XIV Legislatura - Dossier di documentazione
Autore: Servizio Studi - Dipartimento lavoro
Titolo: Documentazione per l'incontro con una delegazione della Camera dei deputati messicana
Serie: Documentazione e ricerche    Numero: 118
Data: 01/07/05
Descrittori:
CONTROVERSIE DI LAVORO   DIRITTI SINDACALI
MERCATO DEL LAVORO   MESSICO
SCIOPERO   SINDACATI
STATI ESTERI   TUTELA DEI LAVORATORI
Organi della Camera: XI-Lavoro pubblico e privato

Servizio studi

 

documentazione e ricerche

Documentazione per l’incontro con una delegazione della Camera dei deputati messicana

 

n. 118

 


xiv legislatura

1° luglio 2005

 

Camera dei deputati


 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Dipartimento Lavoro

 

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I dossier del Servizio studi sono destinati alle esigenze di documentazione interna per l'attività degli organi parlamentari e dei parlamentari. La Camera dei deputati declina ogni responsabilità per la loro eventuale utilizzazione o riproduzione per fini non consentiti dalla legge.

 

File: LA0574

 


INDICE

§      Le fonti del diritto del lavoro  1

§      Libertà di organizzazione sindacale  2

§      Politiche o misure di sostegno ai sindacati4

§      Libero associazionismo sindacale  4

§      Diritto all’informazione e di consultazione del sindacato  5

§      Diritto di sciopero (regolamentazione e limiti)5

§      Meccanismi ed istituzioni deputati alla vigilanza dell’attuazione e del rispetto della legislazione sociale, previdenziale e in materia di sicurezza.8

§      Controversie in materia di lavoro  9

§      Mercato del lavoro  12

§      Il sistema previdenziale  13


SIWEB

Le fonti del diritto del lavoro

Al vertice delle fonti del diritto del lavoro si pone la Carta Costituzionale, che, essendo “lunga”, non si limita a disciplinare i poteri dello Stato, ma si occupa anche diffusamente dei rapporti civili, sociali ed economici, ed è “rigida”, nel senso che la legge ordinaria difforme è dichiarata costituzionalmente illegittima e quindi inefficace dalla Corte Costituzionale, nella quale è accentrato il controllo di costituzionalità. La combinazione tra i due menzionati caratteri della Costituzione determina un forte ed originale contributo all’evoluzione del sistema da parte della giurisprudenza costituzionale, ma anche di tutto il ceto forense ed accademico impegnato nella elaborazione di un diritto vivente conforme a Costituzione (cosiddetta preferenza per l’interpretazione adeguatrice). Ciò soprattutto nelle materie, come quella del lavoro, in cui operano numerosi principi costituzionali di larga portata e quindi tali da lasciare all’interprete notevoli spazi nel momento del raffronto con la legge ordinaria.

Proprio la legge ordinaria occupa gran parte del diritto del lavoro, poiché il principio di libertà sindacale non implica una riserva a favore della contrattazione collettiva, sicché si verifica un concorso di fonti autonome ed eteronome nella regolamentazione dei rapporti di lavoro, con possibili problematiche interferenze.

In Italia, per quanto concerne il diritto del lavoro, oltre alle normali fonti del diritto statuale (Costituzione, legge e regolamento), particolare connotazione assume il contratto collettivo. I contratti collettivi attuali, seppure non considerabili fonti del diritto in senso stretto (anche se il problema è molto dibattuto) a differenza dei contratti collettivi corporativi, costituiscono una componente fondamentale della disciplina in essere e contribuiscono in modo cospicuo alla formazione del diritto del lavoro. In questo senso il contratto collettivo può essere considerato una fonte (sebbene in senso lato) di diritto, in particolare inteso nell’accezione non di fonte alternativa alla legge bensì di fonte integrativa alla legge. Ciò si manifesta soprattutto quando il legislatore ferma la normazione su una certa soglia, lasciando al contratto collettivo il compito della definizione (o completamento) del quadro normativo di riferimento. La legge, inoltre, negli ultimi anni, utilizza il contratto collettivo anche come strumento di flessibilità autorizzandolo, in certe situazioni, a derogare ad alcune tutele legali.

Sotto questo punto di vista il contratto collettivo potrebbe essere considerato una fonte tipica di regolazione del rapporto di lavoro, trovandosi una differenza, semmai, tra contrattazione regolata dalla legge (come è il caso, in Italia, del pubblico impiego privatizzato) e contrattazione non regolata dalla legge (tipica del settore privato).

Per quanto riguarda il rapporto tra le leggi di protezione del lavoratore e la contrattazione collettiva, la sua caratteristica essenziale è l’inderogabilità in peius da parte dell’autonomia privata, cui si accompagna, ove prevista, la efficacia sostitutiva, con conseguente conservazione del contratto automaticamente adeguato alla norma imperativa violata. Si tratta di un meccanismo di favore per il lavoratore analogo a quello operante nei rapporti tra contratto collettivo e contratto individuale, sicché il contenuto di quest’ultimo finisce per essere quasi completamente determinato dall’esterno.

Non è stata attuata la Costituzione nella parte (articolo 39, comma 2 e ss.) in cui prevede un sistema di contrattazione collettiva con efficacia generale per tutti gli appartenenti alla categoria.

Un’ulteriore fonte di diritto del lavoro è ravvisabile nella giurisprudenza ordinaria, che costituisce un fattore importante della formazione del diritto del lavoro, soprattutto nei casi in cui sopperisce alle lacune del sistema generate dalla legge o dai contratti collettivi. Il contenzioso non si svolge solamente davanti ai giudici di merito, ma anche in sede di legittimità.

Altra fonte peculiare del diritto del lavoro, relazionata soprattutto con la giurisprudenza, è l’equità. Tale fonte, il cui esercizio è ormai riferibile ad ipotesi eccezionali (tale fonte infatti, importantissima alle origini del diritto del lavoro, è stata estremamente ridotta dalla pluralità di regole che ormai caratterizza il sistema), permette al giudice di valorizzare al massimo il proprio ruolo.

Inoltre, anche il diritto del lavoro annovera tra le proprie fonti gli usi normativi, che operano soltanto in mancanza di norme di legge o dei contratti collettivi.

Infine, sono da annoverare tra le fonti anche le fonti internazionali e comunitarie, riconosciute dai principi costituzionali[1].

Libertà di organizzazione sindacale

Ai sensi dell’articolo 39 della Costituzione, l’organizzazione sindacale è libera[2]. Libertà sindacale vuol dire facoltà di coalizione e di azione per la difesa di interessi collettivi professionali. La libertà sindacale riguarda innanzitutto la posizione dei singoli nella loro facoltà di iniziativa, scelta, adesione e partecipazione alle attività della coalizione. In questo senso è tutelata sia la libertà positiva di costituire o aderire ad un sindacato, sia la libertà negativa di non affiliarsi ad alcun sindacato, che invece è disconosciuta in quegli ordinamenti in cui sono ammesse le clausole di closed shop che impongono all’imprenditore di assumere solo lavoratori aderenti al sindacato. Libertà sindacale riguarda anche il gruppo in sé considerato, titolare di un proprio interesse ad esistere e ad agire. E’ tutelata anche la scelta del tipo di organizzazione sindacale che gli interessati intendono dare alla coalizione. Sicché sono ammesse sia coalizioni occasionali, sia aggregazioni stabili, che di solito assumono forma associativa. Non a caso la Costituzione utilizza l’ampia espressione “organizzazione”. Non sono state attuate le disposizioni della Costituzione (art. 39, commi 2 e ss.) che prevedono la costituzione di sindacati riconosciuti con personalità giuridica, a seguito di registrazione, la cui unica condizione sarebbe l’ordinamento interno a base democratica, nonché la possibilità per i sindacati così registrati di stipulare contratti collettivi con efficacia erga omnes. I sindacarti attuali, dunque, sono costituiti cole associazioni non riconosciute, di cui agli articoli 36 e ss. del codice civile.

Nel nostro ordinamento, a differenza di Paesi dove il sindacato si presenta in forma tendenzialmente unitaria (tipo la Gran Bretagna o la Germania) storicamente ha avuto massimo riconoscimento il pluralismo sindacale. Ciò emerge dalla coesistenza di sindacati per ramo di industria, costituiti per la cura degli interessi di tutti gli addetti ad una determinata attività economica, e di sindacati di mestiere, in cui i lavoratori si coalizzano in ragione della loro particolare professionalità all’interno di uno stesso settore.

Ma ancora in maniera più evidente il fenomeno del pluralismo sindacale si manifesta nella presenza di più sindacati per ogni ramo d’industria, come conseguenza della divisione del movimento sindacale in confederazioni ideologicamente rispecchianti le divisioni politiche del paese.

Ai sensi dell’articolo 36 del codice civile, l'ordinamento interno e l'amministrazione delle associazioni non riconosciute come persone giuridiche sono regolati dagli accordi degli associati.

Tale norma riflette la centralità degli statuti sindacali, le cui clausole sono accettate da ogni socio al momento dell’iscrizione.

E’ lo statuto del sindacato, principale manifestazione dell’autonomia collettiva, che regola l’ordinamento del sindacato e, conseguentemente, gli organi dello stesso.

Lo statuto, inoltre può prevedere la costituzione di associazioni particolarmente complesse, formate da singoli associati (associazioni di primo grado), da associazioni (associazioni di secondo grado), da associazioni di secondo grado (associazioni di terzo grado).

Particolarmente importanti, inoltre, sono le clausole dello statuto che definiscono gli scopi del sindacato. E’ infatti a tali clausole che occorre fare riferimento per individuare i limiti del mandato conferito da ciascun socio alla propria associazione. Al riguardo, è opportuno ricordare che in Italia non ci sono clausole di riserva del trattamento previsto dal contratto collettivo solamente a favore degli iscritti al sindacato stipulante. Tale apertura ai cosiddetti non aderenti trova riscontro proprio nelle clausole statutarie che definiscono i fini del sindacato, solitamente riferiti alla tutela di tutti gli appartenenti alla categoria a prescindere dall’iscrizione o meno al sindacato stesso.

Infine, come associazione non riconosciuta, il sindacato ha comunque una propria soggettività ed un proprio fondo comune, costituito dai contributi degli associati e dai beni acquistati con i predetti contributi.

Politiche o misure di sostegno ai sindacati

La legislazione di sostegno al sindacato si esplica sotto due profili principali: la rappresentatività, importante soprattutto ai fini della selezione dei soggetti beneficiari, e i diritti sindacali nei luoghi di lavoro.

Sotto il primo profilo, abrogato con il referendum del 1995 il privilegio, per le confederazioni maggiormente rappresentative, di costituire rappresentanze sindacali aziendali (r.s.a.), che di fatto si traduceva in un sostegno legale alle grandi confederazioni, restano nell’ordinamento altre norme che attribuiscono alle associazioni maggiormente rappresentative la legittimazione esclusiva alla stipula di determinati contratti collettivi (nel settore pubblico) oppure del riconoscimento dei diritti di informazione e consultazione (vedi infra). Di recente, inoltre, è comparsa la nozione di organizzazione sindacale “comparativamente” più rappresentativa”, nozione utilizzata dal legislatore (molte volte, ad esempio, nel D.Lgs. 276 del 2003 – vedi infra) per l’individuazione tra più contratti collettivi di quello che risponde a specifiche necessità (ad es. il contratto la cui retribuzione è assunta come base imponibile previdenziale, o come traguardo del progressivo riallineamento retributivo).

Sotto il secondo profilo, vanno considerati il diritto alla costituzione delle r.s.a. (articolo 19 dello Statuto), il diritto alla convocazione dell’assemblea (articolo 20 dello Statuto), il referendum (articolo 21 dello Statuto), i permessi e le aspettative sindacali (articoli 23 e 31 dello Statuto), il diritto di affissione (articolo 25 dello Statuto), la tutela per i sindacalisti interni contro il trasferimento ed il licenziamento (articolo 22, comma 1, e articolo 18). Rientrano tra queste politiche, infine, anche i diritti all’informazione e di consultazione (v. infra).

Libero associazionismo sindacale

L’articolo 15 della L. 300 del 1970 (cd. statuto dei lavoratori) stabilisce che è nullo qualsiasi patto od atto, posto in essere dal datore di lavoro o da altri soggetti, che sia diretto, tra l’altro, a subordinare l'occupazione di un lavoratore alla condizione che aderisca o non aderisca ad una associazione sindacale ovvero cessi di farne parte. Allo stesso tempo la nullità è ribadita nel caso in cui l’atto sia diretto a licenziare un lavoratore, discriminarlo nella assegnazione di qualifiche o mansioni, nei trasferimenti, nei provvedimenti disciplinari, o recargli altrimenti pregiudizio a causa della sua affiliazione o attività sindacale ovvero della sua partecipazione ad uno sciopero.

Diritto all’informazione e di consultazione del sindacato

Un importante sostegno alle organizzazioni sindacali da parte del legislatore avviene con l’attribuzione ai primi dei diritti di informazione e consultazione. Tali diritti hanno lo scopo di regolare, a tutela dei lavoratori, alcuni diritti del datore di lavoro. Non esiste una legge specifica in materia, ma sono le singole leggi a richiamare, di volta in volta, tali diritti ed a selezionare i sindacati titolari degli stessi. A titolo esemplificativo, nel procedimento per la concessione dell’integrazione salariale, l’imprenditore ha l’obbligo di comunicare preventivamente ai soggetti preposti una serie di informazioni con conseguente esame congiunto della situazioni; in materia di licenziamenti collettivi l’imprenditore deve fornire ai soggetti preposti una preventiva informazione scritta con successivo esame congiunto.

Diritto di sciopero (regolamentazione e limiti)

Natura del diritto di sciopero

Il diritto di sciopero, riconosciuto dall’articolo 40 della Costituzione nei limiti previsti dalla legge, costituisce un diritto potestativo del lavoratore di sospendere l’esecuzione della prestazione, al quale corrisponde la posizione dell’imprenditore, soggetto passivo che deve subire tale sospensione.

In una prospettiva più ampia, che considera la funzione dello sciopero nell’ambito del sistema della Costituzione, si può parlare di diritto assoluto di libertà per la difesa di fondamentali interessi della persona.

Lo sciopero, per quanto riguarda la sua titolarità, può essere definito come diritto individuale ad esercizio collettivo, considerata la necessità della pluralità degli scioperanti. Non appare peraltro necessaria una previa formale delibera di proclamazione, non potendosi ricavare neanche in via interpretativa un obbligo del genere o quello conseguente di preavviso minimo, poi previsto espressamente con la legge n. 146 del 1990 nel solo ambito dei servizi pubblici essenziali.

Il soggetto collettivo che concerta lo sciopero non deve essere necessariamente un’associazione sindacale, ma può essere un gruppo qualsiasi.

La titolarità del diritto di sciopero spetta ai lavoratori subordinati, ivi compresi i pubblici dipendenti, con esclusione dei soli militari. Il diritto è stato riconosciuto anche ai lavoratori parasubordinati dalla giurisprudenza, in quanto soggetti contrattualmente deboli.

Prevenzione di ritorsioni e rappresaglie

E’ previsto, dall’articolo 28 dello Statuto dei lavoratori (legge n. 300 del 1970) un particolare procedimento per la repressione della condotta antisindacale del datore di lavoro, che può riguardare anche le ritorsioni e rappresaglie nei confronti degli scioperanti.

Si tratta di un procedimento efficace non solo per l’ampiezza della fattispecie considerata e nella generalità del campo di applicazione che riguarda tutti i datori di lavoro, ma soprattutto per il tipo di tutela inibitoria e ripristinatoria dell’interesse sindacale resa effettiva dalla eccezionale misura compulsoria penale per l’ottemperanza all’ordine del giudice da parte del datore di lavoro.

Inoltre, ai sensi dell’articolo 15 dello stesso Statuto, già richiamato in precedenza, è nullo qualsiasi patto od atto diretto a licenziare un lavoratore, discriminarlo nella assegnazione di qualifiche o mansioni, nei trasferimenti, nei provvedimenti disciplinari, o recargli altrimenti pregiudizio a causa della sua affiliazione o attività sindacale ovvero della sua partecipazione ad uno sciopero.

Limiti al diritto di sciopero

In mancanza di una regolamentazione legislativa del diritto di sciopero sino all’approvazione della legge sul diritto di sciopero nei servizi pubblici essenziali, gli interpreti hanno dovuto fissare alcuni limiti per il necessario contemperamento con altri interessi di natura costituzionale. Difatti la Corte Costituzionale ha riconosciuto l’esistenza di limiti esterni a tutela di interessi costituzionali preminenti. Il sacrificio dello sciopero è stato così giustificato con il richiamo ai diritti inviolabili dell’uomo e ai doveri inderogabili di solidarietà sanciti dall’articolo 2 della Costituzione.

Diritto di sciopero nei servizi pubblici essenziali.

La regolamentazione del diritto di sciopero nei servizi pubblici essenziali, approvata solamente dopo oltre quaranta anni dall’entrata in vigore della Costituzione, è contenuta nella legge 12 giugno 1990, n. 146[3], come modificata dalla legge 11 aprile 2000, n. 83[4].

I punti qualificanti della normativa possono essere riassunti come segue:

Obbligo di preavviso.

Nell'ambito dei servizi essenziali - individuati dall'art. 1 della legge - lo sciopero deve essere preceduto da un preavviso di almeno 10 giorni, con indicazione della durata dell'iniziativa di astensione dal lavoro. Gli enti erogatori dei servizi sono a loro volta tenuti a comunicare agli utenti, almeno 5 giorni prima dell'inizio dello sciopero, le modalità di erogazione dei servizi da essi gestiti nel corso dell'astensione.

E’ stato introdotto il principio della cd. "rarefazione oggettiva" degli scioperi: devono cioè essere indicatiintervalli minimi da osservare tra una azione di sciopero e l'altra, in modo da evitare che, "per effetto di scioperi proclamati in successione da soggetti sindacali diversi e che incidono sullo stesso servizio finale o sullo stesso bacino di utenza sia oggettivamente compromessa la continuità dei servizi pubblici".

Sono previste forme di prevenzione, raffreddamento e moderazione dei conflitti - obbligatorie per entrambe le parti - da esperire prima della proclamazione dello sciopero, e misure volte a contrastare il cd. "effetto annuncio": la revoca spontanea dello sciopero proclamato, dopo che è stata data informazione all'utenza, senza che ci sia stato un accordo o un invito della Commissione di garanzia o dell'Autorità competente alla precettazione, costituisce forma sleale di azione sindacale e viene valutata dalla Commissione di garanzia ai fini dell'irrogazione delle sanzioni.

Prestazioni indispensabili

Nell'ambito della contrattazione collettiva vengono individuate le prestazioni minime che devono essere assicurate in caso di sciopero, al fine di garantire i diritti costituzionalmente tutelati dei cittadini-utenti.

Precettazione.

L'autorità pubblica (Presidente del Consiglio, Ministro delegato, o, per i conflitti infraregionali, prefetto), dopo avere effettuato un tentativo di conciliazione e, se questo non ha esito, dopo avere invitato le parti al rispetto della proposta della Commissione sulle prestazioni minime, può emanare un'ordinanza motivata, con la quale impone all'impresa erogatrice di assicurare adeguati livelli di funzionamento del servizio qualora una iniziativa di astensione dal lavoro possa determinare un grave pregiudizio a diritti costituzionali.

L'ordinanza deve esplicitamente indicare la durata di efficacia delle prescrizioni che dispone; essa può anche limitarsi ad imporre il differimento dello sciopero, al fine di evitare concomitanze con astensioni relative allo stesso settore. L'ordinanza può essere emanata anche nei confronti di lavoratori autonomi e di soggetti di rapporti di collaborazione continuativa e coordinata.

Commissione di garanzia.

Viene istituita una Commissione di garanzia per l’esercizio del diritto di sciopero nei servizi pubblici essenziali, quale organo di controllo dell'attuazione della legge e di ausilio del Parlamento. Le sue funzioni si ricollegano direttamente alla finalità di contemperamento di interessi di rilevanza costituzionale: l'esercizio del diritto di sciopero da un lato e la garanzia dei diritti della persona costituzionalmente tutelati dall'altro. La Commissione è organo collegiale e dispone di potestà di autorganizzazione. E’ stata introdotta una limitazione ai poteri della Commissione di garanzia prevedendo che la medesima, nella valutazione dei codici di autoregolamentazione e nelle proposte di provvisoria regolamentazione adottate in assenza di accordi idonei, sia tenuta ad individuare le prestazioni indispensabili - salvo casi particolari - "in misura mediamente non eccedente il 50 per cento delle prestazioni normalmente erogate"; tali prestazioni dovranno inoltre riguardare "quote strettamente necessarie di personale non superiori mediamente ad un terzo del personale normalmente utilizzato per la piena erogazione del servizio, tenuto conto delle condizioni tecniche e della sicurezza".

Sanzioni

Per i lavoratori che si astengono dal lavoro violando le norme sul preavviso e sulle prestazioni indispensabili sono disposte sanzioni disciplinari; per le organizzazioni promotrici dello sciopero, si prevede la sospensione di alcuni benefici, nonché la esclusione dalle trattative per un periodo di due mesi dalla cessazione del comportamento; per i responsabili aziendali sono previste sanzioni amministrative pecuniarie applicate dal ministro del lavoro o da quello della funzione pubblica. La Commissione di garanzia ha il potere di deliberare sanzioni pecuniarie amministrative (da irrogarsi poi con ordinanza della Direzione provinciale del lavoro) alle organizzazioni sindacali.

Meccanismi ed istituzioni deputati alla vigilanza dell’attuazione e del rispetto della legislazione sociale, previdenziale e in materia di sicurezza.

In Italia l’istituzione deputata alla gestione e alla vigilanza del rispetto della legislazione sociale e previdenziale è, in primo luogo, per il settore privato, l’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS), che rappresenta l’istituto assicuratore per la stragrande maggioranza dei lavoratori dipendenti per quanto riguarda la tutela per l’invalidità, la vecchiaia e i superstiti. Tale istituto si occupa della gestione dei contributi previdenziali, posti a carico del datore di lavoro per la parte più rilevante, quindi dell’erogazione delle pensioni relative alla vecchiaia o all’invalidità.

Pertanto l’INPS si occupa anche della verifica della corretta contribuzione e, in caso di accertamento di inadempimento, provvede a recuperare quanto dovuto e non versato dal datore di lavoro.

Per quanto riguarda il settore del pubblico impiego, invece, l’istituto assicuratore per la vecchiaia, l’invalidità e i superstiti è costituito dall’Istituto nazionale per la previdenza dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche (INPDAP).

La sicurezza e la salute sui luoghi di lavoro trova molteplici punti di riferimento normativo sul piano sia dei principi costituzionali che della legislazione ordinaria e speciale. Particolare rilevanza assume la disciplina speciale contenuta principalmente nel decreto legislativo n. 626 del 1994 che, recependo una serie di direttive comunitarie, ha definito il sistema generale di prevenzione e sicurezza e ha completato la disciplina esistente in materia di prevenzione dei rischi professionali, eliminazione dei rischi di incidente, affermazione del ruolo attivo dei lavoratori e del loro diritto ad essere informati e consultati.

L’organismo deputato alla verifica del rispetto della normativa sulla sicurezza è, in primo luogo, l’Azienda sanitaria territorialmente competente, a cui si affianca il competente Ispettorato del lavoro. Tali uffici possono effettuare ispezioni e, nel caso riscontrino violazioni, comminano sanzioni amministrative e denunciano eventuali reati all’autorità giudiziaria.

Esiste inoltre una tutela risarcitoria pubblica contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali, gestita dall’Istituto nazionale per l’assicurazione degli infortuni sul lavoro (INAIL). Tale ente raccoglie i premi assicurativi versati obbligatoriamente dal datore di lavoro nel caso di attività pericolose stabilite dalla legge e provvede a corrispondere agli assicurati o ai superstiti una rendita in caso di infortunio o di malattia professionale.

Controversie in materia di lavoro

La tutela giurisdizionale dei diritti del lavoratore è agevolata dalla previsione di un apposito processo del lavoro, disciplinato dalla legge 11 agosto 1973, n. 533, che, novellando il titolo IV del libro II del codice di procedura divile ed il capo V del titolo III delle disposizioni di attuazione, ha definito il processo del lavoro come “rito speciale”.

Il processo del lavoro è caratterizzato, in primo luogo, dalla completa gratuità, salvo ovviamente il compenso dell’avvocato, escluso peraltro nei casi di patrocinio a spese dello Stato.

Competente alla cognizione delle cause del lavoro, sia per quanto riguarda i lavoratori privati sia i pubblici dipendenti, è il giudice ordinario, in particolare, in primo grado, il Tribunale. Fino a qualche anno fa, invece, la competenza per i lavoratori privati era attribuita, in primo grado, al Pretore (scomparso poi nel 1999 con la riforma del “giudice unico”), mentre la giurisdizione per i pubblici dipendenti attribuita al giudice amministrativo.

Il processo del lavoro si avvale di alcuni istituti volti a garantire maggiore celerità rispetto al rito civile ordinario.

Lo strumento tecnico indispensabile, seppur talvolta insufficiente, per la celerità del processo è costituito dalle preclusioni, che impongono ad entrambe le parti di esporre all’inizio del procedimento tutte le rispettive domande, eccezioni e richieste di prove, senza possibilità di successive modifiche o integrazioni. In tal modo il giudice è in grado di conoscere la causa prima dell’udienza, nella quale può quindi esperire speditamente l’interrogatorio delle parti e il tentativo di conciliazione (vedi ultra), per poi procedere, in caso di mancata conciliazione, all’istruttoria eventualmente necessaria ed alla decisione. Si consideri che tale istruttoria è improntata al principio dell’oralità.

Nel corso del processo di primo grado il giudice può emanare una ordinanza esecutiva, non autonomamente impugnabile, per il pagamento delle somme non contestate a favore della parte interessata oppure, a favore del solo lavoratore, delle somme che ritiene spettanti nei limiti della prova già raggiunta.

La sentenza pronunciata all’esito del processo, se contiene un capo di condanna, è provvisoriamente esecutiva ope legis, non solo, come era in origine, a favore del lavoratore, ma ora anche a favore del datore di lavoro in conformità alla nuova disciplina generale del processo civile.

Nel giudizio d’appello (di competenza della Corte d’appello) non è ammesso lo ius novarum, essendo stabilito che non sono ammesse nuove domande ed eccezioni, sicché le parti rimangono agganciate alle posizioni che avevano assunto nel primo grado processuale. Non sono ammessi neanche nuovi mezzi probatori, tranne le prove documentali, il giuramento e, anche d’ufficio, le prove indispensabili alla decisione della causa.

Il giudizio di cassazione si svolge con le regole del rito civile ordinario, ma è affidato alla apposita Sezione lavoro della Corte di Cassazione. Il ricorso per Cassazione è ammesso anche per violazione e falsa applicazione dei contratti collettivi nazionali del settore pubblico.

Il non sempre raggiunto obiettivo della celerità del processo ha determinato un largo uso della tutela cautelare d’urgenza dell’articolo 700 del codice di procedura civile per la protezione di beni essenziali del lavoratore, esposti nelle more del processo di cognizione ad un pregiudizio imminente ed irreparabile.

Per ridurre il contenzioso giudiziario del lavoro, accresciuto con la devoluzione al giudice ordinario anche delle controversie del lavoro pubblico, il legislatore voluto favorire gli strumenti di composizione stragiudiziale delle controversie di lavoro, alternativi – arbitrato – o prodromiciconciliazione – alla domanda giudiziale.

Il tentativo di conciliazione in sede sindacale o presso le commissioni istituite nelle Direzioni è ora obbligatorio a pena di improcedibilità della domanda, che può essere presentata solo dopo l’espletamento del tentativo o dopo la scadenza del termine di sessanta giorni dalla richiesta.

Certificazione

Il decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276, emanato in attuazione della Legge Biagi (legge 14 febbraio 2003, n. 30) ha disciplinato l’istituto della certificazione del rapporto di lavoro: trattasi di una procedura di carattere volontario finalizzata ad una riduzione del contenzioso in materia di qualificazione dei contratti di lavoro.

Con il decreto legislativo 6 ottobre 2004, n. 251, l’istituto della certificazione è poi divenuto applicabile a tutti i contratti di lavoro, rimuovendosi la limitazione a determinate tipologie (contratti di lavoro intermittente, ripartito, a tempo parziale e a progetto e contratti di associazione in partecipazione).

La procedura della certificazione, che consegue obbligatoriamente ad una istanza scritta comune delle parti del contratto di lavoro, deve svolgersi presso commissioni ad hoc, istituite presso:

§      enti bilaterali costituiti nell’ambito territoriale di riferimento o a livello nazionale;

§      le Direzioni provinciali del lavoro e le province;

§      le Università, pubbliche e private, registrate in un apposito albo, esclusivamente nell’ambito di rapporti di collaborazione e consulenza attivati con docenti di diritto del lavoro di ruolo.

Le procedure di certificazione sono determinate all'atto di costituzione delle commissioni di certificazione e si svolgono nel rispetto di una serie di princìpi sull’efficacia ed la trasparenza del procedimento nonché dei codici di buone pratiche che individuano le clausole indisponibili in sede di certificazione dei rapporti di lavoro, con specifico riferimento ai diritti e ai trattamenti economici e normativi. Gli effetti della certificazione del contratto di lavoro permangono, anche verso i terzi, fino al momento dell’accoglimento, con sentenza di merito, di uno dei ricorsi giurisdizionali esperibili[5], fatti salvi i provvedimenti cautelari.

Si ricorda infine che le commissioni di certificazione costituite presso gli enti bilaterali possono certificare le rinunce e le transazioni aventi ad oggetto diritti del lavoratore derivanti da disposizioni inderogabili della legge o dei contratti collettivi, a conferma della volontà abdicativa o transattiva delle parti.

Mercato del lavoro

Collocamento. Politiche di impiego

Con l’approvazione della Legge Biagi (Legge 14 febbraio 2003, n. 30) e del relativo decreto di attuazione (Decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276) è stato realizzato un sistema di strumenti volti a garantire trasparenza ed efficienza al mercato del lavoro ed a migliorare le capacità di inserimento professionale dei disoccupati e di quanti sono in cerca di prima occupazione, con particolare riguardo alle fasce più deboli (la Legge delega indica a tale proposito le donne ed i giovani).

In particolare la legge n. 30/2003 ed il decreto di attuazione hanno introdotto nuove tipologie contrattuali, ovvero:

•    il lavoro intermittente, che può essere sperimentato, tra l’altro, per i lavoratori con più di 45 anni di età che siano stati espulsi dal ciclo produttivo o siano iscritti alle liste di mobilità e di collocamento;

•    il contratto di inserimento, che prevede – tra le categorie di soggetti ammessi – i lavoratori con più di 50 anni privi di un posto di lavoro e, più in generale, coloro che desiderano riprendere un’attività lavorativa e che non abbiano lavorato per almeno due anni;

•    il lavoro a progetto, che sostituisce il contratto di collaborazione coordinata e continuativa;

•    il lavoro occasionale ed accessorio, ovvero un’attività lavorativa sporadica svolta da soggetti a rischio di esclusione sociale o non ancora nel mercato del lavoro o prossimi all’uscita;

•    il lavoro ripartito o job sharing.

E’ stato poi identificato un unico regime autorizzatorio o di accreditamento, differenziato solo in funzione del tipo di attività svolta, per tutti i soggetti che intendono operare sul mercato del lavoro.

Presso il Ministero del lavoro è stato istituito un apposito albo delle agenzie del lavoro – strutture private polifunzionali per la mediazione tra domanda ed offerta di lavoro - suddiviso nelle seguenti sezioni:

·       agenzie di somministrazione di lavoro, abilitate a svolgere tutte le attività relative al contratto di somministrazione;

·       agenzie di somministrazione di lavoro a tempo indeterminato, abilitate a operare esclusivamente in particolari attività (a titolo esemplificativo: facchinaggio e pulizia, servizi di vigilanza e custodia, consulenza ed assistenza nel settore informatico, ristorazione e portineria, call-center, etc.);

·       agenzie di intermediazione;

·       agenzie di ricerca e selezione del personale;

·       agenzie di supporto alla ricollocazione professionale.

Il richiamato Decreto 276 autorizza inoltre allo svolgimento dell’attività di intermediazione – senza fini di lucro - i seguenti soggetti:

1)   enti locali;

2)   università pubbliche e private, comprese le fondazioni universitarie;

3)   istituti di scuola secondaria di secondo grado, sia pubblici sia privati.

Vengono parimenti autorizzate, esclusivamente a favore dei propri associati e nel rispetto di alcuni requisiti:

1)      le associazioni dei datori di lavoro e dei prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative che siano firmatarie di contratti collettivi nazionali di lavoro;

2)      le associazioni di rilevanza nazionale aventi come oggetto sociale la tutela e l’assistenza delle attività imprenditoriali o del lavoro e gli enti bilaterali;

3)      l’ordine nazionale dei consulenti del lavoro, che può svolgere attività di intermediazione a livello nazionale tramite una apposita fondazione o altro soggetto dotato di personalità giuridica, purché iscritti all’albo.

E’ poi prevista la formazione, da parte delle regioni, di appositi elenchi ai fini dell’accreditamento degli operatori, sia pubblici sia privati, che operano sul territorio, sulla base di determinati principi e criteri direttivi. Inoltre le regioni dovranno disciplinare le forme di cooperazione tra servizi pubblici e operatori privati autorizzati o accreditati, per il collocamento, la prevenzione della disoccupazione di lunga durata, la promozione del collocamento dei lavoratori svantaggiati ed il sostegno alla mobilità geografica.

Il decreto 276, infine, ha istituito anche la Borsa continua del lavoro, ovvero un portale su rete telematica diretto a facilitare l'incontro tra domanda e offerta, finalizzato a favorire la maggior efficienza e trasparenza del mercato del lavoro.

Il sistema previdenziale

Dal dopoguerra a oggi la storia della legislazione pensionistica italiana è segnata da due fasi.

La prima va dal 1948 al 1969; grosso modo coincidente con gli anni della ricostruzione, del boom economico fino all'autunno caldo. La legislazione previdenziale in questo ventennio estende progressivamente le prestazioni e si configura come leva della politica assistenziale e di sostegno al reddito. Essa perde gradualmente ogni aggancio con la contribuzione versata dal lavoratore e acquisisce, sempre più, il connotato di un diritto sociale finanziato dallo Stato, rapportato alla retribuzione e dunque finanziato dalla fiscalità generale.

La seconda fase, iniziata negli anni settanta, si sviluppa parallelamente all'insorgere delle crescenti e continue difficoltà economiche dei Paese, ma anche al quadro di turbolenze e crisi di crescita generalizzata del mondo occidentale. Essa è contrassegnata da un’inversione di marcia rispetto alla prima e si caratterizza per il ripristino dell'aggancio della pensione al concetto di contribuzione, e per il restringimento delle generose condizioni pensionistiche, sia sotto il profilo dell'anticipo delle prestazioni, sia sotto quello dell'importo degli assegni. In particolare, il periodo, iniziato con la riforma Amato (1992), è diretto a ridurre il peso della spesa previdenziale sul Pil e si sostanzia in ben quattro interventi di riforma abbastanza ravvicinati (riforma Amato: decreto legislativo n. 503 del 1992; riforma Dini: legge n. 335 del 1995; riforma Prodi: legge n. 449 del 1997; infine riforma Berlusconi: legge n. 243 del 2004). La riforma Amato si è caratterizzata, tra l’altro, per aver elevato, con riferimento a tutti i regimi pensionistici, l’età per la pensione di vecchiaia da 55 a 60 anni per le donne e da 60 a 65 per gli uomini. La riforma Dini ha introdotto il metodo di calcolo contributivo (seppur in maniera integrale solo per il futuro, facendo salvo il metodo retributivo per i lavoratori con anzianità contributiva superiore a 18 anni al momento dell’entrata in vigore della riforma), che consente di porre in correlazione più stretta il livello delle prestazioni con quello delle contribuzioni. La riforma Prodi, anche al fine di consentire l’ingresso dell’Italia nell’area della moneta unica europea, modificò il regime delle prestazioni pensionistiche di anzianità, attraverso l’introduzione di una normativa più restrittiva quanto ai requisiti di accesso e di decorrenza.

La quarta riforma delle pensioni italiana dal 1992 è stata approvata con la legge 23 agosto 2004, n. 243, di modifica del sistema previdenziale, che si propone di raggiungere due obiettivi principali, anche sulla base degli orientamenti condivisi a livello europeo:

•    elevare gradualmente l’età pensionabile, in considerazione degli andamenti demografici;

•    sviluppare la previdenza complementare, da affiancare a quella pubblica, al fine di garantire una migliore sostenibilità del sistema.

La riforma, in sostanza, si pone l’obiettivo di garantire la sostenibilità finanziaria ed economica in relazione all’invecchiamento della popolazione ed alle conseguenze che ciò provoca sulla finanza pubblica, senza però dimenticare gli obiettivi sociali che storicamente connotano lo stato sociale italiano.

Tali obiettivi presuppongono un obiettivo più generale, costituito dall’aumento del tasso di occupazione italiano, a cominciare dalla popolazione ultracinquantenne, la cui età di pensionamento va aumentata di circa 5 anni, in modo da avvicinarsi alla media europea. Si consideri che il tasso di occupazione italiano nel 2004 si è attestato sul 57,4 per cento, ben al di sotto della media europea (circa 64 per cento) ma soprattutto rispetto agli obiettivi di Lisbona e Stoccolma (70 per cento nel 2010).

A differenza di quelle che la hanno preceduta, la riforma delle pensioni del Governo Berlusconi è stata predisposta all’interno di un quadro di pieno coordinamento europeo, nel solco delle decisioni maturate progressivamente in cinque consigli europei dedicati a costruire in Europa condizioni stabili di crescita e di competitività oltre che di equilibrio e sostenibilità delle finanze pubbliche. Il metodo di lavoro adottato dai quindici prima nei consigli di Stoccolma e di Goteborg, poi in quello di Lisbona, prende il nome di “coordinamento aperto”, a voler evidenziare l’impegno assunto in sede europea dai paesi membri di far fronte alla comune tendenza all’invecchiamento della popolazione e alle conseguenze sulle finanze pubbliche. Esiste il rischio che nei prossimi decenni l’aumento progressivo del numero di pensionati a fronte di una diminuzione della popolazione in età lavorativa determini un onere finanziario insostenibile per la popolazione attiva, e nel contempo influisca negativamente sul potenziale di crescita economica dell’Europa. Si prevede che entro il 2050 gli europei vivranno almeno quattro-cinque anni più a lungo rispetto a oggi: i costi per fornire lo stesso livello di pensioni aumenterebbero del 25-30 per cento. La situazione è aggravata dal fatto che la generazione del “baby boom”, nata nel secondo dopoguerra, raggiungerà l’età pensionabile, mentre le generazioni successive sono molto meno numerose in conseguenza del calo delle nascite. L’effetto combinato di fattori quali il pensionamento di una moltitudine di persone e l’aumento della speranza di vita farà raddoppiare l’indice di dipendenza degli anziani, ossia il numero di pensionati in rapporto alla popolazione in età lavorativa. Nel 2000, gli ultrasessantacinquenni rappresentavano circa un quarto della popolazione in età lavorativa, mentre nel 2050 sfioreranno il 50 per cento.

Pertanto ogni paese predispone interventi di riforma dei sistemi pensionistici calibrati sulle specifiche realtà socio-economiche e finanziarie, ma comunque con l’obiettivo condiviso di favorire la crescita dell’economia europea e la sostenibilità dei sistemi finanziari.

Le misure previste dalla riforma del 2004 per differire l’uscita dal mondo del lavoro sono essenzialmente di due tipi:

•    innalzamento ex lege dei requisiti di età anagrafica richiesto per l’accesso al pensionamento di anzianità;

•    riconoscimento, per il periodo 2004-2007, di incentivi economici per i lavoratori dipendenti del settore privato che, pur avendo maturato i requisiti per accedere alla pensione di anzianità, decidono di proseguire l’attività lavorativa. In tal caso i lavoratori, rinunciando agli accrediti contributivi, percepiscono direttamente ed integralmente la somma corrispondente a detti accrediti.

Tale forma di incentivo dovrà essere esteso, con decreto delegato, anche ai lavoratori del settore pubblico, con le necessarie armonizzazioni:

La legge prevede, inoltre, una delega volta ad introdurre la liberalizzazione dell’età pensionabile, al fine di consentire al lavoratore di proseguire l’attività lavorativa, previo consenso del datore di lavoro, anche oltre i limiti di età per l’accesso alla pensione di vecchiaia.

La riforma delle pensioni del 2004 adotta la scelta di lasciare immutato il sistema fino al 2008 per quanto attiene ai requisiti di accesso al pensionamento. Fino al 2008 quindi nulla è innovato: i requisiti della maturazione del diritto alle prestazioni pensionistiche di anzianità e di vecchiaia restano quelli definiti dalla legge n. 335 del 1995 e dalla legge n. 449 del 1997, siano esse calcolate con il metodo retributivo, con quello contributivo o con quello misto[6].

Pertanto, per i lavoratori dipendenti del settore pubblico e privato che maturano i requisiti per la pensione entro la fine del 2007, il diritto alla pensione di anzianità è riconosciuto in presenza di 57 anni di età e 35 di contributi ovvero, indipendentemente dall’età, qualora ricorra un requisito contributivo più elevato (39 anni per il biennio 2006-2007).

Per i lavoratori autonomi iscritti all’INPS sono attualmente richiesti 58 anni di età e 35 di contributi ovvero, indipendentemente dall’età, 40 anni di contributi.

Per la pensione di vecchiaia i requisiti, per le pensioni retributive e miste, sono rappresentati da almeno 20 anni di contributi e 60 anni d’età, per le donne, e 65 per gli uomini. Per la nuova pensione di vecchiaia, calcolata esclusivamente con il sistema contributivo, valgono invece le seguenti condizioni di accesso: almeno 5 anni di contributi, 57 anni di età ed una pensione da liquidare di importo pari o superiore a 1,2 volte l’assegno sociale. Si prescinde dal requisito legato all’importo della pensione al compimento dei 65 anni di età.

Pertanto, i lavoratori che fino al 2007 conseguiranno i requisiti sopra indicati potranno accedere al relativo trattamento pensionistico secondo la normativa e le stesse decorrenze vigenti anteriormente alle innovazioni della riforma.

Questi stessi lavoratori, inoltre, potranno esercitare il diritto alla prestazione in un qualsiasi momento successivo alla maturazione dei predetti requisiti, indipendentemente da ogni modifica normativa, grazie all’istituto della “certificazione del diritto alla pensione”. Tale certificazione assume valenza garantista dei diritti quesiti, consentendo agli interessati di pensionarsi in base alle regole del previgente regime anche laddove sia intervenuta una revisione della normativa in materia.

Dal 2008 si assisterà alla riforma strutturale, con i seguenti requisiti per accedere al pensionamento:

Per la pensione di anzianità nel sistema retributivo e misto i requisiti per l'accesso alla pensione sono: 35 anni di contributi e 60 anni di età (61 per gli autonomi), con incremento di 1 anno nel 2010 e poi ancora di uno nel 2014, salvo verifica degli effetti finanziari; 40 anni di anzianità contributiva a prescindere dal requisito anagrafico.

Per la pensione nel sistema contributivo: si può accedere alla pensione con 65 anni per gli uomini e 60 per le donne e un quinquennio di contributi; 40 anni di contributi a prescindere dall'età; 35 anni di contributi e 60 anni di età (61 per gli autonomi) con gli incrementi anagrafici di cui al precedente punto.

Come eccezione è consentito, in via sperimentale fino al 2015, alle lavoratrici che optano per la liquidazione della pensione con il sistema contributivo, di conseguire la pensione di anzianità ancora con 35 anni di contributi e 57 anni di età (58 anni per le lavoratrici autonome).

Poiché la riforma sarà operativa solamente dal 2008, come misura di immediata operatività, particolarmente utile per innalzare consensualmente l’età del pensionamento e quindi accrescere il tasso di occupazione, è stato previsto un incentivo al posticipo del pensionamento (cosiddetto bonus previdenziale). In sostanza fino al 31 dicembre 2007 i dipendenti del solo settore privato in possesso dei requisiti per la pensione di anzianità, previsti dalla normativa attualmente in vigore, potranno rinviare il pensionamento usufruendo di un bonus, fiscalmente esente, pari al 32,7% della retribuzione lorda. Naturalmente i lavoratori potranno optare alternativamente per l’accreditamento della contribuzione, ciò che garantirà una maggiore pensione in futuro.

La legge n. 243/2004 ha anche previsto la possibilità di totalizzare i periodi assicurativi posseduti nelle varie gestioni previdenziali: in pratica si estende la possibilità di cumulare i trattamenti di diversi fondi di previdenza per i lavoratori che abbiano compiuto 65 anni di età o abbiano complessivamente maturato almeno 40 anni di contributi e che abbiano versato presso ogni fondo previdenziale interessato alla totalizzazione almeno cinque anni di contributi.

Una grande novità strutturale introdotta dalla riforma del 2004 è la modifica della disciplina della previdenza complementare, ovvero il secondo pilastro su sui si fonda il disegno di riforma pensionistica iniziato nel 1992. Con questa innovazione, i lavoratori potranno far confluire le liquidazioni maturate in un fondo pensioni di loro scelta che opportunamente gestito dovrà costituire l'assegno integrativo della pensione in grado di arricchire l'assegno di pensione pubblica, nel frattempo divenuto meno generoso rispetto al passato.

La legge 243 delega quindi il Governo ad emanare un decreto delegato per aumentare l'entità dei flussi di finanziamento alle forme pensionistiche complementari, collettive e individuali, con contestuale incentivazíone di nuova occupazione con carattere di stabilità. A tal fine il decreto dovrà prevedere, in primo luogo, il conferimento, salva diversa esplicita volontà espressa dal lavoratore, del trattamento di fine rapporto maturando alle forme pensionistiche complementari di cui al decreto legislativo 21 aprile 1993, n. 124. In sostanza viene introdotto un criterio di silenzio-assenso, per cui il trattamento di fine rapporto sarà destinato ai fondi pensione, a meno che il lavoratore non esprima una differente volontà. Si prevede inoltre che il lavoratore stesso abbia un'adeguata informazione su: la tipologia, le condizioni per il recesso anticipato, i rendimenti stimati dei fondi di previdenza complementare per i quali è ammessa l'adesione, nonché sulla facoltà di scegliere le forme pensionistiche a cui conferire il trattamento di fine rapporto. Ciò previa omogeneizzazione delle stesse in materia di trasparenza e tutela, e anche in deroga alle disposizioni legislative che già prevedono l'accantonamento del trattamento di fine rapporto e altri accantonamenti previdenziali presso gli enti di cui al decreto legislativo 30 giugno 1994, n. 509, per titoli diversi dalla previdenza complementare di cui al citato decreto legislativo n. 124 del 1993.

La legislazione delegata deve inoltre individuare le modalità tacite di conferimento del trattamento di fine rapporto ai fondi istituiti o promossi dalle regioni, tramite le loro strutture pubbliche o a partecipazione pubblica all'uopo istituite, oppure in base ai contratti e accordi collettivi, nel caso in cui il lavoratore non esprima la volontà di non aderire ad alcuna forma pensionistica complementare e non abbia esercitato la facoltà di scelta in favore di una delle forme medesime entro il termine di sei mesi dalla data di entrata in vigore del relativo decreto legislativo, emanato ai sensi del comma 1 e del presente comma, ovvero entro sei mesi dall'assunzione.

Si introduce la possibilità che, qualora il lavoratore abbia diritto ad un contributo del datore di lavoro da destinare alla previdenza complementare, detto contributo affluisca alla forma pensionistica prescelta dal lavoratore stesso o alla quale egli intenda trasferirsi ovvero alla quale il contributo debba essere conferito.

Il legislatore delegato deve inoltre provvedere all'eliminazione degli ostacoli che si frappongono alla libera adesione e circolazione dei lavoratori all'interno del sistema della previdenza complementare, definendo regole comuni, in ordine in particolare alla comparabilità dei costi, alla trasparenza e portabilità, al fine di tutelare l'adesione consapevole dei soggetti destinatari.

Il conferimento del trattamento di fine rapporto viene subordinato all'assenza di oneri per le imprese, per cui il legislatore delegato deve procedere all’individuazione delle necessarie compensazioni in termini di facilità di accesso al credito, in particolare per le piccole e medie imprese, di equivalente riduzione del costo del lavoro e di eliminazione del contributo relativo al finanziamento del fondo di garanzia del trattamento di fine rapporto.

Per non penalizzare i lavoratori sul piano del trattamento pensionistico e per incentivare la scelta della destinazione del TFR ai fondi pensione, superando le remore relative alla redditività di tale forma di investimento finanziario, si delega il Governo ad individuare strumenti volti a garantire rendimenti dei fondi pensione comparabili al tasso di rivalutazione del trattamento di fine rapporto e si prevede l'assoggettamento delle prestazioni di previdenza complementare a vincoli in tema di cedibilità, sequestrabilità e pignorabilità analoghi a quelli previsti per la previdenza di base.

 



[1]    L’articolo 35, terzo comma, della Costituzione, infatti, stabilisce che la Repubblica “promuove e favorisce gli accordi e le organizzazioni internazionali intesi ad affermare e regolare i diritti del lavoro”, mentre l’articolo 11, tra gli altri, dispone che “consente in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo”.

[2]    Tale libertà è contemperata dal dettato de precedente artico 18 della Costituzione, che dispone che i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente, senza autorizzazione, per fini che non sono vietati ai singoli dalla legge penale. Lo stesso articolo proibisce altresì le associazioni segrete e quelle che perseguono, anche indirettamente, scopi politici mediante organizzazioni di carattere militare.

[3]    “Norme sull'esercizio del diritto di sciopero nei servizi pubblici essenziali e sulla salvaguardia dei diritti della persona costituzionalmente tutelati. Istituzione della Commissione di garanzia dell'attuazione della legge”.

[4]    “Modifiche ed integrazioni della L. 12 giugno 1990, n. 146, in materia di esercizio del diritto di sciopero nei servizi pubblici essenziali e di salvaguardia dei diritti della persona costituzionalmente tutelati”.

[5]     Ai sensi dell’art. 80 del D. Lgs. n. 276/2003, nei confronti dell'atto di certificazione, le parti e i terzi - nella cui sfera giuridica l'atto è destinato a produrre effetti - possono proporre ricorso, presso il giudice del lavoro, per erronea qualificazione del contratto o difformità tra il programma negoziale certificato e la sua successiva attuazione, nonché in caso di vizi del consenso. Tale ricorso presuppone l’esperimento di un tentativo obbligatorio di conciliazione presso la commissione di certificazione che ha adottato l'atto impugnato.

L'accertamento giurisdizionale dell'erroneità della qualificazione ha effetto fin dal momento della conclusione dell'accordo contrattuale. L'accertamento giurisdizionale della difformità tra il programma negoziale e quello effettivamente realizzato ha effetto a partire dal momento in cui la sentenza accerta che ha avuto inizio la difformità stessa.

Dinnanzi al tribunale amministrativo regionale nella cui giurisdizione ha sede la commissione di certificazione può essere presentato ricorso contro l'atto certificatorio per violazione del procedimento o per eccesso di potere.

[6]    Si ricorda a tal proposito che la cosiddetta “riforma Dini” del 1995 ha previsto la conferma del metodo di calcolo retributivo per coloro che, al 1° gennaio 1996, avevano maturato una anzianità contributiva di almeno 18 anni interi; ha previsto l’applicazione del metodo contributivo per coloro che alla stessa data erano ancora privi di contribuzione; infine, per coloro che alla stessa data avevano una anzianità contributiva inferiore a 18 anni, la pensione è calcolata pro-rata con il retributivo per la contribuzione anteriore al 1996 e con il contributivo per quella successiva.