadini ,sia per mezzo di cassonetti di colore diverso per la raccolta singola o multimateriale, allora i trattamenti sono di due tipi: selezione manuale o meccanica della frazione secca (comprensiva di deferrizzazione dei materiali metallici per mezzo di elettrocalamite) da avviare successivamente alle filiere di recupero di legno, carta, alluminio e metalli, vetro, plastica e compostaggio della frazione umida da rifiuto urbano tal quale per l'ottenimento di un compost di bassa qualità o dai residui dei mercatali e delle operazioni di sfalcio e giardinaggio per ottenere invece un compost di qualità. Mentre per il recupero della frazione secca i singoli materiali vengono avviati alle filiere delle aziende di produzione di plastica, vetro, carta, alluminio etc, nel caso del compostaggio la frazione umida in alcune regioni viene compostata in idonei compostatori in legno aerati a cura delle stesse famiglie che la producono (es. Trentino) o conferita ad operatori che la avviano a impianti di compostaggio. I problemi che si pongono con tali impianti sono essenzialmente quelli dei cattivi odori (che non favoriscono il consenso delle popolazioni esposte) ove questi non siano provvisti di idonei biofiltri a letto torbiero o a microorganismi supportati su anelli ceramici. Gli impianti sopracitati sono provvisti di biofiltri e solo nel caso del sito di Tempio Pausania è necessario potenziare l'unico filtro a letto torbiero esistente, data l'intensità dei cattivi odori, peraltro verificata dalla Commissione nel corso della visita nella regione Sardegna nei giorni 30 e 31 dello scorso mese di gennaio.Particolari dettagli possono riscontrarsi nell'allegato al documento.

Il trattamento dei rifiuti di origine sanitaria.

Ai sensi dell'articolo 45 del decreto legislativo n. 22 del 5 febbraio 1997, i rifiuti di origine sanitaria, subiscono un trattamento di smaltimento definito per termodistruzione preceduto per alcune tipologie da disinfezione. Il decreto attuativo dell'articolo 45, da poco emanato, dà la possibilità di avviare tali rifiuti alla discarica controllata previa sterilizzazione ove il fabbisogno degli impianti di termodistruzione non risulti adeguato. In tal caso però la procedura del conferimento in discarica è subordinata all'autorizzazione del presidente della regione interessata, d'intesa con i ministri della Sanità e dell'Ambiente. Impianti con tecnologia accettabile sono quelli della ditta Mengozzi di Forlì e dell'Ama di Ponte Malnome a Roma che tuttavia richiedono una più accurata gestione, soprattutto per ciò che riguarda le emissioni di mercurio.

Trattamento del percolato di discarica.

Il percolato, com'è noto, si forma a seguito delle degradazione fermentativa dei rifiuti organici collocati nella discarica e del dilavamento della superficie esposta dei rifiuti causato dalle piogge che, infiltrandosi nel corpo della discarica, percolano e permeano il corpo stesso raggiungendo poi il fondo. Periodicamente è previsto che il percolato venga allontanato prelevandolo, a mezzo pompe, dai pozzi appositamente installati nella discarica e che vengono alimentati


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dalla rete di drenaggio presente sul fondo stesso della discarica. Data la composizione chimica del liquido (alti valori di COD e BOD) esso va trattato in impianti di depurazione biologici possibilmente muniti di sezione dei denitrificazione, in considerazione della concentrazione di ammoniaca presente nel percolato stesso.

Il trattamento dei rifiuti speciali.

I rifiuti speciali comprendono un'ampia gamma di tipologie che va dai rifiuti inerti ai rifiuti speciali pericolosi di origine industriale.
Nel caso dei rifiuti inerti, i trattamenti sono limitati alla frantumazione (seguita in qualche caso da vagliatura e separazione per pezzatura), al bagnamento per minimizzare i problemi di polverosità durante il trasporto e durante l'abbancamento in discarica. Un particolare trattamento subiscono le lastre di eternit che sono miscele di cemento-amianto. Tali lastre una volta, rimosse dai capannoni o da altri manufatti, vengono bagnate, avvolte con teli di plastica, sigillate e conferite nelle discariche, avendo cura di non provocare rotture durante le fasi di abbancamento. Ciò al fine di evitare la dispersione di fibre libere di amianto cancerogeno in atmosfera.
I rifiuti speciali possono essere trattati ai fini di un loro corretto smaltimento o di un loro recupero. Con le operazioni di centrifugazione o filtropressatura effettuate per es. su fanghi della industria petrolifera, chimica, farmaceutica, vengono recuperati prodotti ancora utilizzabili separandoli dalle torte (filter cake) che, dopo successivo trattamento di inertizzazione, vengono avviate alla discarica controllata. Nel settore farmaceutico, dai brodi di cultura o dai liquidi biologici esausti, è possibile recuperare i principi attivi o comunque le specie chimiche ancora utilizzabili, tramite processi di evaporazione, refrigerazione, distillazione azeotropica, cristallizzazione, filtrazione. Nel settore della galvanotecnica e della elettrometallurgia o delle concerie, trovano buona applicazione i processi di neutralizzazione acido-base, della riduzione con agenti riducenti seguita da precipitazione dei sali insolubili, come nel caso dei cromati che sottoposti a trattamento con bisolfito sodico vengono precipitati dalla soluzione come idrossido di cromo trivalente insolubile. Nel settore della galvanotecnica sono anche utilizzati trattamenti di ossidazione con cloro o ipoclorito sodico sui rifiuti che contengono cianuri. Nel settore della metallurgia sono applicati i trattamenti di cementazione ed elettrolisi. Nell'industria chimica il recupero dei solventi dai rifiuti avviene, se economicamente praticabile, per distillazione, strippaggio. Alcuni componenti pregiati di natura organica presenti nei rifiuti possono essere recuperati per estrazione con solventi selettivi. Nel settore dei metalli pregiati si possono utilizzare le membrane osmotiche o lo scambio ionico per il recupero di alcune specie ioniche di particolare interesse. Promettente sembra la via dell'essiccamento seguito dalla calcinazione di alcuni fanghi inorganici contenenti calce, alluminio, etc. nel settore del recupero dei metalli pregiati (oro, argento, etc) dai rifiuti esistono realtà industriali nazionali come la Chimet di Prato (specializzata nel recupero dell'oro) e la Engitec di Milano che ha sviluppato un processo di recupero dei metalli dalle


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schede e dalla componentistica dei computers televisori e dalle apparecchiature elettroniche e un altro processo di recupero dello zinco dalle ferriti di zinco componenti principali dei fumi della metallurgia dello zinco.
Un particolare settore dei trattamenti è quello dei processi di inertizzazione. L'inertizzazione ha lo scopo di ridurre o eliminare la cessione dei componenti inquinanti presenti nel rifiuto. In tal modo si ottengono due risultati: il primo è quello di declassare il rifiuto permettendone lo smaltimento in discariche di categoria meno severa (es. 2B anziché 2C) e a costi più bassi, il secondo è quello di ridurre sensibilmente la pericolosità nel tempo nei confronti delle popolazioni esposte e dell'ambiente. Nei i processi di inertizzazione si può fare ricorso al cemento o alla bentonite associata all'idrossido di calcio che facilitano i fenomeni di precipitazione e complessazione degli ioni metallici presenti nel rifiuto, rendendoli insolubili. Numerosi trattamenti sono stati brevettati a livello internazionale come per es. il Chemfix degli USA che è utilizzato anche in Italia dalla Servizi industriali e che fa ricorso all'utilizzo di cemento e silicati solubili, il Sealoseafe.stablex (prevalentemente utilizzato in Gran Bretagna, Giappone, Nord America) che impiega il cemento portland e alcune tipologie di silicati complessi di alluminio e ferro. A Modena, presso la piattaforma polifunzionale gestita dal Comune viene impiegato il processo Soliroc brevettato in Belgio e che rientra nei processi cosiddetti a base acida ed è adatto per i rifiuti della galvanica, della fotografia, dei metalli pesanti in genere. Altri brevetti fanno ricorso alla calce (Envirosafe Usa, Petrifix francese), alle argille (Biobrick-Usa),o a sostanze termoplastiche, o a incapsulamento in polietilene o polimeri organici. In Italia, sono state sviluppate e consolidate esperienze di inertizzazione dei fondami di serbatoi del settore petrolifero (tecnologia Ecotec utilizzata nelle raffinerie Agip di San Nazzaro dei Burgondi, Saras di Sarroch, Agip di Livorno) con impianti che prevedono una centrifugazione preliminare con centrifughe orizzontali o verticali a due o tre vie, per mezzo delle quali, dal fondame si separa quasi tutto l'olio libero che viene rilavorato in raffineria (tale olio contiene non più dell'uno per cento di acqua) e una torta prevalentemente costituita da inorganico con una parte minima di olio adsorbito che viene sottoposta a trattamenti di inertizzazione con silicati solubili. Il prodotto della inertizzazione , dopo un periodo di maturazione all'aria, viene sottoposto a test di cessione ed avviato in discarica di tipo 2B.Come la Commissione ha avuto modo di appurare, presso la Saras viene impiegata un'altra tecnologia Ecotec , detta TOR, che è molto simile a quella di inertizzazione dei fondami oleosi ma fa anche ricorso a particolari additivi chimici per il trattamento, tra l'altro, dei catalizzatori esausti a base di metalli come il cobalto e il molibdeno. Un trattamento di inertizzazione dei fondami oleosi di tipo bentonitico è anche utilizzato dalla società Riccoboni presso la raffineria Api di Falconara, Ancona). Recentemente è stato realizzato dalla società Ecoservice di Macerata un impianto di inertizzazione a servizio di terzi di Macerata. In tale impianto, già operativo da circa un anno con ottimi risultati, si utilizza il processo Inertix elaborato e progettato dall'Università di Roma «La Sapienza» presso l'Istituto di Chimica


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Organica dal Prof. Ortaggi. Per ciò che riguarda il trattamento delle acque di falda contaminate da BTX (benzene, toluene, xilene) è da anni operativo presso la raffinera Agip di Sannazzaro dei Burgondi un sistema ad ossidazione con ozono denominato TAF e un altro di ossidazione delle sode esauste (classificate come rifiuti pericolosi) ricche di, solfuri, mercaptani e fenoli (rifiuti pericolosi) denominato ISO entrambi con tecnologia Ecotec.

La sperimentazione in Italia.

Oltre alle tecnologie di trattamento dei rifiuti speciali nazionali utilizzate prevalentemente nel settore petrolifero e in quello del recupero dei metalli, vi è da considerare che sono state sviluppate o sono ancora in fase di sperimentazione da parte di Enea, CNR, Pirelli, tecnologie di trattamento dei rifiuti che, in qualche caso, hanno permesso l'ottenimento di brevetti. Per i dettagli vedi allegato.

Gli impianti mobili Enea per il trattamento dei rifiuti.

Il dipartimento ambiente, divisione tecnologie, ingegneria e servizi ambientali dell'Enea di Roma ha sviluppato una serie di prototipi di impianti mobili utili non solo a sostegno degli impianti fissi ma anche per altri impieghi quali lo smaltimento di rifiuti speciali (teloni di plastica utilizzati in agricoltura e contaminati da antiparassitari, sacchi di plastica sporchi di diserbanti, rifiuti infetti ospedalieri, percolati di discarica etc). Tali impianti, alcuni dei quali ancora in sperimentazione, sono anche utilizzabili nelle operazioni di bonifica dei siti contaminati anche da amianto e per il trattamento «in situ» quando i contaminanti da rimuovere non ne consigliano il trasporto e lo smaltimento in altri siti più o meno lontani. L'utilizzo di unità mobili per il trattamento dei rifiuti o per la bonifica dei siti contaminati è previsto anche dal decreto legislativo n. 22 del 5 febbraio 1997.
Impianto mobile Focus ex Triter, di termotrattmento dei rifiuti solidi e terreni inquinati da sostanze organiche. Si tratta di un forno a tamburo rotante con potenzialità di 7.65 MW termici. La sezione di trattamento dei fumi è in grado di rispettare i limiti più stringenti della normativa ed è provvista di un sistema di rilevazione in continuo dei macroinquinanti.
Impianto mobile Icam ex Tricem di stabilizzazione e solidificazione in matrice cementizia di rifiuti contenenti amianto. La carica di amianto viene trattata con una miscela di cemento acqua e additivi in un omogenizzatore-miscelatore, previa triturazione del rifiuto.
Impianto mobile Dedalo ex Triper di trattamento di percolati di discarica di rsu che consiste in una termoconcentrazione, seguita da alcalinizzazione e strippaggio con aria e neutralizzazione finale.
Stazione fissa e mobile ABI 2000. Si tratta di un impianto di termodistruzione, di cui si sta sperimentando un ossidatore catalitico per l'abbattimento delle emissioni. Ci vorranno almeno altri due anni perché ilsistema sia utilizzabile.


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Impianto mobile Iris ex Triris di sterilizzazione di rifiuti ospedalieri di reflui urbani e di detossicazione di rifiuti industriali e agroindustriali. Il processo utilizzato è chimico-fisico di inibizione biologica e scissione chimica delle sostanze sottoposte a bombardamento con un fascio di elettroni prodotti da una macchina acceleratrice lineare

Processo CNR per l'inertizzazione dell'amianto in fibre.

Con l'entrata in vigore del Dlgs n. 22/97 ed in particolare con il Dlgs n. 389/97 di modifica, tutti i RCA possono essere avviati sia in discariche controllate di adeguata tipologia sia in impianti di trattamento e inertizzazione. I trattamenti di inertizzazione hanno lo scopo di bloccare le fibre libere di amianto, di eliminare la pericolosità e quindi quello di declassificare i RCA in maniera da poterli smaltire in discariche di categoria inferiore alla 2C, a costi più contenuti. I processi di trattamento di inertizzazione dell'amianto sono vari e numerosi e vanno da quelli di stabilizzazione e solidificazione a trattamenti chimico-fisici (vetrificazione, vetroceramizzazione etc). Di ciò, ha riferito alla Commissione la dottoressa Marabini del CNR (audizione del 3 febbraio 2000). La Commissione, però, non è ancora venuta in possesso dei disciplinari tecnici, per potere esprimere un proprio giudizio. Il nostro Paese, secondo quanto riferito la Dott.ssa Marabini, ha diversi brevetti CNR ed ha già approntato i disciplinari tecnici per i trattamenti di vetrificazione e vetroceramizzazione. Di alcuni di tali brevetti è stata data la licenza esclusiva alla società Ecotec di Roma che si appresta a sperimentare un processo di trasformazione in mattoni in un'area del Comune di Casale Monferrato sotto la supervisione del CNR e con il contributo economico del Ministero dell'Ambiente e della Regione Piemonte. Tali processi intervengono sulla natura cristallo-chimica dei minerali di amianto e rendono inerte, in quanto la trasformano, la matrice di amianto. I sistemi chimico-fisici, offrono quindi la possibilità di reimpiego e/o riciclo dell'amianto. Al momento, però, non essendo stati recepiti i disciplinari tecnici nazionali in sede europea, non si può attivare il meccanismo di trattamento ai fini del recupero, ma solo il trattamento al fine di eliminazione della pericolosità con conseguente smaltimento in discarica controllata. Con l'emanazione del decreto attuativo dell'articolo17 del Dlgs n. 22/97, ossia del DM n. 471/99 sulle bonifiche dei siti contaminati, assumono un ruolo assai importante i trattamenti di inertizzazione o quelli di tipo chimico-fisico i disciplinari tecnici di cui sopra, sono ancora fermi presso i Ministeri Ambiente e Sanità per la concertazione. La Commissione ritiene che, ulteriori ritardi in materia, non solo fanno aumentare i costi di smaltimento ma inducono gli operatoti senza scrupoli a commettere illeciti lucrosi in un mercato che peraltro appare assai carente di idonei impianti di discarica di tipo 2B e 2C. Tali ritardi negli ultimi anni hanno favorito sempre più il ricorso ad impianti di smaltimento esteri europei come quello della Inertam in Francia o le discariche austriache e della Germania.


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Impianto sperimentale Pirelli per la produzione di CDR.

È noto come la raccolta differenziata permetta la separazione a monte dei singoli materiali secchi (carta, plastica, vetro, metallo, legno) inviati alle filiere e della frazione umida inviata alla produzione di compost. Il CDR invece è un combustibile derivato dai rifiuti raccolti in maniera indifferenziata, che dopo deferrizzazione sono trattati per vagliatura fino ad ottenere un minimo di frazione organica putrescibile. La frazione umida del trattamento pro-CDR è inviata alla produzione di compost di scarsa qualità utilizzabile per es. per il riempimento di cave e discariche mentre la frazione secca dopo vagliatura viene triturata essiccata e trasformata in bricchette o coriandoli pronti per la termodistruzione con recupero di calore. In Italia non si è ancora sviluppato concretamente il settore della produzione e utilizzo del CDR ma sono interessanti alcune iniziative come quella della società Pirelli di Milano il cui progetto fa ricorso ai pneumatici usati per ottenere un CDR. Il progetto, in fase sperimentale, prevede l'ottenimento del combustibile partendo da una miscela di 500/ton/giorno di RSU tal quale, di 60 ton/giorno di pneumatici fuori uso e di 50 ton/giorno di plastica non riciclabile. I flussi dei prodotti in uscita dal processo sono costituiti da 312 ton/giorno di CDR, di 215 ton/giorno di parte umida organica, di 20.5 ton/giorno di metalli e di 35.5 Ton/giorno di scarti inerti da inviare in discarica. La sperimentazione è stata condotta da Enea nel luglio del 1997 e garantisce anche il rispetto delle emissioni di microinquinanti in atmosfera. La Pirelli stima che per produrre «CDR Pirelli» siano necessarie 360.000 ton/anno di pneumatici usati che costituiscono il 15% del CDR.Il prezzo del CDR Pirelli a bocca di centrale è competitivo rispetto a quello del carbone.

Trattamento delle carcasse e delle farine animali.

Il ben noto fenomeno della BSE, o della «mucca pazza», su cui la Commissione sta effettuando un'apposita indagine che sarà oggetto di una relazione a parte, ha notevoli risvolti relativamente allo smaltimento delle carcasse animali e delle farine infette che, per legge, debbono essere avviate alla distruzione. Un impianto oggetto di visita da parte della Commissione nell'area del Consorzio Sisri di Brindisi, per come già riferito nel presente documento, si ritiene sia idoneo sia per le farine, sia per le carcasse (anche immesse in grossi fusti metallici) sia per grassi animali a diverso grado di viscosità. È stata segnalata all'attenzione della Commissione anche una promettente tecnologia detta «Sistema di smaltimento Polimass - carne» della società Ecoenergy Ricerche di Trapani e che consiste di un processo di ossidodistruzione messo a punto in collaborazione con l'Università di Messina. La carcassa animale, posta in apposito cassone, viene triturata fino ad una pezzatura di 10 centimetri ed ulteriormente triturata a pezzature più fini. Il materiale triturato, viene quindi immesso in un reattore di ossidodistruzione a bagno ossidante, in cui si innesca un processo di depolimerizzazione che si completa in circa 50 secondi. Il prodotto della polimerizzazione è un poliglicol. Il poliglicol viene quindi mescolato con biomasse a grandi superfici e fatto reagire con un additivo denominato MDI. Il materiale ancora in fase di reazione, detto


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polixano espanso, viene depositato in cassoni metallici e si solidifica. Il prodotto finale è sterile e può essere utilizzato in campo industriale nella fabbricazione di materie plastiche. Un impianto di ossidodistruzione può essere fisso o carrellabile ed ha una potenzialità di trattamento di 15 tonnellate/ora. L'applicazione della ossidodistruzione può essere estesa al risanamento delle discariche e ai siti contaminati.

Trattamenti di bonifica.

Air sparging (*).

Tale tecnologia consente di immettere aria compressa nella zona satura del suolo, al di sotto del livello contaminato.Tale tecnologia generalmente abbinata alla ventilazione del suolo, fa si che l'aria contaminata venga rimossa e trattata prima che migri verso manufatti vicini e che possa contaminare la zona vadosa (zona insatura superficiale). Con tale sistema possono essere estratti dal suolo gli inquinanti più volatili quali MTBE (metil-terziariobutil etere), alcooli, componenti leggeri delle benzine e BTEX (benzene, toluene, etilbenzene, xileni).

Biobonifica on site tramite immissione di funghi

Immettendo particolari funghi in un terreno contaminato si possono degradare gli idrocarburi pesanti (gasoli pesanti, combustibili, catrami di carbon fossile,olio grezzo, lubrificanti, PCB, solventi clorurati) ed altre sostanze organiche. Si tratta di una tecnologia recente. La scelta del tipo di funghi, sperimentata previamente in laboratorio, è decisiva per la buona riuscita del processo degradativo. Ila funzione dei funghi è quella di produrre degli enzimi extracellulari che sono in grado di rompere le complesse molecole degli idrocarburi pesanti. Gli spezzoni molecolari vengono poi metabolizzati dai funghi e dagli altri microrganismi presenti nel suolo con sviluppo finale di acqua e anidride carbonica.

Bonifica biologica o bioremediation.

La bioremediation è una delle più promettenti tecnologie per risolvere i problemi della contaminazione dei suoli da sostanze pericolose in quanto utilizza batteri o funghi in grado di trasformare la sostanza organica in anidride carbonica ed acqua. L'utilità di tale tecnologia consiste nel fatto che i contaminanti, nella gran parte dei casi, vengono biodegradati nello stesso posto, senza trasferimento di materiali in altro sito e che i batteri utilizzano la stessa sostanza contaminante per il loro nutrimento. Negli USA, dove si sono effettuate da parte dell'EPA (Environmental protection Agency) ricerche approfondite in occasione della grave contaminazione delle coste dell'Alaska causata dalla perdita di petrolio grezzo della Exxon Valdez, fino a qualche anno fa, l'utilizzo della bioremediation, era piuttosto limitato proprio per la non chiara conoscenza dei processi biodegradativi in campo, per alcune applicazioni improprie che si erano constatate, per la necessità di ingegnerizzazione del processo e per la esigenza di disporre di procedure di attento controllo.Recentemente si sono avute esperienze


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assai positive di bioremediation in Olanda, Francia, Germania, e Austria. La tecnologia della «bioremediation» può essere applicata sia «in situ» che «ex situ» su terreni a permeabilità medio-alta, ricircolando una soluzione nella zona satura. Tale soluzione contiene nutrienti a base di sali di azoto e di fosforo, microorganismi indigeni (ossia dello stesso suolo) o alloctoni (di altra provenienza) opportunamente selezionati per biodegradare i contaminati organici presenti. La biodegradazione avviene in presenza di ossigeno. In alcuni casi, in presenza di metano, si ha una biodegradazione anaerobica. In tali condizioni, la sostanza organica, si biodegrada fino ad anidride carbonica e acqua. I vantaggi della bioremediation sono quelle della versatilià ad essere applicata a ogni tipo di sostanza organica biodegradabile idrocarburi, sostanze organiche non alogenate, con rendimenti molto alti. Gli svantaggi sono: la indefinibilità a priori dei tempi di degradazione, a causa della estrema variabilità delle condizioni di attività dei microrganismi, i valori estremi di pH del suolo contaminato, la presenza di metalli pesanti e/o di sostanze chimiche tossiche. La bioremediation ha scarsa efficacia su terreni a bassa permeabilità che rendono difficile la veicolazione delle soluzioni nutrienti. Nel caso dell'utilizzo di batteri alloctoni, preparati per es. in laboratorio, occorre valutare attentamente gli effetti indotti dalla eventuale presenza di microroganismi opportunisti o patogeni che, se sfuggono in falda, possono provocare seri problemi di contaminazione biologica del mezzo idrico. La biobonifica ex situ può comportare la modifica delle caratteristiche tessiturali del suolo (bioslurry, bioremediation on pile, landfarming). Come mezzo di ossidazione si può usare ossigeno, aria mediante compressori o miscelatori, acqua ossigenata, mediante iniettori. È da tenere presente che nel nostro Paese si è finora applicata tale tecnologia, in assenza di regole tecniche ben precise con grave pregiudizio per l'ambiente e la salute dei cittadini. Non è escluso, infatti, che già si siano verificate contaminazioni della falda, in considerazione soprattutto che i controlli da parte degli organi preposti non solo sono carenti, ma se anche vi fosse l'auspicata attenzione e frequenza di intervento non potrebbero essere condotti in maniera mirata, non essendovi a disposizione , per l'appunto, regole ministeriali certe. Tale emotivo di preoccupazione deve spingere il legislatore a dare al più presto attuazione a quanto previsto al punto C-bis dell'articolo 17 del decreto legislativo n. 22 del 5 febbraio 1997 al fine di evitare pericolose contaminazioni del suolo e della falda. L'applicazione «indiscriminata» della bioremediation finora è avvenuta, come risulta alla Commissione, in alcuni settori industriali ed in particolare nel settore della petrolchimica all'interno dei siti di produzione in quello petrolifero presso le stazioni di servizio di vendita dei carburanti in cui spesso si verificano perdite di benzina e gasoli dai serbatoi interrati forati.

Capping (isolamento superficiale).

Nei casi di siti contaminati, in attesa di bonifica la fine di evitare il dilavamento degli inquinati nel suolo da parte della infiltrazione delle piogge o nel caso di una discarica esaurita si effettua il capping o isolamento supeficiale. Per effettuare il capping si possono utilizzare argille o materiali plastici sintetici. Con il capping oltre a limitare


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l'infiltrazione delle acque di pioggia, si minimizza o elimina la migrazione degli inquinanti per capillarità. Inoltre il capping favorisce la crescita di coperture vegetali, la resistenza alla erosione, la prevenzione delle fessurazioni per essiccamento, il controllo della fuoriuscita del biogas, una maggiore resistenza ai fenomeni di gelo-disgelo.

Cementazione in situ mediante iniezione e mescolamento.

La cementazione per mezzo di mescolamento o di iniezione nel sito contaminato di sostanze in grado di immobilizzare gli inquinanti presenti è materia che attiene agli interventi geotecnici in cui vi è una buona esperienza nel nostro Paese. La tecnologia consiste nel miscelare composti chimici speciali o tradizionali (cemento, calce, fly-ash, bentonite etc) con la massa dei rifiuti o del terreno contaminato utilizzando metodologie differenti quali la miscelazione con eliche, la iniezione per permeazione o claquage, il trattamento di jet-grouting. La tecnologia della cementazione è utilizzata per il consolidamento di terreni e scavi tramite perforazioni verticali finalizzate a realizzare colonne di materiale che si intersecano l'una con l'altra. La limitazione di tale tecnologia consiste nella disuniformità del trattamento e nei costi elevati. È necessario, quando si applica tale tecnologia, che si verifichi la propagazione della miscela, per mezzo di scavi o trincee.

Sistema di contenimento perimetrale.

Il sistema di contenimento perimetrale o di isolamento delle pareti viene utilizzato per impedire o ostacolare la percolazione di inquinanti da una zona contaminata e per impedire il contatto tra la massa inquinata e la falda idrica sottostante. I sistemi di contenimento perimetrali sono generalmente di due categorie: barriere ad inserimento quali le palancole tradizionali, le palizzate in pannelli di acciaio, i muri di contenimento a trave infissa fissa e le barriere di escavazione quali quelle con argilla, i muri di contenimento ad iniezione, i muri di contenimento a membrana, i muri di contenimento a pannelli, i diaframmi a calcestruzzo, le trincee di fanghi bentonitici, i muri di contenimento a geomembrane, le barriere cemento-bentonite, le barriere a palancolata, i sistemi di pali accostati tipo jet-grouting, le barriere realizzate tramite mescolamento del terreno in sito con additivi. In tutti questi sistemi è importante il controllo della permeabilità.

Desorbimento termico di suoli contaminati.

Le tecnologie di desorbimento termico comprendono una pluralità di processi di vaporizzazione di sostanze organiche volatili o semi-volatili da suoli contaminati o da fanghi. Il processo di desorbimento termico deve essere condotto in maniera tale da evitare la combustione dei contaminanti nell'unità primaria. Una volta estratti i vapori delle sostanze organiche si avviano ad un post-combustore, oppure vengono condensate per un eventuale riutilizzo.


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Le polveri e il particolato derivanti dal desorbimento sono controllati con cicloni, filtri a tessuto, o scrubber del tipo venturi. Se nel vapore sono presenti sostanze acide, lo scrubbing ad umido avviene in presenza di alcali. I vapori, oltre che condensati, possono essere assorbiti su carbone attivo. Il desorbimento può avvenire per riscaldamento diretto (per es. in tamburo rotante), per estrazione e riscaldamento indiretto, per estrazione con vapore «in situ» (per mezzo di tubi e iniettori di vapore e aria calda).

Estrazione con solvente.

È una tecnica di pretrattamento per la bonifica di terreni con permeabilità medio-alta. L'estrazione con solvente agisce sulla zona satura del suolo, produce contaminanti in alta concentrazione, materiali solidi e acqua. Il solvente impiegato separa i contaminanti oleosi dai terreni e dai fanghi, riducendo il volume del suolo che verrà successivamente trattato. Il solvente nelle applicazioni pratiche viene miscelato al suolo, poi viene separato e riciclato. Al solvente a volte si aggiungono delle sostanze tensioattive per aumentare la rimozione dei contaminanti. La scelta dei solventi va previamente definita con prove di laboratorio.

Incenerimento o termodistruzione del suolo contaminato.

Viene realizzato con impianti generalmente mobili e consiste nella combustione controllata in condizioni ossidanti. I terreni che vengono trattati per termodistruzione sono quelli contaminati da idrocarburi aromatici, alifatici, aromatici, policiclici, cianuri complessi. I forni sono del tipo a tamburo rotante o ad infrarosso che utilizzano barre a carburo di silicio riscaldate da una resistenza elettrica per generare radiazioni termiche di lunghezza d'onda nella regione dello spettro elettromagnetico corrispondente al vicino infrarosso. Un impianto mobile sperimentato negli Stati Uniti d'America è quello con tecnologia Shirco. Vengono utilizzati anche i forni a letto fluido o ad arco plasma

Lavaggio del suolo.

Tale tecnica di pretrattamento si utilizza per bonificare i terreni a medio-alta permeabilità che consiste nel far circolare nel suolo acqua pura o additivata con solventi organici, agenti chelanti, tensioattivi, acidi o basi, con lo scopo di far staccare dalla matrice del suolo una parte del contaminate in modo che passi in soluzione e in modo da separare le particelle fini colloidali dal terreno a granulometria più grande. Una variante è quella di additivare microorganismi e fertilizzanti in modo da associare all'azione di lavaggio quella della biodegradazione.

Separazione elettrocinetica.

È utilizzata per la decontaminazione dei terreni a grana medio-fine e a permeabilità meduio-bassa, basata sull'applicazione di


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un campo elettrico per mezzo di elettrodi infissi nel suolo. La rimozione dei contaminanti avviene attraverso meccanismi di avvezione di tipo elettroosmotico, per diffusione e per migrazione di ioni. L'elettrolisi iniziale dell'acqua genera la produzione di ioni idrogeno ed ossigeno molecolare all'anodo e di ioni ossidrile ed idrogeno molecolare al catodo. Gli ioni idrogeno tendono a migrare verso il catodo forzando per attrito viscoso anche una frazione delle particelle di acqua che si oppongono al loro moto. Al catodo si produce quindi un flusso d'acqua di tipo avvettivo (flusso elettroosmotico) che si sovrappone a quello naturale od eventualmente forzato per via idraulica. Altri processi elettrochimici avvengono oltre a quelli descritti e portano alla acidificazione del suolo. La tecnica è utilizzata per la rimozione di cationi metallici inorganici da terreni argillosi e limosi con una efficienza di rimozione che va dal 75% al 95%. La tecnica è applicata anche per terreni contaminati da rifiuti radioattivi. È necessaria una sperimentazione preliminare in laboratorio. Sia gli anodi che i catodi , tra loro interconnessi, formano due sistemi di circolazione separati eventualmente riempiti con soluzioni chimiche a base di agenti complessanti o di solventi, in grado di migliorare l'efficienza del processo nel caso di inquinanti solubili in acqua.

Steam sparging.

Consiste nella iniezione di vapore nella zona satura del suolo contaminato e viene applicato a terreni contaminati da componenti semi-volatili non biodegradabili, consentendo di aumentare la solubilità del contaminate. Viene utilizzata una miscela aria in pressione- vapore che viene immessa nel suolo per mezzo di un tubo fessurato installato di norma al di sotto del limite inferiore della contaminazione.

Ventilazione del suolo (soil venting).

Tale tecnica è utilizzata per la rimozione di composti organici volatili (COV) dalla zona insatura o vadosa di un suolo contaminato che abbia una permeabilità medio-alta. Il sistema fa capo a pozzi di aspirazione collegati ad un aspiratore e consiste in un circuito di condotte forate e di collettori che stabiliscono un gradiente forzato di pressione fra zone del suolo. Tale sistema cattura in superficie i vapori e li invia ad un impianto di trattamento dei gas.

Vetrificazione in situ (Soil vitrification).

Il trattamento del suolo con tale tecnologia provoca la fusione del terreno in situ. Il materiale di fusione non è più dilavabile, ha caratteristiche vetrose simili alle ossidiane dell'isola di Lipari e non cede alcun inquinante. La vetrificazione viene ottenuta infiggendo elettrodi di grafite nel sottosuolo e applicando una differenza di potenziale tra quattro elettrodi. L'elevata resistenza elettrica del terreno genera calore e la temperatura elevata raggiunge i 2000oC a cui il terreno e gli eventuali contaminanti o rifiuti fondono. Il volume del materiale fuso procede dall'alto verso il basso e tende ad


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interessare anche le zone laterali. Sulla superficie del terreno viene posto un coperchio mantenendo il sistema in lieve depressione per impedire fughe di gas e particelle sospese. Il trattamento riguarda generalmente le zone insature al di sopra delle acque di falda. Per effetto della fusione del suolo la superficie si abbassa per il fenomeno della subsidenza.

(*) definizioni tratte dal Manuale Unichim n. 175, edizione 1994).

Phytoremediation.

La phytoremediation è una tecnologia che utilizza alcune piante per rimuovere, degradare, stabilizzare sia i contaminanti organici che inorganici presenti nel suolo, nelle acque ,nelle acque di falda o nelle acque superficiali. La phytoremediation riguarda un numero diverso di tecnologie. Si ha cosi per es. la Rhizosphere bioremediation, adatta per la biodegradazione di idrocarburi policiclici aromatici, pesticidi, e altre sostanze organiche), oppure la fitoestrazione di metalli e radionuclidi.

Pump and treat system.

La tecnologia consiste nel pompare l'acqua di falda contaminata fino alla superficie, nel rimuovere i contaminanti e nel ripompare l'acqua decontaminata in falda o nello scaricarla in acque di superficie. Nel caso di contaminazione della falda da sostanze oleose si utilizzano particolari sistemi detti «scavengers» in cui vi è installata una doppia pompa. La prima deprime la falda e permette la formazione di un cono di depressione in maniera tale da richiamare l'olio dalla superficie della falda. L'olio raccolto nel cono di depressione, raggiunto un dato spessore, viene aspirato dalla seconda pompa grazie al consenso dato da un sensore a raggi infrarossi.

Stabilization and solidification

È una tecnologia che utilizza sistemi differenti quali il trattamento con bitume, le resine epossidiche, le miscele cemento-bentonite, la calce, additivi complessanti, miscele cementizie a base di silicati liquidi. L'obiettivo di tali trattamenti di stabilizzazione, innocuizzazione, inertizzazione è quello di bloccare le matrici inorganiche e qualche volta organiche solubili, rendendole meno cedibili all'ambiente. Viene applicata generalmente on site o extra situ, rimuovendo il terreno contaminato con escavatori o pale meccaniche. I processi di trattamento per inertizzazione coinvolgono chimismi di complessazione, gelificazione, precipitazione, insolubilizzazione o semplice inglobamento, come nel caso del trattamento con bitumi in cui la fase organica viene complessata dalla cosiddetta «fase maltenica» che è uno dei componenti del bitume. Il risultato


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dell'efficacia della inertizzazione si verifica con il test di cessione. La normativa nazionale, perfezionata dall'Istituto di ricerca sulle acque (IRSA) prevede ce il test di cessione sia effettuato sottoponendo il rifiuto ( a matrice prevalentemente organica) o il terreno trattato con una soluzione di acido acetico a pH 5.5, per 24 ore sotto agitazione. Alla fine del test l'acqua di leaching viene analizzata per la determinazione dei contaminati confrontando le concentrazioni con i limiti della tabella A della legge n. 319/76. Se la matrice del rifiuto o del terreno trattato è prevalentemente inorganica, si applica il test IRSA alla CO2 satura con la stessa procedura del test all'acido acetico ma in contenitore chiuso (per mantenere le condizioni di saturazione). Il test di cessione secondo la normativa nazionale vigente viene utilizzato non solo per verificare l'efficacia dei trattamenti inertizzanti ma anche per orientare lo smaltimento nelle discariche controllate.

Rating delle tecnologie di ripristino ambientale.

Quando si applicano le tecnologie di bonifica in un sito contaminato, vi è un numero elevato di parametri da tenere in considerazione. Un sistema valido per selezionare le tecnologie è lo strumento dell'analisi di rischio e del rapporto costi benefici. A tal proposito la Commissione Economica per le Nazioni Unite ha di recente indicato i parametri che debbono essere esaminati per valutare le tecnologie di intervento assegnando un «rating» delle stesse sia per gli interventi in situ che per quelli ex situ. Le tavole I e II che seguono riportano tale «rating».


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