ATTI DI CONTROLLO E DI INDIRIZZO
Seduta n. 40 di martedì 25 giugno 2013
INDICE
TESTO AGGIORNATO AL 26 GIUGNO 2013
ATTI DI INDIRIZZO:
Mozioni:
Formisano 1-00120 2543
Brunetta 1-00121 2544
Risoluzioni in Commissione:
VII e XI Commissione:
Coscia 7-00053 2545
Airaudo 7-00054 2546
XIII Commissione:
Oliverio 7-00052 2548
ATTI DI CONTROLLO:
Presidenza del Consiglio dei ministri.
Interrogazione a risposta scritta:
Chaouki 4-01000 2549
Affari regionali e autonomie.
Interrogazione a risposta scritta:
Oliverio 4-00994 2550
Beni e attività culturali.
Interrogazione a risposta in Commissione:
Mongiello 5-00435 2551
Coesione territoriale.
Interrogazioni a risposta immediata:
Di Gioia 3-00144 2552
Rampelli 3-00145 2553
Difesa.
Interpellanza urgente (ex articolo 138-bis del regolamento):
Corda 2-00112 2553
Economia e finanze.
Interrogazioni a risposta immediata in Commissione:
V Commissione:
Palese 5-00436 2555
VI Commissione:
Lavagno 5-00437 2555
Causi 5-00438 2556
Bernardo 5-00439 2557
Busin 5-00440 2557
Sottanelli 5-00441 2558
Barbanti 5-00442 2559
Interrogazioni a risposta scritta:
Fedi 4-00999 2560
Placido 4-01002 2561
Giustizia.
Interrogazioni a risposta scritta:
Bargero 4-00996 2561
Toninelli 4-00998 2563
Infrastrutture e trasporti.
Interrogazione a risposta in Commissione:
Velo 5-00427 2564
Interno.
Interrogazione a risposta scritta:
Fedriga 4-00995 2566
Istruzione, università e ricerca.
Interrogazioni a risposta immediata:
Boccadutri 3-00146 2566
Invernizzi 3-00147 2567
Santerini 3-00148 2568
Interrogazione a risposta scritta:
Toninelli 4-00997 2569
Lavoro e politiche sociali.
Interrogazione a risposta in Commissione:
Baldassarre 5-00426 2570
Interrogazione a risposta scritta:
Murer 4-00993 2570
Politiche agricole alimentari e forestali.
Interrogazioni a risposta immediata in Commissione:
XIII Commissione:
Bordo Franco 5-00428 2573
Carra 5-00429 2574
Faenzi 5-00430 2576
Caon 5-00431 2577
Benedetti 5-00432 2578
Interrogazioni a risposta in Commissione:
Rubinato 5-00433 2579
Mongiello 5-00434 2579
Pubblica amministrazione e semplificazione.
Interrogazione a risposta scritta:
Manfredi 4-01003 2580
Salute.
Interpellanza urgente (ex articolo 138-bis del regolamento):
Savino Elvira 2-00113 2581
Interrogazioni a risposta immediata:
Cecconi 3-00141 2583
Lenzi 3-00142 2584
Baldelli 3-00143 2585
Interrogazione a risposta orale:
Binetti 3-00140 2586
Interrogazione a risposta scritta:
Colletti 4-01001 2586
Apposizione di firme a mozioni 2587
Apposizione di una firma ad una risoluzione 2588
Apposizione di firme ad interrogazioni 2588
Pubblicazione di un testo riformulato e cambio dell'ordine dei firmatari 2588
Mozione:
Gitti 1-00115 2588
Ritiro di documenti del sindacato ispettivo 2594
ERRATA CORRIGE 2594
Interrogazioni per le quali è pervenuta risposta scritta alla Presidenza:
Di Gioia 4-00065 I
Di Vita 4-00197 II
(Risposta del Governo del 7 giugno 2013)
ATTI DI INDIRIZZO
Mozioni:
La Camera,
premesso che:
il Joint Strike Fighter (F35) è un cacciabombardiere di quinta generazione, il cui progetto è stato avviato negli Stati Uniti nella prima metà degli anni ’90, nell'ambito del progetto Joint Advanced Strike Technology (JAST), e che prevedeva lo sviluppo di un aereo da combattimento;
il cacciabombardiere F35 dovrebbe sostituire, con un solo aereo, tutta una serie di velivoli ormai obsoleti ed è previsto che abbia caratteristiche di bassa osservabilità da parte dei radar e di interconnessione a tutti i sistemi di comunicazione, informazione e scambio di dati;
il programma Joint Strike Fighter si svolge nell'ambito di un accordo tra gli Stati Uniti ed otto Paesi partner: Regno Unito, Italia, Paesi Bassi, Turchia, Canada, Australia, Norvegia e Danimarca;
l'Italia, partner di secondo livello, ha aderito al programma già dalla fine del 1998, con una richiesta iniziale di 131 aerei, ridotta nel 2012 a 90, quota ritenuta indispensabile dalle Forze armate italiane, a causa della necessità di sostituire tre linee di velivoli ormai obsoleti;
il primo investimento italiano è stato di 10 miliardi di dollari. Il nostro Paese ha una quota d'investimento totale nel progetto Joint Strike Fighter pari a quasi il 4 per cento;
dubbi crescenti si stanno diffondendo tra i partner sull'utilità del progetto F35. Tra l'altro, l'Olanda, partner di secondo livello come l'Italia nel programma, ha avviato un'inchiesta parlamentare a seguito di un voto contrario al progetto, mentre la Danimarca ha riaperto la gara per decidere entro il 2015 se dotarsi di questo tipo di aereo e la Norvegia ha messo in discussione la sua partecipazione al progetto;
per quel che riguarda l'Italia, nel 2009 le Commissioni difesa di Camera e Senato hanno espresso parere favorevole al programma, ma con alcune condizioni che riguardavano la conclusione di accordi industriali e governativi, in grado di generare un ritorno industriale per il nostro Paese proporzionale alla sua partecipazione finanziaria, in modo anche da tutelare i livelli di occupazione. È dubbio che questi impegni possano davvero essere rispettati;
le industrie italiane hanno ottenuto appalti per circa 800 milioni di dollari. Si tratta di una cifra certamente significativa ma che potrebbe non consentire il raggiungimento del previsto ritorno del 100 per cento come auspicato dai vari Governi che si sono succeduti;
per quel che riguarda i posti di lavoro, discordanti sono le cifre fornite dai Governi e dai militari, che parlano di circa 10 mila nuovi posti di lavoro, e quelle dei sindacati, che prevedono non più di 2000 posti, nati dalla ricollocazione di lavoratori precedentemente impiegati in altri settori;
dubbi sulla fattibilità del progetto, sui suoi costi e sui vantaggi che esso porterebbe al nostro Paese, sono, dunque, leciti, ma non è pensabile un ritiro unilaterale del nostro Paese dal programma Joint Strike Fighter, ritiro che esporrebbe l'Italia all'accusa di essere un partner inaffidabile, con evidenti ricadute negative, non solo d'immagine, per il nostro Paese e per le sue imprese;
non appare, comunque, assurdo immaginare una riduzione del ruolo dell'Italia nel programma, in modo da liberare risorse da utilizzare per interventi urgenti in ambiti anche diversi da quello militare, ma qualunque iniziativa di questo genere andrebbe intrapresa in accordo con le istituzioni sovranazionali competenti,
impegna il Governo:
ad escludere qualunque decisione unilaterale del nostro Paese, concordando in ambito europeo ed euro-atlantico l'eventuale riduzione della partecipazione italiana al programma Joint Strike Fighter;
a definire in accordo con il Parlamento l'utilizzo delle risorse liberate qualora si procedesse alla riduzione della quota di partecipazione italiana al programma degli F35;
ad operare in tutte le sedi competenti a livello sovranazionale per dare sempre maggior forza alla politica comune europea di difesa, inserendo in quest'ottica anche l'utilizzo dei caccia F35.
(1-00120) «Formisano, Tabacci, Pisicchio».
La Camera,
premesso che:
in un mondo sempre più globalizzato, che vede affacciarsi sulla scena nuovi attori in grado di incidere sugli equilibri internazionali e nuovi rischi, è ormai ineludibile per i Paesi europei impegnarsi per lo sviluppo di un'effettiva politica estera e di sicurezza comune, in un quadro di collaborazione con le alleanze atlantiche;
la maggior parte dei Paesi europei è impegnata ad analizzare le opportunità che possono derivare dall'integrazione europea della difesa, con particolare riferimento alla costituzione di asset operativi e addestrativi comuni, finalizzati ad una piena interoperabilità, nonché alla promozione di sinergie industriali finalizzate alla ricerca, allo sviluppo e alla produzione di programmi comuni sulla base di accordi di cooperazione o di cooperazione rafforzata;
il Consiglio europeo di dicembre 2013 costituirà un appuntamento fondamentale per dare impulso alla costruzione della difesa europea e tutti i Paesi dell'Unione europea saranno chiamati, in quella sede, a trovare convergenza e complementarietà, anche con l'obiettivo di ricercare il miglior utilizzo delle risorse disponibili, nell'attuale e complesso quadro finanziario generale;
i principali Paesi europei hanno avviato processi di revisione delle rispettive Forze armate e il Parlamento italiano ha approvato la legge di revisione dello strumento militare che delinea Forze armate sostenibili, nel prevedibile quadro finanziario, assicurandone l'efficacia operativa;
la difesa è un bene primario e i fondamenti del nostro «modello di difesa» sono contenuti nella Costituzione, con particolare riferimento all'articolo 11, che recita: «L'Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo»; e a questi fondamenti si uniformano le scelte relative alle Forze armate;
secondo i dati riportati nel Fact sheet (aprile 2013) del noto centro Stockolm international peace research Institute – Sipri – la spesa militare in Italia si è ridotta del 5,2 per cento tra il 2011 e il 2012 e del 19 per cento tra il 2003 e il 2012, ovvero di gran lunga la maggiore riduzione – unica a «due cifre» – riscontrata fra i Paesi occidentali;
la tematica dell'acquisizione dei sistemi d'arma costituisce solo un aspetto della pianificazione generale della difesa, di cui la parte più rilevante è costituita dalla complessità delle problematiche inerenti al personale, tenendo conto della riconosciuta specificità;
il documento programmatico pluriennale per la difesa per il triennio 2013-2015, presentato al Parlamento, prevede un insieme di programmi di acquisizione di mezzi e sistemi d'arma funzionali a garantire il sistema di difesa nazionale, in coerenza con i compiti istituzionali;
in particolare, è prevista la sostituzione dei velivoli aerotattici della Marina e dell'Aeronautica prossimi alla fine della vita operativa, mediante la progressiva realizzazione del programma modulare di F35, avviata nel 1998 e attualmente in fase di industrializzazione, mentre le fasi successive di implementazione saranno decise da Governo e Parlamento, ciascuno secondo le proprie prerogative, alla luce anche delle necessità del sistema di difesa, del concerto con gli altri Paesi europei e della Nato e della relativa compatibilità finanziaria;
il primo veicolo non potrà comunque essere disponibile, nella migliore delle ipotesi, che alla fine del 2015;
le commissioni parlamentari competenti hanno manifestato l'intendimento di avviare audizioni ed indagini conoscitive, in vista del Consiglio europeo di dicembre 2013, per verificare la coerenza della pianificazione dell'investimento, anche alla luce delle parallele iniziative degli altri Paesi europei,
impegna il Governo:
a dare impulso, a partire dal Consiglio europeo di dicembre 2013, a concrete iniziative per la crescita della dimensione di difesa comune europea;
al pieno rispetto di quanto previsto dall'articolo 4 della legge 31 dicembre 2012, n. 244, allo scopo di garantire al Parlamento di esercitare le proprie prerogative.
(1-00121) «Brunetta, Cicu».
Risoluzioni in Commissione:
La VII e l'XI Commissione,
premesso che:
i commi 13 e 14 dell'articolo 14 del decreto-legge 6 luglio 2012, n. 95, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 2012, n. 135 – c.d. decreto-legge «spending review») – hanno disposto il transito di personale docente inidoneo e degli insegnanti tecnico-pratici nei ruoli del personale amministrativo, tecnico ed ausiliario (ATA);
con le citate disposizioni si è compiuta una doppia ingiustizia, una a danno di insegnanti gravemente ammalati che oggi – per quel che possono – continuano a dare il loro contributo alla scuola e l'altra a danno del personale ausiliare tecnico amministrativo precario che da anni lavora e oggi vede messo in discussione il proprio posto di lavoro;
i docenti inidonei, circa 3.500 – poco più del 2 per cento degli insegnanti della scuola pubblica – sono inidonei all'insegnamento ma idonei ad altri compiti, come la programmazione e l'approfondimento della didattica, le attività connesse all'insegnamento, le cosiddette funzioni strumentali, la cura della biblioteca, dei laboratori, l'organizzazione delle visite istruttive e delle attività di orientamento, l'organizzazione delle prove di ingresso e di esame, i test Invalsi;
la succitata norma, che ha previsto per il personale docente attualmente titolare delle classi di concorso C999 (insegnanti tecnico-pratici degli enti locali transitati nei ruoli dello Stato) e C555 (ex LII/C – esercitazioni di pratica professionale) il transito nei ruoli del personale non docente con la qualifica di assistente amministrativo, tecnico o collaboratore scolastico, non risolve il problema di tale personale – prima, infatti, sarebbero stati necessari percorsi di riqualifica in altri ambiti di supporto alla didattica laboratoriale – né del personale precario amministrativo e tecnico che di fatto si troverebbe ad impiegare funzioni complesse senza un'adeguata formazione,
impegnano il Governo:
a individuare un nuovo piano per l'utilizzo del personale dichiarato inidoneo che assicuri il pieno funzionamento del servizio scolastico tenendo conto delle effettive condizioni di salute, del loro profilo professionale e delle competenze acquisite dagli stessi;
a riprendere analoghe disposizioni presenti in precedenti norme per diverse categorie di dipendenti della pubblica amministrazione in esubero, applicando per tale personale inidoneo le disposizioni pensionistiche previgenti alle norme di cui all'articolo 24 del decreto-legge 6 dicembre, n. 201, convertito, con modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214;
ad adottare tutte le iniziative, anche di tipo formativo, al fine di consentire, nei vari contesti scolastici, l'alta professionalità.
(7-00053) «Coscia, Bellanova, Rocchi, Ascani, Blazina, Bonafè, Bossa, Carocci, Coccia, D'Ottavio, Ghizzoni, La Marca, Malpezzi, Manzi, Malisani, Narduolo, Orfini, Pes, Piccoli Nardelli, Raciti, Rampi, Zampa».
La VII e l'XI Commissione,
premesso che:
l'articolo 14, commi 13, 14 e 15 del decreto-legge 6 luglio 2012, n. 95 (cosiddetto decreto sulla spending review), convertito in legge, con modificazioni, dall'articolo 1, comma 1 della legge 7 agosto 2012, n. 135, recano disposizioni in materia di transito del personale docente dichiarato permanentemente inidoneo e di insegnanti tecnico-pratici nei ruoli di personale amministrativo, tecnico ed ausiliario (ATA);
i predetti commi hanno realizzato una doppia ingiustizia: a danno di insegnanti gravemente ammalati che oggi offrono per quel che possono il loro contributo di lavoro alla scuola, e a danno di personale ATA precario sulla cui pelle si gioca il «cosiddetto risparmio» di spesa. Persone queste ultime che con dedizione e competenza stanno svolgendo un lavoro per nulla semplice, visto l'appesantimento burocratico che grava sulle autonomie scolastiche dotate di segreterie ormai ridotte all'osso dai tagli della legge n. 133 del 2008;
in particolare, il comma 13 stabilisce che il personale docente dichiarato permanentemente inidoneo alla propria funzione per motivi di salute, ma idoneo ad altri compiti, transita nei ruoli del personale ATA con la qualifica di assistente amministrativo o tecnico, con decreto del direttore generale del competente Ufficio scolastico regionale (USR), da emanare entro 30 giorni dalla data di entrata in vigore del decreto-legge. Attualmente, circa 3500 docenti, poco più del 2 per cento degli insegnanti della scuola pubblica, sono inidonei all'insegnamento ma idonei ad altri compiti, come la programmazione e l'approfondimento della didattica, le attività connesse all'insegnamento, le cosiddette funzioni strumentali, la cura della biblioteca, dei laboratori, l'organizzazione delle visite istruttive e delle attività di orientamento, l'organizzazione delle prove di ingresso, di esami, i test Invalsi;
l'inidoneità in un profilo, con l'opportunità di svolgere altri compiti, evita la discriminazione di un lavoratore per le sue condizioni di salute ed è anche un'opportunità per il luogo di lavoro di poter continuare ad usufruire, sia pure in parte, della professionalità di quel lavoratore;
i docenti inidonei sono privati del loro ruolo e retrocessi di qualifica, chiamati a svolgere funzioni amministrative e tecniche per le quali non hanno nessuna preparazione e formazione. Questa scelta non aiuta la scuola, ma rappresenta l'ennesimo fattore di indebolimento, senza peraltro raggiungere gli obiettivi fissati di contenimento della spesa;
per tali motivi appare incomprensibile e lesiva del loro ruolo dei docenti la scelta del decreto-legge sulla spending review di spostare i docenti inidonei nei ruoli degli assistenti amministrativi e tecnici delle scuole, licenziando di fatto gli ATA precari;
a tutt'oggi non è stato ancora chiarito il futuro del personale interessato da queste norme e non sono state ancora regolate le modalità e i termini di questo passaggio;
il comma 13 dispone, altresì, che il personale docente dichiarato solo temporaneamente inidoneo alla propria funzione per motivi di salute, ma idoneo ad altri compiti, venga spostato, entro 20 giorni dalla data di notifica del verbale della Commissione medica operante presso la ASL, su posti anche di fatto disponibili di assistente amministrativo o tecnico, nella provincia di appartenenza, tenuto conto delle sedi indicate dal richiedente, ovvero su posti di altra provincia;
il comma 14 dispone, invece, che il personale docente attualmente titolare della classi di concorso C999 (insegnanti tecnico-pratici degli enti locali transitati nei ruoli dello Stato) e C555 (ex LII/C – esercitazioni di pratica professionale), transiti nei ruoli del personale non docente con la qualifica di assistente amministrativo, tecnico o collaboratore scolastico, in base al titolo di studio posseduto. Il transito è effettuato con decreto del direttore generale del competente USR, da emanarsi entro 30 giorni dalla data di entrata in vigore del decreto-legge. Il personale è immesso in ruolo su tutti i posti vacanti e disponibili nella provincia di appartenenza, tenuto conto delle sedi indicate dal richiedente, e mantiene il maggior trattamento stipendiale mediante assegno personale riassorbibile con i successivi miglioramenti economici a qualsiasi titolo conseguiti;
il comma 15, infine, dispone che i criteri e le procedure per l'attuazione di quanto previsto ai commi 13 e 14 sono adottati con decreto del Ministro dell'istruzione, dell'università e della ricerca;
il 30 aprile 2013, è stata presentata la proposta di legge n. 856 a prima firma del deputato Melilla, iscritto al gruppo di Sinistra Ecologia Libertà, con la quale si chiede l'abrogazione dei commi 13, 14 e 15 dell'articolo 14 del decreto-legge 6 luglio 2012, n. 95, convertito, con modificazioni, dall'articolo 1, comma 1 della legge 7 agosto 2012, n. 135, in materia di transito del personale docente dichiarato permanentemente inidoneo e di insegnanti tecnico-pratici nei ruoli di personale amministrativo, tecnico ed ausiliario (ATA),
impegnano il Governo:
a non adottare il decreto ministeriale di cui all'articolo 14, comma 15 del decreto-legge 6 luglio 2012 n. 95;
a proporre o a sostenere iniziative legislative intese ad abrogare l'articolo 14, commi 13, 14 e 15 del predetto decreto, nella convinzione che tali disposizioni che prevedono il transito di personale docente inidoneo per ragioni di salute e degli insegnanti tecnico pratici nei ruoli di personale amministrativo, tecnico ed ausiliario (ATA) non risolve né il problema del suddetto personale né del personale precario amministrativo e tecnico e che è lesivo della professionalità e della dignità dei docenti;
ad adottare ogni altra iniziativa idonea a garantire il migliore funzionamento del servizio scolastico.
(7-00054) «Airaudo, Giancarlo Giordano, Costantino, Di Salvo, Fratoianni, Placido, Melilla».
La XIII Commissione,
premesso che:
si è notevolmente accentuata la variabilità del clima, che determina ricorrenti periodi di siccità che si alternano a periodi di precipitazioni alluvionali;
tale variabilità climatica determina uno scenario preoccupante per la carente disponibilità di risorse idriche e per la vulnerabilità del suolo;
i problemi che tale situazione pone hanno grave incidenza sull'agricoltura in quanto, a causa della variabilità climatica, la distribuzione delle piogge non è conforme alle esigenze vegetative delle piante e determina gravi problemi per le produzioni con riguardo specifico anche ai livelli qualitativi che devono caratterizzare le produzioni per affrontare idoneamente la concorrenza dei mercati;
l'irrigazione rappresenta l'indispensabile elemento tecnologico necessario ad attenuare le conseguenze negative discendenti dal clima e dalle precipitazioni;
l'irrigazione è indispensabile non solo per superare gli ostacoli del clima e far fronte alla siccità ma anche per garantire l'elasticità nelle produzioni e rispondere alle mutevoli esigenze dei mercati;
si valuta che più del 40 per cento del valore lordo della produzione agricola italiana dipende, sia pure in grado diverso, dall'irrigazione, mentre il restante 60 per cento si ottiene con le risorse idriche naturalmente derivanti dalle precipitazioni meteoriche;
le esportazioni agricole italiane, a loro volta, sono costituite per i 2/3 del loro valore da prodotti ottenuti in territori irrigati;
la sicurezza alimentare è strettamente subordinata alla disponibilità dell'acqua per l'irrigazione;
per dare idonee risposte agli accresciuti fabbisogni connessi alla variabilità del clima, il sistema infrastrutturale irriguo del nostro Paese necessita di interventi di ammodernamento e completamento anche attraverso strumenti tecnologici innovativi che consentano una razionale utilizzazione delle acque con conseguente risparmio idrico, mentre nel contempo è necessario estendere l'irrigazione in molti territori che ancora non sono attrezzati;
è indispensabile garantire la raccolta delle acque piovane evitando che si disperdano a mare, realizzando quindi bacini idonei a raccogliere le acque meteoriche;
per dare idonea risposta a tali problemi è stato necessario nel nostro Paese un Piano irriguo nazionale, cui sono state destinate inizialmente le risorse finanziarie indispensabili;
tali somme peraltro, sin dalla legge finanziaria 2006 hanno subito consistenti riduzioni sì che rispetto al fabbisogno di circa 7 miliardi di euro contemplato nel programma previsto dalla delibera CIPE 75/2004, sono state finanziate opere solo per un importo pari a 1.030 milioni di euro;
in questa situazione la legge finanziaria 2008 autorizzò un finanziamento di 100 milioni di euro per 15 anni a decorrere dall'anno 2011, onde realizzare attraverso mutui una ulteriore tranche di interventi del Piano irriguo nazionale;
peraltro le progressive riduzioni apportate con le manovre di finanza pubblica hanno determinato forti riduzioni di tale stanziamento fino a pervenire ad una assegnazione anziché di 100 milioni di euro, di 53.475 milioni di euro per 15 anni, con i quali si sono finanziati interventi soltanto per circa 595.484 milioni di euro. Tale cifra non è stata più integrata; la legge finanziaria 2013 non contempla nuove risorse per il Piano irriguo nazionale;
è indispensabile garantire la realizzazione del Piano irriguo nazionale rinvenendo, sia pure gradualmente, le risorse necessarie tenendo conto che già esistono progetti cantierabili predisposti dai Consorzi di bonifica e di irrigazione;
l'accordo di partenariato per i programmi operativi per la PAC 2014-2020, in corso di definizione, prende in considerazione anche il settore delle risorse idriche ed in particolare dell'irrigazione con riferimento all'ammodernamento delle reti, alla creazione di nuovi bacini di accumulo, ad infrastrutture per l'utilizzo di acque reflue depurate, nonché per l'adesione di tecniche e metodi di irrigazione a maggiore risparmio idrico,
impegna il Governo:
a garantire la prosecuzione del Piano irriguo nazionale attraverso la destinazione al settore delle necessarie risorse finanziarie;
ad intervenire in sede di definizione dell'Accordo di partenariato per la PAC 2014-2020 affinché sia prevista espressamente, nell'ambito del secondo pilastro, la realizzazione di infrastrutture irrigue collettive destinate al completamento ed all'ammodernamento di reti e impianti, all'ampliamento dell'irrigazione, alla realizzazione di bacini di accumulo.
(7-00052) «Oliverio, Cova, Mongiello, Terrosi, Cenni, Zanin, Carra, Antezza, Valiante».
ATTI DI CONTROLLO
PRESIDENZA DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI
Interrogazione a risposta scritta:
CHAOUKI e QUARTAPELLE PROCOPIO. — Al Presidente del Consiglio dei ministri, al Ministro degli affari esteri, al Ministro dell'interno. — Per sapere – premesso che:
Giuliano Delnevo, cittadino italiano convertito all'Islam, è morto in Siria parrebbe nei combattimenti tra le forze governative e la guerriglia sunnita, a cui si sarebbe unito probabilmente a fine 2012;
Delnevo risulta iscritto sul registro degli indagati della procura di Genova già dal novembre del 2009 con altre cinque persone – un italiano e quattro maghrebini – per arruolamento e addestramento con finalità terroristiche; Delnevo era «attenzionato» da tempo ed i suoi spostamenti all'estero erano seguiti con attenzione dagli inquirenti che hanno dichiarato di essere a conoscenza della sua presenza in Siria;
il procuratore genovese Michele Di Lecce ha dichiarato a mezzo stampa che esclude che vi siano collegamenti con altre procure nell'inchiesta e di non essere a conoscenza di cosiddette centrali di arruolamento a Genova o altrove. Secondo la procura di Genova l'indagine su Delnevo riguarda solo lui, la sua attività e le persone arruolate insieme a lui;
il direttore del dipartimento delle informazioni per la sicurezza Giampiero Massolo ha dichiarato in merito che «in Italia non c’è un bacino di reclutamento, ma solo delle individualità che entrano in comunicazione con cellule jihadiste attraverso il web e che il fenomeno è molto meno diffuso nel nostro Paese rispetto a molti altri nostri partner occidentali». Inoltre, ha evidenziato che i servizi segreti non hanno avuto notizia di strutturati canali di instradamento verso la Siria di aspiranti mujahidin né di indicatori specifici di una specifica minaccia;
Foad Aodi, presidente della Comunità del mondo arabo (Coniai) e a capo dell'Associazione medici stranieri (Amsi) sostiene, sulla base di fonti siriane a lui vicine, che in Siria, in particolare a Deir Ezzor e ad Aleppo, ci sono circa 45-50 miliziani di origine italiana – soprattutto provenienti dal nord e anche da Roma – insieme con i ribelli, tra i quali anche una donna. Si stimano all'incirca 600 miliziani, di cui non si sa però se si tratti di convertiti all'Islam o di persone con doppia cittadinanza, partiti da tutta Europa tra cui tre donne, una italiana, una spagnola e una cecena impegnate a curare i feriti ad Aleppo;
ad oggi, il pericolo maggiore che segnalano gli analisti dell’intelligence sono i potenziali «terroristi solitari», i cosiddetti «self starters», i terrorismi senza schema, ed è dimostrato come il web possa essere una potente forma di auto-addestramento e auto-reclutamento, uno spazio virtuale per la diffusione di messaggi di odio e incitamento al terrorismo. È un tipo di terrorismo difficile da prevedere e, soprattutto, prevenire –:
se rispondano al vero le notizie riguardo ai circa 50 italiani presenti in Siria al fianco dei ribelli;
quali informazioni abbia il Governo in merito al fenomeno dei «terroristi solitari» e all'utilizzo del web per fini terroristici e come intenda monitarlo.
(4-01000)
AFFARI REGIONALI E AUTONOMIE
Interrogazione a risposta scritta:
OLIVERIO. – Al Ministro per gli affari regionali e le autonomie. – Per sapere — premesso che:
la regione Calabria ha approvato per appello nominale e con maggioranza semplice e precisamente con 37 votanti su 50 consiglieri, favorevoli 24, contrari 3, astenuti 10, la legge regionale 16 maggio 2013 n. 24 recante il «Riordino enti, aziende regionali, fondazioni, agenzie regionali, società e consorzi comunque denominati, con esclusione del settore sanità»;
la richiamata legge prevede in particolare, all'articolo 5, l'accorpamento dei consorzi provinciali per le aree di sviluppo industriale (ASI), già istituiti con la legge regionale 24 dicembre 2001 n. 38;
lo statuto della regione Calabria prevede tuttavia, all'articolo 54 comma 3, che: «con legge approvata a maggioranza di due terzi dei componenti del Consiglio regionale, la Regione può istituire enti, aziende e società regionali, anche a carattere consortile, con enti locali o con altre regioni, nonché partecipare o promuovere intese anche di natura finanziaria»;
le ASI rientrano a pieno titolo fra gli organi costituiti tra regione ed enti locali; per esempio, dell'ASI di Crotone fanno parte oltre la regione, la provincia, il comune di Crotone, il comune di Rocca di Neto, il comune di Isola Capo Rizzuto, il consorzio di bonifica della provincia di Crotone ed altri enti;
in considerazione dell'articolo 54, comma 3, dello statuto della regione Calabria, i consorzi provinciali per le aree di sviluppo industriali (ASI) possono essere istituiti solo con una legge approvata con la maggioranza qualificata dei due terzi prevista dallo statuto e non con una legge approvata con la maggioranza semplice, come del caso della legge 16 maggio 2013, n. 24, richiamata in oggetto;
lo statuto ha competenza in materia di disciplina del procedimento legislativo ai sensi dell'articolo 123 della Costituzione e, in considerazione di ciò, lo statuto può disciplinare anche maggioranze aggravate per determinate tipologie di leggi, come ad esempio nel caso della legge elettorale (sentenza n. 2 del 2004 della Corte costituzionale);
dunque la violazione della procedura prevista dallo statuto regionale si configura come una violazione indiretta della Costituzione, che lo identifica come fonte sulle fonti regionali e dunque vincola al rispetto del medesimo nel procedimento legislativo –:
se sia al corrente della situazione e se non intenda valutare se sussistano i presupposti per esercitare il suo potere di impugnativa esplicitamente previsto dall'articolo 127 della Costituzione, considerata la palese violazione dell'articolo 54, comma 3, dello statuto operata in sede di approvazione della legge n. 24 del 2013 da parte del consiglio della regione Calabria, in particolare avendo questi proceduto ad approvarla senza la maggioranza qualificata richiesta. (4-00994)
BENI E ATTIVITÀ CULTURALI
Interrogazione a risposta in Commissione:
MONGIELLO. — Al Ministro per i beni e le attività culturali. — Per sapere – premesso che:
il turismo culturale potrebbe rappresentare la principale risorsa del nostro Paese per fondare le basi della ripresa economica ed iniziare a superare la grave crisi finanziaria che da anni lo opprime;
purtroppo anche questa fonte di attrazione e di prestigio dell'Italia rischia di scivolare nelle inefficienze e nelle criticità che sempre più di frequente contrassegnano il Bel Paese come simbolo negativo agli occhi del mondo;
sono di questi giorni, infatti, alcuni tristi episodi che testimoniano i profili problematici del nostro settore culturale: a Roma, già in due circostanze, il Colosseo è rimasto temporaneamente chiuso a turisti e visitatori;
domenica 23 giugno 2013, dalle ore 9 alle ore 11 del mattino le visite al Colosseo sono state interrotte per la protesta dei dipendenti del ministero per i beni e le attività culturali che lavorano nell'Anfiteatro Flavio;
anche il precedente giovedì 20 vi è stato un analogo episodio. Dopo l'assemblea dei predetti lavoratori, si è verificata la chiusura del monumento dalle ore 8.30 alle ore 12;
ad indire la mobilitazione è stato il sindacato Flp che ha convocato una nuova assemblea autonoma. Le altre sigle, invece, stanno organizzando una mobilitazione unitaria per venerdì prossimo, 28 giugno, che coinvolgerà i dipendenti di musei e aree archeologiche statali, che potrebbero quindi non aprire e chiamare invece i lavoratori ad azioni di informazione e sensibilizzazione del pubblico sui motivi della protesta: blocco delle assunzioni, mancata registrazione dell'accordo sull'aumento dei turni festivi da parte del Ministero dell'economia e delle finanze e sospensione del pagamento del salario accessorio da 9 mesi;
da parte sua, il Ministero per i beni e le attività culturali ha fatto sapere, con un comunicato, che la situazione è nota al dicastero e che si sta adoperando affinché vengano predisposti gli atti con l'obiettivo di effettuare i pagamenti entro il mese di luglio;
per lenire i disagi provocati ai turisti, il sindaco di Roma ha chiesto alla protezione civile di distribuire loro delle bottigliette d'acqua;
anche il segretario nazionale del Flp-Bac è intervenuto sulla vicenda, spiegando che il sindacato ha un'altra vertenza in atto a Roma, in particolare con la Soprintendenza speciale ai beni archeologici a causa dell'utilizzo, ritenuto improprio, di 70 addetti a vigilanza e accoglienza e il conseguente ricorso a una società di vigilanza privata;
per questo caso il sindacato in questione ha altresì inoltrato un esposto alla procura della Corte dei Conti, chiarendo che le loro azioni sono tese a consentire l'internalizzazione di tutte le attività istituzionali;
il predetto sindacato, ad ogni modo, sembra non voler recedere dalle proprie iniziative se non avrà risposte concrete da parte del Ministero e nelle more che ciò avvenga, «ha deciso di mantenere lo stato di agitazione e le assemblee unitarie convocate in biblioteche e archivi d'Italia per lunedì 24 e il 28 giugno in musei e siti archeologici»;
anche le associazioni del turismo hanno manifestato indignazione e riprovazione per quando sta accadendo, ritenendolo un vero scandalo per l'Italia oltre che un danno d'immagine ancora peggiore e non più tollerabile –:
quali provvedimenti immediati e non differibili stia adottando o intenda adottare per risolvere le problematiche esposte in premessa;
se non ritenga necessario assumere le iniziative di competenza per incrementare le risorse e le dotazioni lavorative necessarie per assicurare l'efficace fruibilità turistica dei beni culturali del nostro Paese con particolare riguardo alle ricchezze storiche ed archeologiche della città di Roma. (5-00435)
COESIONE TERRITORIALE
Interrogazioni a risposta immediata:
DI GIOIA. — Al Ministro per la coesione territoriale. — Per sapere – premesso che:
il 20o rapporto del CRENOS, il Centro ricerche economiche Nord-Sud, ha descritto in toni drammatici la crisi economica che sta attraversando la regione Sardegna;
alla stagnazione in termini di crescita del reddito e dei consumi si accompagna una drastica riduzione degli investimenti;
il numero di disoccupati è passato dai 67 mila del 2007 ai 109 mila nel 2012;
il prodotto interno lordo pro capite della Sardegna è passato dall'80 per cento al 78 per cento rispetto alla media europea ed è, attualmente, molto al di sotto della media nazionale (17.810 rispetto ai 27.490);
la struttura produttiva ha subito un forte decremento e gli investimenti pubblici, in settori strategici e competitivi per il sistema economico dell'isola, risultano del tutto insufficienti e marginali, con una quota destinata a ricerca, sviluppo e formazione che non raggiunge neanche l'1 per cento;
per non parlare di settori strategici come l'agricoltura, l'industria e i servizi-turismo, dove vi è stato un decremento del 42 per cento;
infine, per quanto riguarda la cassa integrazione, vi è stato un incremento delle ore autorizzate del 600 per cento, a dimostrazione del crollo dell'intero sistema produttivo dell'isola e di indicatori economici peggiori rispetto a quelli medi italiani, che, a loro volta, risultano peggiori rispetto alle medie europee;
come è noto, da parte della regione Sardegna, delle sue istituzioni regionali e locali, vi è la richiesta di maggiore autonomia, al fine di favorire una ripresa economica che appare impossibile stante le normative attuali;
ad oggi ben 340 su 377 comuni della Sardegna hanno deliberato a favore della zona franca. Da parte di moltissimi cittadini l'interesse verso questo argomento è notevole, nella speranza che contribuisca a risollevare l'economia isolana;
da tempo i sostenitori dell'iniziativa chiedono a gran voce che venga data attuazione al dettato del decreto legislativo n. 75 del 1998, che sancisce lo status di zona franca per 6 porti della Sardegna e per le aree industriali ad essi collegate e collegabili. Un decreto legislativo mai attuato, che i promotori della zona franca vogliono non solo portare a compimento, ma estendere integralmente a tutta la Sardegna;
appare, d'altra parte, evidente che in attesa della realizzazione della zona franca sia necessario prevedere elementi di fiscalità di vantaggio, abbattimento dei costi per l'approvvigionamento energetico e i trasporti, al fine di limitare i maggiori oneri per cittadini e imprese causati dalla condizione di insularità e perifericità;
ciò appare necessario ed urgente per porre fine ad un'oggettiva condizione di sfavore, rispetto a tutti gli altri contesti italiani ed europei, che, seppure in ritardo di sviluppo come la Sardegna, non sono gravati da tali condizioni;
a tal fine appare necessario, come elemento iniziale e ovviamente non risolutivo delle problematiche che investono l'economia isolana, prevedere, così come richiesto dalle associazioni dei consumatori, una continuità territoriale dal doppio binario: senza previsione di oneri pubblici per i vantaggi riservati ai cittadini sardi sul modello del regime attuale e, per converso, con l'utilizzo di risorse regionali e nazionali per estendere i medesimi vantaggi anche ai non residenti –:
quali strumenti economici si intendano adottare, sin da subito, al fine di colmare il gap attualmente esistente tra la regione Sardegna e il resto del Paese, al fine di rilanciare l'economia dell'isola, e se non si ritenga, stante l'inizio della stagione turistica, utile intervenire immediatamente al fine di attivare la continuità territoriale dal doppio binario, così come prevista nelle premesse. (3-00144)
RAMPELLI. — Al Ministro per la coesione territoriale. — Per sapere – premesso che:
dai più recenti dati pubblicati in materia, risulta che l'Italia, pur migliorando la sua performance nell'assorbimento dei fondi strutturali, continua ad essere il fanalino di coda dei 27 Paesi dell'Unione europea;
secondo gli ultimi dati disponibili, infatti, la media europea relativa alla quota di fondi comunitari utilizzati si attesta oltre il 50 per cento, mentre quella dell'Italia è ferma al 40 per cento;
da qui al 2015 vi sarebbero ancora 31 miliardi di euro di cofinanziamento, a valere sul fondo europeo di sviluppo regionale e sul fondo sociale europeo, da spendere, salvo essere definitivamente dispersi;
a margine dell'Ecofin a Lussemburgo, il 21 giugno 2013, il Ministro dell'economia e delle finanze, Saccomanni, ha dichiarato che l'Italia deve concentrarsi nell'utilizzo dei fondi comunitari già disponibili, stigmatizzando il ritardo accumulato nell'utilizzo di quelli computati e autorizzati –:
a quanto ammontino i fondi europei inutilizzati e quali interventi urgenti il Governo intenda assumere affinché il nostro Paese riesca ad usufruire pienamente delle risorse messe a disposizione dall'Unione europea. (3-00145)
DIFESA
Interpellanza urgente (ex articolo 138-bis del regolamento):
I sottoscritti chiedono di interpellare il Ministro della difesa, per sapere — premesso che:
Forza NEC, programma avviato nel 2007, ha come obiettivo quello di formare una Forza terrestre integrata digitalizzata, basata su tre brigate medie dell'esercito e su una brigata anfibia interforze composta da elementi del reggimento «Serenissima» e del reggimento di fanteria di marina «San Marco»;
secondo il cronoprogramma stabilito dall'azienda fornitrice Selex ES – impresa di Finmeccanica – sono previste tre tappe per la realizzazione di questa Forza: con la prima, prevista entro il 2018, sarà digitalizzata la brigata meccanizzata «Pinerolo» e la forza di proiezione dal mare, mentre con la seconda e la terza, da concludersi rispettivamente entro il 2026 e il 2031, terminerà il programma di digitalizzazione delle brigate restanti e si concluderà anche la fornitura di tutte le apparecchiature richieste;
ad oggi il programma è in fase di concetto, sviluppo e sperimentazione (Con- cept Development & Experimentation – CD&E), che rientra nella prima tappa della tempistica summenzionata, per la quale è prevista una spesa di circa 800 milioni di euro, di cui ne sono stati assegnati già 324,2 milioni;
per la validazione dei nuovi sistemi informatici, optronici e di battaglia sono stati attivati circa sei centri nazionali sperimentali che rientrano nella struttura di Integration test bed (IBT), mentre sono in fase di realizzazione ulteriori siti per la verifica di queste tecnologie;
nell'ambito di Forza NEC è confluito anche il progetto «Soldato futuro», dal costo stimato di circa 18 milioni di euro, avviato nel 2002 con l'obiettivo di incrementare le capacità letali e di sopravvivenza della fanteria con la fornitura di 558 lotti che comprendono vestiario, equipaggiamento di protezione, sistemi d'arma, sensori e apparati di telecomunicazioni;
attualmente sono stati consegnati 92 sistemi di pre-serie di «Soldato futuro» ed è stata svolta una sperimentazione di alcune componenti nel teatro afghano, come nel caso del nuovo fucile d'assalto ARX-160;
il progetto in esame è stato voluto fortemente dal Ministro pro tempore della difesa Di Paola, e che sarà gestito, senza gare né confronto dei prezzi, da Selex Es, società di Finmeccanica;
il programma SICRAL (Sistema italiano per comunicazioni riservate e allarmi) è il primo del suo genere nel nostro Paese che prevede il lancio in orbita di tre satelliti finalizzati a garantire l'interoperabilità tra le reti della difesa, della sicurezza pubblica, dell'emergenza civile e della gestione e controllo delle infrastrutture strategiche;
il progetto, dal costo stimato in circa 250 milioni di euro, è articolato in tre fasi: la prima si è conclusa nel 2001 con il lancio del satellite SICRAL 1, ancora in esercizio e con una vita residua di circa tre anni; la seconda avviata nel 2009 con il lancio di SICRAL 1B, satellite che ha una vita operativa di 13 anni; la terza in via di esecuzione, in cooperazione con la Francia, con il lancio nel 2014 del SICRAL 2 che avrà una vita stimata di 15 anni;
oltre al SICRAL, la difesa ha avviato nel 2004 anche il programma Cosmo Skymed composto da quattro satelliti per un sistema duale (civile e militare) di osservazione terrestre dal costo complessivo di circa 890 milioni di euro. Dei quattro satelliti previsti, tre sono già stati lanciati in orbita e sono operativi;
il 19 luglio 2012 il Governo italiano e quello israeliano hanno sottoscritto un accordo di cooperazione nel settore della tecnologia militare che prevede, tra l'altro, l'acquisto del sistema satellitare ottico ad alta risoluzione per l'osservazione della Terra OPTSAT-3000 per un costo stimato di 200 milioni di dollari;
tutto ciò mentre l'Italia sta attraversando una terribile crisi economica e occupazionale, senza più finanziamenti adeguati nemmeno per il rinnovo della cassa integrazione –:
se non ritenga opportuno, vista la grave crisi economica in corso, sospendere, ovvero rimodulare, il programma Forza NEC e comunque ridurre il numero dei siti IBT e bloccare l'attivazione degli ulteriori previsti di cui in premessa;
se non ritenga, sempre in considerazione del periodo di grave crisi economica del nostro paese, di voler riconsiderare la necessità dell'acquisto del satellite israeliano OPTSAT-3000, essendo comunque garantita la funzione di osservazione e allerta dai sistemi già in funzione.
(2-00112) «Corda, Frusone, Artini, Rizzo, Basilio, Alberti, Paolo Bernini, Nuti, Lombardi».
ECONOMIA E FINANZE
Interrogazioni a risposta immediata in Commissione:
V Commissione:
PALESE e BERNARDO. — Al Ministro dell'economia e delle finanze. — Per sapere – premesso che:
secondo quanto recentemente riportato da alcuni organi di stampa, esisterebbe un rapporto riservato predisposto da Mediobanca Securities, che rileva come l'Italia si trovi in una situazione economica e finanziaria peggiore rispetto al 1992, aggiungendo inoltre, che risultano necessari ed in tempi rapidi, circa 75 miliardi di euro, per ridurre in maniera considerevole il debito pubblico italiano, ed evitare la richiesta del piano di salvataggio europeo;
il report della suddetta società controllata londinese, evidenzia inoltre come le cause maggiormente responsabili che hanno provocato condizioni di estrema gravità per l'economia italiana, siano ad addebitarsi all'impostazione generale della politica economica e fiscale adottata dal Governo Monti, il cui risanamento strutturale, come dimostrato dai documenti di previsione presentati dal medesimo Esecutivo pochi mesi fa, hanno determinato effetti negativi proprio dalle scelte rivelatesi errate;
il medesimo documento della banca d'affari italiana, rileva che: «al netto degli aiuti all'estero, secondo il Def presentato ad aprile 2012, quest'anno il rapporto debito/pil sarebbe stato del 117,9 per cento»; ad aprile scorso, come ultimo atto prima che terminasse l'attività dello stesso Governo Monti, la stima è stata invece aggiornata al 126,9 per cento, aumentando pertanto la percentuale, di nove punti invece di diminuire rispetto all'anno precedente;
a parte la bassa crescita, evidenziata in modo particolare nel 2012, che deriva dalle mancate riforme strutturali, la grande minaccia del Paese, secondo quanto riporta l'analisi svolta da Mediobanca Securities, è rappresentata dall'elevato debito pubblico, arrivato a oltre 2,041 miliardi di euro, aggiungendo inoltre, che per rimediare ad una situazione critica, necessitano interventi quali: l'introduzione di una imposta patrimoniale sui redditi dichiarati oltre quota 1,3 milioni di euro in grado di garantire 43 miliardi dei 75 necessari e un innalzamento delle aliquote sulle rendite finanziarie, ad esclusione di quelle dei titoli di Stato –:
se sia a conoscenza del rapporto di Mediobanca esposto in premessa e, in caso affermativo, se intenda confermare il contenuto di quanto riportato all'interno dello stesso documento, sui rischi imminenti di default per l'Italia, principalmente imputabili a un'assenza di politiche di crescita e di sviluppo, particolarmente accentuate negli ultimi 18 mesi, le cui stime previsionali come esposto altresì in premessa, si sono rivelate errate ed i cui interventi correttivi, segnalati dal medesimo report, propongono misure di ulteriore innalzamento della pressione fiscale, che rischiano di provocare gravi e aggiuntive difficoltà all'economia del Paese, in una fase attuale in cui si compie ogni tentativo per invertire un ciclo negativo e favorire politiche di espansione e di sviluppo.
(5-00436)
VI Commissione:
LAVAGNO, RAGOSTA e PAGLIA. — Al Ministro dell'economia e delle finanze. — Per sapere – premesso che:
secondo una stima effettuata a chiusura della campagna fiscale per il 2013 dalla Consulta dei centri di assistenza fiscale (Caf) sarebbero un esercito di 400.000 persone, tra pensionati ed inoccupati, coloro che non potranno avvalersi di alcun sostituto d'imposta per vedersi riconosciuto il rimborso fiscale relativo alle spese sostenute nel 2012;
con l'acuirsi delle difficoltà economiche ed occupazionali si registra, infatti, un proporzionale aumento di tale tipologia di contribuenti che non potranno vedersi rimborsate, in sede di conguaglio nel prossimo mese di luglio, le spese mediche e quelle relative agli interessi di mutuo, alla ristrutturazione edilizia, all'istruzione per i figli;
questi soggetti, molti dei quali già versano in situazioni di evidente difficoltà economica, non resta altra soluzione che quella di presentare il modello «UNICO», attraverso il quale, però, il rimborso giungerà in un arco temporale più lungo che oscilla tra i due ed i quattro anni;
già nel 2011 la Consulta nazionale dei Caf aveva condiviso con l'Agenzia possibile soluzione per consentire ai suddetti contribuenti di effettuare comunque i versamenti ed ottenere il rimborso, presentando il modello 730, direttamente dall'amministrazione finanziaria in tempi rapidi, proposta che però non è stata recepita dal precedente Governo Monti;
se non ritenga doverosa ed improcrastinabile l'immediata adozione di una normativa che, coniugando equità e semplificazione, vada incontro ai suddetti contribuenti, già fortemente penalizzati da una precaria condizione economica, e risolva il problema evidenziato in premessa. (5-00437)
CAUSI. — Al Ministro dell'economia e delle finanze. — Per sapere – premesso che:
con l'acuirsi delle difficoltà economiche ed occupazionali si registra un consistente aumento di contribuenti che attualmente si trovano senza impiego e che, avendo lavorato nel 2012, ora devono presentare la dichiarazione dei redditi per richiedere rimborsi di imposte pagate in eccedenza;
i lavoratori dipendenti e i lavoratori cassintegrati possono presentare la dichiarazione dei redditi con il modello 730, così che il sostituto d'imposta, ossia il datore di lavoro, ovvero, nel caso dei lavoratori cassa integrati, l'Inps o l'istituto di previdenza di iscrizione, provvede a saldare direttamente in busta paga le posizioni a credito e a debito nei confronti dell'erario, mentre i contribuenti licenziati che hanno lavorato nel 2012, ovvero quelli che nell'anno passato hanno beneficiato di un trattamento di cassa integrazione o di altri ammortizzatori, non esistendo più il datore di lavoro, ovvero l'ente previdenziale che opera da sostituto di imposta, devono presentare la dichiarazione con il modello Unico; il sostituto d'imposta diviene l'Agenzia delle entrate che, prima di procedere alla liquidazione dei rimborsi dei crediti accumulati e degli anticipi versati, è tenuta a svolgere tutti i controlli per la verifica della sussistenza della pretesa creditoria;
coloro che hanno perso il lavoro e probabilmente si trovano in gravi difficoltà anche familiari, dovendo necessariamente attendere i tempi previsti dall'erario per il rimborso delle somme, vengono così ulteriormente penalizzati rispetto ai contribuenti che presentano la dichiarazione dei redditi con il modello 730;
come ha evidenziato anche il presidente della consulta dei centri di assistenza fiscale (Caf), i soggetti già in una situazione di evidente difficoltà economica, anziché ricevere il conguaglio a luglio, dovranno aspettare circa due anni per ricevere i rimborsi derivanti da crediti fiscali, come ad esempio, interessi passivi dei mutui, detrazioni per la ristrutturazione, spese per l'istruzione dei figli o spese mediche sostenute –:
quali misure intenda mettere in atto al fine di rendere accessibile a tutti i contribuenti, ovvero alle categorie di cui in premessa, la dichiarazione dei redditi con il Modello 730, in modo che anche quei cittadini che sono già alle prese con la crisi economica e si trovano ad affrontare le difficoltà legate alla perdita del posto di lavoro o del beneficio dell'ammortizzatore sociale possano ottenere i crediti fiscali loro spettanti in tempi brevi. (5-00438)
BERNARDO e BERGAMINI. — Al Ministro dell'economia e delle finanze. — Per sapere – premesso che:
Equitalia ha manifestato l'intenzione di chiudere, a decorrere dal 1o luglio 2013, i propri uffici ubicati nella città di Viareggio, in provincia di Lucca, per motivi di carattere economico e legate ad un processo di ristrutturazione aziendale;
tale scelta comporterebbe gravi disagi per i cittadini e per i professionisti, non solo della città di Viareggio, ma dell'intera Versilia, in quanto la sede Equitalia di Viareggio è l'unica presente in tale territorio;
dal momento in cui si è venuti a conoscenza della prossima chiusura della sede di Equitalia, i cittadini e i lavoratori professionisti della zona hanno manifestato preoccupazione per i gravi disagi che tale scelta necessariamente provocherà in termini di servizio agli utenti –:
se sia a conoscenza della vicenda esposta in premessa e quali urgenti iniziative intenda adottare per garantire la continuazione del servizio della società Equitalia nella città di Viareggio e in Versilia. (5-00439)
BUSIN, GIANLUCA PINI e BUONANNO. — Al Ministro dell'economia e delle finanze. — Per sapere – premesso che:
le cronache finanziare e giudiziarie degli ultimi anni hanno raccontato in quasi tutti i suoi particolari la crisi, storica ed endemica, dell'istituto bancario Monte dei Paschi di Siena;
la spregiudicata e incontrollata politica aziendale portata avanti dai manager che si sono susseguiti nell'ultimo decennio ha affossato la più antica banca del mondo;
alla data del 4 febbraio 2011 MPS risultava essere la quarta banca italiana nella classifica delle 15 banche a maggiore capitalizzazione tra quelle quotate sulla borsa italiana;
MPS ha chiuso il 2011 con una perdita netta di 4,69 miliardi di euro;
nell'assemblea dei soci del 27 aprile 2012, su indicazione della fondazione MPS, è stato nominato presidente del consiglio di amministrazione della banca Alessandro Profumo, già amministratore delegato di Unicredit;
il 27 giugno 2012 è stato approvato il nuovo piano di riassetto del gruppo Monte dei Paschi di Siena, fortemente improntato alla riduzione dei costi e alla razionalizzazione: l'operazione prevede la soppressione di oltre 4.600 posti di lavoro, con incorporazione delle controllate e chiusura di 400 filiali entro il 2015;
a giugno del 2012 i vertici di MPS chiedono al Governo di sottoscrivere 2 miliardi di Monti bond; a metà ottobre la banca comunica a via Nazionale di aver trovato un contratto del luglio 2009 con Nomura e a novembre denuncia la presenza di strumenti strutturati nel portafoglio e chiede 500 milioni di Monti bond in più, per un totale di 3,9 miliardi di prestiti (compresi i Tremonti bond chiesti in precedenza);
il Monte dei Paschi, oltre che una vocazione internazionale legata alla sua struttura, ha sempre avuto un forte radicamento territoriale nella regione dove ha avuto origine;
negli ultimi anni, con l'esplosione della crisi aziendale, l'istituto ha ridotto al minimo l'erogazione del credito alle imprese, che da sempre sono state sostenute dalla banca; parallelamente, nelle statistiche regionali si è registrato un innalzamento delle cifre relative ai suicidi di imprenditori in difficoltà;
alla fine dello scorso anno il nuovo management di MPS rappresentava la chiara volontà di ridurre all'osso le spese derivanti da sponsorizzazioni;
il mito dell'istituto bancario come sponsor si è costruito anzitutto attorno alla strepitosa «saga» della Mens Sana Basket Spa Siena, la «corazzata» della pallacanestro che ha inanellato 7 scudetti in otto anni, nonché Coppe Italia e Super Coppe: una serie di trionfi dovuti anche agli 80 milioni di euro che MPS ha assicurato, negli ultimi cinque anni, per il pagamento degli stipendi dei giocatori e per le grandiose campagne acquisti; il gigantesco contratto di sponsorizzazione scadrà nel 2014;
inoltre con la società AC Siena Calcio, MPS ha firmato, nel 2011, un super-contratto di sponsorizzazione da 7 milioni di euro all'anno, il quinto più alto di tutta la serie A, il doppio della media incassata delle altre squadre (3,4 milioni di euro); in tal modo una squadra di una città di 55.000 abitanti percepisce, secondo un'indagine di Sporteconomy, più soldi di squadre come Roma e Fiorentina, e meno solo di Milan, Juve, Inter e Napoli; inoltre, oltre ad esserne sponsor, MPS è anche «finanziatore» del club e, fino a poco tempo fa, sovvenzionava pure la formazione femminile;
scorrendo le voci di bilancio di MPS, il capitolo «pubblicità, sponsorizzazioni e promozioni» raggiunge il livello massimo nel 2010 con 66 milioni, laddove tale voce ammontava a 58 milioni nel 2011, a 51 nel 2009 e a 49 nel 2008;
in una situazione simile, seppur con rilievi giudiziari di diversa natura e portata, ma comunque di evidente difficoltà finanziaria e di contestuali impegni sul piano pubblicitario e di sponsorizzazione nel mondo dello sport professionistico, si trova, da anni, anche Unicredit nei confronti della società AS Roma;
è interesse del Ministro dell'economia e delle finanze sollecitare ulteriori indagini, anche attraverso l'organo di vigilanza, al fine di verificare in che modo istituti di credito in piena crisi potessero e possano permettersi simili spese senza che nessun organo di vigilanza abbia mai sollevato dubbi;
questa enorme mole di finanziamenti, spesso sproporzionati rispetto alla media della raccolta pubblicitaria, soprattutto per quanto riguarda il basket italiano, ha creato, secondo la valutazione degli interroganti, le condizioni per una sleale concorrenza nei relativi campionati (cosiddetto doping amministrativo);
in tale contesto appare fondamentale conoscere quale sia l'ammontare di fondi erogato, sia sotto forma di pubblicità e sponsorizzazione sia in termini di affidamenti, rispettivamente, da MPS alla società AC Siena Calcio ed alla Mens Sana Basket Spa Siena e da Unicredit alla società AS Roma negli ultimi 7 anni, quanto sia stato erogato, sempre sotto ogni forma, alle società controllate o collegate alle medesime società sportive da contratti di qualsivoglia natura, nonché quale sia l'ammontare degli eventuali affidamenti, diretti o indiretti, erogati dai due istituti bancari ai dirigenti ed azionisti di riferimento delle medesime società sportive –:
se ritenga che le scelte in merito a quanto indicato in premessa assunte da MPS siano congruenti con la disciplina in materia di Monti bond, nonché con gli impegni assunti dallo stesso MPS in sede di emissione dei predetti titoli, e quali eventuali iniziative di competenza intenda assumere al riguardo, posto che tali strumenti difficilmente si conciliano, ad avviso degli interroganti, con il forte sostegno economico a favore di squadre sportive professionistiche anche considerando che nei prossimi quattro anni 4.600 persone perderanno il proprio lavoro all'interno del gruppo bancario. (5-00440)
SOTTANELLI, LIBRANDI e SBERNA. — Al Ministro dell'economia e delle finanze. — Per sapere – premesso che:
il raggiungimento degli obiettivi di controllo dei conti pubblici e della crescita è oggi messo a rischio dal deprecabile fenomeno dell'economia sommersa, che secondo stime della Banca d'Italia del 2012, arriva a circa 270 miliardi di euro (escludendo l'economia criminale in senso stretto), con un'evasione fiscale calcolata in 120 miliardi di euro; quest'ultima rappresenta un fenomeno diffuso e difficilmente controllabile con gli strumenti «tradizionali», che causa una perdita ingiustificata per l'Erario, una grave e ingiusta sperequazione tra i contribuenti che pagano le tasse e quelli che evadono ed una distorsione della concorrenza tra esercenti e imprese che assolvono ai propri obblighi erariali e i loro concorrenti meno fedeli con il fisco;
tale fenomeno si manifesta sotto diverse forme, come il mancato rilascio dello scontrino, della ricevuta fiscale o della fattura da parte di esercizi commerciali ed imprese che avrebbero invece l'obbligo di rilasciarli: i controlli su questa tipologia di evasione, pur raggiungendo importanti risultati, restano tuttavia di estrema complessità per l'oggettiva impossibilità, da parte degli organi preposti, di poter riscontrare scrupolosamente l'evasione nelle molteplici modalità con le quali si manifesta;
nell'ambito di una più generale riflessione sull'ammodernamento del sistema fiscale, andrebbe valutata l'introduzione nel sistema fiscale italiano di meccanismi basati sul «contrasto di interessi» nel rapporto fiscale fra il contribuente che acquista beni o richiede prestazioni di opere e chi vende o presta il servizio o l'opera, consentendo cioè – entro dei limiti stabiliti – la deduzione dal reddito annuale di scontrini, di ricevute fiscali e fatture per l'acquisto di determinati beni; a ciò può contribuire l'esperienza maturata in altri Paesi, anche europei, che da tempo permettono con successo forme più o meno avanzate di contrasto di interessi;
un tale meccanismo può essere utilizzato – specie in via transitoria e previa la determinazione della relativa copertura finanziaria – anche senza un bilancio positivo per l'erario nel breve periodo, al fine di incentivare l'emersione degli scambi in alcuni settori particolarmente critici, come il settore immobiliare (sia per le locazioni sia per le compravendite), l'edilizia (inclusi i lavori di piccola manutenzione effettuati solitamente da artigiani, idraulici, elettricisti, falegnami, tappezzieri), le prestazioni professionali e le riparazioni dei veicoli; è presumibile che l'ampliamento della base imponibile permessa da simili misure porterebbe, nel medio periodo, ad un aumento del gettito fiscale –:
se non ritenga opportuna l'adozione di meccanismi – come illustrati in premessa – promuoventi il «contrasto di interessi» nel rapporto fiscale fra il contribuente che acquista beni o richiede prestazioni di opere e chi vende o presta il servizio o l'opera. (5-00441)
BARBANTI, PESCO, PISANO, RUOCCO, VILLAROSA, CANCELLERI e CHIMIENTI. — Al Ministro dell'economia e delle finanze. — Per sapere – premesso che:
Equitalia è una società di capitali totalmente pubblica, sotto forma di società per azioni, i cui azionisti sono l'Agenzia delle entrate, per il 51 per cento del pacchetto azionario, e l'INPS per il restante 49 per cento, preposta alla riscossione nazionale dei tributi;
Equitalia appare detenere quote azionarie in numerose società e consorzi, che hanno poco o punto a che fare con la mission di Equitalia, cioè la riscossione pubblica dei tributi;
non tutte le partecipazioni azionarie, anche in piccole società, da parte di Equitalia vengono pubblicizzate con trasparenza sul sito web di Equitalia, che investe notoriamente quote non secondarie del proprio budget in attività di comunicazione;
alcune delle partecipazioni societarie di Equitalia possono trovare una motivazione in ragione di un pignoramento a garanzia di crediti fiscali maturati;
tra le partecipazioni societarie, al 40 per cento del capitale, appare comunque anomala quella in GO.VAR Srl di Como, che si dedica al commercio all'ingrosso di elettrodomestici, elettronica di consumo, audio e video;
tra le partecipazioni societarie, al 10 per cento del capitale, appare altresì anomala quella nella fallita SOGESI Srl, società palermitana che si occupa di costruzione di edifici residenziali;
sempre tra le partecipazioni societarie, al 9,2 per cento del capitale, risalta quella in STOÀ, istituto di studi per la direzione e gestione di impresa società consortile, la cui mission sono i corsi di istruzione universitaria e post-universitaria;
STOÀ ha organizzato negli ultimi anni, per Equitalia e/o per l'Agenzia delle entrate una serie di convegni e seminari di rilevante entità economica, apparentemente senza sottostare a una selezione tra concorrenti mediante gara o avviso pubblico;
STOÀ avrebbe agito a quel che pare in questi ambiti di organizzazione di eventi in regime di affidamento in house;
condizione necessaria ma non sufficiente per l'affidamento pubblico in house è il possesso della maggioranza qualificata ovvero del 100 per cento del pacchetto azionario della società beneficiaria dell'affidamento laddove la quota di Equitalia è invece di estrema minoranza;
altro principio da rispettare per l'affidamento in house è quello del controllo analogo, ben difficile da implementare per una società come STOÀ posseduta solo per il 9,2 per cento –:
se non intenda operare per dismettere al più presto le quote azionarie delle società possedute da Equitalia al di fuori della mission della stessa, anche al fine di evitare eventuali affidamenti in house in maniera anomala così come avvenuti nel passato soprattutto onde assicurare una corretta gestione del servizio di riscossione dei tributi. (5-00442)
Interrogazioni a risposta scritta:
FEDI. — Al Ministro dell'economia e delle finanze, al Ministro degli affari esteri. — Per sapere – premesso che:
il trattamento stipendiale del personale a contratto del Ministero degli affari esteri in servizio presso le rappresentanze diplomatiche e gli uffici consolari all'estero e i relativi adeguamenti sono fissati – ai sensi dell'articolo 157 del decreto del Presidente della Repubblica n. 18 del 1967 – dal contratto individuale di lavoro sulla base dei parametri previsti nella stessa disposizione di legge: le condizioni del mercato del lavoro locale, il costo della vita nella sede di servizio, le retribuzioni corrisposte dalle rappresentanze diplomatiche e consolari estere all'analogo personale, la congruità e l'uniformità del trattamento retributivo corrisposto per Paese e per mansioni omogenee, le indicazioni fornite dalle organizzazioni sindacali;
i dati raccolti vengono esaminati dall'amministrazione del Ministero degli affari esteri per venire successivamente sottoposti al vaglio degli organi di controllo (UCB);
la tipologia dei contratti di assunzione del personale locale all'estero, nonché la peculiarità della relativa disciplina, non consentono l'allineamento alla contrattazione collettiva del pubblico impiego, né quindi per tale via, l'attribuzione degli stessi aumenti concessi ai pubblici dipendenti. Tuttavia, è lasciata all'autonomia negoziale del Ministero degli affari esteri la decisione circa l'opportunità di rivalutare i trattamenti economici, nonché l'entità dei relativi importi, nei limiti delle risorse disponibili a tale scopo;
in numerose realtà estere, a fronte dei consistenti aumenti del costo della vita dovuti alla crisi economica e della repentina svalutazione dell'euro nei confronti di alcune valute, si registrano difficoltà pratiche per il sostentamento quotidiano delle famiglie del personale a contratto impiegato dal Ministero degli affari esteri;
il decreto-legge n. 95 del 2012 ha disposto il blocco degli adeguamenti retributivi per il personale a contratto fino al 31 dicembre 2012 e pertanto le richieste di aumento delle retribuzioni sono state ripresentate all'UCB –:
quali iniziative si intendano adottare per rivalutare i trattamenti economici del personale a contratto delle rete diplomatico consolare e degli istituti italiani di cultura nel mondo;
se non si ritenga indispensabile rispettare i parametri, le norme e le procedure fissate dell'articolo 157 del decreto del Presidente della Repubblica n. 18 del 1967 in relazione agli adeguamenti retributivi;
se non si ritenga di dover adottare, per la totalità degli impiegati a contratto, un sistema di retribuzioni in valuta locale, come del resto previsto dalle norme introdotte dal decreto legislativo n. 103 del 13 maggio 2000, nella misura in cui si stabilisce che «la valuta in cui viene fissata e corrisposta la retribuzione degli impiegati è quella locale». (4-00999)
PLACIDO, FOLINO e ANTEZZA. — Al Ministro dell'economia e delle finanze. — Per sapere – premesso che:
Equitalia aveva annunciato il piano di ridimensionamento della rete dei suoi sportelli presenti in Basilicata alla fine dell'anno 2012;
a seguito del confronto sviluppatosi con i comuni del Vulture-Alto Bradano e la provincia di Potenza, la direzione regionale di Equitalia mostrava l'intenzione di ritornare sui suoi passi dichiarando l'interesse a conservare l'assetto esistente degli sportelli distribuiti sul territorio regionale almeno fino a tutto l'anno 2013;
inspiegabilmente, agli inizi del mese di maggio 2013, mutando nuovamente orientamento, la direzione regionale di Equitalia comunicava di voler procedere alla chiusura degli sportelli di Rionero in Vulture e Senise;
si trattava di una ulteriore fase di discussione volta a chiarire che il volume di attività realizzato da ogni sportello non poteva che dipendere dal carico demografico servito da ciascuno dei presidi di zona e che l'area del Vulture-Alto Bradano è tra le più popolose della regione Basilicata;
gli argomenti emersi nel corso del confronto sembravano avere indotto gli organi di direzione di Equitalia ad una riconsiderazione delle decisioni assunte;
agli inizi del mese di giugno 2013 veniva decretata la chiusura del solo sportello di Rionero in Vulture sulla base della motivazione a giudizio degli interroganti risibile secondo cui non sarebbe pervenuta tempestivamente la sollecitazione degli amministratori di Rionero in Vulture –:
quali siano i criteri obiettivi sulla base dei quali vengono assunte le decisioni di riassetto della presenza degli sportelli di Equitalia sul territorio lucano e, tenuto conto che essa è una società a totale capitale pubblico, se sia possibile che le scelte operate, qualora non sufficientemente motivate come è già accaduto nel caso della cittadina laziale di Anzio, possano essere riconsiderate inducendo la direzione di Equitalia a riattivare lo sportello attualmente soppresso di Rionero in Vulture. (4-01002)
GIUSTIZIA
Interrogazioni a risposta scritta:
BARGERO, BORGHI, BONOMO e FIORIO. — Al Ministro della giustizia. — Per sapere – premesso che:
il decreto legislativo n. 155 del 2012 ha disposto la soppressione, tra i 31 tribunali e le 220 sezioni distaccate, anche del tribunale di Casale Monferrato;
si tratta però del principale tribunale, dopo quello del capoluogo, per bacino d'utenza e per procedimenti civili e penali iscritti, della provincia di Alessandria, con circa 90.000 abitanti;
quello di Casale Monferrato è un tribunale inserito nell'elenco dei tribunali «virtuosi», redatto dal Ministero della giustizia a norma della legge n. 98 del 2011, cioè dei tribunali che, nel corso dell'ultimo anno, hanno fatto registrare una diminuzione del carico arretrato superiore al 5 per cento (nella fattispecie, il 6,7 per cento), e che in quanto tale, per legge, dovrebbe ricevere un «premio di produttività»;
dal punto di vista, poi, «logistico» e delle spese di funzionamento quello di Casale Monferrato è un ufficio giudiziario collocato in un edificio storico di pregio e di recente ristrutturazione (anche per impianto rete di informatizzazione) in grado di poter ospitare anche un numero maggiore di magistrati e personale;
alla luce dei dati sopra elencati la soppressione del tribunale in oggetto appare in palese contraddizione con le finalità, i principi e criteri direttivi della legge di delega tra cui quello di realizzare «risparmi di spesa» e «incremento di efficienza»;
va detto che il tribunale di Casale Monferrato è impegnato nei procedimenti civili di imminente radicazione per il risarcimento dei danni da amianto anche sulla base dell'esito della nota sentenza dei tribunale e corte d'appello di Torino che ha confermato la responsabilità dei proprietari di eternit;
il tribunale di Casale Monferrato deve oggi, infatti, rispondere alle istanze di giustizia e tutela derivanti dall'inquinamento ambientale che ha coinvolto istituzioni, amministrazioni pubbliche, associazioni, territorio e cittadini;
le decine di migliaia di contenziosi civili di prossima radicazione per competenza del tribunale di Casale Monferrato possono sinteticamente dividersi in due categorie, con un possibile interessamento di circa 100 mila cittadini:
a) azioni civili che seguono direttamente l'esito della sentenza del tribunale di Torino per la quantificazione dei risarcimento fondato sulla condanna degli imputati per disastro doloso ed omissione dolosa di misure antinfortunistiche;
b) azioni civili per danno da esposizione ambientale e danno psichico per timore di ammalarsi;
inoltre la procura della Repubblica presso il tribunale di Casale Monferrato sarebbe di fatti la naturale sede del neo costituendo Pool distrettuale per la tutela da inquinamento ambientale da amianto;
il consiglio dell'ordine degli avvocati di Casale Monferrato ha redatto un progetto, che in ossequio a parametri e criteri dettati dalla legge delega, definisce un riequilibrio del circondario del proprio Foro, a costo zero, alternativo sia al paventato accorpamento al tribunale provinciale di competenza, Alessandria, che già attualmente risulta in deficit di locali che a quello della provincia di Vercelli che per dar corso all'accorpamento prevederebbe una spesa non inferiore ad euro 2.100.000,00 per un primo lotto di lavori di ristrutturazione di un immobile adiacente all'attuale tribunale oltre a somme non ancora precisate per la ristrutturazione interna del tribunale di Vercelli che versa da tempo in un profondo stato di degrado ambientale e di sicurezza soprattutto per quanto riguarda i locali delle cancellerie ed ufficiali giudiziari;
sulla base della conformazione del distretto, e per le risultanze numerico/statistiche, il tribunale di Alessandria attualmente, salvo acquisire in affitto, e quindi con nuove spese, ulteriori locali, potrebbe, al più, accogliere i tribunali di Tortona, Acqui Terme e la distaccata di Novi Ligure coprendo così i confini centro orientali del distretto;
il consiglio dell'ordine avvocati ha proposto quindi un nuovo circondario che vede Casale Monferrato quale centro satellite del tribunale di Torino mediante l'accorpamento del circondario di competenza della sezione distaccata di Chivasso, di alcuni territori lungo la fascia fluviale di competenza del circondario di Vercelli oltre ai comuni soggetti alla competenza del giudice di pace di Valenza;
suddetto progetto realizzerebbe in concreto quei «risparmi di spesa e incremento di efficienza» richiesti dalla legge delega n. 155 del 2012 essendo il fabbricato del tribunale di Casale Monferrato capiente ristrutturato e informatizzato e quindi pronto a rispondere alle istanze di giustizia di un bacino anche più allargato;
il tribunale di Vercelli ove fosse davvero chiamato ad accorpare l'intero attuale circondario del tribunale di Casale Monferrato è un ufficio che non offre, già oggi, «prestazioni» altrettanto efficienti. E quindi è altamente probabile che l'accorpamento peggiorerà le prestazioni stesse, e comporterà la diminuzione dell'efficienza complessiva del sistema;
va considerata anche la particolare orografia territoriale che riguarda i 52 comuni che compongono il circondario di Casale Monferrato, i quali, si trovano per circa il 90 per cento in territorio collinare, dalla parte opposta della città di Casale Monferrato rispetto alle vie di collegamento (strada statale) verso la città di Vercelli a cui sono stati accorpati;
tale decisione, se attuata, comporterà infatti la necessità, per i cittadini e le imprese monferrine, di fare riferimento all'ufficio giudiziario di Vercelli, con notevolissime difficoltà «logistiche» e di spostamento, suscettibili di incidere sull'efficienza e sulla rapidità complessiva delle attività socio-economiche del territorio;
senza contare che il riferimento amministrativo provinciale è ovviamente il capoluogo di provincia Alessandria, mentre la città di Casale Monferrato troverebbe competenza per giurisdizione nella città di Vercelli con le inevitabili «storture» con altri uffici dell'amministrazione dello stato e della sicurezza come Agenzie fiscali, il catasto, la direzione provinciale del lavoro, le forze dell'ordine, la questura;
si tratta quindi non di una protesta di «campanile» ma di una richiesta di confronto non per ostacolare un processo di riforma ma per renderlo effettivamente operativo ed efficiente per i cittadini e per gli operatori del settore come nelle intenzioni del legislatore portando proposte concrete e corroborate da dati e cifre –:
se e quali iniziative il Governo intenda assumere prima del 13 settembre 2013, al fine di verificare la possibilità di non sopprimere il tribunale di Casale Monferrato e di procedere ad una riorganizzazione degli uffici giudiziari in grado di rispettare il principio dell'invarianza assicurando davvero una maggiore efficienza del sistema giudiziario avendo in debita considerazione le specificità del comprensorio in questione. (4-00996)
TONINELLI, DADONE, COZZOLINO, DIENI e FRACCARO. — Al Ministro della giustizia. — Per sapere – premesso che:
l'articolo 80, comma 4, della legge 26 luglio 1975, n. 354 recante norme sull'ordinamento penitenziario, dispone che «Per lo svolgimento delle attività di osservazione e di trattamento, l'amministrazione penitenziaria può avvalersi di professionisti esperti in psicologia, servizio sociale, pedagogia, psichiatria e criminologia clinica, corrispondendo ad essi onorari proporzionati alle singole prestazioni effettuate»;
la presenza nelle carceri di figure specializzate nell'ambito della competenza psicologica-sociale-criminologica (cosiddetti esperti ex articolo 80 ordinamento penitenziario) è dunque necessaria per l'attività di osservazione e di trattamento dei detenuti;
in particolare, l'attività dello psicologo penitenziario si articola su tre livelli:
assistenza ai detenuti nuovi giunti, che consiste nel seguire le persone nella fase di adattamento successiva all'arresto o al trasferimento da un istituto all'altro;
trattamento psicologico, inteso come abilitazione – riabilitazione e sostegno rivolto alla persona, al gruppo, all'istituzione, sia individuale che di gruppo, al fine di analizzare, elaborare e superare le problematiche connesse alla commissione del reato, avviare un percorso di consapevolezza e responsabilizzazione, contenere il danno da detenzione, monitorare il percorso trattamentale sotto il profilo della evoluzione o involuzione personale, prevenire il rischio auto lesivo e suicidario;
valutazione del processo psicologico di crescita, del vissuto della detenzione e dei cambiamenti evolutivi o involutivi della personalità;
ne consegue che tali professionisti dovrebbero prestare la loro attività in modo sistematico e continuativo per poter affrontare efficacemente le complesse problematiche dei detenuti, eppure risulta che gli esperti ex articolo 80 ordinamento penitenziario siano una categoria «in via di estinzione»;
in un documento datato 6 febbraio 2013, promosso dalla Società italiana psicologi penitenziaria e criminologi penitenziari, si legge che «nel 2012 sono stati stanziati 1.095.727 euro per gli “esperti”»; la popolazione complessiva dei detenuti presenti nel 2012 (al 1° gennaio + entrati dalla libertà) è stata di 129.917; la retribuzione oraria lorda è di 17,63 euro. Da questi semplici dati si evince che l'intervento psicologico e criminologico è stato nel 2012, in media, di 28 minuti per detenuto»;
ad aggravare tale situazione, il Ministero della giustizia – dipartimento dell'amministrazione penitenziaria, direzione generale del personale e della formazione, con circolare n. 3645/6095 ha ulteriormente limitato l'attività degli esperti ex articolo 80 ordinamento penitenziario;
la suddetta circolare prevede infatti che gli elenchi degli esperti presso il provveditorato regionale dell'amministrazione penitenziaria hanno durata non superiore ai quattro anni, e che l'accordo individuale per l'espletamento dell'attività di esperto negli istituti penitenziari per adulti e negli uffici di esecuzione penale esterna dell'amministrazione penitenziaria ha durata di un quadriennio non rinnovabile dalla data della sua sottoscrizione;
ciò oltre a svilire ulteriormente tali professionalità, provoca l'inevitabile interruzione della continuità trattamentale, indebolendo fortemente l'attività di riabilitazione delle persone detenute –:
se il Ministro intenda assumere le opportune iniziative al fine di scongiurare l'ulteriore diminuzione della presenza degli esperti ex articolo 80 ordinamento penitenziario, presso gli istituti carcerari italiani, anche al fine di garantire la continuità trattamentale dei detenuti.
(4-00998)
INFRASTRUTTURE E TRASPORTI
Interrogazione a risposta in Commissione:
VELO e BINI. — Al Ministro delle infrastrutture e dei trasporti. — Per sapere – premesso che:
il decreto legislativo 12 giugno 2003, n. 210, di recepimento della direttiva 2000/9/CE in materia di impianti a fune, ha prodotto una sostanziale evoluzione della normativa tecnica del settore, ad iniziare dalla fase progettuale degli impianti, prevedendo l'analisi di sicurezza, l'individuazione dei sottosistemi e dei componenti di sicurezza, la certificazione dei medesimi sottosistemi e componenti di sicurezza da parte degli organismi notificati e la conseguente marcatura CE;
la direttiva comunitaria, di fatto, sembrerebbe contrastare con la normativa nazionale contenuta nel decreto del Ministro delle infrastrutture e dei trasporti 2 gennaio 1985, in particolare, per quello che riguarda il concetto di «vita tecnica» degli impianti. Il decreto ministeriale in commento, infatti, reca disposizioni in materia di «Norme regolamentari in materia di varianti costruttive, di adeguamenti tecnici e di revisioni periodiche per i servizi di pubblico trasporto effettuati con impianti funicolari aerei e terrestri» e, in particolare, fissa le regole per la determinazione della vita tecnica degli impianti e gli adempimenti per accertare che, a particolari e prefissate scadenze temporali, permangono le condizioni di sicurezza richieste dalla normativa tecnica in vigore all'atto della prima apertura al pubblico esercizio degli stessi impianti. Il decreto in commento intende come vita tecnica complessiva massima di ogni impianto, la durata dell'intervallo continuativo di tempo nel corso del quale la sicurezza e la regolarità del servizio possono ritenersi garantite rispettando le medesime condizioni realizzate all'atto della prima apertura al pubblico esercizio e, stabilisce varie vite tecniche per le diverse categorie di impianti;
al termine di tali scadenze gli impianti in oggetto devono essere integralmente sostituiti o sottoposti a revisioni; va evidenziato, al riguardo, che la normativa italiana prevede già costose revisioni che interessano sia l'intero corpo dell'impianto che singole componenti dell'impianto stesso e, pertanto, possono verificarsi casi in cui l'impianto debba essere sostituito nonostante sia trascorso un breve lasso di tempo dall'ultima revisione e/o sostituzione di componenti;
la direttiva comunitaria 2000/9/CE, al contrario, considera rilevante l'effettiva durata dell'esercizio dell'impianto e non fissa rigide scadenze per l'integrale sostituzione degli impianti e definisce la vita tecnica degli impianti in rapporto all'effettivo utilizzo e usura degli stessi. Infatti, l'utilizzo intensivo e non corretto degli impianti e il mancato rispetto dei criteri europei di sicurezza può accorciare la durata della «vita tecnica». In caso contrario il sottoutilizzo e la corretta applicazione della normativa europea vigente possono allungare la vita tecnica dell'impianto oltre i termini imposti dal decreto ministeriale 2 gennaio 1985;
l'ambito di applicazione della direttiva comunitaria è comunque ristretto rispetto a quello recato dal decreto ministeriale 2 gennaio 1985; in particolare, gli impianti a cui si applica la direttiva sono: le funicolari, le funivie, le sciovie e i sottosistemi e le componenti di sicurezza. Sono esclusi dall'ambito d'applicazione della direttiva: gli ascensori, le tranvie a funi di tipo tradizionale, gli impianti utilizzati per scopi agricoli, i materiali specifici fissi e mobili per luna park, parchi di divertimenti, nonché gli impianti di tali parchi che servono per il divertimento e non come mezzi adibiti al trasporto di persone, gli impianti installati e utilizzati per scopi industriali, i traghetti fluviali a fune, le ferrovie a cremagliera e gli impianti trainati mediante catene;
la mancata uniforme applicazione sul territorio nazionale della normativa in questione, nonché il mancato adeguamento alla regolamentazione europea per le fattispecie previste, producono forti effetti distorsivi per la concorrenza, a favore di regioni – italiane ed europee – le quali, potendo usufruire di normative meno rigide, hanno oneri di ammortamento degli impianti molto meno gravosi e conseguentemente costi di esercizio più competitivi –:
se il Ministro interrogato intenda assumere iniziative per uniformare la disciplina in parola per gli impianti a fune di cui al decreto legislativo 12 giugno 2003, n. 210, ricompresi anche nell'ambito di applicazione del decreto ministeriale 2 gennaio 1985, al fine di definire correttamente la vita tecnica degli impianti in rapporto all'effettivo utilizzo e stato di usura degli stessi;
se, nelle more dell'adeguamento normativo e nel rispetto delle esigenze di sicurezza degli utenti, si possano comunque assumere iniziative per una ulteriore proroga dei termini di scadenza per gli impianti di cui al decreto ministeriale 2 gennaio 1985. (5-00427)
INTERNO
Interrogazione a risposta scritta:
FEDRIGA. — Al Ministro dell'interno. — Per sapere – premesso che:
da notizie riportate da organi di stampa si apprende che a Milano, in particolare tra la linea metropolitana di Centrale e quella di Cadorna, opera quotidianamente un gruppo di borseggiatrici, meglio conosciute e chiamate le «bosniache», per via della loro nazionalità;
si tratta di un gruppo affiatato di giovani donne che, tutte ben vestite per meglio confondersi tra la folla, ogni giorno, nelle fasce orarie più affollate, borseggiano i viaggiatori circondandoli mentre salgono sul treno;
la tecnica che adottano, ormai nota, è quella di circondare una donna nel momento in cui sta salendo sul treno, creando un po’ di calca, e dopo aver sfilato la mano dalla borsa dell'ignara viaggiatrice, mentre il treno parte, riescono tutte a saltar fuori, mentre la vittima resta invece intrappolata nella carrozza della metro;
grazie anche ai sistemi di video sorveglianza, il gruppo di borseggiatrici è ben noto a tutti: vigilanti, polizia locale e operatori Atm;
tuttavia, benché solo nell'ultimo mese siano già state effettuate ben due retate, l'esito è sempre stato il rilascio in quanto tutte le giovani donne del gruppo sono madri e in stato di gravidanza;
dietro a questo business dello «scippo» si cela, in realtà, tutta una rete di gruppi criminali che sfruttano queste donne, contando proprio sul fatto che puntualmente vengono arrestate e rilasciate grazie alla loro gravidanza –:
se corrisponda al vero quanto sopra riportato e se il Governo ne sia conoscenza, in particolare quali azioni e iniziative intenda avviare per gestire la grave situazione che minaccia quotidianamente la sicurezza dei passeggeri della linea metropolitana milanese, nonché per sventare le organizzazioni criminali che si celano dietro a questo fenomeno criminoso. (4-00995)
ISTRUZIONE, UNIVERSITÀ E RICERCA
Interrogazioni a risposta immediata:
BOCCADUTRI e GIANCARLO GIORDANO. — Al Ministro dell'istruzione, dell'università e della ricerca. — Per sapere – premesso che:
il decreto ministeriale 24 aprile 2013, n. 334, aveva definito le modalità e i contenuti delle prove di ammissione ai corsi di laurea ad accesso programmato a livello nazionale per l'anno accademico 2013/2014;
in particolare, l'articolo 10, comma 3, del decreto stabilisce che, per la valutazione delle prove, un massimo di 90 punti è assegnato per la valutazione dei test e un massimo di 10 punti è assegnato per la valutazione del percorso scolastico;
i suddetti 10 punti erano attribuiti esclusivamente ai candidati che avrebbero ottenuto un voto di maturità almeno pari a 80/100, rapportato alla distribuzione in percentili dei voti ottenuti dagli studenti che avrebbero conseguito la maturità nella stessa scuola nell'anno scolastico 2011/2012;
il 31 maggio 2013 il Ministero dell'istruzione, dell'università e della ricerca provvedeva a pubblicare, sul sito www.universitaly.it, i suddetti percentili calcolati per ogni scuola;
dall'applicazione del meccanismo di cui al decreto ministeriale 24 aprile 2013, n. 334, risultavano premiati gli studenti che frequentano scuole dove i voti degli esami di Stato, nell'ultimo anno, sono stati generalmente bassi; dall'applicazione dei suddetti percentili, risultavano, in particolare, premiati gli studenti iscritti a scuole paritarie e penalizzati coloro che frequentano istituti pubblici i cui studenti si sono distinti;
in seguito alle numerose proteste sollevate da diversi istituti scolastici, il Ministero dell'istruzione, dell'università e della ricerca provvedeva a ritirare il decreto ministeriale 24 aprile 2013, n. 334, e ad adottare il decreto ministeriale 12 giugno 2013, n. 449;
con il nuovo decreto sono state rinviate a settembre 2013 le prove di ammissione ai corsi di laurea a numero programmato ed è stato ridefinito il meccanismo di attribuzione del bonus di 10 punti;
in particolare, si stabilisce che «il punteggio viene attribuito esclusivamente ai candidati che hanno ottenuto un voto all'esame di Stato almeno pari a 80/100 e il cui voto sia non inferiore all'80esimo percentile della distribuzione dei voti della propria commissione d'esame nell'anno scolastico 2012/2013 secondo una tabella»;
l'applicazione del «criterio del percentile», pur inteso quale condicio sine qua non, alle singole commissioni causa delle evidenti disparità, in virtù delle quali, per esempio, in talune commissioni (quelle dove vi sono voti nella media più alti) il punteggio potrebbe essere attribuito solo agli studenti che si diplomano con il voto 100/100, mentre in altre (quelle dove vi sono voti nella media più bassi) verrebbe attribuito anche a studenti che si diplomano con il voto di 80/100;
il suddetto decreto, dunque, è addirittura peggiorativo del precedente poi ritirato, perché lascia immutata la discriminazione tra scuole con studenti nella media meno bravi e scuole con studenti nella media più bravi, introducendo, tuttavia, forme di discriminazione all'interno della stessa scuola; come è noto, infatti, le commissioni sono create all'interno della stessa scuola accorpando due o più classi, non sempre omogenee come livello di preparazione; a ciò si aggiunga che il percentile (criterio statistico) può dare questi risultati fortemente discriminatori se applicati ad un campione piccolo –:
quali urgenti iniziative il Ministro interrogato intenda adottare per evitare la suddetta grave disparità di trattamento.
(3-00146)
INVERNIZZI, CAPARINI, GRIMOLDI, ALLASIA, ATTAGUILE, BORGHESI, BOSSI, MATTEO BRAGANTINI, BUONANNO, BUSIN, CAON, FEDRIGA, GUIDESI, MARCOLIN, MOLTENI, GIANLUCA PINI, PRATAVIERA e RONDINI. — Al Ministro dell'istruzione, dell'università e della ricerca. — Per sapere – premesso che:
anche quest'anno saranno migliaia, in tutta Italia, i neodiplomati che si cimenteranno nei test di ammissione alle facoltà universitarie a numero chiuso (medicina, odontoiatria, veterinaria, architettura e professioni sanitarie);
quest'anno sono in leggero calo il numero dei posti messi a disposizione: gli aspiranti medici potranno contare su 10.021 posti, 152 in meno rispetto allo scorso anno (nel 2012 per un numero di posti simile sono state circa 77 mila le iscrizioni ai test) ed anche i candidati veterinari dovranno fare i conti con un numero di posti inferiore (825 posti), mentre in lieve aumento saranno i posti messi a disposizione per odontoiatria (954) ed infine saranno 8.640 quelli per architettura;
il recente decreto ministeriale n. 449 del 2013, che stabilisce le nuove modalità con le quali si svolgeranno i test di ammissione alle facoltà a numero chiuso programmato a livello nazionale, prevede le modalità di selezione, il valore del voto di maturità, il numero di quesiti a cui verranno sottoposti i concorrenti dei quiz e l'istituzione di una graduatoria nazionale;
quest'anno per la prima volta i punti sul voto di maturità incideranno sull'accesso ai corsi universitari a numero chiuso. Chi riceverà una buona valutazione al diploma di maturità godrà di qualche beneficio in più. Chi conseguirà un punteggio che va dall'80 al 100, e non inferiore all'80o percentile della distribuzione dei voti della propria commissione d'esame nell'anno scolastico 2012/2013, potrà avere dai 1 ai 10 punti extra, ovvero, per aspirare al bonus, bisognerà essere nel 20 per cento più bravo degli studenti valutati dalla stessa commissione;
il «bonus maturità» in realtà non è una vera e propria novità in quanto questa «dote» era già stata ideata nel 2007 dal Governo Prodi, con la finalità di consentire ai maturati eccellenti di partire in vantaggio, ma finora non era mai stata applicata, grazie anche all'opposizione della Lega Nord;
secondo gli interroganti il voto all'esame di maturità rischia di essere falsato ed inattendibile perché potrebbe essere influenzato da svariati fattori, per esempio, potrebbe non tener conto del livello qualitativo medio degli studenti dei singoli istituti, penalizzando, di fatto, chi frequenta strutture che garantiscono standard elevati, creando quindi disparità;
alla luce delle attuali innovazioni un voto alto al diploma ha un'importanza fondamentale. Si pensi al fatto che nel 2012 un punteggio totale di 40/50 punti era la soglia minima di accesso alle facoltà più ambite e, quindi, 10 punti in più possono davvero fare la differenza;
si aggiunge così un nuovo problema a quello dei test, che a medicina (con un solo posto disponibile ogni dieci domande) già oggi, ad avviso degli interroganti, garantiscono l'accesso più per fortuna che per capacità;
il decreto ministeriale ha optato per una graduatoria a livello nazionale. Questo vuol dire che se uno studente non rientra nel numero dei posti previsto per l'ateneo in cui sostiene l'esame, ma col suo punteggio rientra nel numero dei posti totali a livello nazionale, si «prenota» per un posto in un altro ateneo;
nel 2015 si stima che mancheranno circa 7.600 medici, in quanto, anche a causa dell'abbandono degli studi, i posti a disposizione non saranno sufficienti a coprire il fabbisogno di medici;
le università del Nord «sfornano» a malapena la metà dei medici che servono, con il risultato che in alcune regioni buona parte dei medici viene da fuori –:
se non si ritenga opportuno sospendere il «bonus maturità», in attesa dell'individuazione di un meccanismo che garantisca omogeneità di valutazione e dell'attuazione dell'articolo 29, comma 6, della legge n. 240 del 2010 (riforma universitaria), che prevede la rideterminazione del numero dei posti disponibili nei corsi di laurea in medicina e chirurgia e la loro distribuzione su base regionale, al fine riequilibrare l'offerta formativa in relazione al fabbisogno di personale medico del bacino territoriale di riferimento. (3-00147)
SANTERINI, CAPUA, MOLEA e VEZZALI. — Al Ministro dell'istruzione, dell'università e della ricerca. — Per sapere – premesso che:
il diploma di laurea quinquennale in scienze della formazione primaria costituisce titolo di accesso ai concorsi per l'insegnamento nella scuola dell'infanzia e nella scuola primaria;
attraverso il corso vengono fornite agli studenti le conoscenze teoriche e le competenze operative necessarie per lo svolgimento delle attività educative e didattiche nella scuola dell'infanzia e nella scuola primaria;
per l'accesso a tali corsi è previsto un numero programmato ed un test di ingresso;
ad oggi agli interroganti non risulta che il Ministero dell'istruzione, dell'università e della ricerca abbia ancora fornito il numero del contingente previsto per il prossimo anno accademico, la data del test nonché i criteri per l'elaborazione di tale test;
tale ritardo rischierebbe di compromettere e far slittare di almeno un mese, come già accaduto negli ultimi due anni, l'inizio dell'anno accademico, provocando disagi agli studenti, alle famiglie e agli atenei;
inoltre, non sarebbero stati stabiliti i contingenti relativi ai tutor che devono accompagnare gli studenti nel tirocinio presso le scuole, figure fondamentali per garantire una reale e concreta formazione dei futuri docenti –:
se il Ministro interrogato non ritenga opportuno adottare in tempi rapidi iniziative volte a garantire il regolare svolgimento dei corsi. (3-00148)
Interrogazione a risposta scritta:
TONINELLI. — Al Ministro dell'istruzione, dell'università e della ricerca. — Per sapere – premesso che:
alla luce di numerose segnalazioni relative ad irregolarità da parte di alcune scuole nella richiesta alle famiglie dei contributi scolastici, il Ministero dell'istruzione, dell'università e della ricerca, dipartimento per l'istruzione, con nota prot. 312 del 20 marzo 2013 ha fornito precise indicazioni;
con la suddetta nota il Ministero ha ribadito che trattasi di contributi «assolutamente volontari, anche in ossequio al principio di obbligatorietà e gratuità dell'istruzione inferiore»;
ciononostante soprattutto in occasione del periodo di iscrizione, la prassi delle scuole di richiedere il versamento dei contributi in maniera irregolare non sarebbe affatto terminata. Con nota prot. 593 del 07 marzo 2013 il dicastero è infatti nuovamente intervenuto sulla grave questione sottolineando che «tali comportamenti, oltre a danneggiare l'immagine dell'intera amministrazione scolastica e minare il clima di fiducia e collaborazione che è doveroso instaurare con le famiglie, si configurino come vere e proprie lesioni al diritto allo studio costituzionalmente garantito.[...] subordinare l'iscrizione degli alunni al preventivo versamento del contributo non è solo illegittimo, ma si configura, per i soggetti che sono responsabili della gestione, come una grave violazione dei propri doveri d'ufficio». Il Ministero ha infine ricordato che «qualunque discriminazione ingiustificata a danno degli studenti derivante dal rifiuto di versamento del contributo in questione, sia in termini di valutazione che disciplinari, risulterebbe del tutto illegittima e gravemente lesiva del diritto allo studio dei singoli»;
secondo quanto riportato dalla stampa, il Comitato scuola pubblica di Crema da mesi lamenta «le pressioni ricevute da parte dei dirigenti scolastici di alcuni istituti cremaschi [...] perché le famiglie paghino i cosiddetti contributi, che dovrebbero essere volontari, ma che di fatto diventano obbligatori. Pena: l'esclusione da alcune attività scolastiche, come laboratori, accesso ad internet e quant'altro considerato non strettamente legato alla didattica» (Crema Oggi del 24 giugno 2013);
già il 9 febbraio 2013 il comitato scuola pubblica cremasca aveva denunciato la questione, spiegando che nel cremasco tali contributi si aggirano in media tra le 100 e le 200 euro, coprendo circa la metà delle entrate scolastiche. «E così capita [...] che i contributi che dovrebbero essere volontari diventano obbligatori. Pena: verrà negata la password a quelli ragazzi che non hanno pagato» (Crema Oggi, 9 febbraio 2013);
addirittura nell'articolo succitato si riporta l'esempio di alcuni liceali che non avendo versato tale contributo rischierebbero di «non poter vedere la propria pagella» (Crema Oggi, 9 febbraio 2013) –:
se quanto riportato circa l'irregolare richiesta dei contributi corrisponda al vero, ed in caso affermativo, quali iniziative di sua competenza il Ministro intenda adottare nei confronti degli eventuali responsabili;
come intenda il Ministro garantire l'applicazione da parte delle istituzioni scolastiche delle note prot. 312 del 20 marzo 2013 e prot. 593 del 7 marzo 2013 anche al fine di tutelare il diritto allo studio. (4-00997)
LAVORO E POLITICHE SOCIALI
Interrogazione a risposta in Commissione:
BALDASSARRE. — Al Ministro del lavoro e delle politiche sociali, al Ministro dello sviluppo economico. — Per sapere – premesso che:
il Gruppo Natuzzi ha stabilimenti sia in Italia che all'estero e nel 2011, presentando un fatturato di 486,4 milioni di euro, si accredita come la più grande azienda italiana nel settore dell'arredamento e leader mondiale nel segmento dei divani in pelle;
la situazione risulta preoccupante se si considera che il gruppo Natuzzi ha collocato in cassa integrazione (con scadenza ottobre 2013) 1.900 lavoratori su circa 2.700;
la regione Puglia, in accordo con il Governo, l'8 febbraio 2013 ha firmato un accordo per il settore del mobile imbottito che mette a disposizione 101 milioni di euro con lo scopo di riqualificare e innovare tali produzioni;
da informazioni che provengono da più parti si evince che il gruppo Natuzzi sembra non voler attingere alle risorse messe a disposizione del Governo in accordo con la Regione Puglia, non avendo ancora presentato progetti e piani industriali volti a tale scopo –:
se i Ministri interrogati siano a conoscenza della situazione descritta e di eventuali richieste del gruppo Natuzzi di finanziamenti volti alla riqualificazione degli stabilimenti italiani;
se i Ministri interrogati non ritengano opportuno porre la propria attenzione sulla questione e intervenire, per quanto di competenza, sulla problematica descritta, al fine di scongiurare una possibile crisi del settore sia a livello regionale che nazionale. (5-00426)
Interrogazione a risposta scritta:
MURER e MIOTTO. — Al Ministro del lavoro e delle politiche sociali, al Ministro della salute. — Per sapere – premesso che:
il movimento di partecipazione civica «Cittadinanzattiva» ha appena pubblicato il primo Rapporto nazionale sull'invalidità civile, che compie un'approfondita indagine e disegna un quadro d'informazioni e dati sul procedimento di riconoscimento delle minorazioni civili (invalidità civile, accompagnamento), al fine di valutare lo stato di attuazione dell'articolo 38 della Costituzione che garantisce il diritto all'invalidità civile e all'assistenza sociale;
in particolare il Rapporto è il frutto dell'Osservatorio sull'invalidità civile istituito da Cittadinanzattiva per mettere in luce le molteplici criticità nell'accesso ai benefìci collegati all'invalidità civile riscontrate dai cittadini;
i dati pubblicati sono il risultato del lavoro svolto quotidianamente dalle sezioni del tribunale per i diritti del malato, dai servizi PiT Salute, dalle associazioni di pazienti che aderiscono al Coordinamento nazionale delle associazioni dei malati cronici (CnAMC) di Cittadinanzattiva;
l'articolo 20 del decreto-legge 1o luglio 2009, n. 78, convertito in legge con modificazioni dalla legge 3 agosto 2009, n. 102, titolato «Contrasto alle frodi in materia di invalidità civile», attribuisce all'INPS nuove competenze per l'accertamento dell'invalidità civile, cecità civile, sordità civile, handicap e disabilità con l'intento di ottenere tempi più rapidi e modalità più chiare per il riconoscimento dei relativi benefici; la nuova normativa rivede profondamente le modalità di presentazione delle domande di accertamento, la valutazione sanitaria, la concessione delle prestazioni, il ricorso in giudizio. L'INPS, con determinazione n. 189 del 20 ottobre 2009, definisce il disegno organizzativo e procedurale per l'applicazione dell'articolo 20 della legge n. 102 del 2009 (msg. 24477 del 29 ottobre 2009);
nei primi mesi del 2010, quando la nuova procedura di riconoscimento dell'invalidità civile è entrata in vigore, i cittadini hanno iniziato a segnalare in modo crescente numerosi ostacoli per il riconoscimento delle minorazioni civili. In molti casi, sulla base delle segnalazioni dei cittadini e delle associazioni di pazienti, sono stati riscontrati e si continuano a riscontrare azioni intraprese dallo Stato non del tutto aderenti al dettato normativo, in quanto comprimono i diritti dei cittadini realmente invalidi, soprattutto in riferimento alle modalità di svolgimento e comunicazione dei piani pluriennali di verifica straordinaria; riducono arbitrariamente i requisiti previsti dalla legge per l'assegnazione delle indennità correlate al riconoscimento delle minorazioni civili; appaiono volte al raggiungimento di un obiettivo non dichiarato, ovvero il massimo contenimento possibile della spesa assistenziale;
il disagio maggiore segnalato dai cittadini nel report di Cittadinanzattiva è rappresentato dalla lentezza dell’iter burocratico; il valore percentuale del 2013 mostra un aumento impressionante delle segnalazioni che passano dal 28,4 per cento del 2011 al 45,6 per cento del 2012; in modo particolare vengono segnalate criticità rispetto alla difficoltà di presentare domanda, ai tempi di attesa per la convocazione per la prima visita, e per ottenere il verbale definitivo; in particolare si evidenzia che la prima visita è erogata in media dopo 8 mesi, la ricezione del verbale avviene dopo 11 mesi e l'erogazione dei benefici dopo un anno di attesa;
altri disagi lamentati riguardano l'esito dell'accertamento sanitario, che raggiunge il 29,8 per cento delle segnalazioni; in sostanza più di un cittadino su quattro, ritiene la percentuale di invalidità o il grado di handicap riconosciuti assolutamente inadeguati rispetto alle loro reali condizioni di salute; in particolare, in questo senso, si segnalano problematiche legate alla mancata concessione dell'assegno di accompagnamento o revoca dello stesso a seguito di visita di rivedibilità o verifica straordinaria;
il Rapporto, nel suo insieme, afferma sostanzialmente che le persone che accedono alla procedura di accertamento per l'invalidità civile ed handicap devono attendere tempi lunghissimi per lo più a causa dell'inefficienza delle procedure informatiche e per la moltiplicazione dei passaggi burocratici; sono obbligati ad ulteriori accertamenti sanitari (potenziamento visite dirette) in contrasto con gli obiettivi di semplificazione e di rispetto della dignità della persona; sono costretti ad attendere a lungo i verbali degli accertamenti ed i conseguenti benefici correlati ed a fare i conti con procedure di pagamento lente e non rispondenti alle necessità;
le azioni intraprese dallo Stato e dall'INPS nell'ultimo periodo sembrano, quindi, comprimere i diritti dei cittadini realmente invalidi; riducono i requisiti previsti dalla legge per l'assegnazione delle indennità correlate al riconoscimento delle minorazioni civili ed appaiono oltremodo strumentalizzate al raggiungimento di un obiettivo ultimo, quello del massimo contenimento della spesa assistenziale;
una conferma arriva anche dai dati della Corte dei conti secondo cui nel 2011 la spesa per gli invalidi civili si attesta a 13.671,860 mln di euro con una contrazione rispetto al 2010 pari al -0,8 per cento; analizzando anche il numero degli invalidi civili, che si attesta nel 2011 a 2.671.967 si nota una flessione del -1,5 per cento rispetto al 2010;
il dato, quindi, sembra confermare gli effetti negativi che la nuova normativa e la sua modalità di implementazione hanno avuto sul diritto di accesso da parte dei cittadini alle indennità correlate all'invalidità civile (come emerge dalle stesse segnalazioni giunte); l'appesantimento dell’iter burocratico di riconoscimento e la restrizione dei requisiti sanitari per la concessione dei benefici rappresentano dunque le cause principali della riduzione della spesa pubblica per l'invalidità civile;
dal Rapporto si evidenzia, inoltre, che l'aumento della burocrazia relativa all’iter di riconoscimento dell'invalidità civile, a seguito soprattutto delle disposizioni che lo stesso Istituto si è dato con propri atti interni, nonché la mole del numero delle verifiche straordinarie attuate dall'INPS tra il 2009 e il 2012 (in totale 800.000 posizioni controllate, di cui 200.000 nel 2009, 100.000 nel 2010, 250.000 sia nel 2011 che nel 2012) hanno influito negativamente in particolare su due aspetti molto importanti e che incidono sia sul diritto dei cittadini che sulle casse dello Stato: aumento tempi di attesa dell’iter di riconoscimento con relativi interessi passivi che l'INPS deve pagare in più ai cittadini e aumento della spesa per i medici convenzionati INPS, che svolgono attività medico-legali prevalentemente connesse all'invalidità civile. Un costo occulto ma ingente, sostenuto, prevalentemente per far fronte agli impegni dei piani straordinari di verifica;
in merito a quest'ultimo va segnalato un dato su tutti: la spesa per i compensi dei medici convenzionati INPS nel 2011 è triplicata rispetto al 2010 (+ 220 per cento), raggiungendo i 34.325.679 euro; nonostante ciò, il tasso di presenza degli stessi medici INPS all'interno delle Commissioni ASL diminuisce molto rispetto al 2010, attestandosi al 37,7 per cento; stupisce verificare come all'aumentare dei costi diminuisca un adempimento prescritto dalla legge al quale non ci si dovrebbe sottrarre. La risposta a questa contraddizione va ricercata nel fatto che l'INPS ha deciso di utilizzare tali figure prevalentemente nei piani di verifica straordinaria, cioè nella cosiddetta «lotta ai falsi invalidi», anziché nell'attività ordinaria dell'Istituto; il dato della scarsa presenza del medico INPS nelle commissioni mediche ASL spiega quindi il perché dei ritardi e delle lungaggini nell’iter di riconoscimento dell'invalidità civile segnalati da tantissimi cittadini;
secondo i dati della Corte dei conti (Relazione controllo INPS, esercizio 2011, Determinazione n. 91 del 2012), in media occorrono 278 giorni per l'invalidità civile, 325 giorni per la cecità civile e 344 giorni per la sordità, tempi ben lontani dall'obbiettivo del termine massimo di 120 giorni, con il conseguente maggiore onere per interessi; in particolare gli interessi passivi sulle prestazioni pensionistiche arretrate nel 2011 sono pari a 37,5 milioni in aumento rispetto ai 34 milioni del 2010. In tal senso merita di essere evidenziata l'incidenza, sul totale degli interessi, della quota relativa al settore dell'invalidità civile, pari al 63,3 per cento, ossia circa 24 milioni di euro, in aumento rispetto al 2010 (62,2 per cento);
la Corte dei conti fa riferimento anche ad un numero di Commissioni mediche delle aziende sanitarie locali presenti su tutto il territorio nazionale pari a 726; prendendo invece a riferimento i dati presentati dall'INPS, nel corso dell'Indagine conoscitiva parlamentare sul tema invalidità, le Commissioni ASL risultano essere nel 2011 circa 2000. Una discrepanza che non si spiega e su cui andrebbe fatta chiarezza, partendo proprio dai risultati della detta Indagine conoscitiva parlamentare compiuta al Senato nella scorsa legislatura;
i dati sinora riportati ci portano ad affermare che il peso della burocrazia, i ritardi dell’iter di riconoscimento e lo svolgimento del Piano straordinario di verifica, hanno un costo per lo Stato non inferiore a circa 58 mln di euro, dato che rappresenta la somma dei costi per interessi passivi e costi per i medici convenzionati INPS (unica tipologia di costi rispetto ai quali esistono dati certi);
i dati del rapporto annuale 2012 della Guardia di finanza fornisce, per contro, il «vero numero dei falsi invalidi» accertati nel 2012: su circa 2.800.000 invalidi civili sono appena 1.047 quelli accertati dalla guardi di finanza come «falsi invalidi», cioè lo 0,04 per cento; è evidente quindi come il fenomeno sia davvero molto limitato e meno rilevante in termini numerici di quello che invece lo si vuole far apparire;
il Rapporto di Cittadinanzattiva, oltre a riportare dati che fotografano la situazione, avanza pure alcune proposte; esse, nello specifico, sono:
a) semplificare l'attuale iter amministrativo di riconoscimento dell'invalidità civile, da molteplici momenti accertativi e di validazione che incidono negativamente sui tempi di attesa per i cittadini e sulle casse dello Stato in termini di interessi passivi;
b) garantire il tasso del 100 per cento di presenza dei medici INPS all'interno delle commissioni ASL riducendo al massimo la necessità di successive visite;
c) velocizzare il processo d'informatizzazione da parte delle ASL anche al fine di facilitare l'attività dell'INPS;
d) annullare la comunicazione interna del direttore generale INPS e le «linee guida operative» del 20 settembre 2010, con riguardo ai criteri di riconoscimento dell'indennità di accompagnamento, ripristinando così le vigenti previsioni di legge e approvare un nuovo limite reddituale per ottenere la provvidenza economica legata all'invalidità civile parziale o totale valutando solo ed esclusivamente il reddito personale, senza considerare il reddito dell'eventuale coniuge;
e) istruire presso gli uffici Inps un tavolo permanente e paritetico di confronto volto a individuare le misure necessarie per superare le criticità del sistema e a formulare proposte di miglioramento condivise;
f) avviare, contro il fenomeno delle assegnazioni indebite delle indennità, azioni ad hoc anche nei confronti dei propri funzionari che violano le norme e non soltanto attraverso controlli, in molti casi vessatori, nei confronti dei cittadini –:
se il Governo sia a conoscenza di quanto sopra esposto e quali provvedimenti intenda assumere, per quanto di sua competenza, rispetto alla tematica in oggetto, con particolare riguardo alle proposte evidenziate in narrativa, anche in ragione del fatto che, fin dalla passata legislatura, sono stati prodotti numerosi atti ispettivi sul tema senza che sia mai maturata una modifica sostanziale di una procedura che, come evidenziato dai dati sopra riportati, non arreca alcun vantaggio ai cittadini. (4-00993)
POLITICHE AGRICOLE ALIMENTARI E FORESTALI
Interrogazioni a risposta immediata in Commissione:
XIII Commissione:
FRANCO BORDO, PALAZZOTTO e MIGLIORE. — Al Ministro delle politiche agricole alimentari e forestali. — Per sapere – premesso che:
sabato 15 giugno 2013 a Vivaro (Pordenone) seimila metri quadrati sono stati seminati con mais OGM creando un altissimo rischio di contaminazione biotech nel nostro Paese;
l'ordine del giorno recentemente approvato all'unanimità dal Senato impegna il Governo ad: «...adottare la clausola di salvaguardia prevista dall'articolo 23 della direttiva 2001/18/CE e/o ad adottare la misura cautelare di cui all'articolo 34 del regolamento (CE) n. 1829/2003, in base alla procedura prevista dall'articolo 54 del regolamento (CE) n. 178/2002, a tutela della salute umana, dell'ambiente e del modello economico e sociale del settore agroalimentare italiano; a rafforzare la già efficace opera di monitoraggio e controllo posta in essere con il coinvolgimento del Corpo forestale dello Stato, il quale da tempo effettua verifiche per evitare la contaminazione tra colture geneticamente modificate e non e per controllare l'eventuale presenza di sementi transgeniche non autorizzate; a potenziare la ricerca scientifica pubblica in materia agricola e biologica e, in caso di OGM, in ambiente confinato di laboratorio...»;
il Ministro De Girolamo, nell'illustrazione delle linee programmatiche del suo dicastero rese il 12 giugno 2013 in seduta congiunta alle Commissioni Agricoltura di Camera e Senato, ha affermato; «...l'importanza di un positivo relazionarsi tra Governo e istituzioni parlamentari ha già trovato, in questa legislatura, un'ottima dimostrazione in Senato sul delicato tema degli OGM, con l'assunzione del mio personale impegno sull'ordine del giorno congiunto di tutti i gruppi rappresentati, finalizzato all'adozione di regole coerenti con la tutela della salute umana e dell'ambiente, nonché del modello socio-economico e del patrimonio agroalimentare italiano, al contempo rafforzando la ricerca scientifica e le azioni di monitoraggio e controllo...»;
inoltre, il Ministro, ha rilasciato le seguenti dichiarazioni stampa: «...quella geneticamente modificata è un tipo di agricoltura che non risponde alle esigenze e alle caratteristiche del nostro Paese, perché noi vinciamo solo puntando sulla qualità, la tipicità e sulla valorizzazione della nostra cultura...» ed ancora: «...quanto avvenuto in Friuli non è assolutamente da sottovalutare. In ogni caso è fondamentale ribadire che se non si verificano prima le condizioni di coesistenza, ogni semina di organismi geneticamente modificati non è permessa...»;
il Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare, Andrea Orlando, ha affermato: «...sosterremo e continueremo a sollecitare tutti gli interventi tesi a impedire la semina OGM proposti dal Ministro dell'agricoltura De Girolamo e al contempo continuiamo a sostenere l'esigenza di definizione di una linea che ci consenta di rivedere la normativa europea. Il sistema Italia – ha continuato il Ministro Orlando – deve riproporre nelle sedi titolate comunitarie il tema della piena autonomia degli Stati in tema di OGM, per non mettere a rischio le nostre specificità agroalimentari e ambientali»;
ciò che è avvenuto a Vivaro, e che potrebbe verificarsi in altre zone del Paese, è dato dal fatto che l'Italia non ha ancora adottato la suddetta clausola di salvaguardia;
servirebbero anche azioni urgenti per evitare la contaminazione delle zone viciniori alla zona oggetto della coltivazione di mais OGM –:
quali iniziative urgenti intenda assumere il Governo per avvalersi della clausola di salvaguardia prevista dall'articolo 23 della direttiva 2001/18/CE e/o adottare le misure cautelari di cui all'articolo 34 del regolamento (CE) n. 1829/2003, in base alla procedura prevista dall'articolo 54 del regolamento (CE) n. 178/2002, a tutela della salute umana, dell'ambiente e del modello economico e sociale del settore agroalimentare italiano. (5-00428)
CARRA, OLIVERIO, LUCIANO AGOSTINI, ANTEZZA, ANZALDI, CENNI, COVA, COVELLO, DAL MORO, FERRARI, FIORIO, MARROCU, MONGIELLO, PALMA, SANI, TARICCO, TENTORI, TERROSI, VALIANTE, VENITTELLI e ZANIN. — Al Ministro delle politiche agricole alimentari e forestali. — Per sapere – premesso che:
nei giorni scorsi, la Commissione europea, con una lettera di messa in mora, ha avviato una procedura di infrazione nei confronti dell'Italia per il mancato recupero delle multe dovute dai produttori lattiero-caseari che hanno superato le quote di produzione loro spettanti nelle campagne ricomprese tra il 1995 e il 2009;
dalle notizie trapelate sui quotidiani, la Commissione europea rileva che «le autorità italiane non hanno ancora adottato le opportune misure per recuperare le somme dovute, che si stima corrispondano a un importo complessivo di almeno 1,42 miliardi di euro in gran parte ancora non riscosse»;
va sottolineato che la Commissione europea ha ripetutamente espresso la propria insoddisfazione nei confronti dell'estrema lentezza dei progressi compiuti nella riscossione dei prelievi legati alle quote latte e, già il 27 aprile 2012, nella «Relazione della Commissione al Consiglio relativa alla valutazione della situazione comunicata dall'Italia alla Commissione e al Consiglio in merito al recupero del prelievo supplementare dovuto dai produttori di latte per i periodi dal 1995/1996 al 2001/2002», sosteneva che le modalità di recupero dei prelievi erano da migliorare nettamente. In assenza di informazioni sufficientemente dettagliate, la Commissione dichiarava di non essere in grado di monitorare correttamente la situazione relativa alla riscossione della parte dei prelievi dovuti dai produttori che non hanno aderito al regime di pagamento rateizzato il cui importo, davvero ingente, è pari ad oltre 1,5 miliardi euro;
la Commissione europea, inoltre, monitora anche il lavoro di recupero delle multe oggetto di piani di rateizzazione, soprattutto per quel che riguarda il mancato recupero delle multe oggetto di piani di rateizzazione concessi all'Italia ai sensi della decisione del Consiglio del 16 luglio 2003, n. 2003/530/CE;
tale rateizzazione – meglio conosciuta come prima rateizzazione (legge Alemanno n. 119 del 2003) – avvenne a seguito di un accordo, sostenuto dalla Lega Nord, mediante l'allora Ministro Tremonti, con la Commissione europea che «in via eccezionale» ha considerato compatibile con il mercato europeo (ossia non aiuto di Stato) l'aiuto concesso dalla Repubblica italiana ai produttori di latte eccedentari sostituendosi ad essi nel pagamento degli importi dovuti all'Unione a titolo di prelievo supplementare sul latte e consentendo agli stessi produttori di estinguere il debito mediante pagamenti differiti, senza interessi, scaglionati in massimo 14 anni, mediante rate annuali di pari importo dal 1o gennaio 2004, come, appunto, risulta dalla decisione del Consiglio del 16 luglio 2003, n. 2003/530/CE;
giova ricordare come tale «concessione» ad una ristretta minoranza di lavoratori italiani ebbe l'immediato effetto di caricare sulle spalle del Paese un debito di euro 1.386.475.250, poiché l'articolo 2 paragrafo 1 della citata decisione n. 2003/530/CE dispone che «La concessione dell'aiuto di cui all'articolo 1 è condizionata alla dichiarazione dell'Italia al Fondo europeo agricolo di orientamento e garanzia (FEAOG) dell'importo di 1.386.475.250 EUR, corrisponde al prelievo totale per i periodi di cui all'articolo 1»;
il 27 novembre 2012, il Commissario straordinario per le quote latte Paolo Gulinelli, in una intervista su Agrapress, dichiarava che «il prelievo complessivamente richiesto ai produttori in questi quindici anni ammonta a 2.263 milioni di euro, di cui ne sono stati riscossi solo 246 e altri 346 milioni sono in rateizzazione con la legge n. 119 del 2003. 175 milioni sono ormai irrecuperabili per fallimento, per incapacità definitiva di versare, per sentenza di annullamento. Restano quindi da riscuotere circa 1.500 milioni, di cui 700 non sono al momento esigibili a causa di sospensive giurisdizionali mentre 800 sono esigibili. L'Agea – conclude Gulinelli – ha intimato il pagamento del prelievo esigibile ai circa 2.000 produttori coinvolti. 600 di loro devono pagare somme superiori a 300.000 euro, cioè la gran parte del debito»;
se le stime del Commissario Gulinelli fossero confermate, ad oggi, la collettività del Paese ha sostenuto il costo delle quote latte per oltre l'80 per cento dell'importo complessivo, ossia per 3,6 miliardi di euro; infatti, come rilevato dalla Corte dei conti – nella «Relazione sulle quote latte: la gestione degli interventi di recupero delle somme pagate dallo Stato in luogo degli allevatori per eccesso di produzione», del novembre 2012 – la gestione delle quote latte ha determinato un esborso complessivo nei confronti dell'Unione europea di oltre 4,4 miliardi di euro. Di tale esborso il recuperato effettivo è trascurabile e, secondo i citati dati della Corte dei conti e della Ragioneria generale dello Stato, con la nota n. 23120 del 21 marzo 2012, non raggiunge i 430 milioni di euro, pari al 9,77 per cento;
come dichiarato dal Ministro interrogato, all'origine della contestazione della Commissione europea vi sono l'ambiguità e l'inadeguatezza della normativa vigente fino al 2012, ai fini della puntuale riscossione dei prelievi arretrati –:
come il Ministro interrogato intenda procedere con urgenza al fine di non far avanzare oltre la procedura di infrazione nei confronti dell'Italia sulle quote latte evitando sanzioni pecuniarie per i contribuenti italiani e ripristinando la legalità e la giustizia nel settore lattiero-caseario.
(5-00429)
FAENZI e CATANOSO. — Al Ministro delle politiche agricole alimentari e forestali. — Per sapere – premesso che:
l'AGEA, nella qualità di responsabile dell'erogazione degli aiuti ai beneficiari del piano di sviluppo rurale (PSR) della Sicilia 2007/2013, considera la certificazione antimafia soggetta a scadenza annuale (semestrale in vigenza del decreto del Presidente della Repubblica n. 252 del 1998), disattendendo, a giudizio degli interroganti, quanto disposto dalla normativa sulla certificazione antimafia;
l'amministrazione regionale ha più volte contestato all'AGEA, alla luce del dettato normativo, le circolari emesse dalla stessa e le conseguenti procedure informatiche messe in atto per il controllo delle certificazioni, in quanto la certificazione antimafia viene già richiesta alla prefettura in sede di emissione del provvedimento di concessione del contributo e, pertanto, per gli atti conseguenti non è più necessaria l'acquisizione di una nuova certificazione, a meno che non siano intervenute variazione negli assetti dell'impresa (articolo 2, comma 2, del citato decreto n. 252 del 1998 e articolo 86, comma 5, del decreto legislativo n. 159 del 2011);
le prefetture hanno tempi di rilascio delle informazioni antimafia eccessivamente lunghi, anche oltre un anno, non compatibili con la tempistica imposta dall'Unione europea per evitare il disimpegno automatico delle somme: ciò comporta il continuo ricorrere all'emissione di decreti di concessione del contributo ed a pagamenti sotto «condizione risolutiva»;
nonostante l'amministrazione acquisisca le certificazioni secondo quanto previsto dalla legge, prima di autorizzare il pagamento delle domande è costretta a richiedere alle prefetture il rinnovo della certificazione, autorizzando il pagamento sotto «condizione risolutiva» anche se in possesso già di una certificazione acquisita in corso di validità, in conformità all'articolo 2, comma 2 del decreto del Presidente della Repubblica n. 252 del 1998;
tutto ciò provoca l'allungamento nei tempi di erogazione del contributo alle imprese, il rifiuto da parte delle prefetture a rilasciare nuove certificazioni qualora queste siano afferenti alla medesima iniziativa per la quale è già stata fornita la certificazione, a meno che non siano intervenute variazione negli assetti dell'impresa, ed enormi danni economici ai beneficiari che hanno ricevuto l'anticipazione del contributo a fronte di una garanzia fideiussoria;
le procedure messe in atto dall'AGEA per la gestione degli svincoli prevedono, tra l'altro, la presenza di una «idonea e valida certificazione antimafia», in mancanza della quale il sistema informativo non permette di procedere all'autorizzazione allo svincolo. Conseguentemente, alla scadenza della garanzia, l'AGEA chiede ai beneficiari la restituzione dell'anticipazione, nonostante gli investimenti siano stati regolarmente realizzati e per essi sia stato pagato il saldo. A tale proposito già alcune ditte hanno ricevuto richieste di restituzione da parte dell'AGEA;
il perdurare di detta situazione non potrà che arrecare gravi danni alle imprese, innescando una serie di contenziosi con l'AGEA e con le compagnie assicuratrici;
la regione ha più volte contestato all'AGEA le procedure messe in atto per la gestione delle certificazioni antimafia, inviando anche uno specifico parere emesso dalla prefettura di Palermo, nonché le risposte delle altre prefetture alla richiesta di rinnovo delle certificazioni;
la questione è stata sottoposta anche al Ministero delle politiche agricole alimentari e forestali, al Ministero dell'interno, alla Commissione politiche agricole della Conferenza Stato-regioni ed in sede di Comitato di sorveglianza del PSR Sicilia 2007/2013;
da ultimo, al fine di non arrecare danni alle imprese, l'Autorità di gestione ha inviato a tutte le prefetture siciliane una nota con cui si chiede di voler riscontrare le richieste di rinnovo delle certificazioni, poiché in mancanza di detti rinnovi non è possibile procedere allo svincolo delle garanzie fideiussorie;
a giudizio degli interroganti, le modalità di erogazione dei contributi europei da parte dell'AGEA sono troppo restrittive e mirano esclusivamente ad evitare truffe ed inganni all'Unione europea con la conseguenza, unica e sola, di rendere vana tutta l'attività di finanziamento e di rovinare letteralmente le aziende agricole oneste beneficiate dai contributi, che hanno compiuto gli investimenti e che si ritrovano a dover restituire tutte le somme erogate senza aver compiuto alcunché di sbagliato o di illegale –:
quali iniziative intenda adottare il Ministro interrogato nei confronti dell'AGEA affinché si attivino nuove e diverse procedure a tutela della legalità e dell'efficacia dell'azione amministrativa. (5-00430)
CAON. — Al Ministro delle politiche agricole alimentari e forestali. — Per sapere – premesso che:
i primi mesi dell'anno sono stati caratterizzati da disastrose precipitazioni molto superiori alle medie stagionali;
nel mese di maggio 2013, sono stati diversi i centimetri d'acqua caduti, in particolare nel triangolo Padova, Verona e Vicenza, che hanno causato la tracimazione dei corsi d'acqua e migliaia gli ettari di campi e terreni sono finiti sott'acqua;
torna, quindi, l'incubo alluvione in Veneto esattamente due anni e mezzo dopo l'evento del novembre 2010. Nelle zone più colpite sono caduti fino a 200 millimetri di pioggia, addirittura 100 millimetri in pianura nell'area di Treviso ed hanno provocato danni ingenti. Molti fiumi sono straripati e molte zone di pianura sono state letteralmente inondate tra le province di Vicenza, Treviso, Padova e Verona;
l'alluvione che ha colpito il Veneto è una calamità, una catastrofe, non delle medesime dimensioni di quella del 2010, per quanto riguarda la superficie colpita, ma dal punto di vista dell'avversità atmosferica assolutamente peggiore, e ha messo l'agricoltura della regione in ginocchio;
interi raccolti sono stati distrutti, marciti dall'acqua, o persi perché non maturati. Da Vicenza a Padova, da Treviso a Verona, da Venezia a Belluno, passando per Rovigo, la produzione ortofrutticola è stata praticamente annientata dal maltempo, per non parlare del foraggio e dei seminativi. Nel mezzo miliardo di danni stimati dalla regione si considera anche il disastro agricolo. Risultano dimezzate tutte le colture a campo con picchi del meno 70 per cento per mele, ciliegie e albicocche. Per il Trevigiano, i 50 milioni di danni stimati comprenderebbero anche la perdita di alcune produzioni tipiche, quali l'asparago bianco e le ciliegie dell'Asolano. Per le viti di Conegliano e della Valdobbiadene invece è ancora troppo presto per una stima. L'agricoltura veneta è in ginocchio e si può affermare che oggi si è perso un intero ciclo produttivo;
le continue precipitazioni stanno mettendo in ginocchio l'agricoltura di tutto il nord Italia, con danni già stimati dalle associazioni di categoria nell'ordine di centinaia di milioni di euro;
i fenomeni piovosi hanno impedito il normale svolgersi delle operazioni colturali e inoltre hanno provocato danni sulle colture in essere;
si temono perdite generalizzate sui raccolti, già quantificate con stime dei danni previste in media dal 30 al 50 per cento, che avranno gravi ripercussioni anche sul comparto zootecnico, agro meccanico e dei contoterzisti;
risulta indispensabile prestare la massima attenzione a un settore di primaria importanza che continua a perdere redditività –:
se non ritenga di adottare iniziative urgenti per far fronte alla calamità naturale indicata in premessa ed impegnarsi a finanziare adeguatamente tutti gli interventi utili a sostegno degli agricoltori veneti. (5-00431)
BENEDETTI, MASSIMILIANO BERNINI, GAGNARLI, GALLINELLA, L'ABBATE, LUPO e PARENTELA. — Al Ministro delle politiche agricole alimentari e forestali. — Per sapere – premesso che:
l'attività di pesca nel Mediterraneo e in particolare nella Sicilia Occidentale sia conoscendo delle forti difficoltà dovute sia alla recente congiuntura di crisi economica sia alle diminuzioni delle popolazioni ittiche;
dalla letteratura specifica si evince che il sovraffollamento degli stock ittici in particolare di pesce azzurro, è consistente nell'area marittima dell'Adriatico settentrionale e nell'area del Canale di Sicilia;
risulta che nel canale di Sicilia, al largo di Sciacca, circa quindici imbarcazioni sono autorizzate da più anni, sotto forma di rinnovi dell'autorizzazione, di semestre in semestre da parte del Ministero delle politiche agricole alimentari e forestali, a condurre attività di pesca con il sistema «volante a coppia»;
il sistema «volante a coppia» è un sistema di pesca nato originariamente con finalità pelagiche, ma ora diversamente usato in prossimità del fondale per prevenire il comportamento dei branchi ittici volto a sfuggire le reti;
in ogni caso la volante a coppia è un sistema di pesca cosiddetto massivo, in quanto è possibile pescare varie tonnellate di pesce in una sola calata;
l'autorizzazione semestrale a Sciacca da molti anni si caratterizza per essere stata concessa solo ad alcune famiglie di pescatori, cosa che negli ultimi tempi si è irrigidita perché viene concesso il diritto all'autorizzazione solo a chi ne abbia già usufruito nel passato, alla stregua della «legge del nonno» degli USA per i diritti elettorali dei neri post guerra di secessione;
l'autorizzazione semestrale viene denominata e caratterizzata come sperimentale;
non è comprensibile scientificamente né linguisticamente la definizione di sperimentale per un'attività di pesca che si ripete uguale da anni ed è nota perfettamente in tutte le sue conseguenze in letteratura scientifica e ambientalista;
non sono comunque noti i dati relativi alla cosiddetta sperimentazione della volante a coppia nella zona di Sciacca;
non sono comprensibili le compatibilità esistenti o meno tra fermo biologico della pesca, il relativo indennizzo e l'attività di pesca della volante a coppia –:
non intenda sospendere immediatamente la «tradizione» della autorizzazione sperimentale del sistema di pesca «volante a coppia» nel Canale di Sicilia e dovunque sia stata concessa comunque dal Ministero. (5-00432)
Interrogazioni a risposta in Commissione:
RUBINATO e DAL MORO. — Al Ministro delle politiche agricole alimentari e forestali. — Per sapere – premesso che:
nei giorni scorsi il fondatore del consorzio Cospalat del Friuli Venezia Giulia Renato Zampa, è stato arrestato con l'accusa di aver pilotato le analisi sulla qualità del latte conferito dai soci del consorzio, di aver distrutto quelle non conformi e di aver commercializzato il prodotto nonostante fosse contaminato dall'aflatossina M1, un fungo che si sviluppa nel mais, molto pericoloso per la salute perché cancerogeno per il fegato e con effetti negativi sulla crescita dei bambini;
in particolare secondo quanto è stato accertato dai Nas dei carabinieri di Udine gli illeciti consistono nell'aver consegnato ai caseifici, molti dei quali in Veneto e Friuli, latte per produrre formaggio Montasio, che in realtà non proveniva da allevamenti selezionati e viaggiava con certificazioni e bolle false;
le analisi sul latte sarebbero state falsificate con il ricorso a un laboratorio compiacente, che allungava il latte contaminato con altro latte proveniente peraltro da stalle non certificate;
le perquisizioni hanno riguardato 86 aziende e caseifici delle province di Udine, Pordenone, Gorizia, Treviso, Padova, Vicenza, Arezzo, Perugia, Napoli, Bari e Brindisi, in tutto gli indagati sono 24, di cui 17 allevatori tutti soci della Cospalat;
gli arresti hanno decapitato il consorzio Cospalat nato quindici anni dai produttori che si battevano contro il sistema delle quote latte;
il decreto di temporanea sospensione del riconoscimento quale centro di raccolta del Cospalat Friuli Venezia Giulia, bloccherà i camion del consorzio e i produttori rischiano di dover buttare via tutto il latte, anche quello in regola;
il presidente della Coldiretti del Friuli, Dario Ermacora, è stato durissimo contro chi attenta sistematicamente alla salute dei consumatori danneggiando l'immagine del made in Italy, augurandosi che in questa vicenda non siano i produttori seri a pagare il costo di questo ennesimo scandalo;
la situazione non aiuta i consumatori generando allarme circa la pericolosità del latte nazionale e dei suoi derivati, finendo per penalizzare chi ha sempre puntato, per essere competitivo, sulla qualità e sul rispetto delle norme –:
quali iniziative urgenti il Ministro intenda adottare, per quanto di competenza, in merito alla questione esposta in premessa, al fine di rassicurare la popolazione italiana e i produttori onesti circa la repressione e la prevenzione delle frodi tossiche sul latte, tale da scongiurare la presenza delle aflatossine nei limiti stabiliti dalla legislazione italiana. (5-00433)
MONGIELLO, VENITTELLI, PALMA, COVELLO e TENTORI. — Al Ministro delle politiche agricole alimentari e forestali, al Ministro per gli affari europei. — Per sapere – premesso che:
il settore bieticolo saccarifero italiano versa da anni in grosse difficoltà e con l'attuale crisi finanziaria il comparto nel suo complesso sta subendo perdite sempre più pesanti;
di recente l'industria saccarifera nazionale e le organizzazioni sindacali hanno deciso di avviare forme di denunce e di sensibilizzazione verso il Governo ed il Parlamento allo scopo ponendo alla loro attenzione uno specifico documento programmatico;
l'interrogante è tra i soggetti istituzionali cui i predetti esponenti del settore bieticolo saccarifero si sono rivolti, presentando la nota che di seguito si riporta: «il 24 e 25 giugno i Ministri dell'Agricoltura dell'Unione Europea assumeranno decisioni fondamentali per il futuro della Politica Agricola Comune e anche per il settore saccarifero saranno decisivi i triloghi tra Consiglio, Parlamento e Commissione europea. L'industria bieticolo-saccarifera italiana, insieme alla raffineria di zucchero grezzo di canna operante nel sud Italia e le Organizzazioni sindacali, chiedono al ministro De Girolamo, al Governo italiano e ai membri italiani del Parlamento Europeo di assumere decisioni che permettano anche per i prossimi anni una produzione saccarifera nazionale adeguata grazie al mantenimento delle quote zucchero fino al 2020. Superata la drastica ristrutturazione voluta dalla riforma OCM del 2006, la filiera vuole continuare a produrre, attraverso i suoi 4 zuccherifici e mantenendo l'attività di raffinazione, più della metà dello zucchero consumato in Italia, permettendo di coltivare le barbabietole nelle 10,000 aziende agricole collocate in molte regioni del Paese, vuole conservare gli oltre 2000 posti di lavoro diretti più quelli dell'indotto. Le notizie stampa provenienti dalla Francia di un'intesa Franco-Italiana per un'estensione delle quote zucchero solo fino al 2018 lasciano tutta la filiera molto sorpresa e fortemente critica. Gli operatori nazionali del settore confermano quanto espresso diverse volte alle Autorità nazionali e chiedono:
il mantenimento delle quote zucchero fino al 2020, così come approvato a larga maggioranza dal Parlamento Europeo e con il voto favorevole di quasi tutti i Parlamentari italiani;
che si rifiuti il compromesso al ribasso proposto a marzo scorso dal Consiglio del Ministri dell'Agricoltura dell'Unione Europea e che prevedeva un prolungamento delle quote solo fino al 2017, poiché produrrebbe anche con largo anticipo dannose conseguenze per il settore;
che anche per il periodo successivo alle quote zucchero si continui a garantire un sostegno alla bieticoltura nazionale corrispondente all'attuale articolo 68;
che parallelamente si prevedano misure idonee in materia di approvvigionamento della raffineria di Brindisi;
solo a tali condizioni la filiera italiana potrà continuare a contribuire alla strategia dell'approvvigionamento del mercato nazionale per una essenziale commodity come è lo zucchero e si potrà evitare un ulteriore degrado dei livelli occupazionali» –:
se non intendano fare proprie le richieste poste dalle rappresentanze industriali e sindacali del settore bieticolo saccarifero come esposte in premessa ed in tali circostanze difenderle in sede comunitaria;
quali iniziative intendano assumere in favore del sistema bieticolo saccarifero nazionale ed in particolare per assicurare le capacità di approvvigionamento della raffineria di Brindisi e più in generale il mantenimento ed il potenziamento degli impianti delle regioni del Sud Italia.
(5-00434)
PUBBLICA AMMINISTRAZIONE E SEMPLIFICAZIONE
Interrogazione a risposta scritta:
MANFREDI. — Al Ministro per la pubblica amministrazione e la semplificazione. — Per sapere – premesso che:
risulta all'interrogante che la procura regionale della Corte dei conti – sez. giurisdizionale per la Campania – già nel novembre 2011 avrebbe chiesto al segretario generale del comune di Marigliano:
a) copia della delibera con la quale l'avvocato Romano è stato nominato direttore generale e del relativo contratto;
b) nominativo, dati anagrafici, codice fiscale ed eventuale residenza dei consiglieri comunali che hanno proceduto a votare favorevolmente la delibera n. 5 del 26 febbraio 2010, nonché dei soggetti che hanno espresso il parere favorevole di regolarità tecnico-contabile del segretario generale e del direttore generale, nonché del sindaco che ha proceduto a conferire il mandato all'avvocato Romano del contenzioso innanzi al TAR;
c) quantificazione delle somme complessivamente erogate nei confronti dell'avvocato Romano in virtù del rapporto di consulenza intercorso con il professionista a seguito della delibera di giunta n. 85 del 27 aprile 2004 e relativi mandati di pagamento, nonché la data di inizio e fine del rapporto consulenziale;
d) ulteriori contratti di consulenza, assistenza legale e rappresentanza in giudizio conferiti all'avvocato Romano da codesto ente successivamente al deliberato giuntale del 27 aprile 2004;
copia del mandato di pagamento erogato nei confronti dell'avvocato Giuseppe Romano;
secondo quanto risulta all'interrogante, l'avvocato Giuseppe Romano avrebbe percepito compensi per assistenza legale e rappresentanza in giudizio nel periodo nel quale lo stesso era in servizio quale direttore generale con formale contratto; non è noto se l'avvocato Giuseppe Romano abbia effettivamente espletato l'attività di patrocinio legale anche per conto del comune di Marigliano ed al tempo stesso l'incarico di direttore generale –:
se intenda effettuare un accertamento presso il comune di Marigliano ai sensi dell'articolo 60, comma 6, del decreto legislativo n. 165 del 2001, anche alla luce delle richieste della Corte dei conti. (4-01003)
SALUTE
Interpellanza urgente (ex articolo 138-bis del regolamento):
I sottoscritti chiedono di interpellare il Ministro della salute, il Ministro della giustizia, il Ministro dell'economia e delle finanze, per sapere – premesso che:
molti dei canili presenti sul territorio della regione Puglia sono stati definiti, dalla stampa e da vari servizi televisivi, dei veri e propri lager, in cui vengono perpetrati maltrattamenti nei confronti degli animali ospitati; sarebbero circa trecentosessanta, fra censiti e abusivi, i canili pugliesi e, purtroppo, molti di essi si sono resi protagonisti di situazioni di degrado e maltrattamento a danno dei cani. Il nutrito elenco, soltanto per citarne alcuni, comprende il rifugio di Noha (in cui si recidevano le corde vocali dei cani), il San Rafael di Taranto (sovraffollato e indisponibile per gli affidi), e quelli di Tricase, di Castrì e di Cassano delle Murge;
in particolare, dieci anni fa il canile di Noha, un complesso di cemento armato con circa duecento box fatiscenti, presenza di amianto, acque sporche che penetravano nel pozzo artesiano, acqua potabile racchiusa in serbatoi e mai utilizzata e in cui i cani vivevano al buio e in situazioni con forte presenza di umidità, è balzato alla cronaca per un eclatante caso di maltrattamento nei confronti dei cani ospitati;
nello specifico il comune di Galatina aveva chiesto ai proprietari-gestori del canile di limitare l'inquinamento acustico derivante dalla struttura, apportando alcune modifiche a livello strutturale. A lavori ultimati e dopo i sopralluoghi da parte della ASL e del comune, venne accertata la regolarità della nuova situazione e il canile, convenzionato con dodici comuni limitrofi, ebbe soltanto il «divieto» di recludere altri cani;
successivamente, da alcune indiscrezioni, risultò che invece l'abbassamento dell'inquinamento acustico non derivava da lavori di insonorizzazione bensì dal fatto che erano state eseguite operazioni sui cani da parte di un veterinario fatto giungere appositamente da Siena che, senza peraltro effettuare anestesia, aveva operato almeno duecento cani, recidendone le corde vocali con elettrobisturi;
a seguito di ciò venne configurato il reato maltrattamento di animali e nell'ottobre del 2001 il titolare del canile fu destinatario di un decreto penale di condanna per tale reato, ex articolo 727 del codice penale, che puniva il maltrattamento degli animali con l'irrogazione di multe irrisorie e non con la pena del carcere;
il comune e la asl competenti si dichiararono invece inconsapevoli della barbarie che si era consumata all'interno della struttura;
nonostante ciò furono introdotti altri cani nella struttura posta sotto sequestro e ad oggi di quei duecento cani restano gli ultimi trentanove;
la legge n. 281 del 1991 in materia vieta di sopprimere cani e gatti randagi o di destinarli alla sperimentazione e dispone che i comuni e le asl, direttamente responsabili, debbano provvedere a sterilizzazioni sistematiche e rispondere della permanenza nelle strutture e sul buon esito degli affidi;
tali compiti sono spesso disattesi, considerato che, nonostante gli ingenti finanziamenti statali a lungo ricevuti, nel pubblico si sterilizza poco e all'utente privato si chiedono tariffe esose;
l'inefficienza di molte asl, gare al massimo ribasso che assegnano le strutture a chi sostiene di accalappiare, nutrire, curare, sterilizzare, far adottare i cani con una diaria a basso costo, la mancanza di adeguate campagne educative e di regole volte a sollecitare la sterilizzazione anche fra i privati, consegnano di fatto gli animali a sofferenze inaudite e causano, tra l'altro, lo sperpero di risorse pubbliche;
il randagismo è spesso fonte di guadagni facili per molti settori e categorie ed alimenta anche diversi traffici illeciti: lotte clandestine, vivisezione, macellazione, commercio di pelli, trasporto della droga, finte adozioni all'estero finalizzate alla sperimentazione;
in seguito ad accorati appelli di alcune associazioni animaliste, pochi giorni fa il consiglio regionale della Puglia, attraverso un comunicato stampa, ha assicurato il proprio intervento anche con una modifica, ove fosse necessario, delle norme vigenti, rendendo così ancora più restrittivi gli obblighi già esistenti e chiedendo un maggior impegno alle ASL con i propri servizi e veterinari;
in particolare, l'assessore al welfare, Elena Gentile, ha dichiarato che a breve avvierà un tavolo per concertare iniziative che possano affrontare in maniera incisiva l'emergenza, assumendo l'impegno con le associazioni nazionali di accogliere i punti critici per sanare il modus operandi speculativo di alcune associazioni animaliste;
il presidente del consiglio regionale della Puglia, Onofrio Introna, ha accolto tali richieste ed in particolare la proposta dell'assessore Gentile di ricorrere quanto prima alla modifica della legge regionale vigente in materia di randagismo, che consenta alla Puglia di raggiungere gli standard in linea con il resto del Paese, ponendo l'attenzione sulla cura e il rispetto del mondo animale e contrastando i maltrattamenti incivili a danno degli animali indifesi, che non sono certamente propri di una società civile come la nostra –:
se i Ministri interpellati siano a conoscenza di quanto descritto in premessa;
se i Ministri interpellati, per quanto di competenza, non ritengano opportuno intervenire in maniera tempestiva al fine di impedire il verificarsi di situazioni come quelle sopra descritte;
se, altresì, non si ritenga necessario assumere iniziative normative affinché ispezioni, controlli e relazioni sulle condizioni dei canili, degli animali ospitati e sull'utilizzo dei fondi ricevuti vengano affidate ad organi ministeriali anziché alle autorità locali, troppo spesso conniventi;
se i Ministri intendano partecipare al tavolo di concertazione annunciato dal consiglio regionale della Puglia ed attivare campagne di educazione e sensibilizzazione per impedire il dilagare del fenomeno dei canili lager e il maltrattamento dei cani.
(2-00113) «Elvira Savino, Giammanco, Laffranco, Mottola, Sandra Savino, Galati, Pizzolante, Chiarelli, Faenzi, Russo, D'Alessandro, Parisi, Palese, Marti, Fucci, Picchi, Dorina Bianchi, Vignali, Calabria, Latronico, Bosco, Garofalo, Alli, Cicu, Scopelliti, Sammarco, Abrignani, Crimi, Polidori, Leone, Polverini, Castiello, Bernardo, Palmieri, Minardo, Pagano, Lainati, Calabrò, Gregorio Fontana, Bergamini, Pili, Ravetto, Roccella, Distaso, Piso».
Interrogazioni a risposta immediata:
CECCONI, BARONI, DALL'OSSO, DI VITA, SILVIA GIORDANO, GRILLO, LOREFICE e MANTERO. — Al Ministro della salute. — Per sapere – premesso che:
dalla letteratura scientifica unanime emerge con chiarezza che la diffusione e l'uso di farmaci contraffatti o falsificati comporta rischi di assoluta gravità per la salute dei pazienti, in relazione alla dose terapeutica del principio attivo e anche in relazione agli eccipienti;
detti fenomeni assumono una gravità ulteriore quando si tratta di contraffazione e/o falsificazione di farmaci destinati al lattante e in genere all'infanzia;
in data 19 giugno 2013 si è appreso dagli organi d'informazione che tre dirigenti della casa farmaceutica nazionale Geymonat, sono stati arrestati dai carabinieri del Nas di Latina con l'accusa di aver contraffatto il medicinale Ozopulmin, utilizzato per la cura di affezioni respiratorie di bambini e lattanti;
i tre dirigenti della casa farmaceutica Geymonat avrebbero messo in commercio il farmaco contro la tosse Ozopulmin, sostituendo il principio attivo con un altro inefficace e capace di simularne la presenza durante i controlli;
nelle case degli italiani ci sarebbero ancora 9.500 confezioni di Ozopulmin e i carabinieri dei Nas hanno lanciato un appello, affinché chi ne ha le porti immediatamente ai Nas o alle farmacie per il ritiro;
l'arresto dei tre dirigenti della casa farmaceutica Geymonat può far ipotizzare la presenza di un mercato ufficiale, a fronte anche di un mercato «grigio» gestito da imprese farmaceutiche;
non è stata ancora recepita la direttiva 2011/62/UE del Parlamento europeo e del Consiglio che modifica la direttiva 2001/83/CE, recante un codice comunitario relativo ai medicinali per uso umano, al fine di impedire l'ingresso di medicinali falsificati nella catena di fornitura legale, malgrado ci sia una comunicazione ufficiale da parte dell'Unione europea dell'apertura di una procedura di infrazione che è stata depositata presso la Commissione affari sociali della Camera dei deputati –:
quali iniziative il Ministro interrogato intenda intraprendere per garantire che in Italia non circolino altri farmaci falsificati destinati all'uso umano e in tale ambito se non ritenga improrogabile recepire con urgenza la direttiva 2011/62/UE perché operi una disciplina maggiormente rigorosa per i farmaci falsificati. (3-00141)
LENZI, AMATO, ARGENTIN, BENI, BIONDELLI, PAOLA BRAGANTINI, BURTONE, CAPONE, CARNEVALI, CASATI, CRIMÌ, D'INCECCO, FOSSATI, GELLI, GRASSI, IORI, MIOTTO, MURER, PATRIARCA, PICCIONE, SBROLLINI, SCUVERA, MARTELLA, ROSATO e DE MARIA. — Al Ministro della salute. — Per sapere – premesso che:
con il decreto legislativo 8 aprile 2003, n. 66, «Attuazione delle direttive 93/104/CE e 2000/34/CE concernenti taluni aspetti dell'organizzazione dell'orario di lavoro», l'Italia ha recepito le direttive dell'Unione europea che limitano in 48 ore (straordinario compreso) l'orario massimo settimanale di lavoro e fissano il riposo giornaliero in almeno 11 ore, assicurando così una protezione minima a tutti i lavoratori contro orari di lavoro eccessivi e contro il mancato rispetto di periodi minimi di riposo;
con l'articolo 3, comma 85, della legge 24 dicembre 2007, n. 244 (legge finanziaria per il 2008), si prevede che le disposizioni di cui all'articolo 7 del citato decreto legislativo n. 66 del 2003 «non si applicano al personale del ruolo sanitario del servizio sanitario nazionale, per il quale si fa riferimento alle vigenti disposizioni contrattuali in materia d'orario di lavoro, nel rispetto dei principi generali della protezione della sicurezza e della salute dei lavoratori», introducendo così una prima deroga sui riposi per il personale delle aree dirigenziali degli enti e delle aziende del servizio sanitario nazionale, seguita successivamente dall'articolo 41, comma 13, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008 n. 133, che modifica la normativa sull'orario di lavoro settimanale, prevedendo che: «Al personale delle aree dirigenziali degli enti e delle aziende del servizio sanitario nazionale, in ragione della qualifica posseduta e delle necessità di conformare l'impegno di servizio al pieno esercizio della responsabilità propria dell'incarico dirigenziale affidato, non si applicano le disposizioni di cui agli articoli 4 e 7 del decreto legislativo 8 aprile 2003, n. 66. La contrattazione collettiva definisce le modalità atte a garantire ai dirigenti condizioni di lavoro che consentano una protezione appropriata ed il pieno recupero delle energie psico-fisiche»;
con tali modifiche si demanda, di fatto, alla contrattazione collettiva la tutela di un diritto previsto nella legislazione comunitaria, a cui, peraltro, l'Italia si era già adeguata, sulla base di una presunta equivalenza tra lo stato giuridico dirigenziale delineato dalla direttiva europea e quello della dirigenza medica e sanitaria italiana;
la vicenda sul mancato rispetto dell'orario massimo di lavoro e del diritto al risposo settimanale della dirigenza medica del servizio sanitario nazionale assume un significato più ampio, visto che la stessa letteratura scientifica internazionale collega direttamente la mancanza del riposo e gli orari prolungati di lavoro dei medici ad un netto incremento degli eventi avversi, ad un aumento del rischio clinico dei pazienti e, quindi ad una mancanza di tutela della salute dei cittadini;
su tale materia è intervenuta più volte anche la giurisprudenza comunitaria e con la sentenza «Jaeger» del settembre 2003 la Corte di giustizia europea ha stabilito che:
a) il «periodo di riposo» è una nozione di diritto comunitario che non può essere interpretata in funzione delle prescrizioni delle varie normative degli Stati membri;
b) il diritto dei lavoratori al riconoscimento di periodi di riposo non può essere subordinato dagli Stati membri a qualsivoglia condizione, poiché esso deriva direttamente dalle disposizioni della direttiva;
c) i medici non possono essere esclusi dalle tutele generali neanche quando svolgono i servizi di guardia: «Una siffatta interpretazione s'impone a maggior ragione in quanto si tratta di medici che garantiscono un servizio di guardia nei centri sanitari, dato che i periodi durante i quali la loro opera non è richiesta per far fronte ad urgenze, non si può escludere che gli interessati siano chiamati a intervenire, oltre che per le urgenze più o meno brevi e frequenti, per seguire lo stato dei pazienti posti sotto la loro sorveglianza o per svolgere compiti amministrativi»;
inoltre, la giurisprudenza comunitaria ha riconosciuto carattere eccezionale alle deroghe previste dall'articolo 17 della direttiva 104/1993/CE (ora articoli 17-19 della direttiva 88/2003/CE), stabilendo che esse «devono essere interpretate in modo che la loro portata sia limitata a quanto strettamente necessario alla tutela degli interessi che tali deroghe permettono di proteggere»;
dopo la deroga il lavoratore ha in ogni caso diritto a periodi equivalenti di riposo compensativo. Tali periodi devono sottrarre il lavoratore ad ogni obbligo nei confronti del datore, così da consentirgli di «dedicarsi liberamente e senza interruzioni ai suoi propri interessi al fine di neutralizzare gli effetti del lavoro sulla sicurezza e la salute dell'interessato»;
i periodi equivalenti devono essere costituiti da un numero di ore consecutive corrispondenti alla riduzione del riposo praticata e devono essere collocati immediatamente a ridosso del periodo di lavoro che intendono compensare, «al fine di evitare uno stato di fatica o di sovraccarico del lavoratore dovuti all'accumulo di periodi di lavoro consecutivi»;
alla luce di tali interpretazioni e delle modifiche legislative intercorse dal 2003 ad oggi che ledono il diritto dei medici al riposo settimanale e al rispetto dell'orario massimo di lavoro settimanale non superiore alle 48 ore compresi gli straordinari, la Commissione europea ha inviato all'Italia nell'aprile 2012 una lettera di messa in mora riguardante la non applicazione della direttiva 88/2003/CE sugli orari di lavoro e i tempi di riposo per il personale medico e sanitario inquadrato come dirigente del servizio sanitario nazionale;
la Commissione europea, pena il possibile deferimento alla Corte di giustizia europea, ha dato all'Italia due mesi di tempo per riallineare la sua legislazione alla direttiva sull'orario di lavoro, in quanto la deroga prevista dal citato articolo 17, lettera a), della direttiva, che consente la sua non applicazione quando si tratta «di dirigenti o di altre persone aventi potere di decisione autonomo», non può essere applicato ai medici che lavorano per la sanità pubblica italiana, poiché, anche se sono classificati ufficialmente come «amministratori», non godono, però, delle prerogative dirigenziali o di autonomia rispetto al proprio orario di lavoro –:
quali iniziative urgenti si intendano adottare per ripristinare anche per il personale medico e sanitario la validità delle disposizioni sull'orario massimo di lavoro settimanale e sul diritto al riposo presenti nella direttiva 2003/88/CE, onde evitare che l'Italia possa essere deferita alla Corte di giustizia europea. (3-00142)
BALDELLI e CALABRÒ. — Al Ministro della salute. — Per sapere – premesso che:
un sistema di accertamenti diagnostici preventivi tra i giovani italiani aiuterebbe i percorsi terapeutici di numerose patologie e contribuirebbe a ridurre la spesa sostenuta dal servizio sanitario nazionale;
con l'abolizione del servizio di leva obbligatoria avvenuta nel 2005, che ha comportato numerosi effetti positivi per i giovani italiani, è venuta meno l'occasione del controllo medico cui si sottoponevano i cittadini di sesso maschile in cui si verificava l'idoneità fisica dei giovani, mediante accertamenti diagnostici, strumentali e di laboratorio, in esito ai quali venivano spesso diagnosticate patologie di diversa natura, anche di origine genetica, come quelle dell'apparato riproduttivo e cardiovascolari, e, più in generale, disturbi dello sviluppo somatico –:
quali iniziative il Ministro interrogato intenda adottare per garantire diagnosi precoci di patologie, anche di natura genetica, per le fasce più giovani della popolazione. (3-00143)
Interrogazione a risposta orale:
BINETTI, CESA e BUTTIGLIONE. — Al Ministro della salute, al Ministro delle politiche agricole alimentari e forestali. — Per sapere – premesso che:
è di questi giorni la notizia che una gran quantità di latte tossico e cancerogeno, contaminato da una micidiale muffa del mais, la aflatossina, particolarmente pericolosa per i bambini, veniva prodotta in Friuli per essere distribuita in gran parte del Paese;
nell'ambito dell'operazione i circa 300 carabinieri del NAS e dei comandi provinciali, hanno eseguito – in Friuli Venezia Giulia, Veneto, Toscana, Umbria, Campania e Puglia – 86 perquisizioni locali e personali;
le indagini – avviate nel maggio 2012 – hanno consentito di accertare che il presidente, due dipendenti di un consorzio di allevatori della provincia di Udine ed una consulente esterna ritiravano latte dagli imprenditori agricoli associati (di cui alcuni certificati per la produzione di formaggio «Montasio DOP»), lo miscelavano e lo destinavano alla preparazione dell'alimento tutelato, violando così il disciplinare che garantisce al consumatore le caratteristiche chimico-fisiche e organolettiche del prodotto;
è inoltre emerso che 17 allevatori (denunciati a piede libero) ed i responsabili del consorzio, nonostante fossero a conoscenza della contaminazione da aflatossine (sostanze notevolmente cancerogene) di diverse partite di latte, le diluivano con prodotto non contaminato rendendolo idoneo ai controlli analitici effettuati dagli acquirenti. Tale illecito veniva favorito dalla complicità di un laboratorio di analisi della provincia di Udine (2 responsabili sono tra le persone tratte in arresto) che, quando dalle analisi eseguite per conto del consorzio emergeva la presenza di tossine in quantità superiore a quella consentita, alterava i referti ed il latte risultava sempre e comunque idoneo per la commercializzazione –:
quali iniziative si ritenga opportuno assumere al fine di verificare con esattezza in quali zone e in quali modi il latte contaminato è stato distribuito e in che quantità è stato consumato;
quali indagini mediche si intendano proporre per coloro che hanno consumato il prodotto incriminato per valutare l'impatto che ha avuto sulla loro salute e se ci sono sintomi di compromissione;
quali misure si intendano intraprendere per tutelare la salute dei consumatori anche attraverso controlli più tempestivi e rigorosi della qualità dei prodotti messi in commercio. (3-00140)
Interrogazione a risposta scritta:
COLLETTI. — Al Ministro della salute. — Per sapere – premesso che:
il tribunale di Cagliari, con ordinanza del 9 novembre 2012, ha stabilito che l'azienda sanitaria locale (ASL) e l'ospedale regionale per le microcitemie di Cagliari, in persona del suo legale rappresentante, debbano eseguire, nell'ambito dell'intervento di procreazione medicalmente assistita, l'esame clinico e diagnostico sugli embrioni e trasferire in utero, qualora richiesto dalla donna, solo gli embrioni sani o portatori sani delle patologie da cui i genitori risultino affetti;
la citata ordinanza ha disposto altresì che, qualora la struttura sanitaria pubblica si trovi nell'impossibilità di erogare la prestazione sanitaria tempestivamente in forma diretta, tale prestazione possa essere erogata in forma indiretta, mediante il ricorso ad altre strutture sanitarie;
è dunque lecito effettuare la diagnosi pre-impianto qualora «sia stata richiesta dai soggetti indicati nell'articolo 14, 5 comma, legge n. 40 del 2004 (coppie di maggiorenni di sesso diverso, coniugati o conviventi, in età potenzialmente fertile, entrambi viventi), abbia ad oggetto gli embrioni destinati all'impianto nel grembo materno e sia strumentale all'accertamento di eventuali malattie dell'embrione per garantire a coloro che abbiano avuto legittimo accesso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita una adeguata informazione sullo stato di salute degli embrioni da impiantare»;
quanto espresso nell'ordinanza ribadisce i principi affermati dallo stesso tribunale di Cagliari e da quello di Firenze rispettivamente con la sentenza del 24 settembre 2007 e con l'ordinanza del 17 dicembre 2007. In quelle sedi i ricorrenti avevano ottenuto che fosse dichiarato in via cautelare il diritto ad una diagnosi genetica preimpianto al fine di trasferire e impiantare embrioni che non presentassero in forma conclamata la specifica patologia di cui erano portatori i genitori. Questi ultimi avevano ricevuto il rifiuto della struttura sanitaria alla diagnosi a seguito dell'entrata in vigore della legge n. 40 del 2004 e delle linee guida sulla procreazione medicalmente assistita di cui al decreto del Ministro della salute del 21 luglio 2004;
sebbene non abbia riguardato direttamente il tema della diagnosi pre-impianto, va anche ricordata, per le argomentazioni e i principi desumibili, la sentenza della Corte costituzionale dell'8 maggio 2009, n. 151, con la quale è stata, tra l'altro, dichiarata la incostituzionalità dell'articolo 14, comma 3, della legge 19 febbraio 2004, n. 40, nella parte in cui non prevede che il trasferimento degli embrioni debba essere effettuato senza pregiudizio della salute della donna;
nel giudizio di legittimità costituzionale, la Corte ha messo in evidenza come, dalla stessa legge n. 40 del 2004 si evinca che la tutela dell'embrione non è assoluta, ma limitata dalla necessità di individuare un giusto bilanciamento con la tutela delle esigenze di procreazione;
successivamente, il tribunale di Salerno, in data 9 gennaio 2010, ha ammesso con ordinanza la diagnosi pre-impianto sull'embrione anche per coppie fertili che presentino un rischio qualificato di trasmissione di malattie gravi e inguaribili;
lo scopo primario della diagnosi pre-impianto è infatti proprio quello di consentire ai genitori una decisione informata e consapevole in ordine al trasferimento degli embrioni ovvero al rifiuto di detto trasferimento;
ad oggi sono trascorsi sette mesi dalla pronuncia del tribunale, ma l'ospedale per le microcitemie di Cagliari non ha ancora effettuato alcuna diagnosi pre-impianto e, nonostante i ripetuti solleciti, la ASL non ha ancora attivato alcuna convenzione per affidare gli esami ad una struttura sanitaria esterna, come prescritto dall'ordinanza stessa –:
se il Ministro ritenga di attivarsi perché siano assicurati su tutto il territorio nazionale i trattamenti medici previsti dalla legge n. 40 del 19 febbraio 2004, al fine di garantire l'uguaglianza dei cittadini ed il fondamentale diritto alla salute, come previsto dagli articoli 3 e 32 della Costituzione. (4-01001)
TESTO AGGIORNATO AL 26 GIUGNO 2013
Apposizione di firme a mozioni.
La mozione Speranza e altri n. 1-00017, pubblicata nell'allegato B ai resoconti della seduta del 16 aprile 2013, deve intendersi sottoscritta anche dai deputati: Mongiello, Carra, Pastorelli.
La mozione Bonomo e altri n. 1-00097, pubblicata nell'allegato B ai resoconti della seduta del 13 giugno 2013, deve intendersi sottoscritta anche dal deputato Madia.
La mozione Boccuzzi e altri n. 1-00099, pubblicata nell'allegato B ai resoconti della seduta del 17 giugno 2013, deve intendersi sottoscritta anche dai deputati: Argentin, Mongiello.
La mozione Zan e altri n. 1-00112, pubblicata nell'allegato B ai resoconti della seduta del 21 giugno 2013, deve intendersi sottoscritta anche dal deputato Nardi.
La mozione Gitti e altri n. 1-00115, pubblicata nell'allegato B ai resoconti della seduta del 21 giugno 2013, deve intendersi sottoscritta anche dai deputati: Cimmino, Fauttilli, Gigli, Matarrese, Sottanelli, Verini, Nicoletti.
Apposizione di una firma
ad una risoluzione.
La risoluzione in Commissione Gribaudo e altri n. 7-00018, pubblicata nell'allegato B ai resoconti della seduta del 23 maggio 2013, deve intendersi sottoscritta anche dal deputato Gregori.
Apposizione di firme ad interrogazioni.
L'interrogazione a risposta in Commissione Carra n. 5-00375, pubblicata nell'allegato B ai resoconti della seduta del 18 giugno 2013, deve intendersi sottoscritta anche dai deputati: Benamati, Velo.
L'interrogazione a risposta scritta Barbanti e altri n. 4-00939, pubblicata nell'allegato B ai resoconti della seduta del 19 giugno 2013, deve intendersi sottoscritta anche dal deputato Nesci.
L'interrogazione a risposta immediata in Commissione Boccia n. 5-00391, pubblicata nell'allegato B ai resoconti della seduta del 19 giugno 2013, deve intendersi sottoscritta anche dal deputato Bobba.
L'interrogazione a risposta in Commissione Bellanova n. 5-00423, pubblicata nell'allegato B ai resoconti della seduta del 24 giugno 2013, deve intendersi sottoscritta anche dal deputato Capone.
Pubblicazione di un testo riformulato e cambio dell'ordine dei firmatari.
Si pubblica il testo riformulato della mozione Gitti n. 1-00115, già pubblicata nell'allegato B ai resoconti della seduta n. 38 del 21 giugno 2013.
La Camera,
premesso che:
il problema del sovraffollamento carcerario non riguarda solo la sfera morale e sociale della nostra democrazia, ma è interconnesso e parte del più ampio tema della giustizia e della credibilità dell'intero sistema. Poiché nulla è più contraddittorio e, alla fine, dannoso, che far vivere chi ha infranto le regole e ha già scarsamente recepito, in condizioni ordinarie di vita, il senso della legalità in una situazione di palese non corrispondenza tra quanto normativamente definito e quanto attuato e vissuto;
la Corte europea dei diritti umani di Strasburgo ha confermato la condanna dell'Italia, rigettando la richiesta per il riesame del ricorso Torreggiani davanti alla Grande Camera: la sentenza, emessa lo scorso 8 gennaio, diventa così definitiva e il nostro Paese ha un anno di tempo per trovare una soluzione al sovraffollamento carcerario e introdurre una procedura per risarcire i detenuti che ne sono stati vittime;
il procedimento giudiziario nasce dalla denuncia di sette detenuti nel carcere di Busto Arsizio e in quello di Piacenza, ai quali lo Stato dovrà pagare una somma totale di 100 mila euro per danni morali, come stabilito dai giudici europei;
questa è solo la punta dell'iceberg: la Corte ha infatti già ricevuto da altri detenuti più di 500 ricorsi che potrebbero essere tutti accolti nel caso in cui l'Italia (al terzo posto, dopo Serbia e Grecia) non riesca ad arginare il fenomeno, troppo a lungo sottovalutato, tanto da costituire una vera e propria costante ma dalle caratteristiche proprie dell’«emergenza»;
la pronuncia rappresenta uno stimolo in più per portare il sistema penitenziario a un livello di civiltà doveroso per un Paese di grandi tradizioni giuridiche e di esperienze innovative anche in campo di riabilitazione penitenziaria, e per combattere con maggiore impegno ogni situazione che possa compromettere i diritti umani del detenuto;
costituisce una critica tanto severa quanto oggettiva il messaggio che il Presidente Napolitano – rinnovando quanto già con forza espresso nella precedente Legislatura, ma non implementato dal precedente Parlamento – ha inviato il 7 giugno scorso a Giovanni Tamburino, capo del Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria, in occasione della ricorrenza del 196o anniversario della fondazione del corpo di polizia penitenziaria. Nell'esprimere un vivo apprezzamento per l’«impegno generoso» e la «sempre maggiore professionalità» con cui gli agenti adempiono alle loro funzioni e, nel sottolineare il lavoro degli operatori sempre alle prese con «situazioni di disagio, di sofferenza e di rischio che la pesante realtà carceraria comporta», il Capo dello Stato ha richiesto «decisioni non più procrastinabili per il superamento di una realtà degradante per i detenuti e per la stessa polizia penitenziaria che in essa opera, al fine di assicurare l'effettivo rispetto del dettato costituzionale sulla funzione rieducativa della pena e sul senso di umanità cui debbono corrispondere i trattamenti relativi all'espiazione delle condanne penali»;
sul tema è intervenuto recentemente il Ministro della Giustizia che ha definito i nostri istituti indegni di uno Stato moderno; secondo la Cancellieri «per risolvere il problema non bastano nuove carceri, ma bisogna ripensare il sistema delle pene, valutando se ci sono spazi per quelle alternative»;
si rafforza anche a livello governativo la convinzione che per reati di lieve entità commessi da persone non socialmente pericolose occorre trovare un sistema di pene alternativo, non incentrato solamente sulla reclusione nel sistema penitenziario;
in una sentenza del 16 luglio 2009, la Corte europea dei diritti dell'uomo ha condannato per la prima volta l'Italia per violazione dell'articolo 3 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali (divieto di tortura e delle pene inumane e degradanti), proprio in ragione delle condizioni di sovraffollamento sopra descritte (un'altra estate si avvicina, con il suo carico di docce che non funzionano, letti fino al soffitto nelle celle, temperature elevate, coabitazione forzata);
secondo gli standard di riferimento utilizzati dalla Corte di Strasburgo, ogni detenuto ha diritto a 7 metri quadrati di spazio in cella singola e 4,5 metri quadrati in quella multipla, una condizione che non è oggi rispettata in numerosi istituti di pena sparsi sul territorio nazionale, a causa del sovraffollamento, e che ancor quando tali spazi esistano, a volte sono stati ricavati dall'uso improprio e a scapito degli spazi per la ricreazione e le attività riabilitative: questa è la ragione per cui il nostro Paese è stato condannato al risarcimento di mille euro per aver inflitto un danno morale al cittadino bosniaco Sulejmanovic, un rom condannato per furto nel 2002;
dati forniti dal Ministero (aggiornati al 10 giugno scorso) rilevano che sono 65.891 (1.176 internati, 40.118 condannati, 24.697 in attesa di giudizio) i detenuti presenti, molti di più dei 47.040 posti disponibili nelle 206 prigioni italiane, con più di un istituto di pena con tassi di sovraffollamento superiori al 100 per cento. Ciò con grave pregiudizio delle condizioni di base, anche sanitarie, e una promiscuità che ha favorito il proliferare di malattie infettive, una vera e propria emergenza sanitaria per tutti coloro che vivono e lavorano in carcere;
stando a numerose segnalazioni degli operatori del settore, sempre maggiori difficoltà si incontrano nel garantire continuità di cure ai malati oncologici, che hanno bisogno di trasporto all'esterno dell'istituto di pena, per carenza di personale;
quanto denunciato costituisce, ad avviso dei firmatari del presente atto di indirizzo, una palese violazione dei principi della Carta costituzionale, in particolare dell'articolo 32, che tutela la salute come «fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività» e dell'articolo 27, secondo il quale «le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato»;
anche l'articolo 1 della legge 26 luglio 1975 sull'Ordinamento penitenziario stabilisce che «Il trattamento penitenziario deve essere conforme ad umanità e deve assicurare il rispetto delle dignità della persona. Il trattamento è improntato ad assoluta imparzialità, senza discriminazioni in ordine a nazionalità, razza e condizioni economiche e sociali, a opinioni politiche e a credenze religiose (...). Nei confronti dei condannati e degli internati deve essere attuato un trattamento rieducativo che tenda, anche attraverso i contatti con l'ambiente esterno, al reinserimento sociale degli stessi. Il trattamento è attuato secondo un criterio di individualizzazione in rapporto alle specifiche condizioni dei soggetti»;
questi numeri rappresentano il segno di una crisi che i tanti impegni annunciati non sono riusciti a scalfire, lasciando i detenuti italiani in condizioni di vivibilità al limite della sopportazione. In aggiunta, l'attuale sovraffollamento, che non corrisponde in alcun modo ad un aumento dei reati di maggiore pericolosità sociale o violazione della vita umana – che al contrario vedono l'Italia tra i paesi europei in cui la crescita di questa curva appare meno preoccupante – assieme a una fase di minori disponibilità finanziarie, ha portato a una riduzione drastica anche dei fondi disponibili per il vitto di ogni detenuto, scesi a meno di quattro euro al giorno, e dimezzati nell'arco di pochi anni;
le nostre prigioni sono anguste, spesso malsane, non di rado antiche e di costosa manutenzione, focolaio di violenza e sopraffazione, vi avvengono suicidi e morti misteriose, non c’è lavoro se non in misura modesta e non vengono generalizzate le esperienze di eccellenza esistenti in alcuni istituti penitenziari, né si rivela sufficiente nella situazione presente l'occasione di rieducazione: in questa situazione il confine fra disagio personale e oggettivo, pressioni, mancata tutela e induzioni a gesti estremi diventa labilissimo;
l'invivibilità del carcere – indipendentemente dalle necessità della pena stabilità – rappresenta una pena aggiuntiva non sancita dal codice penale; in situazioni in cui la sofferenza dell'intero sistema carcerario, denunciata dagli operatori in prima linea ogni giorno, porta spesso a scegliere – in assenza di mezzi e spazi e strumenti più sofisticati – l'isolamento come risposta a chi è meno in grado di sopportare determinate situazioni o è considerato un elemento pericoloso;
acutizza o provoca anche patologie psicofisiche che contribuiscono a determinare le condizioni estreme – e misteriose nella genesi individuale, ma non misteriose come spia di un disagio abnorme che incoraggia gesti estremi e autodistruttivi – che portano molti, troppi detenuti allo sciopero della fame e della sete, in via ordinaria, e al suicidio: 84 suicidi accertati ufficialmente negli ultimi 18 mesi, e più di 150 detenuti che sono morti nello stesso periodo durante la detenzione per altre cause, nonostante non esistano che in numero irrisorio detenuti in età davvero avanzata, mostrano un dato inquietante. Quasi che per alcuni sottoposti a pena carceraria la detenzione stessa, a causa di queste condizioni deteriorate, rischi di diventare una «pena di morte» non comminata ma reale, nel Paese che guida da tempo la battaglia internazionale per l'abolizione della pena capitale. È un fenomeno drammatico, che colpisce anche le guardie carcerarle, di cui si registra un suicidio ogni 10 suicidi accertati di detenuti, e che non può non interrogare, come pure l'aumento degli episodi di aggressione, con personale in difficoltà in un ambiente degradato;
come se non bastasse, da qualche anno i detenuti sono quasi privi di assistenza psicologica: le persone che lavorano in tutte le 206 carceri italiane sono in grado di offrire soltanto tre ore di trattamento annuo, compreso il tempo per la lettura dei fascicoli e le riunioni;
un altro dato ancora più inquietante è che nei sedici asili nido funzionanti negli istituti penitenziari stanno crescendo quasi 50 bambini sotto i tre anni di età, figli di detenute, mentre circa una trentina di donne sta trascorrendo i mesi di gravidanza in cella: una situazione che, come ha dimostrato uno studio condotto nel 2008 nel nido del carcere di Rebibbia, può avere gravi conseguenze sul nascituro;
non può non rilevarsi l'urgenza anche di una regolamentazione delle caratteristiche delle case famiglia protette, strutture d'accoglienza equivalenti per gli aspetti di base all'abitazione privata, dove le madri prive di domicilio possono scontare la pena con i bambini fino ai 10 anni. La legge precisa che non è previsto nessun onere a carico dell'amministrazione penitenziaria per tali strutture, mentre per gli ICAM si prevede un piano investimenti di 11,7 milioni di euro. In un'ottica di mantenimento della relazione madre-bambino anche quando questa è detenuta, come stabilito dalla Convenzione dei diritti dell'infanzia, queste strutture sono certamente la soluzione migliore per tutelare l'interesse superiore del minore, ma è fondamentale che dispongano di fondi adeguati;
la Camera dei deputati aveva già approvato, nella seduta del 12 gennaio 2010, una mozione volta, tra l'altro, ad impegnare il Governo ad istituire un organo di monitoraggio indipendente di controllo sui luoghi di detenzione, in linea con quanto stabilito dal protocollo addizionale alla Convenzione Onu contro la tortura ed a stipulare accordi internazionali volti a consentire l'esecuzione della pena presso i Paesi di provenienza dei condannati stranieri;
il 24 giugno il Parlamento voterà il ddl sulla cosiddetta «messa alla prova»: un meccanismo che consente una giustizia «risarcitoria» (lavori socialmente utili al posto di un processo e poi di una condanna detentiva), nonché una possibilità offerta agli imputati di reati con pene fino a quattro anni, nonché di quelli a «citazione diretta». E il provvedimento si è arricchito di un capitolo sugli arresti domiciliari, prevedendo che il giudice al termine di un processo avrà in futuro tre possibilità tra cui scegliere: pena pecuniaria, pena detentiva, pena domiciliare;
si tratta, insieme anche al decreto «sfolla-carceri» (che sarà licenziato prossimamente dal Consiglio dei ministri) di iniziative di buon senso, e nella giusta direzione, ma che non spostano in maniera rilevante l'impatto numerico dei reclusi;
i provvedimenti in esame costituiscono, infatti, soltanto una buona base di partenza, in attesa di ulteriori, efficaci e definitive misure tese alla soluzione dell'emergenza carceraria ed alla individuazione di strumenti deflattivi del carico di lavoro dei giudici. Pur condividendo la scelta di utilizzare lo strumento della delega per disciplinare la delicata materia delle pene detentive non carcerarie, si profila necessaria l'instaurazione tra Parlamento e Governo di un fattivo rapporto di collaborazione volto a definire un più ampio spettro di interventi;
in proposito, bisognerebbe evitare di assumere un'ottica meramente emergenziale e far seguire ai rimedi immediati riforme di ampia portata, come la revisione della custodia cautelare in carcere, la revisione radicale della ex-Cirielli (che, attraverso i limiti imposti all'accesso ai benefici penitenziari per i recidivi reiterati è una delle cause del sovraffollamento), la modifica della legge Fini-Giovanardi, – rinviata peraltro alla Consulta per giudicarne profili di incostituzionalità accertati come non manifestamente infondati dalla Corte di Cassazione – (correggendo la rotta sulle tossicodipendenze che non possono essere trattate come una questione di ordine pubblico), e che, da sola, è responsabile del 33 per cento delle detenzioni, quando in Paesi come Francia e Germania non si supera il 14,5 per cento del numero dei detenuti per i medesimi reati, nuove modalità di trattamento come la custodia attenuata e l'attuazione del piano carceri;
secondo le stime del Ministero dell'interno, negli ultimi anni i reati principali sono diminuiti del 5,1 per cento, ma si è avuto un significativo aumento degli arresti del 7 per cento. E sono noti i dati per cui circa il 67 per cento di coloro che scontano l'intera sentenza tornano in carcere, mentre il numero di quanto si sono rivelati recidivi tra chi ha goduto dell'indulto si scende a poco più del 30 per cento e largamente al di sotto al 20 per cento tra quanti sono stati raggiunti dall'indulto mentre già godevano del regime di benefici e misure alternative al carcere;
queste considerazioni mettono in luce come non servono quindi soluzioni tampone ma sono necessari interventi di sistema, per risolvere una volta per tutte le «emergenze»: occorre tradurre nei fatti le dichiarazioni di intenti e, di fronte agli enormi rischi delle proteste in atto, va garantito subito lo stanziamento di nuovo personale per consentire il normale funzionamento delle strutture e condizioni dignitose agli operatori del settore;
con questi numeri, infatti, pesano le unità, le centinaia, le migliaia di agenti sottratti ai loro compiti principali per essere dirottati su mansioni amministrative o di servizio agli uffici; già nel 2011 il Sottosegretario per la giustizia pro tempore Alberti Casellati, nel ribadire l'importanza del ruolo degli agenti penitenziari, affermò che: «il carcere è una primaria esigenza di ciascuna società e bisogna rivolgere particolare attenzione al ruolo della polizia all'interno della casa circondariale, una risorsa primaria e strategica per il reintegro del detenuto e del suo diritto alla tutela della salute»;
tra i temi indagati dalla Corte dei conti vi è proprio quello dell'utilizzo del personale di polizia penitenziaria, spesso impiegato impropriamente. «Sul piano gestionale», scrive la Corte, «e prescindendo da qualunque considerazione di legittimità dei singoli provvedimenti di comando e distacco, è ovvio dubitare che risponda a criteri di efficienza, efficacia ed economicità la sottrazione dai compiti da svolgere negli istituti penitenziari di un così elevato numero di appartenenti al Corpo»;
il Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria (Dap) ha depositato alla Camera la relazione annuale sullo stato dell'edilizia penitenziaria e sullo stato del piano carceri, quest'ultimo oramai risalente al 19 marzo 2010; si registra ancora uno stallo nella costruzione di nuovi istituti di pena, dal momento che centinaia di milioni sono stati bloccati e i cantieri non vanno avanti;
tra i vecchi progetti ancora irrealizzati vi sono, ad esempio, le carceri di Forlì, Rovigo e Savona: le prime due sono state progettate e iniziate a costruire svariati anni fa, la terza è addirittura solo sulla carta per problemi con le imprese appaltatrici;
per quanto riguarda il piano carceri, si legge nella relazione ministeriale che, rispetto agli originari 11 istituti e 20 padiglioni, si è passati, a causa dei tagli alle risorse, a 4 istituti (Torino, Catania, Pordenone e Camerino) e 16 padiglioni (Lecce, Taranto, Trapani, Milano Opera, Sulmona, Vicenza, Siracusa, Ferrara, Parma, Bologna, Roma Rebibbia, Trani, Bergamo, Caltagirone, Reggio Emilia, Napoli Secondigliano) per complessivi 5.400 posti letto e 368,7 milioni di euro. In merito al completamento e al recupero di strutture non complete o chiuse, le gare di assegnazione sono state per lo più espletate, ma nessun passo avanti è stato fatto in questa direzione;
come già precedentemente osservato, l'Italia entro il 27 maggio 2014, così come ha sentenziato la Corte europea dei diritti umani (Cedu), dovrà trovare 30 mila posti letto oppure scarcerare 30 mila persone, salvo non voglia incorrere in centinaia di condanne che le costeranno milioni di euro di risarcimenti,
impegna il Governo:
a stabilire, oltre la condivisibile avviata rivitalizzazione delle misure alternative, rapidi ed opportuni provvedimenti che riducano il sovraffollamento nelle nostre carceri, attraverso la modifica della normativa che incide maggiormente sulla produzione dei flussi di ingressi (ad esempio, la legge ex-Cirielli, la legge Fini-Giovanardi, per alcune parti la legge Bossi-Fini, e altro); la revisione della custodia cautelare; la previsione della non punibilità o della riduzione delle pene per chi commette fatti di particolare tenuità;
a procedere, con iniziativa del Ministero della salute (con la conferenza degli assessori delle regioni) a 5 anni dal decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, alla verifica dello stato di attuazione nelle regioni della riforma che trasferisce alle regioni la cura dei detenuti decretandone la piena uguaglianza con gli altri cittadini, considerato che, ad esempio, tale riforma a tutt'oggi non è ancora stata recepita in Sicilia (di fatto la «salute» e gli «operatori» sono pagati dal DAP che però non ha più capitolo economico), e che permane di fatto un doppio binario che la riforma voleva superare con livelli di cura omogenei per tutti i detenuti e operatori nelle 206 carceri italiane, da nord a sud, secondo il principio costituzionale, considerato che tra le «non applicazioni della riforma» a tutt'oggi mancano dati nazionali e regionali sulle patologie presenti/prevalenti in carcere, non è attuato un sistema di monitoraggio e controllo, informatizzazione delle cartelle cliniche, sul numero dei tossicodipendenti presi in carico, avviati nelle comunità terapeutiche, o dati sulla incidenza della salute mentale;
ad adottare iniziative normative per introdurre procedure facilitate e, dunque, anche in deroga rispetto alla disciplina ordinaria – per l'ammissione a benefici e a misure alternative dei detenuti che si trovino in una condizione, non altrimenti risolvibile dall'amministrazione, di sovraffollamento carcerario e sulle quali sia comunque espresso il parere favorevole, caso per caso, del giudice di sorveglianza;
a tutelare i diritti umani e la dignità delle persone recluse, istituendo forme di controllo indipendente degli istituti (accertandone la vivibilità anche dal punto di vista igienico-sanitario), promuovendo la dotazione di strutture e personale idonei ad assicurare un'adeguata assistenza psicologica ai reclusi, progetti mirati di sostegno educativo e sociale (attraverso la creazione di centri di ascolto, la predisposizione di misure di particolare attenzione nelle prime fasi della detenzione, la limitazione e il controllo dell'isolamento disciplinare), nonché percorsi di formazione e lavoro necessari per assicurare una nuova vita dopo il carcere: ciò, al fine di contrastare i suicidi, la violenza, la soggezione tra gli stessi e agire in maniera efficace per il reinserimento sociale e la drastica riduzione della recidività a causa della creazione di adeguate reti di accoglienza e supporto sociale al di fuori del carcere;
a facilitare iniziative normative per un ordinamento penitenziario specifico per i minori, essendo questa una riforma ormai improrogabile, sollecitata più volte anche dalla stessa Corte costituzionale;
ad adeguare in maniera costante gli organici del personale dell'amministrazione penitenziaria (Corpo di polizia penitenziaria e personale educativo in primis) alle reali necessità degli istituti e dell'esecuzione penale «esterna», nonché assicurare il rispetto dei diritti inalienabili, non sempre invece garantiti: equa retribuzione, ferie, riposo settimanale;
a promuovere la costruzione di nuovi istituti, la riapertura o la riqualificazione di quelli già esistenti;
a reperire in accordo con le regioni, le risorse economiche da destinare al funzionamento delle case famiglia protette, nonché per vincolare l'utilizzo dei fondi della Cassa delle ammende per l'assistenza dei detenuti, la crescita dei percorsi di semi-libertà, il lavoro all'interno e fuori del carcere, le misure alternative, individuando altrove i fondi necessari per le strutture penitenziarie vecchie e nuove.
(1-00115)
«Gitti, Marazziti, Schirò Planeta, Piepoli, Mazziotti Di Celso, Binetti, Causin, Cimmino, Fauttilli, Gigli, Matarrese, Monchiero, Santerini, Sberna, Sottanelli, Verini, Giachetti, Nicoletti».
Ritiro di documenti del sindacato ispettivo.
I seguenti documenti sono stati ritirati dai presentatori:
interrogazione a risposta in Commissione Faenzi n. 5-00243 del 4 giugno 2013;
interrogazione a risposta scritta Boccadutri n. 4-00880 del 17 giugno 2013;
interrogazione a risposta in Commissione Cecconi n. 5-00406 del 20 giugno 2013.
(Si veda anche l'errata corrige pubblicato nel resoconto del 26 giugno 2013).
ERRATA CORRIGE
Interrogazione a risposta scritta Baldassarre e altri n. 4-00887 pubblicata nell'Allegato B ai resoconti della Seduta n. 34 del 17 giugno 2013. Alla pagina 2245, seconda colonna, alla riga ventisettesima, deve leggersi: «al 31 dicembre 2011 –:» e non «al 31 dicembre 2012 –:», come stampato.
INTERROGAZIONI PER LE QUALI È PERVENUTA RISPOSTA SCRITTA ALLA PRESIDENZA
DI GIOIA. — Al Ministro dello sviluppo economico, al Ministro dell'economia e delle finanze. — Per sapere – premesso che:
la scelta di «Poste Italiane» di sopprimere numerosi uffici postali in Sardegna rischia di creare un forte disagio, soprattutto nelle aree più periferiche, in una realtà già fortemente penalizzata in quanto a servizi;
tale decisione, presa in assenza di un qualsiasi confronto con la comunità e le istituzioni locali, si è basata esclusivamente su un piano di razionalizzazione dei costi senza tenere, in alcuna considerazione, il ruolo di servizio che «Poste Italiane» dovrebbero svolgere;
tra la popolazione, chi sarà fortemente colpito saranno gli anziani che, spesso, ritirano la pensione presso il proprio paese di residenza e che, adesso, si troveranno costretti a lunghi spostamenti, in una realtà caratterizzata da una scarsa presenza di collegamenti;
tale operazione, che fa il paio con quella che ha portato alla chiusura di molte scuole in centri periferici, non farà altro che determinare un ulteriore allontanamento dai piccoli centri, con gravi conseguenze per quanto riguarda la possibilità di uno sviluppo equilibrato dell'intera isola –:
se non si ritenga urgente e necessario, per quanto di competenza, intervenire, anche attraverso la costituzione di un tavolo di confronto con «Poste Italiane», aperto alle amministrazioni locali e regionali e alle organizzazioni sindacali, affinché sia rivisto e quantomeno limitato il piano di riorganizzazione previsto dall'azienda sull'isola, al fine di evitare nuovi disservizi e difficoltà a una popolazione già privata di altri importanti servizi pubblici. (4-00065)
Risposta. — In riscontro all'interrogazione in esame, si premette che il riassetto della rete territoriale degli uffici postali, così come del resto il riordino del settore del recapito, rientra nel più ampio piano strategico di riorganizzazione aziendale che la società Poste italiane sta realizzando, in adeguamento della propria attività di impresa alle sostanziali innovazioni del mercato postale, conseguenti alle prescrizioni europee che ne prevedono la piena liberalizzazione (direttiva n. 2008/06/CE recepita con decreto legislativo 31 marzo 2011, n. 58), nonché all'evoluzione del processo di digitalizzazione delle comunicazioni, anch'essa di derivazione comunitaria comportante la progressiva riduzione dei tradizionali volumi postali.
Per quanto concerne il riassetto della rete territoriale degli uffici postali, si evidenzia che la predisposizione del piano degli interventi sulle strutture diseconomiche costituisce uno specifico obbligo a cui Poste italiane adempie in ottemperanza alle disposizioni del contratto di programma stipulato con il Ministero dello sviluppo economico. Gli stessi interventi sono diretti esclusivamente a riequilibrare l'offerta alla domanda dei servizi, correggendo le diseconomie riscontrate nella gestione della rete in determinati punti del territorio, nel costante rispetto degli obblighi di servizio universale.
L'effettiva implementazione del citato piano degli interventi è subordinata ad un confronto con le istituzioni locali ed è soggetto al vaglio dell'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni (Agcom), che in qualità di autorità di regolamentazione del settore postale, vigila sul rispetto degli obblighi di servizio universale.
A tal riguardo, si precisa che l'attuale quadro normativo impone al fornitore del servizio postale universale, ai sensi del decreto ministeriale 7 ottobre 2008 recante «Criteri di distribuzione dei punti di accesso alla rete pubblica», precisi obblighi di presenza territoriale che garantiscono la fruibilità e la continuità del servizio anche nelle realtà territoriali più remote e disagiate, a prescindere da valutazioni di tipo economico.
Ciò premesso, per quanto concerne in particolare gli interventi previsti nel Piano 2012 per la Regione Sardegna, la società Poste italiane ha comunicato che, a seguito delle necessarie valutazioni e, tenuto conto anche delle istanze delle amministrazioni locali e dei confronti con le organizzazioni sindacali, sono stati attuati solo quattro dei nove provvedimenti di chiusura originariamente inseriti nel piano (tre nella provincia di Cagliari ed uno in quella di Sassari). Anche gli interventi di razionalizzazione degli orari di apertura degli uffici sono stati ridotti a dieci, rispetto ai quattordici pianificati. Pertanto, gli uffici postali attualmente attivi nel territorio sardo sono in totale 446.
L'azienda ha, altresì, evidenziato che tutte le iniziative citate sono state preventivamente comunicate ai sindaci dei comuni interessati e che risultano rispettose dei vincoli di cui al citato decreto ministeriale 7 ottobre 2008.
Per completezza di informazione si rappresenta, infine, che l'Agcom, nell'ambito della propria attività di vigilanza, nella consapevolezza della necessità di evitare che dalla chiusura degli uffici postali possano derivare danni ingiustificati per gli utenti, ha avviato in data 21 marzo 2013, un procedimento istruttorio volto a valutare la congruità dei criteri di distribuzione dei punti di accesso alla rete postale attualmente vigenti, e l'opportunità di una loro eventuale modifica e/o integrazione, al fine di assicurare alla popolazione una regolare ed omogenea fruizione del servizio universale sul territorio nazionale, incluse le situazioni particolari delle isole minori e delle zone rurali e montane.
Il Viceministro dello sviluppo economico: Antonio Catricalà.
DI VITA, DI BENEDETTO, GRILLO, RIZZO, BARBANTI, PARENTELA, LOMBARDI, D'AMBROSIO, MASSIMILIANO BERNINI, ZACCAGNINI, PAOLO BERNINI, DE LORENZIS, BUSINAROLO, BARONI, DAGA, LIUZZI, TOFALO, ARTINI, D'UVA, COLONNESE, SPADONI, NUTI, VILLAROSA, VACCA, DEL GROSSO, CECCONI e NESCI. — Al Presidente del Consiglio dei ministri, al Ministro del lavoro e delle politiche sociali, al Ministro della salute. — Per sapere – premesso che:
secondo i dati del rapporto Ansa-Eures sono 2061 le donne uccise in Italia dal 2000 al 2011, 7 su 10 dal proprio partner o conoscente, di cui circa la metà nella fascia di età compresa tra i 25 e i 54 anni, ovvero giovani donne e madri di famiglia, e il trend si mantiene tragicamente costante dal 2010 ad oggi, registrando 124 donne uccise nel 2012, e già 15 nei primi due mesi del corrente anno;
nel 40 per cento dei casi, come emerge dallo studio della «Casa delle donne per non subire violenza» di Bologna, le vittime erano state oggetto di precedenti episodi di violenza da parte del proprio carnefice e il 15 per cento aveva presentato denuncia per stalking;
secondo i dati dell'Istat nel 2011 sei milioni di donne hanno subito violenze fisiche e sessuali, il 69,7 per cento degli stupri a opera del partner, e dato ancora più allarmante, il 95 per cento delle vittime non denuncia la violenza subita;
secondo l'Osservatorio nazionale stalking le denunce per stalking hanno registrato un calo del 25 per cento nel 2011;
nel 2012 l'Italia è scesa dal 74° all'80° posto nella classifica del «Gender Gap Report» sulla condizione delle donne nel mondo stilata dal World Economic Forum;
è stato approvato il piano nazionale contro la violenza di genere e lo stalking dall'allora Ministero delle pari opportunità in data 11 novembre 2010;
il Governo ha ratificato la convenzione del Consiglio d'Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica in data 12 dicembre 2012;
a fronte dei 5.700 posti letto necessari per le donne italiane in pericolo (secondo una delle raccomandazioni del Consiglio d'Europa) ne sono in realtà presenti sul territorio nazionale 500, ovvero oltre dieci volte al di sotto del numero ritenuto idoneo;
l'Italia è, tra i Paesi europei, agli ultimi posti per contrasto al fenomeno della violenza di genere, infatti il report di Rashida Manjoo, relatore speciale sulla violenza contro le donne delle Nazioni Unite in visita nel nostro Paese nel 2012, ha condannato pesantemente l'Italia rilevando che «Femmicidio e femminicidio sono crimini di Stato tollerati dalle pubbliche istituzioni per incapacità di prevenire, proteggere e tutelare la vita delle donne, che vivono diverse forme di discriminazioni e di violenza durante la loro vita»;
non sono attualmente disponibili da parte degli enti governativi studi univoci sul fenomeno della violenza sulle donne a partire dall'approvazione del piano nazionale contro la violenza e lo stalking ad oggi –:
se non ritenga di dover accertare quali misure contenute nel piano nazionale contro lo violenza di genere e lo stalking siano state realmente realizzate finora, quali siano gli effettivi progressi ottenuti dall'attuazione dello stesso e in che modo se ne monitori l'applicazione. (4-00197)
Risposta. — Mi riferisco all'interrogazione in esame concernente la prevenzione della violenza posta in essere nei confronti delle donne.
In primo luogo, segnalo che la costruzione di azioni volte a combattere qualsiasi forma di violenza posta in essere nei confronti delle donne rientra tra le priorità delle iniziative che intendo attuare nel corso del mio mandato, così come ho avuto modo di sottolineare nel corso dell'audizione sulle linee programmatiche del mio Dicastero in materia di pari opportunità svoltasi dinanzi alle Commissioni riunite I e XI della Camera dei deputati il 5 giugno 2013.
Sin dall'inizio, invero, ho rivolto particolare attenzione al fenomeno della violenza contro le donne sostenendo il progetto di legge di ratifica della convenzione del Consiglio d'Europa contro la violenza sulle donne e la violenza domestica che, a seguito dell'approvazione unanime presso la Camera dei deputati, nel corso della seduta del 28 maggio 2013, è ora all'esame del Senato, ove auspico possa essere al più presto approvato.
Consapevole dell'importanza del fenomeno, ho incontrato il 22 maggio 2013, nel corso di un «Audit nazionale sulla violenza di genere», le istituzioni e le associazioni impegnate a livello nazionale e locale nella prevenzione e nel contrasto della violenza contro le donne, in quanto, come ho avuto modo di ribadire in diverse sedi, ritengo necessario perseguire una linea d'azione coordinata e condivisa che affronti tale tematica in modo organico ed in sinergia con i principali attori coinvolti.
Con particolare riguardo a quanto richiesto dall'interrogante circa l'effettiva realizzazione delle azioni previste nel primo piano nazionale contro la violenza di genere e lo stalking, adottato nel novembre 2010, segnalo che, nel corso del 2012, il Dipartimento per le pari opportunità, attraverso avvisi pubblici ed apposite campagne di comunicazione, ha destinato circa 18 milioni di euro all'attuazione di quanto previsto nel citato piano.
In particolare, con un primo avviso pubblico, sono stati concessi contributi finanziari, per un totale di tre milioni di euro, a favore di 24 progetti presentati dai comuni finalizzati alla costituzione ed al potenziamento delle reti antiviolenza locali. Un secondo avviso pubblico del valore di 10 milioni di euro è stato rivolto direttamente ai centri antiviolenza che accolgono le donne vittime di abusi e i loro figli minori, mentre con un terzo avviso, di importo pari a un milione e settecentomila euro, si è inteso privilegiare la formazione degli operatori sanitari che svolgono attività di prima accoglienza alle vittime di violenza sessuale e domestica.
Desidero, altresì, ricordare che, dal 2006, è attivo presso il Dipartimento per le pari opportunità il numero verde di pubblica utilità «1522» dedicato alla ricezione ed alla gestione di ogni segnalazione, denuncia o testimonianza su fatti, eventi, realtà, procedure ed azioni relative a violenza di genere nonché allo stalking.
Nell'ultimo trimestre (gennaio-marzo 2013), le persone che si sono rivolte al 1522 sono state circa 13.839, di cui 7.492 donne e 2.089 uomini (in 4.238 casi non è stato possibile identificare il sesso dell'interlocutore telefonico). Il 17,9 per cento delle telefonate ha avuto ad oggetto richieste di aiuto effettuate da parte delle vittime di violenza, nel 4,5 per cento si è trattato di segnalazioni di casi di violenza e nel 3,5 per cento dei casi si è trattato di richieste di aiuto provenienti da vittime di atti persecutori. Nel 90,6 per cento dei casi l'autore della violenza è un uomo e nel 40,82 per cento dei casi si tratta del marito della vittima. All'interno del campione delle vittime di violenza che si sono rivolte al 1522, sottolineo che il 66,49 per cento dichiara di avere figli che, nel 37,05 per cento dei casi, assistono alla violenza subita dalla loro madre.
Fra le azioni di informazione e sensibilizzazione poste in essere dal Dipartimento per le pari opportunità, ricordo la realizzazione, a partire dal 2009, della «Settimana contro la violenza», giunta ormai alla sua IV edizione (5-11 novembre 2012), nel corso della quale le scuole di ogni ordine e grado promuovono, attraverso corsi rivolti a docenti, discenti e genitori, iniziative di sensibilizzazione, informazione e formazione sulla prevenzione della violenza fisica e psicologica.
Considerata, inoltre, l'importanza di disporre di dati completi concernenti il fenomeno della violenza contro le donne, il Dipartimento per le pari opportunità ha stipulato nel 2012 una convenzione con l'Istat per la realizzazione di una nuova indagine nazionale sulla «Sicurezza delle donne». Sempre al fine di migliorare la qualità e quantità dei dati disponibili, il Dipartimento ha altresì siglato, nel corso del 2012, una nuova convenzione con l'Arma dei Carabinieri per la creazione di una banca dati che consenta al Dipartimento per le pari opportunità un più accurato monitoraggio dei servizi effettivamente erogati dalle strutture aderenti alla rete antiviolenza del numero di pubblica utilità 1522 e dalle strutture che hanno ricevuto contributi dal Dipartimento.
Infine, in merito a quanto richiesto dall'interrogante circa le modalità di monitoraggio delle azioni realizzate in esecuzione del Piano nazionale contro la violenza di genere e lo stalking, come ho avuto modo di riferire nel corso della già citata audizione sulle linee programmatiche in materia di pari opportunità, è mia intenzione costituire un osservatorio nazionale sulla violenza di genere e sullo stalking che raccolga, secondo strumenti di rilevazione omogenei e confrontabili: i dati uniformi in linea con quanto richiesto anche dall'Unione europea; i dati sugli andamenti dei percorsi giudiziari e sulle sentenze; la valutazione del funzionamento e dell'efficacia delle leggi vigenti; la raccolta, il confronto e la valutazione delle best practices sulla violenza ai vari livelli di governo; una prima ricognizione sui centri per il recupero degli uomini violenti e maltrattanti.
A tal fine, auspico anche il rafforzamento del lavoro del Comitato di monitoraggio sulla valutazione e l'efficacia del primo piano nazionale.
Le risultanze del monitoraggio effettuato consentiranno di iniziare, altresì, i lavori per la predisposizione del nuovo piano nazionale contro la violenza di genere e lo stalking.
Il Ministro per le pari opportunità, lo sport e le politiche giovanili: Josefa Idem.
(Risposta del Governo del 7 giugno 2013)
La Camera,
premesso che:
la tutela e la sicurezza del territorio italiano, unitamente alla tutela delle acque, rappresentano un interesse prioritario della collettività; il suolo è una risorsa ambientale non riproducibile, la cui trasformazione produce effetti permanenti su ambiente e paesaggio;
la fragilità del territorio italiano è documentata e sempre più evidente: i dati forniti dal Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare, sul finire della XVI legislatura, classificano circa il 10 per cento del territorio nazionale ad elevata criticità idrogeologica, ossia a rischio di alluvioni, frane e valanghe; i due terzi delle aree esposte a rischio riguardano i centri urbani, le infrastrutture e le aree produttive; più in generale e con diversa intensità, il rischio di frane e alluvioni riguarda tutto il territorio nazionale: l'89 per cento dei comuni è soggetto a rischio idrogeologico e 5,8 milioni di italiani vivono sotto tale minaccia;
alla particolare conformazione geologica del territorio italiano, alla fragile e mutevole natura dei suoli che lo compongono ed all'acuirsi delle variazioni climatiche estreme non è stata contrapposta una tutela specifica dalla forte pressione antropica che si registra nel nostro Paese: l'Italia è, infatti, un Paese fortemente antropizzato, con una densità media pari a 189 abitanti per chilometro quadrato, assai superiore alla media dell'Europa, pari a 118 abitanti per chilometro quadrato, e con fortissime sperequazioni nella distribuzione territoriale;
secondo i dati Istat, il trend del consumo di suolo nel nostro Paese è cresciuto a ritmi impressionanti, pari a 244.000 ettari all'anno di suolo divorato da cemento ed asfalto; si è assistito, negli ultimi decenni, ad una crescita continua dell'urbanizzazione, al diffondersi di una cementificazione spesso incontrollata, all'artificializzazione di corsi d'acqua minori, di fiumare e di canali e alla sottrazione di aree libere, agricole e boschive, quali presidi per la tenuta del territorio italiano, di cui si paga un prezzo altissimo ogni qualvolta, sul nostro Paese, si abbattono piogge particolarmente intense;
l'assenza di un'adeguata pianificazione territoriale, da parte degli stessi enti preposti alla gestione del territorio, ed il ricorso improprio agli oneri di urbanizzazione, quale fonte prioritaria di finanziamento per i bilanci comunali, hanno spesso privato il «bene suolo» del suo valore pubblico, riducendolo ad un mero serbatoio da cui attingere risorse;
la pratica dell'abusivismo ha minato la creazione di una cultura diffusa in materia di sicurezza del territorio, di rispetto delle regole e di salvaguardia del suolo come risorsa per le generazioni future;
l'assenza di un'adeguata pianificazione territoriale, unita a una cementificazione incontrollata, ha prodotto una rilevante perdita di terreni per la produzione agricola, che, insieme alla desertificazione e all'improduttività dei suoli, sono fattori di rischio per gli equilibri ambientali;
gli eventi alluvionali che hanno colpito anche in queste ultime settimane i territori dell'Emilia-Romagna e della Liguria, e ripetutamente nei mesi passati anche la Toscana, le Marche, il Veneto, la Campania e la Sicilia, dimostrano quanto il problema del dissesto idrogeologico non sia più catalogabile nella logica dell'emergenza, per la frequenza degli eventi e per la gravità delle ricadute prodotte sui sistemi territoriali coinvolti;
ciò nonostante, nella gestione delle risorse pubbliche per la tutela dell'ambiente si evidenzia un deficit di pianificazione e programmazione con una spesa improduttiva e molte volte dirottata su altre finalità; uno studio dell'Associazione artigiani e piccole imprese Mestre (Cgia) ha indicato che solo l'1,1 per cento delle imposte «ecologiche» sull'energia, sui trasporti e sulle attività inquinanti, pagate dai cittadini allo Stato e agli enti locali, è destinato alla protezione dell'ambiente; il 98,9 per cento va a coprire altre voci di spesa;
più in generale, occorre sottolineare come la politica di tutela del territorio continua a destinare la gran parte delle risorse disponibili, che restano comunque scarse, all'emergenza, anziché ad un'effettiva opera di prevenzione e messa in sicurezza del territorio, che è l'unico modo per prevenire danni economici e perdite di vite umane inaccettabili; ad esempio, a fronte di un finanziamento di cui alla legge n. 183 del 1989 per la difesa «strutturale» del suolo, pari a soli 2 miliardi di euro negli ultimi 20 anni, sono stati spesi ben 213 miliardi di euro per arginare le mille emergenze che si sono verificate: 161 miliardi di euro per coprire i danni provocati dai terremoti e 52 miliardi di euro per riparare i disastri derivanti dal dissesto idrogeologico. Tra il 1999 ed il 2008, inoltre, sono stati spesi 58 miliardi di euro per la difesa del suolo, la riduzione dell'inquinamento e l'assetto idrogeologico, ma di questi oltre il 50 per cento è stato assorbito dalle spese di parte corrente e solo 26 miliardi di euro sono stati destinati ad investimenti per la prevenzione dei rischi;
gli stanziamenti ordinari riguardanti la difesa del suolo e il rischio idrogeologico, iscritti nei bilanci di previsione degli ultimi anni, indicano pesanti riduzioni di risorse, facendo venir meno la certezza di poter disporre delle risorse necessarie a favore di politiche di prevenzione, che hanno bisogno di continuità per poter essere efficaci, e registrando, nei fatti, uno spostamento delle modalità di finanziamento che privilegia una gestione straordinaria, mediante strumenti che non sempre hanno prodotto risultati soddisfacenti;
il piano straordinario per la prevenzione del rischio idrogeologico, previsto dalla legge finanziaria per il 2010, che aveva assegnato per interventi straordinari al Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare fondi per 1 miliardo di euro a valere sulle risorse del fondo per le aree sottoutilizzate e diretti a rimuovere le situazioni a più elevato rischio idrogeologico, non ha mai prodotto i risultati attesi, anche a causa del mancato e tempestivo trasferimento di risorse;
la situazione determinatasi per effetto della mancata attuazione del piano straordinario contro il dissesto idrogeologico è risultata talmente grave da «costringere» il Governo Monti ad adottare tre apposite delibere del Cipe: la prima (n. 8 del 2012) allo scopo di individuare fra gli interventi di rilevanza strategica regionale quelli per la mitigazione del rischio idrogeologico individuati negli accordi di programma già sottoscritti fra il Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare e le regioni del Mezzogiorno, con conseguente assegnazione di complessivi 680 milioni di euro; la seconda delibera (n. 6 del 2012) per lo stanziamento di 130 milioni di euro, anch'essi per interventi diretti a fronteggiare i fenomeni di dissesto idrogeologico in alcune aree delle regioni del Centro-Nord; la terza delibera (n. 87 del 2012) per l'assegnazione di ulteriori 1.060 milioni di euro, a valere sulle risorse del fondo per lo sviluppo e la coesione, per il finanziamento di interventi per la manutenzione straordinaria del territorio nelle regioni del Mezzogiorno;
in ogni caso, comunque, ancora prima dell'individuazione di nuove risorse economiche, occorre mettere mano con decisione all'infrastrutturazione istituzionale nel campo delle politiche per la difesa del suolo. La maggiore criticità oggi riscontrabile è, infatti, dovuta al mancato completamento del riassetto della governance e da una frammentazione e sovrapposizione di competenze: soggetti e strumenti che appesantiscono, rendendolo meno efficiente, a volte paralizzandolo, il sistema di pianificazione, programmazione, gestione e monitoraggio degli interventi;
a livello nazionale si sconta, a tutt'oggi, la mancanza di una regia unitaria delle azioni di difesa del suolo e di gestione della risorsa idrica; l'adeguamento alle normative comunitarie – direttiva quadro n. 2000/60/CE sulle acque – avrebbe necessariamente richiesto la definizione di ruoli e competenze che sono ancora confuse tra livelli distrettuali e regionali, con l'effetto di non rendere riconoscibile la catena delle responsabilità; l'attuale revisione dei livelli istituzionali e la diversa attribuzione di funzioni in materia di pianificazione territoriale di scala vasta e di tutela delle risorse ambientali rischiano, peraltro, di creare nuove criticità;
il sistema di gestione proposto per la difesa del suolo, la tutela delle acque e i servizi idrici è di tipo spiccatamente centralistico, incapace di coordinare sinergicamente competenze, ruoli, responsabilità e poteri decisionali delle istituzioni interessate e di armonizzare contenuti, modalità di approvazione, attuazione ed aggiornamento dei diversi strumenti di pianificazione; l'istituzione delle otto autorità di bacino distrettuali, non ancora operative, alle quali viene attribuita la potestà pianificatoria, trova limiti nella stessa delimitazione territoriale dei distretti approvata, nella loro architettura istituzionale, e dovuta ad un eccessivo peso ministeriale e a un conflitto latente con il sistema delle regioni, deleterio per gli organismi che dovrebbero fondarsi sul principio cooperativo tra Stato e regioni a fronte di competenze concorrenti in materia territoriale, e nella stessa operatività economica di tali organismi, a causa delle crescenti difficoltà finanziarie del settore pubblico;
i piani di gestione dei distretti idrografici e i relativi programmi di azione, da predisporre per il raggiungimento degli obiettivi della direttiva sulle acque n. 2000/60/CE entro il termine di nove anni dalla sua emanazione, sono stati adottati dai comitati istituzionali delle autorità di bacino, ma sono tuttora in attesa di definitiva approvazione da parte del Consiglio dei ministri (ad oggi il Governo ha approvato solo tre schemi di decreto del Presidente del Consiglio dei ministri recanti approvazione di piani di gestione distrettuali), con il risultato di aver prodotto fin qui solo effetti limitativi per i territori interessati, senza avere, invece, dispiegato le azioni positive in essi previste;
a livello comunitario, oltre alla direttiva quadro sulle acque n. 2000/60/CE, solo parzialmente attuata con il decreto legislativo n. 152 del 2006 (cosiddetto codice ambientale), altri importanti atti legislativi comunitari in materia di gestione delle acque e di difesa del suolo sono stati parzialmente assunti e recepiti dal nostro Paese, tra cui la direttiva sulle alluvioni n. 2007/60/CE, recepita con il decreto legislativo n. 49 del 2010, che, però, mal si integra con il citato codice ambientale;
tratto fondante del progetto comunitario, cui dovrebbe ispirarsi l'azione del nostro Paese in materia di difesa del suolo, è il perseguimento di un'azione programmatica non limitata al semplice bilanciamento delle esigenze di sicurezza, di quelle ecologiche ed economiche, ma finalizzata all'obiettivo di un cambiamento del modello di sviluppo, attraverso scelte di destinazione ed uso del territorio. Punti caratterizzanti di tale programma sono la ricostruzione ecologica dei corsi d'acqua, lo sfruttamento dei processi di qualificazione dell'agricoltura come cura e presidio del territorio, l'introduzione dell'analisi economica nei processi decisionali, al fine di realizzare gli interventi che portano maggior beneficio alla collettività piuttosto che favorire la redditività immediata del singolo, l'assunzione, nel quadro degli scenari di cambiamento, anche dei cambiamenti climatici, la promozione di politiche di adattamento piuttosto che il ricorso ad interventi strutturali, la valorizzazione di pratiche di tipo «negoziale-dialogico» e di partecipazione e coinvolgimento del pubblico nella ricerca di scelte condivise;
la maggior parte degli interventi finalizzati alla difesa del suolo, realizzati in Italia, sono interventi strutturali di difesa passiva, nonostante sia ormai dimostrato che il binomio «dissesto-intervento di difesa del dissesto» può dar luogo a soluzioni localmente soddisfacenti, ma se applicato diffusamente può provocare effetti negativi, non solo perché spesso il rapporto costo/efficacia è sfavorevole, ma anche perché la realizzazione di un intervento a monte può aggravare i pericoli a valle. Al contrario, occorre puntare sulle attività di carattere preventivo, che pongano l'enfasi sul valore delle regole di uso del suolo, sul monitoraggio delle situazioni di rischio e sul grado di conoscenza e consapevolezza delle popolazioni in ordine al livello di esposizione al rischio di un territorio;
anche la gestione delle sempre più frequenti emergenze dovute al dissesto idrogeologico, in capo nel nostro Paese ad un sistema di protezione civile tra i più qualificati al mondo, ha dovuto misurarsi negli ultimi anni con crescenti difficoltà, accentuate dall'incertezza del sistema normativo di riferimento anche a seguito dell'intervento abrogativo della Corte costituzionale con sentenza n. 22 del 2012; la conseguente adozione, da parte del Governo Monti, delle misure del decreto-legge n. 59 del 2012, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 100 del 2012, in materia di protezione civile, non hanno però fugato tutti i dubbi degli amministratori locali in ordine al fatto che, in caso di calamità naturali, gli eventuali interventi di protezione civile messi in atto da organismi statali, in particolare quelli approntati dalle Forze armate, non siano posti a carico degli enti territoriali rappresentanti delle popolazioni colpite dalle medesime calamità naturali;
in Italia, il mercato assicurativo offre la garanzia per rischi da catastrofi naturali come estensione della garanzia base incendio, ma tale offerta è più diffusa nelle polizze alle imprese e più rara per i privati; occorrerebbe promuovere la diffusione di una moderna cultura che tenga conto del rischio da catastrofi naturali e dei suoi drammatici effetti e costi umani, sociali ed economici, e in tale ottica è da ritenere indispensabile un incisivo intervento dello Stato che affianchi e renda più conveniente e sostenibile per i cittadini i costi di un sistema di copertura assicurativa volontaria degli edifici; andrebbero, pertanto, incoraggiate forme di trasferimento dei rischi catastrofali sul modello di quanto accade in altri Paesi, come la Francia, dove vige un regime assicurativo semiobbligatorio che vede lo Stato nel ruolo di riassicuratore di ultima istanza;
è quanto mai necessario richiamare ad un nuovo e più incisivo impegno il Parlamento e il Governo, anche alla luce dei deludenti risultati registrati in questi anni e della necessità di individuare soluzioni tempestive ed avanzate per fronteggiare il ripetersi di episodi calamitosi ed emergenziali, sempre più gravi e difficilmente risolvibili esclusivamente con interventi ex post e sempre più costosi e sostanzialmente inefficaci;
un piano strutturale di messa in sicurezza e di manutenzione del territorio e dei corsi d'acqua, finalizzato alla riduzione del rischio idrogeologico, rappresenta uno straordinario strumento di rilancio economico e di creazione di occupazione, a partire dalla riattivazione degli investimenti immediatamente cantierabili da parte degli enti locali e, quindi, da una revisione delle regole del patto di stabilità interno che, oggi, impediscono la realizzazione di interventi fondamentali sul fronte della prevenzione,
impegna il Governo:
a contrastare ogni iniziativa di indebolimento della pianificazione territoriale, in passato pesantemente compromessa da indiscriminati interventi di condono edilizio, salvaguardando la centralità della pianificazione territoriale integrata di scala vasta anche nelle scelte in itinere di ridefinizione dei livelli istituzionali esistenti, privilegiando la logica della prevenzione rispetto a quella di gestione dell'emergenza, anche nell'allocazione delle risorse economiche che devono essere rese stabili, utilizzabili in tempi certi e ricondotte ad una gestione ordinaria delle procedure, in primo luogo salvaguardando e sbloccando le risorse previste dagli accordi di programma già sottoscritti con le regioni per gli interventi prioritari di prevenzione del rischio idrogeologico;
a prevedere, di concerto con i soggetti istituzionali territorialmente preposti, attivazione di un fondo nazionale per la difesa del suolo e la riduzione del rischio idrogeologico finalizzato alla realizzazione di un piano organico, con obiettivi a breve e medio termine per la messa in sicurezza del territorio, che possa consentire agli enti competenti di aggiornare i propri documenti di progettazione e renderli finanziabili nell'ambito delle politiche di coesione per il ciclo di programmazione comunitaria 2014-2020;
ad adottare politiche che, contrastando il fenomeno dell'abbandono dei terreni, del disboscamento e, quindi, dell'improduttività del terreno stesso, riconoscano il valore strategico dell'agricoltura come presidio del territorio;
a dare piena attuazione, nell'ambito della propria competenza, ai principi e ai contenuti delle direttive europee in materia di gestione delle risorse idriche e delle alluvioni, assumendo le opportune iniziative di natura amministrativa e normativa che possano portare ad una significativa riorganizzazione del sistema di responsabilità e competenze, che elimini sovrapposizioni ed incongruenze del quadro esistente, puntando ad una maggiore cooperazione tra i livelli amministrativi ed il sistema delle competenze tecniche esterne, ad un effettivo coordinamento tra politiche settoriali e territoriali, nonché ad una reale attuazione dei requisiti di partecipazione pubblica attiva e di informazione/educazione al rischio, anche mediante la valorizzazione di esperienze virtuose di programmazione negoziata territoriale, come i contratti di fiume;
ad adottare iniziative, per quanto di propria competenza, volte ad apportare le modifiche al quadro normativo vigente nella logica unitaria della difesa idrogeologica, della gestione integrata dell'acqua e del governo delle risorse idriche, al fine di rendere finalmente operative le autorità di bacino distrettuali, secondo una governance che tenga conto delle esigenze di riequilibrio istituzionale sostenute dalle regioni, di una delimitazione più funzionale dei distretti e di un sistema di governo in grado di riconoscere e valorizzare il patrimonio di conoscenze ed esperienze delle strutture tecniche di bacino esistenti a livello regionale e locale, nonché a portare a definitiva e rapida approvazione tutti i piani di gestione dei distretti idrografici e i relativi programmi di azione, ai fini del raggiungimento degli obiettivi previsti della direttiva sulle acque n. 2000/60/CE;
ad assumere iniziative volte a promuovere, nell'ambito della revisione delle regole del patto di stabilità interno, un piano straordinario di manutenzione diffusa del territorio e dei corsi d'acqua, che coinvolga il sistema delle autonomie locali e che rechi forme di incentivazione della partecipazione attiva della popolazione, anche mediante la sperimentazione di progetti che coinvolgano lavoratori temporaneamente beneficiari di ammortizzatori sociali;
a promuovere, per quanto di propria competenza, le opportune modifiche normative che garantiscano la possibilità del sistema della protezione civile di operare in modo tempestivo ed efficace nel campo del contrasto ai danni provocati dal dissesto idrogeologico, anche mediante la revisione delle criticità eventualmente riscontrate in sede di applicazione della nuova normativa prevista dal decreto-legge n. 59 del 2012, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 100 del 2012;
a valutare l'opportunità di assumere iniziative per introdurre forme di assicurazione da rischi naturali che vedano, comunque, il coinvolgimento obbligatorio dello Stato anche solo nel ruolo di riassicuratore di ultima istanza.
(1-00017)
(Nuova formulazione) «Speranza, Brunetta, Braga, Mariani, Latronico, Borghi, Sarro, Realacci, Cenni, Zardini, Dallai, Dorina Bianchi, Arlotti, Taranto, Tino Iannuzzi, Alli, Rampi, Oliverio, Fiano, Gadda, Pili, Pastorino, Grassi, Lenzi, Velo, Bratti, Castiello, Vella, Rosato, Tidei, Garavini, Carrescia, D'Incecco, Lodolini, Manfredi, Magorno, Quartapelle Procopio, Cinzia Maria Fontana, Tullo, Cardinale, Maestri, Manzi, Marzano, Marantelli, Moretto, Distaso, Ghizzoni, Giulietti, Gregori, Patriarca, Cimbro, Sereni, Crivellari, Laforgia, Mazzoli, Leonori, Tentori, Giovanna Sanna, Cominelli, Narduolo, Amoddio, Fabbri, Verini, Fregolent, Martella, Rigoni, Giacobbe, Sani, Fontanelli, Rossomando, Guerra, Senaldi, Lorenzo Guerini, Giuseppe Guerini, Morassut, Rotta, Mariastella Bianchi, Lattuca, Basso, Marco Meloni, Marchi, Ferrari, Scuvera, Sbrollini, Rubinato, Valiante, Antezza, Valeria Valente, Bruno Bossio, Mongiello, Carra, Pastorelli».
La Camera,
premesso che:
l'attuale istituto del Servizio civile nazionale affonda le radici nelle lotte per il diritto all'obiezione di coscienza, che videro un primo riconoscimento da parte del Governo con l'approvazione della legge n. 772 del 1972 «Norme in materia di obiezione di coscienza». Tale legge introdusse per i giovani richiamati al servizio di leva la facoltà di dichiararsi obiettore di coscienza per motivi morali, religiosi e filosofici ed istituì il servizio sostitutivo civile alternativo al servizio militare e, quindi, parimenti rispondente al dovere di servire la Patria;
con la legge n. 230 del 1998 l'obiezione di coscienza fu finalmente riconosciuta quale diritto soggettivo del cittadino nell'ambito del diritto alla libertà di pensiero, coscienza e religione riconosciute dalla Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo e dalla convenzione internazionale sui diritti civili e politici. La stessa legge sanciva che il servizio civile, diverso per natura e autonomo dal servizio militare, rispondesse parimenti al dovere costituzionale di difesa della Patria e fosse ordinato ai fini enunciati nei «Principi fondamentali» della Costituzione;
la legge n. 230 istituì altresì l'Ufficio nazionale per il servizio civile nell'ambito della Presidenza del Consiglio dei ministri, sottraendo la gestione del servizio civile al Ministero della difesa. Nacque anche il Fondo nazionale per il servizio civile – per la gestione dei fondi necessari al funzionamento del servizio civile – e la Consulta nazionale per il servizio civile, quale «organismo permanente di consultazione, riferimento e confronto» per l'ufficio nazionale composta da rappresentanti delle amministrazioni centrali dello Stato, dai maggiori enti di servizio civile, dalla rappresentanza dei comuni italiani e dalle associazioni rappresentative degli obiettori; successivamente la consulta fu integrata da un rappresentante delle regioni e delle province autonome, designato dalla Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e Bolzano (decreto legislativo n. 77 del 2002) e dai rappresentanti dei volontari in servizio civile, che hanno sostituito i rappresentanti degli obiettori. Attualmente la Consulta, soppressa dai tagli del 2012, è stata ricostituita con costi zero ed include 15 membri, tra cui rappresentanti dei volontari, degli enti, dei comuni italiani, delle regioni e province autonome e del dipartimento nazionale di protezione civile;
il 6 marzo 2001 con la legge n. 64 nasce il Servizio civile nazionale, a base volontaria, che ha convissuto con il servizio sostitutivo civile obbligatorio fino al giugno 2005. Il Servizio civile nazionale, nella prima fase, è stato aperto a uomini e donne, cittadini italiani tra i 18 e i 26 anni e poi esteso fino 28 anni compiuti;
la prima fase del servizio civile volontario iniziò con il significativo ingresso delle donne: nel dicembre del 2001, infatti, i primi progetti videro l'impiego di 180 donne e 1 uomo (i maschi erano ancora in gran parte obbligati ai servizio di leva);
secondo la legge n. 64 del 2001 il Servizio civile nazionale è finalizzato a (articolo 1):
a) concorrere, in alternativa al servizio militare obbligatorio, alla difesa della Patria con mezzi ed attività non militari;
b) favorire la realizzazione dei principi costituzionali di solidarietà sociale;
c) promuovere la solidarietà e la cooperazione, a livello nazionale ed internazionale, con particolare riguardo alla tutela dei diritti sociali, ai servizi alla persona ed alla educazione alla pace fra i popoli;
d) partecipare alla salvaguardia e tutela del patrimonio della nazione, con particolare riguardo ai settori ambientale, anche sotto l'aspetto dell'agricoltura in zona di montagna, forestale, storico-artistico, culturale e della protezione civile;
e) contribuire alla formazione civica, sociale, culturale e professionale dei giovani mediante attività svolte anche in enti ed amministrazioni operanti all'estero;
la partecipazione all'interno del servizio civile nazionale crebbe dai 181 ragazzi e ragazze avviati nel 2001 fino ai 45.890 del 2006. Il Governo, infatti, sostenne il servizio civile nazionale aumentando le risorse e il numero di posti con un trend positivo fino al 2006, quando si giunse a 57.119 posti messi a bando e 45.890 volontari avviati al servizio. Dal 2007 le risorse dedicate al servizio civile nazionale sono invece andate verso un continuo decrescendo, fino alla mancata promulgazione del bando ordinario 2012, alla previsione di stanziamenti per soli 15.000 volontari per l'anno in corso e ad una più generale situazione di incertezza per l'esistenza stessa del servizio civile nazionale;
nel 2006, con l'entrata in vigore del decreto legislativo 5 aprile 2002, n. 77 anche le regioni e province autonome entrarono a far parte del meccanismo di gestione del servizio civile nazionale. Parallelamente le regioni iniziarono anche un percorso autonomo con la promulgazione di leggi regionali per un servizio civile regionale, con caratteristiche e, talvolta, finalità diverse da quello nazionale;
l'articolo 9 della legge n. 64 del 2001 prevede, inoltre, la possibilità per i giovani volontari di prestare servizio anche presso «enti e amministrazioni operanti all'estero, nell'ambito di iniziative assunte dall'Unione europea, nonché in strutture per interventi di pacificazione e cooperazione fra i popoli, istituite dalla stessa Unione europea o da organismi internazionali operanti con le medesime finalità ai quali l'Italia partecipa». Dal 2001 ad oggi 3.782 volontari hanno operato in diversi Paesi dell'Europa, dell'Africa, dell'Asia, dell'Oceania e dell'America Latina, prevalentemente nel settore della cooperazione, dell'assistenza e dell'educazione;
queste esperienze e un comune percorso sul servizio civile avviato in altri Paesi europei hanno portato nel 2009 ad elaborare il progetto sperimentale europeo «European Civic Service: A Commom Amicus», con lo scopo di stimolare la nascita di un modello europeo di servizio civile. Questa rimane, ad oggi, una sfida aperta;
il 13 settembre 2011 è stato infine pubblicato il bando speciale a 6 volontari da impiegare nel progetto sperimentale: «Caschi bianchi: oltre la vendetta», proposto dal Comitato per la difesa non armata e non violenta (DCNAN). Il Comitato DCNAN è stato soppresso in seguito alla spending review del 2012;
il Servizio civile nazionale ha dato, inoltre, in diverse occasioni un contributo a risollevare la situazione di zone colpite da catastrofi naturali, mettendo in campo volontari tramite bandi speciali (Abruzzo 2009, Emilia-Romagna 2012);
il servizio civile è l'unica forma istituzionale di difesa della Patria non armata e non violenta (articolo 52 della Costituzione italiana) e il suo valore educativo porta i giovani a sperimentare e praticare con maggior consapevolezza la cittadinanza attiva, sviluppando il senso civico ed una maggiore percezione dei valori democratici, ad aiutare la categorie più vulnerabili dei cittadini (persone con disabilità, cittadini stranieri, bambini in situazioni difficili, malati terminali, e altri) nonché ad aiutare a salvaguardare il patrimonio artistico, culturale ed ambientale dello Stato;
nonostante il ruolo strategico di strumento utile alla coesione sociale, all'educazione alla partecipazione delle nuove generazioni, alla formazione personale e professionale dei giovani nonché ad un loro orientamento verso il mondo del lavoro, questo Istituto della Repubblica non ha ricevuto un adeguato finanziamento da parte dello Stato che permettesse la partecipazione di tutti quei giovani che ne facessero richiesta, evitando quindi il rischio di creare l'ennesima occasione d’élite, anzi i tagli lineari praticati negli ultimi anni dai Governi si sono abbattuti anche sul servizio civile che ha visto le proprie risorse ridursi drasticamente: dai 299 milioni di euro del 2008, ai 170 milioni di euro nel 2009, ai 100 milioni nel 2010-2011, ai 68 milioni nel 2012 con conseguente riduzione dei giovani che vi hanno potuto partecipare (dai 51.273 posti disponibili nel 2007, ai 20.157 posti disponibili nel 2011);
il 2012 è stato un anno particolarmente travagliato per la sopravvivenza del servizio civile giacché la carenza di fondi non ha reso possibile la pubblicazione di alcun bando per i volontari portando quindi a zero il contingente;
per il 2013 la legge di stabilità ha stanziato 71 milioni di euro, più altri finanziamenti dovrebbero derivare dalla divisione dell'esiguo fondo pari a 16 milioni di euro previsto dall'articolo 1, comma 270, sempre della legge di stabilità (legge 24 dicembre 2012 n. 228) fra le finalità di cui all'elenco 3 dello stesso comma; a questi finanziamenti si dovrebbero aggiungere i circa 50 milioni di euro reperiti dal Ministro per la cooperazione internazionale e l'integrazione pro tempore Riccardi, che consentirebbe di garantire per il 2013 18.800 posti;
da una prima analisi predisposta dagli uffici competenti, come confermato dal nuovo Ministro per le pari opportunità, lo sport e le politiche giovanili, calcolando la spesa unitaria di ogni volontario, più le spese di gestione si immagina che potranno essere avviati circa 15.000 ragazzi più 450 all'estero per il bando 2013 del servizio civile, che visti i ripetuti ritardi nello stanziamento dei fonti, non partiranno prima del gennaio 2014, lasciando scoperto in sostanza tutto il 2013 arrestando così l'avvio di migliaia di progetti, di attività, di servizi alle persone bisognose;
le associazioni e i rappresentanti del mondo del servizio civile, in numerose occasioni hanno evidenziato con forza quanto sia importante mantenere per il prossimo bando, atteso da migliaia di giovani sostanzialmente da oltre un anno, almeno il numero di volontari del bando 2011;
il servizio civile nazionale è una risorsa fondamentale non soltanto per migliaia di organizzazioni sociali e di enti locali, per la sopravvivenza di moltissimi servizi volti a favorire la coesione sociale e la tutela dei diritti delle fasce deboli, ma rappresenta un'occasione unica e straordinaria per decine di migliaia di giovani ogni anno. In questi ultimi giorni abbiamo ascoltato molti interventi affrontare la questione dei giovani, ripetendoci spesso che se non investiamo su di loro il paese muore. Ecco il servizio civile è un ottimo modo di investire su giovani,
impegna il Governo:
ad esperire ogni tentativo per stanziare i fondi necessari a garantire gli impegni presi per l'anno in corso;
ad individuare i fondi per una programmazione triennale del bando per il servizio civile, che renda possibile una regolarizzazione della progettazione e dei bandi;
ad adottare ogni iniziativa affinché sia attribuita una specifica delega per il Servizio civile nazionale, in modo da garantire agli organismi preposti alla gestione un coerente indirizzo politico in materia di Servizio civile nazionale;
a favorire, per quanto di competenza, una riforma della disciplina del Servizio civile nazionale in Italia e all'estero garantendo, anzitutto, la stabilità del sistema attraverso la definizione di un contingente fisso annuale di almeno 40.000 volontari da avviare al servizio e garantendo la conseguente copertura economica attraverso una programmazione pluriennale di spesa, affinché il Servizio civile nazionale torni ad essere una risorsa per il Paese e uno strumento di difesa non violenta della patria.
(1-00097) «Bonomo, Narduolo, Ascani, Beni, Bobba, Capone, Carnevali, Casati, Chimienti, Di Vita, Fossati, Gigli, Iori, Lattuca, Lenzi, Marcon, Miotto, Misiani, Mogherini, Piccoli Nardelli, Patriarca, Pelillo, Peluffo, Petitti, Piazzoni, Piccione, Polverini, Quartapelle Procopio, Santerini, Sereni, Borghi, Bonafè, Preziosi, Realacci, Fauttilli, Bellanova, Melilla, Baroni, Dall'Osso, Lorefice, Silvia Giordano, Mantero, Nesci, Colonnese, Villecco Calipari, Braga, Gadda, Tentori, Mattiello, Sbrollini, Sberna, Madia».
La Camera,
premesso che:
il decreto legislativo 7 settembre 2005, n. 209, e successive modificazioni, recante il codice delle assicurazioni private, stabilisce, all'articolo 138, la predisposizione di una specifica tabella, unica su tutto il territorio della Repubblica, delle menomazioni alla integrità psico-fisica comprese tra dieci e cento punti e del valore pecuniario da attribuire ad ogni singolo punto di invalidità comprensiva dei coefficienti di variazione corrispondenti all'età del soggetto leso, nonché, all'articolo 139, la predisposizione, con la medesima procedura, di una specifica tabella delle menomazioni alla integrità psico-fisica comprese tra uno e nove punti di invalidità;
finalità degli articoli 138 e 139 del citato decreto legislativo, e dei successivi provvedimenti attuativi, è pertanto la fissazione in maniera univoca, ai fini del risarcimento del danno in sede assicurativa della responsabilità civile automobilistica, dei valori economici e medico-legali per la valutazione del danno alla persona derivante da lesioni che abbiano determinato macrolesioni e lesioni di lieve entità;
il Ministro della salute ha istituito, il 26 maggio 2004, una commissione di studio, composta dai rappresentanti del medesimo Ministero, dei Ministeri del lavoro e delle politiche sociali, dello sviluppo economico, della giustizia, dell'Inail, dell'Ania, e da esperti in medicina legale, e successivamente integrata con rappresentanti delle associazioni familiari e vittime della strada e dell'osservatorio della Lega italiana dei diritti dell'uomo;
i lavori della commissione di studio si sono conclusi con la redazione di uno schema di tabella, oggetto di una valutazione preliminare del Consiglio dei ministri, il 3 agosto 2011, e successivamente del parere della sezione consultiva per gli atti normativi del Consiglio di Stato, l'8 novembre 2011;
il 7 giugno 2011, tuttavia, era intervenuta in materia la sentenza della Corte di cassazione n. 12408, la quale aveva stabilito che nella liquidazione del danno alla persona, quando manchino criteri stabiliti dalla legge, l'adozione della regola equitativa di cui all'articolo 1226 del codice civile, deve garantire non solo l'adeguata considerazione delle circostanze del caso concreto, ma anche l'uniformità di giudizio a fronte di casi analoghi, essendo intollerabile ed iniquo che danni identici possano essere liquidati in misura diversa solo perché le relative controversie sono decise da differenti uffici giudiziari dall'affermazione del generale principio di uguaglianza, la Corte di cassazione aveva tratto la conclusione che, sempre in assenza dei criteri stabiliti dalla legge e in virtù dei suoi compiti di indicazione ai giudici di merito di criteri uniformi, i criteri per la liquidazione del danno alla persona fossero individuati nelle cosiddette «tabelle» di riferimento per la stima del danno alla persona elaborate dal tribunale di Milano, trattandosi del criterio più diffuso sul territorio nazionale;
gli effetti distorsivi derivanti dalla differenziazione territoriale dei risarcimenti dei danni non patrimoniali sono stati rilevati anche nel citato parere del Consiglio di Stato, il quale ha ritenuto che l'esigenza di porre rimedio a tali distorsioni «appare sicuramente condivisibile e coerente con le esigenze ordinamentali di parità di trattamento tra situazione analoghe, nonché in linea con i più recenti arresti giurisprudenziali della Corte di cassazione», tra i quali viene ricordata proprio la sentenza della Corte di cassazione, sezione III, 7 giugno 2011, n. 12408;
se lo schema di decreto del Presidente della Repubblica datato marzo 2013 ed avente ad oggetto il regolamento recante le tabelle delle menomazioni all'integrità psico-fisica ai sensi degli articoli 138 e 139 del decreto legislativo n. 209 del 2005 sembrerebbe, pertanto, risolvere in via definitiva il problema relativo all'adozione di criteri uniformi su tutto il territorio nazionale dei risarcimenti, dal confronto con le tabelle del tribunale di Milano emerge una riduzione dei valori risarcitori che ha suscitato molte proteste da parte delle associazioni delle vittime di sinistri stradali, che lo hanno considerato «fortemente lesivo della dignità umana e non rispondente alle esigenze di solidarietà consolatorie, riparatorie e satisfattive del danno da RC-auto»;
va considerato che il danno alla persona è composto da due componenti: il danno patrimoniale, calcolabile oggettivamente, e il danno non patrimoniale, non calcolabile oggettivamente, ma attribuito «equamente» dai tribunali o dalle tabelle, a sua volta distinto tradizionalmente in danno biologico, ossia il valore della perdita della funzionalità biologica dovuta alla lesione, il danno morale, variabile da caso a caso, tra il 25 ed il 50 per cento del danno biologico, e il danno esistenziale, molto soggettivo e variabile;
la tabella unica è difficilmente comparabile con le tabelle del tribunale di Milano, poiché queste regolamentano tutto il danno non patrimoniale, inglobando accanto al danno biologico anche il danno morale con riferimento a una liquidazione congiunta complessiva dei danni riconosciuti, mentre la tabella unica prevista nello schema di decreto del Presidente della Repubblica regolamenta il solo danno biologico «standard», ferma restando la necessità di determinazione aggiuntiva dell'eventuale danno morale, poiché, ai sensi degli articoli 138 e 139 del codice delle assicurazioni private gli importi possono essere aumentati nella misura massima del 30 per cento per le macrolesioni e del 20 per cento per le lesioni lievi, quando la menomazione incida su aspetti dinamico relazionali della persona;
indubbiamente, ragionare sulla congruità dell'ammontare dei risarcimenti è un esercizio difficile, perché attiene a un valore non monetizzabile, pertanto, lo scopo dell'emanando provvedimento dovrebbe essere esclusivamente quello di stabilire convenzionalmente criteri risarcitori certi e uniformi territorialmente, adeguati per le vittime e sostenibili relativamente alla spesa assicurativa;
peraltro, esiste una evidente correlazione tra importo dei premi ed entità dei risarcimenti che, per quanto riguarda il settore della responsabilità civile automobilistica, presenta dati articolati e non sempre univoci; tuttavia sono molti i fattori che influenzano il livello dei premi, come rilevato dalle recenti conclusioni dell'indagine svolta dall'Autorità garante della concorrenza e del mercato sulle procedure di risarcimento diretto e gli assetti concorrenziali del settore;
tutto ciò rende evidente come sia indispensabile, per il Parlamento, promuovere un approfondimento, mediante un rapido e approfondito confronto sulla materia nei suoi vari aspetti, sociali, sanitari, economico-finanziari, e un proficuo confronto sia con il Governo sia con tutti gli altri soggetti coinvolti;
questa urgenza è resa ancor più necessaria dalla circostanza, che sullo schema di decreto del Presidente della Repubblica non è previsto un parere delle competenti Commissioni parlamentari, dal momento che sarà emanato ai sensi dell'articolo 17, comma 1, della legge 23 agosto 1988, n. 400,
impegna il Governo
a sospendere l’iter di approvazione del decreto del Presidente della Repubblica avente ad oggetto il regolamento recante le tabelle delle menomazioni all'integrità psico-fisica ai sensi degli articoli 138 e 139 del decreto legislativo n. 209 del 2005 fino all'espletamento di un approfondito ma rapido confronto nelle Commissioni parlamentari competenti, così da tenere conto delle indicazioni che emergeranno in tali sedi, anche al fine di garantire l'adeguato contemperamento tra le esigenze di tutelare le vittime degli incidenti stradali e quelle di contenere i costi delle polizze della responsabilità civile automobilistica.
(1-00099)
(Nuova formulazione) «Boccuzzi, Causi, Verini, Martella, Fregolent, Gutgeld, Biffoni, Impegno, Lenzi, Pelillo, Sanga, Antezza, Argentin, Mongiello».
La Camera,
premesso che:
i sempre più frequenti fenomeni alluvionali e calamitosi che colpiscono il nostro Paese, mettono in luce drammaticamente l'estrema fragilità del territorio italiano e la necessità di una sua ormai improcrastinabile messa in sicurezza complessiva, contestualmente a una sostenibile pianificazione urbanistica. A questo si aggiunge il crescente grado di erosione costiera, che interessa oltre 540 chilometri lineari dei litorali italiani, in cui sono direttamente coinvolti beni esposti;
peraltro, gli effetti conseguenti ai cambiamenti climatici in atto sono ormai tali che gli eventi estremi in Italia hanno subito un aumento esponenziale, passando da uno circa ogni 15 anni, prima degli anni ’90, a 4-5 l'anno;
secondo dati forniti del Consiglio nazionale dei geologi, dal 1996 al 2008 in Italia sono stati spesi più di 27 miliardi di euro per dissesto idrogeologico e terremoti, oltre al fatto che 6 milioni di italiani abitano nei 29.500 chilometri quadrati del territorio considerati ad elevato rischio idrogeologico e ben 1.260.000 sono gli edifici a rischio per frane e alluvioni. Di questi, sono 6.000 le scuole e 531 gli ospedali;
circa il 10 per cento della superficie nazionale è ad alta criticità idrogeologica e sono oltre 6.600 i comuni interessati;
solo nell'ultimo triennio lo Stato ha stanziato circa un miliardo di euro per le emergenze causate da eventi calamitosi di natura idrogeologica in tredici regioni. Per la prevenzione, invece, sono stati stanziati solo 2 miliardi di euro in 10 anni, laddove il fabbisogno necessario per la realizzazione degli interventi per la sistemazione complessiva delle situazioni di dissesto su tutto il territorio nazionale è stimato in circa 40 miliardi di euro;
si continua, invece, a rincorrere le emergenze e le calamità e a contare i danni, e troppo spesso purtroppo le numerose vittime, stanziando ogni volta ingenti risorse economiche necessarie per ricostruire le aree colpite;
vanno, comunque, segnalati i complessivi 1.870 milioni di euro assegnati dal Cipe, nell'ambito della programmazione del fondo per lo sviluppo e la coesione, con tre diverse delibere (n. 8 del 2012, n. 6 del 2012 e n. 87 del 2012) per il contrasto al rischio idrogeologico di rilevanza regionale;
rimane il taglio costante che in questi ultimi anni c’è stato agli stanziamenti ordinari del Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare per la difesa del suolo, che si sono ridotti in maniera drastica e inaccettabile;
anche le risorse complessivamente assegnate alla Protezione civile sono assolutamente insufficienti e il relativo fondo ha subito in questi ultimi anni una consistente riduzione;
parallelamente lo stesso fondo regionale di protezione civile, che ha permesso, dal momento della sua attivazione avvenuta con l'articolo 138, comma 16, della legge n. 388 del 2000, di realizzare un efficace sistema nazionale di protezione civile articolato sul territorio, non è stato più rifinanziato. L'ultima annualità finanziata del suddetto fondo è stata il 2008 (erogata nel corso del 2010);
si ricorda che l'impiego delle risorse del suddetto fondo regionale, inoltre, ha permesso di fronteggiare con efficacia i numerosi eventi calamitosi di rilievo regionale verificatisi in questi ultimi anni, permettendo alle strutture nazionali della protezione civile italiana di concentrarsi sulle emergenze di grandi proporzioni;
la legge finanziaria per il 2010 aveva destinato 1 miliardo di euro alla realizzazione di piani straordinari diretti a rimuovere le situazioni a più alto rischio idrogeologico, individuate dalla direzione generale competente del Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare, sentite le autorità di bacino e il Dipartimento della protezione civile nazionale. La stessa norma aveva, altresì, individuato, quale strumento privilegiato per l'utilizzo delle risorse, l'accordo di programma da sottoscrivere con le regioni interessate. Detti accordi di programma sono stati sottoscritti praticamente con tutte le regioni;
le suddette risorse stanziate dalla legge finanziaria per il 2010, sono state successivamente ridotte di 200 milioni di euro per far fronte ad eventi calamitosi;
considerando complessivamente le risorse statali fondo per aree sottoutilizzate, quelle di bilancio del Ministero e le risorse regionali, il valore complessivo degli accordi di programma sottoscritti e registrati è pari a circa 2.155 milioni di euro;
tuttavia, decorsi due anni dall'entrata in vigore della legge finanziaria per il 2010, il piano straordinario per il dissesto idrogeologico in molte regioni presenta notevoli difficoltà di attuazione. Detto piano, di fatto, non è praticamente mai decollato: si tratta di risorse di fatto in gran parte «virtuali». Quelle poche risorse che risultano a disposizione degli enti territoriali sono difficili da spendere a causa dei vincoli del patto di stabilità;
è, invece, necessario che le spese sostenute dalle regioni e dagli enti locali per gli interventi di prevenzione e manutenzione del territorio e di contrasto al dissesto idrogeologico possano beneficiare dell'esclusione dai vincoli del patto di stabilità, che rappresentano un evidente fortissimo freno per l'avvio di interventi concreti da realizzare sui territori;
nell'audizione alla Commissione ambiente, territorio e lavori pubblici della Camera dei deputati del 30 novembre 2011, il Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare pro tempore, Corrado Clini, aveva sottolineato la necessità di «creare una capacità di investimento pubblico per la prevenzione del rischio idrogeologico che sia sostenuta da un'entrata stabile e sicura e che non sia assoggettata (....) ai tagli che hanno quasi azzerato il fondo esistente presso il Ministero dell'ambiente per la prevenzione del dissesto idrogeologico»;
l'avvio di un piano pluriennale per la messa in sicurezza del territorio del nostro Paese non solo avrebbe una straordinaria valenza e un reale interesse pubblico, ma rappresenterebbe la vera «grande opera» strategica di cui il nostro Paese ha prioritariamente bisogno. In più, al contrario della miriade di opere infrastrutturali a cui si è data priorità, sarebbe l'unica opera pubblica diffusa su tutto il territorio nazionale, in grado di attivare da subito migliaia di cantieri con evidenti ricadute positive dal punto di vista occupazionale. L'opera di risanamento territoriale, al contrario della grande opera infrastrutturale, è, infatti, distribuita e diffusa sul territorio, realizzabile anche per gradi e per processi di intervento monitorati nel tempo, in grado di produrre attività ed economie durevoli, oltreché un elevato numero di persone impiegate nettamente superiore al modello della «grande infrastruttura»;
le politiche per la difesa del suolo devono riguardare gli elementi strutturali del rischio, ossia: la messa in sicurezza del territorio e la riduzione dei rischi legati agli usi impropri del territorio, compreso il fenomeno dell'abusivismo;
sotto questo aspetto il nostro territorio è, infatti, consumato e segnato profondamente, anche «grazie» al contributo nefasto del fenomeno dell'abusivismo troppo spesso ignorato o tollerato, soprattutto in alcune aree del nostro Paese, e anzi alimentato anche dalle deprecabili norme di condono edilizio approvate negli anni scorsi;
i passati condoni edilizi hanno, infatti, contribuito fortemente ad alimentare la convinzione diffusa che sul territorio si possa compiere qualsiasi azione, anche senza avere l'autorizzazione di legge. È, invece, indispensabile sconfiggere questa cultura e riportare la necessaria trasparenza e rigore su tutti gli interventi urbanistici che trasformano il territorio e il paesaggio;
peraltro, va evidenziato che gli interessi che sottendono spesso al comparto delle costruzioni, si sommano agli storici interessi legati ai cambi di destinazione d'uso delle aree agricole e all'edificabilità dei suoli, entrando così troppo spesso in conflitto con una seria e corretta programmazione e gestione del nostro territorio. Purtroppo, troppi piani urbanistico-territoriali hanno spesso accompagnato e assecondato questo orientamento, anche perché gli oneri di urbanizzazione vengano spesso usati per ripianare i bilanci dei comuni e questo spinge i comuni stessi a costruire per fare cassa, anche a scapito di una corretta e sostenibile gestione del territorio;
un lavoro predisposto qualche tempo fa dal Wwf Italia con l'Università dell'Aquila fa, infatti, emergere dati che devono far riflettere: dal 1956 al 2001 la superficie urbanizzata del nostro Paese è aumentata del 500 per cento e si è valutato che dal 1990 al 2005 si è stati capaci di trasformare oltre 3,5 milioni di ettari, cioè una superficie grande quasi quanto il Lazio e l'Abruzzo messi insieme. Fra questi ci sono 2 milioni di fertile terreno agricolo, che oggi è stato coperto da capannoni, case, strade ed altro;
la pianificazione urbanistica e l'assetto del territorio sono, quindi, inevitabilmente strettamente connessi. Il governo del territorio include, infatti, l'urbanistica, l'edilizia, i programmi infrastrutturali, il contrasto al dissesto idrogeologico, la difesa del suolo, la tutela del paesaggio;
gli interventi per la tutela e il risanamento del suolo e del sottosuolo vanno, quindi, necessariamente coordinati – se vogliono essere realmente efficaci – con le leggi urbanistiche e con i piani regolatori – soprattutto con quelli urbanistici comunali, e non soltanto con i grandi piani territoriali;
il decreto legislativo n. 49 del 2010, recependo la direttiva 2007/60/CE, ha previsto una specifica disciplina per la gestione dei rischi alluvionali. Esso ha attribuito alle autorità di bacino distrettuali (previste dal codice ambientale) la competenza per la valutazione preliminare del rischio alluvioni, la predisposizione delle mappe della pericolosità e del rischio alluvioni. A dette autorità di bacino distrettuali compete l'adozione dei piani stralcio di distretto per l'assetto idrogeologico e la predisposizione di appositi piani di gestione del rischio alluvione coordinati a livello di distretto idrografico. Dette autorità di bacino distrettuali, peraltro, non sono ancora operative;
in questo ambito, manca comunque una regia unitaria di gestione della risorsa idrica capace di armonizzare e coordinare con efficacia le diverse competenze e i ruoli tra i vari soggetti istituzionali coinvolti e si registra una mancanza di «coordinamento» tra Stato e regioni;
un progetto sperimentale, che, se avviato, potrebbe contribuire sensibilmente all'opera capillare di manutenzione del nostro territorio, è quello relativo alla creazione di una sorta di «corpo giovanile per la difesa del territorio», che opererebbe in ambito regionale, composto di giovani iscritti nelle liste di disoccupazione e la cui famiglia abbia un isee non superiore ad una determinata somma, da impiegare per un anno in coordinamento con il Corpo forestale dello Stato, e dopo debita formazione, per le opere di pulizia dei corsi d'acqua, dei bacini lacustri e delle rive, per il rimboschimento dei bacini idrografici e per la difesa del suolo nell'ambito di singoli bacini o sottobacini idrografici. A detti giovani verrebbe corrisposta un'indennità mensile da definire ed esente da imposte e contributi,
impegna il Governo:
ad avviare, in raccordo con le regioni, un piano pluriennale per la difesa del suolo nel nostro Paese, quale vera e prioritaria «grande opera» infrastrutturale, in grado non solamente di mettere in sicurezza il fragile territorio italiano, ma di attivare migliaia di cantieri distribuiti sul territorio, con evidenti ricadute importanti dal punto di vista economico e occupazionale;
ad assumere iniziative affinché l'utilizzo delle risorse proprie e delle risorse provenienti dallo Stato, da parte di regioni ed enti locali, per interventi di prevenzione e manutenzione del territorio e di contrasto al dissesto idrogeologico, venga escluso dal saldo finanziario rilevante ai fini della verifica del rispetto del patto di stabilità interno, che finisce per rappresentare un fortissimo freno per l'avvio di interventi concreti da realizzare sui territori;
a individuare ulteriori risorse, nonché a sbloccare risorse già previste per la prevenzione del rischio idrogeologico, anche attraverso:
a) la rimodulazione di delibere Cipe e di fondi esistenti;
b) la revisione – in accordo con le regioni – delle priorità della «legge obiettivo», al fine di mettere in testa le opere di difesa de suolo, a cominciare dai piani stralcio predisposti dalle autorità di bacino per la messa in sicurezza delle aree più a rischio;
a velocizzare i tempi medi di trasferimento delle risorse, già stanziate, a favore dei territori colpiti da calamità naturali;
ad adottare le opportune iniziative affinché i comuni provvedano a redigere in tempi brevi dei piani attuativi minimi per la messa in sicurezza del loro territorio, individuando da subito le aree a rischio prioritario;
ad assumere iniziative per integrare le risorse del Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare per il contrasto al dissesto idrogeologico;
ad adottare iniziative per provvedere al rifinanziamento del fondo regionale di protezione civile, praticamente azzerato, e che ha finora consentito di realizzare un efficace sistema nazionale di protezione civile articolato sul territorio;
a prevedere, nell'ambito delle proprie competenze e in stretto coordinamento con gli enti locali interessati, una mappatura degli insediamenti urbanistici nelle aree a più elevato rischio idrogeologico, individuando idonee forme di agevolazioni finalizzate alla loro delocalizzazione, prevedendo contestualmente il divieto assoluto di edificabilità in dette aree;
ad adottare e sostenere opportune iniziative volte a prevedere una normativa in materia di pianificazione urbanistica e di governo del territorio, che contenga principi irrinunciabili, omogenei e condivisi, in modo tale da costituire un quadro di riferimento certo e rigoroso per le regioni, con particolare riferimento alla necessità di riconoscere il territorio come bene comune e risorsa limitata, perseguendo l'obiettivo di limitare il consumo del suolo, anche attraverso il contenimento della diffusione urbana, disincentivando a tal fine nuovi impieghi di suolo a fini insediativi e infrastrutturali e favorendo il riuso e la riorganizzazione degli insediamenti e delle infrastrutture esistenti;
a valutare la possibilità di avviare il progetto sperimentale di impiego di giovani, come esposto in premessa, per la manutenzione e la tutela del territorio.
(1-00112) «Zan, Pellegrino, Zaratti, Migliore, Di Salvo, Kronbichler, Piazzoni, Nardi».
La Camera,
premesso che:
il problema del sovraffollamento carcerario non riguarda solo la sfera morale e sociale della nostra democrazia, ma è interconnesso e parte del più ampio tema della giustizia e della credibilità dell'intero sistema. Poiché nulla è più contraddittorio e, alla fine, dannoso, che far vivere chi ha infranto le regole e ha già scarsamente recepito, in condizioni ordinarie di vita, il senso della legalità in una situazione di palese non corrispondenza tra quanto normativamente definito e quanto attuato e vissuto;
la Corte europea dei diritti umani di Strasburgo ha confermato la condanna dell'Italia, rigettando la richiesta per il riesame del ricorso Torreggiani davanti alla Grande Camera: la sentenza, emessa lo scorso 8 gennaio, diventa così definitiva e il nostro Paese ha un anno di tempo per trovare una soluzione al sovraffollamento carcerario e introdurre una procedura per risarcire i detenuti che ne sono stati vittime;
il procedimento giudiziario nasce dalla denuncia di sette detenuti nel carcere di Busto Arsizio e in quello di Piacenza, ai quali lo Stato dovrà pagare una somma totale di 100 mila euro per danni morali, come stabilito dai giudici europei;
questa è solo la punta dell'iceberg: la Corte ha infatti già ricevuto da altri detenuti più di 500 ricorsi che potrebbero essere tutti accolti nel caso in cui l'Italia (al terzo posto, dopo Serbia e Grecia) non riesca ad arginare il fenomeno, troppo a lungo sottovalutato, tanto da costituire una vera e propria costante ma dalle caratteristiche proprie dell’«emergenza»;
la pronuncia rappresenta uno stimolo in più per portare il sistema penitenziario a un livello di civiltà doveroso per un Paese di grandi tradizioni giuridiche e di esperienze innovative anche in campo di riabilitazione penitenziaria, e per combattere con maggiore impegno ogni situazione che possa compromettere i diritti umani del detenuto;
costituisce una critica tanto severa quanto oggettiva il messaggio che il Presidente Napolitano – rinnovando quanto già con forza espresso nella precedente Legislatura, ma non implementato dal precedente Parlamento – ha inviato il 7 giugno scorso a Giovanni Tamburino, capo del Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria, in occasione della ricorrenza del 196o anniversario della fondazione del corpo di polizia penitenziaria. Nell'esprimere un vivo apprezzamento per l’«impegno generoso» e la «sempre maggiore professionalità» con cui gli agenti adempiono alle loro funzioni e, nel sottolineare il lavoro degli operatori sempre alle prese con «situazioni di disagio, di sofferenza e di rischio che la pesante realtà carceraria comporta», il Capo dello Stato ha richiesto «decisioni non più procrastinabili per il superamento di una realtà degradante per i detenuti e per la stessa polizia penitenziaria che in essa opera, al fine di assicurare l'effettivo rispetto del dettato costituzionale sulla funzione rieducativa della pena e sul senso di umanità cui debbono corrispondere i trattamenti relativi all'espiazione delle condanne penali»;
sul tema è intervenuto recentemente il Ministro della Giustizia che ha definito i nostri istituti indegni di uno Stato moderno; secondo la Cancellieri «per risolvere il problema non bastano nuove carceri, ma bisogna ripensare il sistema delle pene, valutando se ci sono spazi per quelle alternative»;
si rafforza anche a livello governativo la convinzione che per reati di lieve entità commessi da persone non socialmente pericolose occorre trovare un sistema di pene alternativo, non incentrato solamente sulla reclusione nel sistema penitenziario;
in una sentenza del 16 luglio 2009, la Corte europea dei diritti dell'uomo ha condannato per la prima volta l'Italia per violazione dell'articolo 3 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali (divieto di tortura e delle pene inumane e degradanti), proprio in ragione delle condizioni di sovraffollamento sopra descritte (un'altra estate si avvicina, con il suo carico di docce che non funzionano, letti fino al soffitto nelle celle, temperature elevate, coabitazione forzata);
secondo gli standard di riferimento utilizzati dalla Corte di Strasburgo, ogni detenuto ha diritto a 7 metri quadrati di spazio in cella singola e 4,5 metri quadrati in quella multipla, una condizione che non è oggi rispettata in numerosi istituti di pena sparsi sul territorio nazionale, a causa del sovraffollamento, e che ancor quando tali spazi esistano, a volte sono stati ricavati dall'uso improprio e a scapito degli spazi per la ricreazione e le attività riabilitative: questa è la ragione per cui il nostro Paese è stato condannato al risarcimento di mille euro per aver inflitto un danno morale al cittadino bosniaco Sulejmanovic, un rom condannato per furto nel 2002;
dati forniti dal Ministero (aggiornati al 10 giugno scorso) rilevano che sono 65.891 (1.176 internati, 40.118 condannati, 24.697 in attesa di giudizio) i detenuti presenti, molti di più dei 47.040 posti disponibili nelle 206 prigioni italiane, con più di un istituto di pena con tassi di sovraffollamento superiori al 100 per cento. Ciò con grave pregiudizio delle condizioni di base, anche sanitarie, e una promiscuità che ha favorito il proliferare di malattie infettive, una vera e propria emergenza sanitaria per tutti coloro che vivono e lavorano in carcere;
stando a numerose segnalazioni degli operatori del settore, sempre maggiori difficoltà si incontrano nel garantire continuità di cure ai malati oncologici, che hanno bisogno di trasporto all'esterno dell'istituto di pena, per carenza di personale;
quanto denunciato costituisce, ad avviso dei firmatari del presente atto di indirizzo, una palese violazione dei principi della Carta costituzionale, in particolare dell'articolo 32, che tutela la salute come «fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività» e dell'articolo 27, secondo il quale «le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato»;
anche l'articolo 1 della legge 26 luglio 1975 sull'Ordinamento penitenziario stabilisce che «Il trattamento penitenziario deve essere conforme ad umanità e deve assicurare il rispetto delle dignità della persona. Il trattamento è improntato ad assoluta imparzialità, senza discriminazioni in ordine a nazionalità, razza e condizioni economiche e sociali, a opinioni politiche e a credenze religiose (...). Nei confronti dei condannati e degli internati deve essere attuato un trattamento rieducativo che tenda, anche attraverso i contatti con l'ambiente esterno, al reinserimento sociale degli stessi. Il trattamento è attuato secondo un criterio di individualizzazione in rapporto alle specifiche condizioni dei soggetti»;
questi numeri rappresentano il segno di una crisi che i tanti impegni annunciati non sono riusciti a scalfire, lasciando i detenuti italiani in condizioni di vivibilità al limite della sopportazione. In aggiunta, l'attuale sovraffollamento, che non corrisponde in alcun modo ad un aumento dei reati di maggiore pericolosità sociale o violazione della vita umana – che al contrario vedono l'Italia tra i paesi europei in cui la crescita di questa curva appare meno preoccupante – assieme a una fase di minori disponibilità finanziarie, ha portato a una riduzione drastica anche dei fondi disponibili per il vitto di ogni detenuto, scesi a meno di quattro euro al giorno, e dimezzati nell'arco di pochi anni;
le nostre prigioni sono anguste, spesso malsane, non di rado antiche e di costosa manutenzione, focolaio di violenza e sopraffazione, vi avvengono suicidi e morti misteriose, non c’è lavoro se non in misura modesta e non vengono generalizzate le esperienze di eccellenza esistenti in alcuni istituti penitenziari, né si rivela sufficiente nella situazione presente l'occasione di rieducazione: in questa situazione il confine fra disagio personale e oggettivo, pressioni, mancata tutela e induzioni a gesti estremi diventa labilissimo;
l'invivibilità del carcere – indipendentemente dalle necessità della pena stabilità – rappresenta una pena aggiuntiva non sancita dal codice penale; in situazioni in cui la sofferenza dell'intero sistema carcerario, denunciata dagli operatori in prima linea ogni giorno, porta spesso a scegliere – in assenza di mezzi e spazi e strumenti più sofisticati – l'isolamento come risposta a chi è meno in grado di sopportare determinate situazioni o è considerato un elemento pericoloso;
acutizza o provoca anche patologie psicofisiche che contribuiscono a determinare le condizioni estreme – e misteriose nella genesi individuale, ma non misteriose come spia di un disagio abnorme che incoraggia gesti estremi e autodistruttivi – che portano molti, troppi detenuti allo sciopero della fame e della sete, in via ordinaria, e al suicidio: 84 suicidi accertati ufficialmente negli ultimi 18 mesi, e più di 150 detenuti che sono morti nello stesso periodo durante la detenzione per altre cause, nonostante non esistano che in numero irrisorio detenuti in età davvero avanzata, mostrano un dato inquietante. Quasi che per alcuni sottoposti a pena carceraria la detenzione stessa, a causa di queste condizioni deteriorate, rischi di diventare una «pena di morte» non comminata ma reale, nel Paese che guida da tempo la battaglia internazionale per l'abolizione della pena capitale. È un fenomeno drammatico, che colpisce anche le guardie carcerarle, di cui si registra un suicidio ogni 10 suicidi accertati di detenuti, e che non può non interrogare, come pure l'aumento degli episodi di aggressione, con personale in difficoltà in un ambiente degradato;
come se non bastasse, da qualche anno i detenuti sono quasi privi di assistenza psicologica: le persone che lavorano in tutte le 206 carceri italiane sono in grado di offrire soltanto tre ore di trattamento annuo, compreso il tempo per la lettura dei fascicoli e le riunioni;
un altro dato ancora più inquietante è che nei sedici asili nido funzionanti negli istituti penitenziari stanno crescendo quasi 50 bambini sotto i tre anni di età, figli di detenute, mentre circa una trentina di donne sta trascorrendo i mesi di gravidanza in cella: una situazione che, come ha dimostrato uno studio condotto nel 2008 nel nido del carcere di Rebibbia, può avere gravi conseguenze sul nascituro;
non può non rilevarsi l'urgenza anche di una regolamentazione delle caratteristiche delle case famiglia protette, strutture d'accoglienza equivalenti per gli aspetti di base all'abitazione privata, dove le madri prive di domicilio possono scontare la pena con i bambini fino ai 10 anni. La legge precisa che non è previsto nessun onere a carico dell'amministrazione penitenziaria per tali strutture, mentre per gli ICAM si prevede un piano investimenti di 11,7 milioni di euro. In un'ottica di mantenimento della relazione madre-bambino anche quando questa è detenuta, come stabilito dalla Convenzione dei diritti dell'infanzia, queste strutture sono certamente la soluzione migliore per tutelare l'interesse superiore del minore, ma è fondamentale che dispongano di fondi adeguati;
la Camera dei deputati aveva già approvato, nella seduta del 12 gennaio 2010, una mozione volta, tra l'altro, ad impegnare il Governo ad istituire un organo di monitoraggio indipendente di controllo sui luoghi di detenzione, in linea con quanto stabilito dal protocollo addizionale alla Convenzione Onu contro la tortura ed a stipulare accordi internazionali volti a consentire l'esecuzione della pena presso i Paesi di provenienza dei condannati stranieri;
il 24 giugno il Parlamento voterà il ddl sulla cosiddetta «messa alla prova»: un meccanismo che consente una giustizia «risarcitoria» (lavori socialmente utili al posto di un processo e poi di una condanna detentiva), nonché una possibilità offerta agli imputati di reati con pene fino a quattro anni, nonché di quelli a «citazione diretta». E il provvedimento si è arricchito di un capitolo sugli arresti domiciliari, prevedendo che il giudice al termine di un processo avrà in futuro tre possibilità tra cui scegliere: pena pecuniaria, pena detentiva, pena domiciliare;
si tratta, insieme anche al decreto «sfolla-carceri» (che sarà licenziato prossimamente dal Consiglio dei ministri) di iniziative di buon senso, e nella giusta direzione, ma che non spostano in maniera rilevante l'impatto numerico dei reclusi;
i provvedimenti in esame costituiscono, infatti, soltanto una buona base di partenza, in attesa di ulteriori, efficaci e definitive misure tese alla soluzione dell'emergenza carceraria ed alla individuazione di strumenti deflattivi del carico di lavoro dei giudici. Pur condividendo la scelta di utilizzare lo strumento della delega per disciplinare la delicata materia delle pene detentive non carcerarie, si profila necessaria l'instaurazione tra Parlamento e Governo di un fattivo rapporto di collaborazione volto a definire un più ampio spettro di interventi;
in proposito, bisognerebbe evitare di assumere un'ottica meramente emergenziale e far seguire ai rimedi immediati riforme di ampia portata, come la revisione della custodia cautelare in carcere, la revisione radicale della ex-Cirielli (che, attraverso i limiti imposti all'accesso ai benefici penitenziari per i recidivi reiterati è una delle cause del sovraffollamento), la modifica della legge Fini-Giovanardi, – rinviata peraltro alla Consulta per giudicarne profili di incostituzionalità accertati come non manifestamente infondati dalla Corte di Cassazione – (correggendo la rotta sulle tossicodipendenze che non possono essere trattate come una questione di ordine pubblico), e che, da sola, è responsabile del 33 per cento delle detenzioni, quando in Paesi come Francia e Germania non si supera il 14,5 per cento del numero dei detenuti per i medesimi reati, nuove modalità di trattamento come la custodia attenuata e l'attuazione del piano carceri;
secondo le stime del Ministero dell'interno, negli ultimi anni i reati principali sono diminuiti del 5,1 per cento, ma si è avuto un significativo aumento degli arresti del 7 per cento. E sono noti i dati per cui circa il 67 per cento di coloro che scontano l'intera sentenza tornano in carcere, mentre il numero di quanto si sono rivelati recidivi tra chi ha goduto dell'indulto si scende a poco più del 30 per cento e largamente al di sotto al 20 per cento tra quanti sono stati raggiunti dall'indulto mentre già godevano del regime di benefici e misure alternative al carcere;
queste considerazioni mettono in luce come non servono quindi soluzioni tampone ma sono necessari interventi di sistema, per risolvere una volta per tutte le «emergenze»: occorre tradurre nei fatti le dichiarazioni di intenti e, di fronte agli enormi rischi delle proteste in atto, va garantito subito lo stanziamento di nuovo personale per consentire il normale funzionamento delle strutture e condizioni dignitose agli operatori del settore;
con questi numeri, infatti, pesano le unità, le centinaia, le migliaia di agenti sottratti ai loro compiti principali per essere dirottati su mansioni amministrative o di servizio agli uffici; già nel 2011 il Sottosegretario per la giustizia pro tempore Alberti Casellati, nel ribadire l'importanza del ruolo degli agenti penitenziari, affermò che: «il carcere è una primaria esigenza di ciascuna società e bisogna rivolgere particolare attenzione al ruolo della polizia all'interno della casa circondariale, una risorsa primaria e strategica per il reintegro del detenuto e del suo diritto alla tutela della salute»;
tra i temi indagati dalla Corte dei conti vi è proprio quello dell'utilizzo del personale di polizia penitenziaria, spesso impiegato impropriamente. «Sul piano gestionale», scrive la Corte, «e prescindendo da qualunque considerazione di legittimità dei singoli provvedimenti di comando e distacco, è ovvio dubitare che risponda a criteri di efficienza, efficacia ed economicità la sottrazione dai compiti da svolgere negli istituti penitenziari di un così elevato numero di appartenenti al Corpo»;
il Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria (Dap) ha depositato alla Camera la relazione annuale sullo stato dell'edilizia penitenziaria e sullo stato del piano carceri, quest'ultimo oramai risalente al 19 marzo 2010; si registra ancora uno stallo nella costruzione di nuovi istituti di pena, dal momento che centinaia di milioni sono stati bloccati e i cantieri non vanno avanti;
tra i vecchi progetti ancora irrealizzati vi sono, ad esempio, le carceri di Forlì, Rovigo e Savona: le prime due sono state progettate e iniziate a costruire svariati anni fa, la terza è addirittura solo sulla carta per problemi con le imprese appaltatrici;
per quanto riguarda il piano carceri, si legge nella relazione ministeriale che, rispetto agli originari 11 istituti e 20 padiglioni, si è passati, a causa dei tagli alle risorse, a 4 istituti (Torino, Catania, Pordenone e Camerino) e 16 padiglioni (Lecce, Taranto, Trapani, Milano Opera, Sulmona, Vicenza, Siracusa, Ferrara, Parma, Bologna, Roma Rebibbia, Trani, Bergamo, Caltagirone, Reggio Emilia, Napoli Secondigliano) per complessivi 5.400 posti letto e 368,7 milioni di euro. In merito al completamento e al recupero di strutture non complete o chiuse, le gare di assegnazione sono state per lo più espletate, ma nessun passo avanti è stato fatto in questa direzione;
come già precedentemente osservato, l'Italia entro il 27 maggio 2014, così come ha sentenziato la Corte europea dei diritti umani (Cedu), dovrà trovare 30 mila posti letto oppure scarcerare 30 mila persone, salvo non voglia incorrere in centinaia di condanne che le costeranno milioni di euro di risarcimenti,
impegna il Governo:
a stabilire, oltre la condivisibile avviata rivitalizzazione delle misure alternative, rapidi ed opportuni provvedimenti che riducano il sovraffollamento nelle nostre carceri, attraverso la modifica della normativa che incide maggiormente sulla produzione dei flussi di ingressi (ad esempio, la legge ex-Cirielli, la legge Fini-Giovanardi, per alcune parti la legge Bossi-Fini, e altro); la revisione della custodia cautelare; la previsione della non punibilità o della riduzione delle pene per chi commette fatti di particolare tenuità;
a procedere, con iniziativa del Ministero della salute (con la conferenza degli assessori delle regioni) a 5 anni dal decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, alla verifica dello stato di attuazione nelle regioni della riforma che trasferisce alle regioni la cura dei detenuti decretandone la piena uguaglianza con gli altri cittadini, considerato che, ad esempio, tale riforma a tutt'oggi non è ancora stata recepita in Sicilia (di fatto la «salute» e gli «operatori» sono pagati dal DAP che però non ha più capitolo economico), e che permane di fatto un doppio binario che la riforma voleva superare con livelli di cura omogenei per tutti i detenuti e operatori nelle 206 carceri italiane, da nord a sud, secondo il principio costituzionale, considerato che tra le «non applicazioni della riforma» a tutt'oggi mancano dati nazionali e regionali sulle patologie presenti/prevalenti in carcere, non è attuato un sistema di monitoraggio e controllo, informatizzazione delle cartelle cliniche, sul numero dei tossicodipendenti presi in carico, avviati nelle comunità terapeutiche, o dati sulla incidenza della salute mentale;
ad adottare iniziative normative per introdurre procedure facilitate e, dunque, anche in deroga rispetto alla disciplina ordinaria – per l'ammissione a benefici e a misure alternative dei detenuti che si trovino in una condizione, non altrimenti risolvibile dall'amministrazione, di sovraffollamento carcerario e sulle quali sia comunque espresso il parere favorevole, caso per caso, del giudice di sorveglianza;
a tutelare i diritti umani e la dignità delle persone recluse, istituendo forme di controllo indipendente degli istituti (accertandone la vivibilità anche dal punto di vista igienico-sanitario), promuovendo la dotazione di strutture e personale idonei ad assicurare un'adeguata assistenza psicologica ai reclusi, progetti mirati di sostegno educativo e sociale (attraverso la creazione di centri di ascolto, la predisposizione di misure di particolare attenzione nelle prime fasi della detenzione, la limitazione e il controllo dell'isolamento disciplinare), nonché percorsi di formazione e lavoro necessari per assicurare una nuova vita dopo il carcere: ciò, al fine di contrastare i suicidi, la violenza, la soggezione tra gli stessi e agire in maniera efficace per il reinserimento sociale e la drastica riduzione della recidività a causa della creazione di adeguate reti di accoglienza e supporto sociale al di fuori del carcere;
a facilitare iniziative normative per un ordinamento penitenziario specifico per i minori, essendo questa una riforma ormai improrogabile, sollecitata più volte anche dalla stessa Corte costituzionale;
ad adeguare in maniera costante gli organici del personale dell'amministrazione penitenziaria (Corpo di polizia penitenziaria e personale educativo in primis) alle reali necessità degli istituti e dell'esecuzione penale «esterna», nonché assicurare il rispetto dei diritti inalienabili, non sempre invece garantiti: equa retribuzione, ferie, riposo settimanale;
a promuovere la costruzione di nuovi istituti, la riapertura o la riqualificazione di quelli già esistenti;
a reperire in accordo con le regioni, le risorse economiche da destinare al funzionamento delle case famiglia protette, nonché per vincolare l'utilizzo dei fondi della Cassa delle ammende per l'assistenza dei detenuti, la crescita dei percorsi di semi-libertà, il lavoro all'interno e fuori del carcere, le misure alternative, individuando altrove i fondi necessari per le strutture penitenziarie vecchie e nuove.
(1-00115)
«Gitti, Marazziti, Schirò Planeta, Piepoli, Mazziotti Di Celso, Binetti, Causin, Cimmino, Fauttilli, Gigli, Matarrese, Monchiero, Santerini, Sberna, Sottanelli, Verini, Giachetti, Nicoletti».
La XI Commissione,
premesso che:
l'articolo 36 della Costituzione stabilisce che il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un'esistenza libera e dignitosa;
troppo spesso il dettato costituzionale viene disatteso o malamente applicato, la realtà dei fatti in cui si imbattono quotidianamente migliaia di lavoratrici e lavoratori è caratterizzata da dinamiche non sempre rispondenti a criteri di giustizia e di equità; sono, infatti, sempre più numerose le categorie soggette a deboli tutele contrattuali e costrette, pur di non essere espulse dal mercato del lavoro, ad accettare retribuzioni inique e poco dignitose;
il sistema rischia di assumere forme patologiche; a subirne le conseguenze sono soprattutto i giovani, esposti in misura esponenziale a una condizione di fragilità lavorativa – sia in termini remunerativi che di tutele – che frequentemente condiziona il percorso professionale per tutto il resto della vita;
a tale riguardo i dati – aggiornati alla fine del 2011 – attinenti alle retribuzioni medie dei lavoratori impiegati con contratti di collaborazione a progetto, iscritti in via esclusiva alla gestione separata Inps, sono esemplificativi: la retribuzione media di tali lavoratori è stata pari a 8.290 euro, una cifra assolutamente non rispondente alla qualità e alla tipologie di prestazione fornite e di gran lunga insufficiente a garantire livelli di vita decorosi; tale dato risulta ancor più sconfortante se si tiene conto dell'alto livello di scolarizzazione degli interessati – nella gran parte dei casi titolari di un diploma di laurea – e soprattutto se si considera che tale valore medio è il risultato di un divario tra uomini e donne è di circa 4 mila euro a sfavore delle lavoratrici;
il recente provvedimento di riforma del mercato del lavoro, legge 28 giugno 2012, n. 92, ha effettuato un primo intervento volto a meglio regolamentare la disciplina dei corrispettivi dei contratti a progetto, modificando l'articolo 65 del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276 e stabilendo che la retribuzione non possa essere inferiore ai minimi stabiliti in modo specifico per ciascun settore di attività e che in assenza di contrattazione collettiva specifica, il compenso non possa essere inferiore, a parità di estensione temporale dell'attività oggetto della prestazione, alle retribuzioni minime previste dai contratti collettivi nazionali di categoria applicati nel settore di riferimento alle figure professionali il cui profilo di competenza e di esperienza sia analogo a quello del collaboratore a progetto;
nel frattempo, l'Istat, nel rapporto annuale 2013, appena pubblicato, individua nella caduta del reddito disponibile, che ha causato una profonda contrazione dei consumi delle famiglie, una delle principali determinanti dell'attuale recessione; nel 2012 il potere d'acquisto delle famiglie è diminuito del 4,8 per cento; si tratta, sempre stando alla pubblicazione dell'Istituto, di una caduta di intensità eccezionale, che giunge dopo un quadriennio caratterizzato da una continua flessione;
durante questo periodo il reddito delle famiglie, al netto dell'inflazione, è diminuito di quasi il 10 per cento, ritornando a un livello pari a quello di venti anni fa;
anche la precarizzazione e il mancato riconoscimento economico della attività professionale conducono a forme di progressivo depauperamento di intere categorie sociali e generazionali, favorendo la crescita di un fenomeno che ha ormai assunto dimensioni degne di una emergenza: nel 2013 il numero dei «poveri» supererà i 4 milioni (più del 6 per cento della popolazione);
nella situazione attuale, contrassegnata dalla più lunga e profonda crisi economica e sociale che il Paese abbia conosciuto dalla fine della guerra, si avverte la necessità di reagire a questo apparentemente inarrestabile processo di deterioramento delle condizioni di vita di una vasta fascia di popolazione, ponendosi l'obiettivo di un ritorno alla crescita armonico e solidale, all'interno di una cornice di riaffermazione dei diritti e della legalità;
come autorevolmente dichiarato dal Presidente del Consiglio dei ministri Letta il 29 aprile 2013, nel discorso di insediamento alla Camera dei deputati, le questioni attinenti al lavoro devono essere «la prima priorità del Governo»;
nel medesimo periodo anche il Governatore della Banca centrale europea, Mario Draghi, in occasione della cerimonia di conferimento della laurea honoris causa in Scienze Politiche da parte dell'Università LUISS «Guido Carli», svoltasi il 6 maggio 2013, ha ribadito, ai fini della sostenibilità della crescita, l'importanza della distribuzione del reddito, sostenendo che «da quasi vent'anni, è in atto una tendenza alla concentrazione dei redditi delle famiglie in Europa che penalizza i più deboli, come testimoniano le statistiche pubblicate dall'Eurostat. Una più equa partecipazione ai frutti della produzione della ricchezza nazionale contribuisce a diffondere la cultura del risparmio e, dunque, della compartecipazione. Sentirsi parte integrante della nazione e cointeressati alle sue sorti economiche aumenta la coesione sociale e incentiva comportamenti economici individuali che conducono, nell'aggregato, al successo economico della collettività»;
l'adozione da parte del Governo di interventi volti a promuovere l'equità retributiva rappresenterebbe un segnale altamente indicativo della reale volontà di incidere profondamente, mitigandole, sulle distorsioni che attualmente caratterizzano il mondo del lavoro;
un primo passo verso un restringimento delle disuguaglianze originate da un mercato del lavoro eccessivamente frammentato e spesso foriero di ingiustizie deve essere compiuto anche mediante l'adozione di politiche volte a rendere più eque e proporzionali le retribuzioni; le vaste differenze attualmente esistenti tra lavoratori impegnati in prestazioni di carattere analogo non possono più essere tollerate;
relativamente alle varie tipologie lavorative, sussistono ancora aree settoriali non regolate dalla contrattazione collettiva, per le quali non vige alcuna forma di disciplina delle retribuzioni – affidate, quindi, alla libera contrattazione delle parti – con evidenti asimmetrie tra i contraenti;
primi confortanti segnali in direzione di una presa di coscienza del problema e della possibilità di incamminarsi su un percorso virtuoso provengono dalla recente approvazione della legge 31 dicembre 2012, n. 233, istituente l'equo compenso nel settore giornalistico, finalizzata a promuovere l'equità retributiva dei giornalisti iscritti all'albo;
l'obiettivo di garantire a tutte le lavoratrici e a tutti i lavoratori la corresponsione di una remunerazione realmente proporzionata alla quantità e alla qualità del lavoro svolto, tenuto conto della natura, del contenuto e delle caratteristiche della prestazione svolta, consentirebbe, finalmente, di dare attuazione alla volontà dei costituenti,
impegna il Governo
ad assumere le necessarie iniziative volte a istituire, presso il Ministero del lavoro e delle politiche sociali, una Commissione per la valutazione dell'equo compenso, nei settori o per le modalità lavorative nei quali non esiste una specifica disciplina contrattuale delle retribuzioni, che abbia il compito di definire l'equo compenso dei lavoratori subordinati, o autonomi ovvero professionisti, avuto riguardo alla natura e alle caratteristiche della prestazione nonché in coerenza con i trattamenti previsti dalla contrattazione collettiva nazionale di categoria in favore dei titolari di un rapporto di lavoro subordinato di settori contigui ovvero equivalenti.
(7-00018) «Gribaudo, Paris, Madia, Gnecchi, Gregori».
CARRA, BENAMATI, VELO. — Al Ministro del lavoro e delle politiche sociali. — Per sapere – premesso che:
come noto, il nostro ordinamento ha previsto, con la legge 27 marzo 1992, n. 257, una serie di misure risarcitorie, anche di carattere previdenziale, a favore dei lavoratori esposti all'amianto, cioè per una particolarissima categoria di lavoratori che ha subito pesantemente le conseguenze di una lavorazione ad altissimo rischio per la salute che ha prodotto migliaia di decessi;
il comma 10 dell'articolo 24 del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201 (decreto Salva-ltalia), convertito con modificazioni dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214, ha disposto nuovi requisiti per l'accesso alla pensione anticipata, prevedendo, tra l'altro, l'introduzione di un sistema di penalizzazioni che si attiva qualora gli aventi diritto – gli uomini con un'anzianità contributiva di almeno 42 anni e 1 mese e le donne di almeno 41 anni e 1 mese – anticipino l'accesso al pensionamento rispetto all'età di 62 anni, pari a una riduzione di 1 punto percentuale del trattamento pensionistico per ogni anno di anticipo nell'accesso al pensionamento rispetto alla predetta soglia anagrafica e di 2 punti per ogni anno ulteriore di anticipo rispetto a due anni;
l'articolo 6, comma 2-quater, del decreto-legge 29 dicembre 2011, convertito con modificazioni dalla legge 24 febbraio 2012, n. 14, ha successivamente stabilito la non applicabilità delle predette penalizzazioni ai soggetti che maturano il requisito di anzianità contributiva entro il 31 dicembre 2017, qualora questa derivi esclusivamente da prestazione effettiva di lavoro, prevedendo deroghe per i periodi di astensione obbligatoria per maternità, per l'assolvimento degli obblighi di leva, per infortunio, per malattia e di cassa integrazione guadagni ordinaria, ma non per i periodo riconosciuti ai sensi della citata legge 257 del 1992;
tale esclusione presenta, a parere dell'interrogante, aspetti paradossali, poiché da un lato l'ordinamento garantisce ai lavoratori esposti all'amianto il diritto di anticipare il pensionamento in ragione dei maggiori rischi cui sono sottoposti – legati a una possibile minore aspettativa di vita rispetto alla media –, mentre dall'altro li penalizza per ciò che attiene l'importo del trattamento pensionistico che percepiranno, in ragione della medesima anticipazione;
la riforma pensionistica del dicembre 2011, avendo previsto un parametro anagrafico, 62 anni, indifferenziato per il meccanismo delle penalizzazioni – e quindi non tenendo conto della diversa aspettativa di vita dei lavoratori esposti all'amianto – presenta, a parere dell'interrogante, evidenti profili di iniquità che andrebbero urgentemente sanati –:
se non ritenga necessario intervenire, anche con specifiche iniziative se del caso normative correttive, al fine di superare le incongruenze sommariamente esposte in premessa, scongiurando gli effetti dell'applicazione delle disposizioni in materia di penalizzazioni di cui all'articolo 24, comma 10, del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201 per i lavoratori del settore dell'amianto. (5-00375)
BARBANTI, MICILLO, TACCONI, BUSTO, MANTERO, CIPRINI, BALDASSARRE, D'UVA, SPESSOTTO, PAOLO BERNINI, PISANO, ROSTELLATO, GAGNARLI, ARTINI, LIUZZI, MUCCI, PESCO, LUPO, CURRÒ, MANLIO DI STEFANO, D'AMBROSIO, ZACCAGNINI, DE LORENZIS, TERZONI, BUSINAROLO, PARENTELA, RUOCCO, L'ABBATE, TOFALO, MASSIMILIANO BERNINI, GALLINELLA, NESCI. — Al Ministro delle infrastrutture e dei trasporti. — Per sapere – premesso che:
a quanto risulta dagli interroganti da qualche mese ormai, il tratto della strada statale 18 tirrenica in località «Principessa» nel comune di Amantea (CS), unica via di comunicazione stradale fra le aree tirreniche del cosentino e del catanzarese, nonché unica strada capace di collegare una amplissima area territoriale interprovinciale con la grande area urbana del lametino e l'aeroporto internazionale di Lamezia Terme, risulta parzialmente ma fortemente erosa dalle mareggiate che hanno colpito la costa, con evidente risultato la difficile praticabilità di tale arteria se non attraverso l'ausilio delle forze dell'ordine e di interventi tampone dell'ente competente (regione Calabria) che garantiscono a fasi alterne la circolazione su gomma in entrambe le direzioni nord-sud, con grave limitazione dei diritti dell'utenza;
tra le ultime mareggiate, quelle del 14 e 15 marzo 2013 hanno richiesto, oltre l'immediato intervento dell'ANAS diretto a rimettere in sicurezza tramite scogliera il corpo stradale della strada statale 18 in Località «Principessa», un impegno delle risorse del comune di Amantea per 200.000,00 euro;
la costruzione del cosiddetto porticciolo turistico nel comune di Amantea, realizzato con fonti regionali e parzialmente ricadente nel demanio marittimo, gestito dal comune di Amantea, ha fortemente contribuito (se non come causa principale sicuramente in modo prevalente) al progressivo incremento dei danni accusati nell'ultimo periodo dalla strada statale 18; conclusione peraltro sancita in un provvedimento giudiziale emesso dal Tribunale di Paola, in sede civile, in seguito a ricorso per accertamento tecnico preventivo instaurato da un imprenditore del luogo e che non ha comunque indotto gli enti interessati all'adozione di qualsivoglia provvedimento decisivo né ad una verifica amministrativa e/o tecnica, seppur in sede di autotutela;
la questione sulla verifica dell'impatto ambientale dell'opera, sulle conseguenze prodotte negli anni e che potranno ancora prodursi in futuro, con conseguenze di natura pubblica per il pregiudizio dei diritti degli utenti e cittadini e per il corretto andamento della amministrazione (per l'eventuale esborso di denaro pubblico, anche sotto il profilo risarcitorio), non sembra aver indotto alcuno degli enti interessati – almeno sinora – ad avanzare una proposta tendente all'accertamento della potenziale pericolosità, inutilità e antieconomicità della gestione di un'opera discutibile ab origine (peraltro sottoposta a vincoli di bilancio e controllo giurisdizionale contabile), atteso che, dalla sua inaugurazione ed apertura ad oggi, il comune di Amantea ha dovuto sostenere ingenti costi di manutenzione (40.000 euro di contributi richiesti solo nel 2012) derivanti dal continuo e costante insabbiamento dell'imbocco che ne ha reso, da un lato, praticamente impossibile la fruizione per la maggior parte del tempo nel corso dell'anno, dall'altro, ha provocato il concreto annullamento della battigia a ovest dell'imbocco del cosiddetto porticciolo turistico;
ad oggi solo il prefetto di Cosenza, giustamente interessato alla situazione, ha convocato su esplicita richiesta una delegazione del Movimento 5 Stelle di Amantea che ha provveduto a sensibilizzare l'autorità che egli rappresenta ai gravi problemi del territorio interessato;
si ritiene di dover rimarcare l'inerzia degli organi competenti che nel corso degli anni hanno ampiamente sottovalutato le evidenti conseguenze manifestate dal ripetersi di certi eventi naturali, e come tali facilmente prevedibili, oltre l'omissione di indagine su cause e concause che hanno contribuito ad alimentare il fenomeno erosivo per porvi rimedio: obiettivo fondamentale dell'esercizio del potere decisionale ad osservanza del dovere pubblico di garantire i diritti fondamentali dei cittadini;
il fenomeno erosivo appare accresciuto ictu oculi dalla realizzazione dell'opera, che doveva rivelarsi fondamentale per il turismo del territorio, nell'interesse superiore della cittadinanza di affrancarsi dalla terribile recente crisi economica;
gli interventi estemporanei succedutisi nel tempo a giudizio degli interroganti sono non risolutivi ed, anzi, volti a procrastinare unicamente la soluzione della problematica esposta con l'aggravante di inutili esborsi di denaro pubblico –:
di quali elementi disponga il Governo, anche per il tramite di ANAS, in ordine agli effetti della realizzazione del porticciolo turistico nel comune di Amantea sulla praticabilità della strada statale 18 Tirrenica e quali eventuali iniziative ANAS abbia intrapreso affinché siano sanate eventuali criticità del progetto; quali siano le iniziative assunte dai vari enti coinvolti a seguito dell'incontro con il prefetto di Cosenza di cui in premessa. (4-00939)
BOCCIA, BOBBA. — Al Ministro dell'economia e delle finanze. — Per sapere – premesso che:
l'articolo 1, comma 337, della legge 23 dicembre 2005, n. 226 (legge finanziaria per il 2006), ha introdotto nel nostro ordinamento, a titolo iniziale e sperimentale, la possibilità da parte dei contribuenti di destinare una quota pari al 5 per mille dell'imposta sul reddito delle persone fisiche per finalità di sostegno del volontariato e delle altre organizzazioni non lucrative di utilità o promozione sociale, nonché al fine di promuovere il finanziamento della ricerca scientifica, dell'università e della ricerca sanitaria;
la disposizione è stata successivamente prorogata di anno in anno, ricollegando ad essa un limite massimo di spesa, da ultimo quantificato per l'anno 2013 in 400 milioni di euro;
circa 16 milioni di cittadini italiani, in sede di presentazione delle dichiarazioni contributive, sceglie di destinare una quota pari al 5 per mille dell'imposta sul reddito delle persone fisiche alle finalità sopra richiamate, in tal modo attestando l'importanza del ruolo e delle azioni svolte dalle organizzazioni operanti nel «terzo settore»;
l'istituto del 5 per mille rappresenta uno strumento fondamentale per la tutela della salute, dei diritti civili e degli interessi sociali di milioni di beneficiari del «terzo settore», tanto più in un periodo, come quello attuale, in cui la crisi economica rende più difficile il reperimento da altre fonti delle risorse necessarie;
l'istituto del 5 per mille riveste ancora natura precaria, come dimostrato dal fatto che annualmente occorre procedere all'adozione di misure normative volte a prorogarne l'efficacia, non consentendo alle organizzazioni no profit di programmare in maniera adeguata le proprie attività;
il tetto di spesa di 400 milioni di euro annui risulta inferiore alle risorse che dovrebbero essere destinate in favore delle organizzazioni sopra indicate, sulla base delle scelte effettivamente compiute dai contribuenti italiani;
numerose organizzazioni no profit italiane rappresentative del «terzo settore» – tra cui, a puro titolo esemplificativo, l'AIRC (Associazione italiana ricerca sul cancro), Amnesty International, Emergency, il FAI (Fondo ambientale italiano), Greenpeace Italia e il WWF Italia onlus – hanno rappresentato l'esigenza che il Governo introduca, tra i suoi primi provvedimenti, una norma volta ad assicurare la stabilizzazione dello strumento del 5 per mille, con parallela eliminazione del tetto attualmente previsto –:
se il Governo, allo scopo di promuovere opportunità di crescita del «terzo settore», intenda adottare iniziative normative volte a rendere permanente l'istituto del 5 per mille, anche attraverso la definizione di tempi certi per l'erogazione degli importi spettanti a ciascun ente, e a sopprimere o, quantomeno, ad elevare in misura congrua il tetto di spesa da destinare alle organizzazioni beneficiarie.
(5-00391)
BELLANOVA, CAPONE. — Al Ministro dell'istruzione, dell'università e della ricerca, al Ministro della salute. — Per sapere – premesso che:
sugli organi di stampa emerge una notizia preoccupante che interessa la sezione ospedaliera di una scuola elementare e media del nosocomio leccese Vito Fazzi;
sembrerebbe che a causa dei drastici tagli imposti dalla «riforma Gelmini» circa il personale docente «un'iniziativa encomiabile, quella della scuola in ospedale, partita a settembre scorso, ora rischia di naufragare»;
grazie ad un progetto presentato dall'istituto comprensivo Scarambone di Lecce, scuola capofila, e dall'istituto comprensivo Diaz-Alighieri di Lecce ed approvato dall'ufficio scolastico regionale e provinciale, i bambini e i ragazzi ricoverati nei reparti di pediatria e di oncoematologia pediatrica hanno potuto per l'anno scolastico 2012-2013 continuare a studiare, accompagnati nel loro percorso formativo da tre insegnanti per la primaria, due docenti per la secondaria di primo grado e tre docenti per la secondaria di secondo grado;
ad aprile 2013, si legge «i bambini e i ragazzi in virtù della ristrutturazione del III piano del polo Oncologico, ad opera dell'associazione – Per un sorriso in più – hanno usufruito di aule didattiche luminose, in cui dimenticare per qualche ora, la loro condizione di degenti, per ritornare ad essere solo alunni»;
questa buona prassi, che ha una valenza formativa e psicologica importantissima per i piccoli degenti, rischia però di essere seriamente offuscata. Pare, infatti, che per il prossimo anno scolastico la «scuola in ospedale» rischi di non funzionare più secondo il programma iniziale. Il Ministero dell'istruzione, dell'università e della ricerca ha deciso una drastica riduzione di organico per la sopra citata sezione ospedaliera; dei tre insegnanti delle elementari ne rimarrà solo uno ed uno spezzone di 12 ore. Per le medie, addirittura si parla di nessun docente titolare, ma solo un inconsistente numero di ore. Sembrerebbero salve le cattedre della scuola secondaria di secondo grado, ma gli organici previsti non sono stati ancora pubblicati;
per questi bambini e ragazzi la possibilità di poter proseguire gli studi, nonostante la degenza ospedaliera, oltre a dover essere un sacrosanto diritto; rappresenta anche uno spaccato vitale di normalità in un contesto duro, fatto di sofferenza e dolore che dovrebbe, contrariamente a quanto sta accadendo non essere ridimensionato, ma semmai incrementato –:
quali iniziative di competenza i Ministri interrogati intendano intraprendere per evitare che l'iniziativa «scuola in ospedale» del nosocomio leccese non venga posta a repentaglio per esigenze di mero bilancio, ciò anche a fronte dell'importantissimo ausilio che la stessa fornisce ai bambini e ai ragazzi degenti non solo dal punto di vista formativo ed educativo, ma anche e soprattutto psicologico. (5-00423)
BALDASSARRE, BECHIS, CIPRINI, COMINARDI, RIZZETTO, ROSTELLATO e TRIPIEDI. — Al Ministro del lavoro e delle politiche sociali. — Per sapere – premesso che:
all'articolo 24 della legge n. 214 del 2011 si afferma che a far data 1° gennaio 2012 tutte le pensioni saranno agganciate esclusivamente ai contributi versati (sistema contributivo);
nella circolare INPS n. 35/2012 viene esemplificato che i lavoratori che avevano maturato 18 anni di anzianità contributiva alla data 31 dicembre 1995 rientreranno in un sistema di calcolo misto, retributivo fino al 31 dicembre 2011 e contributivo pro rata a far data 1° gennaio 2012;
la prima «quota», calcolata con sistema retributivo, viene determinata con le modalità previste dagli articoli 7 e 13 del decreto legislativo n. 503 del 1992, la seconda «quota» è determinata con il sistema contributivo pro rata per il periodo che intercorre tra il 1o gennaio 2012 e la data di pensionamento;
l'interpretazione data dalla circolare INPS n. 35/2012 apparirebbe restrittiva rispetto alle disposizioni effettivamente dettate dall'articolo 24 della legge n. 214 del 2011;
l'interpretazione data da INPS e INPDAP in fase applicativa del calcolo pensionistico, sembra prendere in considerazione l'ultima retribuzione percepita all'atto del pensionamento anche se successivo all'entrata in vigore della riforma, 1o gennaio 2012;
secondo interpretazioni diverse da quelle offerte da INPS, che provengono da più parti tra gli operatori del settore, il calcolo non dovrebbe essere effettuato sull'ultima retribuzione percepita all'atto del pensionamento, bensì su quella percepita al 31 dicembre 2011 –:
se il Ministro interrogato non ritenga opportuno porre la propria attenzione, per quanto di competenza, sulla problematica sopra descritta, al fine di verificare l'esattezza interpretativa data dalla circolare stessa. (4-00887)