Camera dei deputati - XVI Legislatura - Dossier di documentazione
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Autore: | Ufficio Rapporti con l'Unione Europea | ||
Titolo: | Riunioni dei Presidenti delle Commissioni competenti per le pari opportunità dei Parlamenti dell'Unione europea ' Bruxelles 21-22 novembre 2010 ' | ||
Serie: | Documentazione per le Commissioni - Riunioni interparlamentari Numero: 63 | ||
Data: | 17/11/2010 | ||
Descrittori: |
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Camera dei deputati
XVI LEGISLATURA
Documentazione per le Commissioni
riunioni interparlamentari
Riunione dei Presidenti delle Commissioni competenti
per le pari opportunità dei Parlamenti dell’UE
Bruxelles, 21-22 novembre 2010
n. 63
17 novembre 2010
Il dossier è stato
curato dall’Ufficio rapporti con
l’Unione europea
(' 066760.2145 - * cdrue@camera.it)
Il capitolo “Pari opportunità e parità di trattamento sul lavoro” è stato curato dal Servizio studi, Dipartimento Affari sociali (tel. 3266)
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I dossier dei servizi e degli uffici della Camera sono destinati alle esigenze di documentazione interna per l'attività degli organi parlamentari e dei parlamentari. La Camera dei deputati declina ogni responsabilità per la loro eventuale utilizzazione o riproduzione per fini non consentiti dalla legge.
I N D I C E
Le pari opportunità nell’Unione europea
§ 1.2. L’intervento dell’Unione europea: base giuridica
§ 1.3 La nuova strategia UE per la parità di genere (2010-2015)
§ 1.4. Il database su uomini e donne nel processo decisionale
§ 1.6 L’Istituto europeo per l’uguaglianza di genere (EIGE)
§ 1.7 I risultati e la valutazione dell’Anno europeo per le pari opportunità (2007)
§ 1.8 Le più recenti iniziative dell’UE
Trattato sull’Unione europea (estratto)
- Articolo 2 32
- Articolo 3 32
Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (estratto)
- Articolo 10 34
- Articolo 153 34
- Articolo 157 36
Commissione europea
- Relazione sulla parità tra donne e uomini – 2010 (COM(2009)694), 18 dicembre 2009 37
- Comunicazione sulla “Strategia per la parità tra donne e uomini 2010-2015” (COM(2010)491), 21 settembre 2010 49
Parlamento europeo
- Risoluzione sulla parità tra donne e uomini nell’Unione europea - 2009, 10 febbraio 2010 63
- Risoluzione sulla valutazione dei risultati della tabella di marcia per la parità tra donne e uomini 2006-2010 e raccomandazioni future, 17 giugno 2010 71
Il 18 dicembre 2009 la Commissione europea ha presentato la relazione sulla parità tra donne e uomini – 2010 (COM(2009)694), nella quale illustra i progressi raggiunti in materia di parità tra uomini e donne nonché le sfide e le priorità per il futuro.
La relazione sottolinea come il tasso di occupazione femminile nell'Unione europea sia passato dal 51,1% nel 1997 al 59,1% nel 2008, avvicinandosi all'obiettivo di Lisbona, cioè al 60% nel 2010. Esistono tuttavia notevoli divergenze tra gli Stati membri, con tassi che variano dal 36,9% al 73,2% (46, 6% in Italia nel 2007). Lo scarto medio tra i tassi di occupazione delle donne e quelli degli uomini si sta riducendo: 17,1 % nel 2000, 13,7 punti nel 2008. Peraltro, lo scarto è quasi doppio se si raffrontano i tassi di occupazione delle donne e degli uomini con figli di età inferiore a 12 anni a carico. Inoltre, il tasso di occupazione delle donne diminuisce di 11,5 punti percentuali se esse hanno bambini, mentre aumenta di 6,8 punti percentuali per gli uomini anch'essi con bambini, il che rispecchia l'ineguale ripartizione delle responsabilità parentali e l'insufficienza delle strutture per la custodia dei bambini e delle azioni di conciliazione della vita privata e della vita professionale.
La relazione rileva come la crisi economica abbia interrotto tale tendenza positiva: tra il maggio 2008 e il settembre 2009, il tasso di disoccupazione nell'Unione è aumentato più sensibilmente per gli uomini (dal 6,4% al 9,3%) che per donne (dal 7,4% al 9%). I settori dell'industria e della costruzione, a prevalenza di manodopera maschile, sarebbero stati inizialmente i più colpiti. Negli ultimi mesi, tuttavia i tassi di disoccupazione femminile e maschile sarebbero cresciuti allo stesso ritmo, in concomitanza all'allargamento della crisi ad altri comparti, in cui la composizione degli occupati per sesso è più equilibrata di quella dei settori colpiti per primi. Inoltre, in base all’esperienza delle crisi del passato, la Commissione osserva che in caso di perdita del lavoro, il rischio di non essere riassunto è più elevato per le donne.
Nel 2008, il 31,1% delle donne ha lavorato a tempo parziale rispetto al 7,9% degli uomini. Quantunque il tempo parziale e altre modalità flessibili di lavoro possano rappresentare preferenze personali, l'ineguale ripartizione delle responsabilità domestiche e familiari induce un numero maggiore di donne che non di uomini ad optare per tali modalità. Nell'UE oltre 6 milioni di donne nel gruppo di età 25-49 anni dichiarano di essere indotte a rinunciare al lavoro o a lavorare soltanto a tempo parziale a causa delle loro responsabilità familiari[1]. Anche il ricorso al lavoro temporaneo è più comune tra le donne (15,1% rispetto a circa il 14% per gli uomini).
Questa forte incidenza della paternità/maternità sulla partecipazione al mercato del lavoro è legata alla suddivisione dei ruoli tradizionali e alla mancanza in molti Stati membri di strutture di accoglienza dell'infanzia. Nonostante l'aumento, nel corso degli ultimi anni, dell'offerta di servizi di assistenza all'infanzia in linea con gli obiettivi europei[2], in molti paesi i tassi di disponibilità non soddisfano tali obiettivi, in particolare per i bambini al di sotto dei 3 anni. Anche l'assistenza alle persone non autosufficienti diverse dai bambini grava fortemente sulla possibilità che hanno le donne e gli uomini di rimanere nel mercato del lavoro, un problema questo aggravato dall'invecchiamento della popolazione. Nel 2005 più di 20 milioni di europei di età compresa tra 15 e 64 anni (12,8 milioni di donne e 7,6 milioni di uomini) erano responsabili della cura e dell'assistenza di adulti non autosufficienti. Tali responsabilità hanno il loro peso sul basso tasso d'occupazione delle donne dai 55 ai 64 anni (36,8% nel 2008, ossia 18,2 punti in meno del tasso d'occupazione degli uomini). La mancanza di misure adeguate che consentano di conciliare vita professionale e vita privata può inoltre influire sulla scelta di non avere figli o di averne di meno, scelta che pone problemi sul piano dell'invecchiamento della popolazione e della futura offerta di manodopera e, di conseguenza, della crescita economica. Nei paesi in cui le condizioni sono favorevoli per quanto riguarda i servizi di assistenza all'infanzia, il congedo parentale e le formule di lavoro flessibili, sono più elevati sia il tasso di occupazione femminile che il tasso di natalità.
La Commissione rileva inoltre che la situazione delle donne è inoltre migliorata nel settore dell'istruzione: secondo i dati relativi al 2008, l’81, % delle giovani donne tra 20 e 24 anni di età risulta essere in possesso di un diploma di istruzione secondaria ( contro il 75,6% degli uomini); inoltre esse hanno conseguito il 59% delle lauree universitarie nell'Unione europea (56,7% nel 2004). Sussistono peraltro differenze nei campi di studio, ad esempio, negli studi di ingegneria (18% di laureati di sesso femminile) e in quelli di informatica (20%), mentre le donne predominano nei campi di studio del commercio, della gestione e del diritto (60%).Le donne sono tuttora dietro gli uomini per quanto riguarda l'utilizzazione di nuove tecnologie e riscontrano difficoltà nell'accesso a lavori più specialistici connessi alle TIC.
La Commissione sottolinea peraltro che l'elevato livello di istruzione delle donne non si rispecchia direttamente nei posti che esse occupano nel mercato del lavoro: per lo più le donne prestano lavoro in settori e professioni 'femminizzate' e restano in categorie di occupazione minori con un accesso limitato alle cariche elevate. Nella maggior parte degli Stati membri la segregazione professionale e settoriale è rimasta pressoché invariata negli ultimi anni, il che significa che l'aumento del tasso di occupazione femminile si è realizzato in settori in cui le donne erano già in maggioranza. Una ripartizione più equa dei campi di studio e delle professioni tra i sessi consentirebbe di rispondere alla domanda di nuove competenze e di soddisfare le future esigenze del mercato del lavoro.
Una delle conseguenze della segregazione dei sessi sul mercato del lavoro è il persistente scarto di retribuzione (mediamente il 17,4% nell'UE; in due paesi , Estonia e Austria, lo scarto si eleva addirittura al 25%; in Italia è al disotto del 10%), dovuto in parte al fatto che le donne sono concentrate in occupazioni e posti di lavoro meno valorizzati. Più disposte a lavorare a tempo parziale e a interrompere la propria carriera per ragioni familiari, le donne sono più esposte alle conseguenze negative di tali scelte in materia di retribuzione, di evoluzione della carriera e di diritti al pensionamento. Questo fatto comporta anche il rischio di povertà, in particolare per genitori singoli, che per lo più sono donne (con un tasso di rischio di povertà del 32%) e per le donne di età superiore ai 65 anni (con un tasso di rischio di povertà del 21%, ossia superiore di 5 punti a quello degli uomini). Le donne sono altresì più vulnerabili in periodi di aumento della disoccupazione dal momento che esse hanno, più degli uomini, contratti a durata determinata (15% contro 13,9%).
Si ricorda in proposito che il 18 novembre 2008 il Parlamento europeo ha approvato una raccomandazione alla Commissione sull’applicazione del principio della parità retributiva tra donne e uomini. In particolare il Parlamento europeo ha chiesto alla Commissione di presentare entro la fine del 2009 una proposta legislativa sulla revisione della normativa esistente in materia.
Nonostante il fatto che sempre più numerose siano le donne altamente qualificate e che la partecipazione al mercato del lavoro delle donne sia in aumento, esse sono tuttora minoritarie rispetto agli uomini in posti di responsabilità nella politica e nelle imprese, specialmente ai più alti livelli. I dati raccolti nel documento di lavoro (SEC(2009)1706) che accompagna la relazione, mostrano che: il numero di donne con funzioni direttive (direttori, amministratori delegati e dirigenti di piccole imprese) nell'UE è rimasto stabile negli ultimi anni, con una media del 30%, e meno ancora nella maggioranza degli Stati membri (tra il 30% e il 25% in Germania, Repubblica ceca, Danimarca, Grecia, Ungheria, Olanda, Romania, Slovenia, Slovacchia; al di sotto del 25% in Lussemburgo, Irlanda, Finlandia, Svezia, Malta e Cipro, ma sopra al 35% in Italia, Spagna, Polonia e Francia); solo l’11% dei membri dei consigli di amministrazione delle principali imprese (le “blue-chip” dei listini di borsa) è costituito da donne (la percentuale supera il 20% in Finlandia e Svezia, ma scende al 5% in Italia, Lussemburgo, Portogallo e a Malta e Cipro); non vi sono donne tra i governatori delle Banche centrali dell'Unione europea ed le donne rappresentano soltanto il 16% negli organi decisionali più elevati di tali istituzioni. La Commissione ritiene tale situazione tanto più paradossale, in considerazione del fatto che le studentesse superano in numero gli studenti nei settori del commercio, della gestione e del diritto.
Si segnala che dati analoghi erano già contenuti nella relazione “Donne e uomini nel processo decisionale 2007 – Analisi della situazione e tendenza”, presentata dalla Commissione in occasione della Giornata internazionale della donna 2008. In riferimento alla sottorappresentazione delle donne nei posti di alta dirigenza delle grandi imprese in Europa, la relazione sottolineava che una notevole eccezione è costituita dalla Norvegia, dove è stata attuata un’azione positiva per correggere il disequilibrio imponendo per legge una rappresentanza femminile di almeno il 40% in seno ai consigli di amministrazione delle imprese pubbliche e private. La Commissione europea osservava in proposito, che, prevedendo sanzioni in caso di non conformità, tale intervento legislativo - approvato nel dicembre 2003 - aveva effettivamente prodotto un innalzamento del livello di partecipazione femminile nei consigli di amministrazione norvegesi fino al 34% (al 2007).
Per quanto riguarda la partecipazione delle donne alla vita politica, la relazione annuale sulla parità tra donne e uomini – 2009 osserva inoltre che la maggior parte dei paesi dell'Unione europea ha fatto registrare progressi in questi ultimi dieci anni, progressi però lenti con cifre nel complesso basse. Analoghe considerazioni sono svolte nello studio dal titolo “Women in European politics – time for action” realizzato da Alphametrisc Ldt., UK e Applica Sprl., Belgium, per conto della Direzione generale per l’occupazione, affari sociali e pari opportunità, pubblicato dalla Commissione europea nel marzo 2009.
In base ai dati raccolti, la percentuale media di donne tra i deputati dei parlamenti nazionali è passata dal 16% nel 1997 al 24% nel 2009, percentuale che varia dal 9% al 46% a seconda dei paesi. Soltanto in undici Stati membri tale percentuale è superiore al 30%, soglia ritenuta minima perché le donne possano esercitare un'effettiva influenza sulle questioni politiche. In Italia la rappresentanza femminile in Parlamento è pari al 21,3%. Nei governi nazionali la percentuale media di donne ministro è del 25%, mentre la percentuale tra Stati membri varia dallo zero al 60%. Le istituzioni europee hanno fatto registrare alcuni progressi, ma le donne sono tuttora sottorappresentate ai più alti livelli.
Si segnala in proposito che il 9 giugno 2008 il Consiglio ha adottato conclusioni sulle donne e la presa di decisioni politiche nelle quali sottolinea che la partecipazione paritaria delle donne e degli uomini ai processi decisionali è una condizione preliminare alla promozione della donna alla realizzazione di una vera parità tra donne e uomini nonché un fondamento necessario della democrazia.
Gli obiettivi dell’Unione europea in materia di parità fra uomini e donne consistono, da un lato, nel garantire la parità di opportunità e di trattamento fra donne e uomini e, dall’altro, nella lotta contro qualsiasi discriminazione fondata sul sesso.
Il Trattato di Lisbona ha riaffermato il principio di uguaglianza tra donne e uomini (già enunciato agli articoli 2, 3 e 13 del previgente Trattato CE), inserendolo tra i valori (art. 2 TUE) e tra gli obiettivi (Art. 3, par. 3 TUE) dell’Unione. Inoltre il nuovo articolo 10 introdotto dal Trattato di Lisbona nel Trattato sul Funzionamento dell’Unione europea prevede che nell’attuazione delle sue politiche ed azioni, l’Unione miri a combattere le discriminazioni fondate sul sesso, la razza o l’origine etnica, la religione o le convinzioni personali, la disabilità, l’età o l’orientamento sessuale.
Per quanto riguarda l’ambito lavorativo, le disposizioni relative alla parità fra uomini e donne già previste agli articoli 137 e 141 del Trattato CE, per quanto riguarda le opportunità sul mercato del lavoro, il trattamento sul lavoro e le retribuzioni per uno stesso lavoro o per un lavoro di pari valore, sono confluite, in base al Trattato di Lisbona, negli articoli 153 e 157 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione europea.
La Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea riafferma il divieto di qualsiasi forma di discriminazione, in particolare quella fondata sul sesso, e il dovere di garantire la parità fra uomini e donne in tutti i campi, prevedendo, inoltre, che il principio della parità non osta al mantenimento o all’adozione di misure che prevedano vantaggi specifici a favore del sesso sottorappresentato.
Con l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, la Carta dei diritti fondamentali ha assunto carattere giuridicamente vincolante attraverso un apposito articolo di rinvio (art. 6 TUE).
Il Consiglio europeo del 18-19 giugno 2009 ha adottato una dichiarazione solenne sui diritti dei lavoratori e sulla politica sociale nella quale ribadisce l’importanza del rispetto integrale del quadro e delle disposizioni dei trattati UE, sottolineando, tra le altre cose, che i trattati modificati dal trattato di Lisbona si prefiggono di combattere l’esclusione sociale e le discriminazioni e di promuovere la giustizia e la protezione sociali, la parità tra uomini e donne, la solidarietà tra le generazioni e la tutela dei diritti del minore.
Il 21 settembre 2010 la Commissione europea ha presentato la nuova strategia 2010-2015 per la promozione della parità fra uomini e donne nell’Unione europea (COM(2010)491). La strategia prevede azioni basate su cinque priorità: pari indipendenza economica; pari retribuzione per lo stesso lavoro e lavoro di pari valore; parità nel processo decisionale; dignità, integrità e fine della violenza nei confronti delle donne; parità tra donne e uomini nelle azioni esterne.
Tra l’altro la Commissione ritiene necessario:
· adottare misure volte ad aumentare la presenza delle donne nel mercato del lavoro, in linea con gli obiettivi della strategia Europa 2020, e nei posti di responsabilità nel settore economico;
· promuovere l'imprenditorialità femminile e il lavoro autonomo;
· istituire una Giornata europea per la parità salariale per sensibilizzare l'opinione pubblica sul fatto che in Europa le donne continuano a guadagnare in media circa il 18% in meno degli uomini;
· collaborare con tutti gli Stati membri per combattere la violenza contro le donne, e specialmente per sradicare le pratiche di mutilazione genitale femminile in Europa e nel mondo.
Per quanto riguarda in particolare la parità nel processo decisionale, la Commissione rileva che nella maggior parte degli Stati membri le donne continuano ad essere sottorappresentate nei processi e nelle posizioni decisionali, in particolare ai livelli più alti, nonostante costituiscano quasi la metà della forza lavoro e più della metà dei nuovi diplomati universitari dell'UE.
Nonostante i progressi compiuti per raggiungere un equilibrio fra donne e uomini in campo politico, rimane ancora molto da fare, poiché in media solo uno su quattro deputati dei parlamenti nazionali e ministri dei governi nazionali è una donna.
In campo economico la percentuale delle donne è inferiore a quella degli uomini a tutti i livelli direttivi e decisionali. Nei consigli di amministrazione delle maggiori società quotate in borsa dell'UE solo il 10% dei membri e il 3% dei dirigenti sono donne. Studi dimostrano che la diversità di genere presenta vantaggi ed esiste una correlazione positiva tra le donne in posizioni dirigenti e i risultati economici.
Nonostante l'obiettivo fissato dall'UE nel 2005 del 25% di donne nelle funzioni direttive nel settore pubblico della ricerca, questa meta è ancora piuttosto lontana, dato che solo il 19% dei docenti universitari di ruolo dell'UE sono donne. Lo squilibrio tra donne e uomini prevalente nel campo scientifico e della ricerca costituisce ancora un grave ostacolo all'obiettivo europeo di aumentare la competitività e di sfruttare al massimo il potenziale innovativo.
Su tali basi, la Commissione intende:
· esaminare iniziative mirate al miglioramento della parità di genere nei processi decisionali;
· monitorare l'obiettivo del 25% di donne in posizioni direttive di alto livello nella ricerca;
· monitorare i progressi verso l'obiettivo del 40% di membri di uno stesso sesso nei comitati e gruppi di esperti istituiti dalla Commissione;
· sostenere gli sforzi per promuovere una maggiore partecipazione delle donne alle elezioni al Parlamento europeo, anche come candidate.
La Strategia 2010-2015 subentra alla tabella di marcia per la parità tra donne e uomini 2006-2010 (COM(2006)92) presentata dalla Commissione europea il 1° marzo 2006 e tiene conto della dichiarazione politica (cd. “ Carta per le donne”), (COM(2010)78), adottata dalla Commissione europea il 5 marzo 2010, in occasione della celebrazione dei 15 anni dalla piattaforma d'azione di Pechino.
Come parte dell’impegno nella promozione della parità di genere nel processo decisionale, la Commissione ha creato un database che registra il numero di uomini e donne in posizioni di responsabilità nell’UE con l’obiettivo di fornire statistiche attendibili da utilizzare per verificare la situazione attuale e le tendenze nel tempo.
Il database considera le posizioni di potere in politica, nella pubblica amministrazione, nel sistema giudiziario e in varie aree prioritarie dell’economia per 34 paesi: oltre ai 27 Stati membri, i 3 paesi dello Spazio economico europeo (Islanda, Liechtenstein e Norvegia), i tre paesi candidati (Croazia, Turchia ed ex Repubblica iugoslava di Macedonia) e uno dei potenziali candidati (la Serbia). I dati vengono aggiornati trimestralmente per l’area politica e annualmente per le altre aree.
Il 23 agosto 2010 è stato pubblicato l’ultimo aggiornamento, i dati sono stati raccolti nelle prime tre settimane del mese di luglio per i livelli politici europeo, nazionale e regionale (se si sono tenuti elezioni); per quanto riguarda banche centrali, tribunali e corti, amministrazioni pubbliche e imprese i dati si riferiscono al periodo maggio-luglio.
Nell’arena politica la Commissione rileva i seguenti sviluppi:
· le elezioni parlamentari nella Repubblica ceca alla fine di maggio hanno portato un numero record di donne nella Camera dei deputati (44 su un totale di 200 membri). Inoltre, alla fine di giugno, Miroslava Nemcova è diventata la prima donna Speaker della Camera. Tale risultato positivo non si è invece riflesso nella formazione del Governo, che è esclusivamente maschile;
· altre elezioni nazionali hanno visto solo mutamenti limitati. In Belgio si è registrato un piccolo aumento della presenza femminile nella Camera dei rappresentanti (40 percento in luogo del precedente 38 percento) a fronte di un piccolo declino nel Senato (dal 41 al 38 percento). Si è verificata una riduzione della presenza femminile anche nelle elezioni nei Paesi Bassi e in Slovacchia;
· a seguito della formazione di nuovi Governi in Finlandia e Slovacchia sono ora tre i paesi membri in cui il governo è guidato da una donna, in confronto al periodo precedente in cui vi era la sola Germania. In Finlandia la squadra del primo ministro Mari Kiviniemi conta undici donne su un totale di venti ministri, con una donna in meno rispetto al precedente governo; in Slovacchia Iveta Radičova ha assunto l’incarico l’8 luglio 2010 come prima donna primo ministro nel paese ma ha una sola donna nella squadra di governo (composta da un totale di 14 ministri);
· le elezioni presidenziali tenutesi in Ungheria, Germania e Polonia nei mesi di giugno e luglio hanno eletto tre uomini;
· soltanto due elezioni regionali si sono tenute nel trimestre, in Nordrhein-Westfalen (Germania) e Burgenland (Austria). In entrambi i casi a presiedere l’assemblea regionale è un uomo (in Germania prima era una donna); inoltre in Austria si è verificato un declino del numero di donne, dal 22 a 19 percento.
Per quanto riguarda le altre aree:
· come anticipato, i governatori di tutte le banche centrali europee sono uomini e la percentuale di esponenti maschili negli organismi decisionali è pari all’82 percento. Vi sono stati isolati miglioramenti nella rappresentanza femminile nel corso del 2010, nelle banche nazionali polacca (in cui la rappresentanza femminile negli organismi decisionali è passata dal 6 al 24 percento) e slovena (una donna su cinque, in luogo di nessuna donna);
· pochi cambiamenti nei livelli più alti del sistema giudiziario. Nell’ambito delle corti europee il solo cambiamento riguarda la sostituzione di un uomo con una donna nella Corte europea di giustizia, in modo che la rappresentanza femminile è ora di uno a cinque. Migliore la situazione della Corte europea dei diritti umani ( che ha la giurisdizione su 47 paesi del Consiglio d’Europa) dove più di un terzo dei giudici sono donne;
· a livello nazionale i cambiamenti nella leadership delle Corti supreme svedese e slovena hanno portato a sette i paesi dell’UE in cui il giudice più alto in grado è una donna, cui si aggiungono due paesi non UE (Serbia e Islanda). In generale in Europa la rappresentanza femminile nelle corti supreme è aumentata dal 31 al 32 percento;
· praticamente nessun cambiamento per quanto riguarda la presenza femminile a capo delle principali società europee quotate in borsa. Si registra come per l’anno precedente che in Europa solo il 3 percento dei presidenti sono donne (per quanto riguarda l’Italia la percentuale è del 5) e che ammonta all’11 percento la presenza femminile negli organismi decisori (soltanto il 4 percento per l’Italia).
Le iniziative UE a sostegno della parità di genere si avvalgono attualmente del sostegno finanziario dei seguenti programmi:
· Programma comunitario per l’occupazione e la solidarietà - PROGRESS (2007-2013)
Il programma PROGRESS si prefigge di fornire un aiuto finanziario all’attuazione degli obiettivi dell’Unione europea nel settore dell’occupazione e degli affari sociali.
Il programma, con dotazione finanziaria complessiva pari a pari a 657.590.000 euro per il periodo 2007-2013, si articola in cinque sezioni distinte corrispondenti ai cinque grandi settori di attività, secondo la seguente ripartizione:
· occupazione 23%,
· protezione sociale e integrazione 30%,
· condizioni di lavoro 10%,
· diversità e lotta contro la discriminazione 23%,
· parità fra uomini e donne 12%.
Il restante 2% della dotazione è destinato alla copertura delle spese di gestione del programma.
Per quanto riguarda la parità tra donne e uomini, il programma PROGRESSpromuove l’integrazione della dimensione di genere in tutte le politiche comunitarie:
- migliorando la comprensione della situazione relativa alle questioni di genere e all’integrazione della dimensione di genere, in particolare mediante analisi e studi e l’elaborazione di statistiche e indicatori, nonché valutando l’impatto della legislazione, delle politiche e delle prassi in vigore;
- sostenendo l’applicazione della legislazione comunitaria in tema di parità fra uomini e donne mediante un monitoraggio efficace, l’organizzazione di seminari destinati a coloro che sono attivi nel settore e lo sviluppo di reti fra organismi specializzati nelle questioni relative alla parità;
- sensibilizzando, diffondendo informazioni e promuovendo il dibattito sulle principali sfide e questioni politiche relative alla parità fra uomini e donne e all’integrazione di genere, anche tra le parti sociali, le ONG e gli altri soggetti interessati;
- sviluppando la capacità delle principali reti di livello europeo di sostenere e sviluppare ulteriormente gli obiettivi politici comunitari e le strategie in materia di parità fra uomini e donne.
- Programma DAPHNE III: Combattere la violenza contro i bambini, gli adolescenti e le donne (2007-2013)
Il programma Daphne III mira a prevenire e a combattere qualsiasi forma di violenza, in particolare di natura fisica, sessuale o psicologica, contro i bambini, i giovani e le donne. È altresì inteso a proteggere le vittime e i gruppi a rischio al fine di raggiungere un livello elevato di tutela della salute mentale, benessere e coesione sociale nell’Unione europea. Si tratta della terza fase del programma Daphne e copre il periodo 2007-2013, per il quale è stato stanziato un bilancio di 116,85 milioni di euro.
La Commissione presenterà entro il 31 marzo 2011 al Parlamento e al Consiglio una relazione di valutazione intermedia sull’attuazione e sui risultati dei progetti ed entro il 31 dicembre 2014 una relazione di valutazione ex post sull’attuazione e sui risultati del programma. Entro il 31 maggio 2012 presenterà anche una comunicazione sulla continuazione del programma in questione.
L’Istituto europeo per l’uguaglianza di genere è stato creato il 20 dicembre 2006 (Regolamento (CE) n. 1922/2006). Dotato di personalità giuridica, l’Istituto è formato da un consiglio di amministrazione, un direttore e dal suo personale, nonché da un forum di esperti. La sede dell’Istituto è a Vilnius (Lituania). Virginija Langbakk ha assunto l’incarico di direttore nell’aprile 2009.
I principali obiettivi dell’Istituto sono:
· la promozione e il rafforzamento dell’uguaglianza fra donne e uomini;
· l’integrazione delle questioni di uguaglianza fra donne e uomini in tutte le politiche comunitarie e nelle relative politiche nazionali;
· la lotta contro la discriminazione fondata sul sesso;
· la sensibilizzazione dei cittadini europei.
Secondo il regolamento che istituisce l’EIGE, questo contributo si tradurrà essenzialmente in un’assistenza tecnica apportata alle istituzioni comunitarie, in particolare alla Commissione, nonché alle autorità degli Stati membri.
Le principali attività dell’Istituto per l’uguaglianza di genere saranno:
- la raccolta, la registrazione, l’analisi e la diffusione di informazioni relative all’uguaglianza tra uomini e donne a livello comunitario. In base a criteri rigidi, l’Istituto elaborerà metodi volti ad aumentare l’obiettività, la comparabilità e l’affidabilità dei dati a livello europeo. Sulla base dei dati obiettivi, affidabili e comparabili che avrà riunito, elaborerà strumenti metodologici destinati ad integrare meglio la parità fra uomini e donne in tutte le politiche comunitarie.
- l’organizzazione di attività volte a promuovere gli scambi di esperienze e lo sviluppo del dialogo a livello europeo con tutte le parti interessate, in particolare le istituzioni della Comunità e degli Stati membri, le parti sociali, le organizzazioni non governative, i centri di ricerca . Più specificatamente, l’Istituto: creerà e coordinerà una rete europea sull’uguaglianza tra uomini e donne; organizzerà riunioni ad hoc di esperti; incoraggerà lo scambio di informazioni tra ricercatori e favorirà l’integrazione della prospettiva di genere nella loro ricerca; svilupperà un dialogo e una cooperazione con organizzazioni non governative, enti operanti nel settore delle pari opportunità, università, esperti, centri di ricerca e parti sociali.
- la collaborazione all’organizzazione di conferenze, campagne e riunioni a livello europeo al fine di sensibilizzare i cittadini dell’Unione europea riguardo alla parità tra gli uomini e le donne.
Il 19 giugno 2009 la Commissione ha adottato una comunicazione relativa ai risultati e alla valutazione globale dell’Anno europeo per le pari opportunità (2007) (COM(2009)269), che ha inteso diffondere tra i cittadini europei la consapevolezza dei loro diritti, con riferimento anche alla tutela offerta dalle direttive adottate a partire dal 2000 sulla base dell’articolo 13 TCE (direttiva 2000/43/CE che attua il principio della parità di trattamento fra le persone indipendentemente dalla razza e dall'origine etnica; direttiva 2000/78/CE che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro; direttiva 2004/113/CE, che attua il principio della parità` di trattamento tra uomini e donne per quanto riguarda l'accesso a beni e servizi e la loro fornitura). La Commissione sottolinea che l'AEPO non ha dunque solo centrato il proprio obiettivo globale, ovvero sensibilizzare riguardo ai diritti e agli obblighi previsti dal quadro giuridico attualmente in vigore, ma è anche riuscito a innescare un dibattito sull'abbattimento delle barriere nella percezione dei 6 motivi di discriminazione (sesso, la razza o l'origine etnica, la religione o le convinzioni personali, gli handicap, l'età o le tendenze sessuali). Il dibattito è sfociato nella decisione della Commissione di adottare una nuova proposta di direttiva basata sull'articolo 13, al fine di armonizzare la protezione garantita nei confronti dei diversi motivi di discriminazione; inoltre ha fatto nascere un dialogo permanente tra gli Stati membri ed i principali soggetti in causa. Secondo la Commissione questi traguardi contribuiranno al superamento dei timori e pregiudizi potenzialmente insiti nell'attuale crisi finanziaria ed economica, contrastando la nascita di nuove forme di discriminazione e impedendo così che un rafforzamento dell'emarginazione ostacoli il rilancio economico.
La proposta di direttiva, che segue la procedura di consultazione, è stata esaminata dal Parlamento europeo nell’aprile 2009 ed è tuttora all’esame del Consiglio.
Si ricorda che l’Unione europea ha recentemente adottato la direttiva 2010/41/UE del Parlamento europeo e del Consiglio sull’applicazione del principio della parità di trattamento fra gli uomini e le donne che esercitano un’attività autonoma e che abroga la direttiva 86/613/CEE del Consiglio. Tale intervento legislativo si è reso necessario in quanto nella sua relazione sull'attuazione della direttiva 86/613/CEE la Commissione ha concluso che i risultati pratici dell'attuazione della direttiva non sono stati pienamente soddisfacenti in relazione al primo obiettivo della direttiva, vale a dire quello di produrre un miglioramento generale del quadro giuridico che tuteli i coniugi coadiuvanti. Anche il Parlamento europeo aveva invitato in più occasioni la Commissione a rivedere la direttiva, al fine di migliorare in particolare la situazione dei coniugi partecipanti alle attività nel settore agricolo.
Con la nuova direttiva le lavoratrici autonome godranno degli stessi diritti di accesso al congedo maternità delle lavoratrici dipendenti, ma su base volontaria. Al tempo stesso i coniugi e i conviventi (riconosciuti come tali in base alla legislazione nazionale) che lavorano a titolo informale nell'ambito di una piccola impresa familiare quali un'azienda agricola o uno studio medico (i cosiddetti "coniugi collaboratori") avranno accesso, su richiesta, a una copertura di sicurezza sociale per un livello almeno equivalente a quello dei lavoratori autonomi.
Continua invece l’esame della proposta di direttiva sull’attuazione di misure volte a promuovere il miglioramento della sicurezza e della salute sul lavoro delle lavoratrici gestanti, puerpere o in periodo di allattamento, che rappresenta la revisione della direttiva 92/85/CEE (COM(2008) 637). In particolare, la proposta estende la durata minima del congedo di maternità da 14 a 18 settimane, per consentire alla lavoratrice di riprendersi dai postumi del parto e per facilitarle il ritorno sul mercato del lavoro al termine del congedo di maternità; la proposta inoltre intende migliorare i diritti in materia di occupazione e contribuire a una migliore conciliazione di vita professionale, privata e familiare di questa categoria di lavoratrici.
La proposta di direttiva è all’esame delle istituzioni comunitarie secondo la procedura di codecisione. Il 20 ottobre 2010 il Parlamento europeo ne ha concluso l’esame in prima lettura. La risoluzione legislativa approvata dal Parlamento europeo reca alcuni emendamenti volti a: estendere il congedo di maternità minimo a 20 settimane (andando cosi oltre la proposta della Commissione di 18 settimane); prevedere, durante il congedo di maternità una remunerazione al 100% dell'ultima retribuzione mensile o della retribuzione mensile media; garantire ai padri il diritto a un congedo di paternità remunerato di almeno due settimane, durante il periodo di congedo di maternità; proibire il licenziamento delle donne dall'inizio della gravidanza fino a almeno il sesto mese dopo la fine del congedo di maternità. Il testo adottato afferma anche che le donne devono poter tornare al loro impiego precedente o a un posto equivalente, con la stessa retribuzione, categoria professionale e responsabilità di prima del congedo.
I due interventi legislativi citati fanno parte di un pacchetto unitario che la Commissione ha presentato il 3 ottobre 2008 quale contributo alla conciliazione tra vita professionale, privata e familiare. Nella comunicazione che accompagna le proposte legislative, la Commissione rileva come tali misure di conciliazione possano attivare un maggior numero di donne verso il mercato del lavoro, liberando il grande potenziale rappresentato per l’economia dal lavoro femminile. Secondo quanto riportato dalla Commissione, l'occupazione femminile è stata il volano principale del costante incremento dell'occupazione negli ultimi anni in seno all'UE: sulla base dei dati forniti dalla Commissione, tra il 2000 e il 2007 il numero degli occupati nell'UE 27 è cresciuto di 14,6 milioni di unità, 9,2 milioni delle quali erano donne; il tasso di occupazione delle donne (di età compresa tra 15 e 64 anni) è salito ogni anno, fino a raggiungere il 58,3% nel 2007, vale a dire il 4,6% in più rispetto al 2000. Si tratta secondo la Commissione di un risultato impressionante, ma con un impatto sull'equiparazione dei generi poco significativo. In fatti gli indicatori relativi alle retribuzioni, alla segregazione del mercato del lavoro e alla presenza delle donne in posti decisionali non sono affatto migliorati negli ultimi anni. In particolare, il divario di retribuzione continua ad essere del 15% dal 2003, con una diminuzione dell'1% solamente dal 2000 in poi. Secondo la Commissione è improbabile che questa situazione cambi finché persistono gli attuali squilibri di genere nell'applicare le opzioni di conciliazione (come il lavoro a tempo parziale o la concessione di congedi per motivi familiari) e finché continuerà a essere così ampio il divario tra il tasso di occupazione delle donne con figli e quello delle donne senza. Tra il 2000 e il 2007 il tasso di occupazione complessivo dei 2 gruppi è aumentato ma il divario tra di essi è restato del 12%.
In tale contesto, il rafforzamento del diritto dei lavoratori al congedo per motivi di famiglia e la garanzia di pari trattamento dei lavoratori autonomi e dei coniugi collaboratori sono iniziative volte a migliorare la conciliazione tra vita professionale e familiare.
Completa il pacchetto una relazione sull’attuazione degli obiettivi fissati dal Consiglio europeo di Barcellona del 2002 riguardanti le strutture di custodia per i bambini in età prescolastica.
Il Consiglio europeo di Barcellona del 2002 aveva pressantemente invitato gli Stati membri a rimuovere i disincentivi alla partecipazione femminile al mondo del lavoro fornendo entro il 2010 un'assistenza all'infanzia per almeno il 90% dei bambini di età compresa fra 3 anni e l'età scolare e per almeno il 33% dei bambini di età inferiore a 3 anni. Questi obiettivi sono divenuti parte integrante della Strategia europea per l'occupazione e dell'Agenda di Lisbona. Nella relazione, la Commissione rileva che:
– la maggior parte degli Stati membri non è a buon punto nel conseguire gli obiettivi, soprattutto riguardo ai bambini fino a 3 anni d'età;
– laddove le strutture esistano, sono spesso costose o il loro funzionamento (orario di apertura) è incompatibile con attività a tempo pieno o a ore inconsuete;
– la qualità di tali strutture (per es. qualifiche del personale, rapporto personale/bambini) potrebbe indurre i genitori ad astenersi dal servirsene.
Il 10 febbraio 2010 con 381 voti favorevoli, 253 contrari e 31 astensioni, il Parlamento europeo ha adottato la relazione di Marc Tarabella (S&D, BE) sulla parità tra donne e uomini nell'Unione europea che sottolinea l'importanza di "rafforzare le politiche di parità tra i sessi", rilevando la necessità di "un maggior numero di azioni concrete e di nuove politiche".
Deplorando che i piani di ripresa economica "si concentrino principalmente sui posti di lavoro in cui prevalgono gli uomini", i deputati incoraggiano gli Stati membri a promuovere l'imprenditorialità femminile nel settore industriale e "a fornire assistenza finanziaria, strutture di consulenza professionale e una formazione appropriata alle donne che fondano imprese". Pongono l'accento, inoltre, sulla necessità di valorizzare, sostenere e rafforzare il ruolo delle donne nell'economia sociale e invitano la Commissione e gli Stati membri a prestare attenzione alla situazione dei coniugi coadiuvanti – nell'artigianato, nel commercio, nell'agricoltura, nella pesca e nelle piccole imprese a conduzione familiare.
Il Parlamento europeo si rammarica che l'integrazione della parità tra uomini e donne sia praticamente assente dall'attuale strategia di Lisbona e invita il Consiglio e la Commissione ad includere un capitolo su tale dimensione nella sua strategia post Lisbona "UE 2020";
Il Parlamento europeo osserva poi che il differenziale retributivo medio tra donne e uomini "stagna a un livello importante (tra il 14% e il 17,4%) dal 2000", nonostante le numerose misure attuate e gli impegni assunti. Chiede quindi alla Commissione per quali motivi non abbia ancora presentato una proposta legislativa sulla revisione della legislazione vigente sull'applicazione del principio della parità di retribuzione tra uomini e donne.
Il Parlamento europeo esorta le istituzioni UE e gli Stati membri a fare in modo che la crisi economica e finanziaria "non conduca a limitazioni delle prestazioni e dei servizi sociali, soprattutto per quanto riguarda la custodia dei bambini e l'assistenza agli anziani". Anche perché l'accesso a tali servizi "è essenziale per assicurare una partecipazione paritetica degli uomini e delle donne al mercato del lavoro, all'istruzione e alla formazione" e per una "migliore conciliazione tra vita professionale e vita privata".
Pur sottolineando l'importanza della proposta di revisione della direttiva 92/85/CEE relativa al congedo di maternità, i deputati ritengono che questa "non sia sufficientemente ambiziosa" per quanto riguarda la promozione della conciliazione tra lavoro e famiglia per gli uomini e le donne. Invitano inoltre la Commissione a sostenere "qualsiasi iniziativa volta all'introduzione di un congedo di paternità a livello europeo". Ritengono infatti che il congedo di maternità debba essere associato a quello di paternità "per garantire alla donna una maggiore tutela nel mercato del lavoro e combattere così gli stereotipi esistenti nella società in merito all'uso di tale congedo".
Il Parlamento europeo chiede agli Stati membri e alle parti sociali di promuovere una presenza più equilibrata tra donne e uomini nei posti di responsabilità delle imprese, dell'amministrazione e degli organi politici". Sollecitando pertanto "la definizione di obiettivi vincolanti per garantire la pari rappresentanza di donne e uomini", sottolinea "gli effetti positivi dell'uso delle quote elettorali sulla rappresentanza delle donne". In proposito, si compiace della decisione del governo norvegese di aumentare ad almeno il 40% dei membri il numero di donne nei consigli di amministrazione delle società private e di imprese pubbliche, e invita la Commissione e gli Stati membri "a considerare l'iniziativa norvegese come un esempio positivo e a progredire nella stessa direzione".
D'altro canto, i deputati sottolineano con favore che la quota di deputate al Parlamento europeo è passata dal 32,1% al 35% rispetto alla scorsa legislatura, la quota delle presidenti di commissioni parlamentari è passata dal 25% al 41% e che la proporzione delle Vicepresidenti del Parlamento europeo è passata dal 28,5% al 42,8%. Sostengono poi che la percentuale di donne tra i commissari designati (pari al 33% del totale), "raggiunta con grandi difficoltà", rappresenti "il minimo assoluto". Rilevando quindi che la composizione della Commissione "dovrebbe rispecchiare meglio la diversità della popolazione europea, anche sotto il profilo uomo-donna", invitano gli Stati membri, in occasione delle future nomine, a proporre due candidati – un uomo e una donna – in modo da agevolare la formazione di una Commissione più rappresentativa.
Un’altra risoluzione del Parlamento europeo, approvata il 17 giugno 2010, valuta i risultati della tabella di marcia per la parità tra donne e uomini 2006-2010 e formula raccomandazioni future. Tra l’altro il Parlamento europeo:
· propone la convocazione ogni anno di una riunione tripartita tra Consiglio, Commissione e Parlamento europeo sui progressi della strategia per la parità di genere nell'Unione europea;
· sottolinea l'importanza di realizzare una conferenza annuale sulla parità di genere, con la partecipazione di organizzazioni di donne, di organizzazioni che operano a favore dell'eguaglianza di genere, di organizzazioni sindacali di diversi Stati membri, di membri del Parlamento europeo, della Commissione e del Consiglio, nonché di deputati nazionali, dedicando in ogni edizione annuale un'attenzione particolare e una tematica definita previamente;
· insiste sulla necessità di un dialogo strutturato con la società civile al fine di garantire il principio della parità tra donne e uomini;
· suggerisce di non limitare la cooperazione istituzionale in questo settore alle sole associazioni femminili, ma di cercare attivamente la collaborazione con le associazioni che rappresentano gli uomini e le donne e che si adoperano a favore dell'uguaglianza di genere;
· chiede l'avvio immediato e con prerogative piene delle attività dell'Istituto europeo per l'uguaglianza di genere e l'elaborazione di tutti gli indicatori di genere necessari per monitorare le problematiche legate alla parità in tutti i settori; insiste su un aggiornamento regolare di tali indicatori per consentire un allineamento degli obiettivi stabiliti e dei risultati effettivamente ottenuti;
· invita l'Ufficio di presidenza del Parlamento europeo e la Commissione a intensificare gli sforzi per incrementare il numero di donne con incarichi dirigenziali nell'organico; invita la Commissione a studiare un meccanismo volto ad assicurare la parità in seno al Collegio dei Commissari nella prossima legislatura;
· chiede maggiori interventi, azioni di sensibilizzazione e controlli nei posti di lavoro al fine di garantire migliori condizioni di lavoro per le donne, riservando attenzione al carico di orario, al rispetto dei diritti alla maternità e alla paternità, alla conciliazione tra vita professionale e familiare, sollecitando una più ampia diffusione del congedo di maternità, l'introduzione di un congedo parentale e di un congedo retribuito di paternità, l'introduzione di un congedo familiare retribuito destinato, tra l'altro, all'assistenza di parenti in stato di dipendenza, misure per combattere gli stereotipi sessisti nella divisione del lavoro e dei compiti di assistenza, e la lotta contro le decisioni che mettono in questione tali diritti;
· sottolinea, a tale scopo, l'importanza di misurare, certificare e premiare la cosiddetta "responsabilità sociale dell'impresa" in cui sia considerata a pieno titolo, tra gli elementi richiesti, la parità di genere; ritiene che quest'ultima vada realizzata mediante l'adozione di modelli organizzativi flessibili, basati sul lavoro per obiettivi non legato alla presenza, in cui per tutti i lavoratori, indipendentemente dal sesso, sia possibile sviluppare il proprio percorso professionale, retributivo, di carriera, secondo capacità e competenze, tenendo conto delle necessità sociali derivanti dalla cura dei figli e della famiglia, anche con servizi e organizzazione del lavoro "calibrata alla famiglia";
· sottolinea l'importanza della negoziazione e della contrattazione collettiva nella lotta contro le discriminazioni a danno delle donne, segnatamente in materia di accesso all'occupazione, retribuzioni, condizioni di lavoro, avanzamento nella carriera e formazione professionale;
· ritiene importante, nell'ambito delle strategie e dei piani relativi alla ripresa economica, l'adozione di misure esemplari di filiera che sostengano percorsi di istruzione e di formazione specifici con inserimenti mirati nel mercato del lavoro per le ragazze e per le donne, nei settori strategici dello sviluppo e in ruoli e qualifiche ad alto livello tecnologico e scientifico.
Il 19 ottobre 2010 il Parlamento europeo ha inoltre approvato una risoluzione sulle lavoratrici precarie. Considerando come la sovrarappresentazione delle donne nei posti di lavoro precari sia uno dei principali fattori che contribuiscono al divario di genere, il Parlamento europeo chiede alla Commissione e agli Stati membri di adottare specifiche misure legislative volte a garantire a tutti i dipendenti parità di accesso ai servizi e alla tutela sociale, compreso il congedo di maternità, l'assistenza sanitaria e le pensioni di anzianità nonché l'istruzione e la formazione professionale, a prescindere dalle condizioni di lavoro. Per quanto riguarda il settore delle collaborazioni domestiche, il Parlamento europeo invita inoltre la Commissione a sostenere gli Stati membri nella messa a punto di una campagna finalizzata a una graduale trasformazione del lavoro precario in lavoro regolare.
Secondo i risultati di un’indagine ISFOL sui differenziali retributivi di genere in Italia[3] il modello di organizzazione sociale e familiare ancora prevalente in Italia costringe la donna a preoccuparsi della gestione dei tempi di vita e di lavoro e ad attribuire agli aspetti di flessibilità oraria e lavorativa un’importanza maggiore di quella percepita dagli uomini. In questa accezione, la flessibilità è vista più come una necessità che come una scelta volontaria delle occupate che devono ricoprire anche il ruolo di madri e produttrici domestiche. Inoltre, una maggiore flessibilità nei tempi di lavoro può essere utile anche per poter gestire al meglio la propria vita privata.
La componente femminile dell’offerta di lavoro si trova di fronte a un organizzazione sociale e del mondo del lavoro poca adatta alle esigenze e alle necessità imposte alle donne dalla stessa società, ancora distante da un’effettiva divisione paritaria dei ruoli nella gestione e nell’espletamento del lavoro non retribuito.
Nella ricerca di compromessi tra lavoro di cura e lavoro retribuito vengono di fatto minati i percorsi di carriera delle donne. L’instabilità lavorativa si riflette sul lavoro svolto (oltre il 15% delle lavoratrici impiegate in contratti a termine mentre il 10% per gli uomini), sulla posizione professionale (donne concentrate su posizioni intermedie, specie impiegatizie) e sulle retribuzioni.
In primo luogo, la necessità di conciliare i vari aspetti della vita lavorativa, familiare e sociale preclude alle donne lo svolgimento di attività che richiedono mobilità, disponibilità e flessibilità oraria tipiche del lavoro autonomo. Il part-time è l’unico strumento di conciliazione efficace per gran parte delle donne, tanto che l’orario ridotto occupa il 26% delle lavoratrici dipendenti essendo l’istituto contrattuale che più spesso si attaglia alle esigenze delle donne nell’età lavorativa[4].
Il part-time incide anche sulle chance di progressione professionale delle occupate, per cui la quota di occupate a tempo parziale che svolge ore di lavoro straordinario (retribuito o meno) é di gran lunga inferiore alla medesima quota registrata tra le lavoratrici a tempo pieno (21% contro 28,7%).
Il maggiore carico di lavoro domestico corrisponde ad un maggiore sacrificio delle chance di carriera nel mercato del lavoro, visto che in presenza di un figlio piccolo la possibilità di avere un aiuto nelle attività di lavoro domestico e di cura permette alle donne di intensificare sensibilmente il loro impegno nelle attività di lavoro retribuito. Con riferimento alla cura del bambino in caso di malattia il familiare incaricato è al 70 % la madre, mentre nelle famiglie dove il padre viene indicato come persona di riferimento per le attività di cura, la quota di donne che svolgono lavoro straordinario è aumenta al 29 % rispetto al 20% di coloro che si occupano del bambino.
Per quanto concerne i differenziali retributivi, la misura del salario orario è uno strumento utile per cogliere le discrasie esistenti nella valutazione di una singola unità di lavoro prestata da uomini e donne. In base ai dati dell’indagine ISFOL-CPG, 2007, il salario medio per l’uomo è di 8,6 euro e di 8,0 euro per le donne lavoratrici dipendenti. Inoltre, il gap retributivo medio aumenta sia tra i giovani che tra i lavoratori anziani, ampliandosi fino a 15 punti percentuali tra i lavoratori di bassa scolarizzazione che a quelli di alta scolarizzazione, mentre si riduce al di sotto del 10% tra i lavoratori diplomati; d’altra parte, il differenziale è contenuto tra i lavoratori in età compresa tra i 30 e i 39 anni, come anche nelle aree del Mezzogiorno.
Legislazione italiana
L’esame della legislazione italiana in materia di pari opportunità non può non prendere le mosse da una ricognizione dell’ordinamento dell’Unione europea.
In tal senso si segnala il principio del divieto di discriminazione,contenuto nell’articolo 13 del Trattato di Amsterdam, per cui il Consiglio, su proposta della Commissione e previa consultazione del Parlamento, può prendere opportuni provvedimenti al fine di contrastare le discriminazioni fondate sul sesso, la razza, l’origine etnica, la religione o le convenzioni personali, gli handicap, l’età o le tendenze sessuali.
In questo contesto, vanno inquadrate alcune recenti direttive europee che hanno disciplinato la parità di trattamento e la salvaguardia della dignità nei luoghi di lavoro.
In particolare, sono state recepite nel nostro ordinamento tre importanti direttive concernenti la tutela dei principi in precedenza richiamati[5]:
§ la Direttiva 2000/43/CE del 26 settembre 2000, del Consiglio, attuativa del principio della parità di trattamento fra le persone indipendentemente dalla razza e dall'origine etnica (cd. Direttiva “razza”), recepita con il D.Lgs. 9 luglio 2003, n. 215;
§ la Direttiva 2000/78/CE del 27 novembre 2000, del Consiglio, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro indipendentemente dalla religione o le convinzioni personali, gli handicap, l’età o le tendenze sessuali (c.d. Direttiva “quadro”), recepita con il D.Lgs. 9 luglio 2003, n. 216;
§ la Direttiva 2002/73/CE del 23 settembre 2002, del Parlamento europeo e del Consiglio che modifica la Direttiva 76/207/CEE del Consiglio relativa all'attuazione del principio della parità di trattamento tra gli uomini e le donne per quanto riguarda l'accesso al lavoro, alla formazione e alla promozione professionali e le condizioni di lavoro, recepita con il D.Lgs. 30 maggio 2005, n. 145.
Per quanto attiene ai primi due provvedimenti - i D.Lgs. 9 luglio 2003, n. 215 e n. 216 - adottati in esecuzione del disposto della legge comunitaria per il 2001 (legge 1° marzo 2002, n. 39) -, il legislatore italiano ha delegato il Governo all’emanazione dei due decreti, limitandosi, per la Direttiva 2000/78/CE, a dettare semplici criteri direttivi generali senza prevedere principi quadro speciali, mentre per la direttiva 2000/43/CE, oltre ai principi generali, sono stati predisposti criteri direttivi speciali all’articolo 29.
Più, specificamente, le due direttive, come riportato nel Rapporto annuale 2005 su uguaglianza e non discriminazione della Commissione europea[6], sono state adottate nel 2000 “per fissare standard minimi comuni nelle leggi in vigore negli Stati membri UE contro la discriminazione fondata sulla razza o l’origine etnica, la religione o le convinzioni personali, la disabilità, l’età o l’orientamento sessuale. L’obiettivo è creare un quadro giuridico generale per combattere queste forme di discriminazione e tradurre così nella pratica il principio della parità di trattamento”.
E’ opportuno rilevare come il legislatore italiano abbia scelto di mantenere separati i contenuti e i principi di attuazione delle due direttive, invece di unificare in un unico provvedimento le tutele predisposte. Tale scelta ha portato, secondo parte della dottrina, ad una serie di disparità di tutela tra soggetti discriminati in ragione della razza e dell’origine etnica e soggetti discriminati in ragione della religione, convinzioni personali, handicap, età e orientamento sessuale.
Entrambi i provvedimenti di attuazione introducono le definizioni di discriminazione diretta e discriminazione indiretta, ampliando contestualmente l’operatività della tutela antidiscriminatoria rispetto al dettato delle direttive. In tale contesto, di particolare rilevanza è la disposizione che introduce, seppure in maniera indiretta (e con valenza limitata all’ambito di intervento del provvedimento), nell’ordinamento nazionale, una definizione del c.d. mobbing,individuato nell’attuazione di molestie ovvero di comportamenti indesiderati con lo scopo e l’effetto di violare la dignità personale creando un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante od offensivo. Anche tali “molestie” vengono considerate come comportamenti discriminatori.
Contro gli atti discriminatori (e quindi anche contro il mobbing) si prevedono una serie di tutele anche sul piano giurisdizionale. In primo luogo, sono considerati nulli, in materia di lavoro, i patti o atti volti a discriminare per i motivi suddetti. Per agevolare la prova dei fatti discriminatori, si ammettono le presunzioni semplici anche sulla base di dati statistici. Inoltre, oltre a prevedersi la possibilità di ottenere il risarcimento del danno anche non patrimoniale, si attribuisce al giudice il potere di ordinare la cessazione del comportamento discriminatorio, nonché la rimozione degli effetti.
Con il D.Lgs. 30 maggio 2005, n. 145, attuativo della Direttiva 2002/73/CE, vengono codificati i concetti di molestia sessuale e molestia in ragione del sesso nei luoghi di lavoro. In particolare, viene novellata la legge n. 125/1991, recante “Azioni positive per la realizzazione della parità uomo-donna nel lavoro”, successivamente abrogata e sostituita dal D.Lgs. 11 aprile 2006, n. 198, recante “Codice delle pari opportunità tra uomo e donna, a norma dell’articolo 6 della L. 28 novembre 2005, n. 246” (per quanto concerne le pari opportunità nelle istituzioni pubbliche, si rinvia all’apposita scheda).
Nella normativa richiamata, dopo aver riformulato le nozioni di discriminazione diretta e indiretta in ragione del sesso, vengono considerate espressamente come discriminazioni anche le molestie sessuali e le molestie per ragioni connesse al sesso. A tal riguardo, l’articolo 26 del D.lgs. 246/2005 definisce le molestie come quei comportamenti indesiderati, posti in essere per ragioni connesse al sesso, aventi lo scopo o l'effetto di violare la dignità di una lavoratrice o di un lavoratore e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante o offensivo. Le molestie sessuali invece vengono individuate in quei comportamenti indesiderati a connotazione sessuale, espressi in forma fisica, verbale o non verbale, aventi lo scopo o l'effetto di violare la dignità di una lavoratrice o di un lavoratore e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante o offensivo.
Per tutelare i lavoratori da tali pratiche si prevede espressamente che gli atti, i patti o i provvedimenti concernenti il rapporto di lavoro dei lavoratori o delle lavoratrici vittime dei comportamenti di molestie di cui sopra sono nulli se adottati in conseguenza del rifiuto o della sottomissione ai comportamenti medesimi. Inoltre, si introduce per la persona discriminata per motivi connessi al sesso (e quindi anche nel caso di molestie) la possibilità del risarcimento del danno anche non patrimoniale (cd. danno esistenziale).
È pacifico osservare che i provvedimenti richiamati operano in realtà strettamente collegate. Si pensi al concetto di “molestia in ragione del sesso nei luoghi di lavoro”, che presenta attinenze sia con il fenomeno delle molestie sessuali, sia con il mobbing. Al riguardo è opportuno ricordare che progressivamente, prima che lo stesso legislatore si occupasse della materia, sia le analisi sociologiche sia l'elaborazione dottrinaria e giurisprudenziale hanno enucleato le due fattispecie delle molestie sessuali nei luoghi di lavoro e del mobbing. Nonostante le differenze, tra i due fenomeni esistono significative analogie, non solo quanto alla loro natura, ma anche per le problematiche connesse a un intervento legislativo volto a reprimerli o prevenirli, in considerazione della difficoltà di tipizzare condotte che si possono esplicare in una grande varietà di atti e comportamenti e in cui entrano in gioco elementi soggettivi di carattere psicologico difficilmente riconducibili sul piano di una rigorosa analisi probatoria.
Da ultimo, si ricorda che il D.Lgs. 25 gennaio 2010, n. 5, adottato in attuazione degli articoli 1, 2 e 9 della legge 7 luglio 2009, n. 88 (Legge comunitaria 2008), ha attuato la direttiva 2006/54/CE, del Parlamento europeo e del Consiglio, del 5 luglio 2006, riguardante l’attuazione del principio delle pari opportunità e della parità di trattamento fra uomini e donne in materia di occupazione e impiego (rifusione).
La direttiva richiamata contiene norme riguardanti la parità di trattamento in materia di accesso al lavoro, promozione e formazione professionale e condizioni di lavoro, compresa la retribuzione e di regimi professionali di sicurezza sociale. In particolare, si segnala i seguenti ambiti di intervento:
· sulla parità retributiva, si afferma la necessità di eliminare ogni discriminazione tra sessi, diretta o indiretta, nella remunerazione di uno stesso lavoro o di un lavoro al quale è attribuito un valore uguale;
· sulla parità di trattamento nel settore dei regimi professionali di sicurezza sociale (di protezione controrischiderivanti da malattia, invalidità, vecchiaia, infortunio sul lavoro o malattia professionale e disoccupazione), si vieta ogni discriminazione nell'accesso fondata sulla differenza di genere, nonché nell’obbligo di versamento e la misura dei contributi, come d’altro canto l'importo, la durata e il mantenimento delle prestazioni;
· sulla parità di trattamento in materia di accesso al lavoro, formazione e promozione professionale e in materia di condizioni di lavoro, si vietano le discriminazioni concernenti i criteri di selezione per l'accesso ad un impiego, pubblico o privato le condizioni di selezione e di assunzione, l’orientamento e la formazione professionale, le condizioni di lavoro, di licenziamento e la retribuzione ed, infine, l'affiliazione e l'attività in un'organizzazione di lavoratori o di datori di lavoro.
Il D.Lgs. 5/2010 è intervenuto su alcuni provvedimenti già presenti nell’ordinamento, tra i quali il D.Lgs. 198/2006. Più specificamente, l'articolo 1 del D.Lgs. 5/2010 ha novellando vari articoli del D.Lgs. 198 sopra citato di cui, in sintesi, si riportano le modifiche ed integrazioni più rilevanti.
All’articolo 1 del D.Lgs. 198 si specifica, tra gli altri, che il principio della parità di trattamento e di opportunità tra donne e uomini deve essere assicurato in tutti i campi, compresi quelli dell'occupazione, del lavoro e della retribuzione, non ostando esso al mantenimento o all'adozione di misure che prevedano vantaggi specifici a favore del sesso sottorappresentato.
Agli articoli da 8 a 10 del D.Lgs. n. 198 si modifica la disciplina del Comitato nazionale per l'attuazione dei principi di parità di trattamento ed uguaglianza di opportunità tra lavoratori e lavoratrici (istituito presso il Ministero del lavoro, della salute e delle politiche sociali).
Per quanto concerne la composizione dell'organo, si incrementa il numero dei componenti designati da alcune parti sociali, e si prevede che, in caso di ritardo nelle designazioni, il Comitato possa essere costituito sulla base di quelle pervenute (fatta salva la successiva integrazione). Riguardo ai compiti dell'organo, viene aggiunta l'elaborazione di iniziative per favorire il dialogo tra le parti sociali e il dialogo con le organizzazioni non governative che abbiano un legittimo interesse al conseguimento dell'obiettivo della parità, nonché lo scambio di informazioni disponibili in materia con gli organismi europei omologhi.
Agli articoli 12, 14, 15, 16 e 17 del D.Lgs. n. 198, riguardanti la figura delle consigliere e dei consiglieri di parità, si dispone che il supplente agisca su mandato del titolare, mentre viene abrogato il limite di rinnovo per una sola volta del mandato quadriennale. Riguardo all'attività dei consiglieri si introducono i nuovi compiti dello svolgimento di inchieste indipendenti in materia di discriminazioni sul lavoro e della pubblicazione di relazioni indipendenti e di raccomandazioni nella medesima materia .
Per quanto concerne permessi e indennità, le novelle non modificano - fatta eccezione per l’incremento del termine di preavviso dell'astensione dal lavoro (che viene portato a 3 giorni antecendenti l’assenza) - le norme riguardanti la consigliera o il consigliere nazionale e quelle concernenti i permessi retribuiti per le consigliere e i consiglieri regionali e provinciali. Viene, invece, soppresso l'istituto degli ulteriori permessi non retribuiti per le consigliere e i consiglieri regionali e provinciali, in relazione ai quali è viene corrisposta un'indennità mensile, spettante anche nel caso in cui i soggetti siano lavoratori autonomi o liberi professionisti (ai quali la normativa previgente attribuiva, invece, un'indennità rapportata al numero di ore di attività prestata come consigliera o consigliere).
Le novelle agli articoli 25 e 26 del D.Lgs. n. 198 specificano che costituisce discriminazione anche ogni trattamento meno favorevole subito in ragione dello stato di gravidanza, di maternità o di paternità, nonché in conseguenza del rifiuto di atti di molestie o di molestie sessuali.
Riguardo alle novelle relative ai successivi articoli da 27 a 30 del D.Lgs. n. 198, si segnala l'estensione esplicita del divieto di ogni forma di discriminazione alle promozioni professionali, nonché (articolo 28) il divieto di “qualsiasi discriminazione, diretta e indiretta, concernente un qualunque aspetto o condizione delle retribuzioni, per quanto riguarda uno stesso lavoro o un lavoro al quale è attribuito un valore uguale”.
Viene poi inserito un nuovo articolo 30-bis, che introduce la disciplina sul divieto di discriminazione (diretta o indiretta) nelle forme pensionistiche complementari collettive.
Le novelle agli articoli 36, 37, 38 e 41, nonché l'inserimento dell’articolo 41-bis, concernono la tutela giurisdizionale e il regime sanzionatorio. Le modifiche principali appaiono consistere in un più completo richiamo (anche in relazione alle precedenti novelle) dei divieti di discriminazione stabiliti dalle norme sostanziali, in un inasprimento delle sanzioni penali e nell'estensione della tutela contro i comportamenti pregiudizievoli posti in essere, nei confronti di qualsiasi persona (anche terza), quale reazione ad un'attività diretta ad ottenere il rispetto del principio di parità di trattamento tra lavoratori e lavoratrici.
Il nuovo articolo 41-bis introduce il concetto di “vittimizzazione”, ai sensi del quale la tutela giurisdizionale assicurata trova applicazione contro ogni comportamento pregiudizievole posto in essere, nei confronti della persona lesa da una discriminazione o di qualunque altra persona, quale reazione ad una qualsiasi attività diretta ad ottenere il rispetto del principio di parità di trattamento tra uomini e donne.
La novella all'articolo 42 specifica che le azioni positive (ivi definite) possono avere anche lo scopo di "valorizzare" il contenuto professionale delle mansioni a più forte presenza femminile.
Viene introdotto, poi, il nuovo articolo 50-bis, in base al quale i contratti collettivi di lavoro possono prevedere misure specifiche - ivi compresi codici di condotta, linee guida e buone prassi - per la prevenzione delle forme di discriminazione in oggetto (e, in particolare, delle molestie e delle molestie sessuali).
Si ricorda, nella L. 4 novembre 2010, n. 183, recante "Delega al Governo in materia di lavori usuranti e di riorganizzazione di enti, misure contro il lavoro sommerso e norme in tema di lavoro pubblico e di controversie di lavoro", (cd. "Collegato lavoro"), che l'articolo 21, modificando in più parti il D.lgs. 165/2001[7], ha introdotto nell’ordinamento alcune norme volte a garantire le pari opportunità, il benessere di chi lavora e l’assenza di discriminazioni all’interno delle pubbliche amministrazioni.
In particolare, con la modifica dell’articolo 7 del D.lgs. 165/2001, in materia di gestione delle risorse umane, le pubbliche amministrazioni devono garantire parità e pari opportunità tra uomini e donne, oltre all’assenza di ogni forma di discriminazione, diretta e indiretta, relativa al genere, all’età, all’orientamento sessuale, alla razza, all’origine etnica, alla disabilità, alla religione o alla lingua, nell’accesso al lavoro, nel trattamento e nelle condizioni di lavoro, nella formazione professionale, nelle promozioni e nella sicurezza sul lavoro.
Viene istituito, poi, presso le p.a. il “Comitato Unico di Garanzia per le pari opportunità, la valorizzazione del benessere di chi lavora e contro le discriminazioni”[8]6, con compiti propositivi, consultivi e di verifica, nonché quelli di contribuire all’ottimizzazione della produttività del lavoro pubblico, di migliorare l’efficienza delle prestazioni collegata alla garanzia di un ambiente di lavoro caratterizzato dal rispetto dei principi di pari opportunità, di benessere organizzativo e dal contrasto di qualsiasi forma di discriminazione e di violenza morale o psichica per i lavoratori.
Infine, a completamento degli interventi sopra citati si prevede:
· in tema di azioni delle pubbliche amministrazioni volte a garantire pari opportunità tra uomini e donne ai fini dell'accesso al lavoro e del trattamento sul lavoro, il finanziamento dei programmi di azioni positive e attività da parte dei Comitati unici di garanzia per le pari opportunità, per la valorizzazione del benessere di chi lavora e contro le discriminazioni;
· l’adozione da parte delle p.a. di tutte le misure per attuare le direttive dell’ Unione europea in materia di pari opportunità, contrasto alle discriminazioni ed alla violenza morale o psichica, sulla base di quanto disposto dal Dipartimento della funzione pubblica della Presidenza del Consiglio dei ministri.
[1] Eurostat, Indagine sulle forze di lavoro 2006.
[2] Nel 2002 il Consiglio europeo ha invitato gli Stati membri a "eliminare gli elementi dissuasivi alla partecipazione delle donne alla forza lavoro e adoperarsi, tenendo conto della richiesta di servizi di custodia dei bambini e conformemente ai modelli nazionali di offerta di tali servizi, per fornire, entro il 2010, servizi ad almeno il 90% dei bambini di età compresa tra i 3 anni e l'età dell'obbligo scolastico e ad almeno il 33% dei bambini al di sotto dei 3 anni".
[3] Rompere il cristallo, 2010.
[4] Peraltro, per una donna con figli in età inferiore ai 6 anni aumenta di circa 13 punti percentuali la probabilità di essere occupata a tempo parziale.
[5] Tali direttive riguardano, in alcuni casi, la parità di trattamento in linea generale, applicandosi quindi anche alla materia del lavoro, come la direttiva 2000/43/CE; mentre in altri si riferiscono esclusivamente alla parità di trattamento in tema di occupazione e di condizioni di lavoro, come nelle direttive 2000/8/CE e 2002/73/CE.
[6] Commissione europea, Direzione generale dell’Occupazione, degli affari sociali e delle pari opportunità: Uguaglianza e non discriminazione - Rapporto annuale 2005 (aprile 2005).
[7] D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, “Norme generali sull'ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche”.
[8] Il comitato, di composizione paritetica e formato da un rappresentante delle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative e da uno dell’amministrazione, mentre il presidente è designato dall’amministrazione, sostituisce, unificando le relative competenze, i Comitati per le Pari opportunità e dei Comitati paritetici per il fenomeno del mobbing.