Commissione parlamentare d'inchiesta sul ciclo dei rifiuti e sulle attività ad esso connesse - Mercoledì 7 giugno 2000


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ALLEGATO

Documento sulla produzione e sulla gestione dei rifiuti nelle aziende a rischio di incidente rilevante.

(Relatore: Presidente Scalia)

1. Premessa storica e metodologica. Nella relazione sullo stato dell'ambiente edita dal ministero dell'ambiente nel 1997 si legge che in Italia, secondo i dati forniti dalle regioni relativamente agli anni 1993 e 1994 la produzione totale di rifiuti è stata pari a 63.6 milioni di tonnellate/anno di cui 22.7 milioni di tonnellate erano i rifiuti solidi urbani, 4.2 milioni di tonnellate i rifiuti solidi assimilabili agli urbani, 19.5 milioni di tonnellate i rifiuti speciali, 2.7 milioni i rifiuti tossici e nocivi, 14.3 milioni di tonnellate gli inerti, e circa 200.000 tonnellate gli ospedalieri. Nel rapporto viene evidenziato un quadro di incertezza, attribuibile a diversi fattori : non tutte le regioni si erano attenute allo schema di domande predisposto, diverso era il rapporto RSU/RSA nelle varie regioni, alcuni valori assoluti non erano realistici, e in particolare sulla diminuzione dei rifiuti speciali rispetto ai dati del 1992 la spiegazione che si dava era riconducibile al DL in materia di recupero di rifiuti che ha costituito una importante novità normativa introdotta nel campo dei rifiuti nel novembre del 1993. Il rapporto approfondisce in misura insufficiente la veridicità del dato sulla produzione dei rifiuti industriali, a causa delle oggettive difficoltà di censimento a seguito della introduzione dei decreti sulla materie prime seconde (decreto ministeriale 26 gennaio 1990), e dei decreti ministeriali 5 settembre 1994 e 16 gennaio 1995 sul recupero energetico e di materia.
Nel decennio 80-90 la Confindustria effettuò, a sua volta, un censimento nazionale tendente alla individuazione dell'origine dei rifiuti solidi industriali per settori e per regioni e della destinazione di tali rifiuti ad impianti di smaltimento e/o recupero. Tale indagine, di tutto riguardo per la consistenza dei dati prodotti, avrebbe potuto costituire un valido punto di riferimento per il legislatore, nel momento in cui si sarebbe dovuta iniziare l'attività programmatoria nazionale e regionale tesa alla individuazione delle reali esigenze impiantistiche di smaltimento e/o di recupero. Inoltre, le poche iniziative del legislatore (decreto 22 settembre 1988, ai sensi dell'articolo1 comma 2 del decreto legge 9 settembre 1988 recante disposizioni urgenti in materia di smaltimento dei rifiuti industriali), specificamente mirate ai rifiuti industriali a seguito degli scandali legati alle «navi dei veleni», avevano prodotto una notevole mole di dati che, se opportunamente elaborati ed utilizzati, avrebbero potuto contribuire a dare una idea più concreta della produzione dei rifiuti industriali nel nostro Paese. Tale decreto obbligava infatti le aziende con più di cento addetti e in attività di esercizio al 1 settembre 1987 a comunicare al ministero dell'Ambiente la quantità di rifiuti prodotti nell'ultimo anno di attività e le quantità massime che queste prevedevano di conferire nei cinque anni successivi ad impianti privati di smaltimento, italiani o esteri, esistenti o progettati, fornendo altresì tutte le informazioni necessarie alla individuazione di detti impianti.


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L'introduzione del catasto dei rifiuti con il decreto ministeriale 26 aprile 1989, e con il decreto ministeriale del 14 dicembre 1992 avrebbe dovuto contribuire ad una migliore conoscenza del dato di produzione nazionale e regionale dei rifiuti speciali ma anche tali decreti, in sede di applicazione hanno mostrato forti limiti ed hanno comportato una scarsa possibilità di utilizzazione dei dati catastali, per i motivi più svariati.
Sempre a proposito delle difficoltà di censire con precisione i rifiuti speciali prodotti in Italia, occorre ricordare anche l'annoso problema definitorio relativo alle materie prime-materie prime «seconde», materiali quotati in borsa. Questo problema non ha certo contribuito a fare chiarezza sul dato «reale nazionale» della produzione dei rifiuti. Alcune tipologie di rifiuti secondo le definizioni delle direttive comunitarie (ancorchè recuperabili e/o riciclabili) sfuggivano infatti al catasto in quanto considerate materiali quotati in borsa e quindi materie prime a tutti gli effetti.
Le disposizioni sul MUD, introdotte con la legge n. 70 del 1994, avrebbero dovuto, in considerazione sia delle procedure di acquisizione dati più snelle che dei notevoli progressi delle tecniche informatiche, dare una svolta decisiva ai catasti regionali e conseguentemente a quello nazionale.
Proprio sulla base delle dichiarazioni MUD, nel novembre del 1999 sono stati resi noti dati e stime sulla produzione dei rifiuti speciali nel 1997. Tali informazioni sono contenute nel Rapporto dell'ANPA e dell'Osservatorio nazionale sui rifiuti.
Nel documento, la produzione dei rifiuti speciali in Italia viene stimata in 60,8 milioni di tonnellate. Nel Rapporto tuttavia viene anche affermato che le autorità di controllo sono in grado di ricostruire, per il medesimo anno, la destinazione certa di una parte soltanto di tale ammontare (46,8 milioni di tonnellate).
La validità dei dati raccolti attraverso le dichiarazioni MUD, tuttavia, attende di essere confermata dall'esperienza e dalle altre iniziative di censimento disposte dalle regioni, cui spettano, come noto, compiti di programmazione e coordinamento della gestione del ciclo. La regione Toscana (1), per esempio, nel 1999 ha reso noto che sulla base di verifiche sul campo, i dati emersi sulle quantità prodotte nel 1997 sono superiori alle stime MUD in ragione di un fattore di 2,16. In pratica, le dichiarazioni MUD lascerebbero in ombra più della metà dei rifiuti prodotti nella regione.

(1) Cfr. L'audizione di Claudio Del Lungo e di Valerio Camassi, rispettivamente assessore all'ambiente e presidente dell'agenzia di recupero di risorse della regione Toscana, il 16 giugno 1999.

Inoltre, sulla base dei dati pubblicati nella Relazione sullo stato dell'ambiente, emergeva una situazione tale per cui il complesso degli smaltimenti dei rifiuti speciali fuori regione non coincideva con il totale degli smaltimenti dichiarati; in definitiva risultavano disperse ingenti quantità di rifiuti. Alcune regioni dichiaravano lo smaltimento extra-regionale dei rifiuti speciali prodotti nel loro territorio. Tra queste figuravano anche la Sicilia e la Sardegna, per cui la Commissione richiese alle capitanerie di porto di quelle regioni i dati sugli imbarchi di tali rifiuti: a fronte di una produzione dichiarata di circa 300.000 tonnellate, vennero trovati transiti appena per circa 20.000 tonnellate di rifiuti.
Una situazione che ha indotto la Commissione ad avviare un'indagine approfondita a livello nazionale sull'argomento, dato anche il rilevante impatto ambientale e sanitario che una non corretta gestione di tali rifiuti ha sul territorio e sulla salute dei cittadini.

1.1 L'attività del gruppo di lavoro sulla gestione dei rifiuti industriali. È stato attivato un apposito gruppo di lavoro nel mese di dicembre 1997, con l'intento di approfondire:
le quantità dei rifiuti speciali (pericolosi e non pericolosi) prodotti;
le procedure di gestione;
i flussi derivanti dai processi produttivi;


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le eventuali procedure adottate dalle imprese per minimizzare la produzione di rifiuti;
i costi di gestione delle singole tipologie di rifiuti;
i contratti di smaltimento stipulati tra produttori e gestori;
la gestione di particolari tipologie di rifiuti pericolosi (amianto, PCB);
il livello di contaminazione dei siti produttivi e la presenza di sostanze o rifiuti in essi presenti

1.2 La metodologia scelta per l'indagine. Si è pertanto predisposto un questionario che è stato inviato a un campione di aziende. Tale campione è composto da:
le aziende a rischio di incidente rilevante: si tratta di imprese tratte dall'insieme di quelle individuate dall'articolo 4 del decreto del Presidente della Repubblica n. 175 del 1988 quali destinatarie di obblighi di notifica vigente sino al 31 dicembre 1999. Dagli elenchi sono state estrapolate le aziende ritenute - in base alla loro attività - più rappresentative ai fini della produzione di rifiuti, ed è stato riportato solo un esempio di altre attività consistenti semplicemente nello stoccaggio di prodotti pericolosi (gas liquidi, prodotti liquidi a temperatura ambiente) o nella movimentazione di merci (fitofarmaci e prodotti pericolosi) dai magazzini di stoccaggio all'utenza (2).

(2) L'elenco completo di tali aziende è riportato negli allegati I e II della presente relazione.

Nel corso dell'attività di ricerca è stata emanata la nuova normativa in materia - il decreto legislativo n. 334 del 17 agosto 1999, in attuazione della direttiva comunitaria 96/82/CE (la cosiddetta Seveso II). Con tale decreto, lo scenario del decreto del Presidente della Repubblica n. 175 del 1988 si è modificato ed è stata ridisegnata la gestione della sicurezza nelle aziende industriali, ponendo infatti l'attenzione più sui comportamenti degli operatori delle aziende che sulle apparecchiature e sugli impianti. Nella sostanza, tuttavia, ai fini della presente indagine non è cambiato il panorama delle aziende a rischio e quindi l'impianto su cui inizialmente si era avviata l'indagine è rimasto valido.
le altre aziende considerate: l'indagine è stata estesa ad alcune aziende non ricadenti nell'ambito del decreto del Presidente della Repubblica n. 175 del 1988 ma che comunque ai fini della produzione quali-quantitativa dei rifiuti e per la loro diffusione sul territorio nazionale rappresentano e costituiscono importanti elementi di conoscenza in materia. Sono essenzialmente gli impianti di produzione di energia dell'Enel e quelli metalmeccanici della Fiat (3).

(3) L'elenco completo di tali impianti è riportato negli allegati III e IV della presente relazione.

1.3 La trasmissione dei questionari alla Commissione. Sono stati inviati 142 questionari alle aziende a rischio: di questi ne sono stati trasmessi alla Commissione 134 ossia il 94.4%. Per quanto riguarda le aziende non ricadenti nell'ambito del decreto del Presidente della Repubblica n. 175 del 1988 tutti i 30 questionari inviati sono stati restituiti alla Commissione. Si è insomma avuta una percentuale di risposte assai elevata, il che rende i risultati di tale indagine di sicura rilevanza.

2Descrizione dei settori produttivi e processi di produzione.
In riferimento alle aziende a rischio sono stati pertanto considerati i seguenti settori produttivi: chimico, petrolifero, petrolchimico, farmaceutico, metallurgico e metalmeccanico. Per quanto riguarda le aziende non a rischio l'indagine ha riguardato i settori della produzione di energia elettrica e metalmeccanico.


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2.1 Settore chimico. Le aziende prese in considerazione nell'indagine costituiscono un campione rappresentativo della produzione chimica in Italia. In questa sede è opportuno fornire una sintetica descrizione delle produzioni considerate:
smalti e pigmenti ceramici, minio di piombo (COLOROBBIA, EMAILS);
cloro-soda (SOLVAY INTEROX, CAFFARO INDUSTRIE CHIMICHE) oltre a tre siti ENICHEM inseriti nel settore petrolchimico in quanto in esso integrati;
clorofluorocarburi aromatici e alifatici, fluoruri organici (FINCHIMICA, AUSIMONT);
tensioattivi (CESALPINIA CHEMICALS, MITENI, ALBRIGHT & WILSON, CONDEA DAC);
resine alchidiche, poliesteri, poliuretani, viniliche, acriliche, bakelitiche (BASF, TOSCANA GOMME, ELF ATOCHEM. BAKELITE, NORD ITALIA RESINE, SATEF HUTTENES ALBERTUS);
polioli, isocianati, schiume poliuretaniche, bisfenoli (DOW, EPOXITAL, DELTAPUR, GIUSEPPE OLMO, PELMA);
acido nitrico, e concimi complessi, fertilizzanti (HYDROAGRI ITALIA);
fitosanitari, insetticidi, diserbanti e prodotti attivi per fitofarmaci, funghicidi (CAFFARO INDUSTRIE CHIMICHE, SIPCAM, I.PI.CI., OXON, DU PONT ITALIANA, BAYER, UNIROYAL CHIMICA, CHEMIA, SCAM);
silanici e fluidi siliconici (WITCO SPECIALTIES ITALIA);
prodotti chimici per l'industria, additivi, catalizzatori, additivi per servizi, additivi per gomma (SOCIETÀ TERMOLESE SINTETICI, NALCO ITALIANA, NUOVA TERNI INDUSTRIE CHIMICHE, GREAT LAKES CHEMICAL ITALIA);
formaldeide, melamina, collanti, resine poliesteri (ALDER, OMV AGROLINZ, MC WORTHER, SADEPAN CHIMICA);
acido solforico (NUOVA SOLMINE);
betanaftolo, ftalocianine, acido Bon, acido G (ORGANIC CHEMICALS);
potassa caustica (ALTAIR CHIMICA);
perossidi organici (ELF ATOCHEM);
solfiti, metabisolfiti, tiosolfati (ESSECO);
metilammine, colina bitartrato, acceleranti per gomme (AKZO NOBEL);
caprolattame (INDUSTRIE CHIMICHE CAFFARO);
prodotti per fiammiferi (ITALMATCH);
perborato, acqua ossigenata, silicato sodico (AUSIMONT, INDUSTRIE CHIMICHE CAFFARO);
materie prime farmacologicamente attive (ZAMBON GROUP);
acido fluoridrico, criolite (ICIB);
compounds di pvc (INDUSTRIE GENERALI COMPOUNDS, SOLVAY ITALIA);
chimica fine, clorocianurati, acido diamminstilbensolfonico (3V SIGMA);
tessuti plasticati (SITAB);
paraclorobenzotricloruro, ipoclorito di sodio, cloruro di iodio (SOCIETÀ ELETTROCHIMICA SOLFURI E DERIVATI);
anidiridi organiche e acidi organici (ALGROUP LONZA);
prodotti per fotografia (IMATION);
metilmetacrilato, polimetacrilato (ELF ATOCHEM);
pentaeritrite e formaldeide (PERSTORP);
ausiliari per industria cosmetica, detergenza (HENKEL);
tetrametil piperidinil butilammina, toluidina, nitrotoluoli (3V CPM);
calcio bloccante Rixx (FIS);
acido cianidrico, acetoncianidrine (ELF ATOCHEM).


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2.2 Settore petrolifero. Le raffinerie prese in esame costituiscono la quasi totalità del settore della raffinazione italiana, non essendo stati oggetto dell'indagine solo gli impianti AGIP di Taranto e IES di Mantova che rappresentano il 7,2% del greggio totale lavorato nel 1998 dalle raffinerie italiane. Il greggio nazionale, il greggio ed i semilavorati importati, vengono sottoposti a processi di distillazione atmosferica e sotto vuoto, raffinazione, trasformazione, conversione (a seconda dell'assetto delle diverse raffinerie) per l'ottenimento di GPL, benzina, petrolio, carboturbo, gasolio, olio combustibile, lubrificanti, powerformati, alchilati, altri semilavorati.
I processi più rappresentativi sono: topping (distillazione primaria), vacuum (distillazione sotto vuoto), cracking (fluid cracking, thermal cracking, visbreaking, hydrocracking), alchilazione, powerforming, desolforazione, isomerizzazione, reforming, dewaxing, deasphalting.
Negli impianti INFINEUM di Vado Ligure e AGIP di Robassomero si producono rispettivamente grassi e additivi per lubrificanti e pacchetti di additivi per oli lubrificanti AGIP.

2.3 Settore petrolchimico. Le aziende considerate, come nel caso del settore petrolifero, costituiscono la gran parte del settore nazionale, rappresentato soprattutto dai siti di proprietà dell'ENICHEM. In tali siti, sono presenti anche altre aziende la cui produzione è spesso integrata con i processi principali dell'ENICHEM. Oggetto dell'indagine della Commissione sono stati i siti ENICHEM di Brindisi, Sarroch, Ferrara, Gela, Mantova, Ottana, Porto Marghera, Porto Torres, Priolo, Ravenna, Terni.
Le materie di base utilizzate da tali impianti sono il gasolio e la virgin, nafta ossia due tagli della raffinazione petrolifera. Ciò si traduce in pratica nel fatto che gli impianti ENICHEM sono spesso integrati con gli impianti di raffinazione del petrolio. Chemicals utilizzati nei cicli di produzione sono pure il cloruro di sodio, lo zolfo, l'ammoniaca e il metano. La vasta gamma dei prodotti ENICHEM va dagli intermedi ai materiali plastici, a sostanze che hanno impiego nel settore agricolo, in quello dell'industria dell'automobile, dell'industria farmaceutica etc. Tali impianti assicurano infine la produzione di olefine, fenolo, caprolattame, gomme, polistirolo, polimeri vari, elastomeri, pvc.

2.4 Settore farmaceutico. L'indagine ha preso in esame solo una parte dell'industria farmaceutica italiana, e precisamente la SIGMA TAU, la ABBOTT, la BRISTOL MEYERS e la RECORDATI. Quest'ultima è specializzata nella produzione di paraidrossifenilglicina, papaverina cloridrato, sale di Dane, verapamilcloridrato aciclovir, difenilidramina cloridrato, difenilidantoina, difenilidantoina sodica, dimeinidrinate, flavoxate cloridrato. La ABBOTT produce prevalentemente ethrane, claritromicina, e ritonavir (un inibitore della proteasi). La SIGMA TAU produce sia in proprio che per conto terzi, medicinali, antibiotici, prodotti farmaceutici, dietetici, cosmetici, igienici e sanitari, prodotti chimici e principi attivi, mentre la BRISTOL MEYERS è impegnata nella produzione di antibiotici semi-sintetici (penicilline, cefalosporine) e antibiotici beta-lattamici.

2.5 Settore metallurgico. Sono stati inviati questionari alla ILVA di Taranto e all'ALCOA di Portovesme. La ILVA opera nel settore della siderurgia e della produzione degli acciai, mentre l'ALCOA è specializzata nella produzione di alluminio sia come alluminio di base che come semilavorato, e con una produzione annua di 150.000 tonnellate rappresenta circa l'ottanta per cento del mercato italiano.

2.6 Settore della produzione di energia elettrica. È quello delle centrali termoelettriche dell'ENEL. L'energia viene prodotta con l'utilizzo di combustibili che, a seconda della centrale possono essere gas metano, olio combustibile denso, carbone nazionale, carbone estero, orimulsion. L'indagine ha considerato un solo caso di centrale che brucia gas (Trino Vercellese),


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privilegiando invece la scelta di quelle centrali che ai fini della produzione di rifiuti hanno maggiore impatto sull'ambiente in quanto utilizzano olio combustibile denso, carbone, orimulsion, ricorrendo a volte anche a combustione mista (gas + combustibili solidi). Sono state prese in considerazione 24 centrali su 49, ossia il 49% del totale. Delle 25 centrali non considerate il 32% è ad alimentazione a gas o gasolio (quindi con poco rilevante produzione di ceneri da processo) mentre il rimanente 68% è ad alimentazione mista olio combustibile, carbone, gas.
2.7 Settore metalmeccanico. Il lavoro di ricerca ha posto l'attenzione sugli impianti FIAT AUTO di Orbassano, Cassino, Melfi e Termini Imerese. L'attività di tali impianti comprende tutto il ciclo di produzione delle autovetture (fabbricazione completa di carrozzerie, assemblaggio di motopropulsori, verniciatura, etc.), comprese le prove presso l'impianto di Orbassano sia su vetture sia su componenti autoveicolistici.

3 L'analisi dei dati del questionario.
3.1.1 La produzione di rifiuti speciali nelle aziende a rischio esaminate. La produzione nazionale di rifiuti speciali delle aziende a rischio prese in considerazione è stata di 1.709.564 tonnellate nel 1997 e di 1.959.930 tonnellate nel 1998 (4). Per quanto riguarda i soli rifiuti pericolosi, la produzione nel 1997 è stata di 307.649 tonnellate, con un decremento - nel 1998 - a 297.435 tonnellate.

(4) I dati nel dettaglio sono pubblicati negli allegati VI/1 e VI/2 della presente relazione.

La maggiore produzione di rifiuti è stata registrata nel settore chimico (300.458 ton. nel 1997 e 266.156 ton. nel 1998), seguito da quello petrolchimico (196.755 ton. nel 1997 e 208.583 ton. nel 1998) e da quello petrolifero (180.025 ton. nel 1997 e 169.360 ton. nel 1998). Considerando i rifiuti pericolosi, è stato sempre il settore chimico ad aver fatto registrare anche la maggiore produzione: 185.081 tonnellate nel 1997 e 185.081 nel 1998. Va qui comunque evidenziato il dato del settore petrolifero che tra il 1997 e il 1998 ha visto più che raddoppiata la produzione di rifiuti pericolosi: da 23.055 tonnellate a 43.057 tonnellate.

3.1.2 La produzione regionale dei rifiuti speciali nelle aziende a rischio. Incrociando i dati cumulativi per settore e per Regione (v. allegati VIII e XXVI), si nota come nel settore chimico la maggiore produzione di rifiuti per il 1997 si è registrata in Lombardia (113.584 ton.), seguita da Veneto (85.415 ton.) e Liguria (19.028 ton.). Anche per il 1998 è la Lombardia che - per il settore chimico - ha fatto registrare la maggiore produzione di rifiuti (106.241 ton.), seguita da Veneto (62.486 ton.) e Friuli-Venezia Giulia (20.998 ton.).
Per quanto riguarda il settore petrolifero, nel 1997 la maggiore produzione di rifiuti si è registrata in Sicilia (76.148 ton.), seguita da Sardegna (47.877 ton.) e Marche (11.369 ton.). Nel 1998 la maggiore produzione di rifiuti nel settore petrolifero si è avuta sempre in Sicilia (79.451 ton.), seguita da Marche (24.681 ton.) e Sardegna (19.471 ton.).
Anche nel settore petrolchimico, per il 1997, è stata la Sicilia la regione ove si è avuta la maggiore produzione di rifiuti (59.002 ton.), seguita da Sardegna (40.502 ton.) ed Emilia Romagna (39.859 ton.). Nel 1998 è in Sicilia si sono prodotte 58.550 tonnellate di rifiuti, in Emilia Romagna 48.960 tonnellate e in Sardegna 35.576 tonnellate.
Per quanto riguarda infine i soli rifiuti pericolosi, sia nel 1997 che nel 1998 la maggior produzione (per quanto riguarda le aziende considerate) si è avuta in Lombardia: 87.040 tonnellate nel 1997 e 89.398 tonnellate nel 1998. In sostanza in tale regione si è registrata una produzione di rifiuti pericolosi che rappresenta poco meno del 30% del campione nazionale.

3.1.3 La produzione di rifiuti speciali nelle aziende non a rischio considerate. Per quanto riguarda le aziende non a rischio considerate dall'indagine, la maggiore produzione


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di rifiuti si registra quasi ovunque negli impianti Enel; fa eccezione il Piemonte, dove la maggiore produzione di rifiuti si registra presso la Fiat di Orbassano (895 ton. nel 1997 e 971 ton. nel 1998) che supera di gran lunga la centrale Enel di Trino Vercellese (53.2 ton. nel 1997 e 78 ton. nel 1998). È a questo proposito opportuno ricordare come tale centrale sia alimentata a gas, il che determina una consistente riduzione anche nella produzione dei rifiuti.
Come si è visto, il trend di produzione dei rifiuti speciali nelle aziende a rischio è in crescita dal 1997 al 1998 ed in particolare la produzione dei rifiuti pericolosi è in aumento nel settore chimico, petrolchimico, mentre è in diminuzione negli altri settori. L'aumento è legato a motivi vari, sia intrinseci al processo che connessi all'attività dell'azienda (come le fermate di impianto che fanno aumentare notevolmente la quantità di rifiuti di manutenzione e bonifica impianti) o a problemi legati alle normali condizioni di housekeeping che possono comportare l'accumulo di materiali vari anche pericolosi e la rimozione in tempi lunghi a volte dell'ordine di un anno. La crescita nella produzione dei rifiuti denota comunque:
una scarsa propensione delle aziende ad introdurre innovazioni nei cicli produttivi;
una insufficiente sensibilizzazione dei dipendenti delle aziende e delle ditte di manutenzione a rispettare spontaneamente regole di «housekeeping» ove queste non vengano imposte e richieste dalle aziende stesse.

Certamente contribuisce alla crescita dei rifiuti pericolosi nel 1998 anche l'effetto della nuova classificazione dei rifiuti ai sensi dell'articolo 7 del decreto legislativo n. 22/1997. Com'è noto il decreto del Presidente della Repubblica n. 915 del 1982 definiva, tra l'altro, rifiuto speciale tossico e nocivo quello la cui concentrazione di un determinato inquinante in esso presente superava il limite di legge dello stesso inquinante. Con il decreto legislativo n. 22 1997 i rifiuti sono classificati in urbani e speciali secondo la loro origine e, secondo le caratteristiche di pericolosità, in speciali pericolosi e speciali non pericolosi. La tossicità e la nocività sono due (H6, H5) delle 14 classi di pericolosità: pertanto un rifiuto classificato speciale non tossico e non nocivo con il decreto del Presidente della Repubblica n. 915 del 1982, ora può essere classificato pericoloso se appartiene ad una delle altre 12 classi di pericolosità dell'allegato I del decreto legislativo n. 22 del 1997 (5).

(5) In allegato XXVI vi è un esempio di classificazione di rifiuti pericolosi, già non tossici e non nocivi.

3.2 Processi produttivi e relativi flussi di rifiuti. Prima di descrivere i flussi di rifiuti più rappresentativi che originano dai singoli processi, va precisato che vi è una gamma di rifiuti speciali prodotti indipendentemente dall'attività dell'azienda, che a volte ha una incidenza non trascurabile sulla produzione totale di rifiuti. Si tratta di tipologie di rifiuti pericolosi e non che potremmo definire «rifiuti di impianto», come i residui di manutenzione, i residui di pulizia apparecchiature o gli imballaggi di apparecchiature e prodotti impiegati nel ciclo produttivo (6).

(6) In allegato XXVII è riportato un elenco, non esaustivo, di tali tipologie di rifiuti.

3.2.1 Settore chimico e farmaceutico. Dalla conoscenza dei processi produttivi più rappresentativi di ogni azienda è possibile ricavare numerose informazioni sui rifiuti che da essi residuano, sulle loro caratteristiche di pericolosità, sulla loro incidenza non solo sulla carica di processo impiegata ma anche sul prodotto ottenuto. Inoltre, dalle informazioni inerenti il processo produttivo può essere possibile comprendere se nel processo stesso (negli anni presi come riferimento: 1997-1998) sono state o possono essere


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state apportate modifiche in termini di tecnologie innovative in grado non solo diminimizzare la produzione dei rifiuti ma anche naturalmente di ottimizzare le rese di produzione e la qualità dei prodotti stessi (7).

(7) Negli allegati XXVIII e XXIX è riportato un elenco (non esaustivo) delle tipologie di rifiuti più ricorrenti nel settore chimico e farmaceutico.

3.2.2 Settore petrolifero. Le tipologie dei rifiuti più ricorrenti nel settore petrolifero consistono in fondami di serbatoi che originano dall'accumulo nel tempo di paraffine, ruggine, sali veicolati dall'acqua di spinta delle linee, etc. La presenza di acqua è anche la causa del formarsi di emulsioni oleose. Tipologie rappresentative sono anche i fanghi di alchilazione sia acidi che alcalini, i catalizzatori esausti, i residui catramosi, gli acidi e la monoetanolammina esausti. I fanghi di alchilazione, sia acidi che alcalini, sono classificati, ai sensi di quanto previsto dall'allegato D del decreto legislativo n. 22 del 1997, come rifiuti speciali pericolosi. È da rilevare, a tale proposito, che da alcuni questionari emerge una erronea classificazione di tali fanghi, talvolta classificati dalle aziende come speciali non pericolosi, rifacendosi alla normativa decreto del Presidente della Repubblica n. 915 del 1982 non più vigente. Questo fatto, come è facilmente comprensibile, determina metodologie di smaltimento non adeguate, con ripercussioni negative dal punto di vista dell'impatto ambientale.
Un discorso a parte merita il problema delle sode esauste, ossia dei liquidi alcalini utilizzati per l'assorbimento dei gas acidi di raffineria. Nella quasi totalità delle raffinerie si è riscontrato che tali streams sono considerati a tutti gli effetti acque contaminate da alcali e come tali avviati alla depurazione come acque di scarico: ad avviso della Commissione si tratta di una violazione della norma, poiché si tratta a tutti gli effetti di liquidi alcalini esausti classificati rifiuti pericolosi dall'allegato D del decreto legislativo n. 22 del 1997. Dalle risposte dei questionari è emerso anche che alcune aziende ritengono di considerare come prodotto il TARderivante dagli impianti di visbreaking, contrariamente alla definizione di rifiuto che ne danno le direttive comunitarie e l'allegato D del decreto-legislativo n. 22 del 1997. Tali aziende, in quanto «prodotto», lo utilizzano per alimentare gli impianti di gassificazione per la produzione di energia. Bisogna considerare che la classificazione del TAR come rifiuto pericoloso richiederebbe, per gli impianti che lo smaltiscono, la prevista autorizzazione ai sensi del decreto legislativo n. 22 del 1997 (8).

(8) Le tipologie di rifiuti più ricorrenti del settore petrolifero sono riportate in Allegato XXX; alcuni esempi dell'incidenza della produzione di rifiuti sul processo globale di raffinazione sono riportati in Allegato XXXVI.

3.2.3 Settore petrolchimico. La gamma di rifiuti derivanti dai processi petrolchimici è assai più ampia rispetto al settore della raffinazione del petrolio pur essendo quest'ultimo a volte integrato con la produzione petrolchimica. L'elenco delle tipologie più ricorrenti è riportato in Allegato XXXI. Nell'Allegato XXXV sono invece riportati alcuni esempi di incidenza della produzione di rifiuti sulla carica dell'impianto per quanto attiene al processo cloro-soda.

3.2.4 Settore metallurgico. Le tipologie di rifiuti più ricorrenti nel settore metallurgico sono quelle dell'Allegato XXXII.

3.2.5 Settore metalmeccanico. I rifiuti del settore metalmeccanico, rappresentato essenzialmente dagli impianti della Fiat, sono prevalentemente residui di verniciatura e sverniciatura, pitture e solventi esausti, particelle di materiali ferrosi, come si può evincere dall'Allegato XXXIII.

3.2.6 Settore della produzione di energia. Il settore della produzione di energia da centrali termoelettriche è caratterizzato per la presenza di rifiuti essenzialmente


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costituiti da ceneri leggere, ceneri pesanti, polveri da elettrofiltri, come riportato in Allegato XXXIV. L'Allegato XXXVII mostra invece alcuni esempi di incidenza per due parametri rilevanti: la produzione di rifiuti e l'emissione di polveri rispetto alla carica dell'impianto.

3.3 Le procedure di gestione dei rifiuti. Una corretta gestione dei rifiuti all'interno delle aziende deve rispettare una serie di condizioni come: le politiche aziendali, il rispetto della normativa vigente, la minimizzazione della produzione dei rifiuti, la scelta di operatori terzi dello smaltimento idonei e affidabili e in grado di garantire procedure corrette, la verifica che il costo di smaltimento sia adeguato alle tipologie da smaltire. La procedura inoltre deve essere interiorizzata dal personale aziendale, applicata, correttamente allo scopo di minimizzare la vulnerabilità dell'immagine aziendale, verificata periodicamente tramite audit interni e/o esterni. Essa inoltre deve essere tempestivamente adeguata ogni qualvolta muta il quadro normativo di riferimento, innovata se le tecnologie disponibili sul mercato, pur tenendo in debito conto il rapporto costi/benefici, sono in grado di garantire un miglior livello di qualità ambientale.
Dalle risposte al questionario è emerso che circa il 60% delle aziende a rischio considerate è in possesso di una procedura di gestione dei rifiuti che - almeno in linea teorica - appare adeguata alle prescrizioni del decreto legislativo n. 22 del 1997. Relativamente al campione di aziende non a rischio, la procedura è adeguata alla normativa vigente nell'80% dei casi e solo un'azienda ha dichiarato di non disporne affatto. L'azione della Commissione è servita in qualche caso da stimolo in quanto, più di un'azienda, ha avvertito la necessità di organizzare al proprio interno un sistema più razionale per le diverse fasi dello smaltimento.

3.4 La minimizzazione dei rifiuti. Sono ancora pochi i casi di aziende impegnate ad attuare programmi e procedure volte ad una effettiva riduzione della produzione di rifiuti all'origine. In termini percentuali il 26% del campione delle aziende a rischio non ha risposto alla domanda, il 19% ha affermato di avere programmi di minimizzazione in itinere e il 55% di non averne. Il panorama è ancora meno soddisfacente nel settore delle aziende non a rischio dove il 77% del campione risponde di non avere programmi di minimizzazione, il 3% di avere una procedura, mentre il rimanente 20% non ha risposto al quesito.
I dati sopra esposti mostrano che tuttora viene generalmente disatteso dalle aziende uno dei capisaldi della politica comunitaria e nazionale del sistema di gestione dei rifiuti: la riduzione degli stessi all'origine non solo in quantità ma anche in pericolosità, attraverso il ricorso a nuove forme di progettazione e ad innovazioni tecnologiche nei cicli produttivi. Peraltro, quanto sopra detto, è confermato dal trend in crescita della produzione nazionale di rifiuti speciali sia pericolosi che non pericolosi nei due anni oggetto dell'indagine.

3.5 La contrattualistica e i costi di smaltimento. Per quanto riguarda lo smaltimento dei rifiuti, le imprese hanno sostanzialmente di fronte a sé due strade: la prima è quella dello smaltimento in proprio, la seconda è connessa all'affidamento in appalto di tale servizio. In entrambi i casi è evidente la necessità del rispetto delle norme ambientali che deve essere sentito sia al proprio interno da tutto il personale nelle operazioni quotidiane, sia verso l'esterno quando, un prodotto o un rifiuto, varca la soglia dell'azienda stessa. Per attuare tali regole comportamentali è opportuna, a monte di tutto ciò, la creazione di una struttura interna tecnico-amministrativa che segua l'evoluzione della normativa ambientale e dei vincoli che questa impone e che sia in grado di elaborare i criteri per identificare e qualificare sul mercato soggetti e aziende terze specializzati in servizi ambientali.
Ciò facendo - nel caso di affidamento a terzi del servizio di smaltimento -


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l'azienda può predisporre una «vendor list» ambientale in maniera che l'affidamento, a seguito di gara indetta tra aziende della «vendor list», avvenga nei confronti dell'operatore o dell'azienda che offre le maggiori garanzie per quel determinato tipo di rifiuto da smaltire.
Nel settore dei rifiuti il buon esito dello smaltimento definitivo dipende spesso dalle modalità e dalle clausole con cui è stato perfezionato il contratto con la ditta terza.
Dall'esame dei questionari è emerso invece che i rapporti intercorrenti tra l'azienda ed i fornitori di servizi (smaltimento in discarica, trattamenti di inertizzazione, termodistruzione) sono sostanzialmente carenti sotto il profilo tecnico. I contratti non indicano, cioè, le modalità effettive di gestione dei rifiuti da smaltire. Ciò comporta anche difficoltà sia per l'azienda che per l'organo di controllo di poter operare concretamente nell'azione di vigilanza. Ad esempio, risulta estremamente difficile seguire i percorsi fisici del rifiuto dal momento della consegna da parte del produttore (si ricorda che da questo momento la responsabilità di legge passa a colui che prende in consegna il rifiuto), le modalità chimico-fisiche degli eventuali trattamenti, la destinazione finale del rifiuto etc. Le piccole e medie aziende, soprattutto, difficilmente istruiscono gare tra aziende precedentemente selezionate e qualificate e non si curano quindi di imporre vincoli basando la trattativa quasi esclusivamente sul ribasso dei prezzi. La conferma di ciò viene osservando i costi di smaltimento di alcune aziende chimiche che non trovano giustificazione in un corretto smaltimento, arrivando a medie di 70/100 lire per chilo di rifiuto industriale da smaltire in discarica (un costo che risulterebbe competitivo anche per il corretto smaltimento di una equivalente quantità di RSU avviato in discarica controllata).
Tra le medie aziende chimiche e farmaceutiche si sono riscontrati casi di imprese che hanno elaborato una propria «vendor list», hanno compiuto visite preliminari ai siti e alle strutture delle aziende di smaltimento, ma non hanno poi esercitato le necessarie azioni di follow up vanificando in parte le loro esigenze di un corretto smaltimento: in alcuni casi è emerso che del rifiuto conferito allo stoccaggio provvisorio si è poi persa ogni traccia. L'introduzione dell'articolo 33 del decreto legislativo n. 22 del 1997 e del decreto ministeriale del 5 febbraio 1998 (che attengono rispettivamente alle procedure semplificate ed alle regole per il riciclo e il riutilizzo dei rifiuti speciali non pericolosi) più che occasione per vivacizzare il mercato delle materie prime seconde è stato colto da diverse aziende come un vincolo di legge in meno da rispettare nel liberarsi dei propri rifiuti, senza particolari attenzioni per la destinazione effettiva del rifiuto stesso; per gli operatori 'deviati' è apparso poi come un'occasione per effettuare trattamenti di recupero virtuali, alterando i prezzi del corretto smaltimento e, cosa ancora più grave, mettere fuori mercato o creare forti difficoltà alla categoria dei corretti smaltitori-recuperatori.
Nei contratti perfezionati dalle grandi aziende a rischio del settore petrolchimico e in quelle di produzione dell'energia elettrica vi è una generalizzata 'attenzione' ad attribuire ogni responsabilità del buon andamento delle operazioni di smaltimento alla ditta terza. Va detto che si tratta di un modus operandi del tutto in linea con la vigente normativa che considera, contrariamente a quanto si verificava con il decreto del Presidente della Repubblica n. 915 del 1982, responsabile dello smaltimento il detentore e quindi colui che da quando il rifiuto varca il cancello dell'azienda, lo trasporta, lo tiene in stoccaggio, lo conferisce agli impianti di smaltimento; tuttavia un simile atteggiamento denota uno scarso interesse dell'azienda a verificare se le operazioni indicate nel contratto vengano realmente effettuate, se il servizio venga effettivamente reso per quanto è stato pagato, se i trattamenti di inertizzazione sono stati corretti etc. Solo in pochi casi i contratti di smaltimento perfezionati da alcune raffinerie con operatori terzi che effettuano


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trattamenti di inertizzazione di rifiuti pericolosi e con smaltimento successivo in discariche autorizzate interne alle aziende o esterne, appaiono ben strutturati. In tal caso, infatti, costi di trattamento e smaltimento riportati nei contratti sono più conformi alla realtà operativa ed ai costi effettivi dei chemicals impiegati nel trattamento di inertizzazione. Negli Allegati XXXIX, XL, XLI, vengono riportati a titolo di esempio i costi di smaltimento globali per il 1997 e per il 1998 riferiti alle aziende Enichem, al settore petrolifero e alle centrali termoelettriche dell'Enel.

3.6 Impianti interni autorizzati per alcune fasi dello smaltimento. Sono solo le grandi aziende a rischio del settore petrolifero, petrolchimico, farmaceutico, metallurgico e - in misura minore - del settore chimico a disporre di impianti autorizzati per alcune fasi dello smaltimento quali discariche interne di tipo 2B e 2C, stoccaggi provvisori, trattamento, termodistruzione. Il 34% del campione ha risposto di avere propri impianti, il 46% ha invece risposto di non averne, il rimanente 20% non si è espresso. Nel caso delle aziende non a rischio il 70% risponde di avere propri stoccaggi provvisori, il 17% di non averne e il rimanente 13% non si esprime. Occorre però notare, sulla base di verifiche dirette, che tali impianti interni non sempre rispettano le prescrizioni dei decreti assessoriali, anzi in qualche caso tali decreti vengono del tutto disattesi (un caso emblematico è quello dello stoccaggio provvisorio della RAFFINERIA DI MILAZZO) e i rifiuti vengono stoccati nei punti più disparati degli impianti con evidenti violazioni della norma che regola lo stoccaggio dei rifiuti pericolosi. Si osserva quindi che, in mancanza di severi controlli da parte dell'organo amministrativo, il detentore del rifiuto può usufruire di un rilevante grado di libertà.
Un caso di una certa rilevanza attiene alla centrale Enel di S.Filippo del Mela, presso la quale sono state stoccate quantità rilevanti di «legno contaminato da oli, vernici, e solventi» e da qui avviati a smaltimento come rifiuti speciali non pericolosi nella discarica Andolina di Siracusa.
Un altro esempio riguarda le traversine ferroviarie stoccate nel 1997 dall'Enichem Marghera avviate a smaltimento come rifiuti speciali non pericolosi nella discarica Geonova di Istrana (TV), quando ancora non era in vigore il decreto ministeriale del 5.2.1998.

3.7 Gestione di particolari rifiuti
3.7.1 Amianto. La gestione dei rifiuti di amianto ancora presente nelle aziende sotto forma di coibentazioni di tubazioni in corda o misto a fluoruri, silicati, solfati, o sotto forma di pannellature montate in alcuni edifici o sotto forma di miscela amianto-cemento (eternit) richiede particolare attenzione dati i gravi danni alla salute umana che possono provocare le fibre libere inalate dalla popolazione esposta. Negli ambienti di lavoro, com'è noto, al fine di prevenire inconvenienti o rischi, la normativa vigente impone che venga predisposta una mappa con indicazioni precise dei punti in cui l'amianto è presente sotto qualsiasi forma, in maniera da assicurare la più ampia protezione del personale nel momento in cui si decidesse di rimuovere dai manufatti il materiale asbestoso. Solo così può essere predisposto il Piano di lavoro di rimozione da inviare alla competente ASL e ricevere il 'nulla osta' all'inizio delle attività di cantiere. Il quesito posto nel questionario aveva quindi il duplice scopo di avere precise informazioni sulle quantità di amianto ancora presente nelle aziende considerate e di poter identificare sulla mappa i punti in cui esso si trova. Esperienze sul campo da parte della Commissione hanno consentito di verificare che in realtà industriali complesse la mappa è di fondamentale importanza. Il 53% del campione delle aziende a rischio ha risposto di essere in possesso della mappa dell'amianto, il 22.4% ha affermato di non possedere la mappa perché non ha amianto, il rimanente 24.6% non ha risposto al quesito.


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Sul versante delle aziende non a rischio il 73.3% risponde di avere la mappa dell'amianto, il 7% di non averla perché non ha amianto e il 19.7 % non risponde. Appare comunque utile effettuare una stima dell'amianto ancora presente presso le aziende dati i problemi che esso comporta ai fini dello smaltimento e in considerazione anche della esiguità del numero di impianti nazionali idonei allo smaltimento e dell'ampio ricorso allo smaltimento in impianti esteri o in discariche nazionali non sempre dimostratesi adeguate. In riferimento all'eternit installato ancora nelle aziende a rischio, il 31% delle aziende ha dichiarato di avere ancora eternit installato, mentre per le aziende non a rischio la risposta positiva è stata del 70%. Sul particolare tema dell'amianto, tuttavia, la Commissione ha in corso una specifica attività d'indagine alla quale sin d'ora si rimanda per valutazioni più specifiche.

3.7.2 Policlorobifenili (pcb). Com'è noto l'olio sintetico costituito da policlorobifenili/policlorotrifenili non è più commerciabile nei Paesi comunitari date le sue caratteristiche di pericolosità. L'olio pcb e sue miscele con policlorotrifenili sono stati a lungo impiegati come oli isolanti in apparecchiature elettriche (trasformatori, condensatori, etc.). La normativa comunitaria e nazionale impone che non vengano più effettuati rabbocchi di pcb nelle apparecchiature che lo contengono (peraltro sul mercato non sarebbe possibile trovarlo) e che quando le caratteristiche dell'olio non sono più sufficienti per garantirne l'impiego primario esso debba essere smaltito. A livello nazionale vi è un grave deficit di impianti in grado di smaltire tale tipologia di rifiuto, per cui la gran parte dell'olio PCB e sue miscele viene avviato verso impianti di altri Paesi europei (prevalentemente Francia, Finlandia, Gran Bretagna e Norvegia).
Il quesito posto dal questionario tendeva a conoscere, tra l'altro, quanti trasformatori con pcb sono ancora presenti nelle aziende del campione. Il questionario ha fornito il seguente dato: il 27% ha ancora trasformatori con PCB, il 38% non ha trasformatori con pcb ma con altri oli minerali, il rimanente 35% non ha risposto. Nelle aziende non a rischio il 67% del campione (si tratta esclusivamente di impianti Enel) ha risposto di avere ancora trasformatori con PCB, mentre il 20% ha risposto di avere trasformatori con altri oli minerali; il rimanente 13% non ha risposto.
Un problema che si pone è quello relativo allo smaltimento delle carcasse metalliche dei trasformatori. Non sempre queste vanno all'estero per essere termodistrutte ma vengono riciclate o avviate nelle acciaierie nostrane. Alcune aziende che ritirano gli oli pcb e le apparecchiature, affermano di effettuare la decontaminazione delle carcasse metalliche e di avviare ques'ultime al recupero metalli. La Commissione deve, a questo proposito, evidenziare le rilevanti difficoltà tecniche di tale processo di decontaminazione, con rischi connessi al fatto che quantità residue di pcb in tali apparecchiature vengano poi liberate nel processo di recupero termico sotto forma di diossine.

3.7.3 I catalizzatori esausti. Questa categoria di rifiuti, comune a tutti i settori produttivi considerati nell'indagine ad eccezione degli impianti FIAT ed ENEL, è attualmente all'attenzione della Commissione che non solo ha attivato una serie di audizioni, ma sta elaborando uno studio specifico nell'ambito di un documento relativo al trasporto transfrontaliero dei rifiuti destinati a recupero. Vi sono sull'argomento alcuni punti in discussione riguardo ai codici, all'appartenenza alle liste (verde, ambra, rossa) del Regolamento Cee n.259/93, all'effettiva rigenerazione o all'effettivo riciclo. Anche le risposte fornite dalle aziende mostrano un panorama assai articolato che fa ben comprendere come la materia necessiti di una regolamentazione chiara e definitiva.

3.7.4 Gli oli usati. Il Consorzio obbligatorio degli oli usati - istituito con decreto del Presidente della Repubblica n. 691 del 1982 di recepimento della


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direttiva CEE n. 439 del 1975 - ha, tra l'altro, il compito di «assicurare, incentivare e garantire» la raccolta degli oli usati ritirandoli dai detentori e dalle imprese autorizzate. Successivamente al recepimento della prima direttiva CEE, con decreto legislativo n. 95 del 1992 come integrato dal decreto ministeriale n. 392 del 16 maggio 1996, è stata recepita nell'ordinamento italiano anche la direttiva CEE n.101/87. L'articolo1 comma 1 del decreto legislativo n. 95 del 1992 definisce l'olio usato come «qualsiasi olio industriale o lubrificante a base minerale o sintetica, divenuto improprio all'uso cui era inizialmente destinato, in particolare gli oli usati dei motori a combustione interna e dei sistemi di trasmissione, nonché gli oli minerali per macchinari, turbine, comandi idraulici e quelli contenuti nei filtri usati». Il consorzio provvede inoltre al ritiro delle emulsioni oleose. La Commissione, al fine di avere un quadro aggiornato della situazione nazionale e di dettaglio degli oli esausti conferiti in alcune regioni, ha richiesto al Consorzio i dati ufficiali con lettere del 5 ottobre e del 19 novembre 1998. Sulla base delle risposte pervenute è stato possibile rilevare, in particolare, che non sempre vi è corrispondenza tra i dati ufficialmente resi dal Consorzio e quelli dichiarati alla Commissione dalle aziende nel questionario. A tal proposito si evidenzia il caso della raffineria Erg di Priolo Gargallo (SR) (9).

(9) V Allegato XLI.

3.7.5 I materiali radioattivi. In numerose aziende (a rischio e non a rischio) sono presenti materiali radioattivi quali gli indicatori di livello dei serbatoi, i parafulmini, le sorgenti di apparecchiature gas-cromatografiche di laboratorio (detector a cattura di elettroni), gli analizzatori di zolfo, i rivelatori di fumo, gli analizzatori di polveri. Il quesito posto alle aziende sulla presenza delle sorgenti vuole essere un contributo ai censimenti effettuati dall'ANPA sui rifiuti radioattivi nazionali, in preparazione di una gestione nazionale che dovrebbe essere curata dall'Agenrir (Agenzia nazionale per i rifiuti radioattivi) della cui nascita la Commissione si è fatta promotrice. I dati ottenuti per le aziende a rischio mostrano che il 33% del campione dichiara di utilizzare sorgenti radioattive, il 32% di non averne, mentre il rimanente 38% non risponde al quesito. Il 57% del campione delle aziende non a rischio risponde di detenere sorgenti radioattive, il 30% dichiara di non averne, ed il restante 13% non risponde. Le sorgenti radioattive più ricorrenti sono costituite da Curio 244,americio 241,cobalto 60, cesio 137, ferro 55, promezio 147, carbonio 14.

3.8 I siti contaminati e i rifiuti potenziali da essi derivanti. Com'è noto l'articolo 17 del decreto legislativo n. 22 del 1997 riguarda la bonifica e il ripristino ambientale dei siti contaminati. Il comma 1-bis prevede inoltre che «i censimenti di cui al decreto ministeriale n. 121 del 26 maggio 1989 vengano estesi alle aree interne ai luoghi di produzione, raccolta, smaltimento e recupero dei rifiuti, in particolare agli impianti a rischio di incidente rilevante di cui al decreto del Presidente della Repubblica 17 maggio 1988 n.175 e successive modificazioni. Il Ministro dell'Ambiente dispone, eventualmente attraverso accordi di programma con gli enti provvisti delle tecnologie di rilevazione più avanzate, la mappatura nazionale dei siti oggetto dei censimenti e la loro verifica con le regioni ».
L'obiettivo del quesito in materia era quello di fare una stima dei rifiuti provenienti dalle operazione di bonifica, e prevedere le necessità impiantistiche aggiuntive, per far fronte all'aumentata quantità di rifiuti. Infatti i quesiti posti riguardavano gli spills superficiali e sotterranei nel periodo 1992-1998 e i terreni contaminati in maniera più estesa e consistente. Per quanto riguarda gli spills (fuoriuscite di materiale) non va dimenticato al riguardo la bonifica dei siti inquinati, all'interno delle aziende, nei casi in cui si verifichi sversamento e/o


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perdite di prodotti dalle strutture impiantistiche (tubazioni, valvole, serbatoi, etc). La risposta del campione delle aziende a rischio, relativamente agli spills, è stata la seguente: il 17% ha dichiarato di avere avuto spills superficiali di prodotto nel periodo considerato, il rimanente 83% ha dichiarato di non averne avuti. Per ciò che riguarda gli spills nelle aziende non a rischio il 2% ha risposto positivamente e il 98% di non averne mai avuti. Per quanto attiene al quesito sui terreni contaminati in maniera più estesa, va detto che emerso un panorama tutto sommato variegato, con siti (in particolare i petrolchimici) che hanno evidenziato una conoscenza dettagliata, corredata da analisi e studi, mentre alcune aziende non hanno fornito alcun dato al riguardo asserendo un'assenza normativa in materia. Vi sono poi da considerare alcuni casi di aziende che hanno negato episodi di contaminazione, nonostante nel recente passato la stampa nazionale si sia occupata di tali vicende.

3.9 Il ciclo di depurazione delle acque. Avendo la Commissione appurato - con sopralluoghi diretti - che in alcuni casi, i fanghi di depurazione venivano conferiti allo smaltimento tal quale (senza stabilizzazione) e direttamente sversati in discarica allo stato liquido o semiliquido (un caso è quello della discarica Andolina di Siracusa), si è deciso di acquisire maggiori informazioni sul ciclo di depurazione delle acque. Il quesito è stato posto per conoscere il numero di aziende in possesso di propri impianti di depurazione delle acque contaminate, la quantità di rifiuti fangosi da questi derivanti e destinati allo smaltimento e la procedura di eventuale trattamento e stabilizzazione dei fanghi prima del conferimento in discarica controllata. Il campione delle aziende a rischio ha fornito i seguenti dati: il 43,3% delle aziende è in possesso di impianti di depurazione, il 29,1% ne è sprovvisto, il 27,6% conferisce a smaltimento acque contaminate o è collegato ad impianti consortili. Sul versante delle aziende non a rischio, l'83.3% delle aziende è in possesso di propri impianti, il 3.3% non ne dispone, il rimanente 13.4% conferisce i reflui liquidi a terzi o per la depurazione o per lo smaltimento.

3.10 Il mondo degli smaltitori. L'elaborazione dei dati ha evidenziato un panorama nazionale relativamente al quale emergono segnali di preoccupazione:
sono pochi gli impianti di trattamento che presentano procedure idonee ad una corretta gestione dei rifiuti. In alcune regioni (Sicilia, Lombardia, Toscana, Puglia) i trattamenti a volte paiono virtuali o effettuati per enfatizzare i costi di smaltimento, senza quindi tenere conto dell'adeguato chimismo da applicare alle matrici del rifiuto da inertizzare;
grave deficit di impianti di discarica di tipo 2C ed esiguo numero di discariche di tipo 2B (se si escludono gli impianti interni in alcuni siti, per conto proprio o per aziende del gruppo);
situazioni di oligopolio, se non di monopolio, nel settore dello smaltimento dell'amianto e degli oli PCB; in tale settore, che comprende anche le apparecchiature elettriche contaminate da PCB (trasformatori, condensatori, etc), operano infatti a livello nazionale solo cinque aziende (DECOMAN, ROCHEM, ECODECO, SEA MARCONI, ELMA);
un numero insufficiente di impianti di termodistruzione e di depurazione rifiuti liquidi in conto terzi;
un proliferare di stoccaggi provvisori; tali centri sono già stati oggetto di attenzione da parte della Commissione, alla luce anche di inchieste giudiziarie che hanno evidenziato come i rifiuti in uscita hanno perso ogni loro identità iniziale;
numerosi e in quantità crescente appaiono invece gli impianti di recupero e riciclo.

Nel dettaglio dei singoli settori, emerge il quadro che viene di seguito sintetizzato:


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smaltimento dell'amianto: in tale settore operano numerose aziende specializzate in scoibentazioni, bonifiche (PERFETISOL, RIVA E MARIANI, APRILE, DEMONT, MONTALBETTI, CIBESA THERMOSOUND, REMIC, RENDELIN, STE) e pochi impianti di smaltimento conto terzi. Sono tre le discariche 2C censite (CONIV di Vasto, LA BARRICALLA di Orbassano e AREA di Ravenna); vi è poi la discarica 2B della ECODECO di Pacia e la discarica NUOVA ESA di Venezia (dopo trattamento). A questi vanno aggiunti gli impianti di discarica 2C autorizzati all'interno di alcuni siti produttivi (AGIP di Gela, ILVA di Taranto, ...);
stoccaggi provvisori: sono numerosi in campo nazionale e dai dati dell'indagine si evince un elevato ricorso a tali impianti. Non sempre ad essi si ricorre per trattamenti (inertizzazione, stabilizzazione, trattamenti vari). Tra i principali centri di stoccaggio provvisorio di rifiuti speciali emergono: SVR, BLU AMBIENTE, ECOSERVIZI, ECODECO, F.C. (Lombardia); SED e SARACENO DEMETRIO (Piemonte); PULITECNICA AMBIENTE (Friuli Venezia Giulia); SERVIZI COSTIERI (Veneto); ALFAREC, LA CART, PETROLTECNICA, GEAT, OTSU, ECOQUATTRO, AGEA, MANUTENCOOP, MONTI VALTER, META e SAT (Emilia Romagna); SEAL, ECOMAR, TESECO e TOSCANA ECOFANGHI (Toscana); ECOCENTRO, SIBILLA, ECOSYSTEM (Lazio); CONIV (Abruzzo); ECOSERVICE (Marche); PERNA ECOLOGIA e RAMOIL (Campania); TSC, RDB FANTINI, EURO ECOLOGY SERVICES (Puglia); APRILE GIOVANNI e NICO SICILIANA (Sicilia). Lombardia ed Emilia Romagna hanno il primato del numero di stoccaggi provvisori di rifiuti speciali. In Emilia, in particolare, su un totale di 335 impianti di stoccaggio ben 91 stanno in provincia di Reggio Emilia di cui 19 per speciali pericolosi;
impianti di trattamento di rifiuti pericolosi: sono presenti prevalentemente nelle seguenti regioni: Sicilia, Sardegna, Lazio, Marche, Veneto, Lombardia, Piemonte, Toscana, Emilia Romagna. Aziende che operano nel settore della inertizzazione sono: APRILE GIOVANNI (Sr), SERVIZI INDUSTRIALI (To), ECOSERVIZI (Bs), ECODECO (Pv), RICCOBONI (Pr), ECOTEC (Roma), ECOTHERM (Roma), ECOCENTRO (Roma), CONSORTIUM (Fr), TESECO (Pi), ECOMAR (Li), ECOSERVICE (Mc), AMBIENTE MARE (Ra), TEOREMA (Ba), SERVECO (Ta), FURIA (Pc), CHIMET (Ta), EURO ECOLOGY SERVICES (Ta).
intermediazione dei rifiuti industriali: le principali società che operano nella intermediazione dei rifiuti industriali (a volte esse stesse società di smaltimento) sono: SERVIZI INDUSTRIALI di Orbassano, RAMOCO di Genova, STE di Milano, SVR di Milano, AMBIENTE, ECOITALIA, ASM di Piacenza, SILOECO di Pescara.
discarica conto terzi per rifiuti speciali: gli impianti più ricorrenti sono nelle seguenti regioni: Lombardia (CERVESINA e LOGICA del gruppo ECODECO); Liguria (BOSSARINO), Piemonte (BARRICALLA), Puglia (IMMOBILDAUNIA, BLEU), Veneto (BASTIAN BETON, GEONOVA, ECOVENETA, BONECO), Sicilia (ANDOLINA, APRILE GIOVANNI, IGM1, SMARI), Calabria (SOVRECO), Emilia Romagna (AREA 2C, SOTRIS 2B), Sardegna (ECOSERDIANA), Molise (DISCARICA CONSORTILE DI TERMOLI);
trattamento acque contaminate: gli impianti per conto terzi più utilizzati sono quelli di: DEPURACQUA, IREOS, CHEMIBER, IDROCLEAN, SOLVIC;
impianti di termodistruzione: l'indagine ha evidenziato una forte carenza di tali impianti sul territorio nazionale. Gli impianti utilizzati per conto proprio o per le aziende del gruppo sono quelli gestiti dalla società AMBIENTE (Ravenna), dalla BASF di Caronno Pertusella, dall'ENICHEM di Porto Marghera, e per conto terzi dalla ECODECO (ECOLOMBARDIA 4, BG), dalla OMA di Rivalta (TO), dalla SMAE di Lentella (CH) impianto per argille espanse, UNICEM di Enna (impianto argille espanse);


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impianti di recupero di rifiuti speciali non pericolosi: operano ai sensi dell'articolo33 del Dlgs n.22/97 ed applicano il decreto ministeriale del 5.2.98 (rifiuti speciali non pericolosi). Sono numerosissimi, ma non sono infrequenti i casi di impianti che hanno evidenziato attività di recupero scarsamente trasparenti, se non addirittura virtuali.

4. Alcune considerazioni sui risultati dell'indagine.

Il questionario fornisce un quadro aggiornato al 1998 della realtà industriale nazionale, su un campione rappresentativo di aziende, ed in alcuni casi è servito anche a stimolare e catalizzare l'interesse a migliorare l'organizzazione della gestione dei rifiuti prodotti.
Solo il 60% delle aziende ha dichiarato di essere in possesso di una procedura di gestione dei rifiuti; tali procedure non sempre appaiono in gran parte adeguate ai principi del decreto-legislativo n. 22 del 1997. Una delle carenze maggiori riguarda la gestione dei rifiuti da imballaggio, quasi ovunque inviati per lo smaltimento finale in discarica anziché essere conferiti al CONAI grazie ad accordi di programma;
Non sono infrequenti i casi di aziende che registrano e classificano i residui delle produzioni come «rifiuti» solo al momento del conferimento al nuovo detentore, violando così - ad avviso della Commissione - la normativa relativa alla tenuta dei registri di carico e scarico, secondo la quale le annotazioni sul registro devono essere effettuate entro una settimana dalla produzione del rifiuto e dallo scarico dello stesso (articolo 12 del decreto-leggevo 22/97).
Nel settore petrolifero e petrolchimico si è constatato e verificato che alcuni streams alcalini, come le sode esauste, non vengono classificati rifiuti, dalla quasi totalità delle aziende, ma solo acque contaminate da alcali da depurare in quanto tali, e che altri, come i fanghi di alchilazione, vengono classificati solo come rifiuti speciali non pericolosi. In entrambi i casi è ipotizzabile - ad avviso della Commissione - una violazione della normativa, in quanto entrambi i flussi sono da considerare rifiuti pericolosi in base all'allegato D del Dlgs n.22/97.
Discorso aperto, relativamente al settore petrolifero, è quello relativo al Tar che deriva dagli impianti di visbreaking che è definito rifiuto pericoloso dalle direttive comunitarie e dall'allegato D del decreto legislativo n.22/97, ma è invece utilizzato come prodotto negli impianti di gassificazione.
La produzione dei rifiuti speciali, per le aziende considerate, è in crescita nel periodo '97-'98; in particolare sono aumentati i rifiuti pericolosi nel settore chimico e petrolchimico.
In base ai nuovi criteri classificatori dell'articolo 7 Dlgs n.22/97, e alla introduzione delle classi di pericolosità con l'allegato I, e in base all'Allegato D, alcune tipologie di rifiuti, classificati speciali non tossici e non nocivi ai sensi del decreto del Presidente della Repubblica n.915/82, oggi sono classificati pericolosi.
Vi è una scarsa propensione delle aziende a ricercare tecnologie di processo più innovative, più pulite e a minor impatto ambientale per minimizzare la produzione dei rifiuti e ridurne la pericolosità, in linea con i principi dello sviluppo sostenibile. I buoni propositi e il ricorso a procedure di ecobilancio, rapporti ambientali, audit interni, applicazione dell'Emas, si sono dimostrate - in alcuni casi verificati dalla Commissione - operazioni più estetiche che di sostanza.
Vi è un «deficit» di sensibilizzazione del personale aziendale e delle ditte di manutenzione ai problemi di riduzione dei rifiuti. È capitato infatti di riscontrare che i residui delle manutenzioni, delle pulizie impianti, dello scarico di terreni in cui si sono verificati spills di prodotti, sono a volte assai rilevanti, anche in termini di costi di smaltimento sostenuti dalle aziende, mancando una procedura oculata di «housekeeping;».
Le capacità degli impianti di smaltimento nazionali per conto terzi è insufficiente, soprattutto in considerazione di una tendenza all'aumento della produzione


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di rifiuti. La situazione si potrebbe aggravare nel breve termine se si considerano i rifiuti che origineranno dalle operazioni di bonifica dei siti contaminati, ora che è in vigore il decreto n.471/99 sulle bonifiche, in attuazione dell'articolo17 del Dlgs n.22/97.
Quanto agli impianti di discarica, la situazione è gravemente deficitaria per quelle di tipo 2C per conto terzi (soltanto tre sul mercato: BARRICALLA di Torino, CONIV di Vasto e AREA di Ravenna), ed è preoccupante per il numero esiguo di quelle di tipologia 2B: va inoltre rilevato come quelle per rifiuti inerti (tipo 2A) non sempre sono utilizzate in maniera corretta, soprattutto in riferimento agli inerti da costruzione contenenti amianto. Gli impianti in cui si effettuano trattamenti di inertizzazione sono in numero insufficiente per far fronte alle necessità dei produttori, soprattutto alla luce di quanto previsto dal decreto legislativo n.22/97 che, dal 2001, impone il conferimento in discarica controllata di rifiuti inerti o resi inerti e comunque con bassissima componente organica per minimizzare i problemi legati al percolato e alle eventuali contaminazioni delle falde idriche. Anche gli impianti di termodistruzione risultano in numero assai esiguo.
Le risposte fornite dalle aziende in merito alla situazione dei siti contaminati mostrano una situazione di scarso o nullo inquinamento, che ad avviso della Commissione appare non del tutto credibile. Unica eccezione è quella degli impianti Enichem sui cui livelli di contaminazione, analisi del suolo, progetti di bonifica, sono state fornite notizie dettagliate e precise, con un buon impegno nel senso della trasparenza che invece non ha contraddistinto le altre aziende interessate dall'indagine.
Non si è registrata una «cultura» avanzata in termini di una efficace contrattualistica per servizi in campo ambientale. Nonostante i ripetuti segnali d'allarme avanzati nel corso di questi anni in merito alle penetrazioni illegali nel mercato si riscontra che ciò che determina nel concreto il contratto non è tanto la qualità dell'operatore terzo o delle tecnologie impiegate, quanto il costo di smaltimento. Ne deriva che sono negative le conseguenze sia in termini di competitività che di occupazione di manodopera. Non è difficile riscontrare infatti che in alcuni contratti si praticano costi di smaltimento che non trovano una spiegazione tecnica dei servizi resi. Tale distorsione delle regole di un sano mercato penalizza la manodopera qualificata e la qualità professionale, in quanto non impegna le aziende di smaltimento ad investire in nuove tecnologie, pena il rischio di essere poste fuori mercato. È invece convinzione della Commissione che su tale punto si misurerà in futuro la credibilità delle aziende che, a fronte della intenzione dichiarata di volere o autocontrollarsi o sottoporsi a controlli volontariamente, dovranno fare fronte alla situazione attuale per superarla, ricercando ed imponendo agli operatori del settore dello smaltimento regole più chiare e a maggior valenza tecnica.
Nei casi in cui le tecnologie innovative vengono impiegate da terzi all'interno delle aziende la qualità dei servizi ed i risultati appaiono di livello più accettabile.
Nelle aziende a rischio piccole e medie (ma vi è qualche esempio anche tra le grandi) è molto praticata la tecnica del «lump-sum» ossia del contratto globale che prescinde da clausole tecniche, specifiche, verifiche, ispezioni del sito di smaltimento etc. Si è notato come spesso i contratti vengono stipulati guardando più al passaggio di responsabilità dal produttore al detentore che a problemi di salvaguardia dell'immagine aziendale e delle vulnerabilità che deriverebbero da un non corretto smaltimento.
Il ricorso agli stoccaggi provvisori da parte degli operatori del mercato offre agli stessi un largo margine discrezionale per orientare a proprio piacimento i successivi smaltimenti e ciò anche è facilitato dal fatto che il produttore del rifiuto, contrariamente a quanto avveniva in regime di decreto del Presidente della Repubblica n.915/82, non è più responsabile


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dello stesso una volta che questo è stato consegnato al nuovo detentore (in pratica lo smaltitore).
Vi è tuttavia da considerare che, al di là di una più o meno accentuata sensibilità sulle tematiche ambientali, le aziende considerano (non sempre a torto) che, in un sistema che prevede controlli ed autorizzazioni da parte dell'organo pubblico, al produttore dovrebbero essere garantiti servizi di qualità effettuati nel pieno rispetto delle norma vigente.
I trattamenti di inertizzazione a volte non hanno sufficiente fondamento tecnico in termini di chimismo ipotizzato o dichiarato e di fatto finiscono per risultare fittizi se non virtuali (l'esempio più frequente è quello delle semplici diluizioni con inerti al solo scopo di rendere palabile il rifiuto per il successivo conferimento in discarica). L'effetto concreto dei trattamenti in questi casi è quello di enfatizzare i costi più che garantire un miglior livello di protezione ambientale. Per le aziende che affidano a terzi lo smaltimento dei loro rifiuti, la scoperta di trattamenti non conformi potrebbe comportare conseguenze negative sull'immagine, senza considerare il pagamento di somme per operazioni in realtà non effettuate.
In certi settori (es. rifiuti di amianto, oli trasformatori contenenti pcb, ancora presenti in quantità non trascurabili all'interno dei siti operativi) si assiste ad una sorta di oligopolio di aziende che regolano la raccolta, il trasporto, lo stoccaggio provvisorio in Italia ed il conferimento ad impianti di smaltimento all'estero (all'interno dei paesi comunitari) col ruolo prevalentemente di intermediari commerciali. Si segnala di converso una rilevante proliferazione di stoccaggi provvisori in Lombardia ed Emilia Romagna e di impianti operanti ai sensi dell'articolo 33 del Dlgs n.22/97 e del decreto ministeriale 5.2.98, nel settore del recupero e riciclo dei rifiuti speciali non pericolosi. Questi ultimi impianti, come la Commissione ha avuto modo di constatare e verificare, a volte si sono rivelati impianti di trattamento virtuale.
Le capacità degli impianti di smaltimento autorizzati (discariche, termodistruttori, stoccaggi) all'interno dei siti produttivi, appaiono sufficienti o al limite delle necessità. Relativamente agli impianti di stoccaggio provvisorio, occorre maggiore attenzione nella gestione da parte dei produttori e nel controllo da parte delle autorità ad esso preposte. Sono state infatti riscontrate diverse anomalie e violazioni delle prescrizioni autorizzative.
La Commissione sta approfondendo la problematica legata ai catalizzatori inviati all'estero per la rigenerazione. Il regolamento n. 259/93 prevede che i rifiuti non pericolosi destinati al recupero stiano in lista verde e che i rifiuti mediamente pericolosi e pericolosi stiano rispettivamente in lista ambra e rossa. Il dibattito sull'argomento in sede europea e in seno alla Commissione è teso a chiarire alcuni punti riguardo ai codici europei, all'effettiva rigenerazione dei materiali, all'effettivo eventuale riciclo, e ad eventuali traffici illeciti. Le risposte ai quesiti del questionario, assai variegate, offrono buoni spunti per il prosieguo dell'indagine della Commissione su tale materi.
Relativamente alla gestione degli oli usati, da un confronto effettuato tra i dati forniti dal Consorzio obbligatorio alla Commissione e quelli dichiarati da alcune aziende nei questionari, vi sono discordanze ed anomalie, a volte forti, come nel caso della raffineria ERG ISAB di Priolo Gargallo, richiamato in precedenza.
L'indagine, considerando i soli questionari ritrasmessi alla Commissione, ha dunque riguardato 134 dei 318 siti industriali a rischio di incidente rilevante, sottoposti cioè all'obbligo di notifica ai sensi dell'articolo 4 del Dpr 175 del 1988. A questi vanno aggiunti altri 27 siti industriali, particolarmente significativi dal punto di vista della produzione dei rifiuti speciali, in termini qualitativi e quantitativi.
Per quanto riguarda le industrie a rischio di incidente rilevante, sono stati compresi nel campione i principali 'petrolchimici' del territorio nazionale, da


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Porto Marghera a Gela, da Ravenna a Mantova. Per quanto riguarda tali siti, occupati essenzialmente dall'Enichem, il questionario è stato trasmesso anche alle principali tra le altre aziende presenti, le cui produzioni generalmente si integrano con quelle dell'Enichem stessa. Nel settore petrolifero - in particolare quello della raffinazione del petrolio - il campione è praticamente coincidente con l'universo, giacché non sono stati considerati solo gli impianti AGIP di Taranto e IES di Mantova. A livello di attività, le aziende considerate rappresentano il 92.8% della raffinazione petrolifera italiana. Per quanto riguarda infine il settore chimico, le aziende presenti nel campione rappresentano circa la metà delle industrie di tale comparto ricadenti nell'ambito dell'articolo 4 del Dpr 175/88.
Considerando poi la rappresentatività territoriale del campione, l'indagine ha preso in considerazione tutte le regioni italiane; resta esclusa solo la provincia autonoma di Trento, dove peraltro figura una sola industria a rischio di incidente rilevante.
Le informazioni fornite dalle aziende hanno evidenziato una produzione di rifiuti in crescita, con un aumento percentuale del 13% nel 1998 rispetto all'anno precedente. Scomponendo tale dato a seconda della tipologia dei rifiuti, tuttavia, emerge come la produzione di rifiuti pericolosi sia diminuita del 3,3%, mentre quella di rifiuti non pericolosi è aumentata del 16,7%. Tale tendenza emerge da tutti i settori considerati, salvo in quello della raffinazione del petrolio, dove la produzione di rifiuti pericolosi è pressoché raddoppiata nel biennio preso in considerazione, mentre quella di rifiuti non pericolosi è calata del 25,6%.
In rapporto a questa tendenza e ai dati forniti dall'indagine è opportuno evidenziare come le risposte fornite dalle aziende alla Commissione hanno mostrato una situazione di ancora non sufficiente sensibilità agli aspetti connessi alla produzione dei rifiuti; infatti, tra i siti a rischio di incidente rilevante nessuno risulta in possesso di programmi di minimizzazione della produzione dei rifiuti (anche se il 19% afferma di avere in corso lo studio di tali procedure); sul fronte dei siti non a rischio, appena il 3% dei questionari ricevuti segnala l'esistenza di programmi per la minimizzazione dei rifiuti. Ad avviso della Commissione tale situazione conferma la scarsa attenzione che il mondo imprenditoriale italiano riserva ancora al tema rifiuti. Questo atteggiamento è reso evidente anche dall'esame effettuato sulla contrattualistica con cui le aziende affidano a terzi la gestione dei propri rifiuti: sono pressoché inesistenti attività di audit esterno per controllare che vengano rispettate le procedure di gestione dei rifiuti indicate nei contratti. Contratti che generalmente non mostrano aspetti di dettaglio tali che vincolino in qualche modo il gestore ad un comportamento conforme alla legge; in questo le imprese paiono «sfruttare» quanto disposto dalla normativa in termini di responsabilità nella gestione dei rifiuti (oggi in capo al gestore e non al produttore).
Per quanto riguarda invece l'autosmaltimento, solo il 34% delle aziende del campione ha impianti propri per la gestione dei rifiuti. Tale dato, correlato a quello sulle capacità di gestione dei rifiuti speciali desunto dal rapporto 1999 Anpa-Osservatorio nazionale (l'impiantistica esistente copre il 75% del fabbisogno nazionale), evidenzia il deficit di soluzioni per il trattamento e lo smaltimento in Italia.
Questa relazione costituisce il primo risultato dell'attività di indagine della Commissione per quanto attiene alla gestione dei rifiuti speciali. Ad avviso della Commissione vi è infatti la necessità di accrescere l'attenzione su tale particolare settore che - in termini quantitativi e qualitativi - presenta elementi di preoccupazione assai maggiori rispetto al ciclo dei rifiuti solidi urbani. La produzione stimata è infatti oltre il doppio rispetto agli Rsu (60,8 milioni di tonnellate/anno rispetto a 28 milioni di tonnellate/anno), e l'impatto sulla salute del territorio e dei cittadini derivante da una non corretta


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gestione dei rifiuti speciali (in particolare i pericolosi) può avere conseguenze gravi.
Per tali motivi la Commissione continuerà il suo lavoro d'indagine sul settore, nella convinzione che senza il decollo di un vero e proprio sistema industriale, tecnologicamente avanzato, che affronti e gestisca i diversi segmenti del ciclo, sarà assai difficile da un lato superare l'attuale deficit di smaltimento e dall'altro gestire tale tipologia di rifiuti in maniera sempre più efficiente e, soprattutto, in sicurezza, cioè nel rispetto dell'ambiente e della salute dei cittadini.