Camera dei deputati - XVII Legislatura - Dossier di documentazione
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Autore: | Ufficio Rapporti con l'Unione Europea | ||||
Titolo: | Conferenza interparlamentare sulle politiche estera e di sicurezza e di difesa comuni (PESC-PSDC) - Atene, 3-4 aprile 2014 | ||||
Serie: | Documentazione per le Commissioni - Riunioni interparlamentari Numero: 27 | ||||
Data: | 01/04/2014 | ||||
Descrittori: |
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Senato della Repubblica
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Camera dei deputati
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XVII LEGISLATURA
Documentazione per le Commissioni
riunioni interparlamentari
Conferenza interparlamentare sulle politiche estera
e di sicurezza e di difesa comuni (PESC-PSDC)
Atene, 3-4 aprile 2014
Senato della Repubblica n. 33/AP |
Camera dei deputati n. 27 |
1° aprile 2014
Il dossier è stato curato dall’Ufficio rapporti con l’Unione europea della Camera dei deputati (' 066760.2145 - * cdrue@camera.it) e dall’Ufficio dei rapporti con le Istituzioni dell’Unione europea del Senato della Repubblica ('06 6706.2891 - * affeuropei@senato.it).
I capitoli “Gli ultimi sviluppi della crisi ucraina” e “Recenti sviluppi in Medio Oriente” sono stati curati dal Dipartimento Affari esteri del Servizio Studi della Camera dei deputati ('066760.4939)
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Il Senato della Repubblica e la Camera dei deputati declinano ogni responsabilità per la loro eventuale utilizzazione o riproduzione per fini non consentiti dalla legge.
I N D I C E
La revisione del regolamento della Conferenza per controllo parlamentare sulla PESC/PSDC
Sfide di sicurezza nel vicinato meridionale dell’UE la prospettiva nazionale
La "crisi di Lampedusa" e la Task Force "Mediterraneo"
Gli ultimi sviluppi della crisi ucraina
La dichiarazione di indipendenza della Crimea e le reazioni internazionali
Il referendum sull'annessione della Crimea alla Russia
La più recente attività parlamentare
Rapporti tra l’Unione Europea e l’Ucraina
Le istituzioni europee e la crisi ucraina
Aumentare l'efficacia, la visibilità e l'impatto della PSDC
Potenziare lo sviluppo delle capacità
Rafforzare l'industria europea della difesa
La comunicazione della Commissione e dell’Alto Rappresentante
La posizione dell’Italia e il non paper
Workshop 2 – Recenti sviluppi in Medio Oriente
Lo sviluppo delle capacità militari
Recenti iniziative volte a migliorare la capacità di risposta rapida dell’UE
I Gruppi tattici (Battlegroups)
Il finanziamento delle Missioni PSDC: il meccanismo Athena
Processo decisionale di avvio di una missione militare UE
Le missioni in corso nell’’ambito della PSDC dell’UE
Posizione del Parlamento europeo
La partecipazione dell’Italia alle missioni internazionali
Stato dei lavori
In occasione del seminario che si è svolto ad Atene il 21 febbraio 2014, presso il Parlamento greco, il gruppo di lavoro costituito per la revisione del regolamento della Conferenza per il controllo parlamentare sulla politica estera e di sicurezza comune (PESC) e sulla politica di sicurezza e difesa comune (PSDC), ha esaminato gli emendamenti e le proposte di modifica al regolamento trasmessi dai Parlamenti.
Il processo di revisione del regolamento della Conferenza per il controllo parlamentare sulla PESC/PSDC - condotto da un Comitato ad hoc per il riesame e da un gruppo di lavoro - dovrebbe concludersi in occasione della Conferenza dei Presidenti dei Parlamenti dell’UE che si svolgerà nell’autunno del 2015, sotto Presidenza italiana[2].
Il Gruppo di lavoro ha proceduto ad esaminare le proposte di modifica sulla base delle 4 categorie individuate dalla Presidenza lituana: 1) proposte compatibili con il Trattato e con le conclusioni della Conferenza dei Presidenti dei Parlamenti dell’UE di Varsavia (sulla cui base è stata istituita la Conferenza per il controllo parlamentare sulla PESC/PSDC; 2) proposte non previste dai Trattati; 3) proposte in contraddizione con le conclusioni di Varsavia; 4) proposte da approfondire.
Ha ritenuto di non prendere in considerazione le proposte rientranti nella categoria 3, giudicando la Conferenza dei Presidenti dei Parlamenti dell’UE la sede competente per il loro esame.
Per quanto riguarda le altre categorie, il gruppo di lavoro ha convenuto di sottoporre al Comitato ad hoc le seguenti proposte:
Categoria 1 (proposte compatibili con il Trattato e con le conclusioni di Varsavia)
· l’acronimo per la Conferenza potrebbe essere scelto tra la sigla “IPC-CFSP”, “IPC-CFSP/CSDP” “IPC-FASDP”, dove la sigla IPC si riferisce alla dizione inglese Interparliamentary Conference, quella CFSP a “Common foreign security policy”; quella CSDP a “Common security and defense policy” e quella FASDP a “Foreign affairs, security and defense policy”;
· un intervento di mero coordinamento formale al paragrafo 3.1.
Categoria 2 (proposte non previste dai Trattati)
· un emendamento (proposto dal Parlamento spagnolo) all’articolo 2.3 per il quale si prevede oltre alla presentazione delle priorità dell’EU da parte dell’Alto Rappresentante anche la loro discussione.
Categoria 4 (proposte da approfondire)
· un emendamento per un nuovo articolo (proposta del Parlamento lettone) che stabilisca che il regolamento della Conferenza sia redatto in inglese e francese, le due lingue di lavoro della Conferenza.
Per quanto riguarda le altre proposte, considerato che la maggior parte di esse possono trovare attuazione senza modificare il regolamento della Conferenza, il gruppo di lavoro ha ritenuto di accogliere la proposta della Presidenza greca, volta a riunirle in una guida delle migliori prassi:
· composizione della Conferenza: ciascun Parlamento nazionale può designare fino a 6 rappresentanti e il Parlamento europeo fino a 16 rappresentanti delle commissioni parlamentari competenti;
· Troika Presidenziale: l’istituzionalizzazione della troika presidenziale su modello della COSAC, non è ritenute necessaria. La Presidenza, in stretta cooperazione con il Parlamento europeo e la troika presidenziale lavora alla preparazione della conferenza e i suggerimenti dalle altre delegazioni sono sempre ben accetti;
· comunicazione e cooperazione tra le delegazioni: la rete dei funzionari rappresentanti dei Parlamenti nazionali a Bruxelles ha dimostrato di essere la sede appropriata per facilitare eventuali necessità di comunicazione e cooperazione tra le delegazioni;
· qualità dei dibattiti: la Conferenza ha già sperimentato modalità per articolare le discussioni con dibattiti tematici e gruppi di lavoro, che potranno essere ulteriormente sviluppate. Il contributo di specialisti che potrebbero essere invitati è valutato positivamente. Ugualmente dovrebbero essere esplorate modalità per ribilanciare i tempi di parola: da presentazioni eccessivamente lunghe a tempi più ampi per domande e risposte, al fine di consentire a ciascuna Camera di potere contribuire al dibattito;
· regola del consenso: si ritiene che non ci possano essere eccezioni al principio nel processo decisionale della Conferenza;
· segretariato della Conferenza: l’istituzionalizzazione di un Segretariato permanente o altre forme di istituzionalizzazione sono considerate non opportune. La predisposizione di un rapporto di rendiconto o di ogni altro documento ufficiale dovrebbe essere lasciato alla decisione di ciascuna Presidenza e sulla base di una valutazione caso per caso;
· progetto di conclusioni: la prassi di far circolare la bozza di conclusioni della Conferenza in tempo utile prima della riunione per eventuali emendamenti dovrebbe essere mantenuta. Tuttavia, non appare opportuno stabilire delle scadenze rigide per loro circolazione a cura della Presidenza;
· Presenza dell’Alto Rappresentante: la costante presenza dell’Alto Rappresentante alle Conferenze interparlamentari si è dimostrata utile per la discussione sulle priorità e le strategie dell’UE nell’ambito della PESC/PSDC. Si ritiene che la sessione plenaria con l’Altro rappresentante possa essere usata per trattare argomenti non previsti. Ogni eventuale altro apporto dell’Alto Rappresentate ai lavori della Conferenza è considerato positivamente dalle delegazioni;
· Gruppi politici: la Presidenza ha già previsto la possibilità di riunioni informali delle famiglie politiche a margine di ogni conferenza;
· Comunicazione dei documenti: la Presidenza dovrebbe assicurare che tutti i documenti relativi ad una conferenza siano resi disponibili nell’apposita sezione del sito IPEX.
Il tema della sicurezza nel Mediterraneo è sempre stato parte integrante della politica di vicinato dell'Unione europea e della sua dimensione meridionale, nella consapevolezza che la cooperazione economica e politica con i paesi della sponda meridionale e orientale del Mediterraneo è uno strumento indispensabile per approdare a un governo comune di fenomeni che rischiano, se abbandonati a se stessi, di accentuare l'instabilità dell'area.
In questa chiave, la Commissione europea e l'Alto Rappresentante, con la loro comunicazione congiunta dell'8 marzo 2011 "Un partenariato per la democrazia e la prosperità condivisa con il Mediterraneo meridionale" (COM (2011) 200), hanno tentato di reagire agli eventi della cosiddetta "primavera araba" proponendo un impegno comune con i partner del Mediterraneo del sud "per la democrazia, i diritti umani, la giustizia sociale, il buon governo e lo Stato di diritto", basato su un'impostazione differenziata, che tenga conto della specificità di ciascun paese.
Il Partenariato si incardina essenzialmente su tre elementi:
· trasformazione democratica e sviluppo istituzionale, con particolare attenzione alle libertà fondamentali, alle riforme costituzionali, alla riforma del sistema giudiziario e alla lotta contro la corruzione;
· un partenariato più forte con la popolazione, con particolare enfasi sul sostegno alla società civile e sulle maggiori opportunità di scambi e di contatti interpersonali, particolarmente per i giovani;
· crescita e sviluppo economico sostenibili e inclusivi, e in particolare sostegno alle piccole e medie imprese, allâistruzione e alla formazione professionale, al miglioramento dei sistemi d'istruzione e sanitario e allo sviluppo delle regioni più povere.
Sul tema della mobilità, l'UE intende affrontare le sfide legate a un possibile aumento dei flussi migratori attraverso partenariati per la mobilità, il potenziamento della cooperazione locale Schengen e un pieno utilizzo dei miglioramenti del codice UE dei visti.
I temi della migrazione, della mobilità e della sicurezza sono stati ripresi e approfonditi da un'ulteriore comunicazione della Commissione, del 24 maggio 2011 (COM (2011) 292), basata sulla distinzione tra misure urgenti per far fronte alla crescita dei flussi di migranti e misure da sviluppare sul breve e medio periodo.
Le misure urgenti sono consistite in:
· destinazione di fondi per evacuare e rimpatriare i cittadini di paesi terzi e per offrire assistenza alle persone in stato di necessità in Libia e nei paesi vicini;
· avvio dell'operazione congiunta "EPN Hermes Extension 2011" da parte di Frontex, diretta ad aiutare l'Italia a tenere sotto controllo gli sbarchi di migranti e di rifugiati;
· stanziamento di un importo supplementare nel quadro del Fondo per le frontiere esterne e del Fondo europeo per i rifugiati.
Le misure per il breve e medio periodo constano invece:
· in ulteriori finanziamenti per l'assistenza umanitaria di coloro che si trovano in stato di necessità sia in Libia che nei paesi limitrofi, nonchè per il rimpatrio dei cittadini in fuga dal conflitto in Libia;
· nel potenziamento dell'operazione congiunta "EPN HERMES Extension" con risorse tecniche supplementari messe a disposizione dagli Stati membri;
· nell'ampliamento delle competenze di Frontex, dotandola anche di strumenti più efficaci;
· nell'invitare Frontex ad accelerare i negoziati per la conclusione di accordi operativi con le autorità competenti di Egitto, Marocco e Turchia, per i quali ha gia ricevuto mandato, e per avviarne con la Tunisia;
· nel garantire che gli Stati membri facciano pieno uso delle risorse finanziarie assegnate dal Fondo per le frontiere esterne, dal Fondo per i rimpatri e dal Fondo per i rifugiati, e prevedere ulteriori risorse destinate ad assistere gli Stati membri che si trovano ad affrontare situazioni di emergenza;
· nell'attuare un programma di protezione regionale che includa l'Egitto, la Libia e la Tunisia, allo scopo di aumentare la possibilità di assistere i rifugiati che si trovano in tali paesi;
· nel pianificare e attuare il reinsediamento del maggior numero possibile di persone che necessitano di protezione internazionale dal territorio dei paesi confinanti con la Libia verso gli Stati membri e gli altri paesi disposti ad accoglierli.
Per quanto riguarda le misure più a lungo termine, esse consisteranno sostanzialmente nell'avvio di partenariati per la mobilità, fondati su un approccio su misura per ciascun paese. Il dialogo con i paesi del sud del Mediterraneo si fonderà sui principi di differenziazione, bilateralità, condizionalità e verifica costante.
Lo scorso 27 marzo la Commissione e l'Alto Rappresentante hanno presentato una Comunicazione congiunta nella quale fanno il punto sull'attuazione della Politica europea di vicinato, con particolare riferimento a quanto avvenuto nel 2013 e alle prospettive per il 2014 e gli anni a venire.
Le ripetute crisi nei Paesi della sponda sud ed est del Mediterraneo, e in particolare la guerra civile in corso in Siria e il suo impatto negativo sui paesi confinanti, hanno richiesto un'attenzione e un impegno rafforzati da parte dell'Unione. Grazie alle competenze attribuite dal Trattato di Lisbona e ai nuovi strumenti, politici e tecnici, che da esse derivano, l'Unione ha potuto recitare un ruolo politico maggiore nei processi di transizione che Tunisia, Egitto e Libia stanno attraversando. L'Alto Rappresentante ha stabilito legami forti con i vari attori politici, godendo di un accesso diretto anche nelle circostanze politiche più difficili, e la sua azione è stata affiancata e ulteriormente rafforzata dall'operato del Rappresentante speciale dell'UE per il vicinato meridionale, Bernardino Leon, e dal Rappresentante speciale dell'UE per i diritti umani, Stavros Lambrinidis. Per quanto concerne in particolare la Siria, la Comunicazione congiunta per un approccio globale dell'UE alla crisi siriana (JOIN (2013) 22/2) è stata accompagnata da un'assistenza finanziaria aggiuntiva pari a 400 milioni di euro.
Il quadro generale, come delineatosi nel corso del 2013, rimane peraltro problematico: se la transizione democratica in Tunisia è proceduta rapidamente, grazie a un modello inclusivo di dialogo e nonostante diverse minacce alla sicurezza interna, culminando nell'insediamento di un nuovo governo nel dicembre 2013 e nella successiva adozione di una nuova Costituzione nel gennaio 2014, in Egitto, dopo una serie di dimostrazioni popolari e un ultimatum da parte delle forze armate, il presidente Morsi è stato esautorato e sostituito da un Capo dello Stato ad interim. In Marocco un contesto politico particolarmente difficile non ha consentito una piena attuazione degli impegni previsti dalla riforma costituzionale del 2011. La Libia deve ancora affrontare sfide molto gravi in termini di sicurezza, sia sul fronte interno che a carattere regionale (Sahel, crisi nel Mali). Il Libano (dove si è insediato un nuovo governo) e la Giordania si trovano costretti a fronteggiare il forte impatto della guerra civile siriana sui loro sistemi politici, economici e sociali, che compromette seriamente la capacità di procedere sulla via delle riforme politiche e strutturali. Va segnalato infine lo sforzo degli Stati Uniti per la pace israelo-palestinese, che ha condotto a una ripresa dei negoziati a partire dal luglio del 2013.
Per quanto concerne più nello specifico le problematiche connesse ai flussi migratori, la comunicazione si sofferma - considerandolo un risultato di estrema importanza - sulla firma di partenariati per la mobilità con Marocco (giugno 2013) e Tunisia (marzo 2014), nonchè sullâapertura di negoziati in tal senso anche con la Giordania (dicembre 2013), e ricorda le iniziative poste in essere dalla Commissione a seguito del tragico naufragio di Lampedusa, discusse dal Consiglio europeo di dicembre 2013.
Per quanto attiene infine alle attività più strettamente connesse alla PSDC, si sottolinea come l’UE sia già coinvolta in diversi paesi in missioni di gestione delle frontiere, monitoraggio e sostegno, e si citano in particolare le missioni EUBAM Lybia, EUBAM Rafah ed EUPOL COPPS. Le missioni sono sempre e comunque accompagnate da programmi volti a rafforzare la capacity building dei paesi partner e ad aprire la strada alle riforme istituzionali.
Il 4 dicembre 2013 la Commissione europea ha presentato un'importante comunicazione "sull'attività della Task Force Mediterraneo" (COM (2013) 869), istituita in seguito al Consiglio GAI del 7-8 ottobre 2013 e accolta con soddisfazione dal Consiglio europeo di ottobre, per rispondere alla crescente incidenza delle tragedie legate ai flussi di migranti nel Mediterraneo, con particolare riferimento all'affondamento, il 3 ottobre 2013, di unâimbarcazione con circa 500 migranti al largo dell'isola di Lampedusa.
Nelle prime discussioni svoltesi durante le riunioni della Task Force e sulla base del suo mandato è emersa la necessità di ricorrere a una vasta gamma di misure seguendo un approccio integrato per l'intera area mediterranea, "in quanto i tragici eventi di Lampedusa si inseriscono in una problematica complessa e di lunga data".
Le azioni delineate dalla comunicazione seguono un'impostazione olistica, "concentrandosi al tempo stesso su soluzioni immediate e pratiche a breve termine che possano completare le attività in corso nell'intero Mediterraneo", e pertengono a cinque settori fondamentali:
· azioni in cooperazione con paesi terzi: firma e avvio dell'attuazione del partenariato per la mobilità con la Tunisia; attuazione delle iniziative di cooperazione previste dal partenariato per la mobilità con il Marocco; avvio dei negoziati del partenariato per la mobilità con la Giordania; avvio di nuovi dialoghi su migrazione, mobilità e sicurezza con Egitto, Libia, Algeria e Libano; rafforzamento del dialogo e della cooperazione con la Turchia al fine di potenziarne ulteriormente la capacità di smantellare le reti di passatori che organizzano le partenze illegali, di impedire queste partenze tramite una sorveglianza più intensa alle frontiere, di scambiare prontamente informazioni con gli Stati membri dell'UE interessati e di giungere alla completa attuazione dell'accordo di riammissione; dialogo politico e cooperazione rafforzata con i paesi di origine nell’Africa orientale e occidentale; avviamento di campagne di informazione e sensibilizzazione, specialmente nell'ambito di azioni generali dell'UE sulla migrazione; discussione di una eventuale partecipazione dei paesi di partenza alle operazioni di sorveglianza marittima, all'interno del quadro giuridico di Frontex e di Eurosur; riproduzione, laddove possibile e opportuno, delle esperienze operative maturate da alcuni Stati membri in materia di pattugliamento congiunto nelle acque territoriali dei paesi terzi; previsione di uno specifico e ampio dibattito sulla migrazione (che riguardi, fra lâaltro, il rimpatrio volontario, la riammissione, la reintegrazione, l'accoglienza, la protezione internazionale, la lotta contro il traffico e le reti criminali, lo sviluppo di capacità, i diritti umani dei migranti e le cause profonde della migrazione irregolare) in vista del vertice UE-Africa di aprile 2014 e della quarta conferenza ministeriale UE-Africa sulla migrazione e lo sviluppo del secondo semestre 2014; sviluppo della cooperazione e dello scambio di informazioni e sinergie tra Stati membri, con il contributo delle agenzie dell'UE nel settore GAI e di altri organismi interessati;
· programmi di protezione regionale, reinsediamento e rafforzamento delle possibilità di immigrazione legale in Europa. Il reinsediamento, in particolare, è un mezzo importante per consentire a chi necessita di protezione di raggiungere sano e salvo l'Unione europea senza imbarcarsi in pericolosi trasferimenti sul Mediterraneo. Ne va pertanto incoraggiato l'uso, accompagnandolo con azioni che promuovano l'autonomia dei rifugiati nei paesi terzi e aumentino le opportunità di mobilità regolare a scopo di studio e di lavoro, offrendo tra l'altro modalità di ingresso alternative ai potenziali richiedenti asilo;
· lotta contro la tratta, il traffico e la criminalità organizzata. L'UE è chiamata a prendere nuove, decisive misure di lotta contro le reti di criminalità organizzata - comprese quelle dei trafficanti - che sfruttano il desiderio dei migranti di migliorare le proprie condizioni di vita, e ad avviare a tal fine nuove iniziative in cooperazione con gli Stati membri e con i paesi terzi, Frontex, Europol, EASO e Interpol. Tali attività si concentreranno innanzitutto sull'attuazione e il rafforzamento delle priorità adottate dal Consiglio GAI all'interno del ciclo politico dell'UE sulle forme gravi di criminalità organizzata internazionale: l'immigrazione irregolare, compreso il traffico di migranti, e la tratta di esseri umani. Su questa base, l'UE sosterrà ulteriori programmi di sviluppo delle capacità per affrontare il traffico e la tratta di esseri umani nellâ'Africa settentrionale, nei principali paesi d'origine e nei paesi di primo asilo;
· rafforzamento della sorveglianza delle frontiere, per contribuire a migliorare il quadro situazionale marittimo e a proteggere e salvare i migranti nel Mediterraneo. In tale ambito, sempre più fondamentale dovrà divenire il ruolo di Frontex nel coordinare le operazioni degli Stati membri nel Mediterraneo e garantire un controllo efficace delle frontiere, contribuendo al contempo a proteggere coloro che ne hanno bisogno e a salvare i migranti. Contestualmente, è necessario e urgente migliorare il livello di scambio di informazioni sul quadro situazionale nel Mediterraneo, sfruttando a pieno le opportunità offerte da Eurosur, il sistema europeo di sorveglianza delle frontiere che è divenuto operativo il 2 dicembre 2013;
· assistenza e solidarietà nei confronti degli Stati membri che devono affrontare forti pressioni migratorie. Gli Stati membri sono chiamati a recepire e attuare in via prioritaria l'acquis riveduto in materia di asilo e applicare gli approcci basati sulla comunicazione della Commissione sulla solidarietà all'interno dell'UE, servendosi degli strumenti di supporto sviluppati dall'EASO. Ulteriori iniziative di cooperazione per aiutare gli Stati membri sotto pressione a gestire i loro flussi migratori e ad esaminare le domande di asilo in modo rapido ed efficace possono essere avviate sfruttando anche gli appositi Fondi UE. Andrebbe in particolare rafforzata la "pianificazione di contingenza", per prevenire se possibile le crisi e per affrontare le emergenze quando esse si verifichino.
Sui flussi migratori nel Mediterraneo e sui tragici eventi verificatisi al largo di Lampedusa il Parlamento europeo ha approvato un'importante risoluzione nella seduta del 23 ottobre 2013, nella quale auspica in primo luogo che i suddetti eventi rappresentino "un punto di svolta per l'Europa" e conducano all'adozione di "un approccio coordinato basato sulla solidarietà e sulla responsabilità e sostenuto da strumenti comuni". Accoglie altresì con favore "l'intenzione della Commissione di istituire una task force sulla questione dei flussi migratori nel Mediterraneo; ritiene che detta task force debba includere sia una componente politica sia una componente operativa", e ribadisce che la sua istituzione "dovrebbe essere considerata soltanto un primo passo verso un approccio più ambizioso". Chiede un aumento del bilancio destinato all’Ufficio europeo di sostegno per l'asilo (EASO) e a FRONTEX; invita a concordare rapidamente "nuove disposizioni vincolanti in materia di intercettazione per quanto riguarda le operazioni in mare svolte sotto il coordinamento di FRONTEX, in modo da conseguire misure di soccorso efficaci e coordinate a livello di Unione e garantire che le operazioni siano condotte nel pieno rispetto delle pertinenti leggi e norme internazionali in materia di diritti umani e rifugiati, nonchè degli obblighi derivanti dal diritto del mare". Il PE chiede altresì che sia adottato "un approccio più olistico alla migrazione in modo da garantire che le questioni legate a tale fenomeno siano affrontate in maniera globale", ed esorta l'Unione "a elaborare una strategia più ampia, soprattutto per il Mediterraneo, che ponga la migrazione dei lavoratori nel contesto dello sviluppo sociale, economico e politico dei paesi del vicinato", e a "stabilire sanzioni penali severe nei confronti di quanti favoriscono la tratta di esseri umani verso l'UE", modificando e rivedendo altres' "eventuali normative che infliggono sanzioni a coloro che prestano assistenza ai migranti in pericolo in mare". Invita l'UE "a continuare a offrire assistenza umanitaria, finanziaria e politica nelle aree di crisi dell'Africa settentrionale e del Medio Oriente per affrontare alla radice le cause delle pressioni migratorie e umanitarie", e gli Stati membri a rispettare il principio di non respingimento, ponendo immediatamente fine a eventuali pratiche di detenzione inappropriata e prolungata in violazione del diritto internazionale ed europeo e "a sopperire alle necessità impellenti attraverso il re insediamento, in aggiunta alle quote nazionali esistenti, e l'ammissione per motivi umanitari".
Il Consiglio europeo del 19 e 20 dicembre 2013 ha discusso la relazione della Presidenza sui lavori della task force "Mediterraneo", e accolto con favore la comunicazione della Commissione sulla task force stessa, che delineava un congruo numero di azioni operative. Un dialogo più intenso con i paesi terzi al fine di evitare che i migranti intraprendano viaggi pericolosi verso l'Unione europea dovrebbe essere una priorità. Le campagne di informazione, i programmi di protezione regionale, i partenariati per la mobilità e un'efficace politica di rimpatrio sono elementi importanti di questo approccio globale. Il Consiglio europeo ribadisce l'importanza che attribuisce al reinsediamento delle persone che necessitano di protezione e al fatto di contribuire alle iniziative globali in questo campo. Chiede altresì il rafforzamento delle operazioni di sorveglianza delle frontiere e delle attività di lotta contro la tratta e il traffico di esseri umani svolte da Frontex, nonchè di assicurare che si dimostri la dovuta solidarietà a tutti gli Stati membri sottoposti a una forte pressione migratoria".
Il Consiglio europeo, come sottolineato tanto nelle conclusioni di ottobre quanto in quelle di dicembre, intende ritornare sulle questioni dell'asilo e della migrazione in una prospettiva più ampia e più a lungo termine nel giugno del 2014, quando saranno definiti orientamenti strategici per l'ulteriore programmazione legislativa e operativa nello spazio di libertà, sicurezza e giustizia.
Si segnala infine che il Consiglio giustizia e affari interni del 3 e 4 marzo ha preso nota di una relazione della Commissione sull'implementazione della comunicazione relativa alla Task Force, invitando tutte le parti interessate a collaborare attivamente alla concreta attuazione delle linee d'azione, e la Commissione stessa a presentare un ulteriore e dettagliato rapporto al Consiglio Gai di giugno.
L'acutizzazione delle tensioni
Gli ultimi giorni della crisi internazionale intorno all’Ucraina hanno visto il progressivo indurimento delle posizioni dei paesi dell'Europa occidentale, sostanzialmente coincidenti con quelle degli Stati Uniti, ove però sembra rimanere qualche margine di maggior prudenza. Particolarmente rilevante appare l'evoluzione della posizione tedesca, che progressivamente si è allineata al Regno Unito, alla Francia e alla Polonia nell'ammonire la Russia a non assecondare il referendum per l'adesione della Crimea. Assai rilevante appare poi la posizione cinese, la quale, evidentemente per le preoccupazioni squisitamente interne in relazione alle numerose minoranze nazionali del proprio territorio, sembra disallinearsi rispetto alla tradizionale collocazione di solidarietà con la Russia.
In dettaglio, il 10 marzo aerei ricognitori d’alta quota Awacs della NATO hanno iniziato a percorrere i cieli di Polonia e Romania per un monitoraggio della situazione ucraina: gli Stati Uniti chiedevano nel contempo ai russi concrete prove d'impegno per una soluzione diplomatica della questione, anzitutto fermando l’afflusso di truppe in Crimea, e non dando corso all'adesione della penisola a Mosca. Sul fronte dell'Unione europea l'Alto rappresentante per la politica estera Ashton ha espresso preoccupazione per l’incremento dell'intervento militare russo in Crimea e gli episodi di violenze ad esso collaterali.
In Crimea intanto il governo locale procedeva a chiudere tredici emittenti favorevoli al governo di Kiev, mentre si decretava l'ufficialità della lingua russa per i documenti di circolazione fino ad oggi redatti in ucraino. Tutto ciò mentre proseguiva l'azione di militari russi senza mostrine ufficiali e di miliziani filorussi per il controllo delle basi militari e dei punti strategici della penisola. Di rilievo l'opposizione apertamente espressa dei Tatari di Crimea al referendum, rispetto al quale hanno annunciato di non voler partecipare e di non voler riconoscerne il risultato.
L'11 marzo il Parlamento di Sinferopoli giungeva a dichiarare l'indipendenza dall'Ucraina, anticipando in qualche modo il referendum previsto per il 16 marzo: la dichiarazione è stata approvata con 78 voti su 81 e, particolare importante, cita espressamente la questione del Kosovo come precedente che faciliterebbe la conformità al diritto internazionale della secessione della Crimea. In realtà proprio il caso del Kosovo rischia di essere per Mosca e i filorussi di Crimea un boomerang, in quanto la Russia – insieme per la verità a decine di altri paesi, tra cui alcuni Stati membri della UE - non ha mai riconosciuto l'indipendenza della ex provincia serba.
Inoltre, il parere consultivo della Corte internazionale di giustizia del 22 luglio 2010 che aveva legittimato l'indipendenza del Kosovo - parere anche esso espressamente richiamato nella delibera del Parlamento di Crimea -, si basava sulla non contraddizione di tale evento nei confronti della risoluzione 1244 delle Nazioni Unite che aveva posto fine al conflitto del 1999: ma si trattava appunto di un conflitto sanguinoso giunto al culmine di un decennio di pesanti discriminazioni contro la maggioranza albanese del Kosovo, che prima dell'indipendenza era stato amministrato per quasi un altro decennio come protettorato dalla Comunità internazionale.
A fronte di questi sviluppi l’Unione europea, preparandosi ad accelerare il percorso sanzionatorio contro la Russia, annunciava l'eliminazione entro pochi mesi dei dazi doganali su più del 90% dei prodotti dell’Ucraina – che dovrebbe fruttare a Kiev circa mezzo miliardo di euro l'anno -, quale primo atto del pacchetto di aiuti all'Ucraina. Per quanto concerne la Russia, il ministero degli esteri si è espresso per la legittimità della dichiarazione d'indipendenza della Crimea.
Il 12 marzo si è svolta la visita a Washington del neopremier ucraino Iatseniuk, preceduta da una forte presa di posizione congiunta del G7 e dell'Unione europea, nella quale si definisce l'annessione della Crimea alla stregua di una chiara violazione della Carta dell'ONU, invitando Mosca a desistere dalle proprie iniziative nei confronti della Crimea e preannunciando il non riconoscimento del risultato di un eventuale referendum in loco. Tale consultazione, infatti, non sarebbe stata adeguatamente preparata e sarebbe invalidata dall'ipoteca militare rappresentata dalle cospicue truppe russe già dispiegate nella regione.
Per quanto riguarda Iatsemiuk, questi ha incontrato il presidente Obama, ma anche i vertici della Banca mondiale del Fondo monetario internazionale, per verificare la disponibilità al sostegno finanziario del paese nella difficilissima situazione economica che si affianca alla crisi politica e dei rapporti con Mosca.
Va ricordato che sia la Camera dei rappresentanti che il Senato statunitensi hanno chiesto con chiarezza all'Amministrazione USA di imporre sanzioni commerciali non solo ad alti responsabili politici e burocratici della Russia, ma anche contro banche e organizzazioni commerciali controllate dallo Stato russo. In realtà, nonostante la netta dichiarazione di sostegno all’Ucraina rilasciata da Obama dopo l'incontro con Iatseniuk, gli Stati Uniti hanno una posizione relativamente possibilista, motivata probabilmente da una valutazione realistica sia del grande peso politico e militare del paese, sia della complessità delle questioni internazionali ancora sul tappeto: alienarsi per un lungo periodo il sostegno russo potrebbe rappresentare per Washington particolarmente controproducente - basta citare il caso del conflitto siriano e la questione dei rapporti con l'Iran.
A fronte di una situazione che ha consigliato all’Aeroflot e alle altre compagnie aeree russe di modificare le rotte di sorvolo sull'Ucraina, Mosca ha reagito il 13 marzo al rafforzamento del dispositivo aereo della NATO sui cieli di Polonia, Romania e Lituania con nuove manovre militari nelle regioni occidentali confinanti con l’Ucraina, e con l'invio di una decina di aerei da combattimento in Bielorussia. A tutto ciò, Kiev ha risposto istituendo la Guardia nazionale, che dovrebbe essere formata da 60.000 uomini alle dipendenze del ministero dell'interno. Una vittima si è registrata in tanto nell’Ucraina orientale, a Donetsk, in seguito a scontri tra manifestanti filorussi e fedeli al governo di Kiev.
Gli Stati Uniti e la Germania hanno marciato di comune accordo con discorsi nei rispettivi parlamenti del segretario di Stato John Kerry e di Angela Merkel, preannunciando serie misure di carattere economico suscettibili di danneggiare la Russia. Il premier ucraino ha parlato di una inaccettabile aggressione da parte di uno Stato vicino e dell'appartenenza indiscutibile della Crimea all’Ucraina, nonostante l’imminente referendum, definito artificioso e falso. La Russia, per bocca del presidente Putin che presiedeva un incontro del Consiglio di sicurezza dell'ONU, ha dichiarato di non avere alcuna colpa nella crisi in atto, nella quale sarebbe stata solo coinvolta. Peraltro gli Stati Uniti facevano circolare nel Consiglio di sicurezza una bozza di risoluzione sull'illegittimità del referendum di annessione della Crimea alla Russia.
A fronte di questi sviluppi l'Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE) ha congelato il processo di adesione della Russia, mentre la Corte dei diritti umani del Consiglio d'Europa accoglieva a Strasburgo un ricorso dell’Ucraina contro la Russia, e richiedeva ai due paesi di astenersi da misure di reciproca ostilità, particolarmente di carattere militare, che si configurerebbero come violazione dei diritti della popolazione civile.
Avvicinandosi sempre più la consultazione referendaria in Crimea, il premier locale Aksionov si augurava l’accettazione da parte ucraina del risultato scontato a favore di Mosca: in caso contrario, Aksionov si diceva pronto a ogni eventualità. Aksionov non rinunciava neanche a invitare le province dell'Ucraina sudorientale a dar vita anch'esse a referendum per l'annessione alla Russia, polemizzando con l'Unione europea, le cui sanzioni dichiarava di non temere. Queste esternazioni avevano una risposta sul piano informatico, quando alcuni hacker evidentemente contrari alla Russia davano luogo ad attacchi informatici ai siti del Cremlino, del ministero degli esteri e della Banca centrale russa, nonché ad alcuni siti istituzionali della Crimea.
Sul piano diplomatico, si registrava un ulteriore fallimento con l'incontro di John Kerry e di Serghiei Lavrov nella residenza dell'ambasciatore statunitense a Londra: sei ore di colloqui approdavano a conferenze stampa separate, nelle quali le parti ribadivano le rispettive posizioni. Lavrov, in particolare, escludeva qualunque intento di invasione dell’Ucraina sudorientale da parte russa, ridimensionando in parte dichiarazioni uscite del suo stesso dicastero, ma ribadiva che Mosca rispetterà il risultato del referendum della Crimea, che Putin definiva nuovamente conforme ai principi del diritto internazionale in un colloquio telefonico con il segretario generale delle Nazioni Unite Ban ki-moon.
Il 15 marzo, mentre Mosca assisteva alla mobilitazione pacifista di decine di migliaia di persone, regolarmente autorizzata; nel Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite la Russia poneva come previsto il veto sulla risoluzione contro il referendum in Crimea, toccando peraltro un forte isolamento, in ragione dell'astensione della Cina sul documento. La giornata si era aperta con la notizia di due vittime per nuovi scontri nella notte tra filorussi e militanti di estrema destra ucraini nella città di Kharkiv, assai vicina alla frontiera con la Russia.
Nel tardo pomeriggio Kiev denunciava lo sconfinamento di truppe russe nella regione di Kherson, chiedendone il ritiro immediato e preannunciando di voler reagire con ogni mezzo possibile.
Il 16 marzo si aprivano i seggi per il referendum in Crimea, preceduti dall'attacco di hacker ucraini ma favorevoli alla Russia contro i siti web della NATO, che non avrebbe avuto effetti sull'operatività dei siti medesimi. Intanto il ministro ucraino della difesa ad interim Teniukh denunciava che il numero di soldati russi presenti in Crimea aveva raggiunto quasi il doppio del limite di 12.500 consentito dagli accordi in vigore, collegati alla presenza della flotta russa del Mar Nero a Sebastopoli.
Con il referendum in svolgimento, in un colloquio telefonico con la cancelliera tedesca Merkel il Presidente russo ripeteva che Mosca avrebbe rispettato l'esito del referendum, che si sarebbe svolto nel pieno rispetto delle norme del diritto internazionale. Significativamente, tuttavia, si diceva preoccupato per le tensioni nelle regioni dell’Ucraina sudorientale, innescate da gruppi estremisti con il permesso del governo di Kiev.
A Putin si aggiungeva la voce di Lavrov, che in una telefonata con il suo omologo statunitense John Kerry lo invitava a fare pressioni sul governo di Kiev per fermare le azioni contro i filorussi e i russi che si trovano in Ucraina. Uno spiraglio emergeva tuttavia nel colloquio sul punto di favorire una riforma costituzionale in Ucraina sotto supervisione internazionale, che preveda il rispetto degli interessi di tutte le regioni del paese.
Il Governo ucraino richiedeva intanto all’OSCE (Organizzazione sulla cooperazione e la sicurezza in Europa), magari mediante una sessione straordinaria, di deliberare l'invio di urgenza di osservatori nell’Ucraina sudorientale e in Crimea: su tale eventualità anche il presidente russo Putin e la cancelliera tedesca Merkel si erano intrattenuti telefonicamente.
Il presidente della commissione elettorale centrale di Crimea, Mikhail Malishev, ha annunciato il 17 marzo i risultati definitivi del referendum, cui ha partecipato l’83,1% degli aventi diritto.
I voti favorevoli alla riunificazione con la Russia sono stati 1.233.000 circa, pari al 97,47% dei voti validi, mentre i voti contrari sono stati 32.000 circa (il 2,53%).
Il 17 marzo il Parlamento della Crimea ha approvato (con 88 voti a favore su 95), in una sessione straordinaria, i risultati della consultazione proclamando la Repubblica di Crimea come Stato sovrano indipendente nel quale la città di Sebastopoli ha uno status particolare; il Parlamento ha inoltre chiesto al Cremlino di accettare nella Federazione Russa la Repubblica resasi indipendente dall'Ucraina. Tuttavia la Russia non può incorporare la Crimea su semplice richiesta di essa, poiché in base al diritto internazionale solo uno Stato già sovrano può richiedere di entrare a far parte di un altro Stato. Ecco dunque che il decreto firmato dal presidente Putin si limita a riconoscere l’indipendenza e la sovranità della Crimea, almeno in un primo tempo.
Contestualmente, il Parlamento ha deciso di nazionalizzare le proprietà statali ucraine situate in Crimea e ha dichiarato il rublo valuta ufficiale della Crimea, a partire dal 17 marzo, riconoscendo parallelamente, ma solo fino al gennaio 2016, la validità della moneta ucraina (grivnia ucraina).
Ciononostante USA e UE hanno ribadito l’illegittimità del referendum e si sono schierate a favore della sovranità e integrità territoriale dell'Ucraina.
I ministri degli Esteri della UE, riuniti il 17 marzo a Bruxelles, hanno approvato sanzioni contro 21 personalità russe e crimee. Tra le misure varate dai Ventotto ci sono il congelamento dei visti e dei beni detenuti all'estero.
Sulla base di un ordine firmato dal Presidente Obama il 6 marzo scorso, il dipartimento del Tesoro USA ha dal canto suo imposto le sanzioni, che prevedono divieto di visti e congelamento dei beni, a undici tra politici e alti funzionari russi e ucraini. Si tratta di sette russi: Dmitry Rogozin (vicepremier) Vladislav Surkov e Sergey Glazyev (consiglieri di Putin, considerati eminenze grigie del Cremlino), Leonid Slutsky (presidente della commissione Affari Interni della Duma), Andrei Klishas (presidente della commissione Affari Costituzionali del Consiglio della Federazione - il Senato russo), Valentina Matviyenko (presidente del Consiglio della Federazione), Yelena Mizulina (deputata della Duma).
I quattro ucraini sono: l'ex presidente ucraino Viktor Yanukovych, il suo fedelissimo Viktor Medvedchuk, e i leader separatisti della Crimea Sergei Aksyonov, che si è proclamato premier della Crimea e Vladimir Konstantinov, Speaker del parlamento della Crimea.
Particolarmente rilevante è apparsa la presa di posizione di Mikhail Gorbaciov a favore del referendum della Crimea: secondo l’ex segretario generale del PCUS, infatti, il “regalo” della penisola all’Ucraina nel 1954 fu un errore storico di Krusciov, che allora la popolazione locale non poteva assolutamente contestare. Il referendum non avrebbe fatto altro che correggere quell’errore. Gorbaciov si è poi detto deluso della posizione delle potenze occidentali, e particolarmente degli USA, che insisterebbero nello sforzo di imporre la propria supremazia sui alcuni territori della ex Unione Sovietica, dimenticando la rilevanza geopolitica mondiale della Russia.
Mentre il 18 marzo anche il Giappone si univa al fronte delle sanzioni contro Mosca, congelando i previsti negoziati bilaterali su grandi progetti di investimento e sulla collaborazione nel campo dell’utilizzazione pacifica dello spazio; il presidente Putin informava il Parlamento russo in via ufficiale della richiesta della Crimea di entrare a far parte della Federazione. Subito dopo Putin ha disposto solennemente al Cremlino per l’approvazione della bozza di accordo con la Crimea relativa all’annessione della penisola alla Federazione russa – era intanto stato annullato l’incontro a Mosca dei ministri degli esteri e della difesa della Russia con gli omologhi francesi. Per Sebastopoli è previsto uno status federale analogo a quello vigente per Mosca e San Pietroburgo.
Il riconoscimento dell'annessione della Crimea alla Federazione russa ha immediatamente provocato reazioni da parte dell’Ucraina dell'Occidente, accomunate dalla condanna della condotta russa e dal non riconoscimento dell’annessione. Secondo il ministro degli esteri italiano Federica Mogherini si tratta di un grave sviluppo negativo della crisi, suscettibile di porre la Russia in un precoccupante isolamento in ragione delle sue azioni unilaterali e prive di giustificazione. In Crimea intanto una sparatoria davanti a una base ucraina alla periferia della capitale Simferopoli provocava due morti e due feriti.
Mentre proseguiva l'occupazione progressiva delle basi ucraine da parte dei russi, apparentemente senza combattimenti - nel contesto della quale il 19 marzo sarebbe stato posto agli arresti il capo della flotta ucraina Serhiei Gaiduk, con un gesto distensivo del ministro della difesa russo che ne chiesto la liberazione ai dirigenti della Crimea – l’Ucraina ha annunciato di voler abbandonare, come già fece la Georgia dopo la guerra con i russi del 2008, la Comunità degli Stati indipendenti. Kiev ha inoltre chiesto all'ONU di dichiarare la Crimea zona demilitarizzata, proprio nell'imminenza della visita del segretario generale Ban Ki-moon a Mosca.
Gli Stati Uniti, come anticipato dal vicepresidente Joe Biden, potrebbero inviare truppe negli Stati baltici al fine di rassicurarli contro possibili minacce da parte russa. Il presidente Obama ha però chiarito che ciò non significa per gli USA voler intervenire militarmente in Ucraina. Assai più netta la presa di posizione del segretario generale della NATO Rasmussen, che ha accusato la Russia di aggressione militare e ha definito la crisi della Crimea la più grave minaccia alla sicurezza dell'Europa dai tempi della Guerra Fredda.
Più sfumata invece la posizione del Presidente del Consiglio italiano Matteo Renzi, per il quale è necessario tenere aperto un canale di dialogo con la Russia proprio per evitare l'incubo di un ritorno alla Guerra Fredda.
Per quanto attiene ai riflessi nel nostro Paese della crisi ucraina, va ricordato il rischio che essa comporta anche per i progetti dell'ENI con la Russia, in primis il gasdotto Southstream: pessimismo è stato espresso a tale proposito dall'amministratore delegatole dell'ENI Paolo Scaroni il 20 marzo, durante un'audizione presso la Commissione Attività produttive della Camera. In particolare, Scaroni ha messo in luce come siano in pericolo le autorizzazioni da parte dell'Unione europea indispensabili per portare avanti il progetto Southstream.
Sul fronte delle sanzioni la giornata del 20 marzo ha registrato una nuova puntata: infatti, mentre l'Ucraina elevava ulteriormente il livello di allerta delle proprie forze armate, e si diceva pronta a rispondere militarmente a ogni tentativo di nuove annessioni dei propri territori sudorientali, il presidente USA firmava un decreto per estendere la “lista nera” contro gli alti funzionari russi e le persone vicine all'entourage di Putin.
Per converso, Mosca adottava una serie di sanzioni contro dirigenti e politici americani vicini al presidente Obama. Accortamente più sfumato l'atteggiamento del Cremlino verso i paesi europei, per quanto questi abbiano annunciato nel Vertice dei Capi di Stato e di governo di Bruxelles l’estensione della lista di persone colpite dal blocco ai visti per il territorio europeo e dal congelamento dei beni ivi detenuti, nonché la sospensione del G8: infatti non sfugge a Mosca la differenza di accenti tra Stati Uniti e Unione europea, con quest'ultima evidentemente più timorosa degli effetti negativi di un ulteriore inasprimento sanzionatorio contro la Russia. Proseguiva intanto il cammino istituzionale per la piena integrazione della Crimea nella Russia, con l'approvazione del trattato di annessione da parte della Duma. Nella mattinata del 21 marzo il Senato russo procedeva del pari all'approvazione del trattato, che veniva promulgato poche ore dopo dal presidente Putin. Nel frattempo tuttavia il premier ucraino Iatseniuk aveva firmato a Bruxelles la parte politica dell’Accordo di associazione con l'Unione europea.
La tensione tra Russia ed Ucraina si traslava immediatamente anche sul piano economico-finanziario: infatti il premier russo Medvedev ricordava il debito dell’Ucraina con la Russia, pari a 16 miliardi di dollari, soprattutto relativi a forniture di gas non pagate. Subito dopo Iatseniuk ribadiva che la perdita della Crimea, con la nazionalizzazione di ingenti proprietà dello Stato ucraino, equivaleva a un danno di centinaia di miliardi di dollari: Iatseniuk minacciava poi un ricorso a breve termine alla giustizia internazionale per ottenere il relativo risarcimento.
In realtà entrambi i contendenti fronteggiano uno scenario economico difficile, peraltro assai più pesante per l’Ucraina: le sanzioni hanno provocato un calo della Borsa di Mosca, mentre le principali agenzie internazionali hanno abbassato il rating russo da stabile a negativo. D'altra parte l'Ucraina si trova a fronteggiare l'annullamento dello sconto del 30% sul gas russo, mentre con l'annessione della Crimea mille metri cubi di gas russo costeranno a Kiev ulteriori 100 dollari, per il venir meno della necessità del permesso ucraino alla flotta russa del Mar Nero di permanere fino al 2042 nella base di Sebastopoli. L'Armenia intanto procedeva a riconoscere l'annessione della Crimea alla Federazione russa e, come reazione, vedeva richiamato a Kiev l'ambasciatore ucraino.
Il Vertice europeo di Bruxelles, oltre alla sottoscrizione della parte politica dell'Accordo di associazione, riscontrava un rinnovato appoggio dell'Unione europea a Kiev, decretando anche la libera vendita dei prodotti della Crimea nel territorio europeo solo se transitati in Ucraina – e in caso contrario, annunciando pesanti penalizzazioni. La Francia dal canto suo ha annunciato la sospensione della cooperazione militare con Mosca e gli Stati membri hanno ricevuto mandato, unitamente alla Commissione, di mettere allo studio ulteriori misure calibrate in campo economico, da attuare in caso di una nuova escalation militare da parte russa. La Commissione europea, inoltre, si è vista conferire l'incarico di mettere a punto entro giugno un piano per ridurre al maggior grado possibile la dipendenza energetica dalla Russia.
Va comunque rilevato come una delle proposte uscite dal Vertice europeo, ovvero l'invio di una missione OSCE in Ucraina, operativa dal 23 marzo, sia stata accolta dalla Russia.
Il 22 marzo a Kiev vi è stata la visita del ministro degli esteri tedesco Steinmeier e del primo ministro canadese Harper, che hanno recato sostegno al nuovo corso ucraino, in un contesto in cui restano alti i timori sia per l'attacco della Russia alle ultime basi ucraine che resistono in Crimea, sia per le nuove esercitazioni militari lanciate da Mosca, che potrebbero collegarsi a focolai separatisti nuovamente manifestatisi nella parte sudorientale dell’Ucraina, segnatamente a Donetsk e Kharkiv, dove migliaia di manifestanti hanno chiesto di tenere referendum analoghi a quello della Crimea.
La conquista delle basi ucraine nella penisola del Mar Nero - che secondo il Ministero della difesa russo sarebbe giunta a controllare 147 strutture militari e 54 unità navali, tra le quali un sottomarino e otto navi da guerra – vede senz’altro una parte dei militari impegnati in una qualche forma di resistenza, quasi sempre inefficace. D'altro canto però numerosi militari ucraini sono stati fortemente agevolati dalla Russia ad entrare nel proprio esercito mantenendo il grado originario, e per di più con un trattamento retributivo notevolmente superiore.
Il 23 marzo è emersa un'ulteriore preoccupazione, soprattutto da parte della NATO, per un intervento delle truppe russe ammassate al confine orientale dell’Ucraina - che secondo il capo delle forze NATO in Europa, generale Breedlove, sarebbero consistenti e pronte al combattimento - nel territorio secessionista moldavo della Transnistria, abitata da russofoni e dalla quale nei giorni precedenti erano venuti appelli a Mosca per un’annessione analoga a quella della Crimea. Nella stessa giornata il presidente della Bielorussa Lukashenko ha dichiarato, in una sorta di riconoscimento di fatto, che la Crimea è ormai parte del territorio russo: conseguentemente, anche l'ambasciatore a Minsk è stato richiamato dall’Ucraina.
Il 24 marzo si è avuta da parte dell’Ucraina la presa d'atto della situazione sul terreno in Crimea: il Consiglio di sicurezza nazionale, d'accordo con il ministero della difesa di Kiev, ha annunciato il ritiro delle proprie rimanenti truppe dislocate nella penisola. Poche ore prima circa duecento soldati russi avevano assaltato la base navale di Feodosia, prendendone possesso, ma stavolta provocando il ferimento di alcuni soldati di Kiev. Il ministro della difesa russo Shoigu, primo esponente del governo a recarsi in Crimea dopo l'annessione, ha proceduto a nominare l'ex capo di stato maggiore della marina ucraina Berezovski vicecomandante della flotta russa del Mar Nero – Berezovski era stato tra i primi a giurare fedeltà alle nuove autorità della Crimea filorussa.
Sempre il 24 marzo, in margine ai lavori del Vertice sulla sicurezza nucleare dell'Aja, si sono riuniti i Capi di Stato e di governo del G7, i quali hanno deciso di non incontrare più Putin finché persisterà nell'atteggiamento attuale nei confronti dell’Ucraina. È così stato cancellato il Vertice annuale G8 previsto a Sochi, mentre il G7 si terrà a Bruxelles nel mese di giugno. La decisione del G7 è stata spiegata con la chiara violazione del diritto internazionale costituita dall’atteggiamento russo verso la Crimea: l'annessione viene condannata e non riconosciuta. Il comunicato finale del G7 minaccia anche di intensificare le sanzioni con un crescente impatto sull'economia russa. Nel comunicato ha trovato però spazio anche un riferimento alla via diplomatica che deve restare aperta - e non manca la soddisfazione per l'accettazione russa della missione dell'OSCE in Ucraina.
Inoltre, durante il Vertice sulla sicurezza nucleare vi è stato un importante segnale di un possibile inizio di distensione, con l'incontro del ministro degli esteri russo Lavrov con il suo omologo ucraino Deshizia, il primo contatto diretto al massimo livello tra i due paesi. Il 25 marzo, nonostante la dura presa di posizione del G7 del giorno precedente, la Russia, per bocca del portavoce di Putin Peskov, si è detta pronta e interessata a riprendere i contatti al più alto livello con i partner del G8. Peskov ha inoltre dichiarato che, non essendovi più secondo la Russia un potere legittimo a Kiev, Mosca non si sente più obbligata a rispettare l'accordo per lo sconto sulle forniture di gas firmato in dicembre da Putin e Ianukovich, né tantomeno l'accordo per l'affitto dall’Ucraina della base di Sebastopoli, che ora è parte integrante del territorio russo.
Nella stessa giornata del 25 marzo si sono avute le dimissioni del ministro della difesa ucraino ammiraglio Teniukh - che il parlamento in una prima votazione aveva rifiutato -, cui subentra il generale Koval. Teniukh si è assunto la responsabilità della conduzione sfortunata della resistenza delle truppe ucraine in Crimea all'arrivo dei russi.
E’ emersa intanto la forte preoccupazione degli Stati Uniti e della NATO per il concentramento di truppe russe sui confini ucraini: Rasmussen ha sostenuto che l'alleanza Atlantica avrebbe tutti i piani pronti per difendere gli Stati membri e sostenere i suoi partner. La posizione di Rasmussen è stata rafforzata dal presidente Obama durante una conferenza stampa all'Aja, nella quale il capo dell'Amministrazione USA ha assicurato agli alleati garanzie mediante appositi piani di emergenza. Obama si è spinto a citare l'articolo 5 del Patto Atlantico, che prevede il sostegno di tutti gli alleati a un paese della NATO che dovesse subire un attacco militare.
Il 4 marzo, innanzi alle Commissioni esteri congiunte della Camera del Senato, il Ministro degli esteri Mogherini riferiva sulla situazione dell’Ucraina, con particolare riferimento al Consiglio straordinario dei ministri degli esteri UE del giorno precedente, nel quale erano emerse preoccupazioni per l'escalation militare, suscettibile di condurre ad una nuova guerra fredda con la Russia, e anche ad una possibile e non augurabile divisione dell’Ucraina. Il dibattito in seno al Consiglio, secondo il Ministro degli esteri, aveva riguardato più che gli obiettivi i modi per conseguirli, ovvero il mantenimento di una dimensione politica e di una rete internazionale per tenere a freno le iniziative della Russia, ma anche possibili pericolose reazioni ucraine. In quest'ottica il Ministro annunciava lo svolgimento per il giorno successivo di un Consiglio NATO-Russia. Nella panoplia delle possibilità diplomatiche veniva prospettata, soprattutto dalla Germania, l'ipotesi di un dialogo diretto tra Mosca e Kiev, come anche lo svolgimento della missione OSCE accordata da Putin alla cancelliera tedesca Merkel. Per quanto concerne il sostegno all’Ucraina, il Consiglio esteri straordinario poneva alcune condizioni, tra le quali la necessità di urgenti riforme interne, utili anche a facilitare gli aiuti finanziari di cui il l’Ucraina ha un grande bisogno, ma che trova oggettive difficoltà nella situazione economica dell'Europa. Il Ministro chiudeva il proprio intervento, in replica, richiamando l'attenzione sui rischi dell'eventuale completo isolamento della Russia, mentre, in relazione all'Unione europea, ribadiva come obiettivo necessario e qualificante del prossimo semestre italiano di Presidenza dell'Unione il rafforzamento della politica estera e della politica di sicurezza e difesa dell'Europa.
L’11 marzo la Commissione Esteri della Camera, nel quadro dell’indagine conoscitiva sulla proiezione dell'Italia e dell'Europa nei nuovi scenari geopolitici, ha svolto l’audizione di rappresentanti di alcuni enti di ricerca a carattere internazionalistico (CESI, IAI e ISPI) con particolare riferimento alle conseguenze della crisi in Ucraina.
Il 18 marzo il Ministro degli esteri è tornata a soffermarsi tra l'altro sulla situazione creatasi attorno alla crisi ucraina, nell'occasione dell'audizione sulle linee programmatiche del suo Dicastero svolta dalle Commissioni esteri congiunte della Camera e del Senato. Il Ministro ha continuato a rivendicare l'azione dell'Italia per la ricerca di una posizione comune a livello multilaterale, e in questo quadro ha riferito in ordine ai lavori del Consiglio dei ministri degli affari esteri della UE del 17 marzo, nel quale ha ravvisato posizioni unitarie e consapevoli di tutti i partecipanti, concretizzatesi nella decisione di imporre sanzioni contro la Russia, nonché di procedere alla firma della parte politica dell'Accordo di associazione dell’Ucraina alla UE e all'invio di una missione di osservatori OSCE sul terreno. Il Ministro ha inoltre ricordato la convergenza dei paesi europei per sostenere una proposta di risoluzione in seno al Consiglio di sicurezza dell’ONU, respinta il 14 marzo solamente per il veto scontato della Russia. È stato inoltre ricordato il giudizio della Commissione di Venezia per la democrazia del Consiglio d'Europa, che ha decretato l'illegittimità del referendum in Crimea. Più prudente l’On. Mogherini è stata in ordine al coinvolgimento della NATO e del G8 nella questione ucraina: il Ministro ha salutato con favore la dichiarazione delle autorità di Kiev che escludono un’adesione a pieno titolo dell’Ucraina all'Alleanza atlantica. Per quanto concerne il G8, l’On. Mogherini ha ribadito la sospensione dei lavori preparatori, e non già il superamento del formato a otto - inclusivo della Russia – di tale consesso internazionale. Realisticamente, infine, pur ribadendo l'obiettivo fondamentale del rispetto della legalità internazionale - violata sia dalla presenza militare russa in Crimea sia dallo stesso referendum - il Ministro non ha nascosto il pessimismo di fronte alle posizioni espresse dal presidente Putin, alle quali si deve rispondere con una visione delle relazioni internazionali basata sulla consapevolezza dell'interdipendenza reciproca e in una logica di cooperazione.
Quanto dichiarato dal Ministro Mogherini veniva sostanzialmente ribadito il 19 marzo dal Presidente del Consiglio Matteo Renzi, nel corso delle sue comunicazioni all’Assemblea di Montecitorio riguardanti, tra l’altro, la preparazione del Vertice europeo di Bruxelles del 20 e 21 marzo.
L’Unione europea è impegnata ad intensificare le relazioni con l’Ucraina, procedendo dalla cooperazione verso la graduale integrazione economica e il rafforzamento del dialogo politico.
A livello bilaterale, le relazioni tra l'Unione europea e l'Ucraina sono attualmente regolate dall’Accordo di partenariato e cooperazione (APC), firmato il 14 luglio 1994 ed entrato in vigore il 1° marzo 1998 per una durata iniziale di dieci anni. L’APC è rinnovato automaticamente ogni anno fino all’entrata in vigore di un nuovo accordo.
L’Ucraina è uno dei partner dell’Unione europea nel contesto della Politica europea di vicinato, di recente rafforzata con l’iniziativa del Partenariato orientale rivolto ad Armenia, Azerbaigian, Bielorussia Georgia, Moldavia e Ucraina, con la quale l’Unione europea si prefigge di rafforzare la dimensione orientale della politica europea di vicinato.
Nell’ambito di tale iniziativa, a marzo 2012 si sono conclusi i negoziati per l’accordo di associazione UE-Ucraina e a luglio 2012 quelli relativi all’area di libero di scambio.
L’accordo di associazione avrebbe dovuto essere firmato ufficialmente in occasione del Vertice dei Capi di Stato e di Governo del Partenariato orientale, che si è svolto a Vilnius il 29 novembre 2013.
Il Governo ucraino, il 21 novembre 2013, ha chiesto la temporanea sospensione dei negoziati per la firma.
Il Consiglio europeo del 20 dicembre 2013 ha adottato delle conclusioni nelle quali indica che l'Unione europea rimane disposta a firmare l'accordo di associazione, non appena l'Ucraina sarà pronta.
A margine del Consiglio europeo del 20 e 21 marzo 2014, l’Ucraina e la UE hanno firmato la prima parte dell’accordo di associazione con l’Unione europea, relativa alla parte politica dell’accordo che comprende i capitoli sui valori democratici e sulla politica estera e di sicurezza, prevedendo in particolare una cooperazione rafforzata su questioni regionali, prevenzione dei conflitti, gestione delle crisi, armi di distruzione di massa e disarmo. L’impegno europeo è volto a concludere in tempi rapidi l’intero accordo, con il nuovo Governo che uscirà dalle elezioni a Kiev del prossimo 25 maggio.
In seguito al deteriorarsi della situazione in Ucraina, la riunione straordinaria del Consiglio dei ministri per gli affari esteri dell’UE ha deciso il 20 febbraio 2014 l’introduzione di una prima serie sanzioni mirate volte al congelamento dei beni ed a restrizioni per la concessione di visti per i responsabili delle violazioni dei diritti umani, della violenza e dell’uso eccessivo della forza (vedi oltre la lista dei destinatari delle sanzioni). Il Consiglio ha, altresì, deciso di sospendere le licenze per l’esportazioni di attrezzature e strumenti che possano essere usati nelle repressioni interne.
Il Consiglio europeo nella riunione straordinaria del 6 marzo 2014 sulla crisi in Ucraina ha adottata una dichiarazione nella quale, in particolare si:
· condanna la violazione della sovranità e dell'integrità territoriale dell’Ucraina da parte della Federazione russa e si esorta la Federazione russa a ritirare immediatamente le sue forze armate nelle zone in cui sono stazionate in permanenza, in conformità degli accordi pertinenti;
· esorta la Federazione russa a consentire immediatamente l'accesso agli osservatori internazionali. La soluzione della crisi in Ucraina deve basarsi sull'integrità territoriale, la sovranità e l'indipendenza del paese e sul rigoroso rispetto delle norme internazionali;
· ritiene che la decisione del Consiglio supremo della Repubblica autonoma di Crimea di tenere un referendum sul futuro status del territorio sia contraria alla costituzione ucraina e dunque illegale;
· si annuncia la sospensione dei colloqui bilaterali con la Federazione russa concernenti i visti e il nuovo accordo;
· prospetta che la soluzione alla crisi dovrebbe essere raggiunta tramite negoziati fra il governo dell'Ucraina e quello della Federazione russa, che devono cominciare nei prossimi giorni e portare risultati in un arco di tempo limitato. In mancanza di tali risultati, l'Unione europea deciderà misure aggiuntive, come i divieti di viaggio, il congelamento dei beni e l'annullamento del vertice UE-Russia;
· indica che ulteriori passi della Federazione russa volti a destabilizzare la situazione in Ucraina avrebbero ulteriori conseguenze di ampia portata per le relazioni fra l'Unione europea e i suoi Stati membri, da un lato, e la Federazione russa, dall'altro, in un ampio numero di settori economici;
· plaude alla risposta misurata mostrata finora dal governo ucraino e si incoraggia le autorità ucraine a proseguire gli sforzi per assicurare elezioni libere e regolari, a portare avanti la riforma costituzionale;
· si ribadisce l'impegno dell'Unione europea a firmare l'accordo di associazione, ivi compresa una zona di libero scambio globale e approfondito e si annuncia che in via prioritaria, l’UE firmerà a breve tutti i capitoli politici. L'Unione europea intende adottare misure unilaterali che consentano all'Ucraina di beneficiare in misura sostanziale dei vantaggi offerti nella zona di libero scambio globale e approfondito.
· ribadisce l’impegno a rafforzare i contatti diretti fra i cittadini dell'Unione europea e dell'Ucraina, attraverso il processo di liberalizzazione dei visti;
· indica che l'Unione europea è pronta ad assistere l'Ucraina per quanto concerne la garanzia dell'approvvigionamento energetico mediante una maggiore diversificazione, un'efficienza energetica rafforzata e interconnessioni efficaci con l'Unione europea.
Il Consiglio dei ministri degli esteri dell'UE, nella riunione del 17 marzo 2014, ha approvato conclusioni nelle quali:
· condanna con forza lo svolgimento del referendum in Crimea avente ad oggetto l'unificazione con la Federazione russa, e non ne riconosce l'esito, in quanto illegale e in palese violazione della Costituzione ucraina;
· deplora il crescente dispiegamento delle forze armate russe in Crimea, in palese violazione della sovranità e dell'integrità territoriale dell'Ucraina, nonché il diniego di accesso alla penisola di rappresentanti dell'ONU e dell'OSCE;
· conferma l' obiettivo di sviluppare le relazioni UE-Russia sulla base del reciproco interesse e del rispetto del diritto internazionale, deplorando, nel contempo, le azioni della Russia in contrasto con questi obiettivi;
· esorta la Federazione russa a non prendere provvedimenti per annettere in Crimea in violazione del diritto internazionale;
· sostiene il rapido dispiegamento in Ucraina di una missione di vigilanza speciale OSCE;
· conferma il proprio impegno a procedere alla firma dell'Accordo di partenariato con l'Ucraina, e a fornire il sostegno finanziario necessario a garantire la stabilizzazione economica del Paese, richiamando nel contempo il Governo ucraino a realizzare un ambizioso programma di riforme strutturali, con l'obiettivo prioritario della lotta contro la corruzione;
· invita le autorità ucraine a proseguire gli sforzi per garantire elezioni libere ed eque, per far progredire la riforma costituzionale e per garantire la piena tutela delle minoranze.
Il Consiglio Europeo del 20 e 21 marzo 2014, con riferimento alla crisi ucraina,
Con la decisione 2014/119/PESC del Consiglio, del 5 marzo 2014 il Consiglio UE ha pubblicato una prima lista delle persone destinatarie delle sanzioni, che consistono nel congelamento dei beni e nel divieto di rilascio di visti, che poi è stata integrata successivamente il 17 marzo, e il 21 marzo 2014.
La Commissione europea ha approvato il 5 marzo 2014 un pacchetto di misure concrete per sostenere l’Ucraina dal punto di vista economico e finanziario per complessivi 11 miliardi di euro.
Il pacchetto di misure prevede:
· uno stanziamento di 3 miliardi di euro dal bilancio dell’UE nei prossimi anni;
· la previsione di aiuti fino a 8 miliardi di EUR erogati dalla Banca europea per gli investimenti e dalla Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo;
· la possibilità di mobilitare 3,5 miliardi di EUR attraverso il Fondo di investimento per la politica di vicinato;
· la creazione di una piattaforma di coordinamento dei donatori;
· l’applicazione provvisoria della zona di libero scambio globale e approfondito una volta firmato l’accordo di associazione, se del caso attraverso l’anticipazione autonoma delle misure commerciali;
· l’organizzazione di un forum/di una task force ad alto livello sugli investimenti;
· la modernizzazione del sistema ucraino di transito del gas e lavoro sui flussi inversi, specialmente attraverso la Slovacchia;
· l’accelerazione del piano d’azione per la liberalizzazione dei visti;
· assistenza tecnica in una serie di settori come la riforma costituzionale e giudiziaria o la preparazione delle elezioni.
L’11 marzo 2014 il Presidente della Commissione europea, Josè Manuel Barroso, e il Commissario europeo per il commercio, Karel De Gucht hanno presentato una iniziativa volta ad aprire le porte del mercato europeo ai prodotti in arrivo dall’Ucraina il prima possibile, senza aspettare la firma dell’accordo di associazione con Kiev, grazie alla soppressione unilaterale - anche se in via temporanea fino al 1° novembre 2014 e in vista della firma dell’accordo di associazione da parte dell’Ucraina - da parte dell’UE delle barriere che ostacolano il libero scambio.
Grazie al taglio dei dazi, secondo il commissario De Gucht, Kiev potrà risparmiare 487 milioni di euro, di cui 340 milioni per i prodotti agricoli e 43 per i prodotti alimentari. Sui prodotti industriali ci saranno alcune deroghe, soprattutto nel settore automobilistico, ma l’Ucraina dovrebbe comunque risparmiare 117 milioni di euro. Nel settore tessile il risparmio sarà di 24,4 milioni e di 26,8 nel settore chimico. De Gucht ha indicato che tali calcoli si basano sul volume di commercio attuale mentre, assicura, ci si può attendere un aumento, proprio per effetto del taglio delle tariffe di export.
La soppressione dei dazi doganali da parte dell’Ue sarà totale o parziale a seconda del settore (ricalcando comunque gli effetti dell’area di libero scambio che si verrà a creare con la firma dell’accordo di associazione). I dazi saranno immediatamente rimossi per il 94,7% dei prodotti industriali e per l’82,2% dei prodotti agricoli (per cereali, carne suina, bovina e pollame la liberalizzazione sarà parziale per evitare contraccolpi negativi sul mercato europeo). L’Ue garantirà la soppressione dei dazi anche per l’83,4% dei prodotti alimentari trasformati.
In cambio dei benefici l’Ucraina non sarà tenuta a garantire alcun accesso privilegiato dei prodotti europei sul suo mercato, semplicemente dovrà impegnarsi a non aumentare, per tutto il periodo, le tariffe oggi in vigore.
La Commissione vorrebbe che la misura entrasse in vigore il prima possibile, ma per essere operativa la proposta dovrà essere approvata “in co-decisione” dal Parlamento europeo e dal Consiglio dell’UE entro la prossima sessione plenaria del Parlamento europeo del 14-17 aprile, ultima della legislatura.
Il Consiglio europeo del 19-20 dicembre 2013, per la prima volta dall’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, ha svolto un dibattito tematico sulla politica di sicurezza e difesa comune (PSDC), individuando azioni prioritarie per una cooperazione più forte intorno a tre assi:
· aumentare l’efficacia, la visibilità e l’impatto della PSDC;
· potenziare lo sviluppo delle capacità;
· rafforzare l’industria europea della difesa.
Il Consiglio europeo sottolinea che i bilanci nazionali per la difesa sono sottoposti a vincoli che limitano la capacità di sviluppare, dispiegare e sostenere i mezzi militari e che la frammentazione dei mercati europei della difesa compromette la sostenibilità e la competitività dell'industria europea della difesa e della sicurezza.
Nelle conclusioni si afferma che l'Unione deve mantenere l’impegno a collaborare con le Nazioni Unite e la NATO.
Si sottolinea, altresì, l'importanza di sostenere i paesi partner e le organizzazioni regionali, fornendo formazione, consulenza, attrezzature e risorse, al fine di accrescerne la capacità di prevenire e gestire autonomamente le crisi.
Si chiede poi di migliorare la capacità di risposta rapida dell’UE attraverso una maggiore flessibilità e schierabilità dei gruppi tattici (Battlegroups) dell’EU, la revisione del meccanismo Athena[6] e procedure più flessibili per accelerare lo schieramento di missioni civili dell’UE.
In relazione alle nuove sfide in materia di sicurezza, il Consiglio europeo chiede:
Il Consiglio europeo invita l'Alto rappresentante a riferire su tali temi al Consiglio nel corso del 2015.
Nelle conclusioni si indica il sostegno ad approcci cooperativi fra gli Stati membri per lo sviluppo di capacità basate su norme comuni o per disposizioni in materia di utilizzo, mantenimento o formazione comuni, usufruendo nel contempo dell'accesso a tali capacità.
Si ricorda che il Consiglio dell’UE ha adottato il 19 novembre 2012, su proposta dell’agenzia europea per la difesa, un codice di condotta su Pooling & Sharing che reca azioni per sostenere gli sforzi di cooperazione degli Stati membri volti a usare in modo collettivo capacità militari (Pooling) o a prevedere, quando uno Stato membro decide di abbandonare il supporto ad alcune capacità o attività, la garanzia che tali capacità e attività potranno essergli fornite o eseguite da un altro Stato membro (Sharing).
Alcuni Stati, infine, hanno avviato una stretta collaborazione nel settore mediante accordi bilaterali, quale quelli stipulati tra Francia e Regno Unito nel novembre 2010. Alcuni di essi riguardano il mercato della difesa: il supporto e l’addestramento per il velivolo da trasporto A 400 M e la realizzazione di sistemi di contromisura per le mine navali, di satelliti di comunicazione, di velivoli non pilotati ad altitudine media e lungo raggio e, in prospettiva, anche armati. A questi si aggiunge un accordo strategico decennale nel campo delle armi complesse (missili e sistemi di difesa aerea) volto a costituire un'unica industria europea in questo settore.
Il Consiglio europeo si impegna, inoltre, a sostenere i programmi multinazionali nei seguenti settori:
Si ricorda che l’Italia ed altri sei Stati (Francia, Germania, Grecia, Spagna, Paesi Bassi e Polonia) hanno manifestato l’intenzione di partecipare alla proposta di creare una comunità di utenti RPAS per la cooperazione e lo scambio di informazioni;
Si ricorda che l’Italia insieme a Belgio, Grecia, Spagna, Francia, Ungheria, Lussemburgo, Polonia, Portogallo e Parsi Bassi partecipa ad un progetto avviato l’Agenzia per la difesa europea (EDA) nel novembre 2012 per il rafforzamento delle capacità di rifornimento in volo. Supporto esterno al progetto è fornito anche da Francia e Regno Unito.
Si ricorda che l’Agenzia per la difesa europea (EDA) ha deciso il 19 novembre 2013 di costituire un gruppo dedicato alle comunicazioni satellitari governative (GOVSATCOM) composto da Germania, Spagna, Francia, Regno Unito ed Italia al fine di valutare in che modo le rispettive capacità nazionali correnti e programmate possano far fronte a future esigenze;
Nel settembre 2012 l’EDA ha avviato il progetto Europea Satellite Communication Procurement Cell (ESPC) per condividere e mettere in comune appalti per la comunicazione commerciale satellitare tra Stati membri. Al momento, oltre all’Italia, partecipano al progetto Belgio, Finlandia, Francia, Lussemburgo, Polonia, Regno Unito, e Romania.
Si ricorda che la cibersicurezza nell’ambito della difesa è una delle priorità della strategia dell’UE per garantire un elevato di sicurezza delle reti e dell’informazione nell’Unione delineata nella comunicazione Commissione europea e l’Alto Rappresentante congiunta JOIN(2013)1 “Strategia dell'Unione europea per la cibersicurezza: un ciberspazio aperto e sicuro”, presentata il 7 febbraio 2013.
Il Consiglio europeo invita ad una maggiore trasparenza e condivisione delle informazioni sulla pianificazione della difesa. A tal fine, invita l'Alto rappresentante e l'Agenzia europea per la difesa a presentare un proposte per una cooperazione più sistematica entro la fine del 2014, in coerenza con i processi di pianificazione esistenti della NATO.
Il Consiglio europeo incoraggia, altresì, lo sviluppo di incentivi e approcci innovativi per la cooperazione sulla messa in comune e la condivisione (pooling and sharing) e invita l'Agenzia europea per la difesa ad esaminare modalità con le quali gli Stati membri possano cooperare in progetti di acquisizione in comune.
Il Consiglio europeo chiede di potenziare lo sviluppo delle capacità civili.
Il Consiglio europeo ritiene che una base industriale e tecnologica di difesa (EDTIB) più integrata, sostenibile, innovativa e competitiva rafforzerà l’autonomia strategica dell’Europa e la sua capacità di agire con i partner, stimolando occupazione, innovazione e crescita in Europa e sottolinea l’importanza di garantire la piena e corretta applicazione delle due direttive in materia di difesa del 2009[7].
Le conclusioni del Consiglio europeo in tale ambito tengono conto delle indicazioni formulate dalla Commissione europea nella comunicazione “Verso un settore della difesa e della sicurezza più concorrenziale ed efficiente” (COM(2013)542), del 24 luglio 2013.
Il Consiglio europeo propone azioni nelle seguenti aree:
Il Consiglio europeo valuterà i progressi concreti su tutte le questioni nel giugno 2015 e fornirà ulteriori orientamenti sulla base di una relazione del Consiglio fondata su contributi della Commissione, dell'alto rappresentante e dell'Agenzia europea per la difesa.
Segue una tabella degli adempimenti e delle misure da adottare in fase di implementazione delle conclusioni del Consiglio europeo:
Scadenza |
Fonte |
Misura |
Giugno 2014 |
Comunicazione congiunta Commissione e Alto rappresentante |
Strategia per la sicurezza marittima dell'UE |
Metà 2014 |
Agenzia europea per la difesa |
Tabella di marcia per lo sviluppo di norme industriali per la difesa e opzioni per abbassare i costi della qualificazione militare |
2014 |
Stati membri, Commissione, Agenzia spaziale europea |
Creazione di un gruppo di utenti nel campo della comunicazione satellitare |
2014 |
Alto rappresentante (Commissione e Agenzia per la difesa) |
Quadro strategico in materia di ciberdifesa |
2014 |
Alto rappresentante e Agenzia per la difesa |
Quadro politico per la pianificazione della difesa, in coerenza con i processi esistenti della NATO |
Fine 2014 |
Agenzia europea per la difesa |
Riferisce al Consiglio su ulteriori, possibili modalità di cooperazione sulla messa in comune e la condivisione |
Giugno 2015 |
Consiglio europeo |
Valutazione dei progressi globali in tema di difesa e adozione di ulteriori orientamenti |
2015 |
Alto rappresentante (Commissione) |
Valutazione dell'impatto dei cambiamenti nell'ambiente globale e relazione al Consiglio su sfide e opportunità per l'UE |
2016 |
Stati membri e Commissione |
Integrazione del RPAS nel sistema aeronautico europeo |
2020-2025 |
Stati membri |
Sviluppo di sistemi aerei a pilotaggio remoto (RPAS) |
In vista del Consiglio europeo del 19 e 20 dicembre 2013, le Commissioni III Affari esteri comunitari e IV Difesa della Camera hanno approvato lo scorso 18 dicembre la risoluzione 8-00031 con la quale impegnano il Governo a promuovere, in sede europea, un'azione volta a colmare le lacune del sistema della difesa europea e a promuovere:
quanto al primo pilastro, relativo all'efficienza operativa
quanto al secondo pilastro, relativo alla capacità di difesa, ad assicurare:
quanto al terzo pilastro, relativo all'industria della difesa, a promuovere:
Le Commissioni riunite IV Difesa e X attività produttive commercio e turismo della Camera dei deputati, in esito all’esame della comunicazione della Commissione europea “Verso un settore della difesa e della sicurezza più concorrenziale ed efficiente”, hanno approvato il 12 dicembre 2013 un documento finale nel quale si impegna il Governo a sottolineare, tra l’altro, le seguenti esigenze:
In ambito europeo:
Sul piano nazionale:
Presso la Commissione difesa della Camera è in corso l’esame del documento conclusivo, depositato nella seduta dell’8 dicembre 2013, dell’indagine conoscitiva sui sistemi d'arma destinati alla difesa, che ha affrontato in particolare, due tematiche: la dimensione europea della difesa e le prospettive di una maggiore integrazione europea; la pianificazione dello strumento militare nazionale con particolare riferimento alle esigenze di operatività delle singole forze armate e ai programmi di ammodernamento e di rinnovamento dei sistemi d’arma.
Il relativo documento conclusivo, in corso di esame presso la commissione, pone in particolare evidenza come la realizzazione di una maggiore integrazione a livello europeo nel settore dalla difesa rappresenti un obiettivo condiviso dall’ampia platea dei soggetti ascoltati dalla Commissione difesa i quali, pur individuando talune difficoltà nella realizzazione di questo importante obiettivo, hanno sottolineato i vantaggi che un rafforzamento della politica di sicurezza e difesa comune, nell’ambito della più generale politica estera e di sicurezza comune, può comportare al sistema della difesa in termini operativi, capacitivi ed economici.
È in corso di svolgimento, inoltre, presso la Commissione affari esteri e comunitari della Camera l’indagine conoscitiva sulla proiezione dell’Italia e dell’Europa nei nuovi scenari geopolitici, priorità strategiche e di sicurezza.
L'indagine mira, in particolare, a ricostruire e verificare la validità degli attuali meccanismi internazionali di prevenzione e gestione dei conflitti, nonché di controllo degli armamenti, nonché a valutare i margini di armonizzazione tra le capacità nazionali e quelle europee e transatlantiche.
A partire dal luglio 2013 le Commissioni riunite 3a (Affari esteri, emigrazione), 4a (Difesa) e 14a (Politiche dell'Unione europea) del Senato della Repubblica hanno condotto un'indagine conoscitiva sulle linee programmatiche e di indirizzo italiane in relazione al Consiglio europeo sulla Difesa, che ha avuto luogo nel mese di dicembre 2013. Nell'indagine conoscitiva è stata evidenziata "la particolare valenza politica del Consiglio europeo di dicembre e l'opportunità che rappresenta per il Paese" alla luce, tra l'altro, dell'imminente revisione dello strumento militare nazionale nonché delle importanti ricadute in ambito industriale (resoconto di martedì 2 luglio 2013).
Le Commissioni riunite hanno condotto una serie di audizioni, tra cui quelle del Presidente della Sottocommissione per la sicurezza e la difesa della Commissione Affari esteri del Parlamento europeo (4 luglio 2003), del direttore generale dell'Agenzia europea per la difesa (17 luglio 2013), del Ministro della difesa (31 luglio e 9 ottobre 2013), del segretario generale dell'OSCE (7 agosto 2013) e del Ministro per gli affari europei (5 settembre 2013) .
A conclusione dei lavori, il 19 novembre 2013 è stata approvata una risoluzione (Doc. XXIV, n. 13), in cui - in merito agli esiti dell'indagine conoscitiva - si è evidenziato che:
· uno strumento di difesa comune integrato, sostenibile ed efficace dell'UE permetterebbe di coniugare le necessità di risanamento dei bilanci nazionali imposte dalla crisi economica con il consolidamento del ruolo geo-strategico dell'Unione stessa;
· anche in ambito NATO si pone da tempo il problema di un riequilibrio tra l'impegno finanziario, tecnologico e politico degli USA e dei Paesi europei;
· la perdita di capacità militari determinata dalla contrazione dei budget dedicati alla difesa è ulteriormente aggravata dalla persistente frammentazione dei mercati europei, foriera di un'inutile sovrapposizione di capacità, organizzazioni e spese.
In quest'ottica la realizzazione di un'efficace dimensione europea della difesa si rivela "pressante anche a seguito dei recenti, drammatici, avvenimenti nell'area del Mediterraneo", che evidenziano la necessità di capacità militari credibili, e quanto più coordinate possibili, accanto ad una strategia europea per la gestione dei flussi migratori. A questo fine "si rende necessario individuare le capacità specifiche di ciascun paese", promuovendole e valorizzandole per costruire uno strumento militare europeo meno costoso per i singoli Paesi "ma, allo stesso tempo, completo ed efficace". In assenza di tale coordinamento nell'effettuazione delle necessarie riduzioni di bilancio - paventa la risoluzione - potrebbe verificarsi l'ipotesi di "una pluralità di strumenti militari nazionali eccessivamente ridotti ed inadeguati a garantire la sicurezza - interna ed esterna - del territorio dell'Unione europea". Strumentali ai fini del raggiungimento di tali obiettivi appaiono l'impulso dei Paesi dell'Unione, tra cui l'Italia, che dispongono di adeguate capacità militari, industriali e tecnologiche (eventualmente tramite lo strumento della cooperazione strutturata permanente), nonché il rafforzamento del ruolo dell'Alto rappresentante per gli affari esteri e la politica di sicurezza. Un ulteriore strumento sarà fornito dalle risorse per la crescita tecnologica, l'eccellenza scientifica e la leadership industriale messe a disposizione con il Programma quadro europeo "Horizon 2020".
Vengono quindi formulate indicazioni precise al Governo, impegnandolo a:
· assumere in prima persona l'obiettivo di una chiara strategia di integrazione e convergenza delle politiche e degli investimenti in materia di sicurezza e difesa e di miglioramento della complementarietà e interoperabilità delle Forze armate europee;
· promuovere l'adozione di una tabella di marcia, con scadenze chiare per il raggiungimento di obiettivi chiave;
· contribuire ad una ridefinizione delle priorità, tra cui: il rilancio delle strategie mirate a rafforzare la capacità dell'Unione di pianificare e realizzare operazioni a carattere civile o militare; l'aumento delle capacità europee di contrasto al terrorismo, alla proliferazione delle armi di distruzione di massa e ai traffici illeciti, con particolare riferimento a Mediterraneo, Balcani e Medio Oriente; il sostegno all'elaborazione di linee guida sulle energie rinnovabili e l'efficienza energetica nel settore della difesa; la promozione di un maggior collegamento funzionale tra la ricerca e la tecnologia industriale e le capacità operative della sicurezza e della difesa, sostenendo altresì le piccole e medie imprese.
Il Consiglio europeo del 19 e 20 dicembre del 2013, a conclusione di un dibattito sulla Politica di sicurezza e di difesa comune (PSDC) – il primo dall’entrata in vigore del Trattato di Lisbona –, ha individuato una roadmap per il rafforzamento della difesa europea, sulla base di una suddivisione interna in tre clusters:
· Aumentare l’efficacia, la visibilità e l’impatto della PSDC;
· Potenziare lo sviluppo delle capacità;
· Rafforzare l’industria europea della difesa.
Tra le iniziative ricomprese all’interno del primo cluster, e considerate indispensabili per consentire all’UE e ai suoi Stati membri di rispondere alle nuove sfide in materia di sicurezza, è inclusa l’adozione di “una strategia per la sicurezza marittima dell’UE entro il giugno 2014, sulla base di una comunicazione congiunta della Commissione e dell’Alto Rappresentante, tenendo conto dei pareri degli Stati membri, e la successiva elaborazione di piani d’azione per rispondere alle sfide marittime.
Si ricorda che, sebbene una strategia marittima dell’UE in quanto tale non esista, una dimensione marittima si è andata sviluppando nelle diverse politiche settoriali dell’UE (pesca, inquinamento, trasporti, sorveglianza marittima e sicurezza energetica). La politica marittima integrata per l’UE, risalente al 2007, pur tentando, come suggerito dal suo stesso nome, di addivenire a un approccio globale e trasversale, era contraddistinta da una dimensione intrinsecamente economica, che ha lasciato poco spazio alle questioni legate alla sicurezza.
D’altro canto, la Strategia europea in materia di sicurezza, adottata dal Consiglio europeo nel dicembre 2003, non tiene in conto la specificità dell’ambiente marino e affronta il tema della sicurezza in termini generali, identificando quale minaccia alla sicurezza marittima esclusivamente il fenomeno della pirateria. Inoltre, essendo stata adottata prima dell’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, non incorpora al proprio interno le nuove disposizioni relative all’assistenza e all’aiuto reciproco (art. 42 del TUE) e la clausola di solidarietà tra Stati membri (art. 222 del TFUE).
La comunicazione congiunta prevista dalle conclusioni del Consiglio europeo di dicembre, e dalla road map ivi tracciata, è stata presentata dalla Commissione europea e dall’Alto Rappresentante il 6 marzo 2014 (JOIN (2014) 9).
Vi si osserva in primo luogo come le dimensioni interna ed esterna della sicurezza marittima siano sempre più interdipendenti, e come siano necessari unità d’intenti e uno sforzo condiviso di tutte le parti coinvolte per garantire la coerenza tra le politiche nazionali e settoriali e per far sì che le autorità civili e militari possano reagire congiuntamente e con efficacia, secondo un modello che ha già dimostrato la sua validità nel caso dell’Operazione Atalanta, condotta dalla forza navale dell’Unione europea in Somalia (UE-NavFor).
Una strategia per la sicurezza marittima dell’UE faciliterebbe la definizione di un approccio strategico e intersettoriale nel settore della sicurezza marittima, il cui punto di partenza dovrebbe essere costituito dal coordinamento dell’UE e dal rafforzamento delle sinergie con e fra gli Stati membri, oltre alla cooperazione con partner internazionali, nel rispetto dei trattati e delle normative in vigore, compresa la Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare (UNCLOS).
La strategia, anziché creare nuove strutture, norme o programmi, dovrebbe sforzarsi di sviluppare e potenziare i risultati già raggiunti, garantendo la coerenza con le esistenti politiche dell’UE.
Gli interessi strategici fondamentali ai fini della sicurezza marittima dell’UE sono:
· prevenzione dei conflitti, mantenimento della pace e rafforzamento della sicurezza internazionale;
· protezione dell’UE dalle minacce della sicurezza marittima, compresa la protezione delle infrastrutture marittime di primaria importanza (porti e terminali, installazioni offshore, ecc.);
· controllo efficace delle frontiere marittime esterne dell’Unione, per prevenire attività illegali;
· protezione della catena di approvvigionamento dell’Unione e libertà di navigazione;
· prevenzione delle attività di pesca illegale, non dichiarata e non regolamentata (pesca INN).
Le minacce alla sicurezza marittima consistono in:
· controversie marittime territoriali, atti di aggressione e conflitti armati tra Stati;
· proliferazione delle armi di distruzione di massa;
· atti di pirateria e rapine a mano armata in mare aperto;
· terrorismo e altri atti illeciti internazionali perpetrati ai danni di navi, merci e passeggeri, porti e impianti portuali e infrastrutture marittime d’importanza strategica;
· criminalità organizzata e transfrontaliera, compreso il traffico di armi e di droga e la tratta di esseri umani per vie marittime, come anche la pesca INN;
· potenziali conseguenze per l’ambiente delle discariche illegali o dell’inquinamento marino dovuto a cause accidentali;
· potenziali ripercussioni delle calamità naturali, dei fenomeni climatici estremi e dei cambiamenti climatici sul sistema di trasporto marittimo;
· condizioni al largo e nelle zone costiere che indeboliscono il potenziale di crescita e di occupazione nel settore marino e marittimo.
L’approccio intersettoriale che dovrebbe caratterizzare la strategia di sicurezza marittima potrà realizzarsi compiutamente perseguendo quattro obiettivi strategici:
· Ottimizzare le capacità esistenti a livello nazionale ed europeo, attraverso un miglior coordinamento tra autorità competenti e agenzie;
· Promuovere partenariati efficaci e credibili nel settore marittimo a livello mondiale;
· Promuovere l’efficacia in termini di costi (necessità tanto più stringente nel momento in cui la spesa pubblica è sotto pressione e le risorse sono inevitabilmente limitate):
· Rafforzare la solidarietà tra gli Stati membri.
Una strategia intesa a realizzare una migliore governance marittima dovrebbe ispirarsi a quattro principi fondamentali:
· approccio intersettoriale, che coinvolga tutti i partner potenzialmente interessati, dalle autorità civili e militari all’industria;
· integrità funzionale: nessuna modifica del mandato, delle responsabilità e delle competenze di nessuna delle parti in causa;
· multilateralismo marittimo e tutela degli interessi UE nei consessi internazionali (attraverso la capacità di rivolgersi ai propri partner “parlando con una voce sola”);
· rispetto delle norme e dei principi: rispetto del diritto internazionale, dei diritti umani e della democrazia, e piena conformità con la convenzione UNCLOS.
La comunicazione procede a individuare le zone o regioni marittime che rivestono particolare importanza per l’UE e i suoi Stati membri “a motivo del loro valore strategico o potenziale di crisi o d’instabilità”:
· Mediterraneo, Atlantico e rete mondiale di rotte da e verso l’Asia, l’Africa e le Americhe;
· acque che circondano il continente africano, compreso il Golfo di Guinea; Golfo di Aden;
· aree marittime dell’Est e del Sud-Est asiatico;
· apertura di possibili vie di trasporto attraverso l’Artico.
Per quanto riguarda l’azione esterna, i settori in cui migliorare la cooperazione includono:
· un approccio coordinato sulle questioni relative alla sicurezza marittima nei consessi internazionali;
· la pianificazione di periodiche esercitazioni marittime “battenti bandiere dell’UE”;
· il rafforzamento e il sostegno alle risposte regionali dell’UE in altre zone colpite dalla pirateria marittima in tutto il mondo;
· la predisposizione di azioni volte allo sviluppo delle capacità in materia di sicurezza marittima con paesi terzi e organizzazioni regionali;
· il sostegno ai paesi terzi nel loro sforzo di instaurare e migliorare le loro capacità di ricerca e salvataggio;
· il miglioramento dello scambio di informazioni con i partner internazionali, compresi i paesi del vicinato.
La comunicazione si sofferma a lungo sull’importanza di un accesso tempestivo e accurato a informazioni e dati di intelligence e della creazione di un quadro di interoperabilità tra i sistemi nazionali e dell’UE. La sorveglianza marittima è infatti ancora in massima parte organizzata lungo linee nazionali e settoriali, con la possibile conseguenza che si faccia un uso non ottimale delle capacità di sorveglianza disponibili. I settori in cui migliorare la cooperazione dovrebbero essere:
· lo scambio di informazioni tra le autorità civili e militari responsabili della sorveglianza delle frontiere marittime;
· Il miglioramento della cooperazione transfrontaliera e tra civili e militari, così come l’interoperabilità dei sistemi di sorveglianza marittima e di sicurezza marittima.
Per quanto concerne lo sviluppo e il potenziamento delle capacità e la loro piena efficienza sotto il profilo dei costi, la comunicazione si sofferma sull’importanza dell’iniziativa Pooling and Sharing, e suggerisce di:
· individuare i settori di capacità e le tecnologie che potrebbero trarre vantaggio dall’armonizzazione per una migliore interoperabilità, e sviluppare tabelle tecniche di marcia;
· analizzare il valore aggiunto di acquisire capacità a duplice uso nel settore della sorveglianza marittima;
· applicare pienamente, potenziare o sviluppare la legislazione sulla sicurezza dei porti, degli impianti portuali e delle navi;
· coordinare gli sforzi di ricerca degli Stati membri.
Per quanto concerne la gestione del rischio, la protezione delle infrastrutture marine strategiche e la risposta alle crisi, la comunicazione mette in evidenza la necessità di:
· un approccio globale e condiviso alla gestione del rischio per la sicurezza marittima, al fine di conseguire un’analisi comune dei rischi;
· iniziative sul rafforzamento della cooperazione tra civili e militari e transfrontaliera per la risposta alle crisi marittime;
· una valutazione della resilienza dei trasporti marittimi alle calamità naturali e ai cambiamenti climatici.
In tema di ricerca e innovazione, infine, la comunicazione sottolinea l’importanza di:
· creare un calendario di formazione marittima comune;
· istituire un programma congiunto civile e militare per la ricerca nel settore della sicurezza marittima (compresa la capacità a duplice uso);
· istituire una rete di conoscenze e competenze allo sviluppo nel settore della sicurezza marittima;
· proseguire gli sforzi per migliorare la capacità operativa e tecnica dell’Unione e delle autorità nazionali nell’individuare e localizzare meglio le piccole imbarcazioni.
L’Italia intende contribuire fattivamente al processo di drafting della Strategia sulla sicurezza marittima, e ha già prodotto una serie di documenti in proposito, il più recente e significativo dei quali è il non paper presentato congiuntamente a Cipro, Francia, Grecia e Spagna, e in associazione con Croazia e Slovenia.
Il non paper, che pure procede da un’impostazione per diversi aspetti simile a quella della Commissione europea e dell’Alto Rappresentante, include talune differenze significative, che si possono sintetizzare in questi termini:
· una maggiore concretezza nell’individuazione degli interessi strategici dell’UE nel settore marittimo, tra i quali vanno segnalati la tendenza degli Stati Uniti a rifocalizzarsi verso il Pacifico, che impone agli Stati membri l’assunzione di maggiori responsabilità; la militarizzazione di aree marittime, l’emergere di ambizioni navali, lo sviluppo delle flotte marine asiatiche; la pressione demografica e la distribuzione ineguale delle ricchezze, che provocano flussi di immigrazione illegale e un incremento dei crimini in campo marittimo; una persistente o nuova instabilità negli stati costieri; i progressi tecnologici delle organizzazioni criminali;
· una classificazione interna dei rischi e delle minacce per l’UE, i suoi Stati membri e la sua popolazione, a seconda che essi abbiano un impatto diretto (minacce all’integrità territoriale, terrorismo, immigrazione illegale, contrabbando, traffico di droga e di armi), un impatto sugli interessi strategici, o un impatto sulle risorse marittime;
· l’idea che la nozione di vicinato non debba limitarsi ai paesi confinanti o limitrofi, ma estendersi agli Stati costieri che affaccino sulla stessa zona marittima;
· la convinzione che gli interventi dell’UE e degli Stati membri per la sicurezza marittima richiedano un quadro politico, giuridico e diplomatico chiaro, e una serie di processi e di procedure decisionali, programmatiche e operative che vadano a formare un pacchetto coerente.
In conclusione, il non paper afferma che una Strategia di sicurezza marittima funzionale ed efficace dovrebbe includere:
· un insieme di accordi di governance che incorpori le necessità e i punti di vista di tutti gli stakeholders e sia basata su un insieme coerente di politiche;
· un insieme di strumenti trasversali che rafforzino la consapevolezza e la capacità di analisi dell’UE e degli Stati membri;
· un insieme comune di protocolli di intervento, che comporta una mutua comprensione delle procedure applicabili in situazioni simili, indipendentemente dal luogo ove tali situazioni si verifichino.
L’11 gennaio 2014 si spegneva, dopo otto anni di coma, l’ex premier israeliano Ariel Sharon.
Il 16 gennaio i difficili rapporti tra Israele e UE subivano ulteriori tensioni a seguito della convocazione simultanea in Italia, Regno Unito, Spagna e Francia dei rappresentanti diplomatici di Israele, ai quali veniva palesata l'insoddisfazione dei quattro paesi sul progetto della costruzione di 1.800 nuove case negli insediamenti di Gerusalemme est e Cisgiordania, che la Comunità internazionale nella sua generalità definisce illegittimi. Il giorno successivo gli ambasciatori dei quattro paesi in Israele venivano convocati al ministero degli esteri a Tel Aviv per raccogliere la viva protesta di Israele contro la posizione, che sarebbe sempre unilaterale, dei quattro paesi a favore dei palestinesi, e ciò con grave pregiudizio anche dell'equilibrio dei negoziati tra le due parti. Anche la visita del presidente dell’Europarlamento (12 febbraio) alla Knesset registrava un incidente con le autorità israeliane, che accusavano Martin Schulz di aver dato troppo facilmente credito a lamentele palestinesi sulla discriminazione nell’accesso alle risorse idriche.
All’inizio di febbraio il municipio di Gerusalemme deliberava la costruzione di ulteriori 558 alloggi negli insediamenti ebraici della parte orientale della città, destando l’ira dei palestinesi e oggettivamente rendendo più difficili gli sforzi del segretario di Stato USA John Kerry per la ripresa del processo negoziale.
Durante la visita in Israele della fine di febbraio la cancelliera Angela Merkel, celebrando il cinquantennale delle relazioni diplomatiche con Tel Aviv, ribadiva il giudizio negativo sulle colonie ebraiche per il processo di pace, assicurando nel contempo la non adesione della Germania a forme di boicottaggio verso i prodotti israeliani.
Sul fronte della sicurezza il mese di marzo si apriva il giorno 5 con il sequestro, al largo delle coste sudanesi del Mar Rosso, di una nave iraniana da parte della marina israeliana: la nave sarebbe stata diretta a Port Sudan, e il suo carico di armi, attraversando il Sinai, avrebbe dovuto raggiungere la Striscia di Gaza. Il governo israeliano ha dato grande risalto a questo episodio, evidenziando come le decine di missili M-302 che facevano parte del carico siano tali da poter raggiungere da Gaza qualsiasi parte del territorio israeliano. Israele ha annunciato una protesta formale al Consiglio di sicurezza dell'ONU contro l'Iran, che inviando le armi avrebbe violato diverse risoluzioni volte ad impedire il commercio clandestino di armi verso la Striscia di Gaza.
Il 9 marzo il premier israeliano Netanyahu chiedeva con asprezza al capo della diplomazia europea Catherine Ashton, che si trovava in missione in Iran, perché non chiedesse conto alle autorità di Teheran delle spedizioni di armi alle organizzazioni terroristiche. Il giorno successivo, con grande apparato, Netanyahu si è recato nella base della marina militare di Eilat, per mostrare alla stampa il carico di armi rinvenuto a bordo della nave iraniana, esortando il mondo a prendere coscienza della doppiezza dell'Iran, che mentre si impegna diplomaticamente in colloqui “distensivi” con le potenze occidentali continuerebbe a fomentare il terrorismo. Netanyahu ha sfidato apertamente il ministro degli esteri di Teheran Zarif, qualificandolo indirettamente come mentitore.
Nella stessa giornata in diverse circostanze e luoghi l'esercito israeliano uccideva due palestinesi: una delle due vittime era un giudice palestinese che lavorava in Giordania e che stava rientrando in Cisgiordania, a pochi chilometri da Gerico, su un autobus da cui sarebbe sceso aggredendo un militare israeliano e perdendo la vita nella successiva degenerazione della colluttazione. L'uccisione del giudice ha provocato una protesta diplomatica da parte di Amman, dove il ministro degli esteri giordano ha convocato l’incaricato d’affari israeliano per spiegazioni. Nella capitale giordana vi è stata anche una manifestazione di protesta di fronte all'ambasciata israeliana, che si è inserita nel clima teso delle scorse settimane, dopo che il parlamento giordano aveva chiesto la rottura delle relazioni con Israele.
L'11 marzo tre miliziani di Gaza appartenenti alla Jihad islamica venivano uccisi dalle forze di sicurezza israeliane: il giorno successivo decine di razzi venivano lanciati dalla Striscia contro Israele, una escalation definita dall'esercito israeliano la più grave dal novembre 2012. I lanci di razzi non provocavano vittime né feriti, ma il premier Netanyahu reagiva subito con energia, mentre il ministro degli esteri Lieberman si spingeva a sostenere la necessità di occupare completamente la Striscia di Gaza - il cui territorio veniva frattanto colpito da tiri di artiglieria israeliana nel nord e nel sud.
I valichi di frontiera tra Israele e Gaza venivano chiusi fino a nuovo ordine. Dopo un ulteriore attacco israeliano, stavolta da parte dell'aviazione, che colpiva sette siti nella parte meridionale della Striscia, il 13 marzo veniva proclamata dalla Jihad islamica una tregua, anche grazie alla mediazione dell’Egitto. Tuttavia alcuni razzi continuavano a raggiungere il territorio israeliano, seppure sporadicamente. La rinnovata tensione con Gaza provocava scambi di accuse reciproche tra Netanyahu e il leader dell’ANP Abu Mazen.
Nemmeno le alture del Golan - area che, seppure rivendicata dalla Siria, è sempre stata una delle più tranquille nel difficile scenario israeliano - rimanevano immuni da tensioni: dopo che il 5 e il 14 marzo elementi identificati dagli israeliani come Hezbollah, partiti dal territorio siriano, avevano piazzato o tentato di piazzare ordigni sulla frontiera; il 18 marzo un altro ordigno, esploso su uno dei reticolati di confine, provocava il ferimento di quattro soldati israeliani, uno dei quali in modo assai grave. Il premier Netanyahu denunciava la convergenza di elementi jihadisti e appartenenti a Hezbollah - che nello scenario siriano tuttavia si combattono aspramente - nell'attaccare Israele in una zona finora più tranquilla. La reazione israeliana, prima con lanci di razzi e poi con raid aerei nella notte, veniva rivendicata in Consiglio dei ministri da Netanyahu, sostenendo che gli obiettivi colpiti in Siria erano stati scelti tra elementi che avevano collaborato alla preparazione degli attacchi alle forze israeliane sui reticolati di confine.
Nella notte tra 21 e 22 marzo l'esercito israeliano irrompeva in un campo profughi cisgiordano a Jenin e, dopo un prolungato conflitto a fuoco, uccideva tre miliziani palestinesi rappresentativi di tutte le brigate armate (Hamas, al-Fatah e Jihad islamica). I tre palestinesi erano sospettati di progettare un attacco contro un insediamento ebraico, ed erano stati localizzati in una palazzina della città di Jenin, ove i funerali dei tre miliziani sono stati seguiti da migliaia di persone che hanno richiesto la fine dei negoziati di pace con Israele.
Per quanto concerne proprio i negoziati di pace, che in base agli accordi del luglio 2013 avrebbero dovuto produrre risultati entro la fine di aprile, nel mese di marzo ha acquistato sempre più credito l’ipotesi di un rinvio di tale scadenza. Il presidente USA Obama, incontrando alla Casa Bianca il 3 marzo il premier israeliano Netanyahu, ha messo in guardia Israele dal proseguire nella politica degli insediamenti, le cui conseguenze internazionali, ha detto, potrebbero essere tali da soverchiare persino la capacità di controllo degli Stati Uniti.
Le consuete distanze tra i due leader sono state confermate anche nel giudizio sul dossier iraniano. Il 17 marzo è stato Abu Mazen a recarsi negli Stati Uniti, ma nel colloquio con Obama è emersa soprattutto la richiesta palestinese ad Israele di mantenere l'impegno a liberare un nuovo gruppo di 104 detenuti palestinesi - su questo punto e sulla questione del rifiuto palestinese di riconoscere Israele come Stato ebraico sembrano in effetti continuare a ristagnare le prospettive di un esito positivo.
Il 12 marzo intanto era stata apparentemente chiusa una questione che aveva agitato il fronte interno israeliano per parecchi anni: infatti la Knesset ha approvato una legge che per la prima volta impone anche ai giovani ebrei ortodossi la coscrizione obbligatoria, a partire dal 2017. Contro tale ipotesi vi era stata il 2 marzo una grande manifestazione di centinaia di migliaia di ebrei ortodossi a Gerusalemme, nel corso della quale i rabbini avevano prescritto di opporsi anche con la disobbedienza civile all'eventuale approvazione dell'obbligo della leva. Peraltro l'arruolamento dei giovani zeloti avverrà gradualmente, e sono previste esenzioni per gli studenti rabbinici più meritevoli, nonché la possibilità di optare per un servizio civile e sussidi per gli ortodossi arruolati – gli ortodossi infatti si sposano e hanno figli molto precocemente.
Il 2 gennaio 2014 un’autobomba colpiva, per la quarta volta in cinque mesi, la roccaforte di Hezbollah a Beirut sud, con almeno cinque morti e decine di feriti – l’attacco si ripeteva il 21 gennaio con un bilancio appena più lieve. Tre morti e una trentina di feriti erano il risultato di una nuova autobomba, esplosa il 16 gennaio in un’altra roccaforte di Hezbollah, la cittadina di Hermel nella valle della Bekaa, anch’essa colpita di nuovo il 1° febbraio. Il 19 febbraio due autobomba colpivano simultaneamente il centro culturale iraniano di Beirut sud, con un bilancio di sei morti e più di cento feriti.
Preoccupava intanto sempre più la situazione del paese investito da un gran numero di profughi – si stima siano ormai non meno di un milione, e per verificare la situazione umanitaria si è recata in Libano il 4 febbraio l’allora ministro degli Esteri Emma Bonino, impegnata anche in incontri istituzionali con varie autorità del paese - in conseguenza della crisi siriana, e coinvolto in episodi di sconfinamento dei combattimenti sul suo territorio.
In particolare, la provincia di Wadi Khaled pullula di profughi in numero tale da rendere impensabile la loro sistemazione in appositi campi (va ricordato che il Libano già ospita in campi fra i tre- e i quattocentomila profughi palestinesi e loro discendenti), e gli stessi aiuti umanitari faticano a raggiungere tutti coloro che ne abbisognano in modo assoluto. Le autorità libanesi propongono di riallocare i profughi dal Paese dei Cedri alla Turchia, alla Giordania e all’Iraq, prospettando altresì la possibilità di aprire campi profughi in territorio siriano, a ridosso delle zone di frontiera e sotto la protezione dell’ONU.
Nonostante tutto, però, il 15 febbraio il Libano è riuscito a darsi un governo frutto del compromesso tra Hezbollah e il fronte antisiriano capitanato da Saad Hariri: nella nuova compagine, presieduta dal sunnita moderato Tammam Salam, siedono con pari forza le due fazioni, unitamente a vari esponenti tecnici e centristi.
Alla metà di dicembre del 2013, non senza grandi difficoltà, si raggiungeva un accordo istituzionale per porre fine all’instabilità che aveva caratterizzato il paese per tutto il 2013. Il 9 gennaio 2014 effettivamente si dimetteva il premier Laarayedh, nelle stesse ore in cui la Costituente sanciva, con un emendamento al progetto costituzionale in via di elaborazione, la completa parità giuridica tra uomini e donne – già inserita nel testo - anche nelle assemblee elettive.
La nuova Costituzione prevede anche, nonostante il riconoscimento dell’Islam come religione di Stato, l’esclusione della shari’a dalle basi giuridiche della Tunisia, consentendo invece libertà di fede e coscienza, e rigettando le ipotesi di apostasia quali figure di reato.
Il 26 gennaio l’ex ministro dell’industria Mehdi Jomaa riceveva l’incarico di formare un governo tecnico frutto del compromesso tra Ennahdha e le opposizioni.
Il 4 marzo il Presidente del Consiglio Matteo Renzi si è recato a Tunisi per la prima missione all’estero del suo mandato: Renzi ha incontrato le massime cariche istituzionali del vicino paese – oltre che esponenti della vivace società civile -, alle quali ha rinnovato la considerazione della centralità del Mediterraneo per l’Italia, in una prospettiva di dialogo e sviluppo.
Il 24 dicembre 2013 le autorità egiziane decretavano la messa al bando della Fratellanza musulmana quale organizzazione terroristica: la decisione scatenava nuovi disordini in tutto il paese, nel corso dei quali perdevano la vita almeno tre manifestanti.
Il 14 e 15 gennaio 2014 gli egiziani si recavano alle urne per votare sulla nuova Costituzione, di impianto più laico e tollerante, anche se l’Islam è comunque considerato fonte d’ispirazione giuridica e religione di Stato. E’ riconosciuta la libertà di tutte le confessioni religiose, nel mentre si vietano i partiti a base religiosa, razziale di genere e geografica. La Costituzione veniva approvata plebiscitariamente, ma meno del quaranta per cento degli aventi diritto si recava alle urne.
Le celebrazioni a tre anni dalla caduta di Mubarak si trasformavano il 24 e 25 gennaio in una nuova occasione di gravissimi scontri, con più di cinquanta morti e oltre settecento arresti.
Il 27 gennaio il Consiglio supremo delle forze armate autorizzava al-Sissi, appena promosso a feldmaresciallo – una carica mai raggiunta neppure da Mubarak –, a partecipare alle elezioni presidenziali, delle quali intanto era stato deciso l’anticipo al mese di aprile.
Nel paese, oltre alle azioni dei partigiani di Morsi, cresce anche la minacciosa presenza di al Qaida, e non solo nei sempre più aspri combattimenti nel Nord del Sinai, costati ai movimenti jihadisti una settantina di morti tra gennaio e inizio febbraio. L’escalation delle violenze colpiva il 16 febbraio un pullman di turisti sudcoreani nei pressi di Taba (Mar rosso), con un bilancio di quattro morti e una quindicina di feriti. Il contesto del Sinai rimane particolarmente delicato, anche per l’evidente obiettivo dei terroristi di coinvolgere in qualche modo Israele, mettendone a rischio l’amicizia con l’Egitto, nonché per le accuse a Hamas di appoggiare gli attentati contro l’Egitto – accuse rafforzate dopo il ritorno dei militari al controllo del paese.
Il 18 febbraio al Qaida, nell’intento di accrescere le difficoltà economiche dell’Egitto, e quindi di porre in crisi il nuovo corso politico del Cairo, si spingeva a dare ai turisti stranieri un ultimatum di quattro giorni per lasciare il paese. Il 28 febbraio diversi paesi europei, tra cui l’Italia, decidevano di considerare il paese troppo pericoloso, iniziando anche a rimpatriare i connazionali presenti in loco.
Il 24 febbraio le dimissioni del premier Beblawi e dell’intero governo sono state generalmente interpretate come ulteriore mossa verso il rafforzamento della candidatura di al Sissi alle presidenziali di metà aprile: tuttavia, dopo la designazione del nuovo premier incaricato nella persona dell’ex ministro (con Mubarak) dello sviluppo urbano Ibrahim Mahleb, l’annuncio della candidatura di al Sissi è ulteriormente slittato, segno ad un tempo delle difficoltà dell’Egitto e dell’incertezza sulla scena politica.
Il mese di marzo si è aperto con una decisa svolta nei rapporti tra l'Egitto e la fazione palestinese di Hamas, al potere a Gaza: il 4 marzo infatti il tribunale per gli affari urgenti egiziano ha dichiarato fuorilegge Hamas, vietandone ogni attività in Egitto e ordinando il sequestro della sede al Cairo. Da tempo le autorità egiziane denunciavano lo stretto legame tra Hamas i Fratelli musulmani, che avrebbe tra l'altro resa possibile la grave recrudescenza terroristica nella penisola del Sinai. La decisione egiziana ha destato forti reazioni nella Striscia di Gaza, anche perché essa lascia presagire un'ulteriore giro di vite nel blocco dei transiti al valico di Rafah, che collega Gaza con il territorio egiziano del Sinai.
I difficili rapporti dell'Egitto con il Qatar, accusato di aver sempre sostenuto i Fratelli musulmani, sono tornati alla ribalta il 5 marzo con una nuova udienza del processo contro venti giornalisti dell'emittente televisiva qatariota al-Jazira, accusati in Egitto di aver prestato aiuto alla Fratellanza musulmana e aver diffuso notizie false sulla situazione egiziana. Ad aggravare la questione è venuta la denuncia di percosse e torture subite in carcere da parte di uno dei venti reporter, di nazionalità egiziana.
Sul fronte degli attentati va ricordato in particolare quello avvenuto contro militari egiziani ad un posto di controllo nella regione del Delta del Nilo (15 marzo), con la morte di sei militari - ma solo per la perizia degli artificieri il bilancio non è stato assai più grave, poiché subito dopo l'attacco erano state piazzate anche delle bombe -, rivendicato da un gruppo jihadista attivo nel Sinai. Sei sostenitori di questo gruppo terroristico sono peraltro rimasti uccisi il 19 marzo in un blitz delle forze di sicurezza egiziane, nel quale però hanno perso la vita anche un generale e un colonnello dell’esercito.
Proprio in ragione della persistente insicurezza del paese, che oltre ai ripetuti attentati vede la persistente e capillare mobilitazione dei Fratelli musulmani nonostante la loro messa al bando, si comprende il dato di circa il trenta per cento di calo del flusso turistico in Egitto tra gennaio 2013 e gennaio 2014.
Preoccupazione e grandi proteste anche a livello internazionale ha destato il processo a un gran numero (circa 1.200 persone) di appartenenti alla Fratellanza musulmana per gli incidenti dell’agosto 2013 nell’Alto Egitto, avvenuti nel quadro delle proteste per la fine della presidenza di Mohamed Morsi: il 24 marzo una prima tranche del procedimento giudiziario da parte della Corte d’assise di Minya si è conclusa con la sorprendente condanna alla pena capitale di 529 accusati – dei quali la maggior parte contumaci. La sentenza deve essere approvata dal Gran Muftì d’Egitto – autorità religiosa ma con importanti attribuzioni civili –, e sarà comunque appellabile in Cassazione. Pesanti le critiche di USA, UE, Nazioni Unite e Amnesty International al regime egiziano.
La situazione libica resta molto preoccupante perché, se da un lato si è proceduto nel luglio 2012 all'elezione del Congresso nazionale con funzioni di assemblea costituente e il paese ha superato la fase dei governi di transizione, sul piano della sicurezza tuttora le condizioni si presentano proibitive. Soprattutto il nostro paese mostra interesse a sostenere il percorso delle nuove autorità di Tripoli e la loro lotta contro l'estremismo e le possibili derive di tipo somalo della Libia.
Il 2014 si apriva con l’assassinio a Sirte del viceministro dell’industria libico (12 gennaio), il primo membro del governo a essere ucciso dopo la fine del regime di Gheddafi. Intanto la Libia meridionale era teatro di sanguinosi scontri tribali. Il 18 gennaio si spargeva la notizia del rapimento di due operai edili calabresi ad opera di un gruppo armato nella zona libica di Derna – i due lavoratori sono stati fortunatamente liberati il 7 febbraio. Il 29 gennaio un altro esponente del governo, il ministro dell’interno e vicepremier Karim, sfuggiva miracolosamente a raffiche di proiettili sparati da sconosciuti nella capitale.
All’inizio di febbraio, comunque, si completava la distruzione dell’arsenale chimico ereditato dal regime di Gheddafi, portata a termine soprattutto con la collaborazione degli Stati Uniti.
A soli due giorni dalle elezioni per l’Assemblea costituente, il 18 febbraio due potenti milizie originarie di Zintan intimavano ai deputati del Congresso nazionale di dimettersi pena l’arresto immediato: quello che sembrava un vero e proprio ‘golpe’ si risolveva nel giro di poche ore con un non meglio precisato compromesso annunciato dal premier Zeidan. Il 20 febbraio la giornata elettorale, caratterizzata da bassa affluenza alle urne, registrava numerosi episodi di violenza e intimidazione ai seggi.
Nella serata del 2 marzo una folla inferocita ha invaso la sede del Congresso nazionale – che, si ricorda, invece di indire le attese elezioni legislative aveva recentemente prolungato il proprio mandato -: i locali sono stati devastati e diversi deputati aggrediti mentre fuggivano (due di loro sono stati anche feriti da colpi di arma da fuoco). Nella stessa giornata a Bengasi e dintorni perdevano la vita sette persone, tra cui un ingegnere francese e un ufficiale delle forze speciali libiche.
Il 6 marzo, dopo lunghe trattative con il Niger, la Libia ha otteneva l’estradizione di uno dei figli di Gheddafi, Saadi, noto in Italia, tra l’altro, per aver militato in alcune squadre di calcio del nostro paese.
Nella stessa giornata si è svolta a Roma la Conferenza internazionale sulla Libia, con la partecipazione di oltre 40 ministri degli esteri: il Ministro degli esteri Mogherini ha inteso puntualizzare in ordine a precise iniziative in tema di governance e sicurezza, ma ha anche sottolineato la necessità di un impegno forte dei libici per la riuscita del processi di transizione internazionalmente auspicato, anzitutto incardinando un credibile dialogo nazionale.
Presupposto di ogni passo avanti dovrà essere il ristabilimento di condizioni di sicurezza accettabili, a partire dal disarmo delle milizie che attualmente spadroneggiano nel paese. Dalla Conferenza non è uscita alcuna precisazione sulla data delle elezioni legislative, mentre è stato fissato un prossimo nuovo incontro in Turchia.
L’11 marzo è venuto al pettine anche il nodo dei rapporti di Tripoli con la Cirenaica, che particolarmente dal luglio 2013, sotto la guida di Hibrahim Jadran, rivendica autonomia dalla capitale e maggiori introiti petroliferi, bloccando i maggiori porti libici. Una petroliera che aveva imbarcato petrolio nel porto di Sidra e cercava di esportarlo illegalmente, con a bordo lo stesso Jadran, è stata intercettata dalla marina di Tripoli, che ha aperto il fuoco, senza però riuscire a bloccarla – la nave è stata tuttavia abbordata senza incidenti il 17 marzo da un commando di Navy Seal statunitensi, il cui intervento era stato richiesto dalle autorità di Tripoli. Poche ore dopo il Congresso nazionale votava a larga maggioranza una mozione di sfiducia contro il premier Ali Zeidan, che in breve riparava in Germania, provvisoriamente sostituito dal ministro della difesa al-Thani. Il presidente del Congresso nazionale, il 12 marzo, ha lanciato ai separatisti dell’est un ultimatum per lo sgombero di tutti i porti entro due settimane.
Il 22 marzo si è avuta notizia della scomparsa in Cirenaica di un tecnico italiano, probabilmente rapito, come fa pensare il ritrovamento nei pressi di Tobruk della sua auto abbandonata e con le chiavi inserite – oltretutto il nostro connazionale, affetto da diabete, non ha potuto portare con sé il kit dell’insulina, rinvenuto nell’autovettura.
Dopo l’accordo sul nucleare raggiunto a Ginevra nel novembre 2013 tra l’Iran e il Gruppo 5+1, all’inizio del 2014 i negoziatori delle diverse parti in causa raggiungevano un’intesa per l’effettiva applicazione di esso a partire dal 20 gennaio. Ai primi di febbraio l’Iran e l’AIEA (Agenzia internazionale per l’energia nucleare) concordavano poi su una serie di ulteriori misure tecniche in vista dei controlli sulle installazioni nucleari iraniane.
Deluse erano invece le aspettative di un contributo iraniano per risolvere la tragica situazione siriana: infatti Teheran chiariva di voler partecipare alla conferenza “Ginevra 2” senza esplicitamente accettare il piano formulato a Ginevra nel giugno 2012 per una transizione politica a Damasco, e pertanto l’invito alla partecipazione veniva ritirato a Teheran.
In vista del 18 febbraio, data dell’inizio di una decisiva e lunga tornata negoziale sulla questione nucleare, mirata, in base all’accordo del novembre 2013, a una soluzione stabile e duratura, emergevano in Iran numerosi malumori, incarnati anche da piccoli episodi di censura e di critica allo stesso presidente Rohani, messi in atto perfino dalla televisione di Stato. In particolare, la Guida Suprema Khamenei dichiarava ancora il proprio scetticismo sull’esito delle trattative, in ciò proseguendo nell’atteggiamento di non aperta sconfessione di Rohani, pur rappresentando le cospicue forze conservatrici contrarie all’apertura agli USA e al mondo occidentale.
Il 9 marzo, per la prima volta in sei anni dopo la visita di Javier Solana, l’Alto rappresentante per la politica estera dell’Unione europea Catherine Ashton si è recata in Iran, ove ha avuto colloqui sia sulla questione del nucleare che sulle più ampie relazioni bilaterali tra l’Unione europea e Teheran. Va rilevato come la stessa Ashton, aperta all’incremento delle relazioni con l’Iran, abbia tuttavia precisato non esservi alcuna certezza sull’esito positivo dei negoziati sulla questione nucleare - di diverso avviso il ministro degli esteri iraniano Zarif, secondo il quale un’intesa sarebbe possibile anche prima della scadenza prevista del 20 luglio.
Lo scenario iracheno successivo alla partenza delle ultime forze militari americane vedeva un progressivo ritorno all’instabilità, con il paese martoriato da un’impressionante serie di attentati soprattutto contro gli sciiti, in evidente contrasto alle forze dominanti del governo di Baghdad. Nella tragica situazione si inserivano anche le trame di al Qaida, favorite dal divampare del conflitto nella vicina Siria, con un effetto di ulteriore potenziamento delle stragi.
I giorni tra 2013 e 2014 registravano ulteriori tragici sviluppi: infatti, nelle regioni occidentali irachene influenzate dal conflitto siriano si verificava negli ultimi giorni del 2013 una dura repressione delle truppe governative contro manifestanti sunniti in rotta con il governo di Baghdad. La reazione scatenava delle vere e proprie battaglie tra miliziani qaidisti e forze governative a Falluja e Ramadi: Falluja veniva occupata il 4 gennaio da combattenti appartenenti alla milizia Isis (Stato islamico dell'Iraq e del Levante). La settimana successiva vedeva violentissimi combattimenti tra qaidisti e lealisti, con un bilancio di quasi quattrocento vittime e la fuga in massa di decine di migliaia di persone dalle loro abitazioni.
Il 15 gennaio una settantina di persone perdevano la vita per una serie di attentati a Baghdad e in altre regioni dell’Iraq. Alla fine di gennaio il bilancio delle vittime nel paese superava la cifra di 900. In febbraio le cose non si presentavano migliori, con gli attentati che colpivano nel cuore della capitale - uno degli obiettivi era addirittura il ministero degli esteri – con un bilancio di più di trenta morti.
La decisiva influenza iraniana sul governo sciita iracheno sembra essere stata rafforzata dal ritiro improvviso (a metà febbraio) di Moqtada Sadr dalla scena politica e parlamentare: Sadr, già combattente del radicalismo sciita contro l’occupazione americana, era stato a lungo anche un critico del premier al Maliki, cui imputava soprattutto la diffusione di pratiche corruttive, ma su indicazione di Teheran aveva dovuto contenere la propria opposizione entro limiti definiti, particolarmente nei momenti elettorali. Il ritiro di Moqtada Sadr è avvenuto, anche stavolta non a caso, a poche settimane dalle elezioni legislative irachene.
L’8 marzo il premier al-Maliki lanciava durissime accuse a Qatar e Arabia Saudita per il sostegno che accorderebbero a gruppi jihadisti sunniti responsabili di attacchi terroristici che, partendo dal territorio siriano, colpiscono gli sciiti in Iraq: al-Maliki dichiarava che ciò equivarrebbe a una dichiarazione di guerra all’Iraq. Il giorno successivo una quarantina di persone, tra cui cinque bambini, perdevano la vita in un attentato con un minibus esplosivo messo in atto da un kamikaze nella località di Hilla, a sud della capitale: nella stessa giornata venivano uccisi cinque poliziotti e quattro militari nei dintorni di Baghdad.
Il 25 novembre 2013, dopo una riunione tra Nazioni Unite, Russia e Stati Uniti a Ginevra il Segretario generale dell'ONU annunciava la convocazione della conferenza di Ginevra 2 per il 22 gennaio 2014. L'obiettivo primario della conferenza doveva essere la creazione in Siria di un organo governativo di transizione con pieni poteri, ma la questione dell'accesso umanitario al teatro di guerra siriano era divenuta ormai centrale nelle preoccupazioni della Comunità internazionale, come emerso nella riunione del 26 novembre a Ginevra del Gruppo di contatto a sostegno dell'azione in Siria dell'Ufficio di coordinamento degli affari umanitari (OCHA), dipendente dal Segretario generale dell'ONU.
Le possibilità di un'ampia partecipazione all’appuntamento di Ginevra 2 erano intanto cresciute il 12 novembre dopo l’assemblea generale della Coalizione nazionale siriana, le cui conclusioni avevano aperto appunto alla partecipazione alla conferenza se orientata alla formazione di un governo di transizione con pieni poteri, e con garanzia di accesso umanitario nelle zone poste sotto assedio e di rilascio dei prigionieri, in primis donne e bambini.
Nel documento mancava una richiesta esplicita di estromissione di Assad dalla conferenza, ma è certo che in tal senso vi erano forti auspici nell'ala militare degli oppositori. Per quanto concerne i rapporti con i curdi, una fazione minoritaria dei curdo-siriani entrava nella Coalizione nazionale, mentre quella maggioritaria legata al PKK turco annunciava la formazione di un governo autonomo di transizione nelle aree del nord-est siriano che i curdi controllano. Va però ricordato che il 20 gennaio 2014, dopo che l’Iran aveva dichiarato di non sostenere il piano per la transizione politica in Siria, e dando seguito alle proteste degli oppositori del regime siriano, il Segretario generale dell’ONU ritirava a Teheran l’invito a partecipare a Ginevra 2.
L’11 dicembre USA e Regno Unito decidevano di sospendere la fornitura di aiuti militari di carattere non letale ai ribelli impegnati nel nord della Siria, una spia delle crescenti e giustificate preoccupazioni delle due potenze per l’arrivo degli aiuti nelle mani di gruppi jihadisti e terroristi.
Proprio nell’imminenza dell’appuntamento di Ginevra i curdi siriani annunciavano intanto la formazione di un governo regionale autonomo e lo svolgimento di elezioni a breve termine, accentuando in tal modo la frammentazione di fatto della Siria.
La Conferenza si apriva nella città elvetica il 25 gennaio 2014, per chiudersi il 31, ma senza alcun risultato di rilievo. Piuttosto, durante i lavori il conflitto in Siria subiva addirittura una recrudescenza, con la quasi completa riconquista di Homs da parte delle forze del regime, e una cinquantina di morti per il bombardamento di Aleppo con barili esplosivi lanciati da elicotteri (1° febbraio). Tutto ciò non faceva che aggravare la disastrosa situazione umanitaria del popolo siriano, come rilevato con veemenza dal ministro degli Esteri pro tempore Emma Bonino nel corso della riunione di 19 paesi a Roma, convocata dall’ONU nell’ambito del Gruppo di alto livello sulle sfide umanitarie in Siria, e dalla quale usciva la richiesta pressante di consentire l’afflusso di cibo e medicine a milioni di siriani ridotti allo stremo, a prescindere dagli ancora deludenti sviluppi del dialogo tra le parti in conflitto.
L’8 febbraio una breve tregua stabilita per portare soccorso ai civili a Homs veniva subito interrotta dal fuoco aperto su un convoglio della Mezzaluna rossa. La ripresa (10 febbraio) della conferenza di Ginevra 2 non approdava ad alcun risultato, mentre anche in sede ONU si registrava una impasse.
Il 21 febbraio il Consiglio esecutivo dell’OPAC - l’Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche, incaricata di attuare l’accordo del settembre 2013 per la distruzione delle armi chimiche siriane - constatava il notevole ritardo sui tempi di consegna delle sostanze chimiche, la cui distruzione andrebbe completata entro il 30 giugno. In particolare, l’ambasciatore USA presso l’OPAC sollecitava la Siria a dar prova, prima della successiva riunione del Consiglio esecutivo, di ottemperare agli accordi di settembre 2013 – senza di che Damasco rischia il deferimento al Consiglio di sicurezza, e ciò proprio in base alla risoluzione del 27 settembre 2013. Per tutta risposta il 26 febbraio il regime siriano proponeva di posporre il termine per la consegna delle armi chimiche al 27 aprile, poiché la difficile situazione della sicurezza nel paese ne ostacolerebbe il trasporto.
Il 22 febbraio intanto il Consiglio di sicurezza dell’ONU aveva approvato all’unanimità una risoluzione per ottenere la fine degli assedi cui contemporaneamente erano sottoposte diverse città siriane, con terribili conseguenze sulle condizioni dei civili. La risoluzione non sembra tuttavia prevedere contro la Siria sanzioni in caso di inadempienza – del resto forse proprio perciò la Russia aveva rinunciato a porre il veto sull’approvazione del documento.
All’inizio di marzo, mentre sembrava progredire da parte siriana la consegna di sostanze chimiche da distruggere, che avrebbe raggiunto la quota di un quarto del totale; proseguivano gli scontri sul terreno tra forze lealiste e ribelli, con un bilancio che secondo l’Osservatorio nazionale per i diritti umani in Siria tocca ormai la cifra spaventosa di non meno di 140.000 vittime. In particolare, nella regione montuosa tra Siria e Libano si è sviluppata un’offensiva governativa per cercare di interrompere i rifornimenti di armi ai ribelli da parte di forze sunnite libanesi. Riprendevano intanto gli scontri nel campo profughi palestinesi di Yarmuk, a sud di Damasco, dopo alcune settimane di tregua.
Il 16 marzo l’offensiva ai confini con il Libano culminava con la presa, da parte delle forze lealiste siriane, di Yabrud, nodo strategico per i collegamenti con il Libano orientale. Tra il 19 e il 20 marzo le forze governative si assicuravano il controllo di due località più a nord, ovvero la cittadina di al-Hosn e il castello crociato di Krak des Chevaliers, essenziali per il controllo dell’autostrada che collega Homs alla Siria costiera.
Tuttavia le forze ribelli si dimostravano tutt’altro che demoralizzate, poiché già il 21 marzo spostavano i loro attacchi nella zona settentrionale della provincia costiera di Latakia, vera roccaforte del regime alawita di Assad: il punto dell’attacco, mirante a impadronirsi del valico strategico di Kasab, si trova vicino al confine turco. In questo contesto è avvenuto il 23 marzo l’abbattimento di un jet siriano da parte turca (v. infra), che ha riacceso pericolosamente la tensione tra i due paesi.
Dopo undici anni di grande sviluppo economico nei quali si è rafforzato il potere del partito di ispirazione islamica AKP, e soprattutto del suo leader e primo ministro Erdogan, in concomitanza con preoccupanti segnali di un'incipiente crisi economica anche il sistema politico turco è scosso da gravi convulsioni. Vanno infatti ricordati il movimento di contestazione della metà del 2013, sorto per contrastare progetti di parziale riconversione del Gezi Park di Istanbul, e sviluppatosi nella vicina piazza Taksim, ma, soprattutto, a partire dal 17 dicembre, la cosiddetta Tangentopoli turca, iniziata in quella data con l'arresto per corruzione di oltre cinquanta personalità vicine al partito AKP – e tra esse dei figli di tre ministri in carica.
La reazione di Erdogan è stata drastica, con la rimozione progressiva di migliaia di dirigenti e funzionari delle forze di polizia, nonché di ben 200 magistrati. Denunciando inoltre un complotto ai danni dello Stato guidato dai suoi ex alleati appartenenti alla Confraternita islamica di Fetullah Gulen, Erdogan ha inoltre presentato in Parlamento un disegno di legge mirante a sottoporre gli organi di governo della magistratura al controllo dell'esecutivo.
Da parte degli Stati Uniti e dell’Unione europea si sono levate più volte voci di allarme sulle iniziative amministrative e legislative delle autorità turche: il 21 gennaio Erdogan si è recato dopo cinque anni a Bruxelles, ove ha cercato di tener testa a numerose critiche in relazione agli sviluppi interni turchi, soprattutto per non vanificare l’incoraggiante ripresa delle relazioni che, alla fine del 2013, aveva visto il riavvio del negoziato per l’adesione della Turchia alla UE - contestualmente alla firma di un accordo per la riammissione dei cittadini turchi illegalmente presenti in Europa, cui faceva da ‘pendant’ la liberalizzazione dei visti per l’area Schengen nei confronti della Turchia.
Alla fine di gennaio 2014 il deprezzamento della lira turca nei confronti del dollaro e dell’euro era giunto al 30 per cento negli ultimi otto mesi, con sempre maggiori timori di recessione in caso di fuga del capitale straniero.
Dal 28 al 31 gennaio il capo dello Stato turco Abdullah Gul si è recato in visita ufficiale in Italia: la figura di Gul sembra incarnare il volto più moderato dell’AKP, e sembra porsi in crescente alternativa a Erdogan, cui potrebbe “soffiare” la candidatura alle presidenziali dell’agosto 2014 se l’onda montante degli scandali dovesse provocare la sconfitta dell’AKP nelle importanti elezioni amministrative del 30 marzo 2014, soprattutto per quanto riguarda la carica di sindaco di Istanbul.
In febbraio riprendeva l’iniziativa Erdogan, stavolta facendo approvare in Parlamento una legge per il controllo della Rete Internet, in base alla quale il presidente dell’Autorità per le telecomunicazioni – di nomina governativa – può procedere nel termine di appena quattro ore alla chiusura di pagine o di interi siti web, avendo inoltre facoltà di conservare per due anni i dati di navigazione degli utenti.
Va ricordato che le leggi già vigenti in Turchia pongono il paese ai primi posti nel mondo per il controllo della Rete, e che un numero elevatissimo di giornalisti turchi si trova in stato di detenzione. Il nuovo fronte repressivo risulta strettamente collegato alle precedenti iniziative contro polizia e magistratura, in quanto sulla Rete proliferano prove e intercettazioni fornite con ogni probabilità dagli stessi magistrati il cui lavoro è stato di fatto impedito dal governo. Ciò emergeva con particolare chiarezza il 9 febbraio, quando la Rete diffondeva intercettazioni di telefonate dirette del premier a responsabili di televisioni e giornali, nelle quali Erdogan impartisce veri e propri ordini in relazione a informazioni o giornalisti.
Alla luce di questi problemi non è sfuggito agli osservatori un tentativo di riavvicinamento di Erdogan ai militari, i cui quadri superiori (anche in pensione) erano stati colpiti negli anni precedenti da gravissime accuse di cospirazione contro lo Stato e incarcerati a centinaia per disinnescare il loro storico interventismo nella politica turca a difesa dei valori laici e kemalisti: a loro è stata offerta la possibilità di una revisione dei processi. Erdogan sembra così intenzionato a controbilanciare la propria caduta di credito nelle file della polizia e della magistratura, appoggiandosi ad un pilastro sicuramente più forte, ma non facilmente assoggettabile alla politica islamista dell’AKP. Cionondimeno, Erdogan non intende neanche su questo punto cedere alla piazza, come dimostrano gli scontri di Ankara del 13 febbraio, quando la polizia ha represso una manifestazione che reclamava la liberazione degli ufficiali condannati quali cospiratori.
Mentre le inchieste sulla corruzione, seppure fortemente ostacolate, proseguivano, e l’11 febbraio veniva ascoltato dai magistrati di Istanbul uno dei figli di Erdogan, Bilal; il premier dava nuovo impulso all’esame parlamentare del disegno di legge sulla giustizia, oggetto di forte contestazione da parte delle opposizioni: il 15 febbraio il Parlamento, dominato dall’AKP, approvava il provvedimento, frammezzo a una rissa che provocava il ferimento (non grave) di un deputato socialdemocratico. Il capo del principale partito di opposizione, Kemal Kilicdaroglu, preannunciava il ricorso immediato alla Corte costituzionale, dandovi seguito effettivamente il 26 febbraio, dopo la promulgazione delle legge.
Il 19 febbraio il presidente turco Gul promulgava la legge sul controllo di Internet, rimasta sospesa per i profili di problematicità riconosciuti dallo stesso Gul, che tuttavia riteneva di farla passare dopo rassicurazioni del premier su prossimi emendamenti da apportare alla legge, per dare nei provvedimenti di oscuramento un ruolo adeguato al giudizio della magistratura. Anche in questo caso, però, le opposizioni preannunciavano il ricorso alla Corte costituzionale.
Nonostante tutte le azioni di contrasto messe in atto dal governo, il 25 febbraio esplodeva lo scandalo di conversazioni dirette del 17 dicembre 2013 tra Erdogan e il figlio Bilal, diffuse dalla Rete Internet, nelle quali il premier discute con il figlio di come occultare ingenti somme di denaro: Erdogan ribatteva trattarsi di una montatura, ottenuta con artifici tecnici, mentre le opposizioni asserivano la veridicità delle conversazioni e richiedevano con forza le dimissioni del primo ministro. Nei giorni seguenti migliaia di persone scendevano in piazza in varie città turche per chiedere le dimissioni di Erdogan, sempre più in difficoltà nella prospettiva delle elezioni locali del 30 marzo.
L'11 marzo il clima politico turco, già estremamente teso, si aggravava in seguito alla morte del quindicenne Berkin Elvan, in coma da nove mesi dopo essere stato ferito durante una delle manifestazioni per il Gezi Park del mese di giugno del 2013, e perciò divenuto uno dei simboli del movimento di contestazione dei giovani a Erdogan. La notizia provocava l'immediata mobilitazione in tutto il paese sia in segno di lutto che di protesta: in particolare vi sono stati violenti scontri nel cuore di Ankara e attorno alla piazza Taksim di Istanbul. Con la morte di Berkin sono salite a sette le vittime della dura repressione del movimento di Gezi Park. Il giorno successivo, quando si sono svolti i funerali del quindicenne, si sono ripetuti scontri in diverse città, con decine di feriti e centinaia di arresti.
La mobilitazione è proseguita nei giorni successivi fino a contare il 14 marzo circa due milioni di persone in piazza in tutta la Turchia. Per tutta risposta Erdogan, che non aveva rilasciato dichiarazioni per tre giorni, in un comizio tenuto a Gaziantep accusava Berkin di aver fatto parte di un gruppo terroristico, e di aver attaccato la polizia in occasione degli incidenti che hanno poi condotto alla sua morte. Di fronte a questa presa di posizione del premier, le opposizioni invitavano alla calma, subodorando un probabile tentativo di provocazione in vista delle elezioni amministrative del 30 marzo, per le quali si preannuncia una battuta d'arresto del partito al governo guidato da Erdogan.
Il premier turco intanto accentuava le polemiche e le minacce contro i social network e, due settimane dopo aver minacciato la chiusura di Facebook e Youtube, annunciava di voler presto sradicare Twitter dalla Turchia – va ricordato che Erdogan aveva definito i social network una minaccia per la società già durante le settimane di rivolta per il Gezi Park nel 2013. Erdogan dava corso alle minacce nella notte tra 20 e 21 marzo, ordinando il blocco di Twitter: la decisione ha provocato proteste e condanna in Turchia e a livello internazionale. Il presidente Gul si è dissociato da Erdogan proprio con un messaggio su Twitter, dichiarando di non poter approvare la chiusura totale dei social network. Il primo partito di opposizione ha denunciato penalmente il premier per violazione dei diritti costituzionali dei cittadini. A livello internazionale la mossa di Erdogan è stata aspramente criticata, e vista come segno di disperazione del premier turco, al centro di numerosi scandali per corruzione e di voci sempre più imbarazzanti anche sul piano della privacy, ampiamente diffusi dai social network.
Peraltro la pervasività delle Rete si rivelava in tutta la sua forza, tanto che la messaggistica via Twitter paradossalmente aumentava di intensità dopo la mossa repressiva del governo.
Il 23 marzo si è riaccesa la questione dei difficili rapporti con la Siria, dopo l’abbattimento di un velivolo militare di Damasco da parte della difesa aerea turca: secondo Ankara due jet siriani avevano sconfinato, e quello abbattuto si era rifiutato di uscire dallo spazio aereo turco nonostante ripetuti ordini in tal senso. L’episodio si inserisce ancora una volta nel contesto dell’appoggio che la Turchia, secondo la Siria, fornirebbe in tutti i modi ai ribelli che combattono contro il regime di Assad, e che erano impegnati proprio in quelle ore in una battaglia per il controllo di un valico alla frontiera tra i due paesi – il jet siriano sarebbe stato colpito, secondo Damasco, proprio mentre attaccava le loro postazioni in territorio siriano. Va rilevato come una possibile diversione avventuristica di Erdogan verso la Siria era stata prospettata tre giorni prima dal capo dell’opposizione turca Kilicdaroglu, come tentativo del premier turco di sfuggire alla morsa di contestazioni che ormai lo avvolge.
Così lo scenario in preparazione delle elezioni amministrative del 30 marzo vede una crescente tensione con la Siria, tentativi di repressione sui mezzi di comunicazione e il timore sempre crescente di brogli ai seggi.
Il 5 marzo è venuto al pettine il nodo dei grandi contrasti, all'interno delle monarchie del Golfo Persico, tra l'attività del Qatar e le posizioni dell'Arabia Saudita, degli Emirati Arabi Uniti e del Bahrein, che hanno annunciato di ritirare i propri ambasciatori da Doha. Infatti il Qatar, oltre a sostenere costantemente in ogni situazione la Fratellanza musulmana, assolutamente invisa alle altre monarchie del Golfo, si sarebbe ingerito anche negli affari interni dei paesi vicini, sia finanziando cellule non gradite sul loro territorio, sia mediante l’influente emittente televisiva al-Jazira, sia infine ospitando le veementi invettive del predicatore al-Qaradawi.
È emerso così con grande chiarezza il conflitto all'interno dello stesso Islam sunnita, già percettibile in relazione alla tragica situazione della Siria: qui infatti, se il Qatar e l’Arabia Saudita sono concordi nell'appoggiare la lotta contro il regime di Assad, Doha non ha tuttavia mancato di sostenere costantemente il Consiglio nazionale siriano, controllato proprio dai Fratelli musulmani. Che sia questo il nervo scoperto delle relazioni tra le monarchie del Golfo è emerso ancor più chiaramente il 7 marzo, quando l'Arabia Saudita ha messo al bando la Fratellanza musulmana alla stregua di movimento terroristico. La lotta contro il jihadismo è giunta ad includere nella messa al bando anche due gruppi della rete di al-Qaida che operano nello scenario siriano, e, coerentemente con un decreto del mese di febbraio, a intimare a tutti i cittadini sauditi impegnati in conflitti all'estero - leggasi in Siria -l'immediato ritorno in patria, ove rischiano una pena compresa fra tre e venti anni di carcere.
Lo scenario nel quale è più chiaramente ravvisabile il contrasto tra Qatar e Arabia Saudita è quello egiziano, nel quale a Riad non è parso vero di poter assicurare un forte sostegno anche finanziario alla restaurazione del potere militare, capace di allontanare la contestazione pericolosa dei movimenti della Primavera Araba e della Fratellanza musulmana. In Siria invece questo tipo di preoccupazioni sono in parte superate dal forte legame di Assad con l'Iran, che per l'Arabia Saudita costituisce senz'altro la principale preoccupazione geopolitica.
L’art. 42, paragrafo 1 del Trattato sull’Unione europea (TUE) stabilisce che la politica di sicurezza e di difesa comune (PSDC) costituisce parte integrante della politica estera e di sicurezza comune (PESC). La PSDC assicura che l'Unione disponga di una capacità operativa ricorrendo a mezzi civili e militari dei quali si può avvalere in missioni al suo esterno per garantire il mantenimento della pace, la prevenzione dei conflitti e il rafforzamento della sicurezza internazionale, conformemente ai principi della Carta delle Nazioni Unite. L'esecuzione di tali compiti si basa sulle capacità fornite dagli Stati membri.
L’art. 42, paragrafo 4 del TUE prevede che decisioni relative alla politica di sicurezza e di difesa comune, comprese quelle inerenti all'avvio di una missione sono adottate dal Consiglio all'unanimità su proposta dell'alto rappresentante dell'Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza o su iniziativa di uno Stato membro. L'alto rappresentante può proporre il ricorso sia ai mezzi nazionali sia agli strumenti dell'Unione, se del caso congiuntamente alla Commissione.
Ai sensi degli artt. 42, paragrafo 5, e 44 del TUE, il Consiglio può affidare la realizzazione di una missione a un gruppo di Stati membri che lo desiderano e dispongono delle capacità necessarie. Tali Stati membri, in associazione con l'alto rappresentante, si accordano sulla gestione della missione.
L’articolo 43, paragrafo 1 del TUE disciplina la tipologia delle missioni con mezzi civili e militari in ambito PSDC, prevedendo che esse possano intraprendere:
· azioni congiunte in materia di disarmo;
· missioni umanitarie e di soccorso;
· missioni di consulenza e assistenza in materia militare;
· missioni di prevenzione dei conflitti e di mantenimento della pace;
· missioni di unità di combattimento per la gestione delle crisi, comprese le missioni tese al ristabilimento della pace e le operazioni di stabilizzazione al termine dei conflitti.
Si prevede, inoltre, che tutte le sopra indicate missioni possano contribuire alla lotta contro il terrorismo, anche tramite il sostegno a paesi terzi.
Si ricorda che le missioni umanitarie e di soccorso, di mantenimento della pace, di unità di combattimento nella gestione di crisi, comprese le missioni tese al ristabilimento della pace rientravano tra le cosiddette missioni di Petersberg, che il Trattato di Lisbona, entrato in vigore nel 2009, ha integrato con ulteriori compiti relativi alle missioni di disarmo, di consulenza ed assistenza in materia militare, di stabilizzazione al termine dei conflitti.
L’articolo 43, paragrafo 2 del TUE prevede che il Consiglio adotti le decisioni relative alle missioni stabilendone l'obiettivo, la portata e le modalità generali di realizzazione.
Il coordinamento degli aspetti civili e militari delle missioni è esercitato dall'Alto rappresentante dell'Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza, sotto l'autorità del Consiglio e in stretto e costante contatto con il Comitato politico e di sicurezza.
L’art. 42, paragrafo 3 del TUE prevede che gli Stati membri che hanno costituito fra loro forze multinazionali possono metterle a disposizione della politica di sicurezza e di difesa comune.
L’art. 41 del TUE stabilisce i principi per il finanziamento delle missioni civili e militari dell’UE, prevedendo che i costi per le missioni civili siano a carico del Bilancio dell’UE, mentre non lo sono i costi per le missioni militari, a meno che il Consiglio non decida altrimenti all’unanimità.
L’art. 41, paragrafo 3 del TUE prevede, inoltre, la possibilità di creare uno start up fund per le missioni PSDC urgenti basato su contributi degli Stati membri, al fine di rendere più veloce ed efficace il finanziamento, e quindi la pianificazione di missioni di reazione rapida.
L’art. 42, paragrafo 6 del TUE prevede che gli Stati membri che rispondono a criteri più elevati in termini di capacità militari e che hanno sottoscritto impegni più vincolanti in materia ai fini delle missioni più impegnative possano instaurare una cooperazione strutturata permanente nell'ambito dell'Unione ai sensi dell’art. 46 del TUE.
Esso prevede che, con decisione del Consiglio a maggioranza qualificata, possa essere creata una cooperazione strutturata permanente in materia di difesa tra gli Stati membri che hanno volontà politica di aderirvi e che sottoscrivono gli impegni in materia di capacità militare specificati nel Protocollo n. 10, allegato ai Trattati, relativo alla cooperazione strutturata permanente. Gli Stati membri intenzionati a partecipare alla cooperazione strutturata notificano la loro intenzione al Consiglio e all’Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza. Entro tre mesi dalla notificazione il Consiglio adotta una decisione che istituisce la cooperazione strutturata permanente e fissa l'elenco degli Stati membri partecipanti. Il Consiglio delibera a maggioranza qualificata previa consultazione dell’Alto rappresentante.
Il Protocollo n. 10, allegato ai Trattati, relativo alla cooperazione strutturata permanente prevede, agli artt. 1 e 2, che essa sia aperta ad ogni Stato membro che si impegni, in particolare, a:
· procedere più intensamente allo sviluppo delle sue capacità di difesa;
· fornire, sia a titolo nazionale, sia come componente di gruppi multinazionali di forze, unità di combattimento capaci di intraprendere missioni previste entro un termine da 5 a 30 giorni, per rispondere alle richieste dell’ONU e sostenerle per un periodo iniziale di 30 giorni, prorogabile di 120 giorni;
· riesaminare regolarmente gli obiettivi relativi al livello delle spese di investimento per equipaggiamenti di difesa, alla luce della situazione internazionale e delle responsabilità dell’Unione;
· ravvicinare, nella misura del possibile, gli strumenti di difesa e prendere misure per rafforzare la disponibilità, interoperabilità, flessibilità e dispiegamento delle forze;
· cooperare per assicurare l’adozione delle misure necessarie per colmare le lacune che siano state constatate nel quadro del meccanismo di sviluppo delle capacità;
· partecipare allo sviluppo di programmi comuni o europei nel quadro delle attività promosse dall’Agenzia europea per la difesa.
Lo sviluppo delle capacità militari dell’Unione europea è un processo avviato a partire dalle conclusioni del Consiglio europeo di Colonia del giugno 1999 secondo cui “l'Unione deve avere la capacità di condurre azioni in modo autonomo, potendo contare su forze militari credibili, sui mezzi per decidere di farle intervenire e sulla disponibilità a farlo, al fine di rispondere alle crisi internazionali lasciando impregiudicate le azioni della NATO".
Su tali basi, il Consiglio europeo di Helsinki del dicembre 1999 aveva fissato l'obiettivo primario dal punto di vista operativo (cosiddetto “Helsinky Headline Goal”), da raggiungere entro il 2003: gli Stati membri si sarebbero dovuti dotare, grazie ad una cooperazione volontaria alle operazioni dirette dall'UE, della capacità di schierare nell'arco di 60 giorni e mantenere per almeno un anno forze militari complessive fino a un massimo di 50.000-60.000 uomini, da impiegare in missioni umanitarie e di mantenimento e ristabilimento della pace.
Nel 2004 è stato fissato il nuovo obiettivo globale di capacità militari (Headline Goal 2010), mirante a coprire l’intero spettro delle possibili missioni di gestione di crisi UE, sulla base di un approccio a tappe, fra le quali:
· l’avvenuta creazione dell’Agenzia Europea per la difesa;
· la già compiuta realizzazione dei Gruppi tattici (vedi oltre);
· la progressiva integrazione degli assetti di trasporto aereo strategico;
· o sviluppo di nuove capacità di trasporto marittimo;
· lo sviluppo di un sistema di comunicazioni integrato;
· l’incremento quantitativo e qualitativo delle forze armate nazionali e lo sviluppo di adeguate sinergie tra loro.
Il Consiglio europeo del dicembre 2008 ha poi fissato alcuni obiettivi per rafforzare le capacità europee e in particolare il dispiegamento di 60.000 uomini in 60 giorni per un'operazione importante e la capacità di pianificare e condurre simultaneamente:
· due importanti operazioni di stabilizzazione e ricostruzione, con un'adeguata componente civile sostenuta da un massimo di 10.000 uomini per almeno due anni;
· due operazioni di reazione rapida di durata limitata utilizzando segnatamente i gruppi tattici dell'UE;
· un'operazione di evacuazione d'emergenza di cittadini europei (in meno di 10 giorni), tenendo conto del ruolo primario di ciascuno Stato membro nei confronti dei suoi cittadini e ricorrendo al concetto di Stato guida consolare; una missione di sorveglianza/interdizione marittima o aerea;
· un'operazione civile-militare di assistenza umanitaria della durata massima di 90 giorni;
· una dozzina di missioni civili PSDC (segnatamente, missioni di polizia, di Stato di diritto, di amministrazione civile, di protezione civile, di riforma del settore della sicurezza o di vigilanza) in forme diverse, incluso in situazione di reazione rapida, tra cui una missione importante (eventualmente fino a 3000 esperti) che potrebbe durare vari anni.
Il Consiglio dell’UE ha adottato il 25 novembre 2013 delle conclusioni sulla politica di sicurezza e difesa comune nelle quali, per quanto riguarda in particolare la capacità di risposta rapida dell’UE, evidenzia che:
· allarme rapido, pianificazione preventiva, prevenzione dei conflitti, strategie di sicurezza regionali e pianificazione ed esecuzione della gestione delle crisi dovrebbero essere più strettamente connessi, al fine di potenziare la capacità dell’UE di pianificare e spiegare con rapidità ed efficacia i mezzi civili e militari;
· è necessario migliorare le capacità di risposta militare rapida dell'UE, compresi i gruppi tattici dell'UE, attraverso:
- il miglioramento dell'utilizzabilità operativa/schierabilità dei Gruppi tattici dell'UE potenziandone la modularità, mantenendone le capacità essenziali, al fine di accrescerne l'adattabilità all'intera gamma di possibili crisi e compiti di gestione delle crisi;
- la prosecuzione dell'approccio concordato sulla nazione quadro per completare in modo sistematico il registro dei Gruppi tattici dell'UE;
- il miglioramento del ruolo dei gruppi tattici dell'UE attraverso proposte volte a potenziare e snellire le esercitazioni che coinvolgono i gruppi tattici dell'UE e a migliorare il processo di certificazione;
- il coinvolgimento più strutturato dei gruppi tattici dell'UE nella pianificazione preventiva;
- il ricorso regolare a consultazioni ed esercitazioni a livello politico da parte dei partecipanti a un gruppo tattico dell'UE per consentire l'avvio di un dialogo politico e un processo decisionale più rapido;
- il mantenimento di stretti contatti con la NATO per elaborare proposte di sinergie tra l'UE e la NATO in materia di risposta rapida nei settori in cui le esigenze si sovrappongono, adottare migliori prassi ed evitare inutili duplicazioni;
- la decisione di riconsiderare gli aspetti finanziari in previsione del riesame del meccanismo Athena;
- il ricorso all'articolo 44 del TUE, relativo alla possibilità di affidare la realizzazione di una missione a un gruppo di Stati membri.
Il Consiglio europeo del 19-20 dicembre 2013 per quanto riguarda in particolare lo spiegamento delle missioni dell’UE in ambito PSDC, ha ribadito l’invito a migliorare la capacità di capacità di risposta rapida dell’UE attraverso una maggiore flessibilità e schierabilità dei Gruppi tattici (Battlegroups) dell’EU; a rivedere il meccanismo Athena per il finanziamento delle missioni; a prevedere procedure più flessibili per accelerare lo schieramento di missioni civili dell’UE.
L’istituzione dei Gruppi tattici (battlegroups) è volto a dotare l’UE di contingenti militari di reazione rapida. I gruppi tattici sono forze nazionali o multinazionali composte da circa 1.500 uomini dispiegabili entro 10 giorni dalla decisione politica e sostenibili fino a 120 giorni. Sono componenti della Forza di reazione rapida Ue completi di elementi di supporto tattico e logistico (in particolare gli Operational Headquarters - Comandi operativi – sono quelli messi a disposizione da una delle “nazioni-quadro” e il loro comando è in capo alla nazione leader del gruppo tattico di riferimento).
I Gruppi tattici possono essere composti da forze di una “Nazione quadro” o da una coalizione multinazionali di Stati membri.
I Gruppi tattici possono essere impiegati in operazioni di intervento rapido e a supporto iniziale del dispiegamento di altre missioni. I primi tre gruppi tattici sono stati forniti su base nazionale da Francia, Italia e Regno Unito nel 2005.
A partire dal 2007 il meccanismo ha raggiunto la piena capacità operativa, ovvero la disponibilità di due gruppi tattici a semestre, che permette la condotta simultanea di due interventi.
Sulla base di una conferenza semestrale di coordinamento dei Gruppi tattici svolta dallo Stato maggiore dell’UE e delle offerte da parte dei singoli Stati membri, viene redatto uno schema di rotazione della partecipazione degli Stati membri ai 2 gruppi tattici per ciascun semestre, con un orizzonte temporale di 6 anni, diviso in tre differenti livelli di impegno, ciascuno di 2 anni, a seconda dell’approssimarsi della scadenza dell’effettiva operatività del gruppo tattico.
Lo Stato maggiore dell'Unione europea (EUMS) istituito a Bruxelles nel 2002 è responsabile della direzione delle missioni dell’UE in ambito PESD. Dipende direttamente dall'Alto rappresentante dell'Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza ed è formato da circa 200 dipendenti tra civili e militari.
Ad oggi, i gruppi tattici non sono mai stati utilizzati.
In vista della Conferenza per il controllo parlamentare sulla PESC/PSCD di Atene del 3 e 4 aprile prossimi, il Presidente della Commissione Affari esteri della Tweede Kamer, Agelien Eijsink, capo della delegazione del Parlamento olandese alla prossima Conferenza, ha fatto circolare una contributo sul tema della dispiegamento dei gruppi tattici dell’UE.
Il contributo evidenzia tre ordini di motivi per il quali i Gruppi tattici dell’UE non sono ancora stati utilizzati:
· mancanza di una chiara volontà politica a livello europeo, differenti strategie nazionali in tema di politica di sicurezza e difesa e requisito dell’unanimità in seno al Consiglio dell’UE per lanciare una missione in ambito PSDC;
· procedure decisionali nazionali divergenti per il dispiegamento di forze militari. In alcuni Stati membri l’impiego di forze in missioni militari dell’UE può essere deciso senza il coinvolgimento del rispettivo Parlamento, che invece in altri Stati membri è obbligatorio;
· costi finanziari per l’impiego dei Gruppi tattici che ricadono per la maggior parte direttamente sui singoli Stati membri partecipanti.
Nel contributo del Parlamento olandese si propone che in occasione della prossima Conferenza per il controllo parlamentare sulla PESC/PSDC si affrontino le seguenti questioni:
· in che modo e in quale misura le procedure e le prassi nazionali differiscono?
· che conseguenze possono avere queste differenze a livello nazionale e a livello europeo?
· come adeguare le procedure nazionali per facilitare il rapido dispiegamento dei Gruppi tattici dell’UE?
· il sistema di finanziamento in ambito NATO è un buon esempio per l'UE?
· fino a che punto è politicamente fattibile mettere in comune i costi operativi dei gruppi tattici dell'UE?
· in quale misura gli Stati membri partecipano allo stesso Gruppo tattico dovrebbero uniformare le rispettive procedure decisionali nazionali?
· come tener conto delle diverse procedure decisionali nazionali nello schema pluriannuale di rotazione degli Stati membri nella partecipazione ai gruppi tattici?
Come previsto dall’art. 42, paragrafo 3 del TUE, nell’ambito delle missioni PSDC l’Unione europea può essere affiancata e supportata da una serie di forze multinazionali nate da iniziative intergovernative di alcuni Stati membri.
Pur rimanendo esterne alla struttura dell’Unione, tali forze multinazionali vengono messe a disposizione dagli Stati partecipanti per rispondere alle necessità operative dell’UE. L’utilizzo di queste forze non è esclusivamente legato a missioni in ambito PSDC, ma può riguardare anche esigenze operative di altre Organizzazioni Internazionali quali l’Onu, la Nato e l’Osce.
Le principali «Euroforze» sono: l'Eurofor che raggruppa le forze terrestri tra Spagna, Francia, Italia e Portogallo; l'Eurocorps che raggruppa le forze terrestri di Germania, Belgio, Spagna, Francia e Lussemburgo; l'Euromarfor che raggruppa le forze marittime tra Spagna, Francia, Italia e Portogallo; Eurogendfor (Gendarmeria europea) che riunisce forze di polizia ad ordinamento militare di Francia, Italia, Paesi Bassi, Portogallo, Spagna e Romania); il Gruppo aereo europeo che raggruppa le forze aeree tra Germania, Belgio, Spagna, Francia, Italia, Paesi Bassi e Regno Unito.
L’art. 41 del TUE prevede che le spese:
· amministrative in ambito PESC siano a carico del Bilancio dell’UE;
· operative siano anch’esse a carico del Bilancio dell’UE, ad eccezione di quelle derivanti da operazioni nel settore militare o della difesa (a meno che il Consiglio non decida altrimenti all’unanimità) che sono a carico degli Stati membri secondo un criterio di ripartizione basato sul prodotto nazionale lordo (a meno che il Consiglio, deliberando all'unanimità, non stabilisca altrimenti).
Da ciò deriva che le spese operative per le missioni civili rientrano tra quelle a carico del bilancio dell’UE.
Per le missioni UE nel settore militare o della difesa si applica dunque la regola per cui i costi sono sostenuti direttamente dagli Stati membri (“Costs lie where they fall”).
Per alcuni dei costi relativi ad operazioni militari è stato predisposto fin dal 2004 un meccanismo denominato “meccanismo Athena”, concepito per amministrare, sulla base di contributi degli Stati membri in proporzione dei rispettivi PIL nazionali, il finanziamento di una serie di spese definite come comuni dalla decisione istitutiva del meccanismo Athena (l’elenco dei costi comuni a carico di Athena è ampliabile dal Consiglio o se richiesto dal Comandante dell’operazione e dal Comitato speciale che gestisce il meccanismo Athena, composto da rappresentanti degli Stati membri).
In pratica solo una parte molto limitata delle spese relative alle operazioni militari di gestione crisi è messa in comune (stimata tra il 10 ed il 20% a seconda della natura dell’operazione).
Al meccanismo Athena partecipano tutti gli Stati membri ad eccezione della Danimarca, che ha un opt-out sulla PSDC. L’Italia contribuisce al meccanismo Athena, secondo un criterio di ripartizione basato sul prodotto nazionale lordo, per 12,10%.
Il meccanismo Athena, attualmente finanza i costi comuni per le seguenti missioni:
· EUFOR-Althea (Bosnia-Erzegovina): 14.6 milioni di euro per il 2014;
· Eunavfor-Atalanta (costa somala): 7 milioni di euro per il 2014;
· EUTM Somalia: 7,3 milioni di euro per il 2014;
· EUTM Mali: 7,7 milioni di euro per il 2014.
Il processo decisionale con la quale si decide l’avvio di una missione militare dell’UE in ambito PSDC è molto complesso e può essere sintetizzato secondo le seguenti diverse fasi:
· Monitoraggio e pianificazione: organi tra cui il Comitato politico di sicurezza (Cops)[11], il Centro di situazione congiunto dell’UE e la cellula di programmazione politica e tempestivo allarme[12] conducono costantemente attività di monitoraggio, pianificazione e di early-warning;
· sviluppo di una crisi ed elaborazione del Concetto di gestione della crisi (CMC): nel caso di sviluppo di una crisi, il COPS valuta l’opportunità di un’azione dell’Ue e sotto la sua direzione viene formulato un CMC nel quale vengono descritti gli interessi politici e gli obiettivi dell’Unione ed individuate le opzioni strategiche più rilevanti per rispondere ed uscire dalla crisi;
· approvazione del CMC e sviluppo delle opzioni strategiche: il CMC, elaborato dal COPS viene approvato dal Consiglio Affari generali dell’UE. Successivamente il COPS sottopone il CMC al Comitato Militare dell’UE[13] per lo sviluppo delle opzioni strategiche militari, che sono poi trasmesse al Consiglio affari generali dell’UE;
· decisione istitutiva di una missione: Il Consiglio affari generali dell’UE adotta una decisione che istituisce una operazione in ambito PESD, nella quale sono indicati il mandato, le disposizioni finanziarie, gli obiettivi e la durata dell’operazione. La decisione provvede, altresì, a nominare il Comandante dell’Operazione;
· avvio della missione: il Comandante dell’operazione, sulla base dell’opzioni strategiche militari precedentemente elaborate dal Comitato militare dell’UE, provvede all’elaborazione del Concetto Operativo (CONOPS) e del Piano di esecuzione dell’operazione (OPLAN) che sono poi sottoposti al COPS per l’approvazione. Su tale base il Consiglio affari generali adottala decisione formale dell’avvio concreto dell’operazione, necessaria per lo spiegamento delle forze.
· controllo e direzione dell’operazione: il COPS, sotto la responsabilità del Consiglio, esercita il controllo politico e la direzione strategica dell’operazione.
Nel settore della gestione delle crisi sono attualmente operative, nell’ambito della PSDC, le seguenti missioni:
· la missione in Bosnia-Erzegovina (EUFOR-Althea), istituita dal Consiglio il 12 luglio 2004 - rimpiazzando la missione SFOR della NATO - ha contribuito al mantenimento della sicurezza in Bosnia e Erzegovina. EUFOR ha dislocato una forza militare analoga a quella della SFOR – pari a 7.000 truppe – per assicurare il persistente rispetto degli accordi di Dayton. Rilevando che la situazione in Bosnia-Erzegovina, sotto il profilo della sicurezza, si è positivamente evoluta, l’Unione europea ha provveduto a successive riconfigurazioni della missione, riducendo le dimensioni del contingente EUFOR alle attuali 600 unità circa. Obiettivi attuali della missione sono: sostegno agli sforzi di Bosnia ed Erzegovina a garantire un ambiente sicuro; formazione e capacity-building per ministero della difesa e forze armate;
· la missione navale EUNAVFOR-Atalanta, istituita dal Consiglio il 10 novembre 2008 per contrastare le azioni di pirateria al largo della costa somala, a sostegno delle risoluzioni 1814 (2008), 1816 (2008) e 1838 (2008) del Consiglio di sicurezza. La missione è chiamata a proteggere le navi noleggiate dal Programma alimentare mondiale - anche con la presenza di elementi armati di Atalanta a bordo delle navi interessate - in particolare quando incrociano nelle acque territoriali della Somalia - nonché le navi mercantili sulla base di una valutazione di necessità effettuata caso per caso. Il Consiglio dell’8 dicembre 2009 ha esteso il mandato della missione per consentire alla forza navale dell’UE di contribuire al monitoraggio delle attività di pesca nell’area. Il mandato della missione scade il 31 dicembre 2014;
· la missione militare dell'Unione europea in Somalia (EUTM Somalia), volta a contribuire alla formazione delle forze di sicurezza somale. La missione è stata istituita il 31 marzo 2010 dal Consiglio con l’obiettivo generale di contribuire al rafforzamento del Governo federale di transizione e di favorire lo sviluppo sostenibile del settore di sicurezza somalo. La missione ha sede in Uganda - dove le forze somale vengono già addestrate - anche per facilitare il coordinamento delle azioni UE con la missione dell’Unione Africana in Somalia (AMISOM). La missione è condotta in stretto coordinamento con gli altri partner, inclusi il Governo di transizione somalo, l’Uganda, le Nazioni Unite e gli USA. Il 22 gennaio 2013 il Consiglio ha prorogato la missione fino a marzo 2015 e esteso il mandato anche alla fornitura di consulenza strategica e politica alle autorità somale nel settore della difesa;
· la missione militare di formazione (EUTM Mali), istituita dal Consiglio il 18 febbraio 2013, su richiesta del Mali e in linea con le risoluzioni del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. L’obiettivo è fornire nel sud del Mali formazione e consulenza militare alle forze armate maliane (FAM) che operano sotto il controllo delle legittime autorità civili, per consentire loro di condurre operazioni militari volte a ripristinare l’integrità territoriale maliana e ridurre la minaccia rappresentata dai gruppi terroristici. La missione, costituta da circa 500 unità e con un mandato iniziale di 15 mesi, rientra nell’ambito dell’approccio globale dell’UE alle crisi nella regione del Sahel. Nel marzo 2011, l’UE ha inaugurato infatti una strategia per la sicurezza e lo sviluppo del Sahel, basata sull’assunto che sviluppo e sicurezza sono strettamente interconnessi e che la complessa crisi del Sahel richiede una risposta regionale.
Il 10 febbraio 2014, il Consiglio ha istituito la missione militare nella Repubblica Centrafricana (EUFOR RCA) – non ancora operativa - con l’obiettivo di contribuire alla fornitura di un ambiente sicuro e protetto, con un passaggio alla missione internazionale di sostegno alla Repubblica Centrafricana sotto guida africana (AFISM-CAR) entro un temine da quattro a sei mesi dalla piena capacità operativa conformemente al mandato definito nella risoluzione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite 2134 (2014) e concentrando la sua azione nella zona di Bangui.
· la missione EULEX Kosovo sullo stato di diritto e sul sistema giudiziario;
· la missione di controllo della frontiera EU BAM Moldavia e Ucraina (in particolare nella regione della Transnistria);
· la missione di polizia per i territori palestinesi (Eupol Copps);
· la missione di controllo di frontiera al valico di Rafah, tra Gaza e l’Egitto (EU BAM Rafah);
· le missioni a sostegno alla riforma del settore della sicurezza e della giustizia nella Repubblica democratica del Congo (EUPOL e EUSEC Congo);
· la missione di polizia EUPOL Afghanistan;
· la missione di vigilanza dell'Unione europea in Georgia (EUMM Georgia);
· la missione EUCAP SAHEL Niger (il cui obiettivo è sostenere le autorità nigerine nello sviluppo di capacità proprie di lotta alla criminalità organizzata e al terrorismo nel Sahel);
· la missione EUCAP Nestore, volta a rafforzare la capacità degli Stati della regione del Corno d’africa e dell’Oceano indiano occidentale a gestire efficacemente le loro acque territoriali;
· la missione civile EUBAM Libia, istituita il 22 maggio 2013, con gli obiettivi di fornire alle autorità libiche sostegno per sviluppare la capacità di accrescere la sicurezza delle frontiere terrestri, marine e aeree libiche a breve termine e per sviluppare una strategia più ampia di gestione integrata delle frontiere a più lungo termine. Il mandato iniziale di EUBAM Libia è per due anni, la sua sede è a Tripoli.
Il Parlamento europeo ha approvato il 12 settembre 2013 una risoluzione sullo stato attuale delle strutture militari europee e le loro prospettive future.
La risoluzione evidenzia come l’Unione soffra di un’insufficiente capacità di reagire alle crisi internazionali ed esprime preoccupazione per le riduzioni dei bilanci nazionali per la difesa e per l’assenza di un effettivo coordinamento. Al tal fine il Parlamento europeo esorta gli Stati membri a invertire tale tendenza attraverso una maggiore cooperazione, messa in comune e condivisione.
Per quanto riguarda in particolare le missioni in ambito PSDC, la risoluzione in Parlamento europeo:
· chiede di istituire all’interno del Servizio per l’azione esterna (SEAE) un quartier generale permanente civile e militare – anche attraverso il ricorso ad una cooperazione strutturata permanente – e sottolinea che si deve trattare di una struttura civile-militare, responsabile della pianificazione e della conduzione sia di missioni civili che di operazioni militari dell'UE, con catene di comando civili e militari distinte;
Si ricorda al proposito che già in passato alcuni Stati membri si erano fatti portavoce di questa richiesta, l’ultima volta nel novembre 2011, quando Francia, Germania, Italia, Polonia e Spagna avevano chiesto formalmente all’Alto Rappresentante di studiare misure in grado di fornire all’UE “capacità critiche”, come appunto un quartier generale che rafforzasse le capacità di conduzione integrata dell’UE.
· chiede di rafforzare i gruppi tattici dell’UE. Si propone di avviare una riflessione su procedure semplificate per l’impiego dei gruppi tattici europei per periodi di tempo limitato e di avviare una revisione del meccanismo Athena, prevedendo un ampliamento della tipologia dei costi da considerare comuni. La risoluzione sottolinea come i gruppi tattici restino una risorsa limitata nelle dimensioni e nella sostenibilità, ben lontana dunque da uno strumento di intervento a carattere universale previsto dagli obiettivi di Helsinki del 1999 di creare una forza di 60 mila uomini dispiegabile in 60 giorni, obiettivo del tutto fuori portata dalle attuali capacità europee;
· chiede che sia valutata la possibilità di istituire un deposito permanente della PSDC (con funzioni simili all'Agenzia di supporto della NATO) che fornisca un sostegno multinazionale integrato alle strutture militari dell'UE e agli Stati membri, comprese le attrezzature essenziali per tutte le missioni, evitando onerose procedure d'appalto;
· incoraggia una qualche forma di razionalizzazione e un migliore coordinamento delle numerose iniziative di partenariato bilaterale/regionale/multilaterale finalizzate alla messa in comune delle risorse e alla promozione dell'interoperabilità, in grado di apportare contribuiti alle operazioni di coalizione UE, ONU, NATO o ad hoc;
· incoraggia gli Stati membri che lo desiderano a procedere ad un cooperazione strutturata permanente in materia di difesa europea;
Nel corso degli ultimi anni la partecipazione delle forze armate italiane a missioni militari all’estero ha assunto una considerevole importanza, sia in considerazione del notevole incremento delle operazioni che hanno visto impegnati contingenti militari italiani, sia sotto il profilo del maggior impiego di uomini e di mezzi, connesso alla più complessa articolazione degli interventi ai quali l’Italia ha partecipato.
Al riguardo, va, infatti, rilevato che nel corso degli ultimi decenni si è passati da semplici operazioni di ingerenza umanitaria, attraverso l'invio di osservatori internazionali, a missioni di mantenimento della pace (peace keeping), di formazione della pace e prevenzione dei conflitti (peace making), di costruzione della pace (peace building), fino ad arrivare a missioni di imposizione della pace (peace enforcement).
Sotto il profilo della loro durata, si tratta di operazioni di portata assai variabile in quanto si passa da missioni esauritesi nel breve lasso di tempo di qualche mese, ad altre, invece, che arrivano a coprire un notevole arco temporale, quasi ad assumere il carattere della permanenza.
Da un punto di vista normativo, nel nostro ordinamento giuridico non esiste una normativa di carattere generale riguardante le missioni internazionali con la conseguenza che tale disciplina, con particolare riferimento ai profili concernenti il trattamento economico e normativo del personale impegnato in tali missioni e i molteplici e peculiari profili amministrativi che caratterizzano le missioni stesse, sono di volta in volta regolati nell'ambito dei provvedimenti legislativi che finanziano le missioni stesse.
Da ultimo, con la legge n. 28 del 2014. si è provveduto a convertire in legge il decreto legge n. 2 del 2014, che reca la proroga della partecipazione del personale delle Forze armate e di polizia alle missioni internazionali in corso relativamente al primo semestre del 2014 (1 gennaio - 30 giugno 2014).
Per quanto riguarda, invece, l'inquadramento di queste operazioni nell'ordinamento costituzionale, la legittimità delle operazioni militari per mantenere o imporre la pace è stata finora individuata sulla base del parametro contenuto nella seconda parte dell’articolo 11 della Costituzione secondo il quale “l’Italia consente, in condizioni di parità con gli altri stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia tra le Nazioni”.
In questo contesto si colloca la legge 14 novembre 2000, n.331, successivamente confluita nel Codice dell’ordinamento militare di cui al decreto legislativo n. 66 del 2010, la quale, dopo aver ricordato che il compito delle Forze armate italiane è la difesa dello Stato, aggiunge che queste possono essere impiegate all’estero al fine della realizzazione della pace e della sicurezza, ma sempre in conformità delle regole del diritto internazionale e alle determinazioni delle organizzazioni internazionali di cui l’Italia sia membro.
Per quanto riguarda, poi, le procedure interne al nostro ordinamento in forza delle quali è possibile pervenire all’adozione della decisione riguardante il coinvolgimento delle truppe italiane nell’ambito delle missioni militari oltreconfine, va rilevato che l’assenza di una disciplina costituzionale degli stati di crisi diversi dalla guerra intesa in senso classico e di una disciplina costituzionale dell’uso della forza militare in forma circoscritta e con obiettivi limitati, come avviene nelle missioni di pace all’estero, ha posto il problema relativo all’applicabilità alle missioni internazionali del procedimento previsto dagli articoli 78 e 87 della Costituzione.
Le due disposizioni, alle quali non si è mai fatto ricorso dopo l’entrata in vigore della Costituzione, implicano una deliberazione delle Camere e il conferimento al Governo dei poteri necessari (art. 78). Spetta invece al Presidente della Repubblica, che ha il comando delle Forze armate, dichiarare lo stato di guerra deliberato dalle Camere (art. 87, 9° comma).
La questione è emersa, in particolare, nel corso dei primi anni novanta, quando successivamente allo scoppio della c.d. “guerra del Golfo”, si è verificata la crisi internazionale che ha costretto il nostro paese a misurarsi con le tematiche della legittimità costituzionale dei procedimenti di deliberazione delle decisioni connesse all’invio all’estero di contingenti militari italiani.
Peraltro, nella prassi, la conclusione del dibattito parlamentare relativo ai vari interventi militari è avvenuta generalmente mediante l’approvazione di mozioni (partecipazione italiana alla missione internazionale nel 1987 per la protezione di navi mercantili nel Golfo persico, durante il conflitto Iran-Iraq), o risoluzioni in Assemblea (invio nel 1991 di una forza multinazionale per il ristabilimento dello status quo in Kuwait dopo l’invasione irachena), o risoluzioni in Commissione (partecipazione italiana alla missione navale nel Golfo persico del 1990-91 per il controllo dell’embargo ONU e per lo sminamento del Golfo).
In altri casi il Governo è ricorso allo strumento del decreto legge, soprattutto ai fini del finanziamento delle missioni militari, ma anche in modo da sollecitare la decisione parlamentare e, nello stesso tempo, la formulazione di un indirizzo politico sull’operazione.
Va, comunque, rilevato che a partire dalla XI legislatura la gestione degli stati di crisi è stata oggetto di varie proposte di legge le quali, pur nella loro diversità, sostanzialmente miravano ad un rafforzamento del ruolo del Governo e, al suo interno, del Presidente del Consiglio e, nello stesso tempo, ad un incremento dei poteri di controllo e di garanzia del Parlamento, cui veniva riservata la definizione della politica generale della difesa, indipendentemente dal verificarsi delle varie emergenze interne ed internazionali.
In questo contesto la legge 18 febbraio 1997, n. 25, anch’essa successivamente confluita nel codice dell’ordinamento militare, si è proposta di dare una risposta, sul piano organizzativo-procedimentale, alle diverse esigenze di difesa alle quali lo Stato è tenuto a fare fronte.
A tal fine, nella citata legge al Governo sono riservate le deliberazioni in materia di sicurezza e difesa, le quali sono prima sottoposte al Consiglio supremo di difesa, poi approvate dal Parlamento ed infine attuate dal Ministro della difesa; al Ministro della difesa sono, invece, riservate le direttive nell’ambito della politica militare.
In relazione alla citata normativa occorre evidenziare che la Commissione difesa della Camera dei Deputati, con la risoluzione n. 7-1007 del 16 gennaio 2001, ha apportato ulteriori elementi di precisazione al vigente quadro normativo specificando, con riferimento all’indicato procedimento decisionale, la necessità dei seguenti quattro passaggi procedurali:
· deliberazione governativa in ordine alla partecipazione alla missione di pace all’estero e conseguente informativa alle Camere;
· approvazione parlamentare (anche da parte di una sola Camera o delle Commissioni permanenti competenti) della deliberazione governativa;
· presentazione di un disegno di legge o emanazione di un decreto-legge contenente la copertura finanziaria della missione;
· adozione delle disposizioni attuative da parte della amministrazione militare.
Per quanto concerne i lavori parlamentari in corso, si segnala che nel corso della legislatura le Commissioni riunite III Affari esteri e IV Difesa della Camera hanno avviato l’esame in sede referente di alcune proposte di legge (A.C. 45, A.C. 933 e A.C. 952) volte ad introdurre una complessiva ed organica normativa di riferimento sul trattamento economico e giuridico del personale impegnato nelle missioni, nonché a disciplinare la procedura da adottare per l’invio dei militari all’estero.
[1] A cura dell’Ufficio Rapporti con l’Unione europea della Camera dei deputati.
[2] Al Comitato ad hoc partecipano rappresentanti di tutti i Parlamenti, mentre il gruppo di lavoro è composto da un solo rappresentante per ciascuno dei Parlamenti nazionali di Cipro, Grecia, Irlanda, Italia, Lituania e del Parlamento europeo; per la delegazione del Parlamento italiano ha partecipato il Presidente della Commissione Difesa della Camera dei deputati, on. Elio Vito.
[3] A cura dell’Ufficio dei rapporti con le Istituzioni dell’Unione europea del Senato della Repubblica.
[4] A cura del Servizio Studi della Camera dei deputati.
[5] A cura dell’Ufficio Rapporti con l’Unione europea della Camera dei deputati e dell’Ufficio dei rapporti con le Istituzioni dell’Unione europea del Senato della Repubblica.
[6] Il meccanismo Athena è un dispositivo concepito per amministrare, sulla base di contributi degli Stati membri in proporzione dei rispettivi PIL nazionali, il finanziamento di una serie di spese definite come comuni nell’ambito di operazioni militari condotte nel quadro della PESC, che non sono iscritte nel bilancio dell’Unione europea (tuttavia il finanziamento di Athena copre una parte minima dei costi effettivi delle missioni, pari al massimo a circa il 10%). Il personale impiegato dall’UE nella PSDC ammonta a circa 7000 unità dislocate in 12 missioni civili (EULEX Kosovo; EU BAM Moldavia e Ucraina; EUJUST Lex in Iraq; Eupol Copps nei territori palestinesi; EU BAM Rafah, frontiera tra Gaza e l’Egitto; EUSEC Congo; EUPOL Afghanistan; EUMM Georgia; EUCAP SAHEL Niger; EUAVSEC Sud Sudan; EUCAP Nestore; EUBAM Libia) e 4 operazioni militari (EUFOR-Althea in Bosnia-Erzegovina; EUNAVFOR-Atalanta, pirateria al largo delle coste somale; EUTM Somalia; EUTM Mali;). L’Italia partecipa a tutte le operazioni militari e a quelle civili indicate in corsivo. Il 10 febbraio 2014 il Consiglio ha istituito la missione militare EUFOR RCA nella Repubblica Centrafricana, non ancora operativa.
[7] Si tratta della direttiva 2009/81/CE in materia di appalti pubblici nel settore della difesa e della sicurezza e della direttiva 2009/43/CE relativa ai trasferimenti all’interno delle Comunità di prodotti per la difesa.
[8] A cura dell’Ufficio dei rapporti con le Istituzioni dell’Unione europea del Senato della Repubblica.
[9] A cura del Servizio Studi della Camera dei deputati.
[10] A cura dell’Ufficio Rapporti con l’Unione europea e del Servizio Studi della Camera dei deputati.
[11] Il Comitato politico e di sicurezza è la struttura permanente competente in materia di politica estera e di sicurezza comune. Composto da ambasciatori degli Stati membri dell’UE e presieduto da un rappresentante del Servizio per l’azione esterna dell’UE (SEAE), il Comitato politico e di sicurezza esercita il controllo politico e la direzione strategica delle operazioni di gestione delle crisi, sotto l'autorità del Consiglio e dell’Alto Rappresentante per la politica estera e di sicurezza comune dell’UE.
[12] Il centro di situazione congiunto dell’UE, creato nel 2002 e collocato all’interno del SEAE fornisce 24 ore su 24, 7 giorni su 7 un servizio di intelligence ed early warning. La cellula di programmazione politica e tempestivo allarme attiva dal 2009 e collocata nel SEAE ha la funzione di fornire coerenza alla PESC coordinando le reazioni degli Stati membri.
[13] Il comitato militare dell’UE è il vertice militare dell’UE. L'EUMC è composto dai capi di Stato Maggiore della Difesa degli stati membri dell'Unione Europea che sono regolarmente rappresentati da addetti militari permanenti a Bruxelles. Il suo Presidente risponde direttamente all’Alto Rappresentante per la politica estera e di sicurezza comune dell’UE.