Commissione parlamentare d'inchiesta sul ciclo dei rifiuti e sulle attività ad esso connesse - Mercoledì 25 ottobre 2000


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ALLEGATO

PROPOSTA DI DOCUMENTO SUI TRAFFICI ILLECITI E LE ECOMAFIE.

1. Premessa

La Commissione, in occasione del forum nazionale «I crimini contro l'ambiente e la lotta alle ecomafie»(1), evidenziò come fosse necessario - in materia di traffici illeciti di rifiuti - accrescere l'attenzione dedicata al settore dei rifiuti speciali e pericolosi. Esiste infatti una sorta di strabismo nella già scarsa attenzione che i media - e di conseguenza l'opinione pubblica - assegnano a tale fenomeno criminale, invero di grande portata, sia per quanto concerne il giro d'affari che le ricadute in termini di salute dell'ambiente e dei cittadini. Il monitoraggio costante effettuato dalla Commissione sulla stampa nazionale e locale - comprese le agenzie - evidenzia che i rifiuti «fanno notizia» (e dunque «esistono», secondo una nota legge dell'informazione) solo in occasione di difficoltà di smaltimento, pertanto con la prospettiva di strade piene di spazzatura, o di proteste popolari contro impianti di trattamento o di smaltimento, assai di rado invece quando vengono scoperti traffici illeciti o discariche abusive. Un silenzio nel quale si svolgono attività illegali di entità notevole.

(1) Organizzato dalla Commissione parlamentare d'inchiesta sul ciclo dei rifiuti e sulle attività illecite ad esso connesse il 26 febbraio 1999 a Napoli.

È opportuno effettuare una stima di ciò che sfugge al mercato legale dei rifiuti. Secondo questa Commissione circa 35 dei 108 milioni di tonnellate di rifiuti prodotti ogni anno in Italia vengono smaltiti in maniera non corretta o del tutto illecita. Si tratta di un dato che va evidentemente spiegato nel dettaglio: le indagini ufficiali, condotte dall'Anpa e dall'Osservatorio nazionale sui rifiuti, evidenziano una produzione di rifiuti solidi urbani pari a 26 milioni di tonnellate l'anno e di 60 milioni di tonnellate l'anno di rifiuti speciali. Se, per quanto concerne la prima tipologia, il dato è basato sulle certificazioni di soggetti (comuni, consorzi, comunità) pressoché pari all'universo considerato, la materia si fa assai più complessa considerando i rifiuti speciali (pericolosi e non pericolosi).
Il rapporto sulla produzione e la gestione dei rifiuti speciali (realizzato dall'Anpa e dall'Osservatorio nazionale sui rifiuti nel 1999 su dati relativi al 1997) ha messo in evidenza una serie di problematiche, già affrontate in altre occasioni dalla Commissione(2). Sulla scorta di quelle considerazioni, la situazione è quella elencata di seguito in maniera schematica:

(2) V. doc. XXIII n. 41.

a) la produzione stimata di rifiuti speciali per il 1997 è stata di 60,3 milioni di tonnellate;


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b) per 45,7 milioni di tonnellate di questi rifiuti si ha un'informazione ufficiale relativamente alla gestione e/o lo smaltimento;

c)
la verifica sul campo più vasta e approfondita - a tuttoggi quella della regione Toscana - ha portato a moltiplicare per 2,16 la stima mud per avere un dato più reale della produzione di rifiuti;

d)
tale fattore moltiplicativo non è ovviamente applicabile all'intero territorio nazionale, ma questa Commissione ritiene verosimile che la produzione annua di rifiuti speciali in Italia non sia inferiore agli 80 milioni di tonnellate(3);

(3) Anche sulla base di un'estrapolazione dei dati e dei trends rilevati nel doc. XXIII n. 41.

e) tenendo conto del trend di crescita nella produzione di rifiuti solidi urbani e di rifiuti speciali, almeno 35 milioni di tonnellate sfuggono ogni anno al mercato legale, sottraendogli un valore di oltre 15 mila miliardi e causando un danno all'erario di circa 2 mila miliardi.

Di fronte a tali cifre è necessario comprendere quali siano le destinazioni che questa enorme massa di rifiuti prende ogni anno, ed è questo l'obiettivo di tale documento, elaborato in seno al gruppo di lavoro sui traffici di rifiuti. Il lavoro di preparazione del documento si è articolato su livelli distinti: una rilettura organica delle attività di indagine svolte e in corso da parte delle forze di polizia e dell'autorità giudiziaria; lo sviluppo, da parte della Commissione, di informazioni raccolte nel corso della propria attività; la costante attenzione a fatti confinati nelle cronache locali.
Si è venuto così componendo un mosaico, le cui tessere sono costituite da una gran mole di informazioni sparse, ma che ricomposte in una paziente ricostruzione d'insieme consentono di fornire al Parlamento, al Governo e all'opinione pubblica una lettura aggiornata della situazione dell'illegalità in materia di rifiuti, la sottolineatura delle aree di presenza delle ecomafie e l'indicazione di possibili linee di intervento per arginare sempre più efficacemente i fenomeni illeciti.
Sin dalla sua istituzione la Commissione ha dedicato grande attenzione al tema delle infiltrazioni criminali nel settore dei rifiuti, facendo anche riferimento a quanto rilevato dalla Commissione operante nella passata legislatura presso la Camera dei deputati. Mentre concentrava la sua attenzione sulle varie tipologie di illecito ambientale e sui problemi della lotta alla criminalità organizzata che opera nel ciclo dei rifiuti, in specie nelle regioni di insediamento mafioso tradizionale, questa Commissione ha ritenuto opportuno approfondire ed estendere la ricerca a tutto il territorio nazionale, cercando di cogliere i tratti essenziali e comuni di fenomeni apparentemente assai diversificati.
Da molti segnali, infatti, risultavano alla Commissione presenze o collegamenti con associazioni di stampo mafioso anche in zone del centro nord. Ma soprattutto sono apparsi sempre più allarmanti i segnali di vere e proprie forme di infiltrazione nel tessuto economico delle zone più evolute e sviluppate. Nelle relazioni territoriali non sono poi mancati gli sforzi di approfondimento in tale direzione, volti


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a cogliere i tratti essenziali del fenomeno nelle singole aree regionali, nonché i collegamenti evidenziati da alcune indagini giudiziarie. Specifico rilievo sono andate assumendo, altresì, alcune problematiche ambientali di respiro internazionale suscettibili di riflettersi sulla sicurezza del Paese, come quelle relative ai traffici di rifiuti tossici e radioattivi, cui la Commissione ha dedicato grande attenzione, attivando anche i propri poteri di inchiesta.
Il proposito di questo lavoro è dare sistematicità alla ricerca intrapresa, cercando, come si è detto, di cogliere i tratti essenziali e comuni di fenomeni spesso apparentemente assai diversificati. In questo contesto, è stato utilizzato tutto il più aggiornato materiale disponibile dell'autorità giudiziaria e delle forze dell'ordine, nonché quanto è risultato dai sopralluoghi di delegazioni della Commissione nelle varie regioni e dalle iniziative assunte, secondo un programma che via via si è andato ampliando anche in relazione alle numerose segnalazioni pervenute - nel corso delle audizioni e dei seminari svolti - da parte dei soggetti istituzionalmente preposti alla tutela del ciclo dei rifiuti, delle associazioni e dei comitati di cittadini e degli imprenditori che operano nel settore.
In seno alla Commissione è stata costituita anche una banca-dati in cui sono state raccolte numerose informazioni relative agli operatori privati del settore della raccolta, del trattamento e dello smaltimento dei rifiuti, la cui analisi ha consentito - come vedremo - di individuare talune gravi distorsioni del mercato.
Si è trattato di un lavoro intenso, che ha condotto alla raccolta e all'acquisizione di dati, elementi e valutazioni di rilievo, consentendo di formare un quadro dettagliato di conoscenze sulle principali fattispecie di reato che si manifestano nel ciclo dei rifiuti e sulle problematiche di varia natura che esse sollevano; in questa prima parte della relazione si intende, pertanto, fornirne una descrizione facendo anche riferimento ad alcune inchieste giudiziarie che hanno contribuito a individuare tali «fattispecie-tipo».

2. Insediamenti e infiltrazioni delle organizzazioni di tipo mafioso

La Commissione ha raccolto dati preoccupanti in ordine al rapporto intercorrente fra traffico illegale di rifiuti e criminalità organizzata inizialmente dalla testimonianza di vari magistrati, che hanno avuto modo di occuparsi della questione nel corso delle inchieste attinenti alle società criminali operanti in Campania, nel Lazio, in Calabria e in Sicilia.
Il classico modus operandi di tali associazioni criminali per realizzare questi traffici riguarda il sistema del cosiddetto «giro bolla», grazie al quale i rifiuti pericolosi vengono spediti da un soggetto a un altro, il quale emette una ricevuta; tale ricevuta però è falsa, poiché quei rifiuti vengono né ricevuti né inertizzati. In realtà i rifiuti sono stati spediti altrove illecitamente, per lo più presso cave abbandonate o discariche non autorizzate a ricevere rifiuti di provenienza extra-regionale, se non addirittura mescolati al terriccio ed interrati per essere utilizzati nella pavimentazione di strade o


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nella costruzione di abitazioni civili. Eppure, formalmente la documentazione è regolare: vi è un mittente di rifiuti pericolosi e vi è un ricevente che dichiara sia la ricezione che il declassamento.
Esemplificativa di tale attività è l'indagine condotta dal Nucleo operativo ecologico dell'Arma dei carabinieri su delega della direzione distrettuale antimafia di Napoli su traffici illeciti di rifiuti pericolosi provenienti da industrie del nord Italia, in specie dell'Emilia Romagna, e trasportati lungo le dorsali tirrenica e adriatica, per essere abbandonati in aree territoriali del meridione controllate dalla criminalità organizzata(4).

(4) V. doc. XXIII n. 12 (relazione sulla Campania), doc. XXIII n. 23 (relazione sull'Abruzzo) e doc. XXIII n. 32 (relazione sull'Emilia Romagna).

L'indagine mostra chiaramente la penetrazione delle organizzazioni camorristiche nei traffici di rifiuti, situazione più volte denunciata da questa Commissione e da quella operante nella passata legislatura; la varietà di siti destinati allo smaltimento illegale come la pronta individuazione da parte dell'organizzazione di altri siti, a fronte di sequestri, è indice di un controllo del settore che va ben oltre il territorio in cui esse operano direttamente - come mostrano le connessioni fra traffici abusivi di rifiuti e criminalità organizzata emersi in Abruzzo, Lazio, nonché in Piemonte, Lombardia e Liguria - e della penetrazione che tali organizzazioni stanno attuando nelle cosiddette aree non tradizionali.
Altro elemento da sottolineare - e che la Commissione aveva già evidenziato nel forum di Napoli - riguarda l'estensione delle attività delle organizzazioni criminali: risulta infatti dalle indagini che i clan hanno ormai ampliato le loro attività specifiche nel settore dal semplice controllo dei siti finali di smaltimento ai momenti del trasporto e della commercializzazione, gestendo, quindi, tali attività illecite dal produttore di rifiuti sino al sito di smaltimento illegale. Con alcune peculiarità «regionali»: come ricordato dal prefetto di Napoli in sede di audizione e nell'ambito del seminario sull'istituto del commissariamento svoltosi nel capoluogo campano, i siti di smaltimento sono ora tutti gestiti dallo Stato, ma la quasi totalità delle imprese che organizzano il trasporto dei rifiuti appare in varia forma contigua alla criminalità organizzata.
Ma va aggiunto da subito - altrimenti si fornirebbe una chiave di lettura della realtà distorta - che sarebbe quanto mai errato ricondurre tutte le attività illecite nel settore dei rifiuti all'azione delle cosiddette «ecomafie», come dimostrano in maniera univoca i dati che la Commissione ha raccolto nel corso dei lavori. Esistono, infatti - come vedremo più avanti - aziende non riconducibili alla criminalità organizzata che tuttavia paiono basare la loro attività proprio su una non corretta gestione dei rifiuti. Si registrano inoltre fatti di microcriminalità assai diffusa sull'intero territorio nazionale. Ricondurre tutta l'illegalità alle «ecomafie» significherebbe quindi dimenticare una gran parte di attività illecite.
È tuttavia evidente la rilevanza che l'azione della criminalità organizzata assume anche in questo contesto per via dei condizionamenti - sociali ed economici - che mafia, camorra, 'ndrangheta e sacra corona unita riescono a porre in essere; inoltre deve essere


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denunciato da subito quanto si vedrà meglio in seguito, e cioè che proprio il ciclo dei rifiuti è uno dei «motori» utilizzati dalla criminalità organizzata per penetrare nelle aree del centro e del nord del Paese.

2.1 Gli interessi della 'ndrangheta

In Calabria connessioni tra criminalità organizzata e traffici illeciti di rifiuti sono emerse riguardo l'illecita gestione di circa 30mila tonnellate di rifiuti pericolosi, precisamente ferriti di zinco provenienti dalla Pertusola-sud di Crotone, azienda all'epoca dei fatti appartenente al gruppo Eni, da parte di un'associazione criminale legata ad organizzazioni mafiose della provincia di Cosenza. I materiali pericolosi venivano miscelati con rifiuti inerti, e quindi interrati in aree a vocazione agricola della Calabria, come i territori circostanti Cassano Ionio o la Piana di Sibari.
Le «attenzioni» criminali al settore non hanno riguardato - in Calabria - la sola fase dello smaltimento illecito, ma anche quella degli appalti connessi alla realizzazione di impianti per il trattamento o lo smaltimento: per tali centri - nei comuni di Catanzaro, Rossano e Reggio Calabria - la regione Calabria ha ottenuto nel corso dei primi anni Novanta cospicui finanziamenti statali (per circa 100 miliardi complessivi) che sono stati spesi senza conseguire, però, l'obiettivo della realizzazione di impianti per un efficiente smaltimento dei rifiuti, come dimostra il commissariamento della regione Calabria. Dei tre siti individuati dalla stessa regione su delega del Governo per la realizzazione degli impianti, infatti, quello di Rossano Calabro non è stato completato e non è mai entrato in funzione; quello di Catanzaro Lido-Alli ha operato solo come centro di raccolta e non di trattamento dei rifiuti, mentre l'impianto di Reggio Calabria è una struttura fatiscente che ha creato grossi problemi di inquinamento. Solo di recente gli impianti di Catanzaro Lido-Alli e di Rossano sono stati completati, mentre quello di Reggio Calabria è stato riattato, grazie all'intervento dell'ufficio del commissario per l'emergenza, potendo finalmente entrare in funzione.
Secondo l'ipotesi accusatoria esisterebbero forti collusioni con gli organi amministrativi regionali, nonché la presenza di alcune ditte già coinvolte in vicende giudiziarie connesse al ciclo dei rifiuti, verificatesi in altre parti del Paese: sono infatti coinvolti l'assessore ai lavori pubblici della regione Calabria all'epoca dei fatti, il presidente pro-tempore della giunta della regione Calabria, il dirigente dell'assessorato all'urbanistica e all'ambiente della regione Calabria, unitamente ad amministratori e rappresentanti di imprese (come la De Bartolomeis, la Bonifati spa, la Snam progetti spa, la Termomeccanica italiana spa, la Castagnette spa), con l'imputazione di truffe e falsificazioni di atti pubblici poste in essere nel periodo 1994- 1997 per gestire i finanziamenti statali, al fine di favorire i propri interessi e quelli di determinate imprese che dall'operazione hanno conseguito ingiusti introiti per circa 90 miliardi complessivi.
Alla illegittimità della aggiudicazione ed approvazione dei progetti degli impianti di smaltimento o trattamento di rifiuti, grazie alla complicità degli amministratori, seguiva - nella contestazione giudiziaria -


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la falsa rappresentazione della situazione agli organi preposti alla verifica dell'attività (in particolare, al Ministero del bilancio, al quale si riportavano l'avvenuto perfezionamento della gara e l'utilizzo del finanziamento entro i limiti assegnati, mentre all'organo di controllo sugli atti regionali si comunicavano computi economici maggiori al solo scopo di ottenere l'esecutività dell'atto).
Negli anni successivi, le ulteriori somme Fio sarebbero state ottenute ricorrendo all'artificiosa e falsa rappresentazione di costi maggiori negli stati di avanzamento dei lavori per la realizzazione degli impianti, nonché mediante l'approvazione di una delibera regionale che stanziava, in maniera illegittima, nuovi fondi nella rimodulazione del piano regionale di smaltimento, al solo fine di ulteriormente spesare a favore delle imprese aggiudicatarie i costi di realizzazione di detti impianti, sottacendo tale rimodulazione al Ministero dell'ambiente competente per la sua ratifica, mentre il consiglio regionale approvava la rimodulazione del piano nel 1993, ignorando che l'ente attuatore degli appalti per gli impianti era lo stesso assessorato ai lavori pubblici della regione e non già i comuni interessati o loro consorzi. Tale operazione consentiva di fruire di oltre 90 miliardi spesi dall'ente regionale per gli impianti, a fronte dei 67 previsti dal Fio 84.
Si è così già messa in luce la forte penetrazione nel ciclo dei rifiuti da parte delle organizzazioni malavitose, e l'estensione della loro sfera d'azione dal controllo della fase dello smaltimento alla gestione e al controllo degli appalti, favorite dall'enorme potere economico di cui esse godono, specie in un territorio come la Calabria, afflitto da una endemica disoccupazione, che genera ancora, purtroppo e paradossalmente, un vasto consenso sociale tra varie fasce di popolazione, essenziale per costruire un sistema di collusioni e per favorire comportamenti omertosi funzionali al mantenimento e rafforzamento del controllo sulle attività economiche.
Illuminante al riguardo è anche un procedimento avviato dalla procura di Catanzaro, che vede coinvolti numerosi titolari e/o rappresentanti di imprese di pulizie e smaltimento di rsu operanti nella regione, accusati di associazione per delinquere finalizzata alla turbativa delle gare bandite da molteplici enti pubblici nella regione Calabria e relative al settore delle pulizie, tra cui la licitazione privata per l'affidamento del servizio di nettezza urbana del comune di Catanzaro negli anni 1995, 1996 e 1997.
L'organizzazione criminale realizzava, secondo l'accusa, il controllo delle gare d'appalto, da un lato attraverso la creazione artificiosa di una serie di società satelliti, tutte riconducibili all'impresa capofila facente capo al gruppo criminale, in grado di proiettarsi nelle gare con diversi ribassi percentuali al fine di prevenire le cosiddette offerte «scheggia» o quelle provenienti da ditte non controllabili in anticipo; dall'altro, ponendo in essere un'attenta politica di contatti finalizzata all'imposizione delle offerte e dei ribassi, sfruttando la propria potenza economica e la propria posizione dominante. Solo quando tale attività «preventiva» non consentiva di raggiungere gli esiti prefissati, si ricorreva alla coazione


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e alla minaccia nei confronti degli altri imprenditori intervenuti alle gare, obbligandoli ad una partecipazione alle gare secondo le condizioni stabilite dall'organizzazione, ovvero al loro ritiro.
In questo caso si ha non solo un'allarmante spaccato del controllo operato dai gruppi criminali nel settore delle gare pubbliche, in particolare quelle relative alla gestione dei rifiuti, ma anche il senso del fortissimo clima di omertà e della fitta rete di collusioni con gli apparati amministrativi che rendono estremamente difficile a forze dell'ordine e magistratura l'attività di individuazione di fonti testimoniali e di identificazione di tutte le imprese coinvolte nella spartizione illecita degli appalti, nonché delle responsabilità in capo ad amministratori pubblici.

2.1.1 La provincia di Reggio Calabria

Nel corso del recente seminario sull'istituto del commissariamento per l'emergenza rifiuti a Reggio Calabria, la Commissione è venuta a conoscenza di nuovi particolari in ordine alla preoccupante situazione del territorio di quella provincia(5). Nell'ambito dell'inchiesta che ha consentito la cattura di elementi di spicco della cosca dominante Molè-Piromalli, alcune intercettazioni ambientali confermano infatti il grande interesse della 'ndrangheta per l'affaire rifiuti; in particolare nelle conversazioni intercettate si commenta il differimento della realizzazione di una discarica abusiva di rifiuti pericolosi e radioattivi nel territorio reggino.

(5) V. interventi di Antonino Catanese e Alberto Cisterna.

Da altre intercettazioni emerge inoltre in maniera eclatante la capacità di informazione raggiunta dalla criminalità organizzata calabrese: risulta infatti che la proposta del Governo Prodi diretta al recupero e risanamento delle situazioni più degradate nelle città del sud, era nota ancor prima di essere resa pubblica, atteso che essa formava già oggetto di trattative tra faccendieri che, dovendo pensare a come speculare sulle risorse pubbliche destinate al sud, in un commento tra loro ne davano notizia, imponendo la creazione di imprese da far partecipare alle gare per lucrare profitti.
Per tornare al ciclo dei rifiuti, il dato più importante, riscontrato da dichiarazioni anteriori di alcuni collaboratori di giustizia, attiene al fatto che - transitando nel porto di Gioia Tauro navi che arrivano da tutto il mondo - faccendieri non calabresi, ma in stretto contatto con elementi della 'ndrangheta, avevano pensato di dar corso alla realizzazione della citata discarica abusiva giocando su più piani. Quello di maggiore interesse prevedeva il consorziarsi di alcune imprese dedite formalmente al recupero di rifiuti solidi, in particolare al recupero dei rifiuti che approdavano al porto di Gioia Tauro. Ciò in virtù del fatto che durante le operazioni di sbarco e imbarco delle navi, si procede alle pulizie di bordo e si recuperano gli oli esausti, per cui vi è un'attività di trattamento e recupero di questo tipo di rifiuti che già in passato aveva fatto registrare la presenza di imprese collegate a soggetti mafiosi.
La presenza massicia della 'ndrangheta locale nel ciclo dei rifiuti era del resto già emersa nella gestione delle tre principali discariche del comune di Reggio Calabria: Pietrastorta, Sambatello, Longhi


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Bovetto. In tutti e tre i siti e per tutte e tre queste vicende sono state giudizialmente accertate pesanti infiltrazioni mafiose, non declamate, accertate nell'ambito di procedimenti penali. Addirittura, nel caso della discarica di Longhi-Bovetto risulta che 19 delle 50 offerte di gara pervenute, e che hanno determinato l'aggiudicazione avendo spostato la media ponderale di aggiudicazione, erano false, in quanto provenivano da imprese inesistenti. Ciò ha fatto sì che la gara fosse aggiudicata, ma quando il comune ha provveduto a restituire la documentazione alle imprese estromesse, la documentazione stessa è ritornata al mittente essendo sconosciuti i destinatari! La circostanza, poi, che l'appalto sia stato aggiudicato ad un'impresa siciliana indagata per reati di mafia nell'ambito di procedimenti penali della procura distrettuale di Palermo, traccia uno scenario complesso in cui si intrecciano collegamenti e collaborazioni tra i vari sodalizi mafiosi che operano in territori diversi, aumentando le difficoltà di pervenire all'accertamento dei fatti e delle responsabilità individuali anche per l'intreccio delle competenze territoriali degli uffici giudiziari. Risulta a questo proposito alla Commissione che i clan criminali che controllano lo smaltimento illecito dei rifiuti nelle regioni meridionali sono propensi a 'scambi di favori' in questo settore: il clan che controlla un territorio momentaneamente sovraesposto ha sempre la possibilità di smaltire nell'area «di competenza» di un altro clan, col quale paradossalmente può essere in conflitto per altri interessi illeciti. Ciò a dimostrazione della redditività dell'affaire rifiuti che consiglia alla criminalità di non agire in accesa concorrenza, essendo comunque i guadagni molto soddisfacenti.
Un'altra seria difficoltà opposta alle investigazioni nella vicenda calabrese appena descritta (ma comune alle inchieste sugli appalti) riguarda il meccanismo di funzionamento dell'iscrizione all'albo dei costruttori, il quale dovrebbe certificare la serietà e l'affidabilità dell'impresa iscritta. In realtà, la possibilità che le imprese (specie quelle che operano nel nord d'Italia) cedano un ramo d'azienda e con esso anche l'iscrizione all'albo, vanifica questo tipo di controllo. Accade infatti che imprese costituite da soggetti mafiosi e operanti da pochi giorni siano inserite in classi di iscrizione all'albo, elevate grazie all'acquisizione di rami d'azienda da imprese «pulite». Per questa via le imprese mafiose si accreditano come serie ed affidabili, operanti da tempo, riuscendo ad aggirare il sistema di partecipazione alla gara. Quando ciò accade, il direttore tecnico resta lo stesso, tant'è che sono a conoscenza della procura distrettuale nominativi di direttori tecnici che non hanno mai messo piede a Reggio Calabria e che tuttavia, formalmente, risultavano direttori tecnici di imprese aggiudicatarie di questi appalti incriminati. È evidente che un sistema siffatto esige complicità e disponibilità a più livelli, nonché una certa raffinatezza strategica.
La situazione registrata in Calabria non appare dissimile in Campania e in Puglia, pur essendo minori i riscontri rispetto agli appalti della pubblica amministrazione. Forse la ragione è da ricercare nel commissariamento di queste regioni per l'emergenza rifiuti; l'affidamento delle discariche al prefetto ha significato il controllo statale del settore, che rende più difficile l'intervento della criminalità organizzata, quanto meno nella fase dello smaltimento


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finale - come vedremo - anche se prefetti, magistratura e forze dell'ordine hanno evidenziato la diffusa infiltrazione criminale sulle attività economiche del territorio e, in particolare, nelle aziende di raccolta e trasporto dei rifiuti. Per quanto riguarda la Puglia, esiste un quadro generale di illiceità che appare preoccupante, nonché una situazione contingente che la espone ad elevati rischi: infatti, i territori confinanti della Campania - come la Commissione ha appreso dalla direzione distrettuale antimafia di Napoli - si rivelano in alcune circostanze poco «utilizzabili» dai clan camorristici operanti nel settore, il che rende probabile il coinvolgimento anche di regioni come la Puglia. Inoltre, sono emerse, nel corso delle indagini condotte dalla procura circondariale di Matera, attività illecite in Puglia (Taranto e Bari), che non sembrano collegate ad attività di tipo mafioso, quanto a smaltimenti transregionali.

2.2 Cosa nostra e l'affare rifiuti

L'evoluzione «imprenditoriale» delle associazioni mafiose e in particolare di Cosa nostra trova riscontro, in Sicilia, anche nel ciclo dei rifiuti dove l'interesse delle organizzazioni mafiose si è esteso - già a partire dai primi anni Novanta - al controllo degli appalti e alle stesse scelte delle pubbliche amministrazioni(6).

(6) V. doc. XXIII n. 34 (relazione sulla Sicilia).

Il settore della raccolta, del trattamento e dello smaltimento dei rifiuti risulta essere un business molto proficuo per le associazioni criminali che, ridottosi fortemente il flusso della spesa pubblica destinato alle opere pubbliche (terreno d'elezione dell'influenza mafiosa), si sono rivolte ad altri settori lucrosi, tra cui quello all'attenzione di questa Commissione, presentandosi sul mercato attraverso società di prestanomi che concorrono nelle gare d'appalto per i servizi di trasporto e smaltimento in discarica. Si tratta qui di un elemento da sottolineare: sono questi i settori in cui più è evidente la penetrazione delle associazioni mafiose, che invece non sono così presenti nei settori più avanzati tecnologicamente (recupero, riutilizzo e termodistruzione). Tale elemento - unito alla constatazione quasi banale che l'emergenza per lo smaltimento riguarda le quattro regioni a tradizionale presenza mafiosa - indica in maniera abbastanza evidente che tali associazioni criminali hanno da un lato lavorato alla creazione delle situazioni di emergenza e dall'altro ora si augurano che tale fase si prolunghi. Quando ci si interroga sui ritardi e le mancate realizzazioni dei commissariamenti è bene avere presente anche questa riflessione.
Illuminante, riguardo alle capacità di penetrazione di Cosa nostra, è la relazione della Commissione parlamentare d'inchiesta sul fenomeno della mafia e delle altre associazioni criminali similari, relativa alla «infiltrazione mafiosa nei cantieri navali di Palermo»(7) dalla quale emerge un controllo territoriale completo, ivi compresa la gestione dei rifiuti e, più in generale, degli scarichi illeciti. Sin dal 1993, infatti - con il consenso della famiglia dell'Acquasanta e senza


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che la direzione della Fincantieri sia riuscita a esprimere un serio ed efficace dissenso - nei cantieri vengono introdotte rilevanti quantità di rifiuti, per rimanervi accumulate nelle forme più varie: ora semplicemente accatastate negli spazi liberi, ora chiuse in cassoni di cemento o in locali dismessi, ora compattati nelle banchine di cemento del porticciolo dei cantieri.

(7) V. doc. XXIII n. 21, approvato dalla Commissione antimafia il 26 gennaio 1999.

Tale stato di cose ha indotto questa Commissione a svolgere essa stessa un sopralluogo nel giugno 1999, durante il quale si è potuto constatare l'avanzato degrado ambientale del sito. Particolare impressione hanno destato, tra le altre cose, non solo un centinaio di bidoni di morchie oleose depositate in un'area incustodita dei cantieri (attualmente sotto sequestro), ma anche un cospicuo accumulo di sabbie sature dentro un capannone e l'esistenza di un enorme condotto fognario, privo di depuratore, che scarica a cielo aperto direttamente in un canale del cantiere e poi a mare.
L'inchiesta parlamentare dimostra come, per la criminalità organizzata, l'affaire rifiuti sia come tutti gli altri affari. Il meccanismo è sempre lo stesso e l'aveva ben compreso Gioacchino Basile quando denunciava - senza ascolto da parte di operatori di giustizia, di imprenditori e di sindacalisti: è opportuno ricordarlo per sottolineare il clima della vicenda e il coraggio della persona - le interferenze illecite delle famiglie nella gestione dei cantieri navali di Palermo e, in particolare, nella gestione dei rifiuti, anche di amianto, all'interno dei cantieri stessi. Al riguardo le dichiarazioni testimoniali rese da Gioacchino Basile nel corso del dibattimento rendono evidente che proprio l'affaire rifiuti ha avuto una posizione predominante sia nella vicenda giudiziaria del Basile stesso, sia nell'intera gestione dei cantieri navali di Palermo, sia, infine, nel consolidare i collegamenti - gestiti dalla famiglia mafiosa dell'Acquasanta - tra la città siciliana e l'interno dei cantieri stessi.
Episodio emblematico dell'infiltrazione mafiosa nel ciclo dei rifiuti è quello in carico alla procura distrettuale di Catania nei confronti, tra gli altri, di Salvatore e Angelo Motta, entrambi operanti nel settore dello smaltimento dei rifiuti, mediante due ditte intestate alle loro mogli, ovvero la Assia e la Imat. Costoro venivano tratti in arresto per il delitto di concorso esterno in associazione mafiosa, in quanto ritenuti contigui alla cosca facente capo a Giuseppe Pulvirenti (detto «u malpassotu») e successivamente condannati in primo grado per concorso in associazione mafiosa in relazione agli appalti aggiudicati alla ditta Assia nel comune di Paternò. Detta aggiudicazione era avvenuta grazie anche all'appoggio del clan mafioso facente capo al Pulvirenti, il quale beneficiava del «sostegno» di politici locali, ed altresì mediante l'alleanza con le altre organizzazioni criminali operanti nel centro paternese (quali quella dei c.d. «ex Alleruzziani», capeggiati da Rosario Fallica, e quella dei Morabito-Stimoli-Fiorello).
Anche in tale occasione emerge il ruolo dei pubblici amministratori locali, accusati di avere illecitamente interferito nell'aggiudicazione a determinate imprese di appalti in materia di raccolta e smaltimento di rifiuti solidi urbani.


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Davvero inquietanti sono, poi, le vicende relative alle discariche di Misilmeri e Pollina, poiché dimostrano un controllo completo del ciclo dei rifiuti da parte di Cosa nostra; una gestione indifferenziata di tutti gli affari che, logicamente, non poteva e non può prescindere dal controllo della programmazione, costruzione e gestione di qualsiasi impianto afferente ai rifiuti, tanto più quando questi impianti siano in mano pubblica o vengano dall'attività della pubblica amministrazione in un qualche modo agevolati.

2.2.1 I casi di Pollina e Misilmeri

La vicenda relativa alla gestione della discarica di Pollina coinvolge diversi sindaci di quel comune, accusati di concorso esterno in associazione mafiosa per avere contribuito, nella loro qualità, alla realizzazione degli interessi illeciti di Cosa nostra, avendo affidato a Salvatore Butticè, per motivi di necessità ed urgenza ex articolo 12 del decreto del Presidente della Repubblica n.915 del 1982, la gestione di una discarica comunale per la raccolta di rsu su un suo terreno, destinato in precedenza alla raccolta di materiali inerti, senza la necessaria previa comunicazione del provvedimento all'assessorato territorio e ambiente della Regione, e mediante il sostegno in consiglio comunale della proroga della prima ordinanza sindacale e del ricorso alla trattativa privata, senza mai proporre una gara d'appalto o l'esproprio del terreno.
Sarebbe stato così vanificato lo stanziamento di 200 milioni già deliberato per l'istituzione di una discarica comunale in altra località, e si sarebbe ignorato volutamente che il terreno in questione ricadeva in area sottoposta a vincoli paesaggistici ed idrogeologici e vincolato a bosco o a zona da rimboschire secondo il prg. I soggetti coinvolti imponevano, inoltre, ai comuni e alle imprese che scaricavano i loro rifiuti nella discarica abusiva - di proprietà del comune di Pollina - prezzi superiori a quelli stabiliti dalla conferenza dei servizi.
Secondo la ricostruzione dell'organo inquirente, il Butticè, gestore della discarica, avrebbe goduto sostanzialmente dell'appoggio non solo dei sindaci di Pollina, ma anche della «famiglia» Farinella e di Cesare Musotto, soggetto colpito da misure di prevenzione antimafia e condannato in primo grado dal tribunale di Palermo per concorso esterno in associazione mafiosa. Peraltro, l'affare della discarica era solo un tassello di un più ampio mosaico affaristico, costituito da appalti e subappalti pilotati in favore di soggetti legati a Cosa nostra(8).

(8) Sul punto vedi anche l'audizione del procuratore distrettuale di Palermo, dottor Pietro Grasso, del 13 giugno 2000.

La relazione della commissione prefettizia, che ha portato allo scioglimento del comune di Pollina per infiltrazioni mafiose, è pervenuta alle stesse conclusioni dell'organo giudiziario.
Con una condotta illecita protrattasi negli anni grazie alle collusioni politiche e all'appoggio del clan mafioso è stato cagionato un gravissimo danno all'intera collettività: ai principali imputati (Butticè, i sindaci del comune e il responsabile dell'ufficio tecnico) si contesta oltre alla completa illegittimità della gestione della discarica,


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il ben più grave disastro ambientale cagionato dalla disinvolta gestione della cosa pubblica e dalle collusioni con Cosa nostra di tanti amministratori, sotto il profilo dell'inquinamento delle falde acquifere e della stabilità della montagna di detriti, non opportunamente compattati e quindi a rischio di crollo a valle in caso di scossa tellurica o altro evento naturale(9). Poiché il ripristino dello stato dei luoghi comporterà un'ingente spesa, i fatti sono stati comunicati alla Corte dei conti, nella speranza che almeno i costi della necessaria bonifica non finiscano per gravare sulla collettività.

(9) V. audizione cit. e doc. XXIII n. 34.

Il Butticè ha gestito anche un'altra discarica, ubicata nel comune di Misilmeri, in assenza della prescritta autorizzazione, per la quale sono in corso indagini della procura. L'utilizzo di questa discarica è stato vietato dal prefetto solo a partire dall'1 gennaio 1999. Nonostante ciò, il Butticè - che non aveva ottenuto l'iscrizione all'albo nazionale delle imprese esercenti attività di smaltimento dei rifiuti per carenza dei requisiti tecnici - il 25 ottobre 1999, quando ormai il procedimento a suo carico per la gestione della discarica di Pollina era in fase avanzata, ha proposto ricorso al comitato nazionale dell'albo, al quale è stato perciò prontamente comunicato che la ditta Butticè e la discarica di Pollina erano sottoposte a sequestro preventivo nell'ambito del relativo procedimento penale, con conseguente nomina di un amministratore giudiziario, che è l'unico soggetto legittimato ad agire per la ditta stessa.

2.2.2 L'impianto di smaltimento e compostaggio di Trapani

Un'ulteriore dimostrazione dell'interesse di Cosa nostra per il settore viene dalla vicenda relativa alla realizzazione dell'impianto di smaltimento e compostaggio di Trapani, gestito per un lungo periodo (dal maggio 1988 al maggio 1993) dall'impresa De Bartolomeis di Milano, la stessa che lo aveva costruito. La De Bartolomeis - secondo quanto rilevabile dalla documentazione esistente in Commissione - fin dal 1989 si è mostrata permeabile all'influenza di Cosa nostra, ponendosi a capo di un gruppo di imprese, tra cui ditte legate a soggetti mafiosi, con buone entrature presso l'amministrazione regionale, in grado di facilitare l'ottenimento di autorizzazioni e di altri provvedimenti abilitatori. La De Bartolomeis, fatto ancor più significativo, utilizzava regolarmente per la raccolta dei rifiuti, automezzi noleggiati da società legate alla famiglia mafiosa trapanese di Vincenzo Virga.
La gestione De Bartolomeis termina nel 1993 e l'impresa fallisce nel 1996, non prima di aver ceduto un ramo d'azienda a una società denominata Rot, riconducibile a esponenti mafiosi.
Nel luglio 1993, si aggiudica il nuovo appalto la società cooperativa Lex anche in virtù del fatto che, sebbene non offra ribassi molto consistenti, il comune appaltante deve escludere dalla gara ditte concorrenti, le quali - pur dotate di notevole esperienza - compiono macroscopici (e sospetti) errori formali nel presentare le loro offerte. Giova alla Lex anche l'insistenza delle pressioni che i Virga esercitano sugli uffici comunali.


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Sul finire del 1994, vince a sorpresa l'appalto la società Dusty di Catania, la quale, subito dopo l'aggiudicazione, si rende conto che non ha i mezzi idonei per assicurare il trasporto dei rifiuti, probabilmente «consigliata» a ciò dai furti nei cantieri e da qualche piccolo danneggiamento: perciò deve ricorrere a subappalti, rivolgendosi a quelle stesse ditte che precedentemente, per motivi unicamente giudiziari, non avevano potuto aggiudicarsi la gara. Noleggerà, infatti, gli automezzi per il trasporto dalla De Bartolomeis, dalla Edilviro (società edilizia legata alla famiglia Virga) e dalla ditta individuale Autotrasporti Francesco Virga (figlio di Vincenzo), oltre che da altre imprese asseritamente legate anch'esse ai Virga.
Solo nel luglio 1998, con l'ordinanza di custodia cautelare emessa nei confronti degli indagati, cessa finalmente la gestione illecita del servizio. La cooperativa Lex è stata dichiarata fallita e sono tuttora pendenti vari procedimenti penali per i reati di truffa e falso, nonché di bancarotta fraudolenta. Attualmente l'impianto di riciclaggio di rifiuti di Trapani è gestito dalla Dusty srl di Catania.
La vicenda mette in chiara luce quello che è il classico e indiscusso modus operandi delle associazioni camorristico-mafiose e che viene adoperato anche nel ciclo dei rifiuti: l'estorsione. L'ingerenza mafiosa si è realizzata anche grazie ad una fitta rete societaria che faceva capo al Virga, mentre la gestione dell'impianto di riciclaggio è avvenuta attraverso la cooperativa Lex, che svolgeva attività anche nella provincia di Catania, intrattenendo legami con i gruppi mafiosi locali facenti capo al noto Nitto Santapaola. Ciò è plasticamente descritto in un passaggio dell'ordinanza di custodia cautelare: «emergeva come il complesso aggregato societario riconducibile al capo del mandamento di Trapani, il latitante Virga Vincenzo, con le sue articolate propaggini e diramazioni abbia assolto ed assolveva tuttora ad un unitario disegno di Cosa nostra, volto al pieno controllo del sistema del riciclaggio e dello smaltimento dei rsu nel capoluogo trapanese».
Il disegno illecito ha trovato, d'altra parte, l'appoggio di funzionari pubblici preposti agli uffici municipali, sia nella fase di aggiudicazione che dell'esecuzione dell'appalto alla cooperativa Lex. Ma l'infiltrazione nel contesto socio-economico appare così pesante che nessuno se ne può sottrarre e anche amministratori, certamente non collusi, si sono trovati a rispondere di reati connessi alla loro attività di pubblici ufficiali, unicamente perché l'apparato burocratico li ha potuti indurre ad atti non corretti.

2.2.3 La mafia dei rifiuti a Palma di Montechiaro

Va ricordato che il procedimento sull'impianto di Trapani origina da alcune investigazioni sull'organizzazione mafiosa del comune di Palma di Montechiaro che hanno offerto uno spaccato illuminante sul controllo che la criminalità organizzata opera - in quel territorio - anche sul ciclo dei rifiuti: il dominio è tale che che l'impresa titolare dell'appalto per la raccolta e lo smaltimento non ha mai potuto occuparsene effettivamente, ma è rimasto appannaggio esclusivo del clan mafioso attraverso l'imposizione dei propri mezzi meccanici e conducenti, mediante la consueta formula fittizia del «nolo a freddo», ossia mascherando l'estorsione con l'emissione di fatture per il presunto noleggio di mezzi meccanici senza conducente.


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Inoltre la discarica comunale è stata di fatto pressoché abbandonata, perché il titolare dell'appalto oltre alle estorsioni imposte dalla criminalità organizzata è stato continuamente vessato da multe e penalità varie inflitte dalla polizia municipale che, pur essendo consapevole della grave situazione di illiceità relativa alla gestione della discarica, si è ben guardata dal denunciarla. Va inoltre sottolineato come le sanzioni della polizia municipale siano cessate nel periodo in cui il servizio è stato gestito dagli indagati Luigi e Gerlando Di Falco, entrambi esponenti del gruppo mafioso di Palma di Montechiaro.
Come detto, anche la fase della raccolta dei rifiuti è stata oggetto di pesanti estorsioni in quel comune, con l'imprenditore titolare del servizio costretto ad assunzioni fittizie di vari mafiosi locali e, nonostante tale evidente situazione di sofferenza, anch'egli ha continuato a subire l'imposizione di multe da parte della polizia municipale.
La vicenda presenta grande interesse sotto un altro profilo: le infiltrazioni mafiose nella fase di smaltimento dei rifiuti sono lo specchio preciso dell'alternanza, nella leadership mafiosa, delle varie cosche locali, e cioè al cambiare del capo della famiglia reggente, cambia la gestione di tali attività illegali, a dimostrazione del completo dominio delle organizzazioni mafiose «reggenti» sulle attività economiche del territorio.
Una trattazione a sé merita una vicenda relativa alla gestione dell'attività di raccolta e smaltimento di rifiuti assimilabili agli urbani nel comune di Palermo, che è ormai alle sue battute finali ed è stata avviata a seguito di una segnalazione all'organo di procura da parte della stessa Commissione.
Con nota del 3 marzo 1999, la Commissione comunicava infatti a quell'ufficio che nei giorni 8 e 9 luglio 1998 erano state costituite a Palermo 23 ditte individuali per la raccolta e lo smaltimento di rifiuti assimilabili agli urbani: queste avevano tutte sostanzialmente la medesima denominazione sociale (cambiava soltanto la lettera dell'alfabeto finale) e lo stesso indirizzo. I successivi accertamenti effettuati, su mandato della procura di Palermo, dal Gico della Guardia di finanza hanno dimostrato che si trattava di ditte individuali dedite alla raccolta di materiale ferroso che, dopo una differenziazione per tipologia, necessaria per accrescerne il valore, veniva venduto a società specializzata nella lavorazione e trasformazione dei rottami metallici.
Con l'entrata in vigore del «decreto Ronchi» per tutte le ditte che operavano nel settore dei materiali ferrosi, erano sorti grossi problemi al proseguimento dell'attività, in quanto occorreva munirsi di specifica autorizzazione. Gli operatori del settore recupero dei materiali ferrosi avevano richiesto all'autorità comunale di emettere delle ordinanze che consentissero la prosecuzione di tale attività. Non avendo il comune ottemperato, si erano rivolti a un faccendiere, il quale dietro compenso si era assunto l'incarico di costituire le ditte individuali ed una cooperativa, al fine di ottenere le autorizzazioni prescritte.
In realtà si è trattato di un'attività truffaldina, perché il faccendiere non ha fatto alcunché per ottenere le autorizzazioni, ma


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ha solo fornito senza molta fantasia le denominazioni alle ditte individuali, e a tutti gli operatori del settore ha promesso di organizzare la cooperativa, limitandosi, invece, a cambiare le partite IVA delle ditte individuali in una partita IVA della cooperativa.
Le investigazioni non hanno comunque individuato collegamenti diretti con i gruppi criminali, solo irregolarità amministrative trattandosi di soggetti che operano tuttora senza autorizzazione.

2.2.4 L'attività della procura distrettuale di Palermo

Il controllo esercitato dalla criminalità organizzata anche sul ciclo dei rifiuti in Sicilia emerge in maniera netta, e la Commissione deve a questo proposito segnalare in termini positivi l'attività portata avanti dalla procura distrettuale antimafia di Palermo che mira anzitutto ad individuare tutti i produttori di rifiuti che operano sull'intero territorio, per verificare se sono in regola con la normativa, e da essi discendere poi agli smaltitori finali per avere un quadro esatto ed aggiornato della situazione. Sinora, purtroppo, l'esito dei controlli ha evidenziato che coloro i quali gestiscono attività che presuppongono uno smaltimento di rifiuti non rispettano affatto le norme di legge e non conferiscono a ditte autorizzate allo smaltimento degli stessi.
Non sembra esserci quindi dubbio che dietro queste attività si mascheri la consegna dei rifiuti in maniera clandestina a soggetti che poi li portano abusivamente da qualche altra parte, li smaltiscono in luoghi segreti o li fanno sprofondare in mare con grave pericolo per la tutela dell'ambiente.
E, con riferimento ai produttori di rifiuti, un'attività mirata è stata rivolta in particolare ai centri di rottamazione che operano nel territorio di Palermo. Il sindaco del capoluogo siciliano (e non è un caso isolato) ha autorizzato l'esercizio provvisorio di tali centri pur in mancanza dell'adozione del piano regionale per lo smaltimento dei rifiuti. Invero, il «decreto Ronchi» ha previsto che lo smaltimento di tali rifiuti avvenga in centri autorizzati, da collocare in siti da individuare a cura delle regioni; poiché detto aspetto della normativa in Sicilia è rimasto inattuato (come del resto gran parte delle previsioni del «decreto Ronchi»), per sopperire alle emergenze legate allo smaltimento dei rifiuti è stata contemplata la possibilità di emanare ordinanze contingibili e urgenti. Alcuni sindaci, tra cui appunto quello di Palermo, hanno ritenuto di essere i titolari di tale potere ed hanno autorizzato con ordinanze temporanee ma rinnovate ad ogni loro scadenza, l'esercizio dei centri di rottamazione, mentre il Ministero, di recente, ha precisato che il potere in questione non spetta ai comuni, ma fa capo all'assessorato regionale al territorio e ambiente. Il comune di Palermo allora ha immediatamente revocato le ordinanze, ma avverso detta revoca i titolari dei centri di rottamazione hanno fatto opposizione dinanzi al giudice amministrativo e si versa ora in uno stato di totale incertezza. I centri di rottamazione continuano la loro attività senza le ordinanze, perché sono state revocate (seppure si è impugnata la loro revoca), quindi in una situazione di palese illegittimità.


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Un altro aspetto rilevante è quello relativo allo smaltimento dei rifiuti ospedalieri della città di Palermo: risulta alla Commissione che il rifiuto ospedaliero prelevato dal privato non viene pesato, benché l'ente pubblico paghi a peso. I danni economici che ne conseguono sono rilevanti. Il meccanismo è semplice: la ditta ritira i rifiuti, non li pesa (in alcuni casi l'ente pubblico non ha neppure installato gli strumenti per l'operazione di pesatura) ma attesta un determinato peso che viene «certificato» dall'operatore addetto al ritiro. Sulla base di tale documentazione la ditta privata chiede ed ottiene il pagamento dei rifiuti nelle quantità a suo dire smaltite. È difficile sostenere che non vi sia complicità da parte dell'ente pubblico, tenuto quantomeno a predisporre gli strumenti per vigilare; certo è che il destinatario finale dei rifiuti attesta a sua volta falsamente l'avvenuto smaltimento in discarica di quanto l'appaltante ha dichiarato. In alcuni casi l'apparente destinatario finale nega in maniera decisa di aver mai ricevuto i rifiuti, ed allora è chiaro che essi sono stati sepolti in qualche sito lontano da occhi indiscreti o, addirittura, gettati in mare.

2.3 Il controllo criminale in Campania

In questa regione, tuttora in fase emergenziale per quanto concerne lo smaltimento dei rifiuti, il ruolo preminente delle organizzazioni camorristiche nel settore del trasporto e dello smaltimento illecito dei rifiuti appare evidente anche in riferimento alla presenza quasi monopolistica imposta nel settore della commercializzazione del calcestruzzo, attraverso la formazione di due società consortili, corrispondenti alle aree di influenza delle due principali organizzazioni camorristiche operanti nella regione: la Procal operante nella zona vesuviana, nolana e della città di Napoli, area di influenza del clan Alfieri, e la Cedic, operante nel casertano, area di influenza del clan dei casalesi. Tali consorzi sono stati addirittura sanzionati dall'autorità antitrust per l'abuso delle posizioni di monopolio conquistate nel settore.
Questa ripartizione (finalizzata anche alla suddivisione interna delle quote spettanti alle varie organizzazioni criminali) viene riprodotta dalla camorra anche nel settore dei rifiuti, ove le organizzazioni criminali più importanti assolvono ad un ruolo catalizzatore degli interessi riconducibili ad organizzazioni di minore importanza.
Sul punto, è di particolare interesse quanto riferito dal comandante della regione dei carabinieri Elio Toscano, nel corso dei lavori del seminario svoltosi a Napoli il 18 febbraio 2000 sull'istituto del commissariamento per l'emergenza rifiuti, il quale, dopo aver sottolineato l'identità dei soggetti appartenenti alla criminalità organizzata che ruotano attorno al ciclo del cemento e a quello dei rifiuti, ha rappresentato come gli illeciti commessi nell'ambito del ciclo del cemento, riferiti alla criminalità organizzata, sono stimati in Campania intorno al 17 per cento sul totale nazionale.
Certo, la gestione commissariale ha contribuito ad un miglioramento della situazione almeno per il settore delle discariche, grazie alla gestione diretta delle stesse da parte del commissario delegato,


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ma la situazione rimane ancora assai critica negli altri settori, specie quello del trattamento dei rifiuti industriali, che si offre in particolar modo all'attività di declassificazione dei rifiuti pericolosi in rifiuti non pericolosi, per finire poi in cave e discariche abusive disseminate sul territorio. Le informazioni a disposizione della Commissione mostrano un sensibile incremento di tali attività illecite.
Sono univoci inoltre i segnali in merito alla riconducibilità di molte imprese del ciclo dei rifiuti all'azione delle organizzazioni camorristiche. Si tratta in molti casi di società di particolare rilevanza nel settore dell'intermediazione, del trasporto e dello smaltimento di rifiuti, che dispongono di notevoli mezzi finanziari, possono imporre tariffari controllati per la trattazione di materiali ed hanno la capacità di gestire i traffici con efficienza e mobilità sull'intero territorio nazionale.
Tale attività produce effetti devastanti, a volte irreversibili, sul piano ambientale, come ha dimostrato già all'inizio degli anni novanta l'indagine «Adelphi», che individuò un fenomeno di smaltimento abusivo per milioni di tonnellate di rifiuti di ogni tipologia, nonché gravissimi casi di occultamento di rifiuti tossici. È qui opportuno evidenziare come, a livello processuale, tale indagine si è conclusa con l'assoluzione di tutti i principali artefici del traffico per prescrizione dei reati contestati: ciò a dimostrazione della inadeguatezza del sistema sanzionatorio in materia, più volte denunciata da questa Commissione. Da allora (le inchieste lo confermano) la situazione si è persino aggravata e si è consolidata la vocazione della Campania a fungere da «pattumiera d'Italia», al punto che oggi il suo territorio sembra essere saturo e si registra quel fenomeno - già posto in evidenza dalla Commissione ed in continuo aumento - per cui i rifiuti vengono smaltiti illegalmente in altre regioni, come il Lazio, la Basilicata e soprattutto l'Abruzzo.
Un ulteriore esempio della cosiddetta «circolarità» di cicli d'impresa apparentemente diversificati emerge in Campania dall'attività di estrazione della sabbia - materiale che, insieme agli inerti, è uno degli elementi impiegati nella produzione del calcestruzzo - attività regolata da normative e potestà amministrative regionali: per evitare tali controlli e sostituirli con quelli di competenza delle amministrazioni comunali, giudicati più facilmente condizionabili, si è diffusa la pratica di impiantare attività di allevamento di pesci che mascherino le attività di estrazione della sabbia e quelle di successivo occultamento dei rifiuti nei vuoti provocati dalle pratiche estrattive. In alcune zone si sono diffuse vasche ittiche nelle quali sono presenti (quando va bene) pochissimi pesci e le stesse vasche segnano i luoghi in cui, a seguito dell'estrazione incontrollata di sabbia, si sono determinate fratture tali da provocare l'abbassamento del livello del suolo in aree piuttosto estese del casertano e nella zona di Villa Literno: questi vuoti vengono colmati attraverso lo sversamento abusivo di rifiuti, in modo da «saldare» le fratture precedentemente provocate.
Emblematica l'indagine sul clan dei casalesi capeggiato da Francesco Schiavone soprannominato «Sandokan», attualmente detenuto: i rifiuti - provenienti in gran parte dal nord Italia e costituiti principalmente da scorie di natura tossico-nociva - cambiavano


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denominazione, divenendo rifiuti normali, in appositi centri di stoccaggio e poi venivano immessi nel casertano, mediante certificazioni false, soprattutto nelle zone di Villa Literno e Baia Verde. In queste località è stato reperito un considerevole numero di bidoni contenenti rifiuti di natura tossica, di difficile recupero.
Evidenti ed allarmanti sono qui le interconnessioni tra imprenditoria deviata e criminalità organizzata. A condurre i traffici illegali era infatti tale Statuto, un soggetto affiliato alla camorra, con compiti prettamente imprenditoriali interessandosi di vari settori della finanza. Il suo ruolo chiave risulta confermato dal fatto che presso la sua ditta sono state individuate ingenti quantità di rifiuti pericolosi gestiti illecitamente. Il condurre tale attività presso aziende ben individuabili (come la Italbeton di Santa Maria Capua Vetere), in luoghi abitati e non molto lontani dal centro, dimostra ulteriormente la possibilità per i clan criminali di agire in maniera del tutto indisturbata. Tale è anche l'esempio di Villa Literno - luogo di costanti rinvenimenti di rifiuti tossici e nocivi - ove, almeno negli anni passati, si sono succeduti sindaci come Riccardi e Vincenzo Tavoletta, legati all'organizzazione camorristica; ed ancora quello di Casal di Principe, comune nel quale, per anni, è stato imposto con i voti controllati dalla camorra un sindaco della stessa: cioè una vera e propria immedesimazione tra politica e criminalità organizzata.
La Italbeton di Rodolfo Statuto venne individuata come una delle primi società presso cui venivano depositati i rifiuti tossico-nocivi fin dagli inizi del 1994; la vicenda di questa società ha mostrato la capacità della criminalità organizzata di muoversi agilmente sul territorio, e dunque il suo controllo dello stesso. Dopo il sequestro dell'impianto è stata infatti individuato lo stabilimento della ex Fonderie Castelli di Tortona come luogo ove venivano stoccati temporaneamente i materiali, in attesa del dissequestro dell'area di Serre - altro sito di proprietà della Ecologia Ambientale del quale disponeva Pasquale Di Giovanni. Lo stoccaggio presso la ex Fonderie è proseguito fino al febbraio 1995, periodo in cui è stata sequestrata e, in attesa dell'imminente dissequestro della discarica di Serre, ha avuto inizio la ricerca di una serie di altre località attraverso le quali poter garantire lo stoccaggio delle sostanze.
I successivi siti furono localizzati a Capalbio presso la società Marsid, a Grosseto (la Busisi Rottami), ad Orvieto (Trenta Vizi), Capranica (Ecoliner) e Fabrica di Roma (Raffinerie Metalli Quartaccio); i siti di queste società sono stati utilizzati come centri di stoccaggio intermedio tra le ditte produttrici del rifiuto e quella che sarebbe dovuta essere la discarica finale. Addirittura presso il centro di stoccaggio della Trenta Vizi ad Orvieto sono giunte direttamente le polveri di abbattimento fumi, sostanze con una tossicità così elevata che il titolare, per non detenerle in grosse quantità, ad un certo momento ne ha rifiutato una parte. Il meccanismo di continue nuove individuazioni di siti di smaltimento abusivo è proseguito per tutto il 1996, interessando diverse parti del territorio nazionale e coinvolgendo aziende operanti sia nell'Italia settentrionale che in quella meridionale.
Le vicende illustrate, in un contesto complicato e difficile quale è il territorio campano, mostrano in maniera univoca le forti


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interessenze tra apparati dell'amministrazione pubblica ed organizzazioni criminali. Al riguardo basta ancora citare alcune altre realtà locali, come quella del comune di San Tammaro, il cui sindaco è stato arrestato per collegamenti con l'organizzazione che operava estorsioni ai cantieri dell'alta velocità; così per il sindaco di Mondragone, arrestato per favoreggiamento aggravato in relazione ad una serie di estorsioni poste in essere in danno di imprenditori; così per il sindaco di Parete, presidente di un consorzio che ha versato ripetutamente alla camorra somme di denaro a titolo di tangenti legate ad appalti.

2.3.1 L'inchiesta «Eco»

Per illustrare in maniera ancora più incisiva come la criminalità organizzata voglia assegnare alla Campania il ruolo di 'pattumiera d'Italia' è opportuno fare riferimento specifico all'inchiesta «Eco» della direzione distrettuale antimafia di Napoli, prossima alla chiusura della fase delle indagini, e relativa al controllo delle attività di smaltimento di varie tipologie di rifiuti, che il clan dei casalesi ha esercitato sul territorio nazionale nel periodo 1994 - 1997.
L'attività investigativa svolta - di cui la Commissione ha ritenuto opportuno essere informata in maniera costante - ha consentito di ricostruire gli ingenti flussi economici e finanziari derivanti dai profitti dell'attività illecita consumata da parte di numerosi soggetti (101) e società sia commerciali (13) che di trasporto (21), nonché aziende produttrici di rifiuti (9), centri di stoccaggio intermedi (6), società di smaltimento rifiuti (8). Il flusso illecito di scorie movimentate sul territorio nazionale nel periodo compreso tra giugno 1994 e marzo 1996 si aggira intorno agli 11 milioni di chilogrammi di rifiuti pericolosi tra il 1994 ed il 1996 (oltre un milione di chilogrammi di rsu risultano movimentati nel solo periodo marzo 1996 - giugno 1997).
Alcuni collaboratori di giustizia hanno fornito un quadro inquietante della situazione esistente, poiché dalle loro dichiarazioni emerge la «territorializzazione» di questo tipo di attività illecita da parte delle organizzazioni criminali operanti nel casertano. Risulta a questo proposito alla Commissione che il gruppo dei casalesi continua a esercitare il suo dominio sull'intera provincia di Caserta, attraverso un controllo capillare del territorio che gli assicura - per quanto riguarda il ciclo dei rifiuti - pronta disponibilità di luoghi dove creare dei buchi in cui nascondere rifiuti o addirittura sversarli a cielo aperto.
Dalla fine degli anni ottanta è poi cambiato l'approccio dei gruppi criminali rispetto ai tradizionali metodi violenti (si tratta peraltro di un fenomeno di portata più generale che la Commissione ha dovuto registrare e sul quale torneremo più avanti). Le industrie produttrici di rifiuti - in particolare nei processi industriali legati all'alluminio, che sono prevalente oggetto delle investigazioni della dda di Napoli - nel corso della lavorazione dei metalli, devono farsi carico di costi elevati per lo smaltimento del materiale di scarto prodotto, costituito da rifiuti speciali e tossico-nocivi (polveri di macinazione delle schiumature di alluminio e polveri di abbattimento dei fumi), che non possono essere riciclate e reinserite nel ciclo produttivo, a causa


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dell'elevato costo di lavorazione e dell'esigua quantità di alluminio che se ne potrebbe ricavare. Inoltre, sul territorio nazionale sono poche le discariche attrezzate ed autorizzate allo smaltimento di tale materiale. L'organizzazione criminale, in siffatto contesto, offre un efficiente servizio alternativo che abbatte i costi e garantisce la continuità nello smaltimento dei rifiuti, poiché assicura il superamento di qualunque ostacolo di tipo burocratico e consente l'immediato deflusso degli scarti di produzione senza andare troppo per il sottile nel rispetto della normativa vigente. Si determina, quindi, uno stretto rapporto tra produttore dei rifiuti ed organizzazione criminale, in cui il primo - consapevolmente o meno - si rivolge a soggetti che scientemente e per proprio tornaconto mettono in atto un micidiale ciclo illegale. Al di là della consapevolezza dei produttori, a questi va comunque rimproverata una scarsa attenzione nella scelta dei soggetti cui affidare i propri rifiuti, scelta dettata più che altro da ragioni di risparmio d'impresa.

2.3.2 L'attività della procura della Repubblica di Santa Maria Capua Vetere

Una disamina a sé meritano le vicende all'attenzione della procura di Santa Maria Capua Vetere, dove l'organo di procura si è dimostrato ben consapevole delle dimensioni del fenomeno dello sfruttamento illecito delle cave e delle forti implicazioni criminali, aprendo indagini ad ampio raggio sulla situazione delle cave presenti nel circondario e procedendo, negli ultimi anni, al sequestro di oltre 800 aree trasformate in discariche abusive.
Le prime indagini hanno portato all'arresto in flagranza di sei persone colte nell'atto di interrare a circa dieci metri di profondità, all'interno di buche realizzate in un fondo coltivato a barbabietole da zucchero sito in Castel Volturno, centinaia di tonnellate di rifiuti pericolosi. Alcuni dei sei fermati hanno gravi precedenti penali e sono sospettati di gravitare nei clan camorristici. A monte dell'attività di smaltimento illecito vi era un centro di stoccaggio di Cassino, dove nel tempo sono state accumulate ingenti quantità di rifiuti speciali di varia tipologia: è singolare notare come, nonostante la non regolarità del centro, i rifiuti erano ammassati con un certo ordine, suddivisi a seconda della loro natura.
Sono stati poi accertati ingenti sversamenti illeciti di rifiuti di ogni tipo, compresi bidoni contenenti rifiuti tossici, presso una cava abusiva di S. Angelo in Formis, a pochi metri dal fiume Volturno, nel quale sono finiti i reflui di tale illecita attività. In assenza di una norma che sanzioni l'attivazione, coltivazione e gestione di una cava senza concessione o autorizzazione, è stato possibile contestare solo il deturpamento e la distruzione di bellezze naturali.
Altra inchiesta avviata dalla procura ha ad oggetto la vicenda degli aiuti umanitari della Caritas, finiti in discariche abusive nell'agro aversano e avellinese. È emblematico che il primo luogo in cui questi materiali sono stati rinvenuti nell'ottobre 1999 è Casal di Principe, territorio da sempre utilizzato per lo smaltimento illegale di rifiuti e ormai ridotto a un enorme immondezzaio, con ripercussioni


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gravissime non soltanto ai beni ambientali, ma anche alla salute dei cittadini. Ed è interessante notare come alcuni gestori di tali traffici illeciti si identificano negli stessi soggetti arrestati in flagranza di reato nell'operazione effettuata a Castel Volturno di cui sopra. Su quest'ultima vicenda, peraltro, sta indagando anche la dda di Firenze, in relazione all'omicidio di un pregiudicato camorrista di Ercolano.
Da ultimo, il 12 luglio 2000, è stata posta sotto sequestro l'azienda Bitumitalia, dove sono stati rinvenuti circa 100.000 quintali di rifiuti pericolosi, precisamente polveri provenienti dagli impianti di abbattimento fumi di industrie siderurgiche del nord Italia. Si tratta di un riscontro giudiziario di particolare gravità, poiché evidenzia come tale rifiuto sia stato utilizzato per la realizzazione di rilevati stradali nonché per materiali da costruzione: in sostanza esistono abitazioni realizzate con rifiuti pericolosi.

2.4 Il clan dei casalesi: un paradigma delle ecomafie

Già la Commissione d'inchiesta operante nella XII legislatura aveva indicato la provincia di Caserta come «il territorio dell'ecomafia». È noto come su tale area esista il dominio criminale del cosiddetto «clan dei casalesi», guidato fino al momento del suo arresto da Francesco Schiavone, detto Sandokan. Il clan, che ha la sua base a Casal di Principe, estende le sue attività a tutta la provincia di Caserta, ad alcune aree del beneventano e dell'avellinese, nonché alla provincia di Latina (nel Lazio); secondo quanto riferito alla Commissione, il clan conterebbe su un numero di affiliati intorno alle diecimila unità. Dal punto di vista dell'organizzazione criminale, il clan dei casalesi presenta caratteristiche affini a quelle della mafia siciliana più che a quella della camorra campana; per ciò che più direttamente riguarda questa relazione, invece, si deve da subito rilevare come le attività economiche sulle quali il clan maggiormente si concentra lo fanno in qualche maniera assurgere a «paradigma» dell'ecomafia. I due cicli economici tipici dell'ecomafia - cemento e rifiuti - sono infatti sfruttati a fondo e in tutte le direzioni dal clan dei casalesi: l'attività estrattiva, l'edilizia abusiva, lo smaltimento dei rifiuti, sia esso illecito o gestito da imprese in qualche modo comunque riconducibili all'organizzazione criminale.
Il ciclo economico ecomafioso nasce e finisce nell'elemento cava: da qui vengono estratti - direttamente in maniera illecita o comunque da imprese del clan - i materiali inerti per le costruzioni (in gran parte abusive); una volta esaurita l'attività estrattiva nella cava vengono sepolti in maniera illecita i rifiuti provenienti da tutta Italia. Da questo punto di vista l'emblema dell'attività ecomafiosa è senz'altro l'area di Sant'Angelo in Formis - sequestrata dalla procura di Santa Maria Capua Vetere - dove erano presenti sia i macchinari per l'attività estrattiva (che nel frattempo aveva rotto la falda creando uno dei noti «laghetti»), sia migliaia di tonnellate di rifiuti di ogni tipologia smaltiti ovviamente in maniera illecita.
Una delle costanti dell'azione del clan dei casalesi è quindi l'aggressione e il depauperamento, fino al degrado più estremo, dell'ambiente. Ma se questa è una caratteristica di diversi clan criminali, ciò che rende «paradigmatica» l'azione di questa organizzazione


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è la sua imprenditorialità. È stato infatti evidenziato alla Commissione come - ad esempio - il mercato del calcestruzzo è sotto il controllo del clan che, con la realizzazione di un consorzio ad hoc, ha di fatto imposto a chiunque volesse operare in tale settore economico l'adesione all'economia criminale.
Per quanto riguarda invece la gestione dei rifiuti il discorso è in parte più complesso: il controllo sulle attività di illecito smaltimento è purtroppo fuori discussione, dato il capillare controllo del territorio operato dal clan. L'aspetto legale va invece considerato da diverse angolazioni: la fase dello smaltimento è gestita direttamente dal commissario di governo (il prefetto di Napoli) e dunque sono da escludere infiltrazioni della criminalità organizzata, come peraltro confermato dallo stesso prefetto di Napoli in sede di audizione davanti alla Commissione. Le fasi della raccolta e del trasporto sono invece fortemente a rischio, come evidenziato, sempre nella stessa audizione, dal prefetto di Napoli, che ha precisato alla Commissione come circa il 90 per cento delle aziende che operano in questo settore hanno collegamenti diretti o indiretti con la criminalità organizzata.
Come si esplica tale controllo, e come tale controllo abbia in buona misura determinato l'attuale fase emergenziale per il ciclo dei rifiuti in Campania, emerge in maniera evidente dalle vicende relative all'appalto per la raccolta e lo smaltimento a Mondragone (Caserta). Si tratta di un episodio emblematico che è opportuno ripercorrere seguendo la ricostruzione cronologica eseguita dalla direzione investigativa antimafia di Firenze:
«4 marzo 1991: il consiglio comunale, con verbale n.17, a prosieguo della seduta del 18 febbraio 1991 ed a chiarimento della delibera n.1253 del 19 settembre 1990, delibera l'approvazione del capitolato stanziato per lo smaltimento dei rsu. Nella delibera viene specificato l'ammontare della spesa di gestione pari a lire 2.952.936.000;
20 dicembre 1991: viene deliberata l'aggiudicazione dell'appalto per la raccolta e lo smaltimento dei rifiuti alla ditta COVIM, che si aggiudicava l'asta per la somma di lire 2.923.000.640 al netto del ribasso dell'1per cento sul prezzo a base d'asta. Si rappresenta che dagli atti risulta che delle ditte invitate alla gara d'appalto solo tre, tra cui la Covim, si presentarono; una, la ditta Fungaia Monte Somma di Ottaviano, non veniva ammessa perché facente parte di un raggruppamento di imprese, mentre la gara era per ditte individuali; l'altra, la Ciccarelli G. Battista di Giugliano, offriva un ribasso dello 0,6 per cento, quindi non veniva accettata. Altre due ditte inviavano una raccomandata nella quale specificavano di non poter partecipare alla gara;
10 febbraio 1992: la Commissione straordinaria delibera di fornire chiarimenti al Coreco della provincia di Caserta in merito all'esclusione della ditta Fungaia Monte Somma. Detta ditta veniva esclusa in quanto invitata come ditta individuale e non come capogruppo di impresa riunita e che la ditta facente parte del gruppo non era stata invitata a partecipare alle gare;
15 maggio 1992: la Commissione straordinaria deliberava che doveva essere revocata la delibera del 20 dicembre 1991, con la quale


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veniva conferita l'aggiudicazione della gara di appalto alla ditta Covim e che la cessazione entrava in vigore dal 1 giugno 1992, in quanto il decreto regionale di autorizzazione per il predetto servizio presentato all'atto della gara era illegibile;
19 maggio 1992: la Commissione straordinaria, in merito alla revoca dell'appalto alla Covim, bandiva una nuova gara di appalto. Delle sette ditte invitate, a rispondere alla gara furono la Fungaia Monte Somma, la Ciccarelli G. Battista, la Tedesco Antonio, che rese edotte del problema furono invitate a far pervenire, in busta chiusa, l'offerta per l'aggiudicazione entro le ore 12.00 del 22 maggio 1992. Ma nessuna delle tre ditte fece pervenire l'offerta. A questo punto la Commissione straordinaria provvedeva ad invitare altre otto ditte delle quali solo la Capasso Ciro di Grumo Nevano si presentava e resa edotta del problema veniva invitata a far pervenire l'offerta per l'aggiudicazione entro le ore 11.00 del giorno 29 maggio 1992. Anche questa ditta non faceva pervenire alcuna offerta e con fax datato 28 maggio 1992 manifestava la propria indisponibilità. Quindi in considerazione dell'urgenza e che non essendoci altre ditte specializzate nel settore per svolgere detto servizio, e risultava indispensabile assicurare il servizio per i rsu, veniva deliberato di continuare ad affidare alla Covim le operazioni con decorrenza dal 1 giugno 1992, con le stesse condizioni dell'appalto revocatogli in precedenza;
3 luglio 1992: la Commissione straordinaria per i chiarimenti richiesti dal Coreco delibera che la Covim è autorizzata a smaltire i rsu presso l'impianto della società Alma, sita in Villaricca;
18 marzo 1993: a seguito della delibera n. 169 del 20 dicembre 1991 viene ratificato il contratto di appalto per la raccolta e lo smaltimento dei rsu tra il comune di Mondragone e la Covim. Dal contratto si evince che l'importo mensile per le operazioni di cui sopra è di lire 243.617.220; l'appalto sarebbe terminato al momento del conferimento dell'incarico alla ditta vincitrice della gara in quel momento in corso di espletamento;
18 dicembre 1995: il consiglio comunale in merito alla indizione della gara di appalto per la raccolta dei rsu delibera l'approvazione del nuovo capitolato speciale d'appalto pari a lire 10.426.200.000 con affidamento triennale per il periodo 1996-1998;
23 settembre 1996: il consiglio comunale chiarisce al Coreco della provincia di Caserta quanto deliberato in data 18 dicembre 1995 in merito alla indizione della gara d'appalto per la raccolta dei rsu e dell'approvazione del capitolato speciale di appalto stanziato per tale scopo;
14 febbraio 1997: il consiglio comunale, in merito alla gara d'appalto per l'affidamento del servizio di raccolta, spazzamento, smaltimento e trasporto dei rsu delibera di indire una gara di appalto a mezzo di licitazione privata con procedura accelerata;
30 maggio 1997: il consiglio comunale delibera l'approvazione dell'elenco delle ditte per la gara di appalto. Le ditte in argomento


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risultano essere: Covim, Ecocampania, Risan, Solapuma, Italo-Australiana, Consorzio Nazionale Servizi, mentre veniva esclusa Il Triangolo;
29 novembre 1997: la giunta comunale delibera l'approvazione di gara infruttuosa per il servizio di raccolta, spazzamento, smaltimento e trasporto dei rsu. Nel verbale viene fatto riferimento alla delibera dell'11 novembre 1996, vistata favorevolmente dal Coreco di Caserta, nella quale si provvedeva alla riapprovazione del capitolato speciale d'appalto per il servizio in argomento. Inoltre viene specificato che alla gara avevano partecipato due ditte: la Covim e l'Ecocampania, ma veniva altresì specificato che in data 18 luglio 1997 l'aggiudicataria della gara era stata l'Ecocampania. In data 31 luglio 1997 la Covim chiedeva che fosse sospesa la gara e che, in data 6 novembre 1997, venisse redatto verbale di gara infruttuosa per vizi formali. Nel contempo, a causa della necessità di dover proseguire il servizio di raccolta, spazzamento, smaltimento e trasporto dei rsu, veniva confermata alla Covim la proroga a continuare a svolgere le operazioni in argomento, con le stesse modalità, patti, prezzo e condizioni stabilite nel contratto del 10 marzo 1993;
23 dicembre 1997: il responsabile del servizio per la ripartizione tecnica urbanistica, in merito alla gara di appalto per il servizio di raccolta, spazzamento, smaltimento e trasporto dei rsu, determina di indire una gara a licitazione privata e la riapprovazione del bando di gara e la lettera di invito per il servizio».

L'appunto è del 6 maggio 1998, e a quella data l'appalto per il servizio di raccolta dei rsu a Mondragone non era ancora stato aggiudicato! Per la camorra che si fa impresa, com'è il caso del clan dei casalesi, quello dei rifiuti è un settore economico nel quale intervenire come in qualsiasi altro dove esista la possibilità di aggiudicarsi pubblici appalti. E dall'intervento nel ciclo dei rifiuti ne conseguono guadagni illeciti poi reinvestiti - ad esempio - in attività turistiche, com'è il caso di un centro residenziale a Montecatini Terme (Pt) che, secondo la ricostruzione della Direzione distrettuale antimafia di Napoli, è stato acquisito proprio con capitale derivante dall'attività ecomafiosa. Ma se l'ecomafia ha l'intuizione imprenditoriale dei settori economici di maggior rendimento, è - almeno allo stato attuale - carente dal punto di vista delle capacità tecnologiche. L'intervento diretto lo si riscontra pertanto nei settori della raccolta e del trasporto dei rifiuti, il che non equivale a sminuire la gravità della situazione ma a sottolineare che la realizzazione di cicli integrati ad alto contenuto tecnologico potrà contribuire a risanare questa fetta di mercato.
L'attività del clan dei casalesi, tuttavia, conferma l'allarme che la Commissione aveva lanciato in occasione del già richiamato forum di Napoli, relativo al salto di qualità che le ecomafie stavano compiendo. I clan criminali non si limitano più al solo smaltimento illecito, ma si trasformano essi stessi in impresa anche nel ciclo dei rifiuti. Non si accontentano più di imporre la «tassa camorra» - cioè una quota percentuale fissa su ogni lira guadagnata dalle aziende nel territorio controllato dall'organizzazione - ma si fanno impresa. Nel settore del


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calcestruzzo la creazione dei consorzi controllati dalla camorra - come è stato ben delineato alla Commissione - ha portato all'eliminazione della «tassa camorra» e alla conseguente riduzione del prezzo di questo materiale. Una soluzione del genere non la si è ancora registrata nel settore rifiuti, infatti dalla documentazione esistente in Commissione emerge con chiarezza come il clan dei casalesi imponga una sorta di tariffario a seconda dell'importo dell'appalto, per cui se dal comune di Mondragone, con un'azienda ad essi direttamente collegamente, pretendevano di guadagnare sessanta milioni al mese imponendo loro l'importo dell'appalto, per quanto riguarda il comune di Sessa Aurunca (di dimensioni pari a Mondragone), la tangente richiesta alla ditta aggiudicataria dell'appalto (non collegata al clan) era assai simile.
Non è più quindi la realizzazione della «semplice» discarica abusiva, o il «solo» condizionamento degli appalti, ma è tutto ciò più l'intervento diretto nel ciclo dei rifiuti che rende paradigmatica l'azione del clan dei casalesi: è la criminalità organizzata che prima impone la «tassa camorra», poi crea i consorzi, esclude dal mercato le aziende che non aderiscono ai consorzi, crea le sue imprese e - grazie ai consorzi - controlla le altre, e in questa maniera (particolare non secondario) controlla anche la distribuzione dei posti di lavoro, creando consenso e quindi un clima quanto meno di non ostilità al giogo criminale. Un intervento diretto in questo settore economico al quale, secondo la Commissione, si debbono opporre strumenti investigativi ed amministrativi sofisticati, quali un effettivo controllo delle titolarità delle aziende, una trasparenza piena degli appalti pubblici, il coordinamento - anche telematico - e la condivisione di tutte le informazioni a disposizione dei singoli apparati dello Stato. La mano pubblica destra deve sapere ciò che fa (e sa) la mano pubblica sinistra: la sinergia e la collaborazione può solo moltiplicare le forze e le conoscenze, come questa Commissione ha avuto di constatare direttamente, purtroppo in non molte occasioni.
È opportuno ricordare come il numero degli affiliati al solo clan dei casalesi sia stimato intorno alle diecimila unità (superiore di alcune migliaia all'intero organico del Corpo forestale dello Stato). Negli ultimi anni, comunque, i presidi dello Stato sono aumentati: nella provincia di Caserta è stato aperto un comando del Nucleo operativo ecologico dei carabinieri, è attiva - presso la prefettura - un'unità di crisi dedicata proprio al ciclo dei rifiuti. Un'attenzione che ha indotto il clan dei casalesi a modificare la sua attività nel campo degli sversamenti illeciti: come collaboratori di giustizia hanno rivelato alla Commissione, la criminalità organizzata ha infatti ritenuto di non usare enormi cave abusive come discariche, ma di procedere con il meccanismo dello «sversa e fuggi». Non solo, dalla provincia di Caserta il clan ha cominciato a «esportare» questa illecità attività al matese e alla marsica.

2.5 Il nesso tra cave abusive e smaltimenti illeciti

La connessione tra coltivazione abusiva di cave e smaltimenti illeciti è stata già all'attenzione della Commissione operante nella


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passata legislatura. In questa si sono avute ulteriori e numerose conferme dalle audizioni dei magistrati impegnati nel settore. È anzitutto opportuno fare riferimento alla situazione normativa rilevata in Campania, regione che più delle altre è colpita da tale doppio fenomeno illegale. Una prima legge regionale del 1985 è stata replicata nel 1995: il testo prevede, in assenza di un piano-cave specifico per la regione Campania, la possibilità di continuare ad effettuare l'attività estrattiva in alcune cave, sia pure a certe condizioni, nonché la possibilità di recupero ambientale o di riqualificazione delle aree oggetto delle vecchie cave dismesse, cosa che rischia di diventare la leva per consentire attività di illecito utilizzo.
Si può ora parlare di un ulteriore aspetto e di altre implicazioni, rispetto ad una vecchia discarica abusiva in provincia di Salerno, già esaurita da qualche anno, nelle cui aree circostanti erano presenti altre discariche abusive ove si svolgevano attività estrattive e di sversamento, soprattutto di inerti da costruzione e di materiali plastici. Attorno alla discarica vi era uno sversamento di percolato che aveva dato luogo addirittura a veri e propri laghi. La situazione si è aggravata allorché il titolare, che nella zona portava avanti un'attività di escavazione, scavando ha contribuito a far crollare parzialmente una parte della vecchia discarica, causando una fuoriuscita di percolato che incrementava la superficie dei laghi e laghetti già esistenti. Questo ha creato problemi igienico-sanitari, per cui si è provveduto a sequestrare l'intera area della discarica e tutta l'area di cava oggetto dell'abusiva estrazione.
Significativo - in una zona limitrofa - appare l'utilizzo delle cave nella marsica, divenute sito elettivo di discarica; in tal caso si è riscontrata la capacità di adeguamento dei pregiudicati locali, divenuti in breve tempo la manovalanza deputata al rinvenimento dei siti di discarica, ed una prontezza nel reperimento di sempre nuove discariche. Così la camorra casertana non solo ha potuto continuare le sue attività di smaltimento illecito, ma ha anche creato clan 'satelliti' in territori dove prima non era attiva: in questo casi il ciclo dei rifiuti rappresenta per la criminalità organizzata anche un'opportunità di espansione nelle aree non tradizionali.
È opportuno fare riferimento anche alla cosiddetta «operazione Mori», di cui la Commissione ha ritenuto essere informata direttamente dall'autorità giudiziaria di Lanciano. L'indagine, molto delicata e complessa, è ancora in corso, ma già emergono con chiarezza sia fenomeni di collusione amministrativa per il rilascio di autorizzazioni alle discariche, sia l'esistenza di collegamenti (mediante i noti meccanismi di smaltimento) tra attività di traffico illecito di rifiuti ed attività di gestione di cave per l'estrazione di materiale inerte per l'edilizia. Nel centro di smaltimento della ditta coinvolta nelle indagini, localizzato in Cerratina di Lanciano, ove formalmente veniva condotta un'attività di «cava con annesso impianto di frantumazione inerti», è risultato che in realtà nella parte esaurita della cava, sottoposta al ripristino ambientale, veniva effettuato uno smaltimento illecito di rifiuti miscelato con inerti; inoltre, i materiali stoccati


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producevano percolato che si immetteva, naturalmente senza alcun rispetto degli indici tabellari della legge 319/76, in un vicino rigagnolo affluente del fiume Sangro.
Altre vicende significative sono quelle relative alla gestione della cava Masci, in provincia dell'Aquila, dove risultano smaltimenti illeciti di rifiuti pericolosi provenienti da altre regioni(10).

(10) V. doc. XXIII n. 19 (relazione sull'Abruzzo).

In Liguria, a Borghetto Santo Spirito, sono state rinvenute circa 25 mila tonnellate di rifiuti pericolosi in una cava di proprietà di tale Federico Fazzari, parente di Carmelo Gullace, persona già sottoposta a misure cautelari antimafia; a questi rifiuti, vanno aggiunti altri 40 mila fusti che sarebbero stati seppelliti - a detta dello stesso Fazzari - dalla medesima organizzazione in una cava sita nei pressi di Lavagna, non ancora individuata.
In Sicilia è stato accertato lo smaltimento ilecito di rifiuti pericolosi presso una cava abusiva sita in Montanaro (TP): in tal caso la scoperta è stata effettuato a seguito delle dichiarazioni di un collaboratore di giustizia trapanese che ha riferito su attività di intermediazione ad opera di cosche mafiose operanti in provincia di Trapani.
L'utilizzo delle cave come discariche è un fenomeno comune anche all'interno di stabilimenti industriali: a Colleferro, nell'insediamento industriale Bpd, in una ex cava pozzolana, dismessa da molti decenni, l'attività estrattiva ha comportato nel tempo la formazione di una serie di terrazzamenti a varie quote fino ad una profondità di cinquanta metri. Tale cava, tra la fine degli anni settanta ed il dicembre 1985, è stata utilizzata come discarica per rifiuti speciali provenienti dalle lavorazioni dello stabilimento, in virtù di una specifica autorizzazione regionale. I rifiuti - per i quali è stato approntato un piano di messa in sicurezza - provenivano essenzialmente dalla lavorazione di carri ferroviari e dalle lavorazioni chimiche e dei propellenti.

2.6 Le infiltrazioni delle organizzazioni criminali di tipo mafioso nelle aree non tradizionali

La Commissione ritiene di dover sottolineare come tali traffici illegali di rifiuti siano significativi non solo - o non tanto - dal punto di vista della gestione illecita dei rifiuti, ma soprattutto per ciò che rappresentano in termini di infiltrazioni mafiose nelle aree «non tradizionali». Infatti l'ingresso delle società mafiose nell'affare, o comunque l'utilizzo di metodiche e strumenti tipici della cultura mafiosa, ingenera inevitabilmente la nascita di gruppi criminali organizzati satelliti che operano nel nord Italia, magari non ancora classificabili come veri e propri sodalizi delinquenziali di stampo mafioso, ma che possono avviarsi a diventarlo, e le vicende piemontesi più recenti, di cui diremo appresso, ne sono un segnale evidente.
Già nella relazione sul Lazio si era evidenziato l'allarme lanciato dalla magistratura antimafia di Roma su località quali Cassino, Latina, Formia, Pomezia, Anzio, Nettuno e Ardea dove, dalla fine degli anni '70, si sono insediati gruppi appartenenti alla criminalità


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organizzata calabrese, siciliana e, in particolare, campana, seppure a tutt'oggi queste ipotesi su tali filiere criminali operanti anche nel ciclo dei rifiuti hanno avuto solo un parziale e superficiale riscontro nelle audizioni di alcuni magistrati che se ne sono occupati e nei procedimenti penali attivati nel distretto.
Infiltrazioni di personaggi vicini alla criminalità organizzata campana sono già state citate nella vicenda della discarica di Pitelli, gestita dalla Contenitori Trasporti di Orazio Duvia: amministratori della società furono, nei primi anni novanta, elementi poi coinvolti nell'indagine «Adelphi» della magistratura napoletana.
In Liguria, la vicenda della cava rinvenuta in Borghetto Santo Spirito (v. sopra) è un altro esempio di presenza di elementi della criminalità organizzata nel business dei rifiuti. Del resto, questa regione è stata nei passati decenni terra interessata dai soggiorni obbligati di numerosi soggetti appartenenti alla criminalità organizzata, in particolare modo alla 'ndrangheta calabrese. Ciò ha determinato - specie nel savonese - l'arrivo di familiari ed amici di tali soggetti, i quali hanno in certa misura ricreato le attività delittuose tipiche di dette associazioni. Si tratta, del resto, di un fenomeno già ampiamente illustrato da altri soggetti istituzionali (si vedano, in particolare, le relazioni delle Commissioni parlamentari d'inchiesta sul fenomeno della mafia).
La diffusione di tali traffici illegali in aree non tradizionali è evidenziata anche dal percorso che rifiuti speciali e pericolosi stoccati presso vari centri della Lombardia effettuavano verso la Basilicata. Secondo la documentazione cartacea, i rifiuti erano avviati allo smaltimento presso discariche autorizzate lucane, ma tale destinazione era solo apparente, perché i gestori delle discariche negavano di averli mai ricevuti. Le difficoltà investigative non hanno reso sempre possibile l'individuazione dei siti finali di smaltimento ed il ritrovamento dei rifiuti, ma secondo l'organo inquirente vi è la certezza che lo smaltimento sia avvenuto nel territorio della Basilicata o, al più, in territori limitrofi, e che i ricettori finali dei rifiuti siano nella stessa regione.
Il traffico illegale di rifiuti anche pericolosi oggetto dell'inchiesta, tuttora in corso, è indicativa di quella «vocazione» della Basilicata - rappresentata dai vari soggetti istituzionali - a diventare meta di destinazione ideale degli smaltimenti illeciti anche in considerazione delle caratteristiche morfologiche del terreno, della presenza di impianti in via di abbandono e della scarsissima densità abitativa che consentono di sfuggire facilmente ai controlli.
Al riguardo, sono del tutto condivisibili le affermazioni del sostituto procuratore presso il tribunale di Potenza,(11) secondo il quale «è logico ritenere che la criminalità presente soprattutto nel materano, ma anche nel potentino, nella Val d'Agri e nel melfese non si può disinteressare di affari di questo genere. Non si vede perché un traffico di rifiuti, al quale è interessata la criminalità organizzata che si muove verso la Campania e la Puglia, non debba coinvolgere anche la Basilicata, che presenta un assetto territoriale che può apparire più idoneo a traffici di questo tipo». Una conferma viene


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dai numerosi sequestri di discariche abusive, da quella Ecobas nel comune di Pisticci (dove si sospetta siano stati smaltiti rifiuti pericolosi provenienti dal nord del Paese) a quella sita nel comune di Ferrandina, dove è stato rinvenuto anche amianto. E ancora, nel comune di Policoro, il sequestro di un ex zuccherificio, in cui giacevano circa 270 fusti contenenti rifiuti pericolosi, mentre nel sottosuolo è stata scoperta una discarica illegale con rifiuti di ogni genere, compresi molti materiali con amianto. In due capannoni non distanti da quest'area, le forze dell'ordine hanno scoperto circa 570 fusti contenenti rifiuti pericolosi.

(11) V. missione del 25 settembre 1998.

Del resto, il rapporto sulla criminalità organizzata presentato dal Ministero dell'interno per l'anno 1997, pur non evidenziando la presenza di gruppi criminali nel ciclo dei rifiuti, ha indicato l'infiltrazione di elementi delle organizzazioni camorristiche in questa regione, mentre il rapporto relativo all'anno 1998 ha evidenziato il fenomeno dell'abbandono incontrollato di rifiuti anche pericolosi sul territorio anche in relazione al forte rischio della penetrazione di elementi della criminalità organizzata nel mercato dei rifiuti, oltre che per le ripercussioni negative sull'ambiente.

2.6.1 Il caso del Piemonte

Significative del fenomeno sin qui descritto e delle dimensioni che esso va assumendo sull'intero territorio nazionale sono - come si è anticipato - le indagini condotte dalle procure di Torino e di Milano, da cui emerge il collegamento tra società di intermediazione dell'Italia centro-settentrionale con la criminalità organizzata operante nell'Italia meridionale: i «collettori» dei rifiuti del nord si avvalgono, in sostanza, dell'opera di soggetti inseriti o comunque vicini alle organizzazioni criminali, che - grazie al controllo del territorio che garantiscono in determinate aree del Paese - offrono garanzie di facili e sicuri smaltimenti.
In particolare, i fatti recentissimi (anni 1998-2000) all'attenzione della procura distrettuale di Torino, relativi ad alcuni smaltimenti illeciti di rifiuti anche pericolosi, confermano l'esistenza di un circuito criminale tra le regioni Veneto, Emilia Romagna, Piemonte e Campania, che opera con il coinvolgimento di ditte produttrici e smaltitrici di tali rifiuti, nonché avvalendosi dell'opera di intermediari(12).

(12) V. audizione del procuratore distrettuale di Torino, dottor Marcello Maddalena, del 21 giugno 2000.

La vicenda, che ha portato all'arresto in flagranza di uno dei responsabili nel giugno 2000, origina da alcuni fatti estorsivi commessi ai danni del titolare di una società di stoccaggio e smaltimento di rifiuti speciali sita nei pressi di Torino. La matrice dei fatti estorsivi era proprio la riscossione di crediti per l'illecito smaltimento di rifiuti speciali pericolosi.
Uno degli autori degli illeciti ha ammesso di avere firmato i formulari di identificazione per il trasporto dei rifiuti (imballaggi metallici), consegnando alla società gestita dalla vittima fatture che attestavano l'avvenuto smaltimento, mentre, in realtà, i rifiuti venivano consegnati a nomadi del luogo, che li abbandonavano sul


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territorio. Nel corso delle indagini è stato verificato che i luoghi di destinazione indicati nei formulari di trasporto corrispondevano, però, a discariche di rifiuti sequestrate in aree del Veneto e dell'Emilia Romagna. I trasportatori dichiaravano di aver eseguito i trasporti nei luoghi indicati affermando, però, che i carichi contenevano rifiuti speciali (morchie di verniciatura, pitture e altro) oltre che rifiuti metallici. Scaricati i rifiuti, i responsabili si recavano con lo stesso formulario presso due società venete, dove effettuavano un nuovo carico di rifiuti speciali con le stesse destinazioni illegali in zone di Rovigo, Ferrara e Bologna (aree visitate dalla Commissione).
La direttrice degli smaltimenti illeciti Piemonte-Emilia-Veneto non faceva capo solo alla società gestita dalla vittima degli atti estorsivi: sono stati, infatti, sequestrati alcuni camion contenenti miscelazioni di rifiuti speciali pericolosi (nichel, manganese e cadmio) provenienti da un'altra società e destinati ad una ditta di Arezzo, che è risultata inesistente, mentre è stato accertato che i trasporti di rifiuti speciali pericolosi delle ditte venete erano, in realtà, tutti destinati ad una società di Napoli.
In sostanza, durante il tragitto da Venezia a Napoli i camion, muniti di formulari emessi dalle ditte venete per i rifiuti speciali pericolosi, ricevevano formulari (della società della vittima) che attestavano il trasporto di rifiuti speciali non pericolosi, così che la società di Napoli li poteva ricevere e riciclare nell'attività di produzione di bitume, altrimenti vietata per i rifiuti speciali pericolosi.
Gli smaltimenti illeciti, poi, avrebbero avuto la regia di un solo personaggio del milanese, che gestirebbe l'intero mercato parallelo e illegale di rifiuti pericolosi nel nord Italia, avendo sotto il proprio controllo sia le imprese dedite alla produzione e stoccaggio dei rifiuti, che i siti destinati allo smaltimento illecito. Tale personaggio - secondo quanto sin qui emerso - «reclutava» fra gli stessi imprenditori in difficoltà, commissionando trasporti e stoccaggi di rifiuti pericolosi, naturalmente illeciti, ed indicando altresì le località in cui i rifiuti dovevano essere prelevati e successivamente occultati e abbandonati; in cambio dell'attività d'intermediazione svolta, il predetto riceveva consistenti somme di danaro «in nero» sia dallo smaltitore dei rifiuti che dal produttore degli stessi.
Nella vicenda è coinvolto anche un personaggio attualmente sottoposto a misura di prevenzione per associazione per delinquere di stampo mafioso e collegato a note «famiglie» camorristiche del napoletano, che aveva il compito di indicare i terreni in cui i rifiuti dovevano essere abbandonati.
Tale vicenda rivela l'esistenza di ramificati rapporti tra alcune società produttrici di rifiuti, ubicate prevalentemente nel nord Italia, e società dedite allo stoccaggio e smaltimento illecito, nonché società «fantasma», che vengono costituite fittiziamente, al solo scopo di giustificare l'avvenuto smaltimento e riciclaggio previsto dalla legge. In ciascuna di queste società (vuoi di smaltimento, vuoi di autotrasporto dei rifiuti) interessate alle diverse fasi dell'attività illecita, gravitano, poi, soggetti collegati o comunque vicini alla criminalità organizzata, adusi a regolare i loro rapporti interni facendo ricorso sistematico all'intimidazione violenta e armata.


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Sempre relativamente al Piemonte un collaboratore di giustizia sulle attività di Cosa Nostra ha parlato del riciclaggio del denaro proveniente dal traffico degli stupefacenti proprio nel settore dello smaltimento dei rifiuti speciali e pericolosi. In una intercettazione telefonica, non mancano riferimenti ad una discarica piemontese dove, a seguito dell'alluvione del 1994, galleggiavano dei fusti e alcuni personaggi esprimevano una certa preoccupazione; in particolare, uno di essi, poi identificato nel titolare della discarica abusiva di Montanaro, si esprimeva dicendo che «l'acqua bolle» e non poteva più ricevere nulla.
L'ipotesi della ricorrenza dell'associazione per delinquere non ha comunque retto al vaglio dell'organo giudiziario, ma questo solo per via della natura contravvenzionale delle norme in materia di smaltimento di rifiuti e l'assenza di riscontri di eventuali operazioni finanziarie o intrecci societari sospetti, che potessero confortare le ipotesi di riciclaggio. È certo tuttavia che nella cava di Montanaro, oggetto delle «attenzioni» degli interlocutori telefonici, sono stati effettivamente rinvenuti diversi bidoni contenenti rifiuti di varia tipologia emersi in superficie in occasione del citato alluvione; mentre si è accertato che nel sito era stato smaltito di tutto, dai rifiuti costituiti da sfridi e ritagli da lavorazione di gomma e plastica a rifiuti urbani, da polveri di fonderia a lattine, contenitori di plastica, legno e stracci.
Le analisi effettuate nell'immediatezza dell'evento alluvionale hanno inoltre rivelato la presenza nella discarica di coloranti classificabili come rifiuti tossico-nocivi, nonché la contaminazione delle acque da azoto ammoniacale e da rifiuti speciali non assimilabili agli urbani.
Anche questa vicenda mostra le difficoltà che angustiano l'operato degli organi investigativi impegnati nella lotta ai crimini contro l'ambiente, difficoltà che questa Commissione intende continuamente ricordare. Anzitutto, l'incompatibilità strutturale tra la fattispecie associativa e i reati in materia ambientale, che sono prevalentemente di natura contravvenzionale, tranne i casi in cui ricorrono altre ipotesi delittuose, come la truffa, le false fatturazioni, il disastro ambientale o l'avvelenamento delle acque (come nella vicenda estorsiva sopra descritta); il fatto che tali indagini richiedono tempi lunghi e l'utilizzo di una serie di strumenti investigativi non conciliabili con la natura contravvenzionale delle fattispecie sanzionate, caratterizzate dalla brevità del termine di prescrizione e dall'impossibilità, appunto, di accedere a strumenti investigativi particolarmente utili, come le intercettazioni telefoniche e ambientali; la necessità di cogliere, al di là della singola vicenda di questa o quella discarica abusiva, aspetti di connessione e collegamenti con società e/o persone che spesso travalicano la competenza territoriale di un singolo ufficio giudiziario e, quindi, richiedono forme stabili di collegamento tra uffici giudiziari, nonché delle forze dell'ordine; l'assoluta inidoneità sotto il profilo sanzionatorio delle condotte incriminate in materia, perché le pene, davvero assai blande a fronte, poi, di profitti considerevoli e del breve termine di prescrizione, da


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un lato non fungono da deterrente ai comportamenti illeciti e, dall'altra, non sembrano giustificare l'impiego di mezzi e risorse investigative così consistenti e costose.

3. Le attività illecite e il ruolo della pubblica amministrazione

Appare necessario sottolineare, a questo punto, come l'incremento delle possibilità di influenza delle organizzazioni criminose nella complessiva attività di gestione dei rifiuti sia necessariamente favorito dall'atteggiamento non sempre limpido e corretto assunto da alcune amministrazioni pubbliche nel momento in cui vengono a confrontarsi con le delicate problematiche connesse allo smaltimento dei rifiuti.
La Commissione ha dovuto più volte registrare nel corso della sua attività condotte gravi tenute da amministratori locali, esemplificative di detto coinvolgimento, a vario titolo, di funzionari del settore, in particolare nelle aree del mezzogiorno e del sud, ma da cui non sono risultate affatto immuni regioni del centro e del nord del Paese: si passa - e le vicende calabresi ne sono un esempio - dai comportamenti disinvolti o di mera compiacenza di alcuni amministratori ai casi in cui la loro attività è pesantemente condizionata dalla forte carica intimidatoria che promana dalle organizzazioni criminali operanti sul territorio, sino alle ipotesi di vere e proprie attività corruttive.
In Calabria si sono verificati casi di tale genere soprattutto nell'aggiudicazione di appalti da parte di amministrazioni comunali (come per il servizio di nettezza urbana del comune di Catanzaro); ma non mancano fattispecie in cui le amministrazioni pubbliche procedono all'affidamento del servizio di smaltimento dei rifiuti, anche attraverso la realizzazione degli impianti, a società a capitale misto ovvero ad imprese private, senza procedere ai necessari e dovuti controlli, come è avvenuto nella vicenda relativa alla individuazione e costruzione degli impianti di smaltimento e trattamento dei rifiuti di Rossano Calabro, Reggio Calabria e Catanzaro Lido-Alli, dove, peraltro, è mancato ogni controllo sia da parte del Ministero del bilancio sull'effettivo, corretto utilizzo delle somme Fio da parte delle regioni, sia da parte di queste ultime sull'operato dei comuni.
Sempre in Calabria: a Corigliano Calabro, è stata trovata una discarica dove confluivano i rifiuti urbani e speciali provenienti dai comuni di Corigliano Calabro, Crosia e San Giorgio Albanese, che è risultata attivata senza l'autorizzazione da parte della regione Calabria e gestita in assenza dei requisiti richiesti dalla normativa vigente, quindi con il coinvolgimento nel procedimento penale (tuttora pendente) oltre che del titolare della discarica, dei sindaci dei comuni che hanno consentito e ordinato il conferimento presso la discarica abusiva dei rifiuti prodotti nel territorio di propria competenza; nel comune di Acri è stata individuata un'attività di trasporto e smaltimento illecito di rifiuti pericolosi (in particolare, miscele di solventi polari e di sostanze organiche ad alta concentrazione di cromo e materiale solido costituito da cuoio), effettuata nel corso del 1997.
I rifiuti, trasportati su un autotreno, in parte venivano scaricati su un terreno sito in località Serra Cavallo del comune di Bisignano,


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in parte smaltiti presso la discarica di rsu del comune di Acri, pur in assenza delle prescritte autorizzazioni regionali al trasporto e allo smaltimento di tali rifiuti pericolosi.
Va ricordata, ancora, l'operazione che ha portato all'arresto dei gestori di un impianto di smaltimento di rifiuti ospedalieri di Crotone: gli imprenditori realizzavano truffe in danno di aziende sanitarie locali, dichiarando quantità di rifiuti smaltite superiori a quelle effettivamente trattate.
Una vicenda analoga ha interessato la provincia di Reggio Calabria, dove, a seguito di un controllo effettuato dai carabinieri su un furgone della ditta Salvaguardia ambientale di Crotone, è emerso che i colli di rifiuti ospedalieri trasportati erano in numero inferiore a quelli segnalati dai documenti di viaggio. Dalle ulteriori verifiche condotte sulla documentazione di accompagnamento dei colli contenenti i rifiuti, è risultato che ciò si era ripetuto per numerosi trasporti, consentendo alle ditte incaricate del servizio di trasporto e smaltimento di tali rifiuti dalla Asl 11 di Reggio Calabria, di lucrare con tale condotta truffaldina della notevole differenza tra il caricato ed il documentato, grazie anche al comportamento compiacente di alcuni funzionari dell'ente ospedaliero (inoltre l'incarico alla ditta di trasporto era avvenuto con provvedimenti di proroga rispetto ad un precedente incarico ormai scaduto).
In Liguria, nella vicenda di Borghetto Santo Spirito risulta coinvolto un ex sindaco nonché socio in diverse aziende di smaltimento; in provincia di Savona sono state rinvenute discariche abusive soprattutto a Cairo Montenotte ed a Magliolo, contenenti ingenti quantità di rifiuti di ogni tipologia, provenienti anche da importanti aziende nazionali.
In Piemonte, è in corso un'indagine presso la procura della Repubblica di Novara, relativa ad attività illecite che vanno dalla raccolta di rifiuti prodotti in Lombardia ed avviati illecitamente in discariche del Piemonte alla gestione illecita di impianti di incenerimento e depurazione delle acque. Tra gli altri, risultano inquisiti il gruppo Acqua dei fratelli Pisante, già coinvolto in iniziative giudiziarie delle procure di Milano, Monza, Catania e Savona; nonché imprenditori, amministratori e politici locali, a testimonianza della rilevanza degli interessi in gioco e dei collegamenti tra settori deviati dell'imprenditoria, della pubblica amministrazione e della politica (per lo più ipotesi di corruzione).
Le vicende relative alle discariche di Peschici e di Cagnano Varano in Puglia sono altri esempi di «cattiva» gestione da parte delle amministrazioni locali: esse non erano autorizzate dalla regione ma erano state create in base all'articolo 12 del decreto del Presidente della Repubblica n. 915 del 1982, con provvedimenti risalenti, rispettivamente, al 1985 ed al 1992. In entrambi i casi è stata riscontrata una totale noncuranza anche per le prescrizioni minime che si dovrebbero in ogni caso osservare. Così pure l'inchiesta aperta sulla discarica ubicata in località «Tavole di pietra» del territorio comunale di Peschici, nelle immediate vicinanze di un comprensorio boscoso, dove i rifiuti venivano sottoposti a combustione causando l'immissione nell'aria di ingenti quantità di fumo maleodorante, ed in ogni caso dannoso all'ambiente ed alla salute


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pubblica. Tale discarica era, inoltre, priva di qualsiasi tipo di sorveglianza e la mancata periodica copertura dei rifiuti con inerti comportava la diffusione dei rifiuti leggeri fuori dalla discarica, con grave pregiudizio per l'area circostante. Peraltro, la zona ricade nel parco nazionale del Gargano e tali irregolarità hanno causato, nel passato, l'incendio della vegetazione attigua alla discarica.
In Sicilia, si è registrato un uso abnorme dell'autorizzazione di discariche in emergenza (ai sensi dell'articolo 12 del decreto del Presidente della Repubblica n. 915 del 1982 prima e dell'articolo 13 del «decreto Ronchi» poi), che le amministrazioni comunali hanno spesso affidato a ditte non autorizzate, prive dei requisiti di legge ed avvalendosi di trattative private, come testimoniano i numerosi sequestri effettuati dalla magistratura. I procedimenti principali hanno riguardato le discariche di Acireale, Paternò, Mascali, Giarre, Nicolosi, Cesarò, Belpasso, Motta S. Anastasia, Randazzo. In primo grado si sono già conclusi molti processi con sentenza di condanna (discariche di Paternò, Mascali, Giarre).
Un caso particolare è rappresentato dalla discarica di Catania (Grotte San Giorgio), utilizzata sin dal 1983 sulla base di ordinanze contingibili ed urgenti emesse dapprima dal commissario straordinario del comune di Catania e (dopo circa un decennio di «silenzio» amministrativo) dal sindaco in carica.
La discarica è sita su di un vasto fondo di proprietà della ditta Sicula Trasporti srl, la quale provvede in proprio alla gestione delle fasi di compattamento e seppellimento dei rifiuti. Tali operazioni venivano svolte da oltre dieci anni senza un valido provvedimento autorizzatorio, con modalità assolutamente pericolose per l'ambiente (mancanza di precauzioni per l'inquinamento delle falde, realizzazione di cumuli prospicienti strade di grande comunicazione alti oltre diciotto metri, senza recinzione) e da parte di ditta priva di autorizzazione regionale per la gestione della discarica. Nel relativo procedimento penale di primo grado sono imputati l'assessore alla nettezza urbana e i due gestori della Sicula Trasporti.
I rapporti tra il comune di Catania e la ditta in questione erano regolati fino a recente da un contratto di diritto privato prorogato sempre tacitamente; oggi sono regolati sulla base di un atto concessorio, il quale tuttavia è all'attenzione della procura in quanto affida ancora una volta la gestione alla medesima ditta non autorizzata e priva dei requisiti di legge.

3.1 Il caso di Portella Arena (Me)

Un discorso a parte merita la vicenda della discarica di Portella Arena, venuta alla ribalta, a seguito del nubifragio del 27 settembre 1998, che ha causato un notevole smottamento di terreno dal sito della discarica, congiuntamente a un'inondazione di notevole consistenza; eventi, questi, che hanno determinato la morte di tre persone, trascinate nel torrente Ciaramita con la vettura nella quale viaggiavano, nonché ingenti danni a un considerevole numero di autovetture e, in definitiva, uno stato di concreto ed effettivo pericolo per la pubblica incolumità: tutti fatti che appaiono riconducibili al combinato disposto degli articoli 426 e 449 del codice penale.


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Risulta, inoltre, da una nota del Genio civile di Messina del 7 ottobre 1998, che si è verificata l'occlusione di una arcata centrale del ponte della strada statale n. 113 sul torrente Pace, con invasione delle acque fuoriuscite nella carreggiata della sede stradale, nonché di un consistente materiale costituito da scarti, rifiuti e suppellettili vari ai bordi della pista abusiva in alveo che conduce in contrada Marotta.
Nel torrente scorrevano rifiuti di ogni genere (pneumatici, suppellettili varie, ferraglia ed elettrodomestici, massi di cemento enormi e spezzoni di asfalto), nonché materiale solido proveniente dalla discarica di Portella Arena, ubicata immediatamente a monte.
La discarica è risultata, in particolare, non protetta da alcuna opera di presidio o di contenimento; sono apparse inadeguate, se non addirittura assenti, le opere finalizzate alla raccolta, al convogliamento ed allontanamento delle acque superficiali che confluiscono dall'esterno verso il corpo della discarica. Come la Commissione ha avuto modo di constatare direttamente, le condizioni sopra descritte non sono affatto mutate e ciò porta a non escludere, in concomitanza di nuove forti piogge, il collasso della zona esterna della discarica con conseguente occlusione dei materiali franati dell'alveo torrentizio lungo il quale avviene il naturale deflusso delle acque.
Non va peraltro sottaciuto che già nel settembre 1993 gli stessi tecnici del settore ambiente della provincia di Messina, dopo aver posto in rilievo che la discarica è localizzata nell'ambito dell'impluvio del torrente Pace (circostanza di per sé inusuale e censurabile), hanno affermato che «il pericolo di un crollo del fronte con cui avanzano i rifiuti è incombente», ipotizzando che «tra 6 o 9 mesi il fronte di avanzamento della discarica in assenza di appositi provvedimenti giungerà ad interessare direttamente il torrente Paglierino» con conseguenti problemi di normale deflusso delle acque; in quella sede venivano proposti degli interventi assolutamente necessari per una corretta applicazione delle norme di cui al decreto del Presidente della Repubblica n. 915, interventi che non risultano essere stati eseguiti.

3.2 Le discariche Andolina e IGM1 di Siracusa

Sempre in Sicilia, vanno segnalate le vicende relative alla gestione della discarica Andolina nel comune di Melilli (SR) e della discarica Igm1 a Siracusa, di cui la Commissione ha avuto modo di occuparsi direttamente.
La prima è una discarica di II categoria tipo B per lo smaltimento di alcune tipologie di rifiuti speciali, ufficialmente non operativa dal 1o aprile 1998. Il sito era in origine una cava in cui venivano smaltiti materiali di risulta dell'area industriale siracusana. Nulla è a conoscenza della Commissione su operazioni di eventuale bonifica del preesistente sito prima della stesura del manto di discarica.
È emerso che l'autorizzazione all'esercizio della discarica (del 30 ottobre 1992) riguardava un volume (86.561 metri cubi) in realtà inferiore alla reale cubatura della discarica (circa 120mila metri


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cubi), tanto che la ditta, al fine di utilizzare il volume residuo, nel giugno 1995 aveva presentato istanza alla regione, ma la provincia di Siracusa, già nell'aprile 1998, aveva invitato la ditta a sospendere l'esercizio della discarica per il raggiungimento della cubatura autorizzata. Al titolare dell'autorizzazione della discarica (Andolina Giuseppe) subentrava la vedova Rizzo Sebastiana, ma in realtà la Commissione ha potuto accertare che la discarica è gestita di fatto dalla ditta Aprile a mezzo di propri dipendenti.
Nella discarica in questione sono stati sversati rifiuti liquidi ospedalieri ed anche industriali pericolosi, ma nonostante le diffide da parte della regione la ditta ha continuato in tale attività sino alla chiusura del sito, per come è emerso dai certificati di avvenuto smaltimento richiesti sia alla ditta che ai produttori del rifiuto. Inoltre, nel sito di discarica non sono state rispettate le prescrizioni dell'autorizzazione regionale. In particolare: i rifiuti venivano sistemati senza essere sottoposti ad elevata compattazione per evitare fenomeni di instabilità e non venivano ricoperti; il percolato non sempre veniva inviato ad impianti di smaltimento, ma era disperso sulla superficie della discarica con gravi problemi di contaminazione dell'atmosfera. Dagli accertamenti effettuati dalla Commissione è risultato poi che sono state smaltite in discarica tipologie di rifiuti non autorizzate, come oli usati tal quali, o notevoli quantità di legni trattati con sostanze funghicide e antibatteriche, quali legni da demolizione di barche conferiti dalla società Ecopeco e legni provenienti dall'Enel di S. Filippo del Mela (probabilmente pali della rete elettrica aerea utilizzati nel recente passato e poi dismessi).
Tra i casi più rappresentativi di smaltimenti di rifiuti liquidi avvenuti nella discarica in questione, vi sono quelli di fanghi di alchilazione della raffineria Esso di Augusta conferiti e smaltiti tal quali in discarica dalla ditta Aprile; di fanghi di alchilazione dell'azienda Condea di Augusta; di liquidi oleosi e oli usati nonché di acque di depurazione da varie utenze (autolavaggi, officine) e di fanghi liquidi da impianti di depurazione di acque oleose, questi ultimi conferiti dalla ditta Aprile e prodotti dalla stazione Avio Esso di Catania, dalle officine delle Ferrovie dello Stato di Catania e di Palermo, Enel di Termini Imerese; di fondami acquosi di serbatoi di stazioni di servizio carburanti della Esso Italiana, dell'Agip, della Ip (con presenza di benzene), dei quali peraltro manca ogni evidenza analitica; di fondami di olio combustibile denso provenienti dalla Iciom di Catania e dalla raffineria Erg di Melilli e fondami oleosi provenienti dalla Raffineria di Milazzo.
Ebbene, la discarica Andolina, pur essendo ufficialmente chiusa dal 1o aprile 1998 per aver esaurito la sua capacità di smaltimento, risultava ancora attiva al 15 luglio 1998 (secondo i certificati di avvenuto smaltimento inviati alle aziende produttrici del rifiuto smaltito in discarica); ancora il 20 luglio 1998, consulenti della Commissione appuravano che alcuni mezzi di sollevamento terra effettuavano operazioni di rimescolamento e sollevamento dei rifiuti depositati.
La ditta Aprile è anche proprietaria di un impianto di stoccaggio che, al momento della visita di consulenti della Commissione (aprile 1998) non conteneva alcuna tipologia di rifiuto stoccata, se si


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eccettuano pochi fusti rinvenuti dai carabinieri sulla Catania-Siracusa, smaltiti abusivamente da ignoti e tenuti in custodia presso lo stoccaggio. In realtà, il vero stoccaggio (non autorizzato) avviene presso l'area di trattamento della ditta Aprile (che non è adeguata allo scopo), in attesa appunto del trattamento stesso. Quanto all'impianto di trattamento di rifiuti speciali pericolosi e non pericolosi, costituito da un ampio piazzale, da alcuni capannoni e due vasconi (apparecchiature utilizzate per i trattamenti: una centrifuga per fanghi, due betoniere per i trattamenti di inertizzazione equipaggiate con nastri trasportatori e tramogge di carico, una pressa per fusti) la Commissione ha dovuto formulare una serie di rilievi di cui è stato informato l'ufficio di procura competente di Siracusa, che vanno dalla inadeguatezza del sistema antincendio alla mancanza di un sistema di captazione, collettamento e successiva depurazione di fumi, polveri, odori; ai problemi evidenti di housekeeping con presenza di zone sporche e contaminate da rifiuti. E, più in generale, alla gestione complessiva dell'intero impianto.
Le vicissitudini della discarica Andolina hanno trovato nella discarica Igm1 un ammortizzatore ed un volano per coprire la punte di smaltimento dei rifiuti prodotti dalle aziende del siracusano e con le quali le ditte Aprile e Nico (conferitori alla discarica) hanno contratti in essere; dopo la chiusura della discarica Andolina, il fatturato della Igm1 ha avuto un'impennata e la tipologia dei rifiuti conferiti è divenuta più varia rispetto agli smaltimenti iniziali.
Una delegazione della Commissione ha fatto visita alla citata discarica il 26 maggio 1998. Nel corso del sopralluogo è emerso che esiste un lago di liquido nero il cui odore lascia pensare a fondami di prodotti petroliferi e oli usati smaltiti tal quali, senza alcuna operazione di trattamento da parte dei produttori o dei trasportatori; i rifiuti non vengono compattatti e sono smaltiti in catalizzatori pulvurulenti senza alcuna precauzione ed in aperto contrasto sia con le prescrizioni dell'autorizzazione sia con quelle della delibera tecnica; il percolato viene smaltito presso la ditta Aprile dopo un trattamento di inertizzazione che si configura come vera e propria diluizione del rifiuto; vengono smaltiti residui oleosi e oli usati tal quali senza alcun trattamento.
È evidente la non corretta gestione dell'attività di entrambe le discariche, agevolata dalla carenza di controlli da parte degli organi amministrativi. Di tale attività e dei risultati degli accertamenti effettuati, la Commissione ha provveduto a dare notizia all'ufficio di procura competente di Siracusa, che nel 1999 è intervenuta disponendo il sequestro della discarica Igm1, poiché si continuava ad alimentare la discarica medesima oltre i limiti consentiti. A seguito del sequestro, la ditta avrebbe comunque ottenuto l'autorizzazione a realizzare, in una località adiacente a quella del sito precedente, un altro bacino di discarica, che è entrato in funzione.
Le vicende relative alla gestione delle discariche Andolina e Igm1 che si sono evidenziate, se da una parte sono significative della carenza di controlli amministrativi nel settore, dall'altra tradiscono uno stato di prolungata inerzia della magistratura locale a fronte di illiceità palesi. E anche quando finalmente interviene la doverosa verifica della magistratura, tale azione non investe organicamente il


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complesso delle attività illecite ma solo singoli profili; non solo, per quanto riguarda la discarica Andolina, l'azione è inefficace giacché interviene solo dopo la chiusura dell'attività dell'impianto per l'esaurimento della capacità ricettiva.

3.3 Le discariche di Cerro Maggiore (Mi) e di Monte Ardone (Pr)

Va poi ricordata l'inchiesta connessa alla costruzione e gestione della discarica di Cerro Maggiore di cui già la precedente Commissione monocamerale si era occupata. L'organo d'accusa configura a carico di amministratori e componenti del collegio sindacale della Simec spa l'ipotesi della truffa continuata per il conseguimento di pubbliche erogazioni (articolo 640 bis codice penale). Costoro, infatti - con il raggiro di esporre nei bilanci ricavi indebitamente percepiti con aumenti ingiustificati della tariffa di conferimenti rsu e nei piani finanziari prodotti dalla regione Lombardia costi di gestione indebitamente calcolati in eccesso - avrebbero indotto in errore l'ente pubblico sulla determinazione del prezzo di tariffa da corrispondere per il servizio di conferimento dei rifiuti solidi urbani ed assimilabili nella discarica di Cerro Maggiore e per i contributi ai comuni di Cerro Maggiore e Rescaldina e alla provincia di Milano. Si sarebbero pertanto dal 1990 in poi procurati l'ingiusto profitto determinato dalla tariffa calcolata in eccesso e dagli indebiti aumenti tariffari conseguiti, in danno della regione Lombardia e dell'Amsa. Per tale motivo la Commissione tributaria, in primo grado, ha condannato la Simec al pagamento di 64 miliardi di lire, pari alle imposte dirette, comprensivi di diritti e soprattasse, che la discarica non avrebbe pagato allo Stato negli anni 1992 e 1993.
La Commissione ha registrato carenze nel ruolo della pubblica amministrazione anche in merito alla vicenda della progettata realizzazione della discarica di Monte Ardone, in provincia di Parma. Per una più dettagliata descrizione della vicenda si rimanda a quanto già evidenziato nella relazione sull'Emilia Romagna(13): è tuttavia opportuno ricordare che l'avvio della realizzazione dell'impianto ha fatto emergere rilevanti difficoltà ambientali, tra cui la scelta della zona (un calanco) e il passaggio sotto la progettata discarica di un metanodotto. Nonostante tali difficoltà la provincia di Parma ha ritenuto di confermare la sua scelta, ma soprattutto non ha avviato quegli impianti (in primis quello per la selezione della raccolta differenziata) pensati al servizio della discarica ed ora inutilizzati, col risultato che i rifiuti della provincia continuano ad essere smaltiti per lo più fuori ambito.

(13) V. doc. XXIII n. 32.

Più in generale, e riferendosi a tutto il territorio nazionale, la Commissione ha registrato l'esistenza di numerosissimi procedimenti attinenti a varie violazioni del «decreto Ronchi» e, soprattutto, riguardanti delitti di criminalità economica strumentali alla perpetrazione di delitti contro la pubblica amministrazione e di truffa, che hanno per oggetto reati commessi da pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione in relazione ad appalti per lavori di pulizia, raccolta, trasporto e smaltimento di rsu; in relazione ad autorizzazioni rilasciate per l'impianto, la gestione e l'ampliamento di


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discariche; nonché per il rilascio di ordinanze contingibili ed urgenti emesse in mancanza dei presupposti richiesti dalla legge e, conseguentemente, in relazione agli illeciti penali conseguenti al monopolio di fatto costituito in materia.
Il punto di contatto tra queste tipologie e quelle in cui appare evidente l'attività crescente delle organizzazioni criminali anche di stampo mafioso sembra potersi individuare nella gestione del sistema amministrativo locale che, dovendo funzionare come controllo autorizzatorio, in realtà sembra non svolgere con la dovuta intensità tale compito.
Numerose e varie sono state le ragioni che hanno portato a questa situazione. Quella che, a giudizio della Commissione, sembra essere la più rilevante e pregna di significato, è relativa al controllo degli appalti della pubblica amministrazione. Proprio l'assenza dei dovuti, necessari controlli delle amministrazioni pubbliche favorisce e rafforza l'intromissione delle organizzazioni criminali, aprendo il campo alla possibile attività di imprese prive di specifica organizzazione ed esperienza nel settore dei rifiuti e magari costituite artatamente, per lucrare degli enormi guadagni connessi agli smaltimenti illeciti. Si assiste perciò, sovente, alla presentazione di offerte anomale o comunque non fondate su una reale analisi del rapporto costi-profitti, ovvero alla partecipazione alle gare di una pluralità di ditte che sono, tra loro, direttamente collegate, al di là della titolarità formale, in quanto fanno capo alla medesima compagine, che è solita operare con modalità illecite; in alcuni casi, addirittura, le imprese aggiudicatarie dell'appalto si servono, per l'intero svolgimento del servizio, di altri soggetti, che operano in modo illecito, dando luogo a smaltimenti incontrollati, con gravissime ripercussioni sulla situazione ambientale e danno per la salute pubblica.
Emerge inoltre un'ulteriore limite nell'azione della pubblica amministrazione, come si vedrà meglio più avanti a proposito di altre vicende illecite (in particolare quelle legate al cosiddetto «riciclaggio fantasma»): si fa riferimento al mancato o scarso controllo che gli enti locali - produttori dei rifiuti - effettuano sulla destinazione dei rifiuti prodotti. Da un'indagine svolta dalla Commissione su tutti i comuni italiani(14) è infatti risultato che questi nel 47,2 per cento dei casi richiedono il certificato di avvenuto smaltimento, e alcuni comuni si accontentano del duplicato del documento di trasporto.

(14) Al questionario rispose il 54,3 per cento dei comuni interpellati, rappresentanti il 71,3 per cento della popolazione italiana.

La debolezza del sistema contribuisce di fatto a che mafia, 'ndrangheta e camorra e le altre organizzazioni similari occupino - anche in questo settore - tutti gli spazi da cui è possibile trarre una utilità, ponendosi come forza mediatrice fra autorità locali e società, tra mercato e Stato. Questa «vocazione imprenditoriale» delle organizzazioni mafiose spiega perché esse orientino il loro campo di azione sulle opportunità che, nel tempo, i vari mercati offrono. Così la mafia approda ai rifiuti non appena si manifesta una crescita economica del settore, impadronendosi di alcuni snodi fondamentali ed impedendo che tale crescita si trasformi in sviluppo vero e proprio, poiché va a stravolgere le regole del mercato legale.


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Un altro interessante fronte è quello che si può ricavare dal ricorso alle relazioni ex articolo 15 bis della legge 19 marzo 1990, n. 55, e da tutte le altre ipotesi di relazioni prefettizie per lo scioglimento dei consigli comunali. Dagli atti acquisiti dalla Commissione si evince con chiarezza come il fenomeno del condizionamento degli appalti di gestione, realizzazione ed utilizzo delle discariche e, in genere, dei servizi di raccolta dei rsu, sia diffuso e come lo stesso sia stato segnalato nell'ambito delle procedure di scioglimento dei consigli comunali.
Da questo punto di vista la Commissione invita gli enti locali a mettere in atto tutti i possibili strumenti di vigilanza, in vista della modifica alla normativa che regola i servizi pubblici negli enti locali; in particolare le novità previste riguardano il servizio di raccolta rifiuti, che non potrà più essere gestito «in economia» ma dovrà essere dato obbligatoriamente in appalto. Esiste evidentemente il rischio - alla luce anche di quanto descritto sin qui - che le aziende collegate alla criminalità organizzata impongano i loro «servizi» agli enti locali; specie nelle regioni a tradizionale presenza mafiosa dovranno quindi essere attivati strumenti nuovi, prevedendo anche l'impiego delle prefetture per il controllo della reale titolarità delle aziende che si presenteranno alle gare d'appalto.
La grave situazione descritta condiziona, inevitabilmente, le possibilità di sviluppo di un mercato legale in grado di rispondere positivamente alla necessità di garantire un efficiente servizio ai cittadini e alle imprese.
È necessario, pertanto, andare avanti in un'azione di responsabilizzazione delle aziende del settore, le quali in molti casi - e lo vedremo meglio nel proseguo - appaiono purtroppo più inclini alla ricerca del massimo profitto che non ad uno smaltimento corretto e pertanto più oneroso, nonché di recupero del controllo del territorio da parte degli enti locali, dotati di uffici e servizi qualificati e adeguati all'ampiezza del territorio e alla popolazione, poiché la debolezza delle funzioni di controllo amministrativo è una delle condizioni principali per la penetrazione nel settore degli operatori più spregiudicati e, quindi, delle organizzazioni criminali di riferimento.

3.4 La discarica di Pitelli

I lavori svolti dalla Commissione sulle vicende legate alla gestione della discarica di Pitelli dimostrano proprio la debolezza delle funzioni di controllo amministrativo e la necessità di un loro pronto recupero, se si vuole evitare che episodi così gravi e con effetti devastanti sull'ambiente possano ancora ripetersi.
Il procedimento penale sulla discarica e gli impianti di Pitelli pendente presso la procura del tribunale di La Spezia, trae origine da un'inchiesta avviata dalla procura di Asti, che perseguiva un'attività truffaldina legata al ciclo dei rifiuti in cui sono coinvolti numerosi personaggi del settore, tra cui il titolare degli impianti di Pitelli, Orazio Duvia, consigliere d'amministrazione della società


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Sistemi ambientali srl, amministratore unico della Contenitori trasporti spa e socio di fatto della Ipodec srl, tutte società che operano a La Spezia nel ciclo dei rifiuti.
L'attività illecita consisteva nella sistematica falsificazione di documenti di accompagnamento (tesi a consentire l'ingresso in discarica di materiali non autorizzati) e nella falsificazione di dichiarazioni di avvenuto smaltimento di rifiuti; nella commissione di truffe in danno di enti pubblici e privati ai quali venivano fatturati costi di smaltimento non affrontati; infine, nel sistematico illecito smaltimento di rifiuti tossico-nocivi provenienti dal territorio nazionale e dall'estero. Tali condotte illecite, cominciate nel 1975 (quando cioè nasce la discarica), erano agevolate dalla notevole capacità penetrativa dei soggetti coinvolti, tra cui il Duvia, negli enti pubblici di varia natura preposti al controllo e proseguivano anche durante il periodo in cui la discarica di Pitelli era sottoposta a sequestro giudiziario.
Lo stato di degrado dell'area di Pitelli - verificato anche dalla Commissione nel corso di un sopralluogo - è tanto grave da aver determinato l'intervento del legislatore, con la previsione dell'inclusione del sito tra quelli ad alto rischio ambientale, per i quali sono previsti finanziamenti statali per le opere di bonifica.
A prescindere da ogni valutazione sui profili squisitamente penali, sono innegabili alla luce dei numerosi elementi acquisiti dalla Commissione (ed esposti analiticamente nel documento citato, cui si fa rinvio) le illegalità commesse dai vari organi amministrativi competenti al controllo sulla discarica e sugli impianti. Già il primo atto, vale a dire la concessione edilizia per la realizzazione della discarica, pare viziato da irregolarità, poiché l'utilizzo dell'area non poteva essere consentito, in quanto il piano regolatore ne prevedeva l'uso in parte quale zona panoramica ed in parte quale zona per l'edilizia economica e popolare. Tutti gli atti amministrativi successivi alla data del 1979 riposano su tale vizio di fondo, che in seguito viene addirittura rilevato e non preso in considerazione. Intanto, nel sito della discarica e degli impianti, avvengono sversamenti continui di ingenti quantitativi di rifiuti pericolosi per circa un ventennio, causando uno stato di inquinamento notevole ed esteso sia alle acque sotterranee alimentate da falde superficiali che a quelle alimentate da falda profonda.
Il comportamento spregiudicato ed arrogante della pubblica amministrazione si spinge sino ai tempi più recenti: è del settembre 1995 (quando è già avviato alla procura presso il tribunale di La Spezia un procedimento, poi confluito in quello attuale, in cui veniva disposta una consulenza per accertare la legittimità dell'operato dei vari organi comunali, provinciali, regionali preposti ai controlli) la delibera regionale di approvazione del progetto di variante, che modifica la categoria della discarica in II B super, così autorizzandosi il conferimento di rifiuti che producono un eluato dieci volte superiore ai limiti della «legge Merli»; addirittura, nel mese di giugno 1998 interviene un atto della regione Liguria che diffida la Sistemi Ambientali dal concedere disponibilità di accesso al proprio impianto per lo smaltimento dei rifiuti ad aziende non autorizzate, e che


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appare incomprensibile dal momento che l'impianto era fermo dal novembre 1996, cioè dal momento dell'intervenuto sequestro giudiziario dell'intera area.
Va poi evidenziato che nella vicenda non sono mancate infiltrazioni della criminalità organizzata del casertano, rese evidenti dalla partecipazione alla Contenitori trasporti, nei primi anni novanta, di soggetti- amministratori della società che sono stati coinvolti nell'indagine «Adelphi» condotta dalla procura distrettuale di Napoli(15). Né ci si può esimere dall'esprimere perplessità per l'assenza (fino ad epoca recente) di un intervento organico da parte della magistratura, nonostante che rapporti delle forze dell'ordine e denunce dei cittadini risalgano già ai primi anni ottanta.

(15) V. relazione della Commissione sulla Liguria (doc. XXIII n. 13).

Sono stati numerosi, per la verità, i procedimenti della magistratura che hanno riguardato nel corso degli anni l'attività della discarica di Pitelli, di cui si dà conto nel documento elaborato dalla Commissione, senza che però si riuscisse a cogliere il fenomeno nella sua interezza e complessità. Certamente, ciò è in parte dipeso dall'assenza di coordinamento tra i diversi uffici giudiziari e dal fatto che attività ispettive e di accertamento, specie amministrative, erano fortemente esposte all'opera corruttrice del Duvia, come dimostrano le vicende giudiziarie più recenti. Non può negarsi, però, che l'assenza di un intervento serio ed incisivo rispetto alle vicende di Pitelli da parte della magistratura spezzina, tradisce ancora quel ritardo culturale nell'approccio alla tematica ambientale che ha causato una minore attenzione verso le problematiche della ricerca e dell'acquisizione della prova delle infrazioni, che già risentono di una legislazione convulsa, ancora frammentaria e spesso confusa; nonché dei limiti che alla ricerca ed acquisizione della prova discendono dalla natura prevalentemente contravvenzionale dei reati ambientali, come la Commissione ha più volte rappresentato agli organismi di indirizzo politico.

4. Le grandi imprese e gli illeciti nel ciclo dei rifiuti

4.1 Il petrolchimico di Porto Marghera (VE)

La Commissione ritiene opportuno evidenziare le vicende relative al gravissimo stato di inquinamento della laguna veneziana, ad esemplificazione delle conseguenze connesse agli smaltimenti illeciti di rifiuti tossico-nocivi (ampiamente diffusi nelle regioni settentrionali) da parte di alcune imprese di rilevanza nazionale che hanno operato al di fuori della legalità, più inclini, purtroppo, alla ricerca del massimo profitto che non ad uno smaltimento corretto e pertanto più oneroso dei rifiuti.
È in fase dibattimentale presso il tribunale di Venezia il procedimento che vede coinvolte numerose persone e le società che esse rappresentano - tutte operanti nel petrolchimico di Porto Marghera - per condotte illecite commesse in un periodo che va dal 1970 al 1988, e che hanno causato danni irreparabili sull'ecosistema lagunare veneziano(16).

(16) V. il procedimento n. 3340 del 1996 (doc. 213/8b).


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L'indagine ha preso avvio dalla segnalazione di numerosi casi di decesso e patologie connesse alla lavorazione del cloruro di vinile, dei composti organici clorurati e dei suoi derivati, con cui negli anni settanta e nella prima metà degli anni ottanta si produceva il Pvc nella zona di Porto Marghera.
Sono coinvolte società come la Montecatini Edison, la Fertimon, l'Audiset e la Montefluos. Il sostituto procuratore Felice Casson, titolare dell'indagine, ha riferito alla Commissione(17) che dagli accertamenti svolti è emerso come, sin dall'inizio dell'attività produttiva nell'area di Porto Marghera, i rifiuti di ogni specie e, soprattutto, tossico-nocivi, venivano smaltiti senza alcun controllo sia all'interno dello stabilimento che nelle sue vicinanze, contribuendo al progressivo avvelenamento delle acque di falda sottostanti l'area in cui sono state rinvenute tracce di composti anche cancerogeni superiori ai limiti consentiti. Si deve evidenziare che dagli accertamenti è risultato che al più tardi dal 1972 la Montedison era a conoscenza del fatto che il Cvm è una sostanza cancerogena, sicché sembra di poter affermare che la scelta sia stata dettata unicamente da meri interessi economici.

(17) V. audizione del 12 maggio 1998.

Ben diciotto sono i siti individuati, che presentano rifiuti pericolosi, gran parte dei quali vi sono stati sversati prima dell'entrata in vigore del decreto del Presidente della Repubblica n. 915 del 1982; da quel momento, come ha detto il magistrato, tali rifiuti sono stati portati altrove, anche all'estero (ad esempio, in Nigeria). Le contestazioni dell'organo d'accusa a carico di 27 imputati, tutti dirigenti o amministratori (o entrambi) del gruppo Montedison-Enichem e loro società figlie, sono particolarmente gravi, poiché hanno ad oggetto non solo gli smaltimenti illeciti di ingenti quantitativi di rifiuti assai pericolosi con le gravissime conseguenze sullo stato dell'ambiente di cui si è detto, avendo le società iniziato un'opera di bonifica, peraltro parziale, soltanto nell'agosto 1995; ma altresì i delitti di strage e di disastro per i concreti pericoli cagionati alla pubblica incolumità, tanto che ne sono derivate la morte e la malattia di un numero «allo stato ancora imprecisabile di persone» (così si legge testualmente nella richiesta di rinvio a giudizio) che prestavano la propria opera presso lo stabilimento petrolchimico. Decessi di cui le società hanno riconosciuto la loro responsabilità, offrendo un risarcimento pecuniario alle parti lese che - in gran parte - hanno accettato in cambio di ritirarsi dal procedimento.
Se la vicenda appena descritta fa riferimento agli anni passati, non possono trascurarsi altre fattispecie riscontrate presso lo stesso petrolchimico in epoca assai recente, culminate nel sequestro dello scarico Sm15 di Porto Marghera. In ordine a quest'ultima indagine lo stesso sostituto titolare, Luca Ramacci, ha denunciato alla Commissione(18) con toni allarmati «l'impressionante situazione di inquinamento e la concreta sussistenza di serissimo pericolo per la salute della popolazione» dovuta proprio agli scarichi del Petrolchimico. Si legge nel decreto di sequestro che gli indagati avrebbero effettuato o lasciato effettuare e comunque non avrebbero impedito


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lo scarico di reflui pericolosi provenienti dall'impianto di depurazione biologico della ditta Ambiente spa, con recapito finale nelle acque lagunari in assenza della prescritta autorizzazione, ciò pur essendo a conoscenza non solo della situazione esistente, ma anche dei risultati di accertamenti disposti sulla qualità e lo stato delle acque lagunari.

(18) V. audizione del 24 giugno 1998.

La gravità del fenomeno risulta accentuata dalle responsabilità dei rappresentanti degli enti preposti ai controlli, che hanno minimizzato il fatto ed omesso i necessari interventi a tutela della salute pubblica, anche in presenza di pregresse verifiche dell'Istituto superiore di sanità sullo stato di inquinamento della laguna veneta, acclarato anche dalla specifica normativa a sua tutela e dai numerosi procedimenti penali che avevano interessato il sito.

4.2 Traffici e smaltimenti illeciti dei rifiuti delle grandi imprese

La Commissione deve poi rilevare che quelli evidenziati per Porto Marghera non sono gli unici episodi che vedono coinvolte aziende del gruppo Eni per quanto concerne la non corretta gestione dei rifiuti. Oltre al caso - già descritto - relativo alla Pertusola Sud di Crotone, va segnalato che a Matera pende in primo grado un processo sulle attività svolte dall'Agip nel territorio della Basilicata, in cui sono imputati alcuni dirigenti e dipendenti dell'azienda in relazione al ritrovamento, in un pozzo minerario esaurito, di rifiuti di origine chimica (come fenoli e mercurio) che, secondo gli accertamenti svolti, sono assolutamente incompatibili con le attività di estrazione mineraria e, quindi, sono stati smaltiti illecitamente. Lo stesso sostituto titolare delle indagini ha rappresentato inoltre alla Commissione l'assenza di un presidio costante ai pozzi Agip ed il fatto che le vasche di decantazione presenti nell'impianto sono accessibili agli smaltitori che hanno l'appalto per il servizio di trasporto delle acque di strato, i quali si occupano di smaltimenti di rifiuti in discarica e, quindi, gestiscono notevoli quantitativi di rifiuti, non solo di provenienza Agip.
In Lombardia, la procura di Monza ha sequestrato circa 120 mila metri cubi di rifiuti pericolosi in relazione all'attività di una società - la Ecobat - che assorbe circa il 60 per cento del mercato nazionale relativo al trattamento di batterie esauste e a quella dell'Enirisorse, azienda del gruppo Eni. Secondo la documentazione in possesso della Commissione l'Enirisorse avrebbe ceduto l'attività a due ditte, per i metalli piombosi alla Ecobat, per quelli non piombosi alla City Industrie. Questi subingressi sarebbero avvenuti per la Ecobat nel marzo 1996 e per la City Industrie nell'agosto 1996. Tuttavia, la volturazione dell'annesso atto autorizzatorio per l'Ecobat è intervenuta soltanto nell'ottobre 1997; per City Industrie non risulta mai avvenuta. Ovviamente l'Enirisorse, stante la dismissione dell'attività, si è trovata a gestire enormi quantitativi di sostanze senza preoccuparsi, secondo l'ipotesi accusatoria, di smaltirli nel rispetto della normativa vigente. Avrebbe trovato degli escamotages per disfarsi di questo rifiuto nel senso stretto del termine ed ottenere questo risultato con il massimo risparmio di spesa. In particolare, avrebbe interessato


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l'Ecodeco su Pavia e la ditta Lombardo su Marcianise per effettuare una miscelazione di questo rifiuto, che risulta illecita in quanto non è stata richiesta alcuna autorizzazione. Successivi accertamenti hanno evidenziato che vi erano anche percorsi diversi; uno di questi coinvolge la Calabria, dove una parte di questa sostanza è stata inviata alla ditta Meca di Lamezia Terme, e da qui sarebbe addirittura stata smaltita in una discarica di prima categoria, quindi dedicata ai rifiuti solidi urbani e assimilabili. Va peraltro evidenziato che la destinazione di questa miscela di ebanite da parte di Enirisorse in territorio campano e calabrese configura anche la violazione della legge regionale che prevedono il divieto di importazione di rifiuti da altre regioni.
Emerge poi una difficoltà di classificazione, rispetto alla quale vi sono già stati provvedimenti intraprocessuali, del «mix di ebanite» contenente un residuo di piombo superiore a quello tollerato dalle tabelle allegate al decreto legislativo n. 22 del 1997. Nella discarica di Paderno Dugnano ed in quelle collegate di Marcianise, Crotone e Lamezia Terme, sono stati rinvenuti anche altri tipi rifiuti, ma la parte basilare dell'indagine ruota intorno proprio alla classificazione del mix di ebanite, evidenziando quindi il problema di stabilire se tale rifiuto sia da considerarsi o meno pericoloso. Infatti, sebbene l'ipotesi contestata prevede come reato anche lo smaltimento e lo stoccaggio illecito dei rifiuti non pericolosi, vi potrebbero essere altre attività illegali, tra cui la miscelazione, punibili solo nel caso in cui riguardino rifiuti pericolosi. Il problema nasce dal fatto che nell'elenco dei rifiuti pericolosi allegato al «decreto Ronchi» non è contemplato tale materiale; da qui lo sforzo interpretativo volto a dimostrare che si tratta di un rifiuto pericoloso per le sue caratteristiche intrinseche di elevata tossicità. Una tale classificazione porterebbe alla contestazione della illecita miscelazione, non essendo stata chiesta alcuna autorizzazione, in quanto l'articolo 5 del decreto legislativo n. 22 del 1997 punisce anche chi effettua attività non consentita di miscelazione limitatamente ai rifiuti pericolosi.
Sono numerosi i casi riscontrati dalla Commissione di illeciti smaltimenti di rifiuti pericolosi prodotti da aziende a rilevanza nazionale (quando non internazionale) in impianti non idonei a ricevere tali materiali. È quindi il caso di fare riferimento almeno agli episodi più eclatanti: a Scurcola Marsicana si scaricavano fanghi che sarebbero dovuti derivare da insediamenti civili, ma che in realtà erano tali solo nella misura dell'1,9 per cento; per quanto riguarda la parte rimanente, il 28 per cento proveniva da pubbliche fognature, il 30 per cento da nuclei industriali ed il 40 per cento da insediamenti produttivi. È stata dimostrata la provenienza di tali fanghi da impianti produttivi, da industrie, alcune delle quali anche di tipo farmaceutico, come la Refem di Rovereto e l'Abbott di Latina, e da una serie di altri insediamenti industriali che hanno utilizzato cromo, piombo e zinco. La presenza di questi metalli dimostra la pericolosità della situazione. È stata rilevata una notevole quantità di materiali sversati nel comune abruzzese: complessivamente otto discariche, per un totale di circa 90 mila quintali di materiali depositati, e in particolare, dietro un fittizio impianto di compostaggio, si celava una discarica di fanghi, particolarmente estesa e pericolosa.


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Sempre in Abruzzo, presso il depuratore di Montesilvano, sono stati smaltiti rifiuti industriali provenienti da diverse zone del nord Italia, in prevalenza stoccati presso un impianto di Forlì e trasportati da un indagato, che nel piazzale di sua proprietà aveva creato un abusivo allaccio alla pubblica fognatura con sversamento direttamente dai mezzi. Tale soggetto era già indagato dalla procura presso il tribunale per false fatturazioni emesse nell'ambito di illecite attività di smaltimento dei rifiuti. Sono coinvolte ben sessanta ditte (in prevalenza produttori e trasportatori di rifiuti) nonché un addetto alle analisi chimiche, sospettato di aver sistematicamente redatto falsi certificati di analisi per consentire classificazioni più «benevole» dei rifiuti e, quindi, smaltimenti a costi meno onerosi. In questo caso è stata anche riconosciuta l'associazione per delinquere fra gli indagati, elemento che ricorre assai di rado in tale materia.
A dimostrazione della dimensione della vicenda di Montesilvano e della rilevanza degli interessi in gioco, già dal 1995 erano stati acquisiti la gestione ed il controllo di una vasta attività, anche con l'impiego di capitali provenienti dal riciclaggio degli illeciti guadagni del traffico illegale dei rifiuti, anche pericolosi, realizzati con il sistema della «triangolazione», consistente nel far transitare i rifiuti presso il centro di stoccaggio il quale, dopo averli presi in carico, li faceva ripartire con propria bolla ecologica senza apportare alcuna modifica nelle componenti costituenti il rifiuto, ma con altro codice e denominazione.
Da Milano giungevano in Abruzzo i rifiuti solidi urbani prodotti. L'azienda municipalizzata del capoluogo lombardo (Amsa), però, non li inviava direttamente in quella regione - atteso il divieto fissato da una legge regionale - ma erano le società commerciali aggiudicatarie di appalti per la separazione delle diverse frazioni di rifiuto che li spedivano in Abruzzo per le operazioni di trattamento e cernita. Ma una volta entrati nel presunto stabilimento, il materiale acquistava «cittadinanza» abruzzese e, di conseguenza, per circa il 90 per cento veniva smaltito come rifiuto in quel sito.
In Liguria, nella cava di Borghetto Santo Spirito - già citata - sono stati rinvenuti, tra gli altri, anche fusti provenienti da importanti aziende pubbliche, come la Snam, e da aziende private di rilevanza nazionale, come la Farmitalia e la Stoppani.
Ravenna, nel maggio 1998, è stata teatro di un incendio di vastissime proporzioni sviluppatosi presso il capannone della società Fertildocks srl (oltre 7000 mq.), destinato al trattamento di rifiuti provenienti dall'Amsa di Milano che dovevano, poi, essere avviati alla termocombustione sperimentale nella centrale Enel di Fusina (Veneto), in virtù di un'intesa stipulata nel luglio 1997 tra le regioni Lombardia ed Emilia Romagna. Al momento dell'incendio giacevano nel capannone circa 5000 tonnellate di tali rifiuti, posti sotto sequestro penale unitamente al capannone.
L'episodio ha determinato l'avvio di un'indagine da parte della procura di Ravenna, che ha accertato la natura certamente dolosa dell'incendio, la cui opera di spegnimento, protrattasi per ben ventidue giorni (19 maggio - 10 giugno 1998), ha richiesto l'impiego delle forze dei vigili del fuoco dei comuni di Bologna, Forlì, Lugo e Faenza, oltre che di Ravenna. Nel capannone giacevano già dal


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settembre 1997 rsu e fertilizzanti che non erano stati trattati, motivo per il quale proprio il giorno precedente al verificarsi dell'incendio era stata convocata la giunta comunale per ottenere chiarimenti relativamente alla corretta esecuzione del contratto da parte della società Area, impegnata nelle attività di stoccaggio e trattamento dei rifiuti, e dell'azienda d'intermediazione, una ditta (la Sea) avente sede nella Repubblica di San Marino.
Fra gli episodi illeciti, merita segnalare il ritrovamento in Emilia Romagna di 88 fusti metallici contenenti reflui industriali esausti, abbandonati su un terreno in prossimità del comune Montale di Piacenza (il procedimento penale è tuttora in corso). Altro episodio preoccupante verificato in questa regione è stato il rinvenimento di un contenitore per rifiuti radioattivi addirittura nell'oasi naturalistica di Punte Alberete, nei pressi di Ravenna (già nel luglio 1997 nella stessa area erano stati trovati contenitori con un materiale altamente tossico quale il policlorodifenile); le analisi del contenuto hanno evidenziato la presenza di scorie di cesio e di berillio. E ancora, in una discarica abusiva del comune di Ravenna sono state abbandonate diverse tonnellate di rifiuti pericolosi (anche lastre di amianto), mentre nel comune di San Pietro in Casale è stata scoperta una vasta area destinata a deposito non autorizzato di rifiuti pericolosi (oli esausti e batterie per auto) e speciali (veicoli a motore, rimorchi ed altro, rifiuti derivanti da attività di demolizione e di costruzione, ecc.). Si tratta di ben 15 mila quintali di rifiuti speciali e dieci quintali di rifiuti pericolosi, che stavano lì depositati senza che il titolare fosse munito di alcuna autorizzazione. che ha gestito tale deposito senza alcuna autorizzazione sin dal 1993 è tuttora pendente.
Interessante è, ancora, la vicenda scaturita dalla denuncia dell'organizzazione sindacale Fiom-Cgil, relativa alle morti per cancro di alcuni dipendenti delle società Beraud Santino & Mauro e Beraud sud Spa, operanti nel polo chimico di Brindisi, che ha portato al sequestro dei cantieri delle citate società nonché all'emissione di avvisi di garanzia nei confronti di dieci amministratori delle ditte coinvolte. Le indagini hanno già evidenziato l'inquinamento ambientale derivato da lavorazioni pericolose e fuori norma, anche con amianto e derivati, ma sono in corso ulteriori rilievi mirati ad accertare la natura e l'entità delle alterazioni prodotte nel sottosuolo, nelle acque e nell'atmosfera.
Ancora in Puglia, la Commissione si è interessata dell'area dell'azienda Fibronit (che ha cessato la sua produzione) accusata di omicidio colposo in danno di numerosi operai, deceduti per forme tumorali correlate all'amianto. Per decenni nell'area sono state interrate le scorie prodotte dall'azienda. Non solo: anche i capannoni ed i piazzali di produzione sono stati realizzati con materiale di cemento-amianto. Anche alcune coperture sono inquinate da rifiuti tossico- nocivi. Il quadro si aggrava se si tiene conto che le forme tumorali legate all'amianto che si registrano nel quartiere vicino all'area della Fibronit, sarebbero aumentate in maniera esponenziale negli ultimi anni e sono statisticamente superiori alla media nazionale.
Sempre a proposito di amianto, è opportuno citare anche la vicenda relativa all'attività di produzione di amianto in Sicilia fino a


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tutti gli anni ottanta, per la quale è attualmente in fase dibattimentale presso il tribunale di Siracusa un processo che vede coinvolti amministratori e dirigenti dello stabilimento Eternit siracusano, imputati per l'omicidio colposo di numerosi operai deceduti per asbestosi contratta nel trattamento dell'amianto.

5. Il centro Enea - Trisaia (Matera)

Già la precedente Commissione monocamerale aveva dedicato particolare attenzione alle vicende relative al centro Enea Trisaia (località Rotondella di Matera), sia per l'allarme sui rischi di contaminazione radioattiva suscitato tra le popolazioni locali, sia per l'indagine giudiziaria avviata dall'ufficio di procura di Matera sull'attività svolta dal centro, sede dell'impianto nucleare Itrec, costruito negli anni sessanta e ultimato nel 1968, con l'obiettivo di disporre di una struttura pilota di riprocessamento e di fabbricazione del combustibile nel campo del ciclo uranio-torio.
La vicenda giudiziaria si è conclusa con esiti positivi, perlomeno sotto il profilo del pericolo di una contaminazione ambientale; ma la situazione tuttora esistente appare assai grave e censurabile è stato l'operato dell'Ente nel corso di diversi anni.
Sotto il primo profilo, risultano ancora immagazzinati in serbatoi 64 degli iniziali 84 elementi di combustibile provenienti dal reattore Elk River, unitamente ai residui radioattivi liquidi e solidi prodotti nel corso della campagna di riprocessamento condotta dall'Enea nel Centro. Inoltre, i residui solidi a bassa e media attività presenti ammontano a circa 2.200 metri cubi. La parte metallica derivante dal taglio in piscina di circa 12 elementi di combustibile irraggiato e le resine del sistema di purificazione dell'acqua della piscina stessa hanno dato luogo in passato alla produzione di circa 80 metri cubi di rifiuti solidi ad alta attività.
In ordine all'attività svolta dall'Enea, è stata accertata l'assenza di un'adeguata strategia di gestione dei materiali radioattivi ed il trascinarsi nel tempo di una situazione intollerabile, soprattutto sotto i profili di sicurezza nel sistema di stoccaggio dei liquidi ad alta attività. Rispetto a questi ultimi, infatti, le soluzioni prospettate dall'Enea (e cioè l'eventuale trasferimento di tali liquidi presso il Centro di Saluggia o la loro miscelazione con i liquidi a bassa attività) non erano adeguate e l'impianto di solidificazione esistente non era strutturalmente in grado di trattare i rifiuti liquidi ad alta attività. Non solo, ma in violazione delle prescrizioni ministeriali, i responsabili del Centro non hanno mai provveduto alla realizzazione di un sistema di solidificazione di tali residui liquidi, continuando, invece, a privilegiare la realizzazione di infrastrutture per il trattamento ed il condizionamento dei rifiuti a bassa attività. Eppure - secondo le conclusioni cui è pervenuta la sentenza - non sussistevano particolari difficoltà economiche, né lo stato della scienza e della tecnica era tale da costituire un ostacolo alla realizzazione dell'obiettivo finale imposto; anzi, la tecnica della cementificazione dei rifiuti ad alta attività era ampiamente diffusa a livello internazionale.


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D'altra parte, l'impegno alla costruzione di infrastrutture destinate al trattamento dei rifiuti liquidi a bassa attività si spiega, probabilmente, col verificarsi (nel mese di aprile 1994) dell'episodio della rottura di uno dei serbatoi contenente rifiuti liquidi a bassa attività all'interno dell'impianto Itrec, con sversamento sul fondo della cella dove era collocato il serbatoio stesso; un altro episodio di rottura di una tubazione della condotta di scarico a mare si era già verificato nel 1993. In entrambe le occasioni, peraltro, l'Enea non effettuò alcuna formale comunicazione alle autorità competenti, pur temendo il rischio di contaminazione esterna, tanto che si preoccupò nell'immediatezza di effettuare rilievi radiologici sulle acque di falda prossime e campionamenti sul terreno interessato, nonché di impedire l'accesso alle persone.

6. I traffici illeciti

I lavori svolti consentono di affermare la persistenza ed anzi l'aggravarsi di fenomeni che già la precedente Commissione monocamerale aveva posto all'attenzione del Parlamento. In primo luogo emerge il fenomeno dello spostamento di ingenti quantitativi di rifiuti anche pericolosi dal nord al sud del Paese, spesso in violazione del divieto di esportazione transregionale.
Sono infatti numerose le evidenze di traffici e smaltimenti illegali di rifiuti che vedono coinvolte regioni come il Piemonte, la Lombardia, la Liguria, l'Emilia-Romagna, il Lazio, l'Abruzzo, oltre a quelle in cui tradizionalmente è più presente la criminalità organizzata (Sicilia, Campania, Calabria e Puglia). A questo proposito la Commissione ritiene di dover da subito sottolineare come tali episodi criminali siano significativi non solo - e non tanto - dal punto di vista della gestione illecita dei rifiuti, ma soprattutto per ciò che rappresentano in termini di infiltrazioni mafiose nelle aree «non tradizionali».
Le rotte del traffico illegale, del resto, non si muovono più solo lungo l'asse nord-sud in direzione del Mezzogiorno, ma esiste - ed è trafficata - anche la direttrice nord-nord: anche nel settentrione i rifiuti vengono smaltiti in discariche non autorizzate, costituite da cave, da specchi d'acqua, da grandi buche scavate in fondi anche agricoli sulle quali, una volta ricoperte, vengono praticate, non di rado, colture; lo smaltimento illecito viene praticato anche in capannoni industriali dismessi o presso aziende di bitumazione, dove vengono miscelati ad altri prodotti ottenendone materiale per rilevati stradali. I rischi assai modesti connessi a tale pratica illegale e le «garanzie di omertà» assicurate dai trasportatori e dagli smaltitori, hanno reso l'affare appetibile anche per imprese di medie e grandi dimensioni che affidano spesso i loro rifiuti a soggetti legati alla criminalità organizzata, i quali garantiscono costi di smaltimento inferiori a quelli praticati dal mercato legale.
La Commissione aveva già evidenziato come tali traffici, in parte gestiti dalla criminalità (organizzata e comune), sia per motivi interni alla stessa organizzazione (lotte tra fazioni), sia per la progressiva incapienza dei siti utilizzati, sia per l'intervento incisivo delle forze


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dell'ordine che hanno proceduto al sequestro di numerose discariche collettrici di rifiuti (in particolare in Campania e nel Lazio), si erano spostati negli ultimi anni dalla dorsale tirrenica a quella adriatica, coinvolgendo tutta la fascia abruzzese e, in particolare, tutte le zone limitrofe al percorso autostradale della A14; il che ha comportato che sono rimaste interessate al fenomeno zone tradizionalmente esenti da presenze criminali, organizzate e non, che operano in settori di varie imprenditorie. Ora trova conferma il sospetto e l'allarme già lanciato dalla Commissione relativamente all'estensione a tutto il territorio nazionale del fenomeno degli smaltimenti illeciti.
I canali attraverso i quali si realizzano questi traffici illeciti sono essenzialmente tre: conferimento dei rifiuti industriali nel sistema di raccolta e smaltimento dei rifiuti urbani, in modo ovviamente occulto; trasformazione, puramente nominale e cartacea, dei rifiuti in materie prime secondarie, utilizzate da operatori compiacenti in modo improprio o illegale sia nei cicli produttivi che, ad esempio, nella realizzazione di sottofondi stradali o altro; declassificazione, ovviamente illecita, dei rifiuti tossico-nocivi, che presentano costi di smaltimento più alti, in rifiuti speciali.
Un settore particolarmente esposto al rischio di tali comportamenti illeciti è quello relativo all'attività svolta dai numerosi centri di stoccaggio, i quali offrono facilmente il fianco ad attività di miscelazione tout court e modifica (mediante alterazioni e falsificazioni dei documenti di accompagnamento) della tipologia dei rifiuti tossico-nocivi, che vengono in tal modo avviati a forme di smaltimento poco corrette, nei siti più disparati, con grave danno per l'ambiente e la salute dei cittadini.
È opportuno evidenziare i rilevanti risvolti di natura fiscale connessi all'accertamento di carichi di rifiuti tossico-nocivi, ritirati e poi, di fatto, non smaltiti. Infatti, dal riscontro delle operazioni fittizie di smaltimento emergono costi non sostenuti, ancorché portati in deduzione dall'impresa produttrice dei rifiuti, nonché l'utilizzazione di fatture per operazioni inesistenti, aventi il duplice scopo di documentare il regolare conferimento dei rifiuti ad imprese autorizzate e di realizzare una cospicua evasione delle imposte sui redditi e sui valori aggiunti.
Le vicende di cui la Commissione è venuta a conoscenza dimostrano, altresì, l'esistenza di società commerciali attive nel mettere in contatto l'industriale produttore dei rifiuti con il trasportatore o lo smaltitore, in tal modo determinando un ulteriore aumento dei costi di smaltimento (i costi dell'attività di intermediazione) ed al contempo rendendo più complessa l'individuazione dei referenti e dei responsabili dei traffici illeciti, poiché la documentazione relativa ai rifiuti trasmigra da una società all'altra. Significativi della diffusione del fenomeno sono i dati offerti dall'Arpa per la sola regione Emilia Romagna, secondo i quali gli impianti autorizzati sono prevalentemente depositi temporanei per conto terzi di rifiuti speciali e sono circa duemila le autorizzazioni riferite a singole tipologie di rifiuti e non v'è pertanto corrispondenza tra il numero di impianti autorizzati e le tipologie di rifiuti autorizzate.


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6.1 La rotta adriatica

Uno spaccato del traffico transregionale di rifiuti è offerto dal procedimento in carico all'ufficio di procura di Rimini, nel quale si evidenzia un collegamento di tipo organizzativo tra più soggetti operanti in vaste aree del territorio nazionale. Il traffico, infatti, finalizzato principalmente allo smaltimento di rifiuti solidi urbani, interessa anche rifiuti speciali e/o tossico-nocivi, provenienti dalle aree del nord-est. Il centro - consistente in realtà soltanto in una piccolissima piattaforma - convogliava enormi quantità di rifiuti, i quali, con un semplice cambio di bolla di accompagnamento, figuravano assorbiti dalla regione Emilia-Romagna; si trattava di rifiuti provenienti anche da altre località come, per esempio, dal comune di Rapallo. Sul centro di stoccaggio sono state convogliate grosse quantità di rifiuti urbani; non venivano tenuti presso il centro i materiali pericolosi più facilmente riconoscibili, ma venivano miscelati direttamente nei mezzi di trasporto non appena questi arrivavano al centro. Grazie a un ulteriore giro di bolle i rifiuti finivano poi in gran parte in discariche abusive della Puglia e dell'Emilia Romagna, ma anche di Abruzzo e Calabria.
Nel traffico illegale di rifiuti sono coinvolti anche alcuni amministratori locali, oltre che diversi titolari di attività di trasporto o di raccolta e smaltimento di rifiuti urbani, nonché società d'intermediazione (è contestato il delitto di associazione per delinquere finalizzata al traffico illecito di rifiuti e reati connessi, tra i quali truffe, falsificazioni di certificati e di autorizzazioni, violazioni fiscali).
L'indagine ha consentito di far chiarezza sulle modalità di realizzazione delle operazioni illecite: Marco Savini, titolare di un centro di stoccaggio di rifiuti urbani ed assimilabili a Borgonovo, aveva incaricato la ditta Muratori Trasporti a effettuare trasporti di rsu dal comune di Piacenza e territori limitrofi e dal Consorzio smaltimento rifiuti fra i comuni di Salsomaggiore Terme e Fidenza, alle discariche di Ancarano, Pomarico, Collecorvino, Corigliano Calabro. Tali rifiuti, in realtà, sono risultati smaltiti prevalentemente presso la discarica di Ginestreto, attraverso l'utilizzazione di false bolle ecologiche emesse dal Cia Spa di Coriano, grazie alla compiacenza di un suo funzionario che percepiva dall'illecita emissione lauti compensi (secondo quanto appurato dai magistrati lire 500.000 circa per ogni bolla).
La ditta Muratori Trasporti, infatti, era titolare di un appalto con il Cia Spa per il trasporto di rsu dal forno di incenerimento del comune di Coriano alla discarica di Ginestreto, per cui non le era difficile far figurare gran parte dei rifiuti di altre località fra quelli provenienti da Coriano mediante, appunto, una falsa bolla ecologica proveniente dal Cia spa (false bolle ecologiche false sono state emesse anche dalle società Amga di Cesena e dall'Amiu di Forlì).
È evidente la truffa realizzata ai danni dei comuni di provenienza dei rifiuti, che pagavano la ditta per il trasporto e lo smaltimento regolare degli stessi, nonché ai danni del Cia spa, secondo un sistema - quello descritto - che si è ripetuto per alcuni anni (1994 - 1996), poiché non venivano effettuati controlli più penetranti della mera


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verifica formale dei documenti di accompagnamento dei rifiuti, in apparenza del tutto regolari. Per ingenti quantitativi di rifiuti provenienti dall'inceneritore di Salsomaggiore Terme, di cui sempre il Savini curava lo smaltimento, forte è il sospetto che essi siano stati addirittura smaltiti in discariche non autorizzate o comunque in luoghi non idonei a riceverli, dal momento che non è stato possibile accertarne la destinazione finale.
Un altro filone della stessa indagine condotta dalla procura di Rimini ha consentito di scoprire un traffico illecito di fanghi tossico-nocivi prodotti dalle Acciaierie venete spa che, nel 1995, ed affidati per il trattamento e lo smaltimento alla ditta Asbestos Tecnical Service 2, ma, in realtà, inviati direttamente, senza subire alcun processo di inertizzazione e trattamento, in una cava dismessa del Veneto (comune di Soave) o addirittura utilizzati dalla ditta Edilstrade per la pavimentazione delle strade, con gravissimo pregiudizio per l'ambiente e la salute pubblica. Le due ditte, infatti, si facevano garanti dell'attività di trasporto, trattamento e riutilizzo finale di tali rifiuti mediante false attestazioni agli enti competenti, così lucrando ingenti somme dalle Acciaierie venete spa.
È interessante notare come l'accertamento dei fatti è stato condotto avvalendosi di tecniche d'indagine (come le intercettazioni telefoniche) rese possibili dalla contestazione di reati economico-fiscali.
In Puglia, presso la località Montecalvello-Giardinetto del comune di Troia (FG), è stata individuata un'area di circa settanta ettari, di proprietà della società Iao srl, dove sono state rinvenute diverse tonnellate di rifiuti provenienti da diverse regioni. Il complesso aziendale comprende alcuni locali adibiti ad uffici, capannoni e piazzali destinati a deposito di rifiuti, nonché un impianto di frantumazione di rifiuti provenienti dalla demolizione edile; la società, infatti, dal 1997 svolge attività di recupero di rifiuti del tipo fanghi, ceneri di combustione e altri residui di lavorazioni industriali, ma dal 25 marzo 1999 ciò avveniva senza autorizzazione. Infatti in tale data la ditta ha mutato la sua denominazione (da Industria agricola olearia srl in Industria ambientale organizzata srl) mantenendo invariata la sigla di identificazione (Iao srl). Tuttavia la nuova denominazione non è stata comunicata alla provincia, tant'è che la società risulta ancora iscritta nel registro ex articolo 33 del «decreto Ronchi» con la vecchia denominazione sociale. Il capitale sociale della Iao srl è ripartito tra cinque società, tutte del gruppo Fantini, e cioè la Marte spa, la Celam spa, la Immobiliare Sveva srl, la Ilas Alveolater srl, la RDB Fantini srl.
Nel corso dei sopralluoghi effettuati è però emerso che la società non esplica, in realtà, alcun ciclo produttivo, ma si limita a svolgere un'attività di stoccaggio dei rifiuti depositati nei capannoni o nei piazzali a cielo aperto. Tra le attività di trattamento veniva effettuata la miscelazione di materie prime di base (argilla) con i rifiuti sopra indicati, quindi in violazione della normativa vigente.
È importante sottolineare questo aspetto, da momento che il Fantini opera principalmente nel settore della produzione dei laterizi e nello sviluppo delle indagini si è accertato che anche altre società


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del suo gruppo, aventi come oggetto sociale tale produzione, effettuano in realtà attività di miscelazione di argilla con rifiuti.
Sempre nel corso dei sopralluoghi, si è accertata la realizzazione dei piazzali mediante la gettata di calcestruzzo miscelato a rifiuti trattati dall'impresa; su tali piazzali vengono - come detto - successivamente stoccate notevoli quantità di rifiuti provenienti da varie parti d'Italia. Ebbene, per le attività svolte la società non poteva avvalersi delle procedure semplificate disciplinate dal decreto legislativo 22/97, ma avrebbe dovuto munirsi delle autorizzazioni prescritte dal citato decreto legislativo.
Dall'esame di alcuni formulari di identificazione rifiuti, è stato altresì rilevato che la Iao ha ceduto rifiuti costituiti da ceneri alla società Gattelli spa (con sede in provincia di Ravenna), in tal modo svolgendo un'attività di intermediazione di rifiuti non autorizzata.
Il dato inquietante emerso dalle indagini riguarda, però, in generale le società che nella regione svolgono l'attività di produzione di laterizi: ad esempio, la Celam spa, altra società del gruppo Fantini che opera in agro di Lucera nella miscelazione di materie prime di base con rifiuti, risulta aver riutilizzato nel ciclo produttivo rifiuti classificati pericolosi, quali le ceneri leggere di olio, non compresi fra quelli per cui era autorizzata, ed è stato perciò sequestrato il complesso aziendale destinato a tale attività illegale. Così pure è avvenuto per un'altra società del gruppo Fantini, la Saba srl, che produce laterizi ed altri materiali (con annessa una cava d'argilla), perché è stata riscontrata un'attività di miscelazione di argilla con rifiuti recepiti dalla stessa società.

6.2 La discarica di Tollo

In Abruzzo, i traffici di rifiuti pericolosi hanno avuto per «epicentro» Tollo, dove tutti i veicoli che scaricavano i rifiuti erano dotati di bolle apparentemente regolari. Ma l'intervento dei carabinieri del Noe, impegnati in un'indagine a più ampio raggio, ha messo in luce il traffico indirizzato in Abruzzo perché i rifiuti, che non si potevano più scaricare in Campania in seguito a vivaci e sanguinosi contrasti fra «famiglie» camorriste (chi aveva il terreno e chi pretendeva il «pizzo» apparteneva a famiglie diverse e dalla guerra di camorra è derivato anche qualche omicidio), dovevano necessariamente trovare uno sbocco.
I rifiuti erano in gran parte residui di industrie siderurgiche del nord (industrie anche fra le più rilevanti dal punto di vista qualitativo e quantitativo); una volta usciti dalle fabbriche, si procedeva ad un collaudato sistema di triangolazione. I trasporti si fermavano una notte a Marghera ed il mattino successivo, con lo stesso camion (senza che neanche fossero stati tolti i laccetti del telone), partivano con una bolla diversa portante la dicitura «residui riutilizzabili».
Lo scarico dei rifiuti avveniva ad opera di un unico soggetto, titolare della discarica di Tollo e di terreni limitrofi (tutti sottoposti a sequestro da parte dell'autorità giudiziaria). Lo stesso soggetto, poi, aveva cominciato a scaricare quasi sul greto del fiume Pescara, a Chieti Scalo; infine si è ritrasferito in provincia di Pescara, a Cepagatti, in contrada Aurora.


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La vicenda appare, altresì, emblematica di quanto si è detto sopra circa l'esistenza di società commerciali aventi il compito precipuo di mettere in contatto l'industriale produttore dei rifiuti con il trasportatore o lo smaltitore, e la cui attività di intermediazione produce un aumento dei costi oltre che una maggiore difficoltà d'individuazione dei responsabili dei traffici illeciti, perché la documentazione trasmigra velocemente da una società all'altra.

6.3 La provincia di Roma: da mittente a «vittima»

Le nuove rotte dei traffici illeciti di rifiuti toccano - come la Commissione ha potuto osservare direttamente - anche i territori limitrofi a Roma, area interessata da tali fenomeni in occasione dell'emergenza determinatasi negli anni 1992-1993, quando venne interdetto l'uso della discarica di Malagrotta a tutti i comuni diversi da quelli di Roma, Ciampino e Fiumicino. In assenza sia di un piano regionale dei rifiuti che dell'individuazione di discariche idonee a ricevere i rifiuti solidi urbani di numerose località, gli altri comuni non compresi nel bacino di utenza delle discariche di Guidonia e Bracciano si trovarono a dover risolvere il problema di come smaltire i rifiuti. In questa situazione alcuni amministratori locali furono costretti a rivolgersi ad imprese operanti nel settore che, in qualche modo, assicuravano la possibilità di smaltimento, senza l'accertamento delle dovute garanzie e delle formalità di legge. Il solo problema che veniva risolto era l'individuazione di una qualsiasi destinazione ai rifiuti dei suddetti comuni.
La Commissione ha avuto modo di rilevare, ancora una volta, il ruolo nevralgico assolto da queste cosiddette società commerciali, venute a contatto, nell'occasione, con intermediari in grado di trovare delle destinazioni al sud nelle note discariche della Campania, della Puglia e della Calabria controllate dalla criminalità organizzata. Il rapporto tra questi imprenditori e soggetti legati ad organizzazioni criminali - gli stessi che hanno formato oggetto di indagine da parte della procura di Napoli - aveva l'obiettivo di individuare forme di smaltimento illecite, che si articolavano o nel conferimento in discariche non autorizzate a ricevere rifiuti di provenienza extraregionale, ovvero nell'abbandono dei rifiuti in cave dismesse, alvei di fiumi e così via. Questo fenomeno, per quanto riguarda i comuni del Lazio, sembra comunque essersi esaurito nel momento in cui le ordinanze regionali hanno consentito ai diversi comuni di portare i propri rifiuti nelle discariche di Guidonia, Bracciano ed altre.
Più recentemente i traffici hanno avuto il Lazio non più come stazione di partenza ma come punto di approdo di rifiuti prodotti nell'Italia settentrionale ed in particolare in Lombardia. Alcune imprese hanno falsamente garantito lo smaltimento ad enti locali produttori dei rifiuti, assicurando che gli stessi sarebbero stati trasferiti in impianti di recupero e trattamento (nella specie, nel Lazio) in realtà nati solo per trarre vantaggio da tale operazione, non avendo mezzi e manodopera per praticare alcuna attività di recupero e trattamento. Anche in questo caso, attraverso il meccanismo del «giro bolla», i rifiuti, usciti dall'impianto «fantasma» con la qualifica


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di rifiuti prodotti dal Lazio, sarebbero dovuti ripartire per terminare in una discarica della regione, aggirando il contingentamento delle discariche e consentendo l'arrivo nel Lazio di rifiuti prodotti dal settentrione (Lombardia), che altrimenti non sarebbero potuti giungere: la Commissione ha preso diretta visione del fenomeno a Pomezia, Monterotorndo e Latina, ma soprattutto nell'area pontina sono stati rinvenuti altri capannoni colmi di tali rifiuti. In sostanza, grazie all'opera di intermediari, organizzati in modo da stabilire contatti con produttore ed appaltatore da un lato, ricercando dall'altro impianti intermedi di presunto recupero, utilizzati soltanto per aggirare divieti di smaltimento o per uno smaltimento diverso da quello indicato.
Sempre nel Lazio, la provincia di Frosinone è divenuta nel corso degli anni uno dei centri nodali degli smaltimenti illeciti di rifiuti, come testimonia il fatto che indagini avviate in quest'area si sono intrecciate con quelle condotte dalla Guardia di finanza di Pavia, relative al rinvenimento di 81 mila tonnellate di rifiuti, di natura prevalentemente pericolosa, provenienti dal settentrione e dall'estero, che venivano stoccati abusivamente tra Lazio e Lombardia. Nelle campagne nei pressi di Pontecorvo sono stati rinvenuti big-bags contenenti schiumature d'alluminio provenienti da aziende della provincia di Brescia e lì smaltiti abusivamente (vedi relazione sul Lazio). Ancora, a Pontecorvo, i rifiuti tossico-nocivi (solventi), contenuti in fusti interrati in discarica, sono risultati provenire anche da un vicino stabilimento Fiat.

6.4 I trattamenti «fantasma» in Lombardia

Venendo ora alla Lombardia, numerosi sono gli episodi di traffici illeciti di rifiuti, per i quali la Commissione ha richiesto informazioni al sostituto procuratore della Repubblica presso il tribunale di Milano, dottoressa Paola Pirotta, che fa parte del pool di magistrati addetti alla trattazione degli affari penali nel settore dell'ambiente(19).

(19) V. audizione del 27 giugno 2000.

Il fenomeno dei traffici illegali è così diffuso su quel territorio da essere praticato addirittura ai caselli autostradali, dove gli autisti dei camion effettuano delle vere e proprie trasformazioni cartolari del rifiuto con riferimento sia al codice, sia alla quantità. Molti procedimenti, poi, risultano a carico di soggetti già condannati o comunque imputati per violazioni del «decreto Ronchi».
Interessante si profila, in particolare, un'indagine che ha preso avvio da alcuni accertamenti nei confronti di un'attività di recupero di rifiuti da parte di un capannone in uso a una società. Sono implicati nella vicenda numerosi soggetti alcuni già noti nel settore rifiuti. Dall'esame della documentazione in sequestro è risultato che i rifiuti non sono mai stati sottoposti ad alcuna attività di recupero e/o riutilizzo. Nel solo distretto di Milano sono stati sequestrati quattro capannoni- discariche, ma altri analoghi siti di conferimento di rifiuti sono stati sequestrati dall'autorità giudiziaria di Bergamo e Vigevano.
Anche in questo caso è evidente la dicotomia tra la gravità e la dolosità delle condotte illecite, e la natura contravvenzionale delle


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sanzioni, con numerose conseguenze, fra le quali (oltre alla evidente esiguità delle pene) la breve prescrizione (triennale) prevista per questo tipo di reati, la inutilizzabilità di strumenti d'indagine quali le intercettazioni, l'inapplicabilità di misure cautelari personali e la non configurabilità del delitto di associazione per delinquere.

7. I traffici internazionali

La Commissione parlamentare d'inchiesta sul ciclo dei rifiuti istituita nella precedente legislatura si era occupata del fenomeno dei traffici internazionali di rifiuti pericolosi anche radioattivi. Evidenti segnali di allarme si coglievano in alcune vicende giudiziarie, da cui peraltro era emersa una chiara sovrapposizione tra queste attività illegali ed il traffico di armi. In particolare, l'inchiesta condotta dalla procura di Lecce aveva individuato il cosiddetto «progetto Urano» finalizzato all'illecito smaltimento in alcune aree del Sahara di rifiuti industriali tossico-nocivi e radioattivi provenienti da Paesi europei. Numerosi elementi indicavano il coinvolgimento nel suddetto traffico di soggetti istituzionali di governi europei ed extraeuropei e di esponenti della criminalità organizzata, nonché di personaggi spregiudicati, tra cui il noto Giorgio Comerio, faccendiere italiano al centro di una serie di vicende legate alla Somalia, e all'illecita gestione degli aiuti del Fai (oggi direzione generale per la cooperazione e lo sviluppo).
Il progetto - già citato dalla precedente Commissione d'inchiesta - prevedeva il lancio dalle navi di penetratori (cilindri metallici a forma di siluro), caricati con scorie radioattive vetrificate o cementate e racchiuse in contenitori di acciaio inossidabile che si depositavano sino a 50-80 metri al di sotto del fondale marino; in alternativa, si affondava la nave con l'intero carico pericoloso, simulando un affondamento accidentale e lucrando, così, anche il premio assicurativo, il che è stato confermato dalle indagini aventi ad oggetto alcuni naufragi assai sospetti di navi assicurate dalla Lloyds di Londra, verificatisi nel Tirreno e nello Ionio di cui diremo oltre. Il progetto contemplava anche la vendita di alcuni ordigni bellici (le telemine) ai Paesi del Medio oriente, da nascondere in profondità marine mediante navi «Ro-Ro» - le stesse navi utilizzate per affondare le scorie radioattive - e col sistema appena descritto.

7.1 L'inchiesta di Reggio Calabria

Come detto, la Commissione precedente si era già occupata anche del preoccupante fenomeno dei traffici e degli smaltimenti illegali di scorie e rifiuti radioattivi in mare, nell'ambito di alcune inchieste avviate dalle procure di Matera, Reggio Calabria e Napoli relative all'affondamento di navi cariche di scorie e rifiuti radioattivi, principalmente nel mar Mediterraneo, cui si accompagnava - secondo l'ipotesi formulata dagli organi inquirenti - la consumazione di una serie di truffe alle compagnie assicurative con la riscossione dei premi previsti per i sinistri marittimi.


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Si profilava, peraltro, del tutto verosimile anche una relazione fra tale fenomeno e quello relativo al traffico internazionale di alcune tecnologie militari avanzate. Del resto, già l'inchiesta sul «progetto Urano» di cui si è detto, evidenziava un intreccio tra queste diverse attività illegali.
Questa Commissione ha ritenuto opportuno mantenere costante la sua attenzione rispetto ad ogni elemento di novità che emergesse in relazione a tale tipologia di smaltimenti illegali, che si presenta senz'altro come la più grave ed allarmante. Ha acquisito pertanto informazioni relative all'andamento dell'inchiesta di maggiore interesse nel settore, in carico all'ufficio di procura della pretura di Reggio Calabria e poi trasmigrata per competenza alla locale procura distrettuale, anche in considerazione degli elementi che essa ha offerto sulle relazioni con presunti traffici illegali di armi su scala internazionale, che hanno determinato l'avvio di ulteriori indagini, tuttora in corso, presso le procure competenti di Milano e Brescia.
L'indagine calabrese, avviata nel 1994, ha per oggetto alcuni affondamenti sospetti di navi nel Mediterraneo, al largo delle coste ioniche calabresi (le cd. «navi a perdere», utilizzate per l'affondamento di rifiuti radioattivi) e vede in ruolo chiave Giorgio Comerio, un personaggio in contatto con noti trafficanti di armi e coinvolto anche nella fabbricazione di telemine destinate a diversi paesi, come l'Argentina.
Dalle indagini era emerso che il Comerio (che tendeva ad accreditare come del tutto lecito anche su Internet il progetto «odm» per la gestione di depositi marini ove smaltire rifiuti radioattivi e tossico-nocivi ricorrendo ai penetratori) aveva indicato sulla sua agenda personale la data - si tratta di episodi risalenti al 1987 - di affondamento di una delle «navi a perdere» (la «Rigel») al centro dell'inchiesta giudiziaria di Reggio Calabria. Era stata altresì rinvenuta nella borsa di un personaggio molto vicino al Comerio una mappa con i siti di affondamento di altre navi sospette.
Il progetto prevedeva, quindi, l'acquisizione di rifiuti radioattivi e tossico-nocivi da smaltire presso paesi extraeuropei e l'individuazione di siti di affondamento degli stessi, per lo più in tratti di mare antistanti paesi africani, quali la Somalia, la Guinea e la Sierra Leone, secondo una strategia ricorrente nell'ambito dei traffici internazionali di rifiuti (si pensi a quanto evidenziato nell'inchiesta «Urano» o in quella relativa alle «navi dei veleni», vedi lavori svolti dalla precedente Commissione monocamerale d'inchiesta).
La partecipazione diretta di clan della 'ndrangheta a siffatti smaltimenti illeciti era un altro dato allarmante prospettato dall'organo inquirente. Gli accertamenti giudiziari, resi assai complessi e difficili anche per le oggettive difficoltà nelle operazioni di rilevamento della presenza di rifiuti radioattivi in navi affondate in tratti di mare con fondali particolarmente profondi, sono stati portati a termine di recente, non essendo affatto mancate nella precedente legislatura sollecitazioni rivolte dal Presidente della Commissione al Ministero della giustizia, affinché intervenisse fornendo i mezzi e supporti tecnici e di professionalità necessari.
Dagli accertamenti eseguiti - l'indagine è, tuttavia, ancora pendente - non è stata rilevata la presenza della nave «Rigel» sul


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fondale dove la stessa sarebbe affondata, seppure con i limiti e le difficoltà tecniche dipendenti anche dalla precarietà dei pochi dati a disposizione. Ma al di là di questi esiti sotto il profilo squisitamente penale, permane la più viva preoccupazione per tutta una serie di episodi evidenziati dalla stessa inchiesta giudiziaria e da altri dati acquisiti.
Anzitutto il dato numerico relativo ad affondamenti sospetti di navi verificatisi nei mari italiani: ben trentanove risultano i casi per il solo periodo tra il 1979 ed il 1995 (vedi consulenza tecnica disposta nell'ambito del procedimento pendente a Reggio Calabria - dati tratti dall'archivio STB Italia di Genova e Milano, e da varie compagnie assicurative, fra cui la «Lloyd's Register of Shipping», sede di Genova, e ventisei di questi vengono indicati dal comando generale delle capitanerie di porto). Secondo la segnalazione dei Lloyd's di Londra diverse di queste navi sono iscritte nella capitaneria di porto di Napoli.
Per quanto riguarda la nave «Rigel» affondata secondo i giornali di bordo il 21 settembre 1987, a 20 miglia da capo Spartivento, un dato di particolare interesse - offerto da fatture di vendita, bolle di accompagnamento e polizze di carico, nonché dal manifesto di carico dell'agenzia marittima e dalle varie compagnie assicuratrici - riguarda l'elenco di merci che ufficialmente risultavano caricate sulla motonave Rigel, il cui valore assicurato ammontava a circa 20 milioni (erano stati effettuati pochissimi controlli doganali a campione). Ma soprattutto, rimane sospetta la gran parte del carico, atteso che caricatori erano ditte e/o persone in difficoltà economica; talune partite erano rappresentate da merci (materiali - macchinari) fuori produzione o di recupero per i quali mancava la dovuta congruità tra valore assicurato e valore effettivo, come, del resto, è stato dimostrato nel procedimento per truffa svoltosi presso il tribunale di La Spezia.
L'affondamento, in sostanza, sarebbe stato comunque organizzato per lucrare i premi assicurativi dal sinistro, tanto che il citato procedimento per truffa aggravata ai danni delle assicurazioni si è concluso con la condanna degli imputati. Alla luce di tutti questi dati non sembra potersi escludere che alcuni caricatori consapevoli abbiano caricato anche prodotti e rifiuti pericolosi.
Gli elementi più inquietanti della vicenda sono dati, poi, dalle forti analogie che essa presenta con altri casi di affondamento di navi. Basta ricordare quello della motonave «Alessandro I», avvenuto il 1o febbraio del 1991 nei pressi di Molfetta, che veniva attribuito dall'autorità marittima ad «imperizia» del comandante, mentre i dati tecnici a disposizione consentirebbero di affermare che la stabilità della nave fosse tale da predisporla ad un eventuale «ingavonamento» e, comunque, la causale del sinistro non potrebbe farsi dipendere dalla sola imperizia del comandante. In questo caso, peraltro, è stata recuperata la parte più inquinante del carico (prodotti chimici e derivati del petrolio); o l'affondamento della motonave «Barbara» nei pressi dell'isola di Zante il 26 giugno 1982, che presenta aspetti del tutto peculiari. Questa nave infatti portava circa 1200 tonnellate di manganese contenuto in fusti destinato ad Alessandria (Egitto), ma presso l'isola di Zante si verificava un'infiltrazione d'acqua nel motore ed il progressivo allagamento che determinava l'abbandono della nave


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da parte dell'equipaggio. È stato accertato che la nave, mentre era ferma nel porto di La Spezia, era stata urtata da un'altra motonave battente bandiera greca, ma - fatto davvero strano - non era stata avvisata né la locale capitaneria di porto né il registro italiano navale. Insomma, il carico di minerali in fusti, la rotta seguita, la circostanza che a La Spezia non sia stato dato alcun avviso dell'incidente occorso, a tutela degli stessi interessi armatoriali ed ai fini della convalida della classe della nave, rendono la vicenda certamente sospetta.
Vi è poi la motonave «Rosso», incagliatasi il 14 dicembre 1990 nei pressi di Vibo Valentia e abbandonata. I documenti ritrovati sul relitto potevano essere riferiti al progetto Odm del Comerio. Certo è che la nave - quando, nel 1988, era ancora denominata «Jolly Rosso» - giungeva a Beirut per caricare 2.200 tonnellate di rifiuti tossici da trasportare in Italia, precisamente a La Spezia, come in effetti avveniva; dopo che i rifiuti erano stati scaricati, la nave veniva bonificata e, successivamente, l'armatore ne modificava la denominazione (caso rarissimo nell'ambiente marittimo, ove il cambio di denominazione a una nave viene considerato un elemento foriero di cattiva sorte) e la metteva in vendita, ma subito dopo si verificava l'incaglio a Vibo Valentia.
Ancora: si rammenti la vicenda dell'affondamento della motonave Marco Polo, già affrontata dalla precedente Commissione ed oggetto di indagine da parte della stessa procura di Reggio Calabria, verificatosi nel mese di maggio 1993 all'altezza del canale di Sicilia. In questo caso, si è riscontrata la presenza di radioattività da torio 234 su campioni di alghe e materiale ferroso prelevati a seguito del rinvenimento in mare (nell'aprile 1994), al largo delle coste della Campania, di alcuni containers persi dalla citata nave. Sono notevoli qui le analogie con l'affondamento della motonave Koraline, avvenuto al largo di Ustica. Anche in questo caso sono stati, infatti, rinvenuti alcuni containers che presentavano forti concentrazioni di torio.

7.2 I traffici verso l'Africa

È dalle inchieste sulle «navi a perdere» che questa Commissione ha inteso avviare i lavori per una migliore comprensione della reale portata e dell'attualità del fenomeno illegale. E purtroppo, va detto da subito che gli elementi conoscitivi acquisiti e le verifiche sin qui effettuate attivando anche i poteri autonomi d'inchiesta non sono affatto confortevoli.
L'analisi dei dati emersi da due inchieste riguardanti tali traffici - inchieste tuttora in corso presso la procura di Asti e la procura distrettuale di Milano - ed il riscontro incrociato con materiale acquisito dalla Commissione e quanto già emerso in passato fa ritenere che essi siano ancora in corso, che alcuni Paesi, specie dell'Africa, siano ancora mete di destinazione «privilegiate» di tali rifiuti pericolosi e che l'intero traffico, pur con qualche alternanza, ruoti attorno agli stessi soggetti che in passato sono rimasti coinvolti.
Va detto che le inchieste - giudiziarie e della Commissione - si rivelano particolarmente delicate e difficili, muovendosi tra mille difficoltà sia di ordine burocratico che, in particolare, connesse alle


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difficoltà di accertamento rispetto ad operazioni di smaltimento realizzate da pochi soggetti che si avvalgono di una fitta rete di intermediari e società anche straniere spesso costituite artatamente, muovendosi su Paesi che a volte non hanno un organo di governo riconosciuto e con i quali comunque non esistono protocolli d'intesa. Diventa quindi assai difficile se non impossibile condurre un'attività di verifica dell'effettivo compimento dei traffici e dell'esistenza di siti contaminati da depositi di rifiuti pericolosi e radioattivi.
Ma al di là dell'esito processuale che tali inchieste giudiziarie avranno e nel rispetto del segreto a tutela delle indagini, la Commissione ha ritenuto opportuno mettere in luce i dati certi che sono comunque stati acquisiti e che tutti univocamente conducono a ritenere persistenti traffici così pericolosi ed allarmanti, riservandosi di mantenere costante la sua attenzione sul fenomeno e di proseguire nel lavoro di ricostruzione e verifica intrapreso.
Le indagini in corso presso la procura di Asti riguardano traffici internazionali di rifiuti pericolosi provenienti dal territorio italiano e destinati alla Somalia, di cui sarebbero promotori, in particolare, alcuni dei soggetti già interessati nel 1992 al cosiddetto «progetto Urano». Dalle carte acquisite dalla Commissione emerge con chiarezza che i personaggi interessati agli smaltimenti illeciti ricoprono compiti analoghi a quelli che avevano in passato; di particolare interesse l'intermediario che opera in Italia per l'esportazione dei rifiuti in una località somala dove era stata ottenuta una «concessione» dal noto faccendiere italiano di cui si è detto a proposito del «progetto Urano»; e il titolare di una ditta che funge da spedizioniere presso il porto di Livorno e risulta essere in stretti rapporti con Faduma Aidid (figlia del generale uomo forte di Mogadiscio), accreditata in Italia negli anni ottanta come diplomatica e addetta al consolato somalo di Milano durante il regime di Siad Barre (e recentemente espulsa dal territorio italiano).
Il meccanismo con cui avvengono tali traffici di rifiuti presenta analogie evidenti con quello della plastica di provenienza tedesca e destinato all'Egitto (passando per l'Italia), oggetto di un'indagine da parte della procura di Asti, che volge alla conclusione della fase delle indagini preliminari con esiti che sembrano positivi. I rifiuti venivano inviati in zone del nord Italia, da qui a Roma (dove venivano trasformati), quindi ripartivano per La Spezia non più come plastica tedesca, ma come sfridi di lavorazione di plastica italiana. Una volta giunto a La Spezia il materiale, così riclassificato, veniva caricato in containers e spedito in navi dirette al Cairo. In sostanza, il traffico da Bergamo a Roma del materiale plastico tedesco era solo di natura cartolare, fittizio; in realtà, le operazioni di dogana venivano compiute nello stabilimento di Bergamo, mentre nella zona portuale ci si limitava a controllare che il numero dei sigilli corrispondesse e che questi non fossero rotti, senza procedere ad alcuna verifica del contenuto dei containers. L'operazione illecita è stata rapidamente bloccata perché le autorità egiziane hanno scoperto la non corrispondenza tra il carico e i documenti, e i containers sono stati rispediti alla Germania in qualità di Stato autore del trasporto. Nell'attesa di trovare nuove destinazioni per il materiale gli autori dei


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traffici hanno utilizzato alcuni capannoni del Nord per lo stoccaggio del materiale stesso: uno di questi, ad Asti, è bruciato nell'agosto 1997, dando il via all'inchiesta.
Con il sistema sopra descritto sarebbero stati smaltiti selvaggiamente (specie nel territorio somalo) ingenti quantitativi di rifiuti pericolosi e radioattivi, tanto da far dire a un teste sentito dall'autorità giudiziaria che «la cosiddetta strada dei pozzi, chiamata da tutti in Somalia strada della cooperazione, in quanto costruita con i soldi della cooperazione italiana, è una strada che non va e non viene da nessuna parte, perché unisce tre discariche abusive gigantesche considerate tra le più grandi del mondo, da sud verso nord».
È inquietante il racconto di un operaio alle dipendenze di una nota ditta di costruzioni italiana operante in Somalia sui lavori di interramento di alcuni fusti nel territorio del Ganon; questi lavori venivano talvolta eseguiti da operai italiani protetti da tute («scafandri»), ma più spesso venivano affidati alle popolazioni locali (ignare dei rischi per la loro stessa vita) e, in caso di morte, ogni pretesa familiare si tacitava con pochi soldi («non costavano nulla» perché «lamentele, pene e ogni altra cosa potevano essere tacitate con la dazione di 50 o 100 mila lire alla famiglia»).
Ulteriore documentazione acquisita dalla Commissione riscontra nomi, ruoli, rapporti e destinazioni illegali dei rifiuti pericolosi e radioattivi, nonché la tipologia degli stessi. In particolare, un faccendiere noto a diversi uffici giudiziari propone ad un console onorario della Somalia l'invio di ingenti quantitativi di rifiuti pericolosi anche radioattivi, facendosi garante del loro trasporto e smaltimento finale in siti che saranno individuati unitamente ai corrispondenti somali, ed avvalendosi di un porto di sbarco che lui stesso ha costruito ad El Maan, una località a nord della città di Mogadiscio: non mancano acquisizioni fotografiche che confermano l'esistenza di questo porto.
Tra i viaggi sospetti all'attenzione dell'autorità giudiziaria c'è quello, nel giugno 1997, di una nave (di proprietà di alcuni degli indagati nel procedimento) in partenza da Livorno con un carico vario, tra cui camion obsoleti, contenitori con macchinari, farmaci e altre merci, con destinazione proprio El Maan (Somalia), dove però non è mai giunta. Alcuni elementi dell'inchiesta lasciano invece ipotizzare che essa trasportava merci pericolose (tra cui rifiuti), alcune provenienti da ditte italiane, con destinazione Dubai.
In altri atti si fa esplicito riferimento (da parte di soggetti coinvolti) all'organizzazione di una nuova esportazione di rifiuti pericolosi e radioattivi verso la Somalia: pure in questo caso, le operazioni portuali e quelle di scarico ed interramento dei fusti nel territorio somalo sono gestiti dai personaggi italiani coinvolti nell'inchiesta. Ancora si riscontra l'esplicito riferimento ai traffici illegali di rifiuti spediti in passato (anni 1988-1990) in Somalia, Malawi e Zaire, con indicazione della disponibilità di navi della portata di 5000 tonnellate, di luoghi dove smaltire e di mezzi per scavare buche profonde.
Non mancano documenti relativi a spedizioni di merce da Livorno a Mogadiscio, via El Maan, in cui ricorrono spedizionieri e


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mittenti che emergono anche negli altri casi di trasporti 'sospetti'. In un caso, si tratta di merce indicata sotto la dicitura di «ferramenta scarsa», inviata in un container da venti piedi spedita nei primi mesi del 1997 a Mogadiscio tramite la società di un indagato: il carico della nave comprendeva anche vernici provenienti da una ditta italiana, la quale risulta aver redatto alcune schede di sicurezza inviate non allo spedizioniere (come accade normalmente) ma al fax di una società terza e da questa girate nello stesso giorno allo spedizioniere (indagato).
È interessante notare che in queste schede di sicurezza è scritto che si tratta di materiale pericoloso come synuil smalto, diluente S98, acquaragia tre palme, diluente nitro 2800. Perciò, le dichiarazioni di certificazione secondo cui nel container si trova un prodotto non infiammabile, non inquinante e innocuo, redatte a cura di un indagato, non sono affatto rispondenti al vero, tenuto anche conto che esse risultano inviate 40 minuti dopo l'invio delle stesse schede di pericolosità. La fattura emessa per la spedizione di tale merce reca un importo di 10 milioni a carico di una terza società che descrive così la merce caricata: «264 confezioni vernici varie dimensioni e colori»; nella stessa fattura si indica altra merce, tra cui cento confezioni di prodotti chimici. Dunque, la merce risulta caricata e spedita. Inoltre, sotto lo stesso numero di fattura, ne risulta emessa un'altra in pari data dallo stesso indagato a carico di una società, con la seguente causale «prestazione di opera per smontaggio negozio e imballaggio materiale per spedizione», pari ad un importo di 7 milioni.
L'operazione descritta induce a ritenere che in realtà sono stati inviati in Somalia dei rifiuti pericolosi, dietro la falsa attestazione doganale che si trattasse di merci non pericolose e destinate come materia prima alla rivendita, mentre in realtà erano vernici e materiale obsoleto destinato allo smaltimento. Insomma, gli elementi evidenziati (e non sono i soli) sembrano davvero troppo numerosi e concordanti almeno su taluni aspetti fondamentali del fenomeno illegale, perché essi - al di là del giudizio di responsabilità penale e di ciò che esso richiede - possano ritenersi frutto di mera fantasia o di un allarmismo che si alimenta di fantasmi.
Ciò senza considerare gli ulteriori dati di conforto che, nell'ambito dell'inchiesta in corso presso la procura di Milano, sono stati offerti a quanto in passato era emerso sul «progetto Urano», almeno nei suoi aspetti fondamentali, da parte di alcuni protagonisti di quella vicenda: la tipologia dei rifiuti pericolosi e radioattivi e la loro prevalente destinazione in Africa (Somalia, Sudan, Eritrea, Algeria, Maghreb); società e personaggi coinvolti, tra cui compaiono nominativi degli attuali indagati, nonché alcuni organismi internazionali.
Né va sottaciuto che i soggetti indagati nella vicenda di Asti sono gli stessi coinvolti nelle ulteriori inchieste che dalla stessa hanno preso avvio presso le procure di Pistoia e Venezia, relative ad una complessa serie di reati che vanno dall'attività di contrabbando, alla truffa in danno di privati e dello Stato, all'associazione a delinquere finalizzata all'attività di movimentazione e riciclaggio di valuta (segnatamente, di valuta kuwaitiana rubata dall'esercito iracheno


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nella zecca di quel Paese in occasione dell'invasione bellica del 1990 e riciclata in numerosi Paesi, europei e non, e anche in Italia) e di denaro di illecita provenienza tramite attività di finanziamento che venivano attuate mediante utilizzo di German gold bonds degli anni 1926-1930, che sono stati estromessi dal mercato ufficiale e legale e venivano invece usati su mercati finanziari paralleli e del tutto illegali per finanziare progetti parimenti illegali (anni 1997- 1998); a tali fini, erano state peraltro create numerose strutture societarie con sede prevalente a Londra, utilizzate fra l'altro per emettere fatture per operazioni inesistenti a favore di ditte italiane. Sia i German gold bonds che la moneta kuwaitiana sarebbero stati impiegati anche per finanziare i diversi schieramenti in guerra nella ex Jugoslavia nonché alcune fazioni in lotta per il potere in Somalia e altri paesi africani.
Come si vede, si tratta di fatti gravissimi, significativi della complessiva dimensione criminale in cui si collocano i traffici internazionali di rifiuti, che sono soltanto una tra le tante, complesse operazioni economiche illegali da cui si possono trarre profitti, peraltro elevatissimi. Non solo: l'intersezione talvolta con vicende belliche di risalto internazionale e che hanno portato organismi sovranazionali ad intervenire in maniera diretta, fanno ritenere che alcune di queste operazioni siano gestite, coordinate o comunque conosciute da apparati governativi.
È necessaria una strategia di controllo che studi la ricorrenza di società, personaggi, metodiche dei comportamenti illeciti; soprattutto, che conosca le nuove frontiere del mercato per anticipare sui tempi quali sono gli affari che fruttano nel ciclo dei rifiuti ed intervenire in tempi reali. Del resto, anche nelle relazioni sulla politica informativa e della sicurezza del 1o e 2o semestre 1999 (v. Camera dei deputati XIII legislatura, doc. XXXIII nn. 7 e 8) è esplicito e preoccupante il riferimento all'attualità delle problematiche ambientali relative ai traffici internazionali di sostanze tossiche e radioattive, in particolare ponendosi l'accento sulla tendenza che si va consolidando anche in questo settore ad operare in una dimensione transnazionale, modulando le progettualità operative sulla globalizzazione dei mercati e sull'evoluzione dei sistemi di comunicazione.

7.3 Le nuove rotte dei traffici

Le nuove informazioni assunte dalla Commissione riguardano attività di smaltimento di rifiuti tossici in vari Stati, ed in particolare l'organizzazione di spedizioni verso Maputo, in Mozambico, a partire dal 1997. Va da subito precisato che le attività di illecito smaltimento in quello Stato non riguardano solo l'Italia ma molti altri paesi, anche extraeuropei, in particolare la Corea.
Nell'ambito del progetto un ruolo chiave viene ad assumere un faccendiere italiano, contattato proprio perché già protagonista di spedizioni di rifiuti verso l'Africa (in particolare di dodici navi cariche di rifiuti partite negli anni Ottanta da Amburgo verso la Guinea), nonché coinvolto nel già citato «progetto Urano». Nella realizzazione dei traffici l'organizzazione si avvale di società di copertura, tra le quali ricompare una delle società al centro dell'indagine della


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procura di Asti. Anche qui si conferma, inoltre, la disponibilità di navi idonee al trasporto dei rifiuti verso gli Stati in via di sviluppo. Non solo: i personaggi italiani coinvolti risultano essere noti a soggetti affiliati alla criminalità organizzata.
Da quanto emerso, l'idea degli smaltimenti illeciti in Mozambico nasce nell'ambito di una cooperazione tra l'Argentina e quella nazione africana, che riguardava anche lo sviluppo di attività industriali nei pressi di Maputo. L'area interessata era stata oggetto di attività estrattiva ai tempi del Governo di Samora Machel. È copiosa la documentazione che mostra l'avvenuta costituzione di società che dovevano gestire la presunta attività industriale, nonché le intervenute autorizzazioni da parte del governo mozambicano allora in carica. Reale interesse dell'organizzazione criminale era naturalmente colmare tale cava con rifiuti di qualsiasi tipologia, mascherando l'operazione con il recupero dell'area.
In particolare, risulta la costituzione nel 1996 di una società con sede in Maputo, avente come oggetto sociale principalmente l'installazione di complessi industriali per lo smaltimento finale di rifiuti di ogni genere, nonché l'autorizzazione a tale società da parte del Ministero dell'ambiente della Repubblica del Mozambico (sempre nel 1996) ad esportare, importare o ricevere tutti i tipi di rifiuti (domestici, ospedalieri e industriali) provenienti da altri Paesi per il successivo trasporto, trattamento e deposito finale nel paese, in conformità alle norme e regole di salvaguardia ambientale in vigore, assumendo come base la classificazione della Convenzione di Basilea. Autorizzazione che però non permetteva una movimentazione dei rifiuti al solo fine dello smaltimento, come in effetti è poi avvenuto. Da evidenziare ancora l'autorizzazione del Ministero del bilancio e delle finanze della Repubblica del Mozambico (1996), a favore del progetto di investimento denominato «smaltimento dei rifiuti» concesso a due società coinvolte nell'inchiesta, relativo all'installazione di unità industriali per la raccolta, il trattamento ed il riciclaggio di scorie e rifiuti domestici, ospedalieri e industriali, nonché per l'installazione e l'utilizzo di inceneritori da realizzare in conformità alla normativa di quello Stato. A tal fine addirittura verrà chiesta ed ottenuta la concessione in godimento di un terreno, sito in località Boane, che si estende per circa 150 ettari, da destinare all'installazione di un impianto di trattamento di rifiuti domestici, ospedalieri e industriali raccolti da alcune città del Mozambico. In realtà, diversa documentazione comprensiva di rilievi fotografici sul posto dimostra che nessun impianto è stato realizzato, mentre esiste un'enorme discarica a cielo aperto destinata ad accogliere rifiuti di ogni genere e provenienti da ogni parte del mondo.
A dimostrazione del coinvolgimento di alte cariche di quello Stato, esiste una lettera del Ministero per il coordinamento delle azioni ambientali del Mozambico (del 10 maggio 1996), indirizzata all'ambasciatore italiano a Maputo, nella quale fra l'altro si propone un accordo bilaterale al fine di importare rifiuti dall'Italia onde far funzionare un forno inceneritore in quanto i quantitativi di rifiuti raccolti in Mozambico non sono sufficienti per alimentare il forno inceneritore in modo tale da assicurare un rendimento economico. In realtà tale impianto non esisteva nel 1996, né esiste oggi! Da


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sottolineare comunque che la rappresentanza italiana non è l'unica ad essere stata interessata, giacché missive di analogo tenore sono state inviate alle ambasciate di Argentina e di Spagna a Maputo.
Tornando ai fatti, risulta che la società costituita nel 1996 a Maputo (filiale mozambicana di un gruppo argentino con filiale anche a Dublino) ha richiesto la concessione dell'area di Boane, asserendo dovervi installare un'attività industriale di trattamento rifiuti provenienti da città del Mozambico. La non rispondenza alla realtà della richiesta discende da ulteriore documentazione, dalla quale emerge come la società mozambicana ha sottoscritto un accordo con una società italiana per operazioni commerciali relative a spedizioni di rifiuti speciali e/o pericolosi italiani presso quel sito, che altro non è se non una discarica.
I rifiuti italiani non sarebbero comunque arrivati per primi in quell'area, giacché gli elementi acquisiti tendono a dimostrare l'avvenuto smaltimento di materiali provenienti dalla Corea e da Taiwan, grazie a traffici gestiti dalla medesima organizzazione criminale. Altro luogo di provenienza dei rifiuti da smaltire in Mozambico risultano essere gli Stati Uniti, sempre con modalità curate - a partire dal 1998 - dall'organizzazione con «sede» in Argentina.
Se non esistono allo stato accertamenti sull'avvenuto smaltimento illecito di rifiuti italiani a Maputo, la documentazione acquisita dalla Commissione fa invece ritenere - per la sua precisione e la sua provenienza - come molto verosimile l'avvenuto smaltimento di circa 600 mila tonnellate di rifiuti nel Sahara spagnolo, probabilmente nell'ambito del «progetto Urano».
Tornando all'«ipotesi Mozambico», l'organizzazione prevedeva anche forme per investire le minori quantità possibili di denaro. Tra l'altro dovevano essere realizzate miscelazioni di rifiuti ad elevata tossicità con rifiuti poco tossici in modo da versare una bassa garanzia al Ministero dell'ambiente (la fideiussione è calcolata sulla tossicità della merce). L'imbroglio documentale viene naturalmente proposto anche sulle quantità, per far figurare minori tonnellate rispetto a quelle effettivamente inviate.
È opportuno a questo punto evidenziare come anche tale attività nasconda altre attività illecite: anzitutto operazioni di riciclaggio di denaro proveniente da attività illecite come il traffico internazionale di armi e di stupefacenti. Il coinvolgimento in particolare nell'attività di un soggetto indicato da diverse polizie come appartenente a organizzazioni attive in quei settori, nonché coinvolto in vicende terroristiche di risonanza mondiale - l'attentato di Lockerbie e il sequestro dell'Achille Lauro - dà la misura del livello criminale. E indica come il traffico internazionale di rifiuti sia uno snodo di più attività illecite: ripulitura di denaro sporco, metodo di pagamento per forniture di materiale bellico e forma illegale di realizzazione di ingenti guadagni per ulteriori investimenti leciti e illeciti.
Una conferma a quanto si è detto viene dall'abilità e dagli «importanti» legami che l'organizzazione criminale riesce a mantenere in diversi ambienti, leciti e illeciti. Le stesse modalità operative sono indicative in tal senso: l'operazione di smaltimento dei rifiuti è coperta da una «facciata» legale che risulta essere l'investimento


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nazionale ed internazionale per la realizzazione di unità industriali al fine del trattamento dei rifiuti, ottenuta con autorizzazioni avute anche tramite un'attività se non corruttiva quanto meno «compiacente» di esponenti legati al potere politico in Mozambico.
Va rimarcato come, purtroppo, ancora una volte le organizzazioni criminali abbiano individuato ormai da tempo le potenzialità (organizzative e finanziarie) di tale business illecito, anticipando e cogliendo impreparata la comunità internazionale. A fronte di un simile livello criminale e di forza economica - ogni nave carica di rifiuti porterebbe un guadagno di circa 10 miliardi di lire - è evidente che non è pensabile una risposta solo nazionale, ma sia necessario un coordinamento internazionale delle forze di contrasto, come quello che si è ormai avviato per affrontare il fenomeno della criminalità organizzata. Non tanto, o non solo, per il traffico di rifiuti in quanto tale, ma per quello che tale traffico nasconde e che si è prima illustrato.

8. Valutazioni riassuntive

Il complesso di tutte le vicende esposte nei diversi capitoli di questa relazione conducono la Commissione al convincimento dell'esistenza di una vastissima ramificazione di forme varie di criminalità comune ed organizzata anche di tipo mafioso, praticamente in tutte le regioni d'Italia o almeno di tutte quelle che hanno formato oggetto di analisi da parte della Commissione. Nel corso degli ultimi anni i traffici illeciti nel ciclo dei rifiuti non hanno fatto segnare alcun calo. È senz'altro aumentata l'attività d'indagine da parte dell'autorità giudiziaria e delle forze di polizia, ma con ciò - anche per i limiti che l'azione delle stesse incontra a livello normativo - aumenta la statistica dei reati contestati e delle attività illecite perseguite senza però riuscire ad avere un impatto adeguato alla gravità della situazione. Anzi, dal lavoro di ricognizione effettuato risulta un elemento di novità nelle tipologie dell'illecito: non sono più all'ordine del giorno tanto le mega-discariche abusive, quanto piuttosto interramenti e sversamenti di minore entità quantitativa, o abbandoni incontrollati di rifiuti in aree chiuse (quali i capannoni industriali dismessi) che comunque creano rilevanti problemi in termini di bonifica e di ripristino. Al fenomeno corrisponde una maggiore «raffinatezza» dei traffici, che hanno abbandonato - come abbiamo visto - le caratteristiche originarie del trasporto e dello scarico selvaggio, per approdare a forme di illecito complesse, centrate sul meccanismo della truffa e della falsificazione dei documenti, che si giovano anche della scarsa capacità di controllo (quando non della collusione) degli organi amministrativi.
In sostanza, l'imprenditoria deviata e le organizzazioni criminali si sono evolute, hanno esteso il loro raggio d'azione ben oltre il loro territorio naturale, presentandosi sul mercato come aziende titolari di regolare autorizzazione, pronte a sfruttare qualsiasi spiraglio offerto dalle lacune normative.
Né vi sono più aree esenti da fenomeni di infiltrazioni di tipo mafioso nel ciclo dei rifiuti, pur con le forti differenze nell'entità del


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fenomeno nei diversi territorio. Molti episodi mostrano che non esiste, per fortuna, in vaste aree del Paese una criminalità organizzata e radicata nel territorio: esistono però presenze e attività di stampo mafioso nel ciclo dei rifiuti che non consentono più di parlare di «isole felici». Valga per tutte quanto esposto, ad esempio, nel capitolo dedicato alle infiltrazioni nelle aree non tradizionalmente mafiose. Nella preoccupazione generale occorre però prendere atto di un dato che è assai importante e precisamente che questa presenza diffusa non si esprime - se non nelle regioni a tradizionale presenza mafiosa - nella forma di controllo del territorio e del ciclo economico che qui interessa. Infatti, nelle regioni del centro-nord, anche in presenza di collegamenti con gruppi criminali che operano stabilmente in altre aree del Paese, la mancanza di un consenso diffuso, la resistenza di un tessuto economico-sociale complessivamente sano e consapevole e l'attività svolta dai soggetti istituzionali che, specie negli ultimi anni, si è dimostrata sensibile al problema, funzionano da deterrente ed impediscono la riproduzione delle condizioni ambientali tipiche delle zone di origine delle organizzazioni di tipo mafioso.
Si tratta di un dato registrato dalla Commissione nel corso della sua indagine ed evidenziato dalle vicende che si sono analizzate. Questo dato, che può recare qualche elemento di conforto, non deve far dimenticare che quelle condizioni possono sempre realizzarsi se non si interviene a bloccare la crescita dell'insediamento di tipo mafioso, e soprattutto che in molti casi ci si comincia ad avvicinare troppo ad una situazione del genere: ciò avviene ogni volta che - come si è visto - gli insediamenti criminali diventano corposi e robusti, l'organizzazione si stabilizza ed i collegamenti all'interno e fuori dell'area sono consistenti.
In questo contesto si collocano alcune zone della Liguria, del triangolo Piemonte, Lombardia ed Emilia, alcune aree del Lazio e dell'Abruzzo. E non è davvero poco, se si riflette sulle caratteristiche di queste regioni e sulle progressive interferenze della criminalità organizzata che si sono registrate e che appaiono in espansione, con modalità operative sempre più subdole e raffinate (si pensi al meccanismo del «giro bolla» o al sistema di alterazione del mercato degli appalti) che significano disponibilità, strumenti e mezzi.
Questa situazione dà l'idea dell'entità del fenomeno, della sua complessità e delle diverse ragioni - tra cui il deficit del sistema dei controlli e la assoluta inadeguatezza della normativa repressiva delle condotte illecite - per cui con tanta facilità esso ha potuto e può presentarsi anche in zone certamente ricche ed evolute, come la Lombardia, il Piemonte e l'Emilia Romagna; ma di infiltrazioni nelle aree non tradizionali si sono trovate significative e consistenti conferme anche in regioni come l'Abruzzo e la Basilicata, perché i gruppi criminali sanno percepire le possibilità di sfruttamento che derivano dall'essere zone ancora quasi vergini e poco presidiate.
Se si facesse una mappa della presenza della criminalità organizzata di tipo mafioso nelle aree esaminate, il risultato sarebbe impressionante, perché questa sarebbe presente pressoché ovunque, sia pur con connotati, intensità e pericolosità di diverso livello. E se un'altra mappa si dovesse predisporre con specifico riferimento alle metodologie, agli strumenti e alle modalità operative, il quadro


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sarebbe altrettanto allarmante per la sua varietà e per il livello spesso sofisticato delle infiltrazioni e delle operazioni di inserimento e infine per la stessa capacità dei criminali di cogliere spazi di manovra anche nelle maglie della normativa, al fine di realizzare nuovi profitti e riciclare le enormi quantità di denaro illegalmente acquisito e che occorre, in qualunque modo, reimpiegare sia in operazioni lecite che illecite.
Si constata, cioè, in questo settore, quanto si è verificato per il fenomeno del riciclaggio e/o l'impiego di denaro proveniente da attività illecite da parte delle consorterie mafiose: una vera e propria assistenza tecnica di agenzie criminali specializzate. La procedura del cosiddetto «giro bolla» e la centralità delle società di intermediazione commerciale e dei centri di stoccaggio temporaneo nelle operazioni illecite, richiama, infatti, il concetto del riciclaggio: i rifiuti vengono fittiziamente declassificati, perdono cioè le loro caratteristiche originarie esclusivamente sulla carta, grazie alla falsificazione dei documenti di trasporto che avviene all'origine presso i produttori o lungo il percorso verso i luoghi di smaltimento finale, quindi sono immessi nel legale circuito dei residui riutilizzabili o inviati in impianti non idonei a riceverli. Per ridurre ulteriormente i costi, gli stessi vengono, infine, smaltiti in discariche abusive, costituite essenzialmente da semplici buche nel terreno o miscelati ai materiali impiegati per la realizzazione di opere varie, comprese le abitazioni civili.
In questo contesto - come la Commissione ha più volte evidenziato, raccogliendo l'esperienza dei magistrati impegnati nel settore - le società di intermediazione commerciale ed i centri di stoccaggio temporaneo costituiscono veri e propri motori dell'intera attività illecita relativa allo smaltimento dei rifiuti. Le prime, infatti, rappresentano il tramite tra il soggetto produttore, che deve disfarsi del rifiuto, e le aziende di trasporto, stoccaggio intermedio, trattamento e smaltimento finale del rifiuto stesso. Le società di stoccaggio intermedio, autorizzate per il deposito temporaneo dei rifiuti, hanno la precipua funzione di regolare il flusso dei rifiuti destinati ad impianti di trattamento (quando l'autorizzazione non sia estesa anche all'attività di trattamento), riciclaggio e/o smaltimento finale. Infine, i trasportatori movimentano i rifiuti sul territorio, dietro segnalazione delle società di intermediazione commerciale, e certamente rappresentano un ganglo essenziale dell'operazione illecita descritta, in quanto materialmente trasferiscono i rifiuti dal produttore al centro di stoccaggio o all'impianto di smaltimento finale. Qualora, poi, il rifiuto debba essere fittiziamente inviato ad impianti di recupero, è necessaria l'esistenza, almeno sulla carta, di uno di tali centri. A tale scopo l'imprenditoria deviata e le organizzazioni criminali hanno individuato la «scappatoia» nelle procedure semplificate previste dagli articoli 32 e 33 del «decreto Ronchi», che consentono l'apertura di impianti di recupero dietro la mera comunicazione di inizio attività, cui deve seguire - entro 90 giorni - la verifica da parte dell'organo amministrativo, in tal caso la provincia. Da un'apposita indagine della Commissione - nonché da alcune delle inchieste giudiziarie citate - è emerso come tale verifica spesso non avviene nei tempi previsti, e comunque sono sufficienti assai meno di 90


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giorni per trasformare un impianto industriale dismesso in un'autentica discarica abusiva colma di decine di tonnellate di rifiuti di ogni tipologia. A questo punto le società falliscono, ma non sono mancati casi di comunicazione di inizio attività addirittura da parte di società inesistenti.
Basti citare, a titolo di esempio, quanto verificatosi a Pontinia, dove la stessa Commissione ha individuato un sito in cui erano stati stoccati oltre 11 mila fusti per il trasporto di rifiuti pericolosi che dovevano essere recuperati, ma mancavano i macchinari per le diverse fasi di lavorazione; la società aveva presentato una semplice comunicazione di inizio attività, che non era palesemente in grado di svolgere. Per questi motivi la Commissione ha convocato sul posto l'autorità giudiziaria di Latina, che ha provveduto al sequestro dei fusti e dell'area.
Tale meccanismo viene utilizzato anche per la gestione illecita della frazione secca dei rifiuti solidi urbani: in pratica tale materiale anziché essere riciclato viene inviato allo smaltimento abusivo, con ciò truffando in primo luogo il cittadino che aderisce alla raccolta differenziata e paga per tale servizio.
Da ultimo, è bene porre nel dovuto risalto come si registrano, in questo specifico settore, nuove forme di azione da parte della criminalità organizzata che - tradizionalmente - si avvicina in maniera parassitaria e violenta al soggetto imprenditore, cercando di trarre un lucro dalla protezione che gli assicura, sottraendo in tale modo risorse guadagnate dalle imprese e riversandole nelle sue casse. Nel caso dei rifiuti il rapporto si presenta in forme diverse. Le industrie produttrici di rifiuti devono farsi carico di costi spesso elevati per lo smaltimento del materiale di scarto prodotto, a cui si lega il sostanziale deficit di impianti di smaltimento esistenti sul territorio nazionale. L'organizzazione criminale, in siffatto contesto, offre un efficiente servizio alternativo che abbatte i costi e garantisce la continuità nello smaltimento dei rifiuti, poiché assicura il superamento di qualunque ostacolo di tipo burocratico e consente l'immediato deflusso degli scarti di produzione senza andare troppo per il sottile nel rispetto della normativa vigente. Si determina, quindi, uno stretto rapporto tra produttore dei rifiuti ed organizzazione criminale, in cui il primo è perfettamente consapevole di rivolgersi a soggetti che scientemente e per proprio tornaconto mettono in atto un micidiale ciclo.
Né si può tacere il fatto che tale offensiva criminale - in grado di stravolgere le regole del mercato - è agevolata dall'atteggiamento dei produttori di rifiuti, che generalmente si disinteressano della destinazione finale degli stessi, grazie anche alla sostanziale irresponsabilità di cui godono di fronte alla legge in caso di smaltimento illecito. Forme di collusione - purtroppo, come abbiamo visto, non infrequenti - tra il produttore dei rifiuti e lo smaltitore illegale sono d'altra parte difficilmente accertabili a causa dell'inadeguatezza degli strumenti normativi a disposizione della magistratura e delle forze di polizia. Allo stesso modo sono di difficile accertamento i casi di collusione con organi della pubblica amministrazione nei casi di omesso controllo.


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8.1 Alcune considerazioni sulla normativa

Le vicende che si sono illustrate nella prima parte di questo lavoro denunciano una serie di carenze a livello normativo. Il «decreto Ronchi» - che pure ha rappresentato un drastico cambiamento di rotta rispetto al quadro delineato dalla vecchia normativa sui rifiuti, in armonia, del resto, con le nuove direttive comunitarie - presenta molto spesso il metodo di enunciare una regola cui seguono numerose eccezioni, subeccezioni e eccezioni alle eccezioni, a volte disperse in più articoli (il tutto nell'ambito di un testo che si compone di 58 articoli, quasi tutti divisi in numerosi commi e sei allegati) dal che discendono inevitabilmente difficoltà di comprensione e, quindi, di concreta applicazione da parte degli operatori del settore, senza contare che in alcuni casi la determinazione concreta della fattispecie e, quindi, la reale operatività del testo normativo, è rinviata a norme tecniche ancora, in parte, da emanare.
Sono stati eliminati alcuni strumenti fondamentali per il controllo sui movimenti dei rifiuti «dalla culla alla tomba», come è necessario per contrastare l'ecomafia: ad esempio, la violazione dell'obbligo della corretta tenuta del registro di carico e scarico è mero illecito amministrativo anche per i rifiuti pericolosi; l'obbligo delle annotazioni sui libri ha cadenza settimanale, non già immediata, di modo che è facile, in caso di controllo, dire che quei rifiuti rinvenuti nello stabilimento e non registrati, stavano per essere inseriti nel registro; ancora, il trasportatore professionale di rifiuti ha l'obbligo di inserire nel registro le informazioni sulle caratteristiche qualitative e quantitative dei rifiuti e non anche quelle sulla loro origine e destinazione, laddove invece, secondo le direttive comunitarie, l'articolo 20 del «decreto Ronchi» impone alle province che i controlli sulla raccolta e il trasporto dei rifiuti pericolosi riguardino, in primo luogo, l'origine e la destinazione dei rifiuti. Tale insufficienza del formulario di identificazione favorisce i traffici illeciti di rifiuti e rende, invece, necessaria l'introduzione di un sistema di identificazione del singolo rifiuto che ne segua l'intera vita dal luogo di produzione a quello di destinazione finale (sia esso di recupero e/o di smaltimento).
Si tratta, per la verità, di profili cui si potrebbe rimediare attraverso uno sforzo di integrazione, di correzione e di riordino sistematico della normativa, ed un deciso adeguamento delle strutture pubbliche di applicazione. A tutto ciò devono aggiungersi i numerosi compiti e adempimenti di cui il decreto carica regioni, province e comuni, già oggi rivelatisi inadeguati, anche a causa dell'insufficienza delle attuali strutture e di personale qualificato.
Altro aspetto negativo generale attiene ad una «semplificazione» che rischia di risolversi, in taluni casi, in una libertà di inquinamento. Le vicende riguardanti le attività di recupero, come detto, hanno messo in evidenza il pericolo insito nel regime della sola comunicazione di inizio attività da parte di coloro che svolgono attività di recupero, cui dovrebbe seguire un sopralluogo da parte dell'organo provinciale entro novanta giorni dalla comunicazione.


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Anche la raccolta differenziata si è prestata all'attività dei trafficanti di rifiuti, come dimostrano i numerosi capannoni dismessi riempiti di frazione secca che la Commissione ha avuto modo di vedere in diverse regioni (Lombardia, Abruzzo, Toscana, Friuli, Lazio), tutti accomunati dall'avvenuta comunicazione agli organi preposti dell'inizio attività di stoccaggio o recupero, senza dimenticare che anche dall'estero è arrivato materiale raccolto in maniera differenziata, come dimostrano le migliaia di tonnellate di plastica stoccate abusivamente ad Asti, che la Commissione ha constatato direttamente.
Del ruolo decisivo dei centri di stoccaggio provvisorio nei casi di traffici illeciti di si è già ampiamente detto: ebbene, anche in questo caso il «decreto Ronchi» richiede la sola comunicazione alla regione e il successivo controllo della provincia, consentendo nelle maglie di questa doppia competenza l'utilizzo del centro di stoccaggio, regolarmente denunciato, come centro di smistamento del materiale da smaltire illecitamente o addirittura come sito finale dello smaltimento.
Va inoltre sottolineato come la mancata imposizione di prestazione di garanzia fideiussoria per le imprese sottoposte al regime della sola comunicazione, favorisce la creazione di numerose società nullatenenti(20).

(20) V. al riguardo audizione del sostituto procuratore della Repubblica di Milano, dottoressa Paola Pirotta, del 27 giugno 2000.

In alcuni casi anche il comportamento della pubblica amministrazione rischia addirittura di compromettere l'operato della magistratura. È quanto rappresentato alla Commissione dal sostituto procuratore della Repubblica di Milano: la scarsità dei provvedimenti di divieto di iniziare e/o proseguire l'attività ed, invece, la frequenza con cui la provincia emette provvedimenti di diffida, infatti, finisce implicitamente col legittimare la mera comunicazione dell'attività anche quando la procura contesta proprio l'assenza dei requisiti prescritti all'articolo 33 del «decreto Ronchi» per lo svolgimento di quell'attività in regime di comunicazione. In tal modo, di fatto le attività di gestione dei rifiuti sono di regola effettuate in regime di comunicazione, come è facile riscontrare nella proliferazione di numerosissime società - delle quali, spesso, legali rappresentanti sono delle «teste di legno» - che formalmente esercitano attività di recupero rifiuti, ma sostanzialmente sono dedite solo ad un illecito smaltimento degli stessi e per lo più gestite da soggetti noti alla magistratura e alle forze dell'ordine perché operano da anni illegalmente in questo settore.
L'intento del legislatore di semplificare le procedure amministrative ha finito, in buona sostanza, per essere sfruttato da operatori spregiudicati. È evidente allora che occorre una diversa attivazione da parte degli enti locali, abolendo il meccanismo della semplice comunicazione e prevedendo un controllo della regione o dell'Arpa, prima di rilasciare il nulla-osta, e successivi controlli periodici da parte delle province - previo potenziamento delle loro strutture - per verificare il corretto esercizio dell'attività dichiarata.


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8.2 L'anagrafe tributaria

Non va sottaciuta la scarsa efficacia del sistema dell'anagrafe provinciale nel settore dei rifiuti. Questa, infatti, risponde a finalità prettamente sociali che mal si conciliano con le necessità di controllo delle società che operano nel ciclo: è possibile che le stesse persone compaiano in più società, che non offrono alcuna garanzia fideiussoria. Ciò spiega la ricorrente presenza nelle attività illecite nel ciclo dei rifiuti degli stessi soggetti, che operano da svariati anni.
Si tratta di un fenomeno che tocca l'intero paese, comprese le grosse aree industriali del nord: ad esempio, a Milano e nelle provincie vicine (come Pavia, Novara, Vercelli), gli stessi soggetti usano presentare più comunicazioni nelle singole province ed esercitano la loro attività nello stesso territorio. A favorire il fenomeno contribuisce l'interpretazione dominante delle pubbliche amministrazioni del nord Italia, secondo cui non solo le operazioni di recupero, ma anche la realizzazione degli impianti di recupero, sono soggetti al regime della comunicazione e non già a quello dell'autorizzazione, in contrasto con l'interpretazione restrittiva del dettato normativo che sembra per verità imposta dal riferimento degli articoli 27 e 28 del decreto alla realizzazione dell'impianto di recupero, mentre l'articolo 33 contempla le sole operazioni di recupero per sottoporle al regime della comunicazione. L'interpretazione restrittiva è peraltro in armonia anche col dettato dell'articolo 31 del citato decreto, relativo alla costruzione dell'impianto, ché altrimenti si arriverebbe a sostenere che per la costruzione dell'impianto è sufficiente la comunicazione, mentre per l'esercizio delle operazioni di recupero, qualora non si rispettino le norme tecniche, necessita l'autorizzazione.
Addirittura, secondo quanto riferito alla Commissione, la regione Lombardia con la delibera n. 40410 del 1998, in contrasto con la ratio del legislatore nazionale, ha ritenuto che gli inerti non sono rifiuti e in taluni casi possono addirittura non essere soggetti neppure al regime della comunicazione.

8.3 Il problema della catalogazione dei rifiuti

Conseguenze negative ha sul sistema di gestione del ciclo dei rifiuti l'assenza di previsione di qualsiasi tipo di analisi per la classificazione del rifiuto (prevista solo in funzione del codice CER) e/o di un'omologa di qualsiasi tipo che possa attestare la vera natura del rifiuto. Intanto il rifiuto può classificarsi come pericoloso, in quanto rientra nell'elenco dell'allegato D del «decreto Ronchi», senza dare alcun rilievo alla sua vera natura, il che porta spesso a situazioni inaccettabili.
Vale ricordare l'esempio della miscela di ebanite nella vicenda Ecobat di cui si occupa la procura di Monza (vedi sopra) e quello addotto dal sostituto procuratore di Milano delle polveri di abbattimento dei fumi dell'industria siderurgica, prodotte in quantità considerevoli nel nord Italia, e con una forte concentrazione nel territorio del Piemonte. Queste ultime contengono piombo, cromo


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esavalente e cadmio in concentrazioni massicce, ma nonostante ciò, non essendo il loro codice incluso nell'elenco di cui all'allegato D, sono soggette alla procedura del riutilizzo perché non pericolose. Ne discende che se questo rifiuto è smaltito in discarica, si applicano le procedure previgenti e la delibera del Comitato interministeriale del 1984; invece, se esso viene destinato al recupero, non è previsto alcun trattamento.
Sotto questo profilo basterebbe una semplice rettifica del dettato normativo dell'articolo 7 - che, peraltro, era sicuramente nelle intenzioni del legislatore, altrimenti non avrebbe avuto senso la modifica del Ronchi bis - ed un'integrazione dell'articolo 57, nella parte in cui non fa menzione dell'attività di recupero.
Ai problemi di diritto interno della catalogazione dei rifiuti cui si è accennato, vanno aggiunti quelli determinati dalla mancanza di una definizione e classificazione omogenee dei rifiuti sul piano europeo, sempre più avvertiti dagli operatori del settore e per la cui risoluzione è impegnato, in particolare, il Comitato per l'adeguamento tecnico-scientifico delle legislazioni sui rifiuti previsto dalla direttiva CEE n.91-156. Ad essi si aggiungono le difficoltà dipendenti dalla non corrispondenza tra codici europei e codici di identificazione doganali dei rifiuti che, determinando ulteriori sovrapposizioni e confusione, certamente agevolano la commissione di traffici illeciti di rifiuti tra i vari paesi, secondo quanto la Commissione ha rilevato nella relazione avente ad oggetto i traffici transfrontalieri di rifiuti alla cui ampia trattazione si fa rinvio.

8.4 L'inadeguatezza del sistema sanzionatorio

Venendo ora al profilo sanzionatorio delle violazioni relative al settore dei rifiuti, la realtà emergente dalle indagini svolte dalla Commissione, in particolare nelle regioni a tradizionale presenza mafiosa (come la Sicilia), rende evidente come a fronte di attività illecite nel contesto delle quali si è inserita, con un lucroso profitto, la criminalità organizzata, l'effetto della normativa ambientale vigente è praticamente nullo, giacché le modeste sanzioni previste sono del tutto inadeguate a fronteggiare e scoraggiare i vantaggi economici miliardari che determinano.
Vale ricordare che manca la previsione del delitto ambientale e che il traffico illecito di rifiuti è punito come contravvenzione, che alcuni obblighi sono sprovvisti di sanzione, che in alcuni casi i soggetti attivi del reato risultano non coincidenti con i soggetti indicati nel precetto come destinatari dell'obbligo da sanzionare e, purtroppo, l'elenco potrebbe continuare.
In particolare, lo strumento della contravvenzione, anziché quello del delitto, a sanzione della maggior parte delle condotte illecite del settore, espone al forte rischio di una prescrizione in tempi assai brevi, non compatibili con la durata del processo, e non consente alla magistratura e alle forze dell'ordine di adoperare tutto lo strumentario investigativo conseguente alla sussistenza dei delitti (intercettazioni telefoniche e ambientali), che sarebbe particolarmente utile. Lo stesso discorso va fatto circa l'impossibilità di chiedere misure


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cautelari interdittive e personali che pure sarebbero certamente giustificate, quantomeno nei casi più gravi in cui il danno recato alla collettività e, a volte, anche ai singoli individui, è di gran lunga maggiore di quello cagionato da molti dei reati contro il patrimonio, per i quali pure si prevede la possibilità o addirittura l'obbligo di adottare, ad esempio, misure cautelari personali.
Paradossalmente, in alcune situazioni l'azione di contrasto è resa possibile non perché l'oggetto dell'indagine è il traffico e lo smaltimento illecito di rifiuti, ma le operazioni finanziarie illecite che stanno a monte e che configurano fattispecie di delitti (si pensi al reato fiscale, al falso in bilancio); fuori dei casi, poi, in cui da subito emergono elementi che facciano ipotizzare i reati di falso, truffa, ovvero dei casi - ancora più rari - di un disastro ambientale o dell'avvelenamento di acque, la Commissione ha dovuto registrare lo sforzo di alcuni operatori di giustizia di ricerca di ipotesi di reato «collaterali», che consentano di colpire la gestione illecita dei rifiuti. Ciò vale ancor più quando ricorrono gli estremi dell'associazione per delinquere, che - per la sua natura di delitto - non può essere contestata rispetto a sanzioni amministrative o reati contravvenzionali, nonostante che la complessità del fenomeno criminale descritto richieda di essere posto prevalentemente in relazione all'esistenza di strutture criminali create allo scopo.
Lo sforzo effettuato nell'utilizzazione normativa non può, tuttavia, surrogare l'esigenza di una norma precisa per ciò che attiene alle prassi applicative ed investigative; la semplificazione normativa e l'individuazione di meccanismi sanzionatori semplici, chiari ed efficaci, farebbero accrescere, invece, sia i livelli di deterrenza nei confronti dei soggetti destinatari delle norme che i livelli di efficacia dell'azione degli uffici requirenti e di polizia.
Le audizioni dei magistrati impegnati in inchieste attinenti al ciclo dei rifiuti ha inoltre fatto emergere la crisi di razionalità delle misure di prevenzione. La natura contravvenzionale delle fattispecie normative nel settore dei rifiuti - anche quando siano stati individuati precisi interessi economici e patrimoniali direttamente riconducibili alle organizzazioni criminali di tipo mafioso - non consentono nella gran parte dei casi di aggredire l'impresa camorristica o mafiosa nel suo patrimonio complessivo, privandola delle capacità economiche di reinvestimento. In questo modo gli enormi patrimoni mafiosi che si formano grazie al traffico illecito dei rifiuti vengono sostanzialmente sottratti ad un'efficace azione giudiziaria.

8.5 Proposte normative in campo penale

La Commissione, recependo le univoche segnalazioni provenienti dalla magistratura e dalle forze dell'ordine, con l'approvazione del doc. XXIII n. 5, ha formulato una proposta d'inserimento nel codice penale di alcune figure di reato previste come delitti, dalla cornice edittale non indifferente e concernenti condotte di danneggiamento dell'ambiente, redatte in modo tale da ricomprendere anche quelle che possono derivare da un'illecita gestione dei rifiuti.


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Viene previsto, infatti, l'inserimento nel titolo VI del libro II del codice penale di un capo relativo ai delitti ambientali, con ciò riconoscendo alle aggressioni all'ambiente lo stesso disvalore giuridico che connota le condotte lesive dell'incolumità pubblica e della salute pubblica.
Di particolare rilievo è la previsione del delitto di traffico illecito di sostanze dannose per l'ambiente e la salute, in cui s'incrimina la produzione, il trasporto, l'acquisto e la cessione non autorizzati di sostanze tossiche e dannose per l'ambiente; nonché la previsione di un'aggravante speciale rispettivamente per il delitto di associazione per delinquere (quando i delitti-scopo siano delitti contro l'ambiente) e di associazione mafiosa di cui all'articolo 416 bis (quando le attività economiche di cui gli associati intendono assumere o mantenere il controllo siano finanziate con i proventi di attività illecite contro l'ambiente).
L'impostazione che la Commissione auspica che sia assunta a livello legislativo è pertanto quella di unificare, sotto il profilo della tutela penale, il concetto di aggressione all'ambiente, contemporaneamente abrogando tutte le norme sanzionatorie di minor rilevo sparse nella legislazione e prevalentemente ispirate a controlli formali.
Purtroppo, si deve rilevare con rammarico che a fronte delle spinte in questa direzione che vengono da formazioni sociali ed organi istituzionali, gran parte della classe politica non ha finora mostrato particolare zelo ed interesse: i disegni di legge per l'introduzione dei delitti ambientali nel codice penale (sia quello governativo, sia quelli d'iniziativa parlamentare, frutto del lavoro della Commissione) giacciono ormai da un anno all'esame del Senato. Queste incertezze del legislatore, questa eccessiva dilatazione dei tempi di approvazione dei nuovi strumenti di prevenzione e di contrasto, non soltanto sono produttivi di effetti disastrosi rispetto alle situazioni già in atto, ma - è bene dirlo - a causa del forte impatto che esse hanno sulla società civile, ad ogni livello, rischiano di minare anche l'azione tenace e caparbia di coloro che sono impegnati da anni nella difesa di un bene prezioso per tutti e che richiede uno sforzo comune, la cui tutela, invece, rimane ancora in larga parte affidata all'iniziativa volenterosa del singolo magistrato, del singolo rappresentante delle forze dell'ordine, alla denuncia di un'associazione ambientalista.
Non si vuol negare che negli ultimi anni la società civile si sia mostrata più attenta alla tutela dell'ambiente e che vi sia stata una progressiva presa di coscienza della stessa autorità giudiziaria delle problematiche connesse al ciclo dei rifiuti, la qual cosa spiega perché solo di recente sono stati accertati fatti «di vecchia data» che hanno portato ad una maggiore attenzione ed approfondimento delle tecniche di accertamento delle attività illegali. Ma l'impegno deve essere massimo verso un processo di sensibilizzazione culturale che ancora non è stato completato, ed una valorizzazione delle professionalità nel settore dell'ambiente e, specificamente in quello attinente al ciclo dei rifiuti.
E in quest'ottica deve essere nuovamente ribadito che l'asse della lotta alla criminalità ambientale va spostato sull'osservazione di


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parametri diversi da quelli meramente giudiziari, ponendo al centro dell'attività di contrasto i controlli amministrativi, gli accertamenti fiscali e la corretta lettura dei fenomeni economici, ivi comprese le condizioni della libertà del mercato degli appalti. In sintesi, spostare l'osservazione prioritaria dal campo penale a quello economico ed uscire finalmente dall'equivoco che il giudice penale sia titolare e vicario di una funzione di controlli anche di natura amministrativa. Ciò a prescindere dalla necessità di affidare al magistrato penale strumenti più idonei di quelli di cui al momento dispone.
Ma va sempre sottolineato come lo strumento processuale è sì importante, ma non decisivo, perché ciò su cui fare affidamento è soprattutto l'effettività dei controlli amministrativi. La vicenda di Pitelli rappresenta solo la punta dell'iceberg di un sistema - quello dei controlli amministrativi - che in generale si è rivelato inadeguato ed inefficiente, anche a causa della proliferazione legislativa, spesso convulsa, degli ultimi anni, che ha determinato nel settore un eccessivo frazionamento ed intreccio di competenze e di adempimenti rispetto ai quali diventa difficile sia una verifica del raggiungimento degli obiettivi dell'attività, sia una ricerca e individuazione delle responsabilità.
Assai debole è anche il coordinamento tra le varie forze di polizia, come (fatto ancora più grave, attesa l'esistenza dello strumento processuale di cui all'articolo 117 del codice di procedura penale) tra gli uffici giudiziari inquirenti, spesso costretti ad operare su stralci di inchieste trasmessi una volta effettuati gli accertamenti. Se va preso atto della sollecitudine con la quale alcuni organi di polizia giudiziaria (quelli specializzati, in particolare i carabinieri del Noe ed il comando del Corpo forestale dello Stato) hanno seguito i procedimenti aventi ad oggetto la questione rifiuti, d'altra parte occorre anche porre in evidenza che la gran parte delle indagini è scaturita da fatti accidentali. Mancano, cioè, referenti istituzionali capaci di letture dei fenomeni che possano portare a denunzie motivate ad opera delle strutture amministrative di controllo preposte alla verifica della regolarità nelle modalità di conduzione dei traffici. Sembra debole il controllo delle forze di polizia diffuse nel territorio ed aventi anche compiti di carattere amministrativo (vigili urbani, polizia stradale, guardie ecologiche, eccetera), al fine di individuare ed interpretare i traffici e le connesse mistificazioni gestionali. In particolare, come detto, sembra mancare una conoscenza approfondita del fenomeno di infiltrazione da parte degli organi di investigazione specifica che non sempre hanno saputo mettere a punto e focalizzare le pur copiose informazioni emergenti da più parti.
Nella direzione di una progressiva presa di coscienza del valore da annettere alle indagini in materia ambientale ed acquisizione di un patrimonio di conoscenze capace di letture più approfondite e complessive dell'intero fenomeno, va senz'altro segnalata la recentissima iniziativa (1999) con cui il comando generale del nucleo di polizia tributaria, recependo una direttiva del Ministero delle finanze, ha imposto a tutti i comandi che operano sul territorio nazionale di inserire nella programmazione delle attività di verifica i soggetti che operano nel settore rifiuti (imprese di smaltimento e di trasporto,


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movimento terra e altro). Si auspica, quindi, che tra qualche anno nel contenzioso tributario comparirà anche questo tipo d'impresa.
Conclusivamente, appare del tutto condivisibile il monito del procuratore generale presso la corte d'appello di Bari, dottor Riccardo Di Bitonto, secondo il quale: «se vogliamo condurre una guerra ad armi pari, dobbiamo farlo attraverso le più alte tecnologie ed utilizzando le persone più qualificate dal punto di vista professionale (...) Se vi fosse un coordinamento tra gli istituti assicuratori, le forze di polizia ed il Noe, potremmo raggiungere risultati apprezzabili (...) Se non creiamo dei soggetti istituzionali con specifiche responsabilità tecniche, giuridiche, politiche ed amministrative e che dispongano degli strumenti per poter attingere alle varie informazioni, non riusciremo a portare avanti in maniera adeguata la nostra battaglia (...) non riusciremo a dare una risposta alla criminalità organizzata, adeguata all'azione condotta da tali criminali»
Il procuratore ha anche avanzato la proposta di consentire anche a magistratura e alle altre forze dell'ordine l'accesso al sistema informatico Schengen (SIS), attualmente riservato solo al Ministero dell'interno e alla polizia di Stato. Ciò consentirebbe, anche per quanto riguarda i rifiuti, di poter valutare i riflessi internazionali di questi traffici.
Tale libertà di accesso richiederebbe una modifica sul punto della convenzione, da adottare, quindi, in altra sede, ma che a questa Commissione non sembra inutile proporre alle valutazioni del Parlamento e del Governo, anche perché appare paradossale che le informazioni siano accessibili alle forze di polizia giudiziaria e non alla magistratura.
Per quanto concerne le innovazioni tecnologiche in materia è opportuno segnalare, sul fronte della prevenzione, il sistema ideato dall'Anpa ed attualmente in fase di sperimentazione, per il controllo amministrativo in tempo reale delle movimentazioni dei rifiuti; il sistema prevede la dotazione ai trasportatori di strumenti che (collegati via satellite a un elaboratore centrale) segnalano l'avvenuta presa in consegna e l'avvenuto conferimento dei rifiuti. Sempre tramite il medesimo strumento, con dei badges, il produttore e il ricettore dei rifiuti danno comunicazione delle quantità consegnate o prese in carico. Un sistema che potrà da un lato semplificare l'intera procedura e dall'altro consentirà di avere costantemente sotto controllo i flussi di rifiuti, e quindi potrà agire in maniera molto efficace sul versante della prevenzione degli illeciti.
Tornando invece al settore della repressione, la Commissione ha rilevato come negli ultimi anni anche la magistratura ha mostrato un interesse e uno strumentario culturale in grado di andare al di là dei singoli fatti, di particolare rilievo, di cui questo o quel sostituto si stesse occupando, per acquisire finalmente una maggiore consapevolezza della gravità e delle dimensioni del problema ed impegnarsi in attività di formazione e specializzazione nel settore, che devono, però, essere intensificate e garantite sin dall'inizio a coloro che andranno ad occuparsi di tematiche ambientali nelle sedi giurisdizionali di destinazione e vanno completate con la realizzazione di forme stabili di coordinamento tra uffici giudiziari.


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Al riguardo, i magistrati impegnati sul fronte dell'ecomafia hanno sottolineato che le possibilità di collaborazione tra organi inquirenti sono maggiori quando l'illecito ricade nella competenza degli uffici della dda che, attraverso la dna e la banca dati ivi disponibile, assicura il coordinamento a tutte le 26 procure distrettuali dislocate sul territorio nazionale, in tal modo assicurando una sinergia di azione e, soprattutto, l'assenza di duplicazioni di interventi, analogamente a quanto è avvenuto nel settore del contrabbando con la creazione di una task force permanente tra le procure distrettuali di Napoli, Bari e Lecce, sotto l'egida della dna, azzerando il pericolo di duplicazioni ed interferenze(21).

(21) V. audizione del sostituto procuratore distrettuale di Napoli, dottor Giovanni Russo, del 6 luglio 2000; audizione del sostituto procuratore della Repubblica di Asti, dottor Luciano Tarditi, del 22 marzo 2000; intervento del sostituto procuratore distrettuale di Bari, dottor Giorgio Giovanni, nel corso del seminario, svoltosi a Bari il 7 marzo 2000, sull'istituto del commissariamento per l'emergenza rifiuti.

Le procure ordinarie non sono, invece, attualmente dotate di un sistema elaborato di archivio dati come quello disponibile presso la dna. In qualche modo suppliscono a questa carenza i protocolli d'intesa con cui procure ordinarie e distrettuali antimafia, sotto il coordinamento dei procuratori generali, si impegnano allo scambio di notizie e all'invio immediato del fascicolo per competenza(22).

(22) V. sul punto audizione del sostituto procuratore della Repubblica presso la dda di Napoli, dottor Giovanni Russo, del 6 luglio 2000.

Una «promessa» in questa direzione è rappresentata dalla recente riforma del giudice unico, che ha comportato una riorganizzazione di tutti gli uffici giudiziari. In particolare, l'unificazione tra uffici della ex procura presso la pretura e quelli della procura presso il tribunale è certamente favorevole alla fusione di esperienze professionali diverse e complementari specie rispetto alla lotta alle ecomafie: quelle dei magistrati impegnati da anni nel settore ambiente e di coloro che hanno maturato esperienza del fenomeno mafioso.
Tutti i magistrati ascoltati dalla Commissione hanno espresso la seria convinzione - che è propria anche di questa Commissione - di poter realizzare concretamente con questo nuovo modello organizzativo anche quei collegamenti necessari tra le attività degli operatori del ciclo dei rifiuti e le attività illecite conseguenti all'accertato interesse della mafia per tale settore, grazie alla fluidità delle informazioni e alla sinergia di professionalità diverse.

9. Conclusioni

La Commissione ha cercato, con questo documento, di mettere in evidenza e di illustrare in maniera organica i principali fenomeni criminali connessi al ciclo dei rifiuti. Dal lavoro svolto, dalle informazioni acquisite nonché dalle audizioni tenute è emerso in maniera chiara una serie di elementi che - in sede di conclusioni - è opportuno riportare in forma schematica e sintetica.
La gestione illecita riguarda una quota considerevole dei rifiuti prodotti ogni anno in Italia: in base alle informazioni assunte e alle elaborazioni svolte si tratta di una quota superiore al 30 per cento


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che - tradotto in termini numerici - equivale a oltre 35 milioni di tonnellate di rifiuti (soprattutto speciali) smaltite in maniera illecita o criminale ogni anno.
Il ciclo dei rifiuti solidi urbani è interessato, specie nelle regioni meridionali, da evidenti fenomeni di controllo criminale, soprattutto nelle fasi di raccolta e trasporto. Esistono infatti segnali univoci ad indicare l'interesse della criminalità organizzata per gli appalti in questo settore.
Il settore dei rifiuti sembra rappresentare - per le varie forme di criminalità organizzata - un fattore di penetrazione in aree del Paese, specie nel settentrione, dove ancora non si registrano insediamenti stabili dei clan criminali.
Non è la sola criminalità organizzata ad operare in modo illegale. Esistono infatti società commerciali o imprese non legate ad essa, ma che hanno come «ragione sociale» la gestione illecita dei rifiuti, soprattutto di origine industriale.
Nella gestione illecita del ciclo dei rifiuti non si registrano forme di concorrenza o scontri come invece accade in altri settori criminali (traffico degli stupefacenti o controllo del racket): il business è evidentemente talmente consistente da rendere preferibile la collaborazione alla concorrenza spietata.
La criminalità organizzata non si accontenta quindi più del semplice servizio di smaltimento, ma sta estendendo il suo intervento anche alle altre fasi del ciclo, avvantaggiata in questo dall'ancora insufficiente livello di modernità e tecnologia che il settore fa registrare tuttora in Italia. Come dimostra in particolare l'evoluzione dell'attività del clan dei casalesi, la criminalità organizzata sta assumendo direttamente iniziative imprenditoriali anche in questo settore, mirate all'acquisizione e al condizionamento degli appalti pubblici.
Se è vero che solo una parte del traffico illecito è riconducibile alla criminalità organizzata, risulta altresì evidente che l'attività di personaggi non appartenenti alle consorterie mafiose che hanno collegamenti più o meno occasionali con esponenti delle stesse per dare vita a questi traffici.
Il fenomeno degli smaltimenti illeciti non riguarda più il solo Mezzogiorno; la Commissione aveva già avuto modo di segnalare l'esistenza di una «rotta adriatica» per i traffici illeciti che colpiva in special modo l'Abruzzo. Emerge ora con forza anche una direttrice nord-nord, con smaltimenti illeciti soprattutto nell'area del nord-est (Veneto e Friuli-Venezia Giulia).
I meccanismi del «giro bolla» e quello degli 'impianti fantasma' sono i più frequenti casi di illecito che si registrano nel ciclo dei rifiuti: il primo riguarda essenzialmente i rifiuti industriali, che vengono declassificati o miscelati e smaltiti in maniera non corretta; il secondo tocca più da vicino i rifiuti solidi urbani ed in particolare la frazione recuperabile, con la presunta apertura di impianti di recupero dei quali - in realtà - esistono solo i muri perimetrali.


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Ad alimentare il mercato illecito sono anche industrie a rilevanza nazionale ed internazionale, comprese aziende a rilevante partecipazione di capitale pubblico. Per tutte il minimo denominatore comune è la ricerca dello smaltimento al minor costo, senza alcun controllo sulla destinazione finale del rifiuto.
Contribuisce a favorire i meccanismi illeciti anche l'inadeguatezza del sistema conoscitivo, basato sui mud. A questo proposito è opportuno segnalare positivamente l'avvio della fase di sperimentazione del sistema di controllo telematico studiato dall'Anpa, che dovrebbe consentire una conoscenza esatta ed in «tempo reale» di ogni fase di movimentazione del singolo rifiuto.
Sono numerosi i segnali di esportazioni illecite di rifiuti verso i Paesi in via di sviluppo. Il sistema dei controlli doganali in fase di partenza, nonché la grande difficoltà a svolgere accertamenti e la frequente assenza di governi riconosciuti con i quali collaborare rendono però impossibile l'accertamento degli smaltimenti illeciti.
La documentazione acquisita e le informazioni assunte rendono comunque più che verosimile l'ipotesi che tali traffici avvengano tuttora, e che si svolgano con modalità e percorsi sovrapponibili a quelle del traffico delle armi e degli stupefacenti. In particolare le armi vengono pagate con la concessione delle aree per smaltire i rifiuti.
Dal punto di vista normativo e preventivo, si riscontra anzitutto l'inadeguatezza del sistema sanzionatorio (non è tuttora intervenuta la riforma del codice penale con l'introduzione delle fattispecie di delitti contro l'ambiente) nonché l'insufficienza del sistema dei controlli, ancora non a regime. Ancora: alcune semplificazioni normative sono state individuate come «scappatoia» per compiere illeciti, imponendo di fatto una rivisitazione delle norme, opportuna ove si consideri che la prevenzione di tali fenomeni è comunque da preferire alla repressione che interviene una volta che il danno all'ambiente e alla salute sono stati già compiuti (a volte in modo non recuperabile).
Si pone quindi la necessità di un salto di qualità nell'approccio ai problemi sopra descritti, utilizzando forme e strumenti di contrasto capaci di cogliere la complessità del fenomeno e di rispondervi in tempo reale. Una risposta che per essere efficace non può essere limitata ai confini nazionali ma deve essere oggetto di forme avanzate di cooperazione internazionale.

Conclusivamente, dati gli elementi qui richiamati in forma schematica e l'oggetto del documento, la Commissione non può non rimarcare nuovamente la necessità di una serie di interventi a più livelli. In particolare deve ritornare sul tema delle riforme penali: nel marzo 1998 questa Commissione ha approvato il documento che propone l'introduzione delle fattispecie di delitto ambientale nel codice penale; un anno dopo è intervenuto il disegno di legge del Governo che non ha tuttavia compiuto alcun passo presso le competenti Commissioni del Senato.


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Nonostante le difficoltà più volte richiamate, la Commissione ha registrato l'attività e la volontà di alcuni operatori di giustizia che hanno potuto perseguire i traffici illeciti di rifiuti contestando fattispecie di natura penale, come la truffa aggravata o la frode fiscale. In sede di conclusioni è necessario ribadire che la Commissione ha rilevato come alcuni operatori di giustizia, per poter colpire in maniera più incisiva il traffico di rifiuti, hanno dovuto considerare questo reato come collaterale alla loro indagine e non già l'obiettivo della stessa. Il danno all'ambiente non può quindi essere perseguito in maniera diretta se non in casi di macro-inquinamento: ed anche in tali casi - come dimostrano i procedimenti relativi a Pitelli e a Porto Marghera - la contestazione del danno ambientale presenta rilevanti complessità. Così, oggetto dell'inchiesta sono la truffa aggravata o le operazioni finanziarie illecite che stanno a monte dei traffici di rifiuti e che configurano fattispecie di delitti; discorso che vale ancor più quando ricorrono gli estremi dell'associazione per delinquere, che - per la sua natura di delitto - non può essere contestata rispetto a sanzioni amministrative o reati contravvenzionali, che sono quelli che attualmente colpiscono gli illeciti in questo settore.
Si tratta tuttavia di interventi non generalizzati (e a volte non possibili). A questo proposito la Commissione comunque coglie il segnale positivo dell'introduzione - da parte del Senato - del delitto di traffico illecito di rifiuti nell'ambito del disegno di legge 3833 approvato il 26 luglio 2000. Non si è tuttavia ancora di fronte alla necessaria organicità di riforma che solo l'introduzione delle fattispecie di delitto ambientale nel codice penale potranno dare. Interventi e innovazioni richieste peraltro anche da organismi sovranazionali: in quest'ambito la Commissione intende sollecitare il Governo ad una pronta sottoscrizione della «Convenzione sulla protezione dell'ambiente attraverso il diritto penale» varata dal Consiglio d'Europa il 4 novembre 1998.
È inoltre necessaria, per quanto riguarda le forze di contrasto, una maggiore specialità nel settore unita ad un rafforzamento dei nuclei e dei corpi impegnati sul versante dell'illegalità ambientale; infine appare opportuna l'istituzione di forme di coordinamento tra gli uffici giudiziari, che consentano a tutti gli operatori giudiziari di avvalersi di banche-dati aggiornate e comprensive di tutti gli elementi di conoscenza utili, assicurando sinergia di azione e, soprattutto, l'assenza di duplicazioni di interventi. Nell'attività di contrasto è poi indispensabile tenere conto del nuovo volto imprenditoriale assunto anche dai clan della criminalità organizzata: non è insomma più il «solo» smaltimento illecito, ma l'aggressione ad un settore economico il fenomeno da combattere. A forme di aggressione così rilevanti e sempre più sofisticate si deve infatti rispondere con strumenti avanzati, quali le indagini patrimoniali e le attività di intelligence in campo economico, e con previsioni di legge effettivamente dissuasive.
Si è più volte ribadito come la sola via repressiva non è la panacea per gli illeciti nel ciclo dei rifiuti, essendo naturalmente prioritario un adeguamento e rafforzamento del sistema amministrativo dei controlli e delle altre forme di intervento preventive. Da questo punto di vista va detto che la situazione è nel corso degli anni


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senz'altro migliorata, restando però ancora a un livello insufficiente; del resto, la migliore garanzia contro l'incidenza degli illeciti è in realtà proprio il buon funzionamento di tutto il ciclo dei rifiuti, centrato su un sistema di gestione integrata, con elevati stantards di qualità, sia rispetto alle tecnologie impiegate che ai servizi offerti. Là dove si afferma l'esercizio corretto di un sistema integrato a servizio di tutta un'area gli spazi per comportamenti illeciti se non si annullano si riducono drasticamente, come la Commissione ha potuto direttamente osservare. Né vanno sottaciute le positive ricadute in termini occupazionali derivanti da una gestione integrata e tecnologicamente avanzata del ciclo dei rifiuti.(23) Non è questa però, purtroppo, la situazione generale del Paese. A maggior ragione, pertanto, la modifica del codice penale rappresenterebbe un rilevante segnale di volontà politica. L'auspicio è che l'unanimità di consensi registrata in Commissione, nonché la grande tensione nella direzione dell'introduzione del delitto ambientale rilevata tra gli operatori del settore, non venga ulteriormente delusa.

(23) V. doc. XXIII n. 9.