Abitanti | Produzione totale
|
Raccolta indiffer. | per cento (*) | Raccolta differ. | per cento (*) |
Raccolta Selettiva | |
VENETO | 4.487.560 | 2.024.520,4 | 1.628.190.1 | 80,46 | 395.589,40 | 3,2 | 740,90 |
BELLUNO
| 211.353 | 90.027 | 76.027,40 | 84,50 | 13.955,70 | 15,50 | 43,90 |
PADOVA
| 844.999 | 376.700,20 | 300.774,60 | 79,89 | 75.773,10 | 20,11 | 152,50 |
ROVIGO
| 244.072 | 121.286,50 | 113.315,10 | 93,45 | 7.946,80 | 6,55 | 24,60 |
TREVISO
| 776.129 | 280.466,30 | 196.946,50 | 70,27 | 83.372,00 | 29,73 | 147,80 |
VENEZIA
| 815.009 | 468.275,10 | 383.157,20 | 81,85 | 84.993,60 | 18,15 | 124,30 |
VERONA
| 815.471 | 373.995,80 | 309.170,70 | 82,70 | 64.710,90 | 17,30 | 114,20 |
VICENZA
| 780.527 | 313.769,50 | 248.798,60 | 79,44 | 64.837,30 | 20,66 | 133,60 |
Friuli-Venezia Giulia - La situazione relativa alla gestione dei rifiuti solidi urbani.
In questa regione si registra una produzione media di circa mezzo milione di tonnellate di rifiuti solidi urbani l'anno; di questi il 12,7 per cento viene raccolto in maniera differenziata. La separazione riguarda in maniera particolare la carta, il vetro e la frazione organica, mentre la plastica fa registrare perfomances assai meno significative. Il dato complessivo è sostanzialmente in linea con la media nazionale e fa ritenere prossimo il raggiungimento degli obiettivi fissati dal decreto legislativo n. 22 del 1997.
Per quanto riguarda le singole province, a Udine (con il 14,75 per cento) e Gorizia (14,25 per cento) si sono registrati i migliori risultati, mentre è Trieste (8,17 per cento) a far registrare un dato al di sotto della media nazionale e più lontano dagli obiettivi fissati dalla legge.
Abitanti | Produzione totale
|
Raccolta indiffer. | per cento (*) | Raccolta differ. | per cento (*) | Ingombr. | |
FRIULI V.G.
| 1.183.916 | 540.700,16 | 465.447,07 | 87,30 | 68.683,23 | 12,70 | 6.366,33 |
GORIZIA
| 137.909 | 63.754,00 | 56.268,00 | 85,75 | 9.082,00 | 14,25 | 1.323,00 |
PORDENONE
| 278.379 | 127.941,00 | 109.320,00 | 87,89 | 15.496,00 | 12,11 | 3.069,00 |
TRIESTE
| 248.998 | 112.138,52 | 100.990,05 | 91,83 | 9.166,06 | 8,17 | 1.974,33 |
UDINE | 518.630 | 268.866,64 | 201.869,02 | 85,25 | 34.939,17 | 14,75 |
Veneto - La situazione relativa alla gestione dei rifiuti speciali.
Secondo il rapporto Anpa-Osservatorio nazionale sui rifiuti, nel 1997 in Veneto sono state prodotte complessivamente, esclusi gli inerti, 6.004.486 tonnellate di rifiuti speciali (386.424 tonnellate delle quali di rifiuti pericolosi). Ciò che è interessante notare è che il Veneto risulta il maggior produttore di rifiuti speciali pro capite, con un dato di 1.740 kg/abitante/anno.
Per quanto riguarda la gestione di questi rifiuti, nel 1988 il 70 per cento (oltre 4 milioni e 200mila tonnellate) è stato smaltito nelle 137 discariche abilitate esistenti in regione; il 18,3 per cento (circa 1 milione e 100 mila tonnellate) è stato trattato al fine di recupero di materia, nei 45 impianti esistenti in Veneto; l'1,7 per cento (circa 102 mila tonnellate) è stato trattato ai fini del recupero di energia nei quattro impianti di termodistruzione per rifiuti speciali presenti nel territorio regionale (a questo proposito, va comunque evidenziato che la quasi totalità dei rifiuti inceneriti viene conferita all'impianto di Venezia, essendo quelli di Abano Terme, Verona e Villadose di ridottissima capacità). Il resto è stato catalogato sotto la voce "altri trattamenti" (1).
(1) Gli impianti censiti in Veneto dal rapporto Anpa - Osservatorio nazionale sui rifiuti sono indicati nell'appendice.
Friuli-Venezia Giulia - La situazione relativa alla gestione dei rifiuti speciali.
Per il 1997 in questa regione il rapporto Anpa-Osservatorio nazionale sui rifiuti ha rilevato una produzione di rifiuti speciali, esclusi gli inerti, di 1.086.328 tonnellate (63.535 di queste sono rifiuti pericolosi).
Nelle 75 discariche esistenti in regione sono state smaltite circa 900 mila tonnellate di rifiuti speciali; nei 30 impianti di incenerimento esistenti in regione (tutti di
modesta entità e per la maggior parte operanti in conto proprio) sono state smaltite circa 93 mila tonnellate di rifiuti; nei 19 impianti di trattamento al fine di recupero di materia sono state trattate circa 330 mila tonnellate di rifiuti speciali.
La somma dei rifiuti smaltiti o trattati in regione è superiore di oltre 400 mila tonnellate alla produzione registrata, il che indica come il Friuli-Venezia Giulia sia un ricettore di rifiuti speciali prodotti in altre regioni d'Italia(2).
(2) Gli impianti censiti in Friuli-Venezia Giulia dal rapporto Anpa - Osservatorio nazionale sui rifiuti sono indicati nell'appendice.
I sopralluoghi effettuati dalla Commissione.
Sito società Geotecas - Rovigo.
Nel sito è stoccato un notevole quantitativo di fluff proveniente dalla triturazione degli autoveicoli, unitamente a sali utilizzati nelle industrie conciarie e a residui di carta, plastica, stoffe e polverino da abbattimento fumi di acciaieria, per un totale stimato in 50.000 metri cubi. Lo stoccaggio di tali materiali avrebbe dovuto essere propedeutico al riciclo e riutilizzo in quanto l'impianto aveva inviato alla provincia di Rovigo una comunicazione per inizio attività ai sensi dell'articolo33 del decreto legislativo n. 22/97. Le integrazioni richieste dalla provincia per iniziare l'attività sono state sempre disattese dal titolare dell'azienda Lino Rubiero, che ha comunque iniziato ad accumulare residui provenienti da più parti del territorio nazionale. In occasione del sopralluogo della Commissione, non si riscontravano sul sito apparecchiature ed impianti tali da far supporre l'effettivo riciclo dei materiali, se si eccettuava un vecchio vaglio e qualche cisterna arrugginiti e del tutto inidonei allo scopo. I rifiuti erano sistemati in cumuli all'aria aperta e quindi sottoposti al continuo dilavamento della pioggia con gravi danni per il suolo e la falda sottostante. I sali di conceria, inoltre, erano causa di odori nauseabondi, il che comportava anche la contaminazione dell'atmosfera. La Geotecas, che aveva preso in affitto il sito, smise di pagare il relativo canone e cessò l'attività. Ad essa subentrava la Ecological Service, che al momento della visita della Commissione risultava fallita. Nel sito si sono succeduti nel tempo numerosi incendi, sembra per autocombustione, che hanno provocato nella zona gravi episodi di contaminazione, trattandosi di combustione incontrollata di rifiuti pericolosi. Dell'intera vicenda sono stati informati il Ministero dell'ambiente, il nucleo operativo ecologico dell'Arma dei carabinieri e tutte le autorità competenti. L'onere per le operazioni di messa in sicurezza e vigilanza del sito, secondo quanto sopra detto, è toccato finora alle autorità locali e le cifre spese ammontano già a 400 milioni. Al momento della visita erano in corso delle sperimentazioni da parte dell'organo di controllo per ricercare la via migliore per bonificare il sito e di ciò si è fatta comunicazione anche al Ministero dell'ambiente. Le opzioni potrebbero essere: rimozione dei materiali e conferimento in discarica di rifiuti pericolosi, di rifiuti solidi urbani o termodistruzione. I costi di bonifica presunti arrivano ad ipotizzare una spesa di 10 miliardi. La discriminante sarà l'esatta caratterizzazione del materiale (composizione quali-quantitativa) che potrebbe anche richiedere pretrattamenti di stabilizzazione prima del conferimento, per esempio, in discarica.
Impianto di Grumolo della Abbadesse (Vicenza).
La visita della Commissione all'impianto sito nel comune di Grumolo della Abbadesse (Vicenza) ha fatto seguito ad una richiesta di intervento urgente della Commissione stessa, da parte del sindaco Maria Luisa Teso. Nella richiesta venivano infatti segnalate numerose irregolarità nell' iter amministrativo per la realizzazione di una discarica di rsu e speciali assimilabili agli urbani, nonché la mancata osservanza di alcune prescrizioni autorizzative per i lavori in corso d'opera.
È da premettere che, con convenzione stipulata il 15 febbraio 1994 tra il Ciat (Consorzio per l'igiene dell'ambiente e del territorio, ente responsabile del VII bacino ai sensi dell'articolo11 dell'allegato A al piano regionale) e la Sir di Mestre, si conveniva fosse accordata in concessione a quest'ultima azienda la costruzione e gestione dell'impianto di discarica. È da rilevare inoltre che con decreto della provincia di Vicenza n.1351 del 13 luglio 1999, era autorizzato il progetto del Ciat per la realizzazione di una discarica di rsu e speciali assimilabili, con asservito impianto di pretrattamento e di impianto di stabilizzazione della frazione organica. Le irregolarità amministrative segnalate dal comune di Grumolo, e riscontrate dalla Commissione, sono riferibili all'assenza di bando di gara per l'affidamento dei lavori di costruzione e gestione della discarica alla Sir, alla convenzione Ciat-Sir dichiarata decaduta da una sentenza del TAR Veneto del 24 novembre 1994, alla mancata sottoscrizione delle garanzie fideiussorie, al pagamento del terreno su cui insistono gli impianti avvenuto con un costo tre volte superiore a quello di mercato, al mancato rispetto di norme e regolamenti di legge. Sul piano squisitamente tecnico, ciò che è stato rilevato durante la visita della Commissione coincide con quanto prescritto ed imposto al Ciat con delibera della provincia di Vicenza n.1762 del 15 settembre 1999. Infatti gli impianti di pretrattamento e stabilizzazione della frazione organica evidenziavano forti odori nauseabondi, a causa del mancato tamponamento delle pareti dei capannoni dove avviene la stabilizzazione della frazione organica e della mancata installazione di un sistema di captazione e abbattimento degli odori (es. biofiltro); vi erano nette evidenze sul fatto che il fondo della discarica era al di sotto della falda acquifera (dai dati si tratta di 550 cm) anziché 150 cm al di sopra. Non sono state per niente motivate le scelte adottate dalla regione Veneto nel concedere le deroghe per la distanza del sito dall'autostrada e dalle strade statali (fissata in 300 metri), né si è tenuto conto che vi è presenza di abitazioni nel raggio di 500 metri dal sito stesso.
Impianto incenerimento AMNIUP di Padova.
L'impianto di incenerimento dell'Amniup di Padova sorge nel cosiddetto «polo energetico di San Lazzaro». Esso fa parte di un sistema integrato di smaltimento dei rifiuti solidi urbani, realizzato attraverso una serie di proprie strutture ed accessori che vanno dai magazzini di stoccaggio di rifiuti speciali, trasferimento rifiuti, piattaforme per il riciclo, ad una serie di strutture e servizi di terzi decentrati per la raccolta e selezione di carta, legno (provenienti da raccolte differenziate multimateriale), pile, batterie al piombo, frazione organica da mercatali e scarti verdi, frigoriferi, monitor di televisori, ecc. Nel polo energetico insistono due linee di incenerimento e due discariche in località Ponte S.Nicolò (tre lotti coltivati dal 1983 ad oggi e ormai praticamente esauriti) e via Vasco de Gama, anch'essa ormai esaurita e utilizzata per assorbire il surplus di rsu. Le due linee di termovalorizzazione dei materiali provenienti dalla frazione secca, ottenuta per selezione meccanica dei rsu, sono poste su una superficie di 11.400 metri quadrati. Al momento della visita della Commissione, era anche in fase di autorizzazione un progetto di adeguamento dell'impianto per la realizzazione di una terza linea e di un impianto di preselezione dei rifiuti. Le potenzialità nominali delle linee uno e due sono di 300 ton/giorno mentre quella della linea tre è di 500 ton/giorno. Le tipologie di rifiuti che possono essere smaltite sono rsu e assimilati, speciali ospedalieri, farmaci scaduti. Il recupero energetico unitario assomma a 530 kWh/ton, per una produzione energetica annua netta di energia elettrica di 60 milioni di kWh. L'energia termica proveniente dal recupero energetico a fine progetto sarà utilizzata per il teleriscaldamento urbano. Le due linee di incenerimento hanno un sistema di abbattimento fumi che utilizza
il processo Neutrec della Solvay a base di bicarbonato di sodio. L'impianto definitivo, previsto dal progetto di adeguamento è ad alta tecnologia e prevede un «treno» di trattamento degli effluenti gassosi, costituito da un elettrofiltro, da uno scrubber a secco, da un filtro a maniche e da una torre di lavaggio. Tale sistema sarà in grado di assicurare il raggiungimento di standards di emissione ben al di sotto degli stringenti limiti di legge comunitari.
Impianto di stoccaggio provvisorio della società Seven di Fossò (Venezia).
La visita della Commissione all'impianto è stata effettuata in data 28 ottobre 1999 e successivamente i consulenti della Commissione hanno effettuato un ulteriore sopralluogo. L'impianto consiste di una serie di capannoni in cui vengono stoccati provvisoriamente rifiuti speciali pericolosi e non pericolosi in attesa di conferimento ad impianti di terzi per lo smaltimento definitivo. I capannoni non sono provvisti di sistemi di captazione e trattamento delle emissioni e degli odori, sicché si rileva una scarsa attenzione per le problematiche igienico-sanitarie. Nella documentazione tecnica disponibile in Commissione si rileva che nella relazione di valutazione della compatibilità ambientale predisposta per l'ottenimento dell'autorizzazione non si è tenuta in debito conto la presenza, nell'area circostante, di altre due aziende insalubri di prima classe. Vengono effettuate all'interno miscelazione di rifiuti pericolosi non autorizzate e sono insufficienti i contenitori che permettono la separazione tra i vari tipi di rifiuti stoccati. Vi è da rilevare inoltre la forte carenza di misure antincendio. Si ricorda, a tale proposito, che in passato la zona è stata interessata da due incendi, precisamente nel 1994 e nel 1996. Quest'ultimo aveva pressoché distrutto il capannone della Seven e le strutture adiacenti l'impianto di stoccaggio di rifiuti speciali e anche pericolosi, tanto che la provincia di Venezia sospese l'autorizzazione per motivi precauzionali. L'impianto è titolare di autorizzazione, rilasciata dalla provincia di Venezia in data 20 maggio 1999, per l'esercizio dello stoccaggio provvisorio di rifiuti speciali, speciali assimilabili agli urbani, pericolosi e urbani pericolosi. Non sono risultati chiari gli smaltimenti definitivi dei rifiuti in uscita dall'impianto e tra i destinatari finali si annoverano impianti attualmente all'attenzione della Commissione sia in Veneto che nella regione Marche.
Impianto Enichem di Porto Marghera.
Lo stabilimento Enichem di Porto Marghera è stato oggetto di visita da parte della Commissione in data 28 ottobre 1999. In quell'occasione, oltre all'illustrazione dell'attività effettuata dal management aziendale, fu organizzata dai responsabili della direzione una visita agli impianti. Nel corso del 1999 sono stati acquisiti dati di processo e di produzione rifiuti attraverso un apposito questionario inviato all'azienda e nel corso della visita di cui sopra. Di recente, nel corso di un'audizione presso la Commissione, l'ispettore Spoladori del comando della stazione di Mestre del Corpo forestale dello Stato ha riferito in merito alla problematica dei siti contaminati all'interno e all'esterno delle aree Enichem e delle ipotesi di bonifica formulate dall'azienda. Lo stabilimento insiste su di una superficie di 6 milioni di metri quadrati ed occupa un numero di 2528 addetti (dato desunto dal rapporto di sicurezza dell'azienda del 1998). Le linee di produzione più rilevanti sono quelle degli impianti di produzione delle olefine e degli idrocarburi aromatici (rispettivamente etilene, propilene, buteni, butadieni e benzene e benzine da cracking), degli intermedi (caprolattame per produzione di polimeri quali il nylon), dei poliuretani, del cloro-soda, dei derivati acetici e del policloruro di vinile (pvc) a partire dal cloruro di vinile monomero (cvm). Gli impianti accessori sono costituiti da un sistema di depurazione biologica delle acque di processo gestito dalla società
Ambiente, da un impianto di recupero del mercurio derivante dal processo cloro-soda. Lo smaltimento dei rifiuti di processo prodotti sul sito Enichem avviene in parte per autosmaltimento interno, per es. via incenerimento (es. rifiuti speciali pericolosi), o in impianti esterni nazionali a mezzo della società Ambiente del gruppo Eni, o a mezzo di società di intermediazione che curano il trasporto e lo smaltimento in impianti esteri (prevalentemente in Germania).
Una rete di condotte collega l'impianto Enichem con la vicina raffineria Agip di Porto Marghera, e con gli stabilimenti Enichem di Ferrara, Mantova, Ravenna per il ricevimento di materie prime (cumene, benzene, etilbenzene, etilene ).Sin dagli anni '50 nel comprensorio di Porto Marghera furono installati impianti di produzione dalla Montedison, dalla Montefluos, dalla Audiset, dalla Fertimont, dall'Enichem che ha inglobato in tempi recenti parte degli impianti Montedison e che hanno fatto dell'area industriale la più grande in assoluto a livello nazionale con gravi impatti sull'ambiente e sulla salute della popolazione esposta. Vi è da rilevare che i residui prodotti negli anni, prima della emanazione della normativa sullo smaltimento dei rifiuti (decreto del Presidente della Repubblica n.915/82) sono stati prevalentemente interrati sia dentro il perimetro degli impianti produttivi che all'esterno. Su tali operazioni, la magistratura locale ha attivato indagini complesse utilizzando anche le forze di polizia giudiziaria tra cui quelle del Corpo forestale dello Stato. Finora si è messa in luce - utilizzando anche tecniche sofisticate quali i rilevamenti aerei e fotogrammetrici registrati dal 1955 ad oggi - una gravissima situazione di degrado ambientale, di compromissione delle falde con gravi rischi per il futuro utilizzo del territorio se non si provvederà ad operazioni di bonifica radicale. Le indagini della magistratura, alcune delle quali ancora in corso ed altre conclusesi con il rinvio a giudizio dei responsabili aziendali, sono state mirate anche ad accertare il rapporto causa - effetto con alcune lavorazioni particolari quali il cvm-pvc (cloruro di vinile monomero e policloruro di vinile).Numerose risultano infatti nella zona le morti per tumore di addetti agli impianti cvm-pvc. L'indagine del Corpo forestale dello Stato ha accertato, dal 1993 ad oggi, la presenza di interramenti di rifiuti sia all'interno del sito produttivo che all'esterno. I siti contaminati censiti sono stati in numero di 206 di cui almeno un centinaio costituiti da vere e proprie discariche abusive di rifiuti pericolosi, alcuni dei quali cancerogeni, che hanno raggiunto la falda idrica. In tali siti si sono interrati rifiuti contenenti sostanze chimiche sia a matrice organica (un'ampia gamma di solventi clorurati, fenoli, oli minerali, solventi aromatici, idrocarburi policiclici aromatici, ammine aromatiche, dimetilacetmide, acrilonitrile), che a matrice inorganica (arsenico, cadmio, mercurio, piombo, selenio, rame, zinco, nichel) consistenti in fosfogessi anche radioattivi, fluorogessi, ceneri di pirite, catalizzatori esausti. La parziale, incompleta o inesistente depurazione di alcuni streams di processo ha fatto si che gli scarichi in laguna hanno compromesso gravemente la qualità dei fondali della laguna di Venezia per la presenza di sostanze altamente tossiche quali diossine, furani, metalli pesanti. Uno degli scarichi idrici in laguna incriminati è quello denominato Sm15. Oltre ai limi dei fondali risultano contaminati da diossine e metalli pesanti gli organismi marini che stazionano in laguna tra cui alcuni crostacei (vongole, mitili etc) che spesso, vengono clandestinamente venduti sui mercati nazionali nonostante assai forte sia stata l'azione di contrasto delle forze di polizia giudiziaria negli ultimi tempi. Dal 1998 è stato firmato un accordo di programma per la chimica con il Ministero dell'ambiente che solo di recente è stato concluso ed è prossimo all'attivazione concreta tra le parti in causa (regione Veneto, Ministero ambiente, enti locali, Unione industriali, sindacati, Enichem) di iniziative di messa in sicurezza e bonifica delle aree contaminate. L'impegno economico previsto sarà assai rilevante (circa 4300 miliardi).
Il Ministero dell'ambiente nei giorni scorsi ha stanziato i primi 100 miliardi per iniziare la bonifica di ben 700 ettari estensibili a 2000 ettari. Già le aziende del luogo hanno speso circa 1000 miliardi per il piano di risanamento e per la messa in sicurezza degli impianti. Si pensa anche di realizzare una barriera di circa 60 chilometri che per una profondità di circa 18 metri assicurerà l'isolamento dell'area industriale dalla acque della laguna di Venezia. C'è da augurarsi che nell'ambito delle operazioni di bonifica non prevalga la filosofia della messa in sicurezza permanente dei siti contaminati come rilevato dai commissari nel corso dell'audizione del Corpo forestale dello Stato, ma che si addivenga ad una radicale bonifica con rimozione e trattamento degli inquinanti almeno per quei siti ritenuti più ad alto rischio ambientale e per la salute pubblica. A questo proposito va comunque rilevato come sia stata avviata l'operazione di invio degli inquinanti via ferrovia verso ex miniere di salgemma nei pressi di Lipsia in Germania, una scelta già valutata positivamente dalla Commissione sia per le modalità di trasporto che per le metodologie utilizzate nel sito di smaltimento.
Impianto di discarica rsu di Pescantina (Verona).
Si tratta di una discarica di prima categoria per rsu con annesso impianto di trattamento chimico-fisico del percolato che ha finora funzionato con discontinuità a causa di problematiche tecniche connesse. La discarica è gestita dalla società Aspica del gruppo Waste Management. Il sito è in località Filissine nel comune di Pescantina. L'attività della discarica è iniziata nel 1987 e la capacità è di circa 2 milioni di metri cubi ed è asservita prevalentemente al bacino Verona 1. La realizzazione è avvenuta nella porzione del 50 per cento di una cava di ghiaia non più utilizzata. Dal 26 giugno del 1997 è possibile il conferimento della sola frazione secca (con un massimo del 6 per cento di frazione organica) in seguito a delibera della regione Veneto (n. 2329) che ne autorizzava l'ampliamento. Nella parte già coltivata della discarica e ora ricoperta sono in funzione pozzi di captazione di biogas con l'obiettivo di utilizzarlo per il recupero energetico come si desume da apposito accordo di programma con il comune di Pescantina. Mentre alla Commissione sono pervenuti documenti su presunte irregolarità di tipo amministrativo che richiederanno un approfondimento sia in sede locale che regionale, sul piano squisitamente tecnico-gestionale, vi è da segnalare che la stesura del manto di impermeabilizzazione, per la parte della discarica in coltivazione, non risulta ottimale e presenta notevoli zone di corrugazione e ciò potrà causare nel tempo problemi di fessurazioni e di infiltrazioni di percolato con rischi per la falda, data la natura sabbiosa del sito. Vi è da segnalare inoltre, come risulta dalla documentazione fotografica in possesso della Commissione ed ottenuta al momento del sopralluogo della stessa, che la frazione secca di rsu conferita contiene una percentuale di frazione organica di certo superiore a quella prevista del 6 per cento ed è costituita prevalentemente da sfalci di erba. Nel progetto di ripristino ambientale a fine coltivazione della discarica e consegnato brevi manu alla Commissione si parla di utilizzo a fini agricoli del sito. A tale proposito, un rappresentante dell'azienda di gestione ha riferito che è previsto l'impianto di un vigneto. Tale ultima affermazione lascia assai perplessa la Commissione, assunto che sui siti di discarica, dopo la chiusura, è vietata ogni coltura riconducibile all'alimentazione umana.
Sito ex Faesite di Longarone (Belluno).
La Commissione ha effettuato la visita all'ex impianto Faesite in località Faè di Longarone in data 8 giugno 2000. Il sito, detto anche area Polimex, occupa una superficie di circa 24 ettari ed è posto in posizione immediatamente ad est della
statale Alemagna. Le superfici che afferiscono all'area in esame sono pertinenze amministrative del comune di Longarone, da cui distano quattro Km verso sud. L'area è lambita ad est dal fiume Piave e dal torrente Desedan che scorre a sud. Dal 1992 al 1996 vi sono stati numerosi passaggi di proprietà che hanno visto coinvolte la Faesite Immobiliare, la Polimex spa, La Pelf spa, la Cremisi srl, la Da Ronch Ferdinando, la Kandahar, sulle quali sta indagando la magistratura e che comunque non hanno mai preso in considerazione la bonifica dell'area, gravemente contaminata. L'attività sul sito ha inizio come Faesite nel 1936 per la produzione di pannelli truciolari in legno e prosegue fino al 1984 con la produzione anche (dal 1951 all'inizio degli anni ottanta) di pannelli in PVC (polivinilcloruro) e galleggianti per la pesca. Nel 1989 la Polimex riprende la produzione di pannelli di resina sintetica e non più di legno. Per tali operazioni la Polimex utilizzerà le presse e parte dei macchinari della Faesite. La produzione sia di pannelli che di galleggianti per la pesca durerà fino al 1992. La Pelf, costituita nel 1974, subentrerà nell'assetto societario rilevando le pertinenze non produttive. Nel corso degli anni i materiali, i chemicals utilizzati e i residui prodotti sono stati acido solforico, aldeide formica, amianto, soda caustica, paraffina, matanolammina, idrazina, oli minerali, ceneri di carbone, cloruro di metile in bombole, polvere di legno, imballi, acque di lavaggio, mercurio, fenoli, pvc polvere, sali di piombo, isocianati, vernici contenenti toluene e xilene, pigmenti, coloranti, anidride maleica, polielettrolititi, olio di lino cotto, inchiostri, catrami, nafta, anidride ftalica, colle, batterie esauste, glicoli, ecc. L'abbandono sul sito di chemicals esausti o non più utilizzabili di residui e rifiuti sul suolo e interrati nel sottosuolo, la mancanza a quel tempo di regole e norme tecniche ambientali, hanno comportato le gravi situazioni di contaminazione dell'area su cui oggi la proprietà è chiamata ad intervenire con operazioni di bonifica a seguito anche di una richiesta esplicita del sindaco di Longarone che nel marzo 1997 scriveva alla provincia di Belluno e al settore igiene pubblica della ASL per evidenziare lo stato di degrado dell'area e delle adiacenze Polimex. Sull'area erano state condotte indagini per richiesta alla ASL da parte dei cittadini di Fortogna per la presenza di polveri nell'aria, già dal 1993-94. A seguito della richiesta del sindaco di Longarone, la sezione di polizia giudiziaria dei carabinieri della pretura di Belluno, unitamente ai tecnici del settore ecologia della provincia di Belluno, iniziavano, il 14 marzo 1997, una serie di sopralluoghi ed individuavano numerosi depositi di materiali inutilizzabili e residui caratterizzati e classificati come rifiuti pericolosi. Viene quindi eseguito dalla pretura circondariale un sequestro preventivo dell'area. La procura metterà in seguito sotto sequestro numerose aree da sottoporre a bonifica. I terreni sottostanti evidenziano contaminazione da oli e da mercurio sotto il reparto collatura. Durante la visita della Commissione si è avuto modo di visionare, richiedendone in seguito copia completa, il piano di bonifica delle aree di pertinenza della Polimex, redatto nel gennaio 1999 dalla società Azienda Padova Servizi ossia dalla divisione ambiente Amniup con sede a Padova. Il piano di bonifica esclude alcune aree per le quali le indagini sono ancora in corso per delimitarne l'effettiva estensione della contaminazione. Relativamente al progetto di bonifica in essere, si stima un costo di circa sei miliardi. Il piano è stato presentato al comune di Longarone in data 29 gennaio 1999 per l'autorizzazione, mentre nel febbraio 1999 è stato richiesto anche il parere tecnico della commissione tecnica provinciale.
Nel luglio 1999 a seguito di un accordo Polimex, Pelf e Speranza Calcestruzzi, Pelf si è assunta la responsabilità e gli oneri della bonifica della aree di proprietà Speranza subentrando in tal modo nelle obbligazioni precedentemente assunte da Polimex. In data 10 ottobre 1999, la Polimex ha presentato una prima proposta di indagine generale che comprende le aree denominate «aree bianche». Al momento
della visita della Commissione era stata rimossa gran parte dei rifiuti giacenti sul suolo e sulle aree di proprietà Polimex ed erano in corso indagini sullo stato di fatto del suolo e della falda sottostante l'area di proprietà. Il quadro generale degli interventi di rimozione dei residui e di bonifica, per la verità assai complesso, è rappresentato oggi dalla seguente situazione: area denominata settore deposito RSU (di proprietà Polimex e bonifica a carico Pelf): sono in corso operazioni di vagliatura e insaccamento di rsu per conferimento in discarica; Aree di proprietà e pertinenza Pelf: il piano di bonifica e rimozione rifiuti, presentato nel marzo 1999, è stato integrato e rielaborato nel settembre 1999, comprendendovi nuove aree vendute alla Polimex nel luglio 1999; Programma di smaltimento presentato dei residui delle aree denominate 3, 4, 13, 36, presentato da Pelf, recepito dalla provincia, autorizzato ed affidato alla Ste di Porto Marghera; Pelf ha provveduto alla rimozione e smaltimento di ceneri di carbone delle aree denominate mapp.174, 311sub3, mapp. 387; il comune in data 13 ottobre 1999 ha richiesto il parere della commissione tecnica provinciale in merito al piano di bonifica presentato dalla Pelf, chiedendo se esso fosse congruo con quanto previsto dal DM 471/99.Tale progetto prevede la bonifica dell'area di proprietà e pertinenza Pelf e la messa in sicurezza permanente in loco dei rifiuti giacenti nelle stesse aree e classificabili come speciali pericolosi con eluato 10 volte inferiore a 10 volte il limite della tabella A della legge n.319/76. Al momento sono, quindi, in corso di predisposizione tutte le integrazioni di indagine miranti ad adeguare il progetto ai requisiti del DM 471/99.
Sulla base di quanto sopra, e a seguito della lettura dei documenti pervenuti, la Commissione crede di non trovarsi in linea con l'ipotesi della messa in sicurezza permanente del sito che prevede di lasciare in esso i residui pericolosi identificati, pur se tale pratica è prevista dalla norma tecnica vigente. Occorre ricordare, a tal proposito, che alla messa in sicurezza permanente si arriva quando è dimostrato che si è fatto ogni sforzo per applicare la «best available technology», ossia tutti gli interventi tecnicamente ed economicamente praticabili: ciò non appare chiaramente dalla documentazione in essere.
Area ex Esso- Area Porto Petroli di Trieste.
In data 2 settembre 1999, i consulenti dell'ANPA e della Commissione hanno effettuato una visita ispettiva nell'area dell'ex raffineria Esso di Trieste. I consulenti per l'occasione erano accompagnati da due rappresentanti del NOE di Venezia, e dall'ingegner Vatta dell'ARPA Friuli-Venezia Giulia e da alcuni suoi collaboratori. Al sopralluogo hanno anche partecipato alcuni funzionari dell'EPT (ente Porto di Trieste), che risulterebbe l'attuale proprietario dell'area oggetto dell'ispezione. Dalla documentazione presente in Commissione risulta che, a ridosso dell'area contaminata oggetto della visita, sorgeva un impianto di raffinazione di oli minerali confinante ad est con la Italcementi e ad ovest con la Saicil. L'area industriale detta di S. Sabba faceva parte del Porto Petroli di Trieste. La raffineria era nata nel 1895 e fino al 1967 era stata utilizzata come impianto di raffinazione di petrolio grezzo ed anche come impianto di raffinazione di oli lubrificanti con produzione di melme acide di scarto. La capacità lavorativa massima raggiunta dalla raffineria era stata di 8 milioni di barili/giorno. Nel corso della seconda guerra mondiale, l'area veniva bombardata più volte e le numerose bombe cadute (se ne sono registrate 368) procuravano grave pregiudizio per il suolo, per il sottosuolo e per le falde idriche tant'è che nel periodo post-bellico si sono verificati (e ancora oggi si verificano) periodicamente riaffioramenti di idrocarburi in superficie. L'impianto di raffinazione sorgeva su di un'area di 235.000 metri quadrati ed era stato acquistato dalla SIAP di Genova (poi Esso Standard Italiana)
dai precedenti proprietari (austriaci) in più soluzioni (particelle di impianto e terreno acquisite in tempi successivi) nel periodo 1913-1967. Con l'avvento di nuove tecnologie di raffinazione, la proprietà non riteneva profittevole adeguare gli impianti e ne decideva la parziale dismissione (smantellamento) tenendo in vita il parco serbatoi e le strutture di carico e scarico prodotti finiti asservite a tali serbatoi, trasformando, di fatto, la raffineria in deposito costiero della Esso Standard Italiana. Le attività di stoccaggio e scarico prodotti, tipiche di un deposito costiero, venivano infine dismesse nel 1979 e il deposito rimaneva inattivo fino al momento della trattativa di vendita all'ente autonomo Porto di Trieste avvenuta il 25 gennaio 1988. Precedentemente e precisamente nel 1982 la Esso restituiva al demanio le aree demaniali a ridosso della raffineria date in concessione nel 1953 e nel 1956 per scaricarvi i residui catramosi e le melme acide delle lavorazioni di raffinazione. Al tempo degli sversamenti dei residui, tali aree demaniali, erano zone di mare il cui fondale era a circa 6-7 metri dal livello del pontile dove era installato (ed è ancora in parte visibile) un bitumidotto con linea coibentata. Come sopra detto, il sito della vecchia raffineria, poi divenuto deposito costiero, veniva venduto per un costo di lire 4.5 miliardi all'EAPT (ente autonomo Porto di Trieste). Nel mese di settembre 1989 l'EAPT, dopo aver rinvenuto nel sottosuolo dell'ex raffineria numerosi fusti di materiale petrolifero contaminante, richiedeva alla Esso Italiana di intervenire per bonificare l'area. L'area veniva parzialmente bonificata con un costo di circa un miliardo, ma rimaneva insoluto il problema della grave contaminazione delle aree demaniali a suo tempo date in concessione per gli sversamenti dei residui di produzione. Le aree demaniali concesse dalla capitaneria di porto di Trieste alla Esso Standard Italiana erano nello specifico della seguente superficie: 1200 metri quadrati per deposito di rifiuti da raffinazione oli (1953); 1200 metri quadrati per interramento e deposito rifiuti di lavorazione (1956).
Le due aree erano di fatto, per come detto sopra, due specchi d'acqua in cui venivano sversati catrami acidi e terre decoloranti esauste. Nelle concessioni veniva previsto che la zona concessa fosse opportunamente arginata e che alla fine del suo utilizzo fosse riconsegnata nel «pristino stato», all'amministrazione marittima. Tali aree di fatto non sono state mai bonificate per riportarle al pristino stato nemmeno al momento della vendita della Esso Italiana all'EAPT e nemmeno in occasione della bonifica dell'area degli impianti di raffinazione iniziata nel 1991 ed ultimata il 6 dicembre del 1992. Nel tempo le due aree sono divenute zone di interramento di ogni sorta di materiale in esse scaricato, comprese le ceneri del vecchio inceneritore del comune di Trieste, operativo ancora fino ai primi mesi del 1999. A causa di tali interramenti, la linea del bagnasciuga si allontanava notevolmente da quella originaria tant'è che oggi, su tale area di riporto, insiste il nuovo inceneritore di rifiuti urbani del comune di Trieste ed altri capannoni di aziende artigiane e industriali.
Al momento, una parte delle aree demaniali, dopo una serie di indagini commissionate dall'ente Porto di Trieste alla società Foster Wheeler, è stata messa in sicurezza coprendola con teloni di plastica. Nel corso della visita della Commissione sull'area ex Esso, in data 3 luglio 2000, si è potuto verificare il reale stato di degrado del luogo e si è avuta conferma, nel corso dell'audizione pomeridiana presso la prefettura di Trieste, che le indagini della procura di Trieste ancora in corso, mirano a evidenziare con chiarezza la cronistoria dei fatti, ad individuare le responsabilità, e a identificare chi sarà chiamato a intervenire sia per completare la bonifica dell'area della ex raffineria sia per bonificare l'intera area delle concessioni demaniali.
In considerazione dei sopralluoghi effettuati dalla Commissione nell'area «ex Esso» il 2 settembre 1999 ed il 3 luglio
2000, l'autorità portuale di Trieste ha comunicato, ai sensi dell'articolo 9 del D M 471/99, la presenza di inquinamento da idrocarburi e successivamente, l'1 giugno 2000, gli interventi di messa in sicurezza adottati.
Con deliberazione della giunta regionale n. 1642 del 10 giugno 2000 è stato richiesto al Ministero dell'ambiente di inserire tra le aree da bonificare di interesse nazionale l'area del porto industriale ricadente nella provincia di Trieste, ivi compresi gli specchi d'acqua marittimi antistanti eventualmente interessati.
Il comune di Trieste, in ottemperanza all'articolo 17 del decreto legislativo n. 22 del 1997, il cui il comma 3 stabilisce che i «soggetti e gli organi pubblici che nell'esercizio delle proprie funzioni istituzionali individuano siti nei quali i livelli di inquinamento sono superiori ai limiti previsti (o meglio da prevedersi con apposito decreto ai sensi del comma 1 del medesimo articolo 17), ne danno comunicazione al comune, che diffida il responsabile dell'inquinamento a provvedere ai sensi del comma 2 dell'articolo 17, nonché alla provincia e alla regione», in data 26 maggio 2000 ha adottato un'ordinanza sindacale nei confronti della Esso Italiana spa, diffidando la stessa a mettere in atto i necessari interventi di messa in sicurezza provvisoria, bonifica e ripristino ambientale.
A seguito di detta ordinanza la Esso Italiana spa, in data 7 novembre 2000, ha ricorso avverso tale atto, previa sospensiva, e si è pertanto in attesa della decisione del TAR del Friuli-Venezia Giulia.
Inceneritore di Trieste - Via Errera.
In data 3 luglio 2000 è stata effettuata la visita della Commissione al termovalorizzatore di rsu di Trieste, sito in via Errera. La gestione dell'impianto è affidata alle società Acegas spa di Trieste e alla Ttr srl (gruppo Falck) di Milano in qualità di supervisore delle operazioni. Le imprese che hanno provveduto alla costruzione dell'impianto sono la Ttr come capogruppo, la Carena Spa di Trieste e la Riccesi spa di Trieste. Il committente del servizio di smaltimento è il comune di Trieste. Al momento della visita della Commissione, l'impianto usufruiva di una autorizzazione all'esercizio provvisoria e in condizioni sperimentali richiesta dal comune di Trieste e rilasciata dalla provincia di Trieste in data 25 maggio 2000 per l'incenerimento di rifiuti urbani e speciali assimilati e per due linee di combustione con utilizzo graduale per quantitativi crescenti di rsu in alimentazione al forno. L'autorizzazione è valida per un periodo di 180 giorni ed è rinnovabile. Ad ultimazione dei lavori e a seguito del collaudo finale della sezione di recupero energetico, i rifiuti che potranno essere trattati dall'impianto saranno i circa 408 tonnellate/giorno ossia 204 ton per ognuna delle due linee. Il potere calorifico del rifiuto ha un range stimato tra 1600 e 2500 Kcal/Kg. Il forno è del tipo a griglia mobile e i rifiuti che potranno essere alimentati sono rsu, speciali assimilabili e speciali sanitari (questi ultimi in ragione di 30 ton/giorno). Il trattamento dei fumi avviene per lavaggio con soda caustica in soluzione, la depolverazione si effettua con filtri a maniche, l'abbattimento dei vapori di mercurio è realizzato con carbone attivo, mentre la riduzione degli ossidi di azoto avviene tramite iniezione di urea con processo Denox. I residui della combustione (ceneri da forno) e polveri da abbattimento, vengono attualmente conferiti nelle discariche della regione Veneto (Bastian Beton), della regione Friuli (Gesteco, Prefir, Ecoplan) e della Lombardia (Ecosesto, Ecoservizi). L'impianto, tecnologicamente avanzato e di buona qualità con un sistema di abbattimento delle polveri efficiente, è in grado di assicurare i limiti in emissione della vigente normativa. Va considerato però che, data la potenzialità (204 tonnellate/giorno), esso risulta sovradimensionato in considerazione del quantitativo di rsu tal quali del bacino di Trieste (105.000 ton/anno), delle 12.000 ton /anno di rifiuti speciali e delle 3000 ton/anno
di rifiuti sanitari. Ciò infatti significa circa 308 ton/giorno contro una potenzialità di 408 ton/giorno. Si consideri inoltre che, quando sarà attivata a pieno la raccolta differenziata e all'impianto perverrà la frazione secca da sottovaglio al netto delle quantità di rifiuti recuperabili e avviate alle filiere, vi sarà un deficit crescente di rifiuti in alimentazione. Si renderà quindi necessaria l'integrazione con rifiuti da altri bacini, compatibilmente con le prescrizioni del piano regionale di smaltimento della regione Friuli -Venezia Giulia.
Discarica abusiva di Savogna d'Isonzo (Gorizia).
Il sito dismesso della ex ditta Neviera nel comune di Savogna d'Isonzo e utilizzato per stoccaggio provvisorio illegale di rifiuti provenienti da raccolte differenziate e da fluff di autovetture, unitamente a sfridi e residui di plastica, costituisce una situazione «classica» più volte riscontrata dalla Commissione in altri siti del territorio nazionale. La tecnica è sempre la stessa: un'azienda chiede di esercitare l'attività di recupero ai sensi dell'articolo33 del decreto legislativo n.22 del 1997, affitta un capannone dismesso da proprietari, spesso ignari dell'attività della ditta. L'azienda accumula quantitativi rilevanti di rifiuti fingendo un recupero e riciclo. Dopo aver concentrato, nei capannoni, il massimo di materiali accumulabile, fallisce, e i rifiuti rimangono in carico alla proprietà con il rischio, in caso non si riesca ad identificare o rintracciare l'operatore di tale attività, che la comunità locale sia chiamata a bonificare il sito, sperando di poter rivalersi poi con chi ha commesso l'illecito smaltimento e il finto recupero. Il sito di Savogna d'Isonzo è stato identificato dalla Guardia di finanza, che sta procedendo alle indagini del caso in collaborazione con la magistratura locale. I rifiuti giacciono in stato di completo abbandono su un ampio piazzale allo stato sfuso o contenuti in sacchi e big bags senza alcuna copertura che ne eviti il dilavamento ad opera delle piogge. All'interno dei capannoni e nei cortili interni delle strutture sono visibili notevoli quantitativi di altri materiali, anch'essi all'aria aperta e senza alcuna copertura, consistenti essenzialmente in sfridi di gomme e di plastiche.
Il comune di Savogna d'Isonzo, con lettera in data 30 novembre 2000, prot. 6052/2000, ha richiesto l'intervento sostitutivo da parte della regione ai sensi e per gli effetti degli articoli 8, comma 4, del DM 471/99 e articolo 17, comma 9, del decreto legislativo n. 22 del 1997. Già nel 1999 erano stati stanziati a bilancio due miliardi per la bonifica dell'area in questione, ma solo in data 30 novembre 2000 il sindaco ha emesso l'ordinanza di cui al predetto articolo 8. Nel frattempo è stata redatta, su incarico del comune una «caratterizzazione» dell'area al fine della bonifica.
Impianto di compostaggio di Udine.
Nell'impianto di Via Gonars a Udine si effettuano le operazioni di selezione e compostaggio dei rifiuti solidi urbani e assimilabili indifferenziati, per produrre un combustibile derivato da rifiuti dalla frazione secca ed un compost dalla frazione organica. Vengono inoltre recuperati materiali quali il ferro, e l'alluminio. L'impianto, di proprietà del Comune di Udine, è stato dato in gestione alla società Daneco Gestione Impianti, del gruppo Montedison. Le caratteristiche generali dell'impianto, così come dichiarate dall'azienda, sono le seguenti: superficie totale occupata 52.000 metri quadrati, potenzialità dell'impianto di 210 ton/giorno con conseguente produzione di un compost secondo le norme dettate dal decreto del Presidente della Repubblica n. 915/82 pari a circa 8-
scarti di produzione si aggirano intorno al 38- La visita della Commissione avvenuta in data 4 luglio 2000, si è resa necessaria a seguito di un esposto pervenuto per denunciare il grave stato di degrado e di abbandono dell'industria chimica ICFI, nell'area industriale di Nimis (Ud) e in cui, al momento in cui il sito era operativo, si lavoravano sostanze altamente tossiche e cancerogene. Quanto denunciato è stato confermato durante il sopralluogo della Commissione, la quale ritiene che si renda estremamente urgente, prima di procedere alle operazioni di bonifica, la messa in sicurezza del sito, per evitare intrusioni e incidenti. La ICFI , industria chimico-farmaceutica, è stata operativa nel periodo 1973-1978 ed è stata chiusa a seguito della mobilitazione della popolazione di Udine, scesa in piazza con auto e trattori, per denunciare il grave attentato all'ambiente a lungo perpretato da parte del management aziendale. La cronistoria del sito riferisce che sin dal 1970 si effettuavano sintesi organiche per produrre prodotti chimici e farmaceutici, partendo da catalizzatori contenenti metalli tossici e da numerose sostanze di base tra cui fosgene e cianuri. L'attività, nel tempo, avrebbe gravemente compromesso le acque di falda, la vegetazione di alcune specie locali, e le colture vinicole (è documentato, in alcuni anni, l'ottenimento di vini dal sapore e odore sgradevole distrutti perché non idonei all'alimentazione) a causa di fessurazioni e conseguenti infiltrazioni nel suolo di sostanze tossiche dalla vasche di depurazione e dal sistema fognario e di sversamenti di rifiuti nei campi vicini. Le vicissitudini dell'impianto comprendono anche un uso alternativo del sito, dopo la chiusura dell'ICFI, quale stoccaggio provvisorio autorizzato per lo stoccaggio di rifiuti tossici e nocivi successivamente revocato. È da rilevare che numerose sono state fino ad oggi le indagini sul sito da parte delle istituzioni locali e in qualche caso vi è stato un palleggiamento di responsabilità. Oggi, vi è
da constatare che dopo la visita sul sito del magistrato Buonacore accompagnato dalla polizia scientifica e dalla Digos (14 aprile 2000) ed anche a seguito della visita della Commissione d'inchiesta sul ciclo dei rifiuti, si ha ragione di ribadire, per come sopra detto, che le operazioni di bonifica e di risanamento del territorio si rendono estremamente urgenti, in considerazione anche del fatto che, a 250 metri a valle del sito, viene attinto il 50 per cento dell'acqua che viene distribuita alla città di Udine.
Discariche sul territorio del comune di Firmano (Udine).
La segnalazione della criticità territoriale a seguito della coltivazione di alcune discariche di rifiuti che insistono sul territorio di Firmano, era pervenuta alla Commissione da parte del comitato per la difesa del territorio di Premariacco e di Cividale del Friuli. Durante il sopralluogo della Commissione, il 4 luglio 2000, alle discariche e nel corso dell'incontro presso la sala del consiglio comunale di Firmano, si è presa visione della documentazione e si sono ascoltati i rappresentanti del comitato di cui sopra. È indubbio che nel territorio compreso tra Premariacco e Gagliano, più specificamente nel territorio di Firmano sono state coltivate e sono in fase di coltivazione numerose discariche di rifiuti di varia tipologia : rsu (Aspica, Busolini), rifiuti speciali non pericolosi (Ecoter-Ifim-Prefir, Praedium), rifiuti speciali pericolosi (Gesteco). Tale concentrazione di discariche, al di là dell'impatto ambientale estremamente negativo, desta forti preoccupazioni tra i membri della Commissione per il fatto che l'idrogeologia delle zone interessate è critica per la presenza della falda assai vicina al piano campagna, di numerosissimi pozzi utilizzati a scopo irriguo e per la permeabilità dei terreni. Gli odori nauseabondi, più volte lamentati dagli abitanti che vivono in zone assai vicine ai siti in esame, si avvertivano in alcuni momenti, a seconda della direzione dei venti, anche durante il sopralluogo della Commissione ed è da considerare che la qualità dell'aria raramente è stata monitorata dalle autorità preposte per ciò che risulta agli atti. Assai articolata e non sempre chiara risulta la programmazione territoriale dello smaltimento dei rifiuti e le stesse autorizzazioni, deroghe ai piani, appaiono a volte artificiose e sottendono situazioni critiche non del tutto ancora risolte. Anche la gestione delle discariche e dei percolati appare poco chiara. La Commissione, a seguito di quanto visto ed acquisito, ritiene che si debba prendere in seria considerazione una rivisitazione dell'utilizzo di quei territori e che si debba iniziare un'urgente azione di bonifica delle aree più contaminate.
L'analisi dei dati acquisiti relativamente alle attività illecite che si manifestano nel ciclo dei rifiuti consente di affermare che il Veneto è interessato a traffici di rifiuti, che da questa regione principalmente partono per essere destinati a discariche abusive dell'Italia centro-meridionale, anche se recentemente aree di questa regione hanno assunto un ruolo di ricettore illecito di rifiuti.
processuali: nella vicenda descritta, ad esempio, la procura ha rappresentato alla Commissione come gli illeciti consumati dai soggetti coinvolti nella gestione illegale delle due discariche, tra cui la società titolare delle medesime, siano ormai prescritti trattandosi di fatti che risalgono al 1995.
Le principali vicende giudiziarie.
Lo stato della laguna veneta.
della città. L'accertamento degli elevati livelli di inquinamento, dovuti in parte alla navigazione interna ed in parte all'assenza di un impianto di depurazione ha determinato l'irrogazione di sanzioni comunque irrisorie (circa 500.000 lire) nei confronti dei soggetti responsabili: infatti, il provvedimento legislativo di proroga al dicembre 1999 dei termini per l'autorizzazione all'esercizio degli scarichi civili scaduti nel giugno 1996 ha comportato l'estinzione di diversi procedimenti penali avviati a carico di quei soggetti che avevano proseguito l'attività degli scarichi nel periodo compreso tra la data di scadenza delle autorizzazioni ed il loro successivo rilascio da parte del magistrato delle acque.
Il polo petrolchimico di Porto Marghera.
ambientale, ché, anzi - secondo l'accusa - si preoccupò di far cancellare da tale relazione ogni riferimento a responsabilità di tipo penale.
sono stati accertati oltre 150 decessi per esposizione al cvm-pvc ed altrettanti soggetti ammalati.
L'inchiesta giudiziaria sullo scarico SM15 del petrolchimico di Porto Marghera.
biologico della ditta Ambiente spa, con recapito finale nelle acque lagunari e superante i limiti di accettabilità di cui alla tabella allegata al decreto del Presidente della Repubblica n.962 del 1973, ciò pur essendo a conoscenza non solo della situazione esistente, ma anche dei risultati di analisi disposte sulla qualità e lo stato delle acque lagunari; in particolare, i reflui risultavano superiori del 30 per cento ai limiti di legge per il parametro «rame».
può negarsi che la gravità e l'estensione dell'inquinamento sono da attribuire al complesso delle lavorazioni industriali, alla presenza degli insediamenti esistenti nel centro storico di Venezia e ad altri fattori concomitanti (si pensi al problema, sopra accennato, relativo alla circolazione delle imbarcazioni a motore). Ciò non può impedire, tuttavia, di individuare il contributo determinante che nella devastazione in atto dell'ambiente lagunare hanno avuto le aziende operanti nell'area del petrolchimico; né può tacersi del ruolo parimenti grave svolto in tale direzione dai soggetti pubblici preposti ai controlli, attraverso il comportamento di assoluta inerzia che si è sopra evidenziato.
Veneto - Le altre vicende giudiziarie.
fiaccola BT 101/3, causando gravi disturbi ai cittadini della vicina località Malcontenta. L'ufficio di procura ha contestato anche in questo caso violazioni della normativa in materia di incidenti rilevanti ed omissioni di cautele contro disastri ed infortuni sul lavoro.
Friuli-Venezia Giulia - Le attività illecite nel ciclo dei rifiuti.
hanno peraltro consentito di risalire ad alcune aziende lombarde da cui provenivano tali rifiuti.
L'area ex ESSO - Area Porto Petroli di Trieste.
di lavorazione (concessione del 1956). Tali aree di fatto non sono mai state bonificate per riportarle al pristino stato, nemmeno in occasione della bonifica dell'area degli impianti di raffinazione iniziata nel 1991 ed ultimata nel dicembre 1992.
Le altre vicende giudiziarie.
Conclusioni.
La realtà di Veneto e Friuli-Venezia Giulia, per come è stata delineata sin qui, presenta diversi aspetti da sottolineare. Il primo riguarda senz'altro la pianificazione e la programmazione regionale: il Veneto, da questo punto di vista, appare in posizioni di avanguardia per quanto riguarda la realtà nazionale. Questo non solo per i contenuti della nuova legge di programmazione, ma soprattutto per quanto già fatto dalle varie istituzioni negli anni
passati: un'attività che consente a questa regione elevate performances in tema di raccolta differenziata e di recupero, anche se non tutto il territorio regionale offre lo stesso panorama. Si è detto della provincia di Rovigo, ma anche nella provincia di Vicenza si registrano situazioni di sofferenza, connesse in particolare alla gestione della discarica di Grumolo. Il Friuli-Venezia Giulia manca ancora di un piano integralmente aderente al dettato della normativa nazionale e comunitaria; per quanto riguarda la gestione dei rifiuti solidi urbani, i risultati - in alcuni casi soddisfacenti - sono ancora distanti dai livelli previsti dalla legge. Si registrano inoltre situazioni particolari, come quella di Udine, che invia il cdr realizzato nell'impianto comunale in Toscana piuttosto che al termodistruttore di Trieste. Per quanto riguarda invece la tipologia dei rifiuti speciali, entrambe le regioni sembrano disporre di un sufficiente numero di discariche e impianti per soddisfare le necessità del territorio.
Impianto ex ICFI di Nimis (Udine).
All'articolo 16 delle norme di attuazione del piano regionale per la gestione dei rifiuti - sezione rifiuti urbani, in fase di approvazione da parte del presidente della giunta regionale, previa delibera della giunta stessa, è previsto che le zone interessate da un programma di recupero ambientale o di bonifica finanziato con fondi pubblici, (ciò è riferito puntualmente alla zona di Firmano ricompresa nei comuni di Cividale del Friuli e Premariacco in provincia di Udine) sono escluse dalla localizzazione di nuovi impianti di recupero o di smaltimento rifiuti, discariche comprese. In tali zone risultano vietati anche gli ampliamenti degli impianti esistenti.
Con provvedimento del direttore del servizio competente della direzione regionale dell'ambiente, in data 13 ottobre 2000 è stato autorizzato il pagamento del finanziamento straordinario di 2 miliardi e 200 milioni a favore della provincia di Udine per la progettazione e la realizzazione delle opere finalizzate al recupero ambientale, compreso il monitoraggio ed eventuali iniziative per il riuso delle aree interessate dalle attività di smaltimento ed estrattive che hanno gravato negli anni sui territori dei comuni di Cividale del Friuli e Premariacco.
Veneto - Le attività illecite nel ciclo dei rifiuti.
Emblematica al riguardo è l'inchiesta condotta dalla procura di Rimini, che ha consentito di reprimere un traffico illegale di rifiuti che vedeva coinvolta anche questa regione: nel 1995 notevoli quantitativi di fanghi tossico-nocivi prodotti dalle Acciaierie Venete spa ed affidati per il trattamento e lo smaltimento alla ditta Asbestos Tecnical Service 2, venivano inviati direttamente, senza subire alcun processo di inertizzazione e trattamento, in una cava dismessa nel comune di Soave (Vr) e finivano addirittura utilizzati dalla ditta Edilstrade per la pavimentazione delle strade, con gravissimo pregiudizio per l'ambiente e la salute pubblica. Le due ditte citate si facevano garanti dell'attività di trasporto, trattamento e riutilizzo finale dei rifiuti mediante false attestazioni agli enti competenti, così lucrando ingenti somme dalle Acciaierie Venete spa per il servizio loro affidato e solo in apparenza svolto.
Non mancano tuttavia anche nel Veneto episodi di smaltimenti illeciti di rifiuti provenienti da altre regioni, in particolare dalla Lombardia e dal Piemonte: si tratta, anzi, di un fenomeno che negli ultimi anni ha subito un incremento significativo. Uno scenario del genere, del resto, era già emerso da alcune indagini condotte dalla Guardia di finanza di Udine nel corso del 1998, che avevano rivelato l'esistenza di un traffico illegale di rifiuti solidi urbani (abbandonati presso capannoni industriali dismessi o in magazzini) in cui erano coinvolte, in particolare, le regioni Veneto, Friuli ed Emilia Romagna.
Emblematica è la vicenda relativa alla gestione delle due discariche di II cat. tipo B ubicate rispettivamente nei comuni di Castelfranco Veneto ed Istriana. Dall'inchiesta condotta dalla magistratura competente di Treviso è emerso che presso tali discariche, peraltro tenute in modo inadeguato, venivano conferiti grossi quantitativi di rifiuti per la gran parte non compatibili con i parametri disposti dalla Delibera Interministeriale del 27 luglio 1984 per le singole tipologie nonché con le autorizzazioni regionali, avvalendosi della compilazione di certificati di analisi dei rifiuti con parametri analitici diversi da quelli originali e l'indicazione di tali dati falsificati nei relativi formulari di identificazione, che attestavano la natura non tossica del rifiuto tale da poter essere conferito nelle discariche sopra indicate. Si trattava di rifiuti provenienti da appalti con l'Enel, relativi al conferimento di ceneri di combustione ed altri materiali provenienti dagli impianti della Campania e della Sicilia. Dai formulari di identificazione sono risultati anche conferimenti di rifiuti di altre ditte delle regioni Lombardia, Emilia Romagna e Toscana.
A tale proposito, la Commissione riconferma le forti perplessità più volte manifestate in ordine alla sostanziale inadeguatezza e scarsa efficacia deterrente delle misure penali esistenti in materia ambientale; con particolare riferimento alla vicenda che si è descritta, è evidente come la natura contravvenzionale del traffico di rifiuti con le modeste sanzioni che ne discendono, non è proporzionata alla gravità dell'illecito e delle sue modalità di attuazione, caratterizzate quasi sempre da forme organizzative a diversi livelli e spesso con la complicità degli apparati amministrativi, nonché dalla consumazione di una serie di reati strettamente funzionali allo stesso traffico dei rifiuti (nel caso che ci occupa, le varie falsificazioni dei certificati di analisi e dei formulari di identificazione dei rifiuti). È altresì grave che tali condotte illecite si prescrivano nei tempi assai brevi delle fattispecie contravvenzionali, difficilmente conciliabili con le esigenze investigative e
Diversi, poi, sono gli episodi di smaltimenti in discariche abusive della regione. Nei comuni, ad esempio, di Fiesso Umbertiano e Santa Maria Maddalena, presso due fabbriche fallite, sono state sversate nel novembre 1998 circa 1.500 tonnellate di rifiuti, costituiti in gran parte da residui di lavorazione di vernici e solventi. Le indagini condotte dai carabinieri di Castelmassa hanno consentito di risalire ad una ditta incaricata dello smaltimento dei rifiuti da alcune aziende piemontesi.
A Caorle, presso un villaggio turistico, è stata scoperta una discarica abusiva in cui sono stati interrati diversi metri cubi di eternit, un composto di amianto e cemento particolarmente dannoso per la salute.
Tra i processi penali, va segnalato quello conclusosi presso il tribunale di Venezia con sentenza di patteggiamento emessa nei confronti dei responsabili dell'impianto di pretrattamento e stoccaggio di rifiuti tossico- nocivi della Servizi Costieri srl, per avere realizzato fino al luglio 1995 l'attività di stoccaggio di numerosi fusti (oltre cento) contenenti amianto in condizioni che violavano le prescrizioni dell'autorizzazione rilasciata dalla regione (al di fuori delle platee di stoccaggio, in area prossima a quella della Agip Petroli), per l'attività di commistione incontrollata di rifiuti speciali e tossico-nocivi nonché di stoccaggio provvisorio dei rifiuti tossico-nocivi senza il rispetto di alcuna regola di sicurezza, dando così luogo a fenomeni di emissioni e spandimenti delle sostanze cumulate. Tale attività di stoccaggio dei rifiuti (tra cui prodotti farmaceutici e materiali ferrosi contaminati derivanti dagli impianti di deconfezionamento) è stata peraltro realizzata dalla società anche al di fuori dell'area autorizzata, nelle vicinanze del serbatoio di acque reflue da inviare al consorzio comunale impianto depurazione.
Ma l'episodio più grave è quello verificatosi nel territorio di Rovigo, dove la magistratura ha accertato che il titolare di una ditta di fluff da macinazione autoveicoli (la Geotecas), avvalendosi del sistema della mera comunicazione di inizio attività e godendo delle procedure semplificate previste dal «decreto Ronchi», ha avviato diverse attività di riutilizzo di rifiuti previa selezione in varie parti del territorio nazionale, dove in realtà arrivavano ingenti quantitativi di fluff da macinazione autoveicoli contaminato da sostanze pericolose, stoffe, carta, plastica, sale da conceria e altro materiale, senza che si procedesse ad alcuna attività di selezione e al riutilizzo o smaltimento in discarica autorizzata; una volta stoccati i materiali in magazzini presi in affitto, l'attività cessava, lasciando le aree occupate stipate di tali rifiuti.
Un siffatto comportamento, oltre ai seri problemi di natura igienico-sanitaria, ha comportato l'insorgenza di numerosi incendi nel comune di Rovigo presso la sede della ditta in questione, con conseguente pericolo per l'ambiente e la salute pubblica a causa della combustione del fluff mescolato ad altre sostanze pericolose come plastica, carta e stoffa, gadgets allegati a riviste e quotidiani invenduti.
A nulla sono valse le reiterate denunce del sindaco e dell'assessore all'ambiente del comune di Rovigo per le molteplici violazioni alla normativa in materia di rifiuti, nonché alle ordinanze del sindaco, tanto che lo stesso comune ha dovuto apprestare interventi atti a ridurre il rischio di incendi e a garantire la salute pubblica, avviando nel 1997, dietro ordinanza del presidente della regione Veneto, lo smaltimento del materiale presso inceneritori, con impiego di somme considerevoli per la bonifica e la messa in sicurezza delle aree utilizzate dalla ditta.
Il processo penale a carico del titolare della ditta e degli altri responsabili - tra cui il dirigente del settore ecologia della provincia di Rovigo ed alcuni produttori che conferivano presso l'area di stoccaggio della Geotecas, tra cui la società Transider e la ditta Acciaierie Venete di Padova - è attualmente in fase dibattimentale con la contestazione, da parte dell'organo d'accusa, del reato di disastro ambientale oltre che del reato di incendio colposo aggravato e delle diverse violazioni del decreto Ronchi.
Nel sito ove è stato stoccato il fluff infatti si sono sviluppati molti fuochi e incendi (oltre cento interventi del Vigili del fuoco dal 12 dicembre 1996 al novembre 1999) - come si è detto - fino all'incendio verificatosi nel settembre 1997 (da cui è scaturito il procedimento penale sopra descritto), che ha fatto registrare temperature elevate sulla superficie del cumulo (50o-60oC), nonché emissioni di gas e vapori irritanti e pericolosi con concreto e grave pericolo per la salute pubblica, tanto che la Prefettura ha dovuto predisporre un piano di evacuazione delle zone circostanti nel caso di ripetizione del fenomeno. Secondo gli accertamenti effettuati, le cause degli incendi sono da attribuire ad autocombustione del cumulo, favorita appunto dalla presenza di sostanze anche pericolose estranee alla composizione del fluff (come metalli pesanti, oli minerali policlorobifenili, PCB) in forti concentrazioni, che hanno determinato una grave compromissione dei terreni circostanti e della falda. Ciò emerge già dai primi prelievi del 12 dicembre 1996 da parte del servizio igiene pubblica, della sezione ambiente del comune di Rovigo e del PMP di Rovigo.
La Commissione ha dovuto purtroppo registrare anche in questo caso l'inerzia degli organi preposti al controllo del settore: la ditta, infatti, non era autorizzata né allo smaltimento dei rifiuti né al trattamento di residui destinati al riutilizzo e la provincia non risulta aver effettuato alcun controllo sull'impianto e sulle attività del suo titolare. In particolare, la provincia non ha opposto alcun veto all'attività nonostante la Geotecas non si fosse attenuta alle prescrizioni per il fluff contenute nell'allegato al decreto ministeriale 16 gennaio 1995, né avesse effettuato recupero energetico con le specifiche tecniche descritte; nonostante, inoltre, la procedura di trattamento mediante vagliatura, non essendo inserita negli allegati di cui all'articolo 5 del decreto legislativo n. 8 del 31 gennaio 1996, avrebbe dovuto essere autorizzata come impianto di trattamento rifiuti prodotti da terzi.
Problemi analoghi a quelli appena descritti per Rovigo ha causato l'attività illegale condotta dal titolare della ditta Ecological Service anche in altri comuni come Minerbe, Legnago, Gorizia, Porto Viro, nonché nelle province di Verona, Padova e Treviso.
Del resto, lo stesso prefetto di Venezia ha rappresentato alla Commissione come il settore del fluff è quello in cui si manifesta nella regione lo smaltimento abusivo di grossi quantitativi di rifiuti, quali i prodotti derivanti dalla macinazione di parti leggere dei veicoli. Diversi sono, poi, gli episodi di rinvenimento di depositi illegali degli scarti della produzione di alluminio, registrati dalle forze dell'ordine: materiali accumulati all'aperto o in capannoni, che sono ricchi di carburo di calcio, esalano acetilene e sono soggetti a fenomeni di autocombustione, con grave pregiudizio per l'ambiente e la salute pubblica.
Una trattazione a parte meritano le vicende relative al gravissimo stato di inquinamento della laguna veneziana, cagionato dagli smaltimenti illeciti di rifiuti anche pericolosi che si sono protratti da svariati decenni.
Numerosi sono, anzitutto, i procedimenti avviati e molti anche conclusi da parte della procura di Venezia, in collaborazione con il magistrato delle acque, sull'attività degli scarichi civili relativi agli insediamenti abitativi del centro storico
Altro fattore di inquinamento della laguna veneta è causato dai fumi delle vetrerie: rispetto a tali attività si è comunque registrato negli ultimi anni l'adeguamento alla normativa vigente da parte delle vetrerie, che in molti casi erano addirittura sprovviste di camini, sicché tutte le sostanze cancerogene ed i fumi venivano eliminati attraverso la creazione di aperture nei tetti delle fabbriche.
Un'indagine di un certo rilievo riguarda l'attività di bonifica del parco di San Giuliano (circa 60 ettari di terreno). Secondo l'accusa, l'attività in oggetto sarebbe avvenuta senza il rispetto delle condizioni prescritte dal capitolato d'appalto: in particolare, sarebbero stati utilizzati materiali diversi da quelli previsti, compromettendo lo stato dei luoghi.
L'inchiesta in corso origina da una lunga attività della polizia giudiziaria, che ha sorpreso camion intenti a scaricare nell'area in questione, posta in sequestro dall'autorità giudiziaria sia per impedire ulteriori scarichi di rifiuti che per evitare al comune l'esborso di nuove somme per l'attività di bonifica. Gli accertamenti sin qui effettuati dalla magistratura hanno evidenziato la presenza nella discarica abusiva - peraltro in contatto con la laguna - di diverse sostanze, in particolare di fosfogessi, che però non presentavano caratteristiche di radioattività.
Ma gli episodi più gravi, illuminanti del gravissimo stato di inquinamento della laguna veneziana, sono quelli relativi agli smaltimenti illeciti di rifiuti pericolosi da parte di alcune imprese di rilevanza nazionale.
È in fase dibattimentale presso il tribunale di Venezia il procedimento che vede coinvolte numerose persone e le società che esse rappresentano - tutte operanti nel petrolchimico di Porto Marghera - per condotte illecite commesse in un periodo che va dal 1970 al 1988, e che hanno causato danni in buona parte irreparabili sull'ecosistema lagunare.
L'indagine ha preso avvio dalla segnalazione di numerosi casi di decesso e patologie connesse alla lavorazione del cloruro di vinile, dei composti organici clorurati e dei suoi derivati, con cui negli anni settanta e nella prima metà degli anni ottanta si produceva il pvc nella zona di Porto Marghera.
Sono coinvolte società come la Montecatini Edison, la Fertimont, l'Audiset e la Montefluos. Dagli accertamenti svolti è emerso come, sin dall'inizio dell'attività produttiva nell'area di Porto Marghera, rifiuti di ogni specie e, soprattutto, tossico-nocivi, venivano smaltiti senza alcun controllo sia all'interno dello stabilimento che nelle sue vicinanze, contribuendo al progressivo avvelenamento delle acque di falda sottostanti l'area in cui sono state rinvenute tracce di composti anche cancerogeni superiori ai limiti consentiti. Eppure, dagli accertamenti è risultato che al più tardi dal 1972 la Montedison era a conoscenza del fatto che il cvm è una sostanza cancerogena, sicché sembra di poter affermare che la scelta sia stata dettata unicamente da meri interessi economici.
La stessa Montedison, del resto, nel 1988 aveva commissionato un'indagine sulla situazione degli impianti che aveva confermato il loro pessimo stato, ma non fece nessuna opera di risanamento né di eliminazione dei gravi rischi di inquinamento
Ben 18 sono i siti individuati che presentano rifiuti pericolosi, gran parte dei quali sversati prima dell'entrata in vigore del decreto del Presidente della Repubblica n. 915 del 1982; da quel momento, come è stato riferito alla Commissione, tali rifiuti sono stati portati altrove, anche all'estero (ad esempio, in Nigeria).
La gravità delle condotte tenute dagli imputati è evidenziata dalla circostanza che, tra questi siti, quelli in cui è mancata l'adozione di qualsiasi forma di sicurezza per i lavoratori sono soprattutto quelli fuori della cosiddetta «area a rischio», dove prestavano la loro attività operai dipendenti da cooperative che lavoravano in appalto presso lo stabilimento petrolchimico, senza contare la categoria dei cosiddetti «insaccatori» (dipendenti sia dalla Montedison che da cooperative) rispetto alla quale gli accertamenti hanno evidenziato un eccesso di tumori all'apparato respiratorio.
Soltanto nel 1995, quando già erano in corso le indagini da parte della magistratura, l'Enichem ha presentato alla provincia di Venezia un progetto per la bonifica delle aree che sono risultate più inquinate.
A tale proposito, va detto che la provincia emanò il suo corrispondente decreto autorizzativo (31 gennaio 1996) e che i lavori iniziarono nel febbraio 1996; ma i progetti relativi alla bonifica del sito maggiormente degradato, cioè il canale Lusore - Brentelli (presentati nel 1990 dalla Montedison e nel 1992 dall'Enichem) erano del tutto inidonei a garantire una bonifica completa e definitiva del canale e delle sue sponde e, quindi, sono stati bocciati dalla competente autorità regionale. Ebbene, dagli atti della regione emergeva già nel 1990 una rilevante presenza di mercurio e idrocarburi clorurati nel tratto terminale del canale, che avrebbe dovuto determinare un intervento degli organi amministrativi regionali e provinciali che non c'è mai stato.
Sino all'agosto 1995 non fu presentato alcun progetto di bonifica e anche in tale data i responsabili dell'Enichem si limitarono a denunziare alle autorità amministrative competenti solo alcuni dei siti inquinati, omettendo ancora una volta di segnalare l'esistenza di tutti gli altri luoghi utilizzati nel corso degli anni come discariche ed accettando che aree contaminate continuassero a inquinare il terreno e le falde acquifere sottostanti. Si trattava, tra l'altro, di luoghi ben noti anche all'interno della società che ha preferito evidentemente procedere alla contestazione in sede civile di alcune inadempienze alla società Montedison, anziché sostenere le spese, rilevantissime, che sarebbero derivate (anche all'Enichem, oltre che alla Montedison) dal rispetto della normativa vigente, in particolare quella penale posta a salvaguardia di Venezia e della sua laguna.
Le contestazioni dell'organo d'accusa a carico di 27 imputati, tutti dirigenti o amministratori del gruppo Montedison o del gruppo Eni e loro società figlie, sono particolarmente gravi, poiché hanno ad oggetto gli smaltimenti illeciti di ingenti quantitativi di rifiuti assai pericolosi con le gravissime conseguenze sullo stato dell'ambiente di cui si è detto (violazioni della normativa in materia ecologica e ambientale), avendo le società iniziato un'opera di bonifica, peraltro parziale, soltanto nell'agosto 1995, mediante l'installazione di impianti di filtrazione di reflui solo dopo l'intervento della magistratura penale.
Sono contestati altresì i delitti di strage e di disastro per i concreti pericoli cagionati alla pubblica incolumità, tanto che ne derivavano la morte e la malattia di un numero «allo stato ancora imprecisabile di persone» (così si legge testualmente nella richiesta di rinvio a giudizio) che prestavano la propria opera presso lo stabilimento petrolchimico; allo stato attuale,
La contaminazione industriale da pcdd e pcdf intanto si è trasmessa dagli scarichi inquinanti ai sedimenti e, da questi, alle specie viventi prelevate nella zona (molluschi e pesci) come risulta dall'analisi della distribuzione dei congeneri dei campioni di materiale biotico prelevati. Su questo punto, nelle consulenze effettuate dalla procura si è inoltre rappresentato come la contaminazione dalle predette sostanze costituisca soltanto un aspetto particolare delle caratteristiche di inquinamento dei sedimenti prelevati, perché la contemporanea presenza di altre sostanze tossiche ben può produrre fenomeni di sinergismo in grado di esaltare, assieme ai pcdd e pcdf, lo sviluppo di neoplasie nei soggetti esposti.
Al riguardo, la Commissione è venuta a conoscenza dell'esistenza di diversi procedimenti penali riguardanti la pesca abusiva nei canali industriali di Porto Marghera e la successiva vendita dei molluschi bivalvi ivi pescati, nei quali - a seguito degli accertamenti analitici che confermano la presenza su tale ittofauna bentonica di pcdd e pcdf e di pcd esaclorobenzene ed idrocarburi policiclici aromatici, sostanze cancerogene - vengono contestate le fattispecie delittuose del commercio di sostanze alimentari contraffatte o adulterate ovvero nocive alla salute pubblica (articoli 442 e 444 cp).
Per quanto concerne, invece, le omissioni e le responsabilità in capo alle amministrazioni locali e centrali preposte ai controlli in relazione al gravissimo stato di inquinamento della laguna, la procura ha disposto lo stralcio delle relative posizioni, pur dando atto nella citata richiesta di rinvio a giudizio di un atto che sconcerta, e cioè un documento inoltrato nei primi mesi del 1971 dall'istituto Regina Elena per lo studio e la cura dei tumori di Roma al ministro della sanità dell'epoca. Quel documento conteneva un dato drammatico: allertava, infatti, che gli studi di oncogenesi ambientali dimostravano che il cloruro di vinile, cioè il monomero capostipite di tutte le plastiche poliviniliche, è un oncogeno ad elevatissima potenzialità. In questo senso la direzione dell'istituto Regina Elena aveva richiamato l'attenzione del ministro della sanità, al fine di cercare di disciplinare talune attività che comportano l'impiego di tale sostanza.
Quest'ultimo procedimento mira ad accertare anche eventuali ritardi ed omissioni da parte degli organi regionali nell'applicazione della normativa europea e nazionale sul controllo delle industrie a grande rischio ambientale, tra cui è l'Enichem.
Se la vicenda appena descritta fa riferimento a condotte illecite poste in essere negli anni passati, non possono trascurarsi altre fattispecie riscontrate presso il petrolchimico in epoca assai recente. Si fa riferimento al sequestro dello scarico Sm15 al petrolchimico di Porto Marghera, di cui si sta occupando la procura di Venezia (il procedimento è attualmente pendente in fase di rinvio a giudizio). Il procedimento che ha determinato l'esecuzione del sequestro dello scarico Sm15 trae origine da una pubblicazione dell'associazione denominata Greenpeace del maggio 1995, relativo alla diffusione di diossine in ambiente lagunare. Sono stati effettuati una serie di complessi accertamenti finalizzati alla verifica dello stato di inquinamento della laguna di Venezia (condotti in collaborazione con il magistrato alle acque), i cui esiti hanno evidenziato la gravissima situazione di inquinamento e la sussistenza di pericolo per la salute della popolazione conseguente alla contaminazione di vaste aree lagunari, dovuta proprio agli scarichi del petrolchimico.
Secondo l'ufficio di procura, infatti, gli indagati avrebbero effettuato o lasciato effettuare e comunque non avrebbero impedito lo scarico di reflui pericolosi provenienti dall'impianto di depurazione
Inoltre, gli stessi indagati aprivano o comunque effettuavano lo scarico dei reflui provenienti dall'insediamento produttivo di Ambiente spa con recapito finale nella laguna, in assenza della prescritta autorizzazione; in particolare, effettuavano l'apertura con le modalità dello scarico denominato «15/5» contenente massicce quantità di composti clorurati.
Il provvedimento di sequestro dello scarico in oggetto è stato successivamente revocato, poiché l'Enichem, riconosciuta la necessità di un sollecito intervento (quantomeno rispetto allo scarico per cui è processo) per eliminare una obiettiva situazione di pericolo, ha provveduto ad effettuare una serie di interventi finalizzati alla eliminazione della situazione di inquinamento che aveva reso necessaria l'adozione della misura. È stato infatti interrotto - ed accertato - lo scarico in laguna delle sostanze pericolose rinvenute in sede di analisi o comunque la riduzione dei quantitativi delle sostanze immesse in laguna entro limiti tali da non arrecare ulteriore pregiudizio all'ecosistema.
Ma i danni arrecati allo stato della laguna con tali condotte illecite sono stati enormi, considerate le massicce quantità di rifiuti pericolosi versate in acque superficiali, ché attraverso lo scarico Sm15 è stato immesso un quantitativo di fango pari a 47 tonnellate/anno (129 kg/giorno) altamente contaminato da IPA, proveniente dall'impianto biologico di depurazione della ditta Ambiente, nonché altre sostanze altamente pericolose come diossina, composti clorurati, bromoformio e metalli pesanti, che hanno profondamente alterato l'ecosistema mediante intorbidimento delle acque, distruzione di microrganismi, alterazione morfologica e termica e contaminazione della fauna.
La gravità dei fatti risulta accentuata dalle pesanti responsabilità dei rappresentanti degli enti preposti ai controlli che avrebbero minimizzato il fenomeno, omettendo i necessari interventi a tutela della salute pubblica, tanto pur in presenza di pregresse verifiche dell'Istituto superiore di sanità sullo stato di inquinamento della laguna veneta, acclarato anche dalla specifica normativa a sua tutela e dai numerosi procedimenti penali che avevano già interessato il sito.
Tutte le indagini svolte sull'inquinamento dell'area industriale (relative alla gestione dei rifiuti, alle immissioni in atmosfera e all'inquinamento idrico) hanno infatti evidenziato la quasi totale assenza di controlli, l'inconsistente numero di segnalazioni per violazioni di norme specifiche, nonché la mancanza di qualsiasi forma di intervento. Addirittura, secondo l'organo inquirente, le autorità preposte - immediatamente informate dalla procura degli esiti degli accertamenti - avrebbero, attraverso gli organi di stampa, minimizzato la portata del fenomeno segnalato ed i risultati di tali accertamenti, che lo stesso ufficio di procura si era preoccupato di divulgare proprio per informare la popolazione dello stato delle acque di alcune zone della laguna e dei rischi derivanti dal consumo dei pesci e molluschi provenienti dalle aree inquinate. È noto infatti che la maggior parte della pesca abusiva di molluschi si svolga nella parte di laguna vicina alla zona industriale: ebbene, nessun provvedimento sarebbe stato adottato per impedire o almeno limitare la pesca nelle zone maggiormente contaminate, pur essendo a conoscenza dello stato di inquinamento della laguna.
La vicenda descritta rappresenta certamente uno dei più rilevanti casi di inquinamento a livello nazionale per le vastità dell'area interessata, le dimensioni delle aziende che vi operano, le stesse caratteristiche dei cicli produttivi e dell'ecosistema danneggiato. Del pari, non
La complessa attività investigativa condotta dal Corpo forestale sullo stato della laguna e sull'attività degli insediamenti industriali di Porto Marghera, iniziata nel 1995 e terminata solo di recente, ha inoltre consentito l'accertamento di ulteriori reati ambientali, che hanno originato altrettanti procedimenti penali, alcuni dei quali già conclusi.
La Commissione ritiene opportuno segnalare alcuni di essi, al fine di una corretta e più completa comprensione della dimensione e della gravità della situazione di Marghera, dove insiste una concentrazione tale di insediamenti a rischio in zona densamente popolata da rendere quest'area una delle più significative, sotto questo profilo, in ambito nazionale, con una difficile problematica da risolvere che, evidentemente, investe non solo i necessari interventi di bonifica (per i quali il legislatore ha previsto l'erogazione di ingenti finanziamenti statali), ma altresì il rispetto di una corretta politica industriale da parte delle aziende, peraltro di grosse dimensioni, che operano nell'area di Porto Marghera.
In particolare, vanno ricordati: il procedimento conclusosi con sentenza di patteggiamento, per l'incendio di un capannone della società Alutekna in Marghera verificatosi nel maggio 1995, provocato dallo scoppio di una bombola di GPL che causò gravi ferite e ustioni di 2o e 3o ad un operaio, in cui sono emerse sia omissioni della normativa antinfortunistica, sia gravi violazioni di natura ambientale, quali il deposito di rifiuti industriali in un'area non autorizzata, il conferimento di rifiuti tossici a ditta non autorizzata ed un inquinamento diffuso nei terreni prospicienti l'insediamento produttivo; il processo definito con sentenza di patteggiamento, avviato a seguito dell'incendio presso lo stabilimento Montefibre di Porto Marghera (del marzo 1997) per il contatto di polveri di polimero con superfici calde, che si propagava all'intero impianto, sprigionando un'elevata emissione di fumi con concentrazioni di composti tossici, come acrilonitrile, acido cianidrico, ossidi di azoto e di carbonio.
Va poi segnalato il procedimento a carico dell'Enichem - per violazioni della normativa in materia di incidenti rilevanti ed omissioni di cautele contro disastri ed infortuni sul lavoro - in seguito ad un incendio sviluppatosi nell'ottobre 1996 presso un forno della ditta EVC, che causò la fuoriuscita di sostanze tossiche nell'aria (dicloroetano, anidride carbonica, acido cloridrico, ossido di carbonio).
Nel mese di dicembre 1998 da un reparto dello stabilimento della citata società (in Porto Marghera) si verificò una fuga di ammoniaca che produsse nella popolazione malesseri diffusi (bruciore agli occhi, forte lacrimazione), nonché disturbi alle vie respiratorie a circa 30 dipendenti della vicina ditta VeCon. Dagli accertamenti effettuati dalla procura, che ha chiesto il rinvio a giudizio dei soggetti responsabili, è emersa l'assenza nel reparto della strumentazione atta a prevenire disastri e infortuni sul lavoro, in particolare non si era provveduto alla sostituzione di una valvola di sicurezza, pur sapendo che la stessa non era più idonea all'uso. E non si tratta dell'unico episodio di tal genere, poiché nel maggio 1999, per il blocco dell'impianto AM4 dello stabilimento Enichem, circa 900 kg di ammoniaca pura fuoriuscivano dalla
Ancora, va segnalato che nel febbraio 1999 è stato riscontrato all'interno dello stabilimento petrolchimico di Porto Marghera un deposito di rifiuti industriali, pari a circa 100 tonnellate, eseguito dalla società Enichem senza la prescritta autorizzazione, con modalità tali da creare pericolo di inquinamento del terreno sottostante.
La Commissione, dopo aver ascoltato i rappresentanti degli organi istituzionali preposti al controllo e alla repressione delle attività illecite nel ciclo dei rifiuti, nonché di varie associazioni a tutela dell'ambiente, deve rilevare che questa regione è diventata negli ultimi anni meta di destinazione finale di rifiuti solidi urbani, provenienti principalmente dalla Lombardia e dal Piemonte, che vengono abbandonati in magazzini, capannoni industriali dismessi o cave di materiali inerti per l'edilizia.
Il meccanismo attraverso cui vengono realizzati tali traffici illegali di rifiuti è quello comune ad altre regioni: grazie alla semplice comunicazione di inizio attività per impianti di trattamento rifiuti, sono state fittiziamente aperte società dedite al recupero dei rifiuti provenienti dalla raccolta differenziata, che, in realtà, non sono neppure dotate dei macchinari necessari a tale attività. E tuttavia, profittando delle maglie larghe dei controlli da parte della pubblica amministrazione, queste società fittizie hanno tutto il tempo per realizzare l'attività illegale e lucrare di considerevoli profitti prima che intervengano i controlli e le verifiche amministrative.
Significativa del fenomeno più volte evidenziato dalla Commissione nel corso dei lavori, è l'inchiesta giudiziaria che vede coinvolte alcune società della provincia di Udine, le quali avrebbero importato illegalmente circa 30mila tonnellate di rifiuti dalla Lombardia, simulando un'attività di separazione e cernita che, in realtà, non veniva effettuata. Con tale attività illecita, gli autori del traffico dei rifiuti hanno lucrato di cospicui vantaggi economici, versando soltanto il 20 per cento della cosiddetta ecotassa ed usufruendo della detrazione nella misura dell'80 per cento del tributo, così come previsto dalla legge nel caso in cui i rifiuti, prima di essere conferiti in discarica, siano sottoposti a cernite meccaniche.
Inoltre, i rifiuti di provenienza extra regionale sarebbero stati avviati in discariche del Friuli con una documentazione che ne avrebbe falsamente attestato la provenienza locale. In sostanza, attraverso la sostituzione della bolla di accompagnamento, i rifiuti provenienti, in realtà, dalla Lombardia, acquisivano la «cittadinanza» friulana e come tali potevano essere smaltiti nelle discariche della regione.
Un altro episodio grave riguarda la scoperta, a Savogna d'Isonzo (Go), di una discarica abusiva contenente rifiuti provenienti da raccolte differenziate e da fluff di autovetture, unitamente a sfridi e residui di plastica. Anche in questo caso, come in altri, la Commissione ha dovuto registrare l'utilizzo della stessa tecnica: un'azienda chiede di esercitare l'attività di recupero nelle forme semplificate previste dall'articolo33 del decreto legislativo n. 22 del 1997, affitta un capannone da proprietari spesso ignari dell'attività della ditta che, in realtà, non svolge alcuna attività di recupero e riciclo. Dopo aver accumulato quantitativi rilevanti di rifiuti, la ditta fallisce o scompare ed i rifiuti rimangono in carico alla proprietà con il rischio che in molti casi è la stessa comunità locale a doversi assumere gli oneri della bonifica, poiché il responsabile è insolvente o non si riesce neppure a rintracciare. Nella fattispecie, le indagini in corso condotte dalla Guardia di finanza
Sempre la Guardia di finanza ha individuato una discarica esaurita da anni nel territorio del comune di Palazzolo della Stella, dove continuavano a essere sversati rifiuti; circa 5000 tonnellate di compost ammassato, privo di certificazione per i lavori di bonifica e ripristino ambientale dell'area interessata dall'attività della discarica.
Ma gli episodi più preoccupanti che hanno interessato la regione sono quelli legati all'introduzione in Italia di materiali ferrosi contaminati radioattivamente di provenienza dai Paesi dell'est europeo, e destinati alle acciaierie lombarde.
Nel periodo 1996- 1998, in particolare, risultano entrate attraverso i valichi ferroviari di Gorizia e Villa Opicina e quello stradale di Valico Sant'Andrea, 2milioni e 260mila tonnellate di rottami ferrosi; oltre 15mila tonnellate sono risultate contaminate e rispedite al mittente. In questo scenario, le preoccupazioni aumentano in considerazione del fatto che la frontiera friulana con la Slovenia è costellata da numerosi valichi minori, che di notte vengono chiusi e non sono presidiati costantemente.
Il pericolo del transito, attraverso il porto di Trieste, di materiale ferroso anche contaminato proveniente dai Paesi dell'est europeo è stato rappresentato alla Commissione sia dal questore di Trieste che dal procuratore distrettuale antimafia, i quali hanno sottolineato la necessità di realizzare un sistema efficace di controllo ai valichi di frontiera.
Altri episodi di abbandono di materiale ferroso sul territorio della regione da parte di piccoli operatori e comunque non riconducibili a forme di criminalità organizzata, sono stati segnalati dal questore di Trieste; in particolare, nel giugno 1998, è stato bloccato un camion proveniente dall'Albania, che trasportava materiale ferroso in cui è stata individuata una fonte radioattiva. A conclusione degli accertamenti da parte dell'autorità giudiziaria, il carico è stato rinviato al Paese mittente.
La disamina delle vicende giudiziarie di cui la Commissione è venuta a conoscenza ed i dati forniti dalle forze istituzionali preposte al controllo e alla repressione degli illeciti connessi al ciclo dei rifiuti, non ha portato comunque sino ad ora all'individuazione, in questa regione, di forme dirette o indirette di criminalità organizzata connesse al ciclo dei rifiuti.
Una delle vicende più rilevanti di cui la Commissione si è occupata - disponendo anche visite sul posto unitamente a personale del NOE di Venezia e dell'ANPA, nonché sollecitando l'attività degli organi amministrativi e dell'autorità giudiziaria - è quella relativa alla gestione dell'area ex Esso (per la cui descrizione tecnica si rimanda allo specifico paragrafo) nelle vicinanze del porto di Trieste.
L'inchiesta origina da una denuncia inoltrata alla procura di Trieste e trasmessa alla Commissione da parte dell'associazione Ambiente e/è vita, che evidenziava lo stato di grave inquinamento del sito connesso alle lavorazioni di raffinazione di petrolio grezzo e poi di oli lubrificanti con produzione di melme acide di scarto, ulteriormente aggravato dai ripetuti bombardamenti avvenuti nel corso della seconda guerra mondiale e le numerose bombe cadute (circa 368 registrate) che hanno pregiudicato il suolo, il sottosuolo e le falde idriche tant'è che nel periodo post-bellico si sono verificati numerosi episodi di riaffioramenti di idrocarburi in superficie.
È rimasto però insoluto il problema della grave contaminazione delle aree demaniali a suo tempo date in concessione per gli sversamenti dei residui di produzione, precisamente circa 1.200 mq per deposito di rifiuti da raffinazione oli (concessione del 1953) ed altrettanti destinati all'interramento e deposito dei rifiuti
Solo di recente, dopo l'intervento della Commissione e della magistratura locale, una parte delle aree demaniali è stata messa in sicurezza coprendola con teloni di plastica. Le indagini in corso sono tese all'individuazione dei soggetti responsabili di siffatte condotte illecite, che evidentemente sono state realizzate a più livelli nell'attività di gestione della raffineria ESSO protrattasi nel corso di svariati anni; e tuttavia - fatto ancor più grave, segnalato dall'organo inquirente - rimarrebbero pochi spazi per radicare ipotesi di responsabilità di natura penale in capo ai gestori del sito e agli organi amministrativi preposti ai controlli, trattandosi di fattispecie penali che sono in gran parte prescritte per il decorso del tempo. Ciò dimostra ancora una volta come sia necessaria l'introduzione nel codice penale italiano della nozione di delitto ambientale, con previsioni di pene tali da poter utilizzare strumenti di indagine adeguati ed efficaci e con prescrizione dei reati in tempi più lunghi.
Rimane comunque forte l'attenzione ai problemi della bonifica dell'area e dei soggetti tenuti a provvedervi, atteso che secondo gli accertamenti espletati lo strato inquinato raggiunge una profondità di oltre 8 metri nella maggior parte dell'area e di circa 4,9 metri relativamente alla zona meno inquinata. Si tratta di un'estensione davvero notevole che comporta costi altissimi di bonifica.
Un'altra inchiesta di un certo interesse attualmente in carico alla procura di Trieste riguarda l'attività della ferriera di Servola. Lo stabilimento in questione, privo di autorizzazione e gestito in maniera del tutto inadeguata per molti anni, ha causato ingenti fenomeni di emissione di polveri. La gravità della situazione secondo l'organo inquirente non dipende soltanto dalla quantità di emissioni di polveri nell'aria che si sono accertate, sanzionate peraltro da una modesta contravvenzione (articolo674 cp) che non ha alcuna efficacia deterrente sulle condotte illecite; quanto, piuttosto, dall'acclarata deficienza strutturale dell'impianto, che porta inevitabilmente agli effetti pregiudizievoli descritti.
Gli accertamenti investono quindi il duplice profilo della sussistenza e legittimità delle autorizzazioni, nonché delle emissioni diffuse di polveri e gas dagli impianti dello stabilimento in relazione alle condizioni degli impianti stessi.
Peraltro, sull'attività della ferriera di Servola è in fase dibattimentale un altro processo, nel quale sono confluiti alcuni procedimenti minori già avviati dall'ex procura circondariale.
L'amministrazione regionale, di recente, ha comunque attivato un «tavolo di concertazione» tra gli enti interessati, ossia regione, provincia, comune, azienda sanitaria, ARPA e la Servola stessa, al fine di avviare, di comune accordo, una serie di iniziative tese ad un miglioramento della situazione ambientale.
Nel contempo, l'attività di controllo, che pare avviata da parte degli enti preposti, è sicuramente un indice positivo nella direzione di una proficua collaborazione rispetto all'apertura della centrale di cogenerazione a ciclo combinato.
Dal punto di vista delle fattispecie criminali, questa Commissione deve nuovamente evidenziare come le regioni Veneto e Friuli-Venezia Giulia siano negli ultimi anni sempre più interessate da fenomeni di smaltimento illecito nell'ambito di una direttrice nord-nord dei traffici, dalla quale non paiono estranei elementi contigui alla criminalità organizzata. Si tratta di un fenomeno criminale cui lo stesso procuratore generale della Repubblica di Venezia ha fatto ampio riferimento nel corso del suo discorso di apertura dell'anno giudiziario: un traffico illecito di fatto facilitato dal gran numero di automezzi che quotidianamente transitano in queste regioni (traffico nel quale è facile nascondersi), nonché dalla presenza di capannoni industriali dismessi da trasformare in discariche abusive, come già avvenuto in altre regioni (ad esempio Lazio ed Abruzzo).
A questo proposito, la Commissione invita le strutture di vigilanza e controllo, ciascuna per i propri compiti, ad una costante attenzione sulle attività che si sviluppano sul territorio. Alle agenzie regionali di protezione ambientale ed ai corpi di polizia spettano compiti di vigilanza, che devono connotarsi di sempre maggiore efficacia per rispondere ad attività criminali di grave impatto sul territorio e sulla salute dei cittadini. Ma anche alle strutture amministrative, in particolare alle province, spetta la responsabilità di gestire in maniera sempre più efficiente le richieste di avvio attività presentate in base alle procedure semplificate previste dal decreto legislativo n. 22 del 1997, spesso utilizzate per coprire traffici illeciti.
Infine, grande attenzione deve essere dedicata agli insediamenti industriali presenti nelle due regioni, in particolar modo all'area di Porto Marghera, dove solo in queste settimane sono cominciate le operazioni per un primo ripristino dei luoghi. Complessivamente, le realtà industriali di Veneto e Friuli-Venezia Giulia producono circa otto milioni di tonnellate di rifiuti speciali l'anno: la loro corretta gestione è imprescindibile per un corretto utilizzo del territorio e delle risorse naturali nonchè per salvaguardare la salute dei cittadini.