Camera dei deputati - XVII Legislatura - Dossier di documentazione
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Autore: | Ufficio Rapporti con l'Unione Europea | ||||
Titolo: | Conferenza internazionale IL VALORE DELL'EUROPA Crescita, occupazione e diritti: l'Unione europea alla prova - Roma, 13-14 marzo 2014 | ||||
Serie: | Documentazione per le Commissioni - Riunioni interparlamentari Numero: 24 | ||||
Data: | 10/03/2014 | ||||
Descrittori: |
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Camera dei deputati
XVII LEGISLATURA
Conferenza internazionale
IL VALORE DELL’EUROPA
Crescita, occupazione e diritti: l’Unione europea alla prova
Roma, 13-14 marzo 2014
n. 24
10 marzo 2014
Il dossier è stato curato dall’Ufficio rapporti con l’Unione europea
(' 066760.2145 - * cdrue@camera.it)
Il paragrafo “La procedura di monitoraggio dell’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa” è stato curato dal Servizio Rapporti internazionali (' 066760.3948 - * cdrin1@camera.it)
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I N D I C E
Superare la crisi: una crescita solidale e sostenibile basata sulla buona occupazione
· Il quadro di finanza pubblica
· Le politiche per combattere la crisi e la crescita: la Strategia Europa 2020
Garantire l’effettività dei diritti fondamentali nei Paesi dell’Unione
· Fonti primarie: l’articolo 7 del Trattato sull’Unione europea
· La Carta dei diritti fondamentali
· La Convenzione europea dei diritti dell’uomo
· L’adesione dell’Unione europea alla CEDU
· La valutazione dell’efficacia dei meccanismi a garanzia del rispetto dei valori fondanti dell’UE
Superare la crisi: una crescita solidale e sostenibile basata sulla buona occupazione
Il 25 febbraio scorso la Commissione europea ha presentato le previsioni economiche d’inverno, che forniscono una panoramica aggiornata delle principali dinamiche macroeconomiche relative al complesso dell’Unione europea, ai singoli Stati membri, e ad alcuni partners internazionali.
Una ripresa lenta
In premessa, la Commissione rileva che la ripresa economica
in Europa iniziata nel secondo trimestre del 2013, pur restando
fragile, dovrebbe proseguire nel corso del 2014 e del 2015:
il PIL dell'UE, che è salito dello 0,1 % nel 2013, è ora previsto in aumento di
1,5 % quest'anno e del 2,0% il prossimo anno, mentre la zona euro, in
recessione nel 2013 (-0,4%), dovrebbe crescere dell’1,2 % nel 2014 e dell’1,8 %
nel 2015. Nel 2014, soltanto Cipro e la Slovenia dovrebbero registrare una crescita negativa del PIL (rispettivamente, -4,8% e -0,1). Nel 2015, tutti i Paesi
dell’UE dovrebbero registrare una crescita del PIL:
Crescita del PIL nei
Paesi UE (2014)
Crescita del Pil nei Paesi UE (2015)
Il commercio internazionale e le quote di mercato
Il commercio mondiale dovrebbe aumentare più del PIL, con una crescita
dal 3 % nel 2013 al 4,8 % nel 2014 e 5,9% nel 2015.
Con riferimento alle quote di mercato, di seguito si riportano i dati elaborati dall’Organizzazione Mondiale del Commercio (World Trade Organization, WTO) e relativi al 2008 (anno di inizio della crisi finanziaria ) e al 2012:
|
Quote di mercato esportazioni (2008) |
Quota di mercato esportazioni (2012) |
UE-27 |
36,9% |
31,6% |
Germania |
9,1% |
7,6% |
Cina |
8,9% |
11,1% |
USA |
8,2% |
8,4% |
Giappone |
4,9% |
4,3% |
Francia |
3,8% |
3,0% |
Italia |
3,3% |
2,7% |
Canada |
3,0% |
2,4% |
Regno Unito |
2,9% |
2,5% |
Russia |
2,9% |
2,8% |
Spagna |
1,7% |
1,6% |
Brasile |
1,2% |
1,3% |
India |
1,1% |
1,6% |
La crescita dovrebbe accelerare per la maggior parte delle economie avanzate fuori dell’UE, trainata dal rinnovato slancio degli Stati Uniti (+2,9% di crescita del PIL nel 2014 e +3,2% nel 2015), dove i consumi privati stanno aumentando rapidamente grazie all’aumento dell’occupazione e dei prezzi delle abitazioni.
La dinamica del PIL
In Giappone, la crescita dovrebbe rimanere relativamente stabile
nel 2014. Tra le economie emergenti, la situazione risulta piuttosto
irregolare. Ci sono segni di debolezza in Russia e Brasile, una certa
stabilizzazione con tassi di crescita più sostenibili in Cina e un miglioramento
delle prospettive per l’India.
Di seguito, si riporta la tabella comparata relativa alla crescita del PIL dell’UE, dell’eurozona, dei principali Stati membri dell’UE e dei partners su scala globale (fonte: Commissione europea):
|
2013 |
2014 |
2015 |
UE-28 |
+0,1% |
+1,5% |
+2,0% |
Eurozona |
-0,4% |
+1,2% |
+1,8% |
Francia |
+0,3% |
+1,0% |
+1,7% |
Germania |
+0,4% |
+1,8% |
+2,0% |
Italia |
-1,9% |
+0,6% |
+1,2% |
Regno Unito |
+1,9% |
+2,5% |
+2,4% |
Spagna |
-1,2% |
+1,0% |
+1,7% |
USA |
+1,9% |
+2,9% |
+3,2% |
Giappone |
+1,6% |
+1,6% |
+1,3% |
Canada |
+1,7% |
+2,2% |
+2,3% |
Russia |
+1,3% |
+2,3% |
+2,7% |
Cina |
+7,7% |
+7,4% |
+7,4% |
Brasile |
+2,2% |
+2,3% |
+2,9% |
India |
+4,0% |
4,7% |
+5,4% |
In termini assoluti, gli ultimi dati disponibili sul PIL nominale sono relativi al 2012, (Fonte: Fondo monetario internazionale, FMI), e segnalano quanto segue:
|
PIL 2008 (in miliardi di dollari) |
PIL 2012 (in miliardi di dollari) |
USA |
14.417 |
16.244 |
Giappone |
5.035 |
5.960 |
Cina |
4.991 |
8.221 |
Germania |
3.298 |
3.429 |
Francia |
2.619 |
2.613 |
Regno Unito |
2.208 |
2.476 |
Italia |
2.111 |
2.014 |
Brasile |
1.664 |
1.904 |
Canada |
1.564 |
1.842 |
Spagna |
1.454 |
1.323 |
India |
1.365 |
1.841 |
Russia |
1.222 |
2.014 |
Per quanto concerne il PIL pro capite (a parità di potere d’acquisto) nel 2012, i dati del Fondo monetario internazionale indicano:
|
PIL pro capite 2008 (in euro) |
PIL pro capite 2012 (in euro) |
USA |
34.826 |
37.525 |
Canada |
28.166 |
30.483 |
Germania |
26.741 |
28.062 |
Regno Unito |
26.362 |
26.540 |
Francia |
24.617 |
25.616 |
Giappone |
24.137 |
26.022 |
Italia |
24.044 |
21.636 |
Spagna |
23.871 |
21.817 |
Russia |
14.528 |
16.212 |
Brasile |
6.619 |
7.394 |
Cina |
4.457 |
6.571 |
India |
2.109 |
2.789 |
Fra le ragioni che rallentano la ricomposizione della crescita mondiale vi è la persistente carenza di domanda dell’eurozona, il cui ciclo è in netto ritardo rispetto a quello degli Stati Uniti, del Giappone e del Regno Unito. Anche se l’intensità della recessione europea si è attenuata, fino ad esaurirsi nella seconda parte dell’anno, le condizioni di debolezza dell’area continuano a essere evidenziate dagli indicatori di mercato del lavoro (vedi infra) e di inflazione. Nonostante la Banca centrale europea respinga con forza l’ipotesi di una deflazione, sembra indubitabile che la debolezza della domanda interna e le pressioni al ribasso esercitate sui salari abbiano spinto la discesa dei prezzi ben oltre l’obiettivo – stabilito dai Trattati - di mantenere l’inflazione nel medio periodo sotto il 2%.
L'inflazione è infatti diminuita notevolmente nel corso del 2013, in particolare nell'ultimo trimestre dell'anno, a causa della debolezza della domanda interna, della caduta dei prezzi dell'energia e delle materie prime e del continuo apprezzamento dell'euro .Nel 2014 il tasso di inflazione dovrebbe attestarsi all’1,2 % nell'UE e all’1,0 % nella zona euro.
|
Con riguardo agli andamenti di finanza pubblica, di seguito si riportano i dati relativi al 2008 e le previsioni relative al 2014, per valutare gli effetti della crisi sui saldi di finanza pubblica:
|
Rapporto deficit/PIL 2008 |
Rapporto deficit/PIL 2014 |
Rapporto debito/PIL 2008 |
Rapporto debito/PIL 2014 |
UE |
-6,9% |
-2,7% |
74,3% |
89,7% |
Eurozona |
-1,9% |
-2,6% |
69,0% |
95,9% |
Francia |
-3,0% |
-4,0% |
65,7% |
96,1% |
Germania |
-2,3% |
-0,0% |
67,0% |
77,3% |
Italia |
-3,1% |
-2,6% |
105,0% |
133,7% |
Regno Unito |
-3,5% |
-5,2% |
44,1% |
93,4% |
Spagna |
+0,2% |
-5,8% |
41,1% |
98,9% |
USA |
-4,6% |
-5,4% |
64,5% |
104,8% |
Giappone |
-3,2% |
-7,5% |
149,7% |
244,9% |
L’UE ha reagito alla crisi seguendo alcune direttrici principali:
Il rafforzamento dei meccanismi di coordinamento delle politiche economiche
Il semestre europeo
Il Semestre europeo, introdotto nel 2010, è volto ad
assicurare che gli Stati membri coordinino ex ante le proprie politiche
economiche e di bilancio; a questo scopo,
secondo un calendario comune, ciascuno Stato elabora i propri
programmi di riforma e di stabilità in coerenza con obiettivi prioritari
stabiliti a livello europeo e li sottopone alla Commissione e al Consiglio;
quest’ultimo, indirizza a ciascun Paese raccomandazioni relative alle riforme
strutturali e altre misure necessarie per
rispettare i parametri di finanza pubblica e realizzare gli obiettivi in
materia di crescita, occupazione, istruzione, innovazione, clima e
riduzione della povertà fissati dalla strategia per “Europa 2020” (vedi infra).
|
Il processo di consolidamento delle finanze pubbliche è stato realizzato mediante la riforma del Patto di stabilità e crescita operata con atti legislativi adottati nel 2011 (il cd. Six pack) e nel 2013 (il Two pack), ulteriormente rafforzato da un apposito Trattato internazionale (c.d. Fiscal Compact). Il nuovo sistema si basa su meccanismi di sorveglianza ex ante (ovvero, prima dell’adozione delle leggi di bilancio da parte dei singoli Stati membri) ed ex post (finalizzati a verificare la congruità delle politiche di bilancio con gli obiettivi fissati a livello europeo).
In particolare, il nuovo quadro giuridico prevede:
· limiti al disavanzo e al debito: restano i limiti del 3% del PIL per il disavanzo e del 60% del PIL per il debito. È tuttora prevista una certa flessibilità nel corso di una crisi: se la crescita si deteriora inaspettatamente, agli Stati membri con un disavanzo di bilancio superiore al 3% del PIL può essere concesso più tempo per correggerlo, purché essi abbiano adottato le azioni strutturali necessarie;
· una maggiore attenzione al debito: gli Stati membri con un debito superiore al 60% del PIL (tra cui l’Italia) devono impegnarsi in un percorso credibile di riduzione, da effettuare annualmente nella misura di 1/20 dell’eccedenza rispetto alla soglia del 60%; tale riduzione per altro deve tener conto degli effetti del ciclo economico e dell’incidenza di fattori significativi, quali ad esempio le riforme previdenziali, che producono benefici a medio termine su bilanci pubblici;
· il rispetto dell’obiettivo del pareggio di bilancio deve essere introdotto nell’ordinamento nazionale di ciascun Paese con norma costituzionale o di rango equivalente[1], prevedendo, in caso di superamento del limite del disavanzo strutturale, un meccanismo automatico di correzione;
· procedura per i disavanzi eccessivi: contro gli Stati membri che non rispettano il criterio del disavanzo o quello del debito viene avviata la procedura per i disavanzi eccessivi, in virtù della quale vengono assoggettati a controlli supplementari e viene loro imposto un termine per la correzione del disavanzo;
· sanzioni più rapide: le sanzioni contro gli Stati membri della zona euro soggetti a procedura per i disavanzi eccessivi sono più tempestive, considerandosi adottate su proposta della Commissione a meno che il Consiglio non le respinga a maggioranza qualificata (c.d maggioranza inversa) e possono essere aumentate gradualmente. La mancata riduzione del disavanzo può comportare un'ammenda pari allo 0,2% del PIL, ed anche la sospensione dei finanziamenti dei fondi strutturali;
Gli squilibri macroeconomici
La procedura per la sorveglianza sugli squilibri macroeconomici (disciplinata
da due regolamenti approvati nell’ambito del.d. six pack) si articola,
in parziale analogia con il Patto di stabilità e crescita, in una parte preventiva
ed in una correttiva.
Gli squilibri macroeconomici sono definiti come "ogni tendenza che possa determinare sviluppi che hanno, o potrebbero avere, effetti negativi sul corretto funzionamento dell'economia di uno Stato membro, dell'Unione economica e monetaria o dell'intera Unione".
L’analisi viene effettuata sulla base di una griglia (scoreboard) di indicatori macroeconomici, per ciascuno dei quali sono previste soglie minime e massime il superamento delle quali segnala un potenziale squilibrio.
Qualora la Commissione ritenga che uno Stato presenti squilibri, ne informa il Consiglio e l'Eurogruppo, nonché il Parlamento europeo, avviando una procedura che prevede l’attuazione, da parte dello Stato in questione, di un piano d’azione correttivo. In caso di inadempienza, il Paese membro può essere condannato al pagamento di un’ammenda pari allo 0,1% del PIL realizzato nell'anno precedente.
Sulla base della relazione presentata il 13 novembre 2013, la Commissione ha stabilito che 17 Stati su 28 (Belgio, Bulgaria, Croazia, Francia, Danimarca, Germania, Irlanda, Italia, Lussemburgo, Malta, Paesi Bassi, Finlandia, Regno Unito, Spagna, Slovenia, Svezia e Ungheria) presentavano squilibri macroeconomici: pertanto, tali Stati sono stati sottoposti ad un’indagine approfondita, i cui esiti sono stati pubblicati il 5 marzo 2014.
L’indagine approfondita ha stabilito che, nei soli casi di Croazia, Italia e Slovenia, gli squilibri sono da considerarsi eccessivi, e dovranno essere affrontati da ciascun Paese elaborando degli appositi piani correttivi da incorporare nei rispettivi Programmi di stabilità e nei Piani nazionali di riforma.
In particolare, l’Italia deve:
·
L’Italia
affrontare il livello molto alto del debito e la debole
competitività esterna, entrambi radicati lenta crescita della
produttività, che si protrae da tempo;
· raggiungere e mantenere un avanzo primario (differenza tra entrate e uscite del bilancio pubblico, al netto degli interessi sui titoli di stato) molto alto, nonché e una robusta crescita del PIL per un periodo prolungato, entrambi necessari a mettere il debito su un percorso discendente. La Commissione europea riconosce che l’Italia ha fatto progressi verso il raggiungimento dell’obiettivo di medio termine del pareggio strutturale di bilancio, ma tuttavia l’aggiustamento strutturale per il 2014 appare insufficiente vista la necessità di ridurre il debito ad un ritmo adeguato;
· affrontare inefficienze della pubblica amministrazione e del sistema giudiziario;
· combattere gli elevati livelli di corruzione e di evasione fiscale;
· colmare le lacune del capitale umano, che si evidenziano nelle carenze del sistema di istruzione e formazione.
Dibattito sul futuro dell’UEM
E’ in corso il dibattito sulla futura evoluzione dell’Unione economia e
monetaria, sulla base della tabella di marcia approvata dal Consiglio
europeo di dicembre 2012.
La tabella di marcia, approvata a partire dalla relazione finale del “quartetto” (Van Rompuy, Barroso, Juncker e Draghi) e da una comunicazione della Commissione europea, contempla ulteriori interventi volti a realizzare, a Trattati vigenti o mediante modifica dei medesimi, un coordinamento effettivo e più stringente delle politiche economiche e di bilancio, mediante una maggiore condivisione di sovranità tra gli Stati membri.
In particolare, il processo di riforma ha l’obiettivo di integrare le sopra citate riforme adottate in materia di finanza pubblica e unione bancaria attraverso la creazione di una cornice integrata di politica economica, da perseguire attraverso:
- il coordinamento delle riforme strutturali a livello nazionale;
- il ricorso ad “accordi di natura contrattuale” (cd. “partenariati per la crescita”) tra i singoli Stati e la Commissione europea, finalizzati a rendere più forte il coordinamento, la convergenza e l’attuazione delle politiche strutturali.
Il Consiglio europeo del 19-20 dicembre 2013 ha definito gli elementi essenziali dei partenariati, rinviando tuttavia al Consiglio europeo di ottobre 2014 (nel semestre di Presidenza italiana dell'UE) l’adozione di una decisione definitiva al riguardo;
- meccanismi di solidarietà che possano supportare gli sforzi profusi dagli Stati membri per realizzare gli obiettivi di tali accordi, anche mediante la creazione di un’autonoma capacità fiscale dell’area euro;
- la valutazione di eventuali meccanismi per la mutualizzazione del debito sovrano degli stati membri.
Va segnalato, tuttavia, che in seno al Consiglio numerosi Stati membri (la Germania, ma anche Finlandia, Paesi Bassi e Repubblica ceca) mantengono forti riserve sull’opportunità di introdurre forme, più o meno avanzate, di mutualizzazione del debito, nel timore che gli Stati tradizionalmente meno virtuosi possano abbandonare il percorso di riduzione del debito: la mutualizzazione, infatti, avrebbe l’effetto di allentare le pressioni speculative sui titoli dei Paesi più esposti alle turbolenze dei mercati, inducendoli a tornare alle politiche di deficit spending.
La realizzazione di questi interventi dovrebbe essere accompagnata da una maggiore legittimità democratica. In particolare, a livello nazionale, gli Stati membri dovranno garantire un adeguato coinvolgimento dei Parlamenti nazionali. Analogamente, una estensione nel processo di condivisione di alcune competenze a livello europeo, dovrà implicare un adeguato coinvolgimento del Parlamento europeo.
Tasso di occupazione
Per superare il rischio di recessione e combatterne le cause profonde
l’Unione europea ha elaborato la Strategia Europa 2020, che delinea gli obiettivi per il decennio 2011-2020, e si articola nei seguenti
obiettivi:
portare al 75% il tasso di occupazione.
Il Governo italiano ha fissato nel Documento di economia e finanza 2013 l’obiettivo del 67-69% nel 2020 (63% a medio termine).
Secondo gli ultimi dati Eurostat, diffusi in data 16 gennaio 2014 e riferiti al 2012, il tasso di occupazione ha raggiunto il 68,4% nell’UE a 28; i Paesi con le migliori performances risultano essere la Svezia (79,4), i Paesi Bassi (77,2%) e la Danimarca (75,4%); nel Regno Unito si è registrato un tasso del 74,2%, in Germania il 76,7%, in Francia il 69,3%, in Spagna il 59,3%, in Italia il 61,0% (soltanto Spagna, Grecia e Croazia registrano una percentuale più bassa);
Ricerca e sviluppo
migliorare le condizioni per la ricerca e lo sviluppo,
in particolare allo scopo di portare al 3% del PIL la spesa
per investimenti pubblici e privati combinati in tale settore.
Il Governo italiano ha fissato nel Documento di economia e finanza 2013 l’obiettivo dell’1,53% nel 2020 (1,40% a medio termine).
Il 23 gennaio 2014 Eurostat ha reso noti i dati relativi alla quota di PIL investita nel settore ricerca e sviluppo tecnologico, a livello dell’UE e dei singoli Stati membri, nel 2012: nell’UE a 28 tale quota è pari al 2,06% del PIL. In Italia la quota in termini percentuali del PIL risulta pari all’1,27%. Gli investimenti più consistenti in R&S in percentuale del PIL sono stati registrati in Finlandia (3,55%), in Svezia (3,41% del PIL), Danimarca (2,99%), Germania (2,92%) e Austria (2,84%), mentre quelle più basse sono state rilevate in Romania (0,42%), a Cipro (0,47%,) in Bulgaria (0,64%) e in Slovacchia (0,82%). Si segnalano inoltre i dati di Francia, (2,26%), Regno Unito (1,72%) e Spagna (1,33%)
E’ significativo rilevare che la crescita del PIL ha una dinamica più accelerata nei Paesi che investono maggiormente in ricerca e sviluppo tecnologico. Sul Piano internazionale, gli Stati Uniti investono in R&S il 2,67% del PIL, il Giappone il 3,25%, l’India oltre il 2%, la Cina l’1,98%;
Istruzione
migliorare i livelli d'istruzione, in particolare
riducendo i tassi di dispersione scolastica al di sotto del
10%.
Il Governo italiano ha fissato nel Documento di economia e finanza 2013 l’obiettivo di ridurre la dispersione scolastica al 16% nel 2020.
Secondo i dati diffusi da Eurostat il 23 gennaio 2014, il tasso di dispersione scolastica dei ragazzi di età compresa tra i 18 e i 24 anni è stato, nel 2012, pari al 12,7% nell’UE-28; al 17,6% in Italia, all'11,6% in Francia, al 10,5% in Germania, al 13,5% nel Regno Unito, al 24,9% in Spagna. Sempre secondo dati Eurostat, nel 2012 la percentuale delle persone tra i 30 e i 34 anni che hanno completato l'istruzione terziaria o equivalente risulta invece pari al 35,7% nell’UE a-28; al 21,7% in Italia; 43,6% in Francia; 31,9% in Germania; 47,1% in Regno Unito; 40,1% in Spagna.
Analogamente agli investimenti in R&S, anche i sistemi di istruzione e formazione sembrano avere una notevole incidenza sulla crescita economica. In base ai dati forniti dall’OCSE, le percentuali più elevate di persone che hanno conseguito una formazione universitaria o equivalente si registrano in Russia (53% della popolazione tra i 25 e i 64 anni), Svezia (48%), Giappone (46%), Stati Uniti (42%).
Lotta alla povertà
promuovere l'inclusione sociale, in particolare
attraverso la riduzione della povertà, mirando a liberare almeno 20
milioni di persone dal rischio di povertà e di esclusione.
Il Governo italiano ha fissato nel Documento di economia e finanza 2013 l’obiettivo di ridurre entro il 2020 di 2,2 milioni il numero di persone a rischio povertà.
Secondo i dati Eurostat disponibili, la quota di popolazione che nel 2012 risultava a rischio di povertà o esclusione sociale: nell’UE-28, il 24,5%; in Italia il 30,4%; in Francia il 17,9%; in Germania il 19,7%; nel Regno unito il 23,6%; in Spagna il 28%.
ridurre le emissioni di gas a effetto serra del 20% - rispetto ai livelli del 1990 - o del 30%, se sussistono le necessarie condizioni, ovvero nel quadro di un accordo globale, a condizione che altri Paesi si impegnino ad analoghe riduzioni delle emissioni; contestualmente, si intende portare al 20% la quota delle fonti di energia rinnovabile e migliorare del 20% l'efficienza energetica (obiettivo già previsto nel pacchetto clima-energia approvato nel 2009).
Il Governo italiano ha fissato nel Documento di economia e finanza 2013 l’obiettivo di ridurre le emissioni di gas a effetto serra del 13% nel 2020, e di portare la quota di energie rinnovabili al 17% nel 2020.
Secondo i dati Eurostat, l’UE-27 nel 2011 avrebbe ridotto del 16,97% le emissioni rispetto al 1990; l’Italia ha conseguito una diminuzione del 4,7%; la Francia ha ridotto dell'11,1%; la Germania (-25,52%) e il Regno Unito (-25,19%) hanno conseguito una riduzione superiore all’obiettivo richiesto; la Spagna ha registrato un aumento del 26,43%. Per quanto concerne la quota di energie rinnovabili sul totale del fabbisogno, l’Italia nel 2011 ha registrato una percentuale dell’11,5%, a fronte del dato complessivo dell’UE-27 pari al 13,0% (Germania: 12,3%; Francia: 11,5%; Regno Unito: 3,8%; Spagna: 15,1%).
La Strategia Europa 2020 prevede il raggiungimento in tale anno dell’obiettivo del 75 per cento della popolazione tra i 20 e i 64 anni con un impiego.
Partendo da un livello pari al 67,9 per cento nel 2005, gli ultimi dati pubblicati da Eurostat evidenziano il raggiungimento di un livello del 68,4 per cento nel 2012. La tabella che segue evidenzia la progressione del tasso di occupazione 20-64 anni nell’UE e in alcuni dei Paesi membri.
Tasso di occupazione UE (%)
|
2005 |
2010 |
2011 |
2012 |
target |
EU 28 |
67,9 |
68,5 |
68,5 |
68,4 |
75 |
Area Euro (EU18) |
67,9 |
68,4 |
68,5 |
68,0 |
|
Germania |
69,4 |
74,9 |
76,3 |
76,7 |
77 |
Spagna |
67,2 |
62,5 |
61,6 |
59,3 |
74 |
Francia |
69,4 |
69,2 |
69,2 |
69,3 |
75 |
Italia |
61,6 |
61,1 |
61,2 |
61,0 |
67 |
Regno Unito |
75,2 |
73,6 |
73,6 |
74,2 |
- |
Fonte: Eurostat
Il tasso di occupazione relativo a tutta la forza lavoro (15 – 64 anni) nel periodo 2010-2012 è quello evidenziato dalla tabella che segue:
(%)
|
2010 |
2011 |
2012 |
EU 28 |
64,0 |
64,1 |
64,1 |
Area Euro (EU18) |
64,1 |
64,2 |
63,8 |
Germania |
71,1 |
72,5 |
72,8 |
Spagna |
58,6 |
57,7 |
55,4 |
Francia |
63,9 |
63,9 |
63,9 |
Italia |
56,9 |
56,9 |
56,8 |
Regno Unito |
69,5 |
69,5 |
70,1 |
USA |
66,7 |
66,6 |
67,1 |
Giappone |
70,1 |
70,3 |
70,6 |
Fonte: Eurostat
Gli ultimi dati disponibili (non destagionalizzati) sul tasso di disoccupazione sono relativi al periodo 2011-2013:
(%)
|
2011 |
2012 |
2013 |
EU 28 |
9,7 |
10,5 |
10,9 |
Area Euro (EU18) |
10,2 |
11,4 |
12,1 |
Germania |
5,9 |
5,5 |
5,3 |
Spagna |
21,7 |
25,0 |
26,4 |
Francia |
9,6 |
10,2 |
10,8 |
Italia |
8,4 |
10,7 |
12,2 |
Regno Unito |
8,0 |
7,9 |
n.d. |
USA |
8,9 |
8,1 |
7,4 |
Giappone |
4,6 |
4,3 |
n.d. |
Fonte: Eurostat
Come risulta anche dal Bollettino mensile della BCE di febbraio, il tasso di disoccupazione nell’area euro si è collocato a circa il 12 per cento. Rispetto al marzo 2008, quando il tasso di disoccupazione era al minimo, prima della crisi finanziaria, l’aumento del tasso di disoccupazione è stato di circa 4,7 punti percentuali. Il grafico che segue evidenzia l’andamento del tasso di disoccupazione nell’area Euro 18 nel periodo 2004-2013 (dati mensili destagionalizzati - %):
![]() |
Fonte: BCE su dati Eurostat
Rimane a livelli elevatissimi la disoccupazione giovanile (relativa a soggetti tra i 15 e i 24 anni), il cui tasso è cresciuto dal 15 per cento circa del 2007 al 24 per cento nel 2013. La situazione degli Stati membri è assai differenziata: si va da un aumento del tasso limitato in Austria e Malta, ad una riduzione in Germania e ad un sensibile aumento nei paesi più colpiti dalla crisi, raggiungendo tra il 50 per cento e il 60 per cento in Grecia e in Spagna, quasi il 40 per cento in Italia, Portogallo e Cipro, e quasi il 30 per cento in Irlanda nel 2013. Mentre in alcuni Paesi, come Irlanda e Cipro, l’aumento del tasso di disoccupazione giovanile fa seguito ad un periodo in cui questo era relativamente basso, in altri Paesi, come Spagna, Grecia, Portogallo e Italia, gli alti tassi di disoccupazione giovanile rispetto alla media dell'area euro non sono un fenomeno nuovo, ma erano stati registrati già prima della crisi, come risulta dal grafico che segue:
Disoccupazione giovanile
Fonte: BCE su dati Eurostat
In alcuni di tali Paesi, però, come Spagna e Portogallo, l’aumento del tasso di inattività della fascia di soggetti tra i 15 e i 24 anni non si è totalmente tradotta in un aumento del tasso di disoccupazione giovanile, in quanto tali soggetti hanno per lo più scelto di rimanere nella fase di istruzione e formazione. In altri Paesi, come l’Italia, l’Irlanda, Cipro e la Grecia, invece, la quota di quanti sono considerati inattivi che non sono in istruzione o formazione (NEET) è aumentata.
Limiti del mercato del lavoro europeo
Anche le prospettive a breve e medio termine non lasciano sperare in
una rapida ripresa, dal momento che permangono tutti i limiti che il
mercato del lavoro europeo ha già messo in evidenza. In particolare, il mercato
del lavoro unionale appare caratterizzato da una insufficiente
comunicazione con il mondo dell’istruzione e della formazione, che rende difficile
il passaggio dalla scuola al lavoro e l’incontro tra la domanda di lavoro
e le competenze richieste; una ridotta mobilità trasfrontaliera della
forza lavoro che non permette alla domanda di spostarsi dai mercati dove è
in eccesso ai mercati dove, invece, vi è richiesta; un carico fiscale
tale da rendere poco conveniente per un datore di lavoro decidere di effettuare
nuove assunzioni.
Pertanto, alla luce dei limiti evidenziati, una migliore utilizzazione delle capacità potenziali dell’Europa può essere raggiunta attraverso tre strade:
· la riforma dei sistemi di istruzione e formazione che devono adeguarsi all’evoluzione delle conoscenze, delle abilità e delle competenze richieste dal mercato del lavoro;
· la promozione della mobilità regionale, per garantire la disponibilità delle competenze giuste in ogni regione, cui si deve collegare la promozione della mobilità professionale, per aumentare la flessibilità del mercato del lavoro e l’adattamento alle nuove tecnologie e ad un nuovo contesto economico.
I dati dimostrano l’importanza di un buon livello di istruzione ai fini dell’occupabilità e tale ruolo risulta ancora di più accentuato dalla crisi economica in atto.
Titolo di studio e occupazione
In media, tra i Paesi dell’OCSE, il 4,8 per cento dei laureati
erano disoccupati nel 2011, rispetto a 12,6 per cento di disoccupati che
non avevano conseguito un diploma dell’istruzione secondaria superiore. Tra
il 2008 e il 2011, il gap tra chi ha un basso livello d’istruzione e chi ha
titoli di studio di alto livello si è accentuato: per l’insieme delle classi di
età, il tasso di disoccupazione di chi ha un basso livello d’istruzione è
aumentato di quasi 3,8 punti percentuali, mentre ha segnato un aumento
di solo 1,5 punti percentuali per chi ha raggiunto un alto livello d’istruzione[2].
Risulta, pertanto, fondamentale assicurare il collegamento tra istruzione (e formazione) e mercato del lavoro, allo scopo di canalizzare il maggior numero possibile di giovani in cerca di lavoro verso le richieste di manodopera qualificata e di alti profili professionali.
I Paesi che registrano una percentuale superiore alla media di diplomati- 32% - (Austria, Repubblica Ceca, Germania e Lussemburgo) sono riusciti a mantenere la disoccupazione giovanile a meno di 8 punti percentuali. All’opposto, Paesi come Grecia, Irlanda e Spagna, dove una percentuale inferiore al 25 per cento dei giovani adulti ha conseguito un diploma secondario di secondo grado presso un istituto professionale, hanno visto i tassi di disoccupazione aumentare di 12 punti percentuali o più, per la classe di età dei 25 34enni con un’istruzione di livello secondario[3].
Passaggio da scuola a lavoro
Il livello del più alto titolo
di studio ha un evidente impatto
sul processo di transizione dalla scuola al lavoro.
A livello di Unione europea, la durata media della transizione al primo
lavoro significativo (misurata come un lavoro di almeno 3 mesi) è stata di
6,5 mesi nel 2009 per tutti i livelli di istruzione e vicino a 7 mesi per il
livello secondario superiore. Era solo 5 mesi per le persone con qualifiche
terziarie, il doppio di quello per le persone con qualifiche inferiori (9,8
mesi). In tutti i paesi, le persone
con un livello d'istruzione terziaria trovano il loro primo posto
di lavoro più velocemente rispetto al gruppo di persone solo con istruzione secondaria. In Grecia, Spagna, Italia
e Turchia i periodi
di transizione sono più
lunghi per tutti i livelli di
istruzione, tra cui terziaria (da 8,1 mesi in
Spagna a 13,1 mesi in Grecia)[4].
Gli stipendi dei laureati sono più alti
Il livello raggiunto negli studi non incide solo sull’occupabilità, ma anche
sul reddito da lavoro. In media, gli stipendi dei laureati sono
superiori di 1,5 volte rispetto ai diplomati della scuola secondaria di
secondo grado, mentre chi non ha conseguito un diploma secondario di
secondo grado guadagna il 25 per cento in meno, in media, rispetto a chi ha
ottenuto la maturità. La crisi ha accentuato il gap retributivo:
nel 2008, la differenza delle remunerazioni dei lavoratori poco qualificati
rispetto a quelli molto qualificati era in media del 75 per cento nei Paesi
dell’OCSE, e nel 2011 si è accentuata fino a raggiungere il 90 per cento[5].
Sul piano congiunturale, nel 2012 si evidenzia un calo del tasso di occupazione dei neolaureati: solo il 76 per cento hanno trovato un posto di lavoro, rispetto al 82 per cento nel 2008. Inoltre, un soggetto su cinque della popolazione attiva dell'UE con la laurea occupa un posto di lavoro per cui è richiesta una qualifica inferiore. Anche questo dato suggerisce una mancata corrispondenza tra le competenze fornite dai sistemi di istruzione e formazione e quelle richieste dal mercato del lavoro. Ma questo potrebbe essere un’ulteriore conseguenza della crisi economica in atto.
Il grafico che segue indica la percentuale di spesa pubblica dedicata all’istruzione nei paesi dell’area OCSE, negli anni 1995, 2005 e 2010.
Fonte: OCSE, 2013
Spesa pubblica per istruzione in Italia
Dal grafico risulta che l’ammontare di risorse destinata dall’Italia
al settore dell’istruzione è rimasta in tali anni piuttosto stabile (e
pari all’8,96 per cento nel 1995, all’8,93 per cento nel 2005 e al 9,20 per
cento nel 2011[6]). Ma
ciò indica che l’Italia non si è dimostrata interessata ad investire nel
settore in misura corrispondente alla media dei Paesi OCSE.
Infatti, con riferimento ai cicli di istruzione primaria e secondaria, la spesa pubblica in Italia è rimasta invariata in termini reali dal 1995, a fronte di un aumento medio del 62 per cento nell’area OCSE.
Per l’istruzione terziaria, l’aumento del 39 per cento, ben al di sopra del 15 per cento di aumento medio nell’area OCSE, è dovuto principalmente ad un aumento dei finanziamenti da fonti private. Nonostante ciò, la spesa media dell’Italia per gli studenti di livello terziario (9.580 euro, in PPP – parità di potere d’acquisto) resta ben al di sotto della media dell’area OCSE (13.528 dollari USA).
Con riferimento all’Unione europea, dai dati più recenti,
relativi al 2012, risulta che l’Italia è tra i Paesi[7] che hanno diminuito,
in valore assoluto, le risorse per formazione e istruzione[8].
In generale infatti, la carenza di investimenti nel settore dell’istruzione e della formazione pregiudica alquanto la possibilità dei giovani di accedere ad occupazioni qualificate, mettendoli in posizione di svantaggio rispetto ai coetanei provenienti da sistemi più all’avanguardia[9]. L’utilizzo delle competenze nel lavoro incide anche sulla produttività e sul gap di genere nelle remunerazioni.
KBC investimenti in capitale umano
Ciò è ancora più vero se si pensa che negli ultimi anni le imprese
hanno cominciato ad investire in un più ampio spettro di beni intangibili
(che vanno oltre il tradizionale settore della ricerca e dello sviluppo), in
particolare nei dati, nei software, nei brevetti, nel design, nei nuovi
processi organizzativi e in specifiche competenze imprenditoriali. Si parla, a
tale proposito di investimenti in capitale basato sulla conoscenza, il
cosiddetto KBC (knowledge based capital).
Gli investimenti delle imprese nel KBC contribuiscono a stimolare la crescita e la produttività, come dimostrano studi condotti per l’Unione europea e gli Stati Uniti: gli investimenti delle imprese nel KBC contribuiscono alla crescita media della produttività del lavoro per una quota percentuale dal 20 al 34%[10].
I Paesi che investono maggiormente nel KBC sono anche più efficaci nella riallocazione delle risorse alle imprese innovatrici. In termini di quota del prodotto interno lordo (PIL), gli Stati Uniti e la Svezia investono due volte di più rispetto all'Italia e alla Spagna e le imprese che producono brevetti negli Stati Uniti e in Svezia attirano una proporzione di capitali quattro volte superiore rispetto a imprese simili in Italia e Spagna.
Anche la crescita degli investimenti delle imprese nel capitale basato sulla conoscenza rende ancora più importante un'adeguata formulazione delle politiche del capitale umano.
Apprendimento permanente
L’aggiornamento delle competenze individuali durante tutto l’arco
della vita rappresenta un requisito essenziale per restare
integrati nel mercato del lavoro. La Strategia di Lisbona aveva posto tra i cinque benchmark da raggiungere entro il 2010 nel
campo dell’istruzione e della formazione quello di una quota di adulti
impegnati in attività formative pari al 12,5%.
Dai dati Istat, risulta che in Italia sono due milioni 199 mila gli adulti impegnati in attività formative: il 40%è ancora coinvolto in un percorso scolastico/universitario, mentre meno del 4 per cento è impegnato in un corso professionale organizzato e/o riconosciuto dalla regione. La formazione professionale aziendale coinvolge circa il 22% degli adulti in formazione, mentre il 38% circa è impegnato (anche o solo) in altri tipi di corsi (informatica, marketing, lingue straniere, ecc). Si tratta di una popolazione pari al 6,6%circa nel 2012, al di sotto dell’obiettivo fissato dalla Strategia di Lisbona per il 2010.
Popolazione in età 25-64 anni che partecipa all'apprendimento permanente per sesso nei paesi Ue - Anno 2012 (valori percentuali)
![]() |
Fonte: Istat (2014)
Ben consapevole di tali problematiche, anche l’UE da tempo si è mossa nella direzione della promozione delle competenze e di stimolo per i Paesi membri ad investire nel settore della formazione e delle competenze.
Negli ultimi anni, nell'ambito di diverse iniziative della strategia Europa 2020 e, in particolare, alla luce di un tasso di disoccupazione costantemente elevato, la Commissione europea ha sottolineato l'importanza di consentire a studenti e lavoratori di presentare in modo chiaro le proprie abilità e i profili di qualificazione. Ciò contribuisce ad agevolare la mobilità e a migliorare le prospettive di lavoro e di apprendimento permanente.
Confrontabilità delle competenze
Nel 2005, con la decisione 2241/2004/CE, è stata istituita l'iniziativa
Europass, che aiuta studenti e lavoratori a far meglio comprendere le loro
competenze e conoscenze in tutta Europa attraverso strumenti in grado di
registrare e rendere trasparenti le loro abilità e qualifiche. Infatti,
Europass sostiene la circolazione di studenti e lavoratori per motivi di
apprendimento permanente o di lavoro, consentendo il raffronto di abilità,
qualifiche e risultati di apprendimento.
I dati raccolti da marzo 2013 indicano che, a partire dal suo lancio nel 2005, sono stati compilati online più di 27 milioni di curriculum vitae (CV) Europass. Gli strumenti di Europass risultano inoltre efficienti in termini di costi e, dopo la prima valutazione dell'iniziativa condotta nel 2008, il loro utilizzo e la loro diffusione sono aumentati in maniera significativa.
Insieme al portale Internet di Europass, sono stati attivati i centri nazionali Europass (CNE), operativi in tutti i paesi dell'Unione, nonché in Islanda e Norvegia, dalla metà del 2005 (dal 2007 in Bulgaria e Romania e dal 2011 in Croazia), dal 2006 in Liechtenstein, dal 2008 in Turchia e dal 2011 in Svizzera. Nel 2012 la Commissione ha fornito ai centri nazionali Europass un sostegno finanziario pari a 2.250.000 euro attraverso il programma di apprendimento permanente.
Le carenze riscontrate ineriscono alla difficoltà di adattare tale strumento alle mutevoli condizioni dei sistemi di istruzione, formazione e del mercato del lavoro.
Coordinamento con altri strumenti europei
Al momento gli utenti di Europass sono tendenzialmente giovani, di sesso
femminile e con un livello di istruzione elevato. Un migliore coordinamento
con i servizi che forniscono orientamento professionale e la loro
integrazione nel quadro Europass consentirebbero il coinvolgimento di grandi
gruppi, come ad esempio le persone disoccupate con scarse competenze, che
spesso non possiedono le abilità necessarie a completare i documenti Europass o
che potrebbero trovarli troppo complessi o fuorvianti. Altri miglioramenti
necessari includono una maggiore convergenza con altri strumenti di
riferimento europei e una migliore interoperabilità tra gli strumenti
informatici di Europass e gli strumenti dell'Unione utilizzati per
l'intermediazione tra la domanda e l'offerta di lavoro.
Per tali ragioni, è stato avviato un processo di revisione di Europass che deve diventare un servizio più semplice, mirato e aggiornato, pur mantenendo la sua originaria finalità di comparabilità e trasparenza di abilità e qualifiche per migliorare la mobilità geografica e professionale di studenti e lavoratori.
Contestualmente ad Europass, l’UE ha attivato altri strumenti finalizzati al sostegno della circolazione di studenti e lavoratori. Si tratta, in particolare, del Quadro europeo delle qualifiche (EQF), del sistema europeo di crediti per l'istruzione e la formazione professionale (ECVET) e del sistema europeo di trasferimento dei crediti (ECTS), di cui è prevista la graduale integrazione in Europass.
Si segnala che, in concomitanza con la riforma di Europass e degli altri strumenti relativi alle qualifiche professionali, la Commissione europea sta mettendo a punto una classificazione europea in materia di abilità, competenze, qualifiche e professioni (per il momento denominata ESCO), anch’essa finalizzata, tra l’altro, a consentire la messa in contatto automatizzata a livello europeo della domanda e dell'offerta di lavoro.
Contratti temporanei con contenuto formativo
Dati recenti della Commissione europea[11]
evidenziano che i contratti temporanei possono rappresentare per i
giovani una valida opportunità per inserirsi nel mercato del lavoro, se
tali contratti sono collegati a iniziative di istruzione o formazione
(come accade di frequente in Germania e Austria, dove si parla di sistemi di
apprendimento duale, che combina l'educazione con l'esperienza pratica). Questi
contratti di apprendistato/formazione hanno di norma una durata piuttosto lunga
e rappresentano spesso una modalità di transizione verso contratti di lavoro a
tempo indeterminato. Nei paesi però che presentano un forte calo dell'occupazione
giovanile (ad esempio, Spagna e Polonia), la maggior parte dei giovani occupati
ha un contratto a breve termine e di minore durata.
Nelle raccomandazioni specifiche per paese (RSP) per il 2013, 16 Stati membri sono stati invitati a concentrarsi sulla riforma dell'istruzione e della formazione professionali per inserirvi una più forte componente di apprendimento basato sul lavoro. La Commissione ha proposto inoltre che sette Stati membri (Francia, Italia, Lettonia, Lituania, Paesi Bassi, Spagna e Slovenia) attuassero ulteriori misure per ovviare alla segmentazione del loro mercato del lavoro.
Facilitare la trasmissione scuola-lavoro
La UE, pertanto, si fa promotrice di azioni che facilitino il passaggio
dalla scuola al lavoro negli Stati membri, tra cui l’Italia,
in cui gli strumenti in essere non si sono dimostrati in grado di mettere
in relazione il versante educativo e formativo con il mercato del lavoro.
Ciò sia per l’arretratezza dei programmi di istruzione, svincolati dalle
reali esigenze del mercato del lavoro, sia per la difficoltà di attivare i
canali già previsti dai singoli ordinamenti, quali i tirocini e gli stages,
spesso onerosi dal punto di vista burocratico per gli imprenditori (per
esempio, per quello che riguarda l’Italia, l’esistenza di differenti
normative a livello regionale è tra i fattori che scoraggiano il ricorso al
tirocinio, anche se le riduzioni contributive previste potrebbero
rendere appetibile al ricorso ai tirocinanti).
Il numero dei tirocini si riduce con la crisi
Nel corso del 2013, nel quadro delle iniziative per la lotta alla
disoccupazione giovanile, la Commissione europea ha presentato una proposta
di raccomandazione relativa ad un quadro di qualità dei tirocini (COM(2013)857),
basata sull’intento di offrire contenuti di apprendimento di qualità e
condizioni di lavoro adeguate senza costituire un'alternativa economica per i
datori di lavoro a posti di lavoro regolari.
Come evidenziato dalla Commissione[12], non esistono statistiche ufficiali sul tirocini. Gli unici dati disponibili si riferiscono all’Italia[13]. Questi dati sembrano confermare il forte aumento della tendenza a ricorrere ai tirocini segnalato dagli esperti in molti paesi (per esempio, in Francia). Nel contempo, però, i dati italiani mostrano anche che il numero di tirocini è strettamente correlato al ciclo economico: i tirocini sono diminuiti per la prima volta nel 2009, all'inizio della crisi, e il loro calo è stato più forte di quello dell'occupazione complessiva. Il grafico che segue evidenzia l’andamento del numero dei tirocini e l’andamento dell’occupazione in Italia, nel periodo 2005-2011:
![]() |
Fonte: Commissione europea su dati Unioncamere, 2013
La proposta mira a fare dei tirocini uno strumento che agevoli il passaggio dagli studi al mondo del lavoro, contribuendo così a una maggiore occupabilità dei giovani. Essa invita gli Stati membri a garantire che l'ordinamento giuridico o la pratica nazionale rispetti i principi stabiliti negli orientamenti e ad adeguare la loro legislazione, se necessario.
Miglioramento dei contenuti e delle condizioni di
lavoro
In particolare, gli orientamenti sono diretti ad aumentare la
trasparenza sulle condizioni del tirocinio, prevedendo per esempio
l'obbligatorietà di un contratto scritto di tirocinio. Il contratto
dovrebbe vertere sui contenuti di apprendimento (obiettivi didattici,
supervisione) e sulle condizioni di lavoro (durata limitata, orario di
lavoro, chiara indicazione della corresponsione o meno di una retribuzione o di
altra indennità ai tirocinanti ed eventuale copertura sociale). I soggetti
promotori dei tirocini dovrebbero essere tenuti ad indicare nell’avviso di
posto vacante se il tirocinio è remunerato.
I tirocini sono un elemento chiave della Garanzia per i giovani proposta dalla Commissione europea nel dicembre 2012 e adottata dal Consiglio dei ministri dell'UE nell'aprile 2013.
Garanzia per i giovani
Si ricorda che la garanzia per i giovani intende assicurare a tutti i
giovani di età inferiore a 25 anni un'offerta qualitativamente valida di
lavoro, il proseguimento degli studi, l'apprendistato o il tirocinio entro
quattro mesi dall'inizio della disoccupazione o dall'uscita dal sistema
d'istruzione formale. Il Piano italiano di attuazione può contare su un
totale di 1,513 miliardi di euro, di cui 567 milioni a titolo di Youth
Employment Initiative, ulteriori 567 milioni a carico del FSE e 379 milioni
a titolo di co-finanziamento nazionale. A tali risorse si potranno aggiungere
ulteriori finanziamenti nazionali e regionali.
Lo scorso luglio, la Commissione europea, nel quadro delle azioni per rilanciare l’occupazione giovanile, ha inaugurato l’Alleanza europea per l’apprendistato, con lo scopo di migliorare la qualità della formazione professionale e l'offerta di contratti di apprendistato in tutta l’UE grazie ad un ampio partenariato tra i principali attori del mondo del lavoro e del settore dell'istruzione.
L’Alleanza promuove misure che saranno finanziate dal Fondo sociale europeo, dall'iniziativa a favore dell’occupazione giovanile e dal programma Erasmus+, il nuovo programma dell’UE per l’istruzione, la formazione e la gioventù. Tali misure dovranno essere adottate con la collaborazione dei potenziali partner individuati dalla Commissione, vale a dire autorità pubbliche, imprese, sindacati, camere di commercio, centri di istruzione e formazione professionale, rappresentanti delle organizzazioni giovanili e servizi per l’occupazione, invitati ad aderire all’Alleanza.
Ma il sistema di apprendimento permanente deve essere orientato anche verso gli adulti: attualmente, infatti, la partecipazione degli adulti all'apprendimento permanente è inferiore al 10 per cento.
Apprendimento permanente
Anche a tale scopo, nel dicembre 2013, la Commissione ha presentato la Comunicazione “Aprire l’istruzione” (COM(2013)654)
con la quale definisce un'agenda europea per la promozione di modalità
di apprendimento e insegnamento innovative e di qualità attraverso le nuove
tecnologie e i contenuti digitali.
Si segnala che, nell’ambito del quadro finanziario 2014-2020, il programma Erasmus+ dispone complessivamente di 1 miliardo e 800 milioni di euro per finanziamenti volti a:
·
1,8 mld di euro destinati all’istruzione
promuovere opportunità di mobilità per studenti, tirocinanti,
insegnanti e altro personale docente;
· creare o migliorare partenariati tra istituzioni e organizzazioni nei settori dell'istruzione, della formazione e dei giovani e il mondo del lavoro;
· sostenere il dialogo e reperire una serie di informazioni concrete, necessarie per realizzare la riforma dei sistemi di istruzione, formazione e assistenza ai giovani.
Il nuovo programma Erasmus+ riunisce in un unico strumento tutti i precedenti programmi di finanziamento dell'Unione nel settore dell'istruzione, della formazione, della gioventù e dello sport, compreso il programma di apprendimento permanente (Erasmus, Leonardo da Vinci, Comenius, Grundtvig), Gioventù in azione e cinque programmi di cooperazione internazionale (Erasmus Mundus, Tempus, Alfa, Edulink e il programma di cooperazione con i paesi industrializzati). Esso comprende inoltre per la prima volta un sostegno allo sport.
Composizione del costo del lavoro
Il costo del lavoro è composto dal costo per salari e stipendi e
dagli altri costi, in particolare, le tasse e le imposte che
gravano sul lavoro. Il rapporto percentuale tra tutte le imposte sul lavoro
(dirette, indirette e contributi previdenziali) e il costo complessivo del
lavoro costituisce il cuneo fiscale. Tanto più alto è il rapporto tanto
più gravosa risulta per il datore di lavoro, a parità di salario corrisposto,
l’assunzione di unità di lavoro aggiuntive. Il cuneo fiscale costituisce
pertanto una delle variabili che influiscono sull’andamento dell’occupazione
e, in fase recessiva, costituisce un ulteriore fattore di depressione del
mercato del lavoro.
La figura che segue evidenzia il livello medio del cuneo fiscale nell’area euro (riferita alla situazione standard di un single senza figli al 67 per cento del reddito medio di un lavoratore):
![]() |
Fonte: OCSE, 2014
Sia il costo medio orario del lavoro sia la struttura del costo del lavoro variano notevolmente tra gli Stati membri. Con riferimento al primo aspetto, il costo medio orario lordo nel 2012 varia da 41,90 euro in Svezia, 40,50 euro in Belgio e 39,20 euro in Danimarca, a 3,70 euro in Bulgaria.
Costo medio orario del lavoro area EU-27(2012)
Differenze significative riguardano anche la composizione del costo del lavoro (salari e stipendi, contributi sociali e altri costi): nel 2012 Malta presenta la più alta percentuale di costo riferito a salari e stipendi (91,1 per cento), seguita dalla Danimarca (87,2 per cento); all’opposto, Svezia, Francia e Belgio. Questi tre paesi hanno registrato la quota più elevata della componente non riconducibile a salari e stipendi (più del 30,0 per cento).
Il grafico che segue evidenzia la scomposizione dei fattori che costituiscono il costo del lavoro nel 2012:
Composizione del costo del lavoro nell’area EU-27(2012 - % del costo totale)
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La riduzione del cuneo fiscale incentiva
l’occupazione
La riduzione del cuneo fiscale costituisce una delle
misure più indicate per incentivare la creazione di nuovi posti di lavoro.
La crisi economica in atto, tuttavia, rende limitato il margine di manovra
dei singoli Stati membri.
Come specificato dalla Commissione[14], al fine di sostenere la domanda di manodopera, Estonia e Croazia hanno ridotto le aliquote dei contributi sociali versati da lavoratori e datori di lavoro, mentre Belgio, Ungheria e Portogallo le hanno ridotte per alcuni gruppi specifici. In Portogallo, inoltre, è previsto il rimborso dei contributi sociali versati ai datori di lavoro che assumono disoccupati più anziani (di età superiore a 45 anni), in una misura compresa tra il 75% e il 100%. La Francia ha introdotto un nuovo credito d’imposta per la competitività e l’occupazione che prevede una riduzione del costo della manodopera. Per quanto riguarda l’offerta di manodopera, la Lettonia ha ridotto l’aliquota dell’imposta sul reddito delle persone fisiche al 24 per cento. In Belgio, il “premio al lavoro” mira ad accrescere le retribuzioni nette meno elevate, riducendo così il rischio della disoccupazione e dei salari bassi. In generale, le raccomandazioni specifiche per paese per il 2013 erano focalizzate sulla riduzione dell’onere fiscale che grava sui lavoratori a basso reddito (Austria, Germania, Ungheria, Lettonia) e sulla riduzione dell’onere fiscale e dei contributi sociali per tutti i lavoratori (Belgio, Repubblica ceca, Germania, Francia, Italia, Paesi Bassi).
A rendere ulteriormente limitati i margini di manovra, si segnala che, in molti Stati membri, l’aumento del costo del lavoro è stato dovuto all’aumento del peso della componente fiscale (imposta delle persone fisiche piuttosto che dei contributi sociali) disposto con intenti di risanamento delle finanze pubbliche.
I grafici che seguono evidenziano l’andamento del costo del lavoro unitario nel periodo 1999-2013 in alcuni Stati dell’area euro.
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Fonte: OCSE, febbraio 2014
Miglioramento della produttività e della
competitività
La riduzione del cuneo fiscale non solo è suscettibile di liberare
risorse per la creazione (o il mantenimento) di posti di lavoro ma può
essere utilizzata anche per il miglioramento della produttività e della
competitività nelle esportazioni, se attuata nell’ambito di più ampie
manovre che incidano su molteplici aspetti dell’assetto economico di un Paese.
Laddove, invece, abbia il principale intento di ridurre la spesa (con
riferimento, in particolare, al settore dei dipendenti pubblici) l’effetto
risulta essere depressivo dei consumi e della domanda interna e non si
tramuta, se non indirettamente, in incentivi alla creazione di nuova
occupazione.
Si ricorda, infine che, anche nell’Analisi annuale della crescita per il 2014 (COM(2013)800), la Commissione individua tra le priorità dell’anno in corso l’alleggerimento del carico fiscale sul lavoro spostandolo verso basi imponibili collegate a consumi, beni immobili e inquinamento, in modo da favorire la crescita e l’occupazione. Tuttavia, la scelta di tale strada risulta vincolata all’esistenza di margini di bilancio che la permettano.
La riduzione del costo del lavoro è raccomandata anche dall’OCSE in quanto essenziale per aumentare gli incentivi al lavoro, in termini di partecipazione alla forza lavoro o di numero di ore lavorate.
Il mercato del lavoro dell’UE risulta frammentato e, soprattutto, squilibrato. A fronte di mercati in cui si registra un eccesso di domanda di lavoro, ve ne sono altri in cui è piuttosto l’offerta di lavoro a rimanere insoddisfatta. Una maggiore possibilità per i lavoratori di spostarsi permetterebbe di riequilibrare i mercati, garantendo occupazione e crescita economica, in linea con l'obiettivo di occupazione di Europa 2020 per la crescita inclusiva (tasso di occupazione del 75 per cento per le donne e gli uomini di età compresa tra 20-64).
La mobilità dei lavoratori all'interno dell'UE è considerata relativamente bassa, se paragonata alle dimensioni del mercato del lavoro e alla popolazione attiva dell'UE. Solo circa 7,5 milioni di forza lavoro europea, su circa 241 milioni (pari al 3,1 per cento), esercita un'attività economica in un altro Stato membro.
La mobilità aiuta la crescita economica
Le stime mostrano che l'aumento della mobilità dopo l'allargamento
ha portato a un aumento del PIL dell'UE dello 0,2 per cento l'anno
tra il 2004 e il 2007. La mobilità è vantaggiosa sia per il Paese di
provenienza sia per quello di destinazione: il PIL dei Paesi dell'UE-15 si
stima sia aumentato di quasi l'1% nel lungo periodo a causa dell’ingresso dei
lavoratori dopo l’allargamento[15].
Il recente aumento della mobilità dagli Stati membri più gravemente colpiti dalla crisi verso quelli che presentano una situazione migliore è l'indicazione del ruolo che la mobilità dei lavoratori all'interno dell'UE potrebbe svolgere. Tuttavia, come dimostrato dalla persistente carenza di manodopera, per esempio, in Germania, così come dall'alto tasso di disoccupazione che continua a caratterizzare, per esempio, Spagna e Portogallo, gli attuali livelli di mobilità non sono commisurati alle enormi disparità tra i paesi, in particolare in termini di tassi di disoccupazione.
Flussi di lavoratori: tasso di emigrazione (in % della popolazione totale) per i paesi selezionati
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Fonte: Eurostat
Flussi di lavoratori: tasso di immigrazione (in % della popolazione totale) per i paesi selezionati
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Fonte: Eurostat
Il tasso di mobilità nella UE è troppo basso
Gli ultimi dati disponibili[16]
mostrano che, malgrado la disoccupazione record in Europa, in 19 paesi dell'Unione
Europea rimangono vacanti due milioni di posti di lavoro (quarto
trimestre 2012). Sebbene l'esistenza di posti vacanti sia una caratteristica
delle normali dinamiche del mercato del lavoro, tuttavia una parte
significativa di questi posti può essere ricondotta a carenze di manodopera
che non possono essere soddisfatte in loco. La disoccupazione in
settori in declino coesiste con la nuova domanda di manodopera dei
settori in crescita. I primi risultati di una recente indagine[17]
dimostrano che quattro su dieci stabilimenti europei (39 per cento – in aumento
del 3 per cento rispetto all’indagine precedente relativa al 2009) hanno difficoltà
a trovare lavoratori con le competenze necessarie. Problemi a trovare
dipendenti adeguatamente qualificati sono più comuni nel settore manifatturiero
(43 per cento) e meno comuni nei servizi finanziari (30 per cento).
La contemporanea crescita della disoccupazione e del numero dei posti vacanti riflette problemi nel processo di job matching, che possono essere correlati a disallineamenti di competenze/titoli di studio richiesti per un certo lavoro e disallineamenti regionali/settoriali.
Influenza dello invecchiamento
Inoltre, l'invecchiamento avrà gravi ripercussioni sia sulla
dimensione e la struttura per età della forza lavoro, rendendo l'incontro tra
offerta e domanda di lavoro ancora più difficile. Attualmente, la forza
lavoro dell'UE è ancora in crescita, ma ad un ritmo molto lento, con la
metà degli Stati membri che sta già sperimentando una forza lavoro in calo.
Entro il 2014, la forza lavoro complessiva dell'UE comincerà a diminuire. Nel
lungo periodo, si stima che la popolazione in età lavorativa nell'UE si ridurrà
di oltre il 10% tra il 2010 e il 2050[18].
Tuttavia, a fronte di un crescente numero di lavoratori che manifestano la loro intenzione di muoversi (che circa 2,9 milioni di cittadini all’anno), solo una limitata percentuale di essi (circa 325.000 persone) si trasferisce effettivamente in un altro Stato membro. I problemi pratici più comuni previsti o incontrati sono la carenza di idonee conoscenze linguistiche per accedere a un lavoro e le difficoltà a trovare lavoro.
La figura che segue illustra la grande potenzialità che offre l’esercizio del diritto alla mobilità se effettivamente attivato.
Quota di coloro che prevedono di lavorare all'estero in futuro (e tra questi, la quota di coloro che vorrebbero farlo nel corso del prossimo anno), 2011-2012
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Fonte: EU - EU Employment and Social Situation Quarterly review , giugno 2013.
L'interesse per la mobilità lavorativa mostrato dai lavoratori non trova realizzazione nella pratica. La limitata trasparenza delle offerte di lavoro e un sostegno insufficiente per superare le difficoltà pratiche, come trovare un lavoro e adeguarsi alla cultura e alla lingua di altri Stati membri, ostacolano l'esercizio volontario del diritto della libera circolazione dei lavoratori. D’altro canto, i datori di lavoro europei non hanno accesso a tutte le possibili competenze presenti nel mercato del lavoro europeo.
Piattaforma informatica comune
Da tempo l’UE si è dotata di uno strumento per agevolare la
mobilità dei lavoratori: EURES costituisce la piattaforma
informatica che consente l’incontro tra domanda e offerta di lavoro,
mettendo in comune le informazione degli Stati membri. Più in particolare, EURES
è una rete volta a promuovere la collaborazione tra la Commissione europea e i servizi pubblici per l'impiego (SPI) dei paesi membri dello
Spazio economico europeo (SEE) (gli Stati membri dell'UE, oltre a Norvegia,
Islanda e Liechtenstein), al fine di scambiare informazioni sulle offerte di
lavoro e di agevolare la mobilità dei lavoratori all'interno dell'UE. Tuttavia,
negli anni di applicazione, EURES non è riuscito a veicolare se non una
quota limitata di domande di lavoro verso l’offerta, mettendo in luce diversi
limiti.
Si stima che, in media, solo il 30 per cento delle offerte di lavoro a livello nazionale sia segnalato sul portale EURES. Tale percentuale varia notevolmente da un paese all'altro: dall'80 per cento della Repubblica ceca allo 0 per cento della Bulgaria e della Croazia. Attualmente a livello europeo non è operato alcuno scambio elettronico automatizzato di curriculum vitae (CV) o di altre informazioni sul profilo dei richiedenti lavoro. La mancanza di trasparenza sui CV limita le possibilità per i datori di lavoro di trovare potenziali candidati con le necessarie abilità e competenze richieste. In tal modo non solo si riducono le opportunità dei datori di lavoro di scegliere da soli, ma si limita anche l'efficacia dell'assistenza loro prestata dai consulenti EURES che, anziché avere accesso diretto ai CV, devono dipendere da un accesso indiretto tramite i consulenti EURES di altri paesi.
I dati raccolti per il 2012 sull’attività di EURES indicano che 29.079 disoccupati hanno trovato un posto di lavoro con l'aiuto di un consulente EURES. Circa un quarto dei collocamenti effettuati è assistita da consulenti EURES nello Stato membro (in entrata) di destinazione e tre quarti di consulenti EURES nel paese di provenienza (in uscita)[19].
Proposta di riforma
Le carenze messe in luce con l’esperienza hanno consigliato la Commissione di proporne una riforma, con la presentazione, lo scorso gennaio, di una
proposta di regolamento specifica (COM(2014)6).
La riforma interverrebbe in un panorama estremamente frammentato, sia a livello dei singoli Stati sia tra gli Stati membri.
La fine del monopolio nella fornitura di servizi per l'impiego ha portato alla nascita di un significativo numero e la varietà di fornitori di servizi nel mercato del lavoro. Oltre al tradizionale ruolo svolto dal servizi pubblici per l’impiego (SPI), altri attori quali servizi per l'impiego privati e del terzo settore, i comuni, le università e le organizzazioni di volontariato sono sempre più attivi nella fornitura di una vasta gamma di servizi ai clienti. Le relazioni tra questi servizi per l'impiego sono caratterizzate spesso dalla cooperazione in varie forme (ad esempio, scambio di posti vacanti attraverso accordi, come in Germania o nei Paesi Bassi), dalla complementarietà dei servizi (ad esempio, i servizi subappaltati per disoccupati di lunga durata, nel Regno Unito, e di valutazione e la prova di abilità, in Francia), nonché dalla concorrenza, ad esempio nel caso delle procedure di appalto e di subappalto. Tuttavia, l’azione di tali soggetti, spesso, risulta limitata, rispetto alle potenzialità di EURES, ad esempio, per i servizi privati, a pagamento e, per questo, meno accessibile peri giovani e le PMI. A loro volta, gli SPI, pur fornendo un servizio gratuito universale, non necessariamente hanno la capacità di soddisfare effettivamente le richieste.
La riforma punta a superare i limiti principali evidenziati dall’esperienza:
· scarsa trasparenza del mercato del lavoro, con la disponibilità incompleta di offerte e di domande di lavoro, accessibili a livello dell'Unione per tutti gli Stati membri;
· limitata capacità di mettere in contatto le offerte e le domande di lavoro a livello dell'UE;
· accesso ineguale ai servizi di EURES nell'UE, in quanto i richiedenti lavoro e i datori di lavoro non ricevono sistematicamente tutte le informazioni necessarie sulla rete EURES, né un'offerta di ulteriore assistenza nella prima fase di assunzione ("mainstreaming");
· disponibilità limitata dei servizi di sostegno;
· scambio inefficiente di informazioni tra gli Stati membri e scarsa cooperazione tra loro.
II Sessione
Garantire l’effettività dei diritti fondamentali nei Paesi dell’Unione
L’articolo 2 del Trattato sull’Unione europea (TUE) recita:
“L'Unione si fonda sui valori del rispetto della dignità umana, della
libertà, della democrazia, dell'uguaglianza, dello Stato di diritto e
del rispetto dei diritti umani, compresi i diritti delle persone appartenenti a
minoranze. Questi valori sono comuni agli Stati membri in una società
caratterizzata dal pluralismo, dalla non discriminazione, dalla tolleranza,
dalla giustizia, dalla solidarietà e dalla parità tra donne e uomini”.
In sostanza, vi è una stretta correlazione tra salvaguardia dei diritti individuali e tutela dello Stato di diritto. Ciononostante, nell’attuale ordinamento dell’UE si registrerebbe, a giudizio di molti critici, un disallineamento tra il progressivo affinamento degli strumenti di tutela dei diritti individuali e la debolezza dei meccanismi di monitoraggio e sanzionatori a fronte di eventuali gravi inosservanze delle regole dello Stato di diritto e della democrazia.
Questo disallineamento è sia sul piano strettamente giuridico che politico determinata, almeno in parte, dall’ambiguità dei Trattati (e della stessa Carta europea per i diritti fondamentali) e dalla ritrosia delle Istituzioni dell’UE ad incidere su una materia su cui permane molto forte la rivendicazione della identità nazionale di ciascuno Stato membro, di cui l’art. 4, par. 2 del TUE impone il rispetto. Si osserva, inoltre, che nonostante le previsioni di cui agli art. 2 e 7 del TUE, l’UE non avrebbe una competenza legislativa generale ad assicurare il rispetto dei diritti umani.
Gli Stati membri sono formalmente vincolati al rispetto dei diritti e principi riconosciuti della Carta, in base al suo art. 51, soltanto "quando attuano il diritto dell'Unione". Al tempo stesso, essi devono rispettare in ogni loro azione, anche di puro rilievo interno, i valori comuni di cui all'articolo 2 del TUE, che includono, tra l'altro, "il rispetto per diritti umani",
Gravi violazioni
L’articolo 7 del TUE disciplina una procedura
attivabile in caso di gravi violazioni da parte di uno Stato membro dei
valori fondanti dell’UE, che al momento non è mai stata utilizzata.
Ai sensi dell’articolo 7 del TUE, il Consiglio dell’UE (deliberando alla maggioranza dei quattro quinti dei suoi membri), su proposta di un terzo degli Stati membri o della Commissione europea, previa approvazione del Parlamento europeo, può constatare che esiste un evidente rischio di violazione grave da parte di uno Stato membro dei valori di cui all'articolo 2 del TUE; prima di tale constatazione il Consiglio ascolta lo Stato membro in questione e può rivolgergli delle raccomandazioni, deliberando secondo la stessa procedura. Il Consiglio europeo può, all’unanimità, constatare una violazione grave e persistente dell’articolo 2 TUE e su tale basi il Consiglio dell’UE può decidere, a maggioranza qualificata, di sospendere alcuni dei diritti derivanti allo Stato membro in questione dall'applicazione dei trattati, compresi i diritti di voto del rappresentante del governo di tale Stato membro in seno al Consiglio.
Come è stato acutamente osservato in dottrina (Von Bogdandy e Ioannidis 2014) le violazioni dello Stato di diritto e dei diritti fondamentali possono assumere carattere endemico in presenza di carenze sistemiche, in alcuni Stati membri, che discendono o dal rispettivo quadro normativo o dalla inadeguatezza degli organi e delle procedure responsabili per la tutela dei diritti.
La Carta dei diritti fondamentali dell’UE, firmata a Nizza il 7 dicembre 2000 e parzialmente modificata nel 2007 a seguito dell’entrata in vigore del Trattato di Lisbona è giuridicamente vincolante per le istituzioni dell’UE e per tutti gli Stati membri dell’UE laddove attuino la legislazione dell’UE.
L’articolo 6, paragrafo 1 del TUE stabilisce, infatti, che l'Unione riconosce i diritti, le libertà e i principi sanciti nella Carta la quale ha lo stesso valore giuridico dei trattati. Ai sensi del secondo periodo del medesimo paragrafo le disposizioni della Carta non estendono in alcun modo le competenze dell'Unione definite nei trattati.
I diritti fondamentali
La Carta riunisce in un unico documento diritti prima dispersi in vari
strumenti legislativi, quali le legislazioni nazionali e dell’UE, nonché le
convenzioni internazionali del Consiglio d'Europa, delle Nazioni Unite (ONU) e
dell’Organizzazione internazionale del lavoro (OIL). Si compone di un preambolo
introduttivo e di 54 articoli, suddivisi in sette capi:
- dignità (dignità umana, diritto alla vita, diritto all'integrità della persona, proibizione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti, proibizione della schiavitù e del lavoro forzato);
- libertà (diritto alla libertà e alla sicurezza, rispetto della vita privata e della vita familiare, protezione dei dati di carattere personale, diritto di sposarsi e di costituire una famiglia, libertà di pensiero, di coscienza e di religione, libertà di espressione e d’informazione, libertà di riunione e di associazione, libertà delle arti e delle scienze, diritto all'istruzione, libertà professionale e diritto di lavorare, libertà d'impresa, diritto di proprietà, diritto di asilo, protezione in caso di allontanamento, di espulsione e di estradizione);
- uguaglianza (uguaglianza davanti alla legge, non discriminazione, diversità culturale, religiose e linguistica, parità tra uomini e donne, diritti del bambino, diritti degli anziani, inserimento dei disabili);
- solidarietà (diritto dei lavoratori all'informazione e alla consultazione nell'ambito dell'impresa, diritto di negoziazione e di azioni collettive, diritto di accesso ai servizi di collocamento, tutela in caso di licenziamento ingiustificato, condizioni di lavoro giuste ed eque, divieto del lavoro minorile e protezione dei giovani sul luogo di lavoro, vita familiare e vita professionale, sicurezza sociale e assistenza sociale, protezione della salute, accesso ai servizi d’interesse economico generale, tutela dell'ambiente, protezione dei consumatori);
- cittadinanza (diritto di voto e di eleggibilità alle elezioni del Parlamento europeo e alle elezioni comunali, diritto ad una buona amministrazione, diritto d'accesso ai documenti, Mediatore europeo, diritto di petizione, libertà di circolazione e di soggiorno, tutela diplomatica e consolare);
- giustizia (diritto a un ricorso effettivo e a un giudice imparziale, presunzione di innocenza e diritti della difesa, principi della legalità e della proporzionalità dei reati e delle pene, diritto di non essere giudicato o punito due volte per lo stesso reato);
- disposizioni generali.
Si può peraltro rilevare che i diritti richiamati trovano larga corrispondenza in quelli già sanciti dalle Costituzioni nazionali degli Stati membri e dalle tradizioni costituzionali comuni dei Paesi membri. Vi sarebbe inoltre un rapporto di parziale corrispondenza tra la Carta e la Convenzione europea dei diritti dell’uomo CEDU, redatta in seno a una organizzazione internazionale distinta quale è il Consiglio d’Europa.
Peraltro la Carta richiama la Convenzione europea dei diritti dell’uomo stessa come criterio di interpretazione, con la precisazione che qualora uno qualsiasi dei diritti corrisponda ai diritti garantiti dalla CEDU, il suo significato e campo d'applicazione deve essere uguale a quello definito dalla Convenzione, salva la possibilità che il diritto dell’Unione europea possa prevedere una maggiore tutela (principio dello standard massimo di protezione).
Ambito e modalità di applicazione
La Carta, come già accennato, si applica:
- alle istituzioni dell’UE nel rispetto del principio della sussidiarietà e in nessun caso può ampliare le competenze ed i compiti a queste attribuiti dai trattati;
- agli Stati membri, esclusivamente quando danno attuazione alla normativa dell’UE. Per converso, laddove una normativa nazionale non costituisca una misura di attuazione del diritto dell’Unione o non presenti elementi di collegamento con quest’ultimo non si applica la Carta.
In virtù del conferimento (a seguito del Trattato di Lisbona) alla Carta di Nizza della stessa forza giuridica dei Trattati, attualmente quando singoli o imprese ritengono che un atto delle istituzioni dell’UE che li riguarda direttamente violi i loro diritti fondamentali, essi possono adire la Corte di giustizia, la quale, nel rispetto di determinate condizioni, ha il potere di annullare tale atto. Non sono tuttavia ammissibili da parte della Corte i ricorsi di persone fisiche contro altre persone fisiche o giuridiche o contro uno Stato membro.
La Convenzione europea dei diritti dell'uomo (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950 nell’ambito del Consiglio d'Europa (che non è istituzione o organismo dell’Unione europea), consiste in un sistema di tutela internazionale dei diritti dell'uomo a disposizione dei singoli soggetti interessati.
Si tratta di un atto internazionale che impegna gli Stati aderenti a rispettare, nei confronti dei soggetti che ricadono nella loro giurisdizione, i diritti in essa enunciati, e a consentire (ove tali diritti siano violati) di adire la Corte all’uopo istituita, la quale ha il compito di accertare e dichiarare l’avvenuta violazione da parte dello Stato aderente convenuto, a sua volta tenuto ad eseguire la sentenza.
La Convenzione, successivamente ratificata da tutti gli Stati membri dell'UE[20], istituisce pertanto diversi organi di controllo, con sede a Strasburgo. I principali sono:
· la Corte europea dei diritti dell'uomo, come detto, principale meccanismo giudiziario per l’applicazione dei diritti enunciati nella Convenzione ;
· il Comitato dei Ministri del Consiglio d'Europa, che svolge il ruolo di custode della CEDU e si pronuncia in merito alle controversie sulle violazioni della CEDU che non siano state trattate dalla Corte.
La Corte di
Strasburgo
Come accennato, la Corte europea dei diritti dell’uomo, con sede a
Strasburgo, è l’organo giurisdizionale volto ad assicurare il rispetto
della CEDU da parte degli Stati contraenti. E’ competente a giudicare
«tutte le questioni riguardanti l’interpretazione e l’applicazione della
Convenzione e dei suoi Protocolli» (art. 32 della CEDU) e può essere adita
una volta esauriti i rimedi interni previsti dal diritto
nazionale, in omaggio ai principi di sovranità dello Stato, di dominio
riservato e di sussidiarietà, per i quali uno Stato prima di essere
chiamato a rispondere di un proprio illecito sul piano internazionale, deve
avere la possibilità di porre termine alla violazione all’interno del
proprio ordinamento giuridico.
Il ricorso può essere proposto sia da ciascuno Stato contraente (c.d. ricorso interstatale) sia da una persona fisica, da un’organizzazione non governativa o da un gruppo di individui (c.d. ricorso individuale); in entrambi i casi il ricorso va proposto nei confronti di uno o più Stati contraenti: non sono dunque ammessi atti diretti contro privati (persone fisiche od istituzioni).
L‘art. 6, par. 2 del TUE prevede l’adesione dell’UE alla CEDU, precisando che tale adesione non modifica le competenze dell’Unione definite dati Trattati. Il processo di adesione non si è ancora concluso.
Le tappe
A partire dal luglio 2010, rappresentanti della Commissione
europea e del Comitato direttivo per i Diritti dell’Uomo del Consiglio d’Europa
si sono riuniti regolarmente per elaborare l’accordo di adesione. Al termine
del processo, l’accordo sarà concluso dal Comitato dei Ministri del
Consiglio d’Europa e, all’unanimità, dal Consiglio dell’UE. Anche il Parlamento
europeo, che deve essere pienamente informato di ciascuna delle fasi dei
negoziati, deve dare la propria approvazione. Una volta concluso, l’accordo
dovrà essere ratificato da tutte le 47 parti contraenti della CEDU,
conformemente alle rispettive disposizioni costituzionali.
Il 5 aprile scorso si è raggiunto un accordo a livello di negoziatori; su tale accordo il Consiglio Giustizia e affari interni del 6-7 giugno ha espresso apprezzamento, sottolineando che l’adesione dell’UE alla CEDU aumenterà ulteriormente la coerenza in materia di protezione dei diritti umani in Europa, intensificando altresì il dialogo in ambito giudiziario e migliorando la coerenza della giurisprudenza.
L’accordo è attualmente sottoposto al giudizio della Corte di giustizia dell’Unione europea che dovrà formulare un parere di compatibilità del testo con i Trattati istitutivi (secondo notizie informali, il parere dovrebbe essere espresso nel luglio del 2014).
In estrema sintesi (e considerato che sono tuttora allo studio le possibili conseguenze di un tale processo), l’adesione dell’Unione europea alla CEDU dovrebbe comportare:
- un controllo giurisdizionale aggiuntivo nel settore della tutela dei diritti fondamentali nell’Unione. Sarà in effetti competenza della Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo sindacare, ai fini del rispetto della Convenzione, gli atti delle istituzioni, degli organi e organismi dell’UE, ivi comprese le sentenze della Corte di giustizia;
- l’azionabilità da parte di qualunque individuo di un nuovo mezzo di ricorso: sarà possibile infatti adire la Corte dei diritti dell’uomo in caso di violazione dei diritti fondamentali imputabile all’Unione, a condizione però che siano già esaurite tutte le vie di ricorso interne.
Allo stato appare di difficile valutazione l’apporto della futura adesione dell’Ue alla CEDU in termini di effettivo rafforzamento dei diritti fondamentali. In particolare, appare arduo prefigurare quanto l’integrazione di due sistemi giuridici separati possa contribuire ad esaltare i risultati sino ad ora conseguiti per via giurisprudenziale, o - al contrario -mettere in luce le differenze tra i due ordinamenti.
Verso un sistema integrato
Da più parti si sottolinea che l’adesione dell’UE alla CEDU dovrebbe
determinare il superamento dell’attuale assetto dei rapporti di
convivenza/armonizzazione tra i due sistemi, alla cui definizione, tra l’altro,
hanno contribuito alcune pronunce della Corte di Strasburgo, in particolare
quelle riconducibili alla tesi del conflitto di lealtà (in virtù della
responsabilità degli Stati membri sia verso la Convenzione sia verso l’Unione), e alla dottrina del principio di presunzione di protezione
equivalente del sistema giuridico dell’Unione circa la tutela dei diritti,
rispetto ai livelli di tutela accordati dalla Convenzione).
La teoria del conflitto di lealtà origina da una giurisprudenza consolidata della Corte EDU (in particolare le sentenze Cantoni c. Francia del 15 novembre 1996, e Matthews c. Regno Unito del 18 febbraio 1999), secondo la quale l’adesione ad una organizzazione sopranazionale con cessione alla stessa di parti della competenza propria statale, non elimina il vincolo degli Stati rispetto alla Convenzione; di conseguenza, essendo gli Stati membri responsabili sia nei confronti dell’Unione, sia rispetto alla Convenzione per quanto riguarda gli effetti della applicazione del diritto comunitario nell’ambito della propria giurisdizione, ciò può determinare la possibilità di un conflitto di lealtà degli Stati verso la Convenzione e verso l’Unione.
Secondo la dottrina della presunzione di protezione equivalente (contenuta nella sentenza Bosphorus c. Irlanda del 30 giugno 2005), in sintesi, il sistema giuridico dell’Unione offre garanzie equivalenti di protezione dei diritti dell’uomo e, fatte salve insufficienze manifeste che emergano in un caso specifico, deve presumersi che uno Stato membro rispetti le esigenze della Convenzione quando non fa altro che dare esecuzione agli obblighi giuridici risultanti dalla adesione all’Unione[21]. Tale pronuncia ridimensiona il rischio di manifestazione del conflitto di lealtà testé descritto, stabilendo una sorta di principio di armonizzazione tra i due sistemi (CEDU e UE) elaborato in sede giurisprudenziale.
Principali criticità
Circa gli effetti dell’adesione, una prima questione riguarda il
livello di omogeneizzazione reciproca tra il sistema dei diritti fondamentali
disegnato dalla Carta (come detto, più ampio e articolato rispetto a quello dei
diritti umani CEDU), ed il corrispondente sistema definito nell’ambito della
Convenzione e dalle pronunce adottate dalla Corte di Strasburgo. In proposito
si possono ipotizzare due prospettive: la prima, più ottimistica, per
cui le Corti di Strasburgo e di Lussemburgo tenderanno ad assimilare
progressivamente i loro orientamenti; la seconda, più problematica, per cui
potrebbero verificarsi distonie negli orientamenti giurisprudenziali, con
particolare riguardo all’eventualità di situazioni in cui si debbano
contemperare più diritti fondamentali.
Va al riguardo considerato che tra la Carta dei diritti fondamentali, le disposizioni dei Trattati UE e le tradizioni costituzionali degli Stati membri, come riconosciuti dall’art. 6 del Trattato sull’Unione europea si è andata progressivamente consolidando una sostanziale osmosi che non è riscontrabile nella medesima misura tra i Paesi (in numero maggiore) membri del Consiglio d’Europa e che hanno aderito alla CEDU.
Una seconda questione discende dalla possibilità che, a seguito dell’adesione UE alla CEDU, le sentenze (in quanto atto di una istituzione dell’Unione europea) della Corte di giustizia possano essere oggetto di sindacato da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo. Potrebbe, in particolare, verificarsi la possibilità di pronunce discordanti in ragione del diverso parametro cui le due Corti fanno riferimento. In proposito occorre considerare che, in ogni caso, il rapporto tra le pronunce della Corte di giustizia e quelle della Corte di Strasburgo non può configurarsi in termini gerarchici o di diverso grado di giudizio proprio in ragione del fatto che i testi che le due Corti assumono a riferimento per le rispettive decisioni sono differenti. Ciononostante, non può escludersi, in linea di principio, l’eventualità di una condanna della Corte di Strasburgo ai danni dell’Unione europea anche con riferimento a sentenze della Corte di giustizia aventi ad oggetto i diritti fondamentali.
Sull’adeguatezza degli attuali meccanismi di controllo del rispetto dei valori fondanti UE, e con specifico riferimento all’effettiva capacità di coerenza interna/esterna dell’Unione europea nel settore dei diritti fondamentali, sono stati sollevati forti rilievi e critiche:
In particolare si è osservato che mentre la valutazione del rispetto dei valori fondamentali dell’UE è parte fondamentale del processo di adesione di un paese all’UE, sulla base dei cosiddetti criteri di Copenhagen,[22] una volta completata l’adesione all’UE non vi sono effettivi strumenti di natura “preventiva” volti a monitore e promuovere il rispetto dei valori fondamentali, in una sorta di governance sui diritti fondamentali, se non il ricorso alla procedura di cui all’art. 7 del TUE, che però si configura come uno strumento che agisce sostanzialmente ex post. Tale situazione è stata assimilata da alcuni osservatori alla situazione che ha poi condotto, in seguito alla crisi economica e finanziaria, al rafforzamento degli strumenti volti a stabilire una più forte della governance in ambito economico e finanziario attraverso il completamento del coordinamento ex post delle politiche economiche con un coordinamento ex ante nell’ambito del semestre europeo.
Criteri di Copenhagen
Ne conseguirebbe il paradosso che l’Unione europea sarebbe
maggiormente propensa, sulla base di sorta di doppio standard, e
promuovere i diritti umani al di fuori di essa piuttosto che ad assicurare al
suo interno il rispetto dei medesimi da parte degli Stati membri.
Secondo le posizioni prevalenti nel dibattito istituzionale e in dottrina, per rendere efficaci il monitoraggio e la salvaguardia dei valori fondamentali dell’Unione occorre intervenire sia sul pieno utilizzo degli strumenti di tutela delle posizioni individuali sia mediante l’introduzione di specifiche procedure di prevenzione e correzione di violazioni “sistemiche” da parte di uno Stato membro.
Due livelli di tutela
Con riguardo al primo profilo, occorre considerare che la tutela
delle posizioni soggettive si è sinora consolidata attraverso due
canali complementari.
Il primo è costituito dalla creazione di una rete di regole di natura primaria, contenute nei Trattati sull’UE, nella Carta dei diritti fondamentali dell’UE, che ha acquisito dal 2009 lo stesso valore dei Trattati, dai principi generali dell’ordinamento europeo, riconosciuti dalla Corte di giustizia e dalle costituzioni nazionali e dalla Convenzione europea per i diritti dell’uomo, espressamente richiamata dai Trattati, alla quale a breve l’Unione aderirà.
La giurisprudenza
Il secondo è rappresentato dal lavoro svolto dai giudici
europei e nazionali. È, al riguardo, di particolare significato
l’individuazione da parte della Corte di giustizia, quale criterio
“ordinatore” di questa rete non gerarchica e quindi potenzialmente conflittuale
di regole e principi, di standard comparativi per la definizione del livello
minimo di protezione dei singoli diritti fondamentali riconosciuto dagli
ordinamenti nazionali e dalla Carta europea nonché per il bilanciamento tra i
diritti fondamentali e interessi pubblici potenzialmente conflittuali. Si
delinea in tal modo un parametro che potrebbe favorire la tendenziale
armonizzazione dei livelli di tutela differenti accordati in ciascun Paese
ai diritti, ferma restando la clausola di “non arretramento” prevista
dall’art. 53 della Carta europea.
Ciò potrebbe consentire, a lungo termine, di ridurre la forte divergenza di interpretazioni tra gli Stati membri dei principi e valori fondamentali indicati nell’art. 2 del TUE.
Come migliorare l’attuale sistema di tutela
I progressi già compiuti al riguardo e gli
ulteriori avanzamenti che si potranno realizzare potrebbero tuttavia
non risultare sufficienti.
Si pone allora il problema di verificare quali spazi siano disponibili per iniziative di carattere legislativo. Il legislatore europeo sta già definendo progressivamente standard minimi comuni di tutela dei diritti attraverso atti normativi di natura orizzontale o relativi specifici settori di azione dell’Unione: è il caso delle direttive relative alle discriminazioni basate sul genere, sulla razza o etnia, sulla religione, l’età e l’orientamento sessuali, degli atti normativi concernenti i diritti processuali in ambito penale o civile ovvero relativi a specifiche materie, come la riservatezza nel trattamento dei dati personali o il diritto di accesso in materia ambientale.
E’ dunque evidente che ove l’Unione si avvalesse di tutte le potenzialità offerte dalla basi giuridiche esistenti nei Trattati per garantire un livello minimo comune di tutela di diritti e libertà fondamentali, si potenzierebbero gli strumenti a disposizione per esercitare una pressione sullo Stato membro interessato a porre termine alle violazioni già accertate e ad evitarne di nuove.
Scoreboard giustizia
La necessità di rafforzare i meccanismi di monitoraggio, di
prevenzione e di eventuale sanzione a livello europeo contro le
violazioni gravi e sistemiche dei valori dell’Unione e quindi dei diritti
fondamentali e dello Stato di diritto viene ormai ampiamente riconosciuta,
sebbene con sfumature diverse, anche da parte sia delle Istituzioni dell’UE.
La Commissione europea ha già tentato di stabilire meccanismi, sia pur parziali, di monitoraggio sistematico, attraverso lo Scoreboard sulla giustizia e la sua integrazione nella procedura del semestre europeo per il coordinamento ex ante delle politiche economiche, la relazione annuale sull’applicazione della Carta europea per i diritti fondamentali.
In particolare, il rapporto pone l’Italia agli ultimi posti per quanto riguarda il tempo necessario per la definizione delle controversie civili o commerciali (circa cinquecento giorni) ed il numero di cause pendenti. Dati al di sotto della media europea emergono per il nostro Paese circa i programmi di formazione a disposizione dei giudici, e il rapporto tra numero di giudici e popolazione complessiva.
I dati contenuti nel rapporto saranno utilizzati per preparare le analisi riferite ai singoli Paesi nell’ambito del processo del semestre europeo 2013, così come per l’eventuale adozione di raccomandazioni da parte della Commissione da indirizzare agli Stati membri. La pubblicazione del Rapporto 2014 è programmata per la metà di marzo 2014.
Tempo necessario per definire i contenziosi civili e commerciali* (in giorni):
Numero di contenziosi civili e commerciali pendenti (per 100 abitanti):
Numero di giudici (per 100 000 abitanti):
Anche il Parlamento europeo offre un importante contributo con la risoluzione annuale sulla situazione dei diritti umani in europea, approvata sulla base di una relazione della sua Commissione per le libertà civili. Un significativo contributo è assicurato inoltre dall’Agenzia per i diritti fondamentali, che nelle sue relazioni annuali ha definito appositi indicatori”.
L’Agenzia per i diritti fondamentali
A partire dal 1° marzo 2007, è entrata in funzione l’Agenzia dell’Unione europea per i diritti fondamentali, con sede a Vienna. L’Agenzia, che sostituisce l’Osservatorio europeo dei fenomeni di razzismo e xenofobia, ha lo scopo di fornire alle istituzioni dell’UE e agli Stati membri, nell’attuazione del diritto comunitario, assistenza e consulenza in materia di diritti fondamentali, in modo da aiutarli a rispettare pienamente tali diritti nell’adozione di misure o nella definizione di iniziative nei loro rispettivi settori di competenza.
Il regolamento istitutivo attribuisce all’Agenzia i seguenti compiti:
- formulare e pubblicare conclusioni e pareri per l’Unione e per gli Stati membri quando danno attuazione al diritto dell’UE, di propria iniziativa o a richiesta del Parlamento europeo, del Consiglio o della Commissione;
- rilevare, registrare, analizzare e diffondere informazioni e dati rilevanti; svolgere o promuovere la ricerca e le indagini scientifiche;
- pubblicare una relazione annuale sulle questioni inerenti ai diritti fondamentali che rientrano nei settori di azione dell’agenzia, segnalando anche gli esempi di buone pratiche;
- predisporre una strategia di comunicazione e favorire il dialogo con la società civile, per sensibilizzare il vasto pubblico in materia di diritti fondamentali e informarlo attivamente sui suoi lavori;
L’Agenzia non può invece esaminare ricorsi di singole persone fisiche o giuridiche. Inoltre, i compiti dell'Agenzia devono essere svolti entro i limiti dei settori tematici definiti in un quadro pluriennale che è adottato con decisione del Consiglio.
Il dibattito si è orientato nel senso di approfondire l’ipotesi - de jure condendo - di un nuovo meccanismo dell'Unione europea che garantisca efficacemente il rispetto dei diritti fondamentali, dello Stato di diritto, della democrazia e della giustizia.
In una lettera al Presidente della Commissione europea del 6 marzo 2013, i Ministri degli esteri tedesco, olandese, danese e finlandese hanno presentato un’iniziativa tesa a rafforzare i meccanismi di salvaguardia della democrazia, dei valori fondamentali, e dello Stato di diritto. In essa si prospettava l’introduzione di procedure attraverso le quali la Commissione o il Consiglio potessero chiedere in una fase precoce allo Stato interessato di porre rimedio ad eventuali violazioni.
In particolare, si suggeriva di fondare tali procedure su accordi bilaterali cogenti tra la Commissione e gli Stati membri. Inoltre l’iniziativa dei quattro Ministri prevedeva l’ipotesi di sanzionare, in ultima istanza, lo Stato inadempiente con la sospensione dell’erogazione dei fondi stanziati dall’UE.
Le reazioni all’iniziativa dei Ministri
In sede di discussione di tale proposta nell’ambito del Consiglio
dell’UE numerosi Paesi hanno espresso un sostegno di massima
all’iniziativa; altri (in particolare Italia, Francia e Regno
unito), pur apprezzando gli obiettivi dell’iniziativa, hanno invitato a privilegiare
la migliore utilizzazione degli strumenti vigenti (meccanismo ex articolo 7
del TUE).
Sul tema è tornato a pronunciarsi il Consiglio del 6-7 giugno 2013, avente ad oggetto i diritti fondamentali e lo stato di diritto e la relazione 2012 della Commissione sull’applicazione della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.
Nelle conclusioni relative a tale incontro, il Consiglio, in sintesi:
- ha ribadito l’importanza dell’applicazione della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, e del processo in atto di adesione dell’Unione alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo;
- ha invitato la Commissione a portare avanti nel 2013 un processo di dialogo, dibattito e impegno (sul rispetto dei diritti fondamentali e sui principi dello stato di diritto, e su un possibile nuovo meccanismo di salvaguardia degli stessi), che siano inclusivi con tutti gli Stati membri, le Istituzioni Ue nonché tutti i soggetti interessati;
- ha annunciato di avviare una riflessione sull’eventuale necessità e possibile forma di metodi o iniziative per salvaguardare meglio i valori fondamentali, in particolare lo stato di diritto e i diritti fondamentali delle persone nell’’Unione e per contrastare forme estreme di intolleranza, quali razzismo, l’antisemitismo la xenofobia e l’omofobia.
Il Presidente della Commissione europea, Josè Manuel Barroso, nel discorso sullo stato dell’Unione, pronunciato al Parlamento europeo l’11 settembre 2013, ha fatto riferimento alla necessità di superare la dicotomia tra il “potere leggero” della persuasione politica e l’”opzione nucleare” del ricorso alla procedura ex articolo 7 del TUE, dotandosi di un solido meccanismo europeo.
Il Presidente della Commissione ha altresì sottolineato quanto sia importante che la Commissione europea agisca in veste di arbitro indipendente ed obiettivo e si doti di un quadro generale, informato al principio dell’uguaglianza fra gli Stati membri, intervenga solo quando sussista un serio rischio sistemico per lo Stato di diritto, in funzione di parametri predefiniti.
Barroso annunciava, infine, che la Commissione europea avrebbe presentato una comunicazione in tal senso (che al momento non è stata ancora presentata).
Le linee guida del futuro meccanismo
Il Vicepresidente della Commissione europea, Viviane Reding, commissario responsabile per la giustizia in una serie di interventi recenti, ha indicato che le linee guida di un futuro meccanismo per il controllo sullo Stato di diritto nell’UE dovrebbero essere:
· preservare la piena legittimità della Commissione europea nell’applicazione di tale meccanismo, evitando che la Commissione europea agisca sulla base di pressioni politiche;
· ricorso ad una forte expertise per sostenere l’azione della Commissione in tale ambito. In tale ambito si prospetta la possibilità di sviluppare ulteriormente l’iniziativa del Quadro di valutazione UE della giustizia (UE Justice Scoreboard) avviata nel 2013 (vedi scheda);
· principio di uguaglianza tra gli Stati membri, per cui il meccanismo di dovrebbe applicare senza riguardo della dimensione o “peso politico” del singolo Stato membro coinvolto;
Il Commissario Reding ha proposto un approccio in due fasi:
· inizialmente sfruttare il potenziale già offerto dalle norme esistenti dei Trattati ed in particolare dell’articolo 7 del TUE. In analogia con quanto avviene nell’ambito dell’applicazione dell’art. 258 del Trattato sul funzionamento dell’UE (TFUE) relativo alla procedura di infrazione per violazione da parte di uno Stato membro degli obblighi previsti dal Trattato, si potrebbe far precedere l’avvio formale della procedura ex art. 7 del TUE (la proposta motivata della Commissione o da un terzo degli Stati membri) da una lettera “di messa in mora” con la quale la Commissione europea potrebbe evidenziare il possibile prodursi di una violazione di natura sistematica dello stato di diritto. Tale innovazione potrebbe essere introdotta attraverso una comunicazione della Commissione europea approvata dal Consiglio europeo e dal Parlamento europeo;
· successivamente, valutare possibili modifiche ai Trattati, quali:
- l’abbassamento della soglia per la prima fase della procedura ex art. 7 del TUE (la constatazione di un rischio di violazione grave da parte di uno Stato membro dei valori dell’UE, per la quale attualmente si prevede una decisione del Consiglio a maggioranza dei quattro quinti dei suoi membri);
- l’estensione dei poteri dell’Agenzia per i diritti fondamentali, il cui mandato è attualmente limitato all’analisi dello stato dei diritti fondamentale esclusivamente a livello di UE e non a livello nazionale;
- espandere il ruolo della Corte di giustizia dell’UE nell’ambito di un futuro meccanismo europeo per il rispetto dello stato di diritto. Attualmente, infatti, la Corte europea può solo controllare se la procedura prevista dall’art. 7 del TUE è stata rispettata;
- l’abolizione dell’articolo 51 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE (che prevede che le disposizioni della Carta si applichino, oltre che alle istituzioni dell’UE anche agli Stati membri, ma esclusivamente nell’attuazione del diritto dell’Unione), sancendo così il principio dell’applicazione diretta dei diritti fondamentali della Carta negli Stati membri. Tale modifica è considerata la più ambiziosa in una prospettiva di evoluzione federale dell’UE.
Il Parlamento europeo (PE) in più occasioni si è espresso a favore della creazione di un nuovo meccanismo atto a far rispettare efficacemente i valori fondanti dell’UE enunciato all'articolo 2 del Trattato sull'Unione europea.
Da ultimo, il 27 febbraio 2014, il PE ha adottato una risoluzione sulla situazione dei diritti fondamentali dell’UE per il 2012 nella quale, indica che occorre applicare e attuare con urgenza tutti gli strumenti attualmente previsti dai trattati così come preparare, se del caso, le modifiche da apportare ai trattati. Il PE considera che le politiche in materia di diritti fondamentali debbano innanzitutto impedire il verificarsi di violazioni, in particolare attraverso strumenti di prevenzione e di ricorso accessibili prima dell'adozione di una decisione o di una misura.
Le proposte di rafforzamento al Trattato vigente
Il PE ritiene sia necessario predisporre un “nuovo meccanismo di
Copenhagen”, volto a monitorare in maniera efficiente e vincolante
l'osservanza dei criteri di Copenaghen da parte di ciascun Stato membro, e che
dovrebbe:
Prospettive di modifica ai Trattati
Per quanto riguarda, invece, le possibili future modifiche ai
Trattati, il PE chiede che vengano esaminate le seguenti proposte:
· una revisione dell'articolo 7 del trattato UE aggiungendo una fase di «applicazione dell'articolo 2 del trattato UE» e separando la fase del «rischio» da quella della «violazione» con soglie differenti a seconda delle maggioranze previste; il rafforzamento dell'analisi tecnica e obiettiva (e non soltanto politica); un dialogo più serrato con le istituzioni degli Stati membri e un più ampio ventaglio di sanzioni dettagliate e prevedibili applicabili lungo l'intera procedura;
· la messa a punto di un meccanismo più incisivo e dettagliato per il coordinamento e la supervisione nel settore dei diritti fondamentali, basato sull'articolo 121 del trattato sul funzionamento dell'Unione europea;
· l'ampliamento delle possibilità di ricorso e delle competenze della Commissione e della Corte di giustizia;
· un riferimento all'Agenzia per i diritti fondamentali nei trattati, ivi compresa una base giuridica che permetta di emendare il regolamento che la istituisce, non all'unanimità, come avviene attualmente, bensì mediante la procedura legislativa ordinaria;
· la soppressione dell'articolo 51 della Carta dei diritti fondamentali; permettere al Parlamento di avviare procedure relative alla violazione dell'articolo 2 del TUE su un piede di parità con la Commissione e il Consiglio e prevedere che la FRA possa fornire il suo sostegno specializzato durante la procedura;
· la revisione del requisito dell'unanimità nei settori relativi al rispetto, alla tutela e alla promozione dei diritti fondamentali, come l'uguaglianza e la non discriminazione (articolo 19 del TFUE).
Il Consiglio d’Europa è la prima organizzazione internazionale costituitasi in Europa dopo la 2a guerra mondiale. Con l’adesione, da ultimo, del Montenegro l’11 maggio 2007, si è estesa fino a comprendere la quasi totalità del continente (ne sono membri 47 paesi europei, resta esclusa solo la Bielorussia).
Il CdE, fin dalla sua fondazione, opera per assicurare il rispetto di tre principi fondamentali:
· la democrazia pluralista;
· il rispetto dei diritti umani;
· la preminenza del diritto.
A complemento di questi principi, il CdE opera per la valorizzazione dell’identità culturale europea attraverso la lotta contro ogni forma di intolleranza, l’individuazione di soluzioni per i problemi sociali (quali le minoranze linguistiche, politiche o culturali, la xenofobia, la protezione ambientale, la bioetica, l’AIDS, le tossicodipendenze) e infine la salvaguardia della qualità della vita dei popoli dell’Europa.
Con il progressivo ampliamento ad Est dell’organizzazione, verificatosi a partire dagli anni Novanta a seguito della caduta della cosiddetta «cortina di ferro», ha assunto particolare importanza l’aiuto ai paesi dell’Europa centrale e orientale nell’attuazione e nel rafforzamento delle riforme politiche, legislative e costituzionali.
I lavori del Consiglio d’Europa si traducono nella elaborazione di convenzioni e accordi a livello continentale, che costituiscono la base per l’armonizzazione delle legislazioni nei diversi stati membri. Alcuni accordi possono essere ratificati anche da paesi non membri. Il CdE adotta anche accordi parziali, che rappresentano una forma di cooperazione a geometria variabile volta a consentire ad un certo numero di stati membri, in accordo tra loro, di sviluppare una attività in un campo specifico di interesse comune.
All’inizio degli anni ’90, con la caduta della “cortina di ferro” e la conseguente entrata nel Consiglio d’Europa dei paesi di “nuova democrazia”, l'Assemblea parlamentare si è dotata di una procedura di monitoraggio degli obblighi e degli impegni assunti dagli Stati membri, con particolare riferimento al rispetto dei diritti fondamentali e allo stato della democrazia.
Il dibattito politico all’interno del Consiglio d’Europa, sul tema dell’ampliamento e delle relative modalità, è stato in quegli anni molto intenso. Prevalse la posizione di chi sosteneva la possibilità di un maggiore dialogo e controllo sulle autorità dei paesi richiedenti l’adesione se si fosse permesso l’ingresso anche in difetto di tutte le condizioni previste dai principi fondativi del Consiglio d’Europa, richiedendo però in sede di negoziato di adesione tutta una serie di impegni che i governi dei paesi richiedenti dovevano assumere.
Nel 1993, con la Direttiva 488 , l'Assemblea parlamentare ha incaricato le Commissioni politica e giuridica di "monitorare attentamente il rispetto degli impegni assunti dalle autorità dei nuovi Stati membri e di riferire ogni sei mesi fino a quando saranno rispettati tutti gli impegni". Con la Direttiva 485 (1993) ha incaricato la Commissione giuridica di "riferire sulla situazione dei diritti umani negli Stati membri, compresa l'attuazione delle sentenze della Corte europea dei diritti dell'uomo".
Nel 1997 è stata istituita una apposita Commissione di monitoraggio (cd Commissione di suivi), incaricata di controllare il rispetto degli obblighi derivanti dallo Statuto del CdE, dalla Convenzione dei diritti dell’uomo e da ogni altra Convenzione CdE, da parte degli Stati membri dell’Organizzazione, nonché degli impegni assunti dalle autorità degli Stati al momento della loro adesione al CdE. In linea di principio, la procedura si applica a tutti i nuovi Stati membri, sei mesi dopo la loro adesione.
Due relatori vengono nominati per ogni paese, rispettando l’equilibrio politico e geografico. Vi sono norme precise per evitare i conflitti d’interesse dei relatori, richiedendo inoltre l’applicazione dei principi di neutralità, imparzialità, obiettività e l’obbligo alla discrezione.
I rapporti, nelle loro risoluzioni, presentano proposte per il miglioramento della situazione nei paesi in oggetto, eventualmente con delle raccomandazioni al Comitato dei Ministri CdE.
I paesi nuovi entrati sono, dopo il 1997, oggetto sistematicamente di una procedura di monitoraggio. Tale procedura può però applicarsi a tutti i Paesi membri del Consiglio d’Europa[23].
La procedura di monitoraggio prevede che l’Assemblea cdE possa sanzionare il persistente mancato rispetto degli impegni e degli obblighi assunti, arrivando anche a non ratificare i poteri di una delegazione nazionale, oppure annullandone i poteri nel corso di una sessione. Se la mancanza si protrae, l’Assemblea può rivolgere al Comitato dei Ministri la richiesta di sanzionare il Paese inadempiente con le misure previste agli artt. 7 e 8 dello Statuto CdE, ovvero la sospensione e/o l’estromissione dall’Organizzazione.
Alla chiusura della procedura di monitoraggio, l’Assemblea può chiedere l’attivazione del cosiddetto Dialogo post-suivi, su alcune questioni specificamente menzionate nella risoluzione della Commissione, che presenterà un rapporto almeno ogni tre anni.
Ogni anno, la Commissione monitoraggio presenta all’Assemblea un rapporto generale sull’evoluzione delle procedure in corso, con allegati dei rapporti specifici anche su ognuno dei Paesi membri non oggetto della procedura di monitoraggio, basati non solo sul lavoro dell’Assemblea ma anche su quello delle altre istituzioni e organi del CdE.
Ad oggi, sono in corso 10 procedure di monitoraggio. I paesi interessati sono: Albania, Armenia, Azerbaijan, Bosnia-Erzegovina, Georgia, Moldova, Montenegro, Russia, Serbia e Ucraina.
4 Paesi membri sono oggetto del Dialogo post-suivi: Bulgaria, Macedonia, Monaco e Turchia.
Dal 1997 ad oggi si sono concluse le seguenti procedure di monitoraggio: Rep. Ceca e Lituania (1997), Slovacchia (1999), Bulgaria, Croazia e Macedonia (2000), Lettonia (2001), Turchia (2004) e Monaco (2009).
Le procedure del Dialogo post-suivi si sono concluse, con una dichiarazione di soddisfazione da parte della Commissione, nei seguenti casi: Estonia (2001), Lituania (2002), Romania (2002), Croazia (2003), Rep. Ceca (2004), Slovacchia e Lettonia (2005).
[1] L’Italia ha dato seguito a questa disposizione con la legge costituzionale n. 1/2012.
[2] Education at a Glance 2013: OECD Indicators.
[3] Education at a Glance 2013: OECD Indicators.
[4] Eurostat, Key data on Education in Europe, 2012.
[5] Education at a Glance 2013: OECD Indicators.
[6] In rapporto al PIL, nel 2010, la spesa per l’istruzione è stata al 4,5 per cento.
[7] Oltre al Regno Unito, la Grecia, il Portogallo, Cipro e il Lussemburgo.
[8] Commissione europea, Education and Training Monitor, 2013.
[9] Da un’indagine specifica dell’OCSE (OECD Skills Outlook 2013) risulta che l’Italia è tra i Paesi con il più basso livello di adulti (16-65 anni) che non hanno le competenze di base necessarie per utilizzare le tecnologie dell’informazione e delle comunicazioni (TIC) per molte mansioni quotidiane.
[10] OCSE 2013.
[11] Rassegna trimestrale sulla situazione occupazionale e sociale nell'UE, giugno 2013.
[13] Unioncamere, Banca dati Excelsior.
[14] Progetto di relazione comune sull’occupazione, che accompagna l’analisi annuale della crescita 2014 (COM(2013)801).
[15] Commissione europea (2012), Employment and Social Developments in Europe 2011, capitolo 6.
[16] Commissione europea, European Vacancy Monitor N°10, Settembre 2013.
[17] Eurofound Third European Company Survey: Primi risultati.
[18] Eurostat.
[19] In Italia, nel 2012 sono stati 4.255 i soggetti che hanno trovato lavoro grazie ad EURES.
[20] L’a Convenzione è stata ratificata dall’Italia con legge 4 agosto 1955 n. 848.
[21] Secondo la sentenza citata gli Stati membri dell’UE non possono essere ritenuti responsabili di violazioni della Convenzione se: (1) gli atti sono basati sul diritto dell’UE, vale a dire lo stato sta attuando la legislazione UE; (2) lo Stato non ha avuto alcun potere discrezionale nel fare ciò; (3) l’azione dello Stato membro è stata assunta nel rispetto degli obblighi derivanti dal diritto dell’UE.
[22] Nel corso del Consiglio europeo di Copenaghen tenutosi nel 1993, e in vista del processo di allargamento dell’UE ai Paesi dell’Europa dell’est, vennero definiti tre diversi criteri, da allora definiti criteri di Copenaghen, che stabiliscono i parametri che uno stato candidato all'adesione all'Unione Europea deve rispettare: criterio "politico": presenza di istituzioni stabili che garantiscano la democrazia, lo stato di diritto, i diritti dell'uomo, il rispetto delle minoranze e la loro tutela; criterio "economico": esistenza di un'economia di mercato affidabile e capacità di far fronte alle forze del mercato e alla pressione concorrenziale all'interno dell'Unione Europea; adesione all'"acquis comunitario", accettare gli obblighi derivanti dall'adesione e, in particolare, gli obiettivi dell'unione politica, economica e monetaria. Per l'apertura formale dei negoziati di adesione di uno stato è necessario che almeno il criterio politico sia rispettato. L’articolo 49 del TUE ora prevede che ogni stato europeo che rispetti i valori dell’UE e si impegni a promuoverli può domandare di diventare membro dell’Unione.
[23] Nel corso degli anni vi sono state richieste di apertura per vari paesi, ma solo quella per la Lettonia (1997) è stata autorizzata dall’Assemblea. Le altre richieste, non autorizzate, riguardavano i seguenti paesi: Grecia (1997), Austria (2000), Liechtenstein (2003), Regno Unito (2006), Italia (2006), Ungheria (2011) e Francia (2013, attualmente in esame).