Camera dei deputati - XV Legislatura - Dossier di documentazione (Versione per stampa)
Autore: Servizio Studi - Dipartimento affari esteri
Titolo: La situazione in Medio Oriente
Serie: Documentazione e ricerche    Numero: 82
Data: 18/06/2007
Descrittori:
MEDIO ORIENTE     
Organi della Camera: III-Affari esteri e comunitari


Camera dei deputati

XV LEGISLATURA

 

 

 

 

 

SERVIZIO STUDI

Documentazione e ricerche

 

 

 

 

 

 

 

La situazione in Medio Oriente

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

n. 82

 

 

18 giugno 2007


 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Dipartimento affari esteri

 

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File:es0116.doc


INDICE

 

Schede di lettura

La Situazione nei Territori3

La situazione in Libano  9

Recenti sviluppi della crisi irachena  21

§      U. De Giovannangeli ‘Noi di Hamas non siamo nemici degli Stati Uniti’, in: Limes, n. 1/2007  33

§      A. Bar-Yosef ‘Israele e USA – Il gemellaggio resiste, in: Limes, n. 1/2007  33

§      S. Romano ‘L’Iran oltre Ahmadinejad’, in: Il Mulino, n. 2/2007  33

§      M. Schwartz ‘Il contraccolpo iracheno’, in: Il Mulino, n. 1/2007  33

§      F. Venturini ‘Gli Stati Uniti, l’Europa e il Medio Oriente dopo le elezioni americane’, in: Affari esteri, n. 153/2007  33

§      M. Lucentini ‘L’Iraq, gli Stati Uniti e Israele, in: Affari esteri, n. 153/2007  33

§      L. V. Ferraris ‘Dal Libano una diplomazia bilaterale per il Medio Oriente, in: Affari esteri, n. 153/2007  33

§      R. Leenders ‘Regional Conflict Formations: is the Middle East next?’, in: Third World Quarterly, n. 5/2007 (in inglese)33

§      J. D. Fearon ‘Iraq’s Civil War’, in: Foreign Affairs, marzo/aprile 2007 (in inglese)33

§      P. R. Neumann ‘Negotiating With Terrorists, in: Foreign Affairs, gennaio/febbraio 2007 (in inglese)33

Documentazione

§      Risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, n. 1757 del 30 maggio 2007, che istituisce il Tribunale Speciale per il Libano  37

 

 


Schede di lettura

 


La Situazione nei Territori

(Nota di aggiornamento)

 

Le ultime settimane hanno registrato un inasprimento degli scontri interpalestinesi che hanno fatto precipitare la situazione nei Territori.

Le milizie di Hamas, dopo giorni di violenti combattimenti, hanno infatti preso il controllo della Striscia di Gaza, inducendo il Presidente dell’Anp Abu Mazen a sciogliere il governo di unità nazionale palestinese - insediatosi nel febbraio scorso grazie alla mediazione del governo saudita - per formare un nuovo esecutivo d'emergenza nazionale.

 

Gli scontri più cruenti, che hanno causato oltre un centinaio di morti e numerosi feriti, sono avvenuti a Gaza City ed hanno avuto di mira in particolare il quartier generale della Sicurezza preventiva – la principale roccaforte in mano ai miliziani di al-Fatah fedeli al Presidente dell'Autorità nazionale palestinese -  sul quale ora sventola la bandiera verde islamica di Hamas.

Successivamente, le milizie di Hamas hanno assunto il controllo della sede dei servizi segreti dell'Anp a Gaza, conquistato la sede della radio palestinese, confiscato l'equipaggiamento e incendiato l'edificio. La contemporanea caduta di Rafah sotto il controllo dell'organizzazione estremista ha reso completo il suo controllo militare sulla Striscia di Gaza.

 

In risposta alle violenze, il Presidente Abu Mazen, ricorrendo ai poteri di emergenza previsti dalla Costituzione, ha sciolto il governo del premier di Hamas, Ismail Haniyeh, formando in tempi ristretti un nuovo esecutivo guidato dall'economista moderato Salam Fayad - ex funzionario della Banca Mondiale stimato a livello internazionale, esponente del piccolo Partito della Terza Via, già due volte ministro delle Finanze - e composto da dodici ministri prevalentemente tecnici, non appartenenti né all'organizzazione islamica di Hamas né ad al- Fatah.

 

Abu Mazen ha inoltre dichiarato fuorilegge gli organismi militari e paramilitari di Hamas, dalla Forza Esecutiva alle brigate Ezzedine al-Qassam (“per aver compiuto una ribellione armata contro la legalità palestinese e le sue istituzioni", si legge nel decreto presidenziale), congelando nel contempo il conto bancario facente capo all'ex-governo di unità nazionale.

 

Il nuovo premier Salam Fayyad - che oltre a conservare il dicastero delle Finanze ed essere titolare di quello degli Esteri è stato nominato a capo del nuovo Consiglio di Sicurezza nazionale – nella sua prima dichiarazione pubblica, ha mostrato toni concilianti, lanciando un appello all'unità tra Gaza e la Cisgiordania: "noi", ha proclamato Fayyad, "insistiamo su un'unita' organica, tanto amministrativa quanto politica, delle due parti della nostra patria, la Striscia di Gaza e la Cisgiordania, rilevando inoltre come ristabilire la sicurezza nei Territori sia un compito "difficile ma non impossibile".

Il presidente Abu Mazen ha invece sottolineato come tra la priorità del nuovo governo - il cui mandato, che non dovrà ricevere la fiducia dell'assemblea legislativa, durerà trenta giorni e potrà essere rinnovato per un altro mese ma solo con il beneplacito del Parlamento - vi sia anzitutto la revoca dell'embargo finanziario stabilito all'indomani della vittoria elettorale di Hamas.

 

Quest’ultima, da parte sua, ha subito definito il nuovo esecutivo “illegittimo e illegale”, frutto di ''un colpo di Stato'' che, di fatto, esautora il Parlamento di Ramallah, dove l’organizzazione estremista detiene una maggioranza assoluta.

 

La Comunità internazionale - e in particolare Stati Uniti, Ue, Russia e Cina,  ha invece espresso senza indugi il proprio sostegno al nuovo gabinetto d’emergenza, dichiarandosi altresì disponibile alla ripresa degli aiuti. Importanti segnali di apertura al dialogo sono giunti anche dal primo ministro israeliano Ehud Olmert, che nel corso di una visita negli Stati Uniti si è dichiarato pronto a “cooperare con il nuovo Governo” e a discutere con il Presidente palestinese “l'orizzonte politico per quella che diventerà (...) la base di un accordo permanente tra noi e i palestinesi''.

Secondo fonti di stampa israeliane, il Presidente palestinese Abu Mazen avrebbe intenzione di chiedere a Israele di compiere una serie di atti per rinforzare il potere di al-Fatah in Cisgiordania e nella Striscia, tra i quali l'attuazione del piano presentato dagli Stati Uniti per ampliare la libertà di movimento nei palestinesi nei Territori, con lo smantellamento di numerosi posti di blocco, la consegna delle imposte e tasse doganali trattenute da Israele dopo l'ascesa al potere di Hamas e il rilascio di numerosi detenuti palestinesi, primo fra tutti il leader del Tanzim, Marwan Barghouti; nell’ottica di una collaborazione con il nuovo Governo, Israele – che ha registrato nei giorni scorsi l'elezione a presidente di Shimon Peres e la nomina di Ehud Barak, nuovo leader dei laburisti, a ministro della Difesa in sostituzione di Peres - avrebbe intenzione di accogliere in parte tali richieste, sbloccando i fondi palestinesi e rimuovendo alcuni check point in Cisgiordania.

 

Per quanto concerne l’Unione Europea, i Ministri degli Esteri dei 27, riunitisi il 18 giugno a Lussemburgo per il Coniglio Affari Generali e Relazioni Esterne, hanno espresso il loro pieno sostegno politico al Presidente palestinese Abu Mazen e al nuovo governo di emergenza di Fayyad, che si concretizzerà anche nella ripresa di forme di aiuto finanziario diretto.

''Non ci sono dubbi sul fatto che una parte dei soldi che la Ue verserà ai palestinesi passerà per il conto che Fayyad ha costituito in quanto ministro delle finanze e che ha mantenuto come primo ministro. Quindi ci sarà una relazione diretta con il suo governo'', ha dichiarato l'Alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza comune Javier Solana. Il Consiglio, nel dichiararsi preoccupato per la massiccia violenza a Gaza e per le sue conseguenze umanitarie,  ha sollecitato tutte le parti coinvolte a cessare immediatamente le ostilità onde evitare di scivolare in una guerra civile. L'Ue ha chiesto inoltre che non sia contrastato in alcuna maniera la consegna degli aiuti umanitari alla popolazione, nonché ribadito la sua linea di totale sostegno al Presidente palestinese, manifestato anche dal Quartetto (Usa, Russia Onu e Ue), che in una sua recente dichiarazione affermava di ''riconoscere la necessità e legittimità''' della decisione di sciogliere il governo di unità nazionale.

 

Un sostegno al governo di emergenza palestinese di Salam Fayyad è giunto anche dai paesi arabi moderati; in particolare l'Egitto, secondo una dichiarazione del ministro degli Esteri Ahmed Aboul Gheit, ha chiesto “ai Paesi arabi e alla Comunità internazionale di fornire immediatamente tutte le forme di sostegno al popolo palestinese e al nuovo governo'', rinnovando  l'appello ''a tutte le fazioni palestinesi ad unirsi intorno alle istituzioni dell'Autorità nazionale palestinese sotto la direzione del presidente Mahmoud Abbas (Abu Mazen) e di impegnarsi per l'unità palestinese. In proposito, si segnala che anche il movimento islamico egiziano dei Fratelli musulmani, dichiarandosi profondamente scioccato per gli sviluppi a Gaza, ha preso le distanze da Hamas, cui è tradizionalmente legato, chiedendo “a tutte le parti, all'interno e fuori dalla Palestina, di rispettare la volontà del popolo palestinese che ha scelto il Presidente dell'Autorità nazionale e il Parlamento in elezioni libere e democratiche'', nonché “la messa in atto dell'accordo della Mecca che qualcuno ha cercato di distruggere e la ripresa del dialogo interpalestinese tra tutte le fazioni''.

 

In questo quadro, si rileva come secondo analisti arabi l'occupazione di Gaza sia stato l'ultimo errore compiuto da Hamas, che in tal modo sarebbe caduta in una trappola ordita da Israele e Stati Uniti. ''Hamas si è messo in prigione da solo e ha consegnato le chiavi al nemico'', ha dichiarato Emad Gad, il principale esperto egiziano di affari israeliani, secondo il quale ''chiuso dentro a 360 chilometri quadrati, Hamas si troverà a gestire un milione e mezzo di persone alle quali Israele può togliere tutto, acqua, elettricità, cibo. Quanto potrà durare? Cinque o sei settimane al massimo''. Il premier del governo di emergenza, che ha forti legami con gli Stati Uniti, otterrà immediato il sostegno dell'Occidente e i conseguenti aiuti: ''Conclusione, la Cisgiordania sarà il paradiso e Gaza sprofonderà ancor più nell'inferno'', ha affermato Gad. In questa prospettiva, secondo un quotidiano governativo egiziano, Hamas avrebbe “offerto su un piatto d'argento a Israele la separazione tra Cisgiordania e Gaza'' e ''ora che Gaza è sotto controllo del movimento islamico, comincia la seconda fase, isolare Hamas e dare tutto il potere a Ramallah (...); creando due entità separate non ci sarà più bisogno di nessun negoziato''. L'Anp verrebbe infatti riconosciuto governo legittimo e Hamas un potere ribelle ''che protegge a Gaza terroristi e sostenitori di al Qaida''.

 In tale scenario, la caduta, il 17 giugno, di due razzi lanciatI a quanto sembra da un gruppo palestinese[1] dal sud del Libano sulla cittadina di Kiryat Shmona, in Alta Galilea, ha dato sostanza al timore israeliano della creazione di un fronte islamico militante che a nord, dal Sud Libano, e a sud, dalla striscia di Gaza, verrebbe a stringere in una morsa lo Stato ebraico.

Anche se appare probabile che i razzi siano stati lanciati da un gruppo palestinese senza il preventivo assenso degli Hezbollah  (che ha dichiarato di non essere responsabile dell’episodio), nella stampa israeliana si ventila un collegamento tra l'entità islamica che si è costituita nella striscia di Gaza e i razzi caduti su Kiryat Shmona, mentre monta la preoccupazione che quanto successo a Gaza sia solo una tappa di un'avanzata islamica che potrebbe travolgere in futuro i regimi moderati e filo occidentali in Giordania, Egitto e Libano, con sullo sfondo un Iran in possesso di armi nucleari.

In questo scenario, si comprende il consenso israeliano verso la necessità di sostenere il Presidente palestinese Abu Mazen e le forze nazionalistiche pragmatiche che lo appoggiano, mentre a giudicare dai commenti giornalistici sussiste una corrente che pur condividendo la necessità di isolare politicamente ed economicamente la Striscia, anche in sintonia con Egitto e Giordania e con l'aiuto degli Usa, ritiene al tempo stesso che Israele debba fare ogni sforzo per evitare una crisi umanitaria a spese di un milione e mezzo di palestinesi.

Il leader dell'opposizione e del Likud Benyamin Netanyahu si è fatto fautore di questa linea con l'avvertenza tuttavia che Israele non potrà comunque tollerare per lungo tempo un regime di Hamas sostenuto e armato dall'Iran a poche decine di chilometri da Tel Aviv e Beersheva.

Per l'ex capo dello Shin Bet Carmi Gillon la situazione che si è creata pone Israele davanti alla necessità di adottare due politiche diverse: una nei confronti dell'entità islamica a Gaza e un'altra in Cisgiordania di apertura ad Abu Mazen.

Per l'orientalista dell'Università di Tel Aviv Eyal Zisser un confronto militare tra Israele e Hamas sarebbe invece inevitabile e sarebbe meglio che questo avvenisse al più presto possibile, dopo aver creato le necessarie condizioni al livello regionale e internazionale. A tale ultimo proposito, secondo il quotidiano saudita 'al-Jazeera', che cita come fonte la radio dell'Esercito israeliano, i vertici militari dello Stato ebraico avrebbero già presentato al premier Ehud Olmert un programma in dieci punti, con l'obiettivo di consegnare infine la Striscia ai nazionalisti pragmatici di al-Fatah; al primo ministro sarebbe stato chiesto di poter entrare in azione immediatamente, in modo da evitare che Hamas fondi uno Stato islamico appoggiato da Siria e Iran.

Il progetto prevederebbe, tra l'altro: l'invasione del settore nord dell'enclave e il consolidamento delle posizioni delle truppe israeliane; il trasferimento della popolazione legata a Fatah nella cittadina israeliana di Sderot, nonchè incursioni-lampo anti-Hamas volte a eliminare il maggior numero di miliziani. In una seconda fase, l'attuazione del piano dovrebbe portare al controllo completo da parte israeliana dei confini con l'Egitto, all'occupazione di tutta la Striscia, anche mediante il ricorso a massicce operazioni aeree e via mare; andrebbe inoltre acquisito il controllo completo dei valichi di Carney, Aires, Kirm Shalom, e garantita l'evacuazione da Gaza delle milizie di Fatah; infine il controllo dello spazio aereo andrebbe trasferito ai dirigenti del partito del presidente Abu Mazen, ora di fatto confinati in Cisgiordania.

 

Per quanto concerne la situazione attuale, il primo effetto della formazione del nuovo governo di emergenza palestinese è stato l’annuncio, sia da parte degli Stati Uniti che dell’Unione europea, della fine dell'embargo economico nei confronti del governo palestinese.

In particolare, il Segretario di Stato Usa Condoleezza Rice, nell’annunciare la volontà di sospendere le restrizioni finanziarie al governo palestinese ha spiegato che gli americani riprenderanno la piena assistenza a tale governo e normali contatti istituzionali, “al fine di sostenere gli sforzi per rafforzare la legalità e assicurare una vita migliore al popolo palestinese".

Il Segretario di Stato americano ha poi precisato che l'amministrazione Bush chiederà al Congresso di valutare il pacchetto di aiuti, pari a 86 milioni di dollari, previsti per le forze della sicurezza di Abu Mazen, e che potrebbero ora essere destinati ad altri impieghi. Inoltre, la Rice ha riferito che il contributo degli Stati Uniti, tramite le Nazioni Unite, sarà di ulteriori 40 milioni di dollari per aiutare i palestinesi, soprattutto della Striscia di Gaza ora controllata da Hamas.

Analogamente, i ministri degli esteri della Ue, riuniti nel Cagre del 18 giugno, oltre ad annunciare la ripresa del sostegno finanziario diretto al nuovo governo palestinese, hanno dichiarato il sostegno alla polizia civile palestinese attraverso la ripresa di Eupol Copps, la ripresa della missione Ue di assistenza ai confini a Rafah (Eubam) e sforzi intensi per costruire le istituzioni del futuro Stato palestinese.

I ministri hanno quindi espresso preoccupazione “per i gravissimi eventi di Gaza'', condannando nel modo più assoluto ''il violento colpo di Stato perpetrato dalle milizie di Hamas''; hanno infine espresso preoccupazione per la situazione umanitaria critica di Gaza, dichiarando che la Ue farà “tutto il possibile per assicurare l'assistenza umanitaria alla popolazione di Gaza, che non sarà abbandonata''.


La situazione in Libano

(Nota di aggiornamento)

 

 

Dopo la guerra della scorsa estate e la crisi istituzionale che ha condotto alla paralisi dell’attività politica, il governo Siniora è attualmente impegnato a risolvere una nuova crisi militare contro un gruppo islamista sunnita  - stabilitosi nei due maggiori campi profughi palestinesi in Libano, Ein el Helweh, nei pressi di Sidone, a sud di Beirut, e Nahr el Bared, vicino a Tripoli, nel nord -  le cui azioni violente stanno aggravando ulteriormente la già fragile situazione politica del Paese.

 

Il 20 maggio scorso si sono verificati i primi violenti scontri tra l'esercito libanese e militanti palestinesi di Fatah al-Islam, un gruppo sunnita accusato di essere alleato sia di al-Qaeda sia dei servizi segreti siriani[2], nei pressi del campo dei rifugiati palestinesi di Nahr al-Bared, nel nord del Libano. In questo campo, Fatah al-Islam ha installato il proprio quartier generale lo scorso novembre, dopo la scissione da Fatah al-Intifada, formazione armata apertamente appoggiata dal regime di Damasco.

 

Nei giorni successivi gli scontri si sono estesi anche a Tripoli e alla stessa capitale, causando oltre un centinaio di morti, fra cui diversi civili,  e numerosi feriti. A detta del ministro libanese Ahmed Fatfat, i guerriglieri sarebbero passati all'azione nell'intento di seminare ulteriore caos e di vanificare in tal modo i tentativi dell'ONU di creare il Tribunale internazionale speciale, chiamato a giudicare i responsabili dell'assassinio di Hariri. ll gruppo sarebbe infatti sospettato di essere implicato negli attentati avvenuti nel febbraio scorso  alla vigilia del secondo anniversario della morte di Hariri, e gli scontri si sarebbero intensificati con l’approssimarsi della votazione in Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite (avvenuta il 30 maggio) della risoluzione volta a istituire il suddetto Tribunale speciale internazionale dell'ONU per le indagini sull'omicidio di Rafiq Hariri.

 

Martedì 22 maggio una tregua ha posto fine a tre giorni di violenti scontri con uso di artiglieria pesante.  Dopo alcuni giorni tuttavia,  durante i quali molti  civili palestinesi hanno evacuato il campo e trovato rifugio altrove, il conflitto è ripreso con violenza ancora maggiore.

Il governo Siniora, che continua a soffrire di una grave crisi di legittimità dopo l'uscita dal governo nel dicembre scorso dell'opposizione sciita e cristiana (della parte del Generale Aoun), ha reagito con forza: a partire dal 1° giugno l’esercito libanese ha infatti lanciato un’offensiva contro i miliziani di Fatah al Islam asserragliati nel campo profughi palestinesi di Nahr al Bared; i combattimenti hanno di fatto segnato l’abbandono della prassi seguita all’Accordo del 1969 tra Libano e Lega Araba (per impulso soprattutto di Nasser), e per la quale ai campi profughi palestinesi è stata riconosciuta completa immunità, sovente estesa anche ai movimenti delle milizie in territorio libanese.

Molte delle postazioni dei guerriglieri nella parte nord del campo sono state espugnate e distrutte dall'esercito; la parte sud è rimasta invece presidiata da attivisti del movimento Fatah, fedele al presidente palestinese Abu Mazen e ostile a Fatah al Islam, che hanno eretto barricate. Nella stessa zona, risparmiata dal martellamento dell'artiglieria governativa, si sono radunati molti dei civili che ancora rimangono nel campo, oltre cinquemila (prima dell'inizio dei combattimenti erano più di 30 mila). L’avanzata dei militari libanesi nel campo profughi di Nahr al Bared è proseguita lentamente ma inesorabilmente: il 5 giugno si sono avute le prime defezioni tra i miliziani di Fatah al Islam, alcuni dei quali si sarebbero consegnati alle milizie di Al Fatah.

Il 4 giugno truppe libanesi hanno circondato anche il campo profughi palestinese di Ain el-Hilweh, nei pressi di Sidone  – il più esteso dei 12 campi profughi del Libano -  dopo gli scontri iniziati il giorno prima fra i soldati e militanti del gruppo Jund al Sham. Al momento non è certo se vi sia un collegamento fra i militanti del gruppo Fatah al Islam, asserragliati nel campo di Nahr el Bared,  e quelli di Jund al Sham, un piccolo gruppo di cui farebbero parte estremisti libanesi ricercati dalla giustizia e militanti palestinesi.

 Il pericolo di una escalation delle violenze nei campi profughi ha indotto l’OLP, e al suo interno tanto le fazioni islamiste che quelle laiche, a concordare la formazione di una forza congiunta palestinese per isolare le postazioni di Jund al Sham da quelle libanesi. Il 6 giugno è dunque arrivato in Libano il primo distaccamento (una quarantina di soldati) di militari palestinesi per vigilare sulla sicurezza dei campi profughi. Gli uomini saranno in tutto circa 150 e verranno dislocati nei quartieri di Taamir e Taware, a poca distanza dal campo di Ain el-Hilweh.

 

Per quanto concerne la situazione interna, l'attuale crisi militare, che tiene impegnato l'esercito, mobilitato su più fronti per contenere gli scontri ed evitare nuovi attentati, è stata usata dall'opposizione come ulteriore testimonianza della fragilità politica e militare del governo Siniora e della sua dipendenza dall'appoggio americano (gli Stati Uniti all'indomani dell'inizio degli scontri hanno inviato ingenti aiuti militari, peraltro già previsti dalla conferenza di Parigi dello scorso gennaio).

Per quanto tutte le fazioni politiche libanesi abbiano deplorato la spirale di violenza, gli scontri dei giorni scorsi hanno pertanto aggiunto ulteriori elementi di conflitto nel già instabile scenario politico libanese. All’inizio del conflitto, i partiti filogovernativi hanno infatti sostenuto che il gruppo fondamentalista sunnita è uno strumento della Siria che deve essere sradicato senza esitazioni, mentre i gruppi d'opposizione guidati dal movimento sciita Hezbollah si sono mostrati contrari ad un confronto militare che, come effetto collaterale,  potrebbe attirare al Qaida in Libano. 

Il leader druso Walid Jumblatt ha affermato che i miliziani di Fatah al Islam assediati dall'esercito nel Nord del Paese altro non sono che ''una gang siriana'' e ha sostenuto che Damasco potrebbe in futuro anche tentare di far fallire la missione dell'Unifil, il contingente delle Nazioni Unite schierato nel Sud del Libano. ''Mentre le truppe libanesi sono impegnate (nel Nord), la Siria interviene per seminare caos a Beirut e potrebbe anche raggiungere il Sud per ostacolare il lavoro delle forze dell'ONU'', ha detto, riferendosi agli attentati dinamitardi compiuti a Beirut nei giorni scorsi, che sono coincisi con i violenti scontri tra esercito libanese e miliziani di Fatah al Islam attorno al campo profughi palestinese di Nahr al Bared. 

Dall’altra parte, secondo il leader di Hezbollah Sayyed Hassan Nasrallah, l'attacco al campo di Nahr al Bared sarebbe stato “un errore” capace di attirare in Libano i combattenti di al Qaida. L'atteggiamento di Nasrallah ha fortemente irritato i suoi rivali: ''equiparare gli assassini, che sono agenti siriani, alle vittime, che sono soldati martiri, è una vergogna per la resistenza (Hezbollah)'', ha affermato Jumblatt. Secondo il premier Fuad Siniora, le parole di Nasrallah equivalgono a dirsi ''d'accordo con le azioni di Fatah al Islam''.

Secondo taluni analisti la ''cautela'' dello sciita Nasrallah nei confronti dei militanti sunniti si spiegherebbe con il desiderio di evitare che il Paese scivoli in uno scontro interconfessionale sul modello iracheno, posto che la retorica radicale di Fatah al-Islam contro sciiti e cristiani può avere ripercussioni negative sugli equilibri interconfessionali interni al Paese. Fatto sta che Nasrallah, dopo la sua iniziale presa di posizione contro Fatah al Islam e i suoi tentativi di destabilizzare il Libano, da giorni continua ad invocare una risoluzione del conflitto per via politica.

Intanto, come accennato, mercoledì 30 maggio il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha approvato la risoluzione 1757 sull'istituzione di un tribunale a carattere internazionale sull'uccisione, a Beirut nel 2005, dell'ex premier Rafik Hariri.

La risoluzione, approvata con 10 voti a favore e le astensioni di Russia, Cina, Sudafrica, Indonesia e Qatar,  prevede l'entrata in vigore automatica il 10 giugno della convenzione firmata tra Onu e Libano per la creazione del Tribunale speciale, e stabilisce che questo comincerà a funzionare in una data stabilita dal Segretario Generale dell'ONU tenendo conto dei progressi fatti dalla commissione d'inchiesta internazionale. Sulla questione è intervenuto anche il Ministro degli Esteri D’Alema, il quale ha dichiarato che si tratta di una decisione che potrebbe avviare a soluzione un nodo cruciale dello stato politico del Libano, anche se la costituzione di questo tribunale potrà determinare qualche tensione. Sempre secondo il Ministro degli Esteri, è importante spiegare ai paesi vicini, e alla Siria in primo luogo , che l’istituzione del Tribunale non è un gesto di rottura o una decisione contro Damasco, bensì un modo per riaffermare la sovranità e l'indipendenza del Libano. L'istituzione del Tribunale è stata peraltro molto criticata dalla stampa siriana: ''è una decisione politica voluta dagli Stati Uniti e da Israele'', ha scritto un quotidiano di Damasco, aggiungendo che ''con questa risoluzione gli Usa vogliono vendicarsi dei paesi della regione che si sono opposti alla loro occupazione dell'Iraq''.

Il Primo ministro libanese Fuad Siniora ha invece cercato di smorzare i toni, affermando che la creazione del tribunale ''non va contro nessuno e in particolare non va contro la sorella Siria. Si tratta di una vittoria per il Libano e per tutti i libanesi contro l'oppressione e il crimine''.

La creazione del Tribunale – che è stata la causa dell'uscita dei ministri dell'opposizione dal governo di unità nazionale nello scorso novembre, dopo che il Rapporto ONU - Mehlis sull'omicidio aveva accusato alcuni ufficiali libanesi e siriani di coinvolgimento nell'attentato contro l'ex Primo Ministro - rimane comunque fortemente osteggiata da Hezbollah e dal suo attuale alleato politico, il Generale Aoun. Nasrallah ha, in particolare, affermato che tale organo "provocherebbe ulteriori frammentazioni tra la popolazione";  è chiaro tuttavia che la sua creazione porterebbe a mettere sotto accusa la Siria, e quindi i suoi alleati in Libano, come il Presidente uscente Lahoud, complicando ulteriormente il quadro in vista delle prossime elezioni presidenziali che si terranno in autunno e che continuano ad essere fonte di rilevanti tensioni.

Si ricorda che i temi libanesi hanno costituito uno dei principali argomenti discussi il 5 giugno durante la visita del Ministro degli Esteri D’Alema a Damasco e a Beirut.

In Siria, il Ministronon ha mancato di rappresentare al Presidente Bashar Al Assad l’insostenibilità dello stallo politico libanese, soprattutto dopo l’inizio dei combattimenti nei campi profughi palestinesi.Damasco da parte sua ha ribadito di non avere alcun legame con i qaedisti di Fatah Al-Islam: "non abbiamo alcun rapporto con Fatah al-Islam" ha detto il Ministro degli Esteri siriano Walid Mo'Allem durante una conferenza stampa congiunta con il Ministro D'Alema.         Il responsabile della diplomazia siriana ha inoltre riferito di "scontri al confine con l'Iraq tra le truppe siriane e i miliziani legati ad Al Qaeda "costati la vita a sei guerriglieri". I fondamentalisti legati alla rete di Osama Bin Laden che proliferano nei campi profughi sono "perniciosi per la causa palestinese" ha detto Moallem. "Chi accusa la Siria di essere dietro questa organizzazione copre chi la finanzia e la sostiene". Ai giornalisti che gli chiedevano di specificare tale affermazione, il Ministro siriano si è limitato ad accusare l'invasione statunitense dell'Iraq che "ha attivato la presenza di Al Qaeda nel Paese e la sua diffusione in Siria e in Libano".

Da parte sua, il Ministro D’Alema ha manifestato la volontà del Governo italiano di "rilanciare un rapporto di collaborazione con la Siria" ed incoraggiarne un "contributo positivo e attivo" per la soluzione delle crisi regionali, dal Libano, all'Iraq, sino al conflitto israelo-palestinese. Sottolineando il "rilievo delle relazioni economiche e culturali" tra i due Paesi, D'Alema ha inoltre affermato che "l'Italia intende sostenere l'aspirazione della Siria ad arrivare ad un accordo di associazione con la UE". Per questo, sarà necessario "lavorare per rimuovere tutti gli ostacoli che sinora ne hanno impedito" la realizzazione. D'Alema e Moallem hanno quindi insistito sull'importanza della "stabilità dell'Iraq", del "futuro politico del Libano" – per il quale è stata espressa la necessità di "incoraggiare un accordo politico tra le parti che metta fine all'attuale situazione di stallo" - e della pace tra palestinesi e israeliani, ma anche tra arabi e israeliani; "nessuna di queste questioni potrà essere risolta senza un apporto positivo da parte della Siria", ha inoltre sottolineato il Ministro D’Alema.

In merito al Tribunale speciale, la Siria ha ribadito che avrebbe preferito che una tale decisione fosse stata presa dalle autorità e dal Parlamento libanesi, anziché dalle Nazioni Unite. In ogni caso, ha aggiunto D'Alema, questo Tribunale "non vuole costituire una minaccia nei confronti di nessuno, ma vuole essere una garanzia di giustizia".

A Beirut, il Ministro degli Esteri italiano ha quindi portato il messaggio di disponibilità della Siria a cooperare sulle più importanti questioni regionali.              In particolare, durante la visita, D'Alema ha espresso la sua solidarietà "al Libano, al popolo libanese e alle forze armate per l'attacco che hanno subito" da parte dei qaedisti asserragliati nei campi profughi palestinesi nel nord e nel sud del Paese, nonché un particolare apprezzamento per la "risposta forte del governo Siniora, sostenuta dalla grande maggioranza dei gruppi palestinesi e dalla totalità delle forze politiche libanesi" che va, però, equilibrata con l'impegno a "evitare le sofferenze dei civili palestinesi".

Il titolare della Farnesina ha poi voluto ricordare il "consenso italiano alla decisione del Consiglio di Sicurezza di istituire un Tribunale per accertare le responsabilità dell'omicidio dell'ex premier libanese Rafik Hariri"; un Tribunale che, ha ribadito, "non è una minaccia verso nessun paese”, ma anzi, è un modo per dimostrare che "il Libano non intende più subire il condizionamento della violenza e dell'omicidio politico".

 

Per quanto concerne gli sviluppi più recenti, si ricorda che la questione libanese è stata affrontata anche dal vertice dei Capi di Stato e di Governo dei paesi del G8 che si è svolto dal 6 all’8 giugno a Heiligendamm, in Germania.

In tale ambito, i paesi del G8 hanno ribadito il loro impegno per la sovranità, l'indipendenza e l'integrità territoriale del Libano, nonché il pieno sostegno al governo legittimo e democratico del premier Siniora. Dopo aver condannato le recenti violenze scoppiate nei campi profughi del Paese, hanno sollecitato tutti le parti a cooperare con il Tribunale speciale istituito dalla risoluzione Onu 1757, nonché invitato tutte le forze politiche libanesi a cercare una soluzione all’attuale crisi politica mediante il dialogo ed il rispetto delle istituzioni democratiche del Paese.

 

Sul fronte interno, si segnala invece che il 13 giugno,  in un attentato sul lungomare di Beirut,  hanno perso la vita il parlamentare libanese antisiriano Walid Eido, suo figlio Khaled, due guardie del corpo e altri due civili. L'attentato, duramente condannato dalla comunità internazionale, è l'ultimo di una catena di omicidi di personalità libanesi, cominciata con l’assassinio di Rafik Hariri, quasi sempre schierate su posizioni antisiriane.

Il premier Fuad Siniora ha chiesto che le Nazioni Unite assicurino al Libano assistenza tecnica per scoprire i responsabili dell'attentato,  e ha inoltre invitato la Lega Araba ad assumersi le proprie responsabilità per ''proteggere il Libano''.

Da più parti, insieme alle parole di condanna, sono arrivate accuse alla Siria di complicità per il grave attentato. La Siria ha tuttavia fatto pervenire la più ferma condanna per il grave atto criminale ed ha espresso la sua totale disapprovazione per le accuse di complicità provenienti innanzitutto dagli Stati Uniti.

Il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha infine dato il suo assenso alla commissione di inchiesta sull'omicidio dell'ex premier Rafik Hariri a fornire assistenza tecnica agli inquirenti libanesi che indagano sull'attentato che ha ucciso il deputato anti-siriano Walid Eido.

 

Da ultimo, si rammenta che il 17 giugno tre razzi katiuscia sono stati lanciati dal sud del Libano contro la città israeliana di Kyriat Shmona, facendo temere un rigurgito di violenza alla frontiera nord di Israele, neppure un anno dopo la fine della guerra contro il Libano. Secondo i servizi di sicurezza libanesi, Israele ha immediatamente risposto sparando cinque colpi di mortaio sul settore libanese di Shebaa, nel sud, ma l'esercito israeliano ha smentito questa notizia. Si tratta dei primi razzi lanciati dal sud del Libano dalla fine della guerra dell’estate scorsa. Hezbollah ha negato qualsiasi responsabilità sull’accaduto, mentre il Primo ministro libanese ha condannato il lancio dei razzi affermando che "l'attacco contro lo Stato ebraico contribuisce a minare la stabilità del Libano". Poco dopo l'attacco contro Israele, un'organizzazione palestinese, le Brigate Badr della Jihad–Libano, gruppo fino ad ora sconosciuto, ha rivendicato l’episodio.

 

 

 

L’azione diplomatica italiana per la soluzione della crisi libanese

 

L’Italia ha svolto un ruolo molto attivo per la pacificazione del Libano sconvolto dalla guerra del luglio-agosto 2006. Già il 26 luglio, a pochi giorni dall’inizio delle azioni militari, su iniziativa del nostro paese, è stata convocata la Conferenza di Roma dalla quale ha avuto origine la richiesta della autorizzazione all’invio di una forza internazionale in Libano sotto il mandato ONU.

Dopo la cessazione delle ostilità, si ricordano la visita in Libano del Ministro degli esteri D’Alema (20 dicembre)[3] e la visita a Beirut e al contingente italiano inquadrato nella forza di interposizione delle Nazioni Unite del Presidente del Consiglio (24 dicembre).

Inoltre, una delegazione delle Commissioni Esteri e Difesa della Camera ha compiuto il 18 e 19 gennaio 2007 una missione in Libano, al termine della quale è stata ribadita la necessità del rispetto scrupoloso, da parte di tutti i contendenti, della risoluzione 1701 del consiglio di Sicurezza dell’ONU, che ha posto fine al conflitto israelo-libanese dell’estate 2006. La delegazione del Parlamento italiano ha inoltre sostenuto la tesi della sovranità libanese sul territorio circostante alle fattorie di Sheeba, sovranità non riconosciuta da Tel Aviv.

Esattamente un mese dopo è stata la volta di una delegazione delle Commissioni Esteri e Difesa del Senato, la quale ha constatato la sostanziale tenuta della tregua assicurata dalla risoluzione 1701 e dalla missione UNIFIL. D’altro canto, però, la situazione interna libanese si è mostrata bloccata in una preoccupante impasse.

Si ricorda infine la visita del Presidente della Camera, on. Fausto Bertinotti, in alcuni Paesi del Medio Oriente, iniziata il 5-6 maggio proprio dal Libano, ove ha incontrato esponenti di governo e di opposizione, oltre a recarsi presso la base italiana nell’ambito della missione UNIFIL.

 

 

 

La missione UNIFIL

In risposta all’aggressione di un commando palestinese avvenuta in territorio israeliano, le forze armate di Israele invasero, nel marzo 1978, il sud del Libano dove si trovavano numerosi campi di rifugiati palestinesi. Il Consiglio di sicurezza dell’ONU invitò immediatamente Israele a ritirare le proprie truppe e, su richiesta del governo libanese, costituì, con la risoluzione 425/1978, la United Nations Interim Force In Lebanon (UNIFIL) con il compito, appunto, di verificare il ritiro delle truppe israeliane, oltre a quello di ristabilire la pace e la sicurezza internazionale e di assistere il Governo del Libano a ripristinare la sua effettiva autorità nella zona.

Il Consiglio di Sicurezza dell'ONU aveva deliberato l'invio di un contingente militare di 4.000 uomini con il compito di interporsi tra le forze palestinesi e le forze israeliane che arretrarono successivamente nei propri confini. Il mandato dell'UNIFIL, viene rinnovato ogni sei mesi sin da quando venne stabilito nel 1978. A seguito del ritiro delle truppe israeliane avvenuto nel giugno 2001 e del conseguente esaurimento di una parte del mandato, l’UNIFIL ha subito una graduale trasformazione, configurandosi come una missione di osservatori ed impiegando un minor numero di uomini (circa 2.000 nel settembre 2004).

Il contingente italiano, su base interforze, è operante in Libano dal luglio 1979 con compiti di ricognizione, ricerca e soccorso, trasporto sanitario e collegamento.

In seguito alla crisi dell’estate 2006, la missione UNIFIL è stata ridefinita dalla risoluzione n. 1701 dell’11 agosto 2006 del Consiglio di Sicurezza dell’ONU. La nuova risoluzione ha disposto una azione "cuscinetto" delle forze UNIFIL, dispiegate tra l'Esercito libanese e quello israeliano, in tutto il territorio libanese a sud del fiume Litani.

A tale scopo il contingente UNIFIL è stato incrementato fino a un massimo di 15.000 effettivi ed ha come nuovi compiti principali quelli di monitorare l’effettiva cessazione delle ostilità; accompagnare e sostenere le Forze armate libanesi nel loro dispiegamento nel Sud, anche lungo la Linea blu;  prestare la propria assistenza per contribuire ad assicurare l’accesso umanitario alle popolazioni civili e il volontario e sicuro ritorno delle persone sfollate. Il mandato dell’UNIFIL è prorogato al 31 agosto 2007.

Il 2 febbraio il generale Claudio Graziano ha assunto il comando dell'Unifil, subentrando al collega francese Alain Pellegrini.

 

 

 

La più recente attività parlamentare

 

Si ricordano tre recenti eventi di particolare rilievo che hanno riguardato il Parlamento italiano.

Il primo è l’informativa urgente del Governo sulla situazione in Libano resa dal Viceministro Ugo Intini nella seduta del 29 gennaio. In questa occasione il rappresentante del Governo ha riconfermato l’appoggio italiano al primo ministro Sinora e alla rivendicazione di legittimità del suo governo.

Il secondo evento parlamentare è la già citata missione di una delegazione congiunta delle Commissioni Esteri e Difesa della Camera, il 18 e 19 gennaio. Nelle comunicazioni sulla missione, rese dal Presidente della III Commissione, On. Ranieri, nella seduta del 25 gennaio, sono richiamati tutti i termini della crisi in corso, primo fra tutti il problema della ratifica del trattato per l’istituzione di un tribunale internazionale chiamato a giudicare i responsabili dell’assassinio di Hariri. L’interesse della Commissione Esteri per la situazione libanese è sfociato il 1° febbraio nell’approvazione di una risoluzione di iniziativa del presidente Ranieri (ris.ne n. 7-00106, sulla situazione in Libano), con la quale si impegna il governo a favorire in tutte le sedi internazionali la ripresa del dialogo tra le forze politiche libanesi, contribuendo, sia a livello bilaterale che in seno all'Unione europea, a mettere a disposizione del Libano le risorse finanziarie necessarie alla ricostruzione e alla ristrutturazione dell'economia. La risoluzione vincola infine il governo italiano “a seguire in seno al Consiglio di sicurezza dell'ONU l'evoluzione della crisi libanese e ad informare puntualmente e tempestivamente il Parlamento sugli ulteriori sviluppi della situazione”.

L’azione diplomatica italiana per la soluzione della crisi libanese

L’Italia ha svolto un ruolo molto attivo per la pacificazione del Libano sconvolto dalla guerra del luglio-agosto 2006. Già il 26 luglio, a pochi giorni dall’inizio delle azioni militari, su iniziativa del nostro paese, è stata convocata la Conferenza di Roma dalla quale ha avuto origine la richiesta della autorizzazione all’invio di una forza internazionale in Libano sotto il mandato ONU.

Dopo la cessazione delle ostilità, si ricordano la visita in Libano del Ministro degli esteri D’Alema (20 dicembre)[4] e la visita a Beirut e al contingente italiano inquadrato nella forza di interposizione delle Nazioni Unite del Presidente del Consiglio (24 dicembre).

Inoltre, una delegazione delle Commissioni Esteri e Difesa della Camera ha compiuto il 18 e 19 gennaio 2007 una missione in Libano, al termine della quale è stata ribadita la necessità del rispetto scrupoloso, da parte di tutti i contendenti, della risoluzione 1701 del consiglio di Sicurezza dell’ONU – che ha posto fine al conflitto israelo-libanese dell’estate 2006. La delegazione del Parlamento italiano ha inoltre sostenuto la tesi della sovranità libanese sul territorio circostante alle fattorie di Sheeba, sovranità non riconosciuta da Tel Aviv.

Esattamente un mese dopo è stata la volta di una delegazione delle Commissioni Esteri e Difesa del Senato, la quale ha constatato la sostanziale tenuta della tregua assicurata dalla risoluzione 1701 e dalla missione UNIFIL. D’altro canto, però, la situazione interna libanese si è mostrata bloccata in una preoccupante impasse.

La missione UNIFIL

In risposta all’aggressione di un commando palestinese avvenuta in territorio israeliano, le forze armate di Israele invasero, nel marzo 1978, il sud del Libano dove si trovavano numerosi campi di rifugiati palestinesi. Il Consiglio di sicurezza dell’ONU invitò immediatamente Israele a ritirare le proprie truppe e, su richiesta del governo libanese, costituì, con la risoluzione 425/1978, la United Nations Interim Force In Lebanon (UNIFIL) con il compito, appunto, di verificare il ritiro delle truppe israeliane, oltre a quello di ristabilire la pace e la sicurezza internazionale e di assistere il Governo del Libano a ripristinare la sua effettiva autorità nella zona.

Il Consiglio di Sicurezza dell'ONU aveva deliberato l'invio di un contingente militare di 4.000 uomini con il compito di interporsi tra le forze palestinesi e le forze israeliane che arretrarono successivamente nei propri confini. Il mandato dell'UNIFIL, viene rinnovato ogni sei mesi sin da quando venne stabilito nel 1978. A seguito del ritiro delle truppe israeliane avvenuto nel giugno 2001 e del conseguente esaurimento di una parte del mandato, l’UNIFIL ha subito una graduale trasformazione, configurandosi come una missione di osservatori ed impiegando un minor numero di uomini (circa 2.000 nel settembre 2004).

Il contingente italiano, su base interforze, è operante in Libano dal luglio 1979 con compiti di ricognizione, ricerca e soccorso, trasporto sanitario e collegamento.

In seguito alla crisi dell’estate 2006, la missione UNIFIL è stata ridefinita dalla risoluzione n. 1701 dell’11 agosto 2006 del Consiglio di Sicurezza dell’ONU. La nuova risoluzione ha disposto una azione "cuscinetto" delle forze UNIFIL, dispiegate tra l'Esercito libanese e quello israeliano, in tutto il territorio libanese a sud del fiume Litani.

A tale scopo il contingente UNIFIL è stato incrementato fino a un massimo di 15.000 effettivi ed ha come nuovi compiti principali quelli di monitorare l’effettiva cessazione delle ostilità; accompagnare e sostenere le Forze armate libanesi nel loro dispiegamento nel Sud, anche lungo la Linea blu;  prestare la propria assistenza per contribuire ad assicurare l’accesso umanitario alle popolazioni civili e il volontario e sicuro ritorno delle persone sfollate. Il mandato dell’UNIFIL è prorogato al 31 agosto 2007.

Il 2 febbraio il generale Claudio Graziano ha assunto il comando dell'Unifil, subentrando al collega francese Alain Pellegrini.

La più recente attività parlamentare

Si ricordano alcuni recenti eventi di particolare rilievo che hanno riguardato il Parlamento italiano.

Il primo è l’informativa urgente del Governo sulla situazione in Libano resa dal Viceministro Ugo Intini nella seduta del 29 gennaio. In questa occasione il rappresentante del Governo ha riconfermato l’appoggio italiano al primo ministro Sinora e alla rivendicazione di legittimità del suo governo.

Il secondo evento parlamentare è la già citata missione di una delegazione congiunta delle Commissioni Esteri e Difesa della Camera, il 18 e 19 gennaio. Nelle comunicazioni sulla missione, rese dal Presidente della III Commissione, On. Ranieri, nella seduta del 25 gennaio, sono richiamati tutti i termini della crisi in corso, primo fra tutti il problema della ratifica del trattato per l’istituzione di un tribunale internazionale chiamato a giudicare i responsabili dell’assassinio di Hariri. L’interesse della Commissione Esteri per la situazione libanese è sfociato il 1° febbraio nell’approvazione di una risoluzione di iniziativa del presidente Ranieri (ris.ne n. 7-00106, sulla situazione in Libano), con la quale si impegna il governo a favorire in tutte le sedi internazionali la ripresa del dialogo tra le forze politiche libanesi, contribuendo, sia a livello bilaterale che in seno all'Unione europea, a mettere a disposizione del Libano le risorse finanziarie necessarie alla ricostruzione e alla ristrutturazione dell'economia. La risoluzione vincola infine il governo italiano “a seguire in seno al Consiglio di sicurezza dell'ONU l'evoluzione della crisi libanese e ad informare puntualmente e tempestivamente il Parlamento sugli ulteriori sviluppi della situazione”.

Da ultimo, il 9 maggio 2007 si è svolta presso la  Commissione esteri della Camera l’audizione del Viceministro Ugo Intini sugli sviluppi della situazione in Medio Oriente. Riguardo la crisi in Libano, il Viceministro ha riferito sulla crisi politica che impediva la convocazione dell’Assemblea legislativa, principalmente per ostacolare la discussione sulla creazione del Tribunale Hariri, e sulle elezioni presidenziali che dovrebbero svolgersi nel prossimo mese di settembre.


Recenti sviluppi della crisi irachena

Il Rapporto Baker

Nel marzo 2006 il Congresso USA ha deciso di affrontare le persistenti difficoltà presenti sul fronte iracheno con un’iniziativa complessiva che analizzasse in modo ampio e libero da condizionamenti politici le cause di tali difficoltà e ne indicasse i possibili rimedi. Tale iniziativa fu affidata ad una commissione consultiva parlamentare, a composizione bipartisan incaricata di procedere ad un riesame dell’intera strategia americana in Iraq.

Il 6 dicembre 2006 è stato presentato il Rapporto elaborato dalla commissione, co-presieduta dall’ex segretario di Stato, il repubblicano James Baker, e dal democratico Lee Hamilton, gia’ membro del Senato. Il Rapporto (160 pagine contenenti 79 proposte puntuali) ha proposto sostanzialmente un cambiamento di rotta chiedendo al presidente Bush di trasformare la missione militare in una missione di appoggio alle forze irachene, per consentire alle truppe combattenti Usa di ritirarsi entro il primo trimestre 2008; di porre al governo di Baghdad traguardi da raggiungere a breve e medio termine, inclusa la riconciliazione nazionale; di promuovere prima del 31 dicembre un Gruppo d'appoggio internazionale dell'Iraq con i Paesi vicini, la Siria e l'Iran compresi, oltre all'Onu e alla Ue; e di riavviare il negoziato di pace israelo-palestinese, valutato come passaggio indispensabile per la stabilita' della regione. Il Rapporto ricordava i dati di un bilancio pesante: 400 miliardi di dollari,quasi 3 mila vittime e oltre 22.000 feriti tra i soldati Usa (al dicembre 2006)e suggeriva che gli istruttori americani venissero portati da 4 mila a 20 mila e “incastonati” nell'esercito iracheno, parallelamente riducendo le forze impegnate in Iraq a forze logistiche, di intelligence, di reazione rapida, di corpi speciali, numericamente portati alla metà circa dei 140 mila effettivi presenti nel dicembre 2006 in Iraq. Il Rapporto, tuttavia, escludeva (valutandola irresponsabile e foriera di caos) l’ipotesi di un ritiro precipitoso delle truppe statunitensi. Sul piano politico, l’elemento più rilevante del rapporto era rappresentato dall’apertura alla Siria e all'Iran, fondata sulla valutazione che soprattutto la prima sarebbe disposta alla collaborazione.

Contemporaneamente all’uscita del Rapporto, il Presidente Bush dichiarava di voler annunciare – entro la fine dell’anno – un cambio della strategia americana in Iraq. Nei giorni immediatamente successivi, le reazioni al Rapporto sono state in genere positive in Europa (vedi le dichiarazioni immediatamente successive alla presentazione del Rapoorto di Romano Prodi e Angela Merkel); anche da parte iraniana sono immediatamente pervenuti commenti positivi. Scetticismo è stato invece subito espresso dal Segretario di Stato Rice, mentre – nei giorni successivi – si registravano reazioni molto negative del Governo iracheno e del Presidente della Regione Autonoma Curda, Massud Barzani.

Nel mese di dicembre si è svolta l’analisi politica del rapporto all’interno dell’amministrazione Bush. Tale analisi ha messo capo ad un cambio di strategia – come preannunciato – ma non nella direzione indicata dal Rapporto Baker. La nuova strategia, annunciata il 10 gennaio 2007 in un discorso in diretta televisiva del Presidente americano, è basata infatti non sul ritiro graduale, ma sull’invio di nuove truppe americane in Iraq.

 

 

 

Valutazioni sulla nuova strategia americana

 

Estremamente complesso appare oggi il compito di valutare in che misura - e se – la nuova strategia americana in Iraq, annunciata il 10 gennaio e concretamente attuata a partire dal 23 gennaio, con l’arrivo in Iraq della avanguardia delle nuove truppe americane, stia conseguendo risultati concreti.

La nuova strategia prevede l'invio graduale di 21.500 soldati Usa in piu' in Iraq: 17.500 a Baghdad, altri 4.000 nella provincia di Anbar[5]. La decisione è stata accompagnata da un avvertimento al Governo iracheno sulla necessità di ridurre la violenza, sviluppando in particolare un’azione repressiva verso le squadre armate sciite di Moqtada al Sadr, verso le quali il governo iracheno aveva dimostrato eccessiva condiscendenza. Altre componenti della nuova strategia sono l’offensiva per impedire a Siria e Iran di sostenere gli insorti, e l'invio di sistemi di difesa missilistici Patriot nella regione.

Nel quadro di questa strategia orientata a colpire le roccaforti dell’estremismo sciita e i relativi appoggi iraniani si inquadrano le accuse alla Repubblica islamica dell’Iran di fornire ai fondamentalisti sciiti armi, rifugi, addestramento, fondi, ma soprattutto bombe - i famigerati ordigni Ied, sensori o detonatori passivi agli infrarossi (non rilevabili dai normali sistemi di interferenza in dotazione agli eserciti) collegati a materiale esplosivo - alle quali sarebbe stata addebitabile l’escalation di attentati dei primi mesi del 2007. Ancora in questo quadro va collocata la vicenda del rapimento del diplomatico iraniano Jalal Sharafi, effettuato il 4 febbraio a Baghdad da un gruppo di rapitori che indossavano divise dell’esercito iracheno, del quale l’Iran ha accusato  immediatamente gli Stati Uniti (Sharafi è stato successivamente liberato il 3 aprile).

I successi sul campo, in termini di sicurezza e di sradicamento del terrorismo, sembrano ancora lontani. Tuttavia una valutazione complessiva appare non facile, in quanto vi è un versante politico di questa strategia che probabilmente non è stato pubblicizzato al momento del suo lancio.

Secondo alcuni analisti, infatti, la nuova strategia di Bush prevedeva sin dall’inizio di affiancare alla nuova offensiva sul campo volta a neutralizzare l’offensiva terroristica e a colpire duramente ogni appoggio (Siria e Iran) di cui questa si avvale, anche un nuovo attivismo diplomatico in tutte le direzioni, senza preclusioni nei confronti dei due paesi confinanti, anzi proprio indirizzato particolarmente verso Siria e Iran. In tal senso – nonostante l’apparente opposizione – il piano lanciato da Bush il 10 gennaio non sarebbe in contraddizione con l’indirizzo generale del Piano Baker. Gli sviluppi successivi sembrerebbero confermare questa tesi (vedi infra).

 

 

 

La ripresa dell’iniziativa multilaterale

 

Il 10 marzo si è svolta la Conferenza di Baghdad che ha rappresentato un evento storico in quanto ha raccolto – attorno allo stesso tavolo – rappresentanti di Stati Uniti, Siria e Iran per uno scambio di vedute che è andato oltre la stessa situazione irachena per toccare punti di particolare tensione internazionale quali la questione libanese e il nucleare iraniano[6].

Il 3 e 4 maggio si è svolta – a Sharm el Sheik – una nuova Conferenza internazionale sulla sicurezza dell’Iraq e la stabilizzazione dell’area. Alla Conferenza, che per Baghdad rappresenta una svolta nella cooperazione regionale contro la violenza e il terrorismo, hanno partecipato i Paesi confinanti con l’Iraq, così come il Bahrein, l'Egitto, i rappresentanti della Lega Araba, dell’Organizzazione della Conferenza Islamica, dellONU, dell’Unione Europea, i cinque Paesi membri permanenti del Consiglio di Sicurezza e quelli membri del G8. Particolare interesse ha destato l’incontro, a margine della Conferenza, tra il Segretario di Stato USA Condoleeza Rice e il ministro degli Esteri della Siria: tra i due Paesi non avvenivano contatti ad alto livello dall’assassinio in Libano di Rafik Hariri (2005). Vi era attesa anche per un possibile incontro della Rice con il ministro degli Esteri iraniano Mottaki, pure presente alla Conferenza, ma l’incontro non si è svolto. La Conferenza ha approvato un piano quinquennale (International Compact with Iraq), in base al quale si prospetta un raddoppio del ritmo di crescita e del PIL pro-capite del Paese, nel quadro di un Iraq sicuro, libero e prospero, che al presente appare però piuttosto distante. In ogni modo, nel documento in 19 punti gli Stati e le Organizzazioni internazionali partecipanti si sono impegnati a combattere il terrorismo, a fronte dell’impegno del governo di Baghdad a porre fine alla situazione di guerra civile strisciante; in particolare, gli attori della Conferenza hanno assicurato la propria collaborazione nel controllo delle frontiere irachene, attraverso le quali passano armi e combattenti stranieri. E’ stato inoltre ribadito il principio di non ingerenza negli affari interni dell’Iraq, che sarà aiutato ad accelerare la preparazione delle forze armate nazionali, presupposto per la fine della presenza militare multinazionale nel Paese. Infine, è stato richiesto alla Lega Araba di organizzare una Conferenza per la riconciliazione nazionale in Iraq. E’ stata inoltre annunciata dal Segretario generale dell’ONU un’ulteriore cancellazione del debito iracheno dell’ordine di 30 miliardi di dollari USA.

Ma – al di là delle deliberazioni concrete - il vero significato politico della Conferenza sembra risiedere nel ritorno a una dimensione multilaterale nell’approccio al problema iracheno e nella sostanziale accettazione di tale svolta da parte degli Stati Uniti.

Intanto, anche sul piano interno si è registrato un primo segnale politico positivo: il principale partito (sciita) di governo iracheno, il Consiglio supremo della rivoluzione islamica in Iraq, ha deciso di togliere il riferimento rivoluzionario dal proprio nome, in quanto considera il passaggio di potere nel Paese ormai compiuto; ma, soprattutto, rileva che il partito abbia deciso di porre come proprio riferimento spirituale non più la guida suprema della rivoluzione iraniana, Alì Kamenei – che è tradizionalmente il capo spirituale di tutti gli sciiti -, bensì il Grande Ayatollah di Najaf Alì Al Sistani, espressione di un islamismo sciita poco incline alle suggestioni teocratiche introdotte in modo travolgente negli anni ’70-’80 dalla predicazione di Khomeini.

 

 

 

La situazione interna americana

 

Mentre sul versante diplomatico e politico si registrano – nella fase più recente - questi risultati significativi, la situazione sul terreno non dà segni chiari di miglioramento: la violenza terroristica non è stata infatti neutralizzata. Attentati anche molto gravi, si sono susseguiti senza soluzione di continuità anche nei mesi di febbraio-maggio: in particolare, si ricordano le due sanguinose stragi effettuate nello stesso luogo (il mercato di Sadriya, quartiere centrale a maggioranza sciita di Baghdad) il 3 febbraio e il 18 aprile e che hanno causato oltre cento morti ciascuna, la strage di Nadir (cittadina a sud di Baghdad del 6 marzo (117 morti fra i partecipanti ad una processione di fedeli sciiti), nonché il gravissimo attentato al Parlamento iracheno del 12 aprile che ha dimostrato la vulnerabilità anche delle aree più protette della città di Baghdad (zona verde). Il 28 aprile un’autobomba guidata da un attentatore suicida ha provocato non meno di 55 vittime a Kerbala, città santa degli sciiti.

Particolare preoccupazione ha destatopoi  il 12 maggio l’agguato a una pattuglia USA che transitava a sud-ovest di Baghdad, che ha provocato 5 morti e il rapimento di tre militari da parte di un gruppo sunnita: il giorno dopo l’agguato è stato rivendicato dallo “Stato islamico in Iraq”, braccio armato di Al Qaeda nel Paese, mentre due gravi attentati colpivano la città di Erbil (nel Kurdistan iracheno) e la capitale, provocando oltre 60 morti.

 

Un secondo elemento di difficoltà della posizione dell’amministrazione americana è rappresentato dalla situazione politica interna, dove una solida maggioranza dell’opinione pubblica (63%) appare stabilmente favorevole al ritiro totale delle truppe USA dall’Iraq entro il 2008[7] e dove i principali candidati alle presidenziali (di entrambe gli schieramenti) sono ormai su una linea di opposizione alla strategia del Presidente.

Occorre inoltre ricordare che il Congresso degli Stati Uniti - nel quale dopo le elezioni di mid-term i democratici hanno raggiunto il controllo di entrambi i rami - è entrato dalla metà di febbraio in una serrata dialettica con le posizioni del presidente Bush, e con la nuova strategia per l’Iraq enunciata agli inizi del nuovo anno.

 

Si ricorda che il 16 febbraio la Camera dei Rappresentanti ha approvato una risoluzione – non vincolante per l’esecutivo – la quale si oppone all’invio in Iraq di nuove truppe: l’atto è passato con una maggioranza di 246 voti a favore (quindi superiore alla forza del partito democratico), mentre 182 sono stati i deputati contrari.

Un analogo strumento non è stato posto in votazione al Senato solo perché i democratici, il giorno successivo, non hanno raggiunto la necessaria maggioranza per la convocazione dell’Assemblea.

In ogni caso, alla metà di febbraio ha iniziato a profilarsi lo scontro sulla vera questione decisiva, quella della concessione dei fondi necessari alla nuova configurazione della presenza USA in Iraq: sui finanziamenti, infatti, il Congresso esprime un voto vincolante per l’esecutivo.

I successivi snodi della complessa dialettica parlamento-governo hanno visto il 15 marzo il rigetto in Senato di una mozione dei democratici che chiedeva l’inizio del ritiro dall’Iraq entro 4 mesi, per completarlo nel settembre dell’anno prossimo. D’altra parte, però, una Commissione della Camera dei Rappresentanti ha approvato, sempre il 15 marzo, una mozione di analogo contenuto.

Il 28 marzo i democratici, seppure con un risicato 50 a 48, sono riusciti a far approvare dal Senato una modifica alla legge – in discussione – sul rifinanziamento delle missioni in Iraq e Afghanistan: l’emendamento introduce come scadenza degli effetti del provvedimento, - e quindi della presenza militare  americana – la data del 31 marzo 2008 (anche se il termine non va inteso come perentorio, ma piuttosto come obiettivo di lavoro per l’Amministrazione USA), più restrittiva ancora del 1° settembre 2008 già fissato alcuni giorni prima dalla Camera dei Rappresentanti.

Nelle more dell’armonizzazione dei due testi, prima della trasmissione al presidente Bush, questi ha duramente criticato la posizione del Congresso, accusando i democratici di irresponsabilità, in quanto la fissazione di scadenze con una crisi in corso non farebbe che aumentare i rischi di insuccesso, subordinando ad interessi propagandistici le esigenze delle truppe al fronte.

Lo scontro tra la Casa Bianca e il Congresso è stato rilanciato il 24 aprile dallo shock della strage di nove militari USA per mezzo di un camion-bomba, rivendicata da Al Qaeda: tra i democratici cresce il riferimento a funesti precedenti, come quello del Vietnam, sotto la cui cattiva stella ormai si sarebbe irreversibilmente posta l’impresa americana in Iraq.

Tra il 25 e il 26 aprile il Congresso ha approvato in via definitiva la legge sul rifinanziamento delle missioni in Iraq e Afghanistan, confermando per il mese di aprile 2008 la scadenza della missione delle truppe americane in Iraq. Il Presidente Bush ha tuttavia confermato senza esitazioni le sue precedenti esternazioni in merito, ponendo il veto sul provvedimento (2 maggio), per superare il quale i due rami del Congresso dovrebbero riapprovare la legge a maggioranza dei due terzi, circostanza questa che appare impossibile per la maggioranza democratica. L’effetto del veto si estende comunque all’intero provvedimento, e quindi anche i finanziamenti per la presenza militare USA in Iraq e Afghanistan sono al momento congelati: è probabile tuttavia che sulla questione si giunga infine ad un compromesso mediante trattative fra il Congresso e la Casa Bianca. Proprio tali trattative sono però ostacolate dall’accentuazione delle posizioni dei vari candidati democratici alla nomination, i quali hanno interesse, in questa fase della campagna per la nomination a spingere per un rientro accelerato delle truppe USA dall’Iraq: in tale contesto diviene più difficile per la maggioranza democratica del Congresso ricercare soluzioni “morbide”.  Anche la possibilità che una nuova legge in discussione al Congresso frazioni in due tranches gli stanziamenti, subordinando l’erogazione della seconda – che dovrebbe coprire il periodo successivo al 30 settembre 2007 – a un rendiconto della Casa Bianca sul raggiungimento degli obiettivi posti alle autorità irachene in merito alla riconciliazione nazionale e all’aumento della sicurezza, è stata rigettata dal Pentagono, per il quale un bilancio di soli due mesi è di fatto ingestibile, e metterebbe in serie difficoltà le truppe sul terreno operativo. Gli stessi vertici militari USA in Iraq hanno fatto presente che il contingente militare americano, una volta completato il suo rafforzamento, non potrà lasciare il Paese prima della primavera del 2008.

Il 16 maggio, tuttavia, il Senato ha respinto una mozione democratica volta a mettere fine ai finanziamenti entro il 31 marzo 2008.

 

La ripresa dei rapporti fra USA e Iran

 

Ma fra gli sviluppi più recenti della situazione irachena assume un particolare rilievo la ripresa delle relazioni diplomatiche fra Stati Uniti e Iran.

Dopo 27 anni di congelamento delle relazioni fra i due paesi, lo scorso 28 maggio Iran e USA hanno tenuto a Baghdad un incontro ufficiale bilaterale ad alto livello - che dovrebbe rappresentare il primo di una serie. Oggetto limitato dell’incontro è stata la stabilizzazione dell’Iraq, mentre rimangono – ufficialmente – fuori dal negoziato altre questioni (questione nucleare, Libano, conflitto israelo-palestinese, ecc.).

In realtà l’incontro è il primo che i due paesi hanno deciso di rendere pubblico. Infatti, oltre ai due brevi scambi avvenuti a margine delle due conferenze internazionali in marzo a Baghdad e in maggio a Sharm el-Sheikh, è noto che negoziati non pubblici sono in corso da tempo (addirittura da prima dell’invasione americana dell’Iraq) e che se ora il negoziato viene allo scoperto ciò accade perché – almeno sulla stabilizzazione dell’Iraq - sono già state consolidate le linee di un’intesa. Un momento decisivo di svolta sembra essere stato rappresentato dalla proposta iraniana presentata da Kazemi-Qomi a Crocker durante il brevissimo scambio avvenuto a Sharm el-Sheikh, il 4 maggio scorso.

L’incontro di Baghdad del 28 maggio è stato condotto dai due ambasciatori in Iraq, Ryan Crocker e Hassan Kazemi-Qomi, ma un innalzamento del livello delle rappresentanze è possibile nel prossimo futuro. Al termine dei colloqui di Baghdad lo stesso rappresentante iraniano ha preannunciato come molto probabile un prossimo incontro di follow-up da tenersi entro un mese.

In effetti, numerosi osservatori concordano nel ritenere le posizioni di USA e Iran sull’Iraq ormai molto vicine e nel far risalire tale nuova situazione ad almeno quattro fattori decisivi:

§      interesse a stabilizzare una situazione che ha portato alla liquidazione di un regime sunnita e ostile sia a USA che a Iran;

§      presa d’atto da parte di ciascuno dei due governi della impossibilità – senza l’altro interlocutore – di arrivare a tale stabilizzazione;

§      presa d’atto della impossibilità (ormai) di realizzare i due migliori scenari (per gli USA, un Iraq unito e filo americano; per l’Iran, un Iraq unito e filo iraniano);

§      interesse a evitare i due scenari peggiori (lo scenario peggiore per gli USA è quello di un Iraq diviso con la parte meridionale controllata dall’Iran; per l’Iran lo scenario peggiore è quello di un Iraq governato di nuovo dai sunniti e armato dagli USA, ma anche per l’Iran la rottura dell’unità nazionale e la stessa soluzione federale sono ipotesi non auspicabili).

Manifestazioni di ostilità e minacce reciproche fra i due paesi (verificatesi anche nei giorni successivi all’incontro) non contraddirebbero questo processo di avvicinamento, ma andrebbero lette semplicemente come espressioni tattiche collaterali alla traiettoria principale.

La proposta iraniana consegnata all’ambasciatore americano un mese fa è stata pubblicizzata ufficiosamente sul quotidiano Al-Hayat. Essa si basa sui seguenti punti:

§      ritiro non precipitoso delle truppe USA e loro reinsediamento all’interno di basi in territorio iracheno;

§      rifiuto di ogni ipotesi di smembramento del paese;

§      impegno del blocco sunnita a sradicare e tagliare ogni aiuto al terrorismo qaedista;

§      impegno americano ad aprire un negoziato anche sulla questione del nucleare iraniano. Nonostante le precisazioni delle due parti circa la attuale limitazione degli incontri diplomatici alla sola questione irachena, sembra assodato che l’Iran abbia interesse a ottenere in cambio della disponibilità a negoziare anche un ammorbidimento delle posizioni americane sul nucleare;

In cambio l’Iran assumerebbe l’impegno di:

§      riportare sotto il proprio controllo le milizie sciite armate;

§      permettere la revisione della legge per la de-baathificazione in favore della minoranza sunnita;

§      permettere la revisione della Costituzione irachena in modo da raddoppiare la rappresentanza dei sunniti nel Parlamento di Baghdad;

§      favorire – sul piano interno iracheno – una definizione equa della distribuzione dei redditi derivanti dal petrolio (si ricorda che i sunniti sono maggioritari nella aree centrali dell’Iraq, povere di petrolio) e sul piano internazionale la composizione dei conflitti in Libano e Palestina.

L’interesse dell’amministrazione americana a questo negoziato appare evidente: se l’operazione avesse successo, gli USA potrebbero imboccare una via d’uscita dal vicolo cieco iracheno e quindi un recupero di quella libertà di azione su altri scacchieri (a partire da quello afgano-pakistano) progressivamente e ormai fortemente ridotta negli ultimi 4 anni. In questo senso, si dimostrerebbe la fondatezza delle analisi che avevano visto nella nuova strategia lanciata da Bush a gennaio – e nell’apparente rifiuto del Rapporto Baker (imperniato sul riavvicinamento diplomatico all’Iran) – proprio il preludio alla attuazione del disegno politico preconizzato dal Rapporto Baker.

 

 

 

Prospettive di stabilizzazione dell’Iraq

 

Le prospettive di una stabilizzazione della situazione irachena sembrano oggi dipendere in gran parte dal futuro del negoziato fra USA e Iran. Tuttavia, la stessa volontà convergente delle parti non è elemento sufficiente a un suo successo finale. Gli analisti, sia pure con diversa enfasi, richiamano infatti un numero consistente di residui elementi indipendenti dalla volontà delle due parti:

§      Il successo del negoziato dipende da un controllo almeno sui movimenti sciiti in Iraq, ma l’egemonia iraniana sugli sciiti iracheni non è un dato acquisito. Esistono in primo luogo le divisioni politiche: oggi dei tre maggiori gruppi sciiti: Consiglio Supremo Islamico dell’Iraq, Hizb al-Dawah e Blocco al-Sadrita – solo i primi due hanno legami stretti (il ché non significa, comunque subordinazione) con Teheran; restano fuori da questa orbita, oltre al Blocco al-Sadrita, una miriade di gruppuscoli non controllabili e – più in generale – è sempre presente il rischio di una diffusa reazione di tipo nazionalistico-arabo – fra gli sciiti iracheni - all’eccessivo attivismo di Teheran.

§      Un secondo elemento di incertezza è dato ovviamente dalla azione dei gruppi del fondamentalismo qaedista che sarebbero i principali perdenti. Essi, fra l’altro, operano in una dimensione internazionale e sarebbero danneggiati da un accordo in Iraq da cui discenderebbe automaticamente una ripresa della libertà d’azione degli USA in altri teatri come quello afgano-pakistano, dove ha trovato riparo lo stato maggiore qaedista. L’impennata di attentati della fase più recente sarebbe una diretta conseguenza (già ampiamente prevista dagli osservatori) delle nuove relazioni diplomatiche USA-Iran.

§      Quanto alla componente sunnita irachena (per quanto sia possibile parlare in termini unitari di una galassia in cui sono identificabili almeno 5 aree: blocco politico di tendenza islamista del Fronte dell’Accordo Islamista, blocco politico secolare del Fronte Nazionale del Dialogo, gruppi tribali, establishment religioso, insorgenza nazionalista sunnita) essa non sembra ostile in linea di principio ad ogni ipotesi di accordo, ma è certamente sospettosa delle reali intenzioni degli sciiti iracheni e preoccupata degli spazi che saranno ad essa garantiti in un paese che vede i sunniti comunque in minoranza.

§      Vittime predestinate di un riavvicinamento USA-Iran sembrano essere i curdi iracheni che – proprio grazie alla forte tensione fra sciiti e sunniti – hanno potuto realizzare condizioni ampie di autonomia e che verrebbero invece sacrificati sia da riforme costituzionali più favorevoli ai sunniti, sia da un accordo sulla distribuzione “equa” dei proventi petroliferi. Non è certo un caso che i curdi siano stati, a suo tempo, i più forti critici del Rapporto Baker.

§      Non vanno dimenticati i forti sospetti di Arabia Saudita e Stati del Golfo verso un cambiamento che vedrebbe crescere l’influenza iraniana in tutta la regione e che produrrebbe il ritorno nei paesi d’origine di migliaia di terroristi ottimamente addestrati.

§      Infine, l’elemento di incertezza forse principale è dato dalla freddezza della Russia e dai forti strumenti di pressione su Teheran (almeno finchè la costruzione del reattore di Bushehr non sarà ultimata).

 

I temi politici di maggior rilievo sul tappeto sono oggi:

ü      quello del sistema per un’equa distribuzione dei ricavi petroliferi

ü      e quello della ripartizione dei poteri fra governo federale e regioni.

Un accordo fra le maggiori forze politiche – favorito da un’azione comune di USA e Iran – potrebbe rappresentare un elemento di svolta rilevante.

Rimane comunque incombente il rischio di un collasso del paese, evidenziato dagli osservatori più pessimisti[8]

 

 

 

Il G8 di Heiligendamm e l’Iraq

 

Infine, si ricorda che la questione irachena è stata affrontata anche dal Vertice dei Capi di Stato e di Governo dei paesi del G8 che si è svolto dal 6 all’8 giugno ad Heiligendamm, in Germania. In tale ambito, i paesi presenti hanno ribadito il loro impegno per l’indipendenza, la sovranità e l'integrità territoriale del Paese, condannando ancora una volta con forza tutti gli atti di terrorismo e di violenza. E’ stato quindi accolto con favore il lancio, durante la Conferenza internazionale per la sicurezza e la stabilizzazione dell’Iraq svoltasi i primi di maggio a Sharm el Sheikh, del piano quinquennale per lo sviluppo del Paese, l'International Compact with Iraq (ICI), ravvisando nell’iniziativa di Sharm una tappa fondamentale verso l'obiettivo della riconciliazione nazionale. 

 

 

 

 

 

 

 

 

 




[1]    Poco dopo l'attacco contro Israele, un'organizzazione palestinese, le Brigate Badr della Jihad–Libano, gruppo fino ad ora sconosciuto, ha rivendicato l’episodio.

[2]    In particolare, Il gruppo salafita Fatah al Islam deriverebbe da un distaccamento di un analogo gruppo siriano, anch'esso operante nei campi profughi palestinesi in Siria, con l'obiettivo di sostituirsi alla leadership, principalmente di stampo nazionalista filo-Fatah, dei campi palestinesi in Libano. I jihadisti della milizia non sono tutti palestinesi, bensì provengono da numerosi teatri arabi quali Pakistan, Arabia Saudita, Iraq; tale circostanza, assieme alla condanna espressa sia da parte delle autorità palestinesi (ANP), sia dagli stessi profughi palestinesi in Libano, confermerebbe l'estraneità del gruppo alla causa dell'indipendenza palestinese. Viceversa, molto forti sarebbero i legami tra il gruppo e il terrorismo islamista di al-Qaeda, stante anche lo stretto legame tra il leader di Fatah al-Islam, Shaker Abssi, e l’ex capo di al-Qaeda in Iraq, Abu Musab Al-Zarqawi, entrambi di origine palestinese.

[3]    In questa occasione D’Alema si è espresso in favore dell’iniziativa della Lega araba per il raggiungimento di un accordo di collaborazione tra le parti, anche se ha espresso riserve circa il coinvolgimento della Siria nelle trattative di pace.

 

[4]    In questa occasione D’Alema si è espresso in favore dell’iniziativa della Lega araba per il raggiungimento di un accordo di collaborazione tra le parti, anche se ha espresso riserve circa il coinvolgimento della Siria nelle trattative di pace.

 

[5]    Successivamente (11 marzo) Bush ha deciso un ulteriore rafforzamento della lotta al terrorismo con l’invio in tempi stretti di altri 8.200 uomini sui due fronti più caldi (4.700 uomini in Iraq, aggiuntivi rispetto al nuovo contingente di 21.500, e 3.500 in Afghanistan).

[6]    Insieme a USA, Siria e Iran, hanno partecipato alla Conferenza di Baghdad l’ONU, la Lega Araba, l’Organizzazione della Conferenza islamica, gli altri paesi membri permanenti del Consiglio di Sicurezza, la Turchia, la Giordania, l’Arabia Saudita, il Kuwait, il Bahrein e l’Egitto.

[7]    Sondaggio del febbraio 2007.

[8] Vedi il Briefing Paper della Chatham House del maggio 2007 “Accepting Realities in Iraq”.