XIV Legislatura - Dossier di documentazione
Autore: Servizio Studi - Dipartimento lavoro
Titolo: Attuazione Dir. 2002/73/CE, che modifica la Dir. 76/207/CE su parità di trattamento tra uomini e donne per l'accesso al lavoro - Schema di D.Lgs. n. 478 (Art.1, co. 3, L. 306/2003)
Serie: Pareri al Governo    Numero: 409
Data: 18/04/05
Descrittori:
ASSUNZIONE AL LAVORO   DIRETTIVE DELL'UNIONE EUROPEA
PARITA' TRA SESSI     
Organi della Camera: XI-Lavoro pubblico e privato

Servizio studi

 

pareri al governo

Attuazione Dir. 2002/73/CE, che modifica la Dir. 76/207/CEE, parità di trattamento tra uomini e donne per l’accesso al lavoro

Schema di D.Lgs. n. 478

(art. 1, comma 3, L. 306/2003)

n. 409

 


xiv legislatura

18 aprile 2005

 

Camera dei deputati


 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

SIWEB

 

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File: LA0512


INDICE

Scheda di sintesi per l'istruttoria legislativa

Dati identificativi3

Struttura e oggetto  4

§      Contenuto  4

§      Relazioni e pareri allegati4

Elementi per l’istruttoria legislativa  5

§      Conformità con la norma di delega  5

§      Rispetto delle competenze legislative costituzionalmente definite  6

§      Rispetto degli altri princìpi costituzionali6

§      Compatibilità comunitaria  6

Schede di lettura

§      LA NORMA DI DELEGA  13

Schema di decreto legislativo

Normativa nazionale

§      L. 9 dicembre 1977, n. 903. Parità di trattamento tra uomini e donne in materia di lavoro.47

§      L. 10 aprile 1991, n. 125. Azioni positive per la realizzazione della parità uomo-donna nel lavoro.55

§      D.Lgs. 23 maggio 2000, n. 196. Disciplina dell'attività delle consigliere e dei consiglieri di parità e disposizioni in materia di azioni positive, a norma dell'articolo 47 della L. 17 maggio 1999, n. 144.65

§      D.Lgs. 26 marzo 2001, n. 151. Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, a norma dell'articolo 15 della L. 8 marzo 2000, n. 53. (art. 22)73

§      L. 1 marzo 2002, n. 39. Disposizioni per l'adempimento di obblighi derivanti dall'appartenenza dell'Italia alle Comunità europee. Legge comunitaria 2001. (art. 29)75

§      D.Lgs. 9 luglio 2003, n. 215. Attuazione della direttiva 2000/43/CE per la parità di trattamento tra le persone indipendentemente dalla razza e dall'origine etnica.78

§      D.Lgs. 9 luglio 2003, n. 216. Attuazione della direttiva 2000/78/CE per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro.84

§      L. 31 ottobre 2003, n. 306. Disposizioni per l'adempimento di obblighi derivanti dall'appartenenza dell'Italia alle Comunità europee. Legge comunitaria 2003. (art. 1 e all. B)89

Normativa comunitaria

§      Dir. 76/207/CEE del 9 febbraio 1976. Direttiva del Consiglio relativa all'attuazione del principio della parità di trattamento fra gli uomini e le donne per quanto riguarda l'accesso al lavoro, alla formazione e alla promozione professionali e le condizioni di lavoro.95

§      Dir. 2000/43/CE del 29 giugno 2000. Direttiva del Consiglio che attua il principio della parità di trattamento fra le persone indipendentemente dalla razza e dall'origine etnica. (art. 2)103

§      Dir. 2002/73/CE del 23 settembre 2002. Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio che modifica la direttiva 76/207/CEE del Consiglio relativa all'attuazione del principio della parità di trattamento tra gli uomini e le donne per quanto riguarda l'accesso al lavoro, alla formazione e alla promozione professionali e le condizioni di lavoro.104


SIWEB

Scheda di sintesi
per l'istruttoria legislativa


Dati identificativi

Numero dello schema di decreto legislativo

n. 478

Titolo

Attuazione della direttive 2002/73/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 23 settembre 2002, che modifica la direttiva 76/207/CEE del Consiglio, relativa all’attuazione del principio di parità di trattamento tra gli uomini e le donne per quanto riguarda l’accesso al lavoro, alla formazione e alla promozione professionale e le condizioni di lavoro.

Norma di delega

Legge 31 ottobre 2003, n. 306, art. 1, comma 3

Settore d’intervento

Lavoro

Numero di articoli

3

Date

 

§      presentazione

5 aprile 2005

§      assegnazione

6 aprile 2005

§      termine per l’espressione del parere

16 maggio 2005

§      scadenza della delega

30 maggio 2005

Commissione competente

11ª Commissione Lavoro

Rilievi di altre Commissioni

14ª Politiche dell’Unione europea

 


 

Struttura e oggetto

Contenuto

Lo schema di decreto legislativo in esame è stato emanato in attuazione della delega prevista dall’articolo 17 della legge comunitaria 2003 (legge 31 ottobre 2003, n. 306) per il recepimento della direttiva 2002/73/CE, che modifica la direttiva 76/207/CEE, relativa all’attuazione del principio di parità di trattamento tra gli uomini e le donne per quanto riguarda l’accesso al lavoro, alla formazione e alla promozione professionali e le condizioni di lavoro.

La direttiva risultava comunque in buona parte già recepita dalla legislazione nazionale in tema di pari opportunità.

Lo schema di decreto in esame prevede dunque:

§          la ridefinizione delle nozioni di «discriminazione diretta» e «discriminazione indiretta» per motivi legati al sesso (art. 2, comma 1, lettere a) e b));

§          l’introduzione delle nozioni di «molestie» poste in essere per motivi connessi al sesso di una persona e di «molestie sessuali» e la loro equiparazione alle discriminazioni (art. 2, comma 1, lettera c));

§          l’introduzione del risarcimento del danno anche non patrimoniale per la persona discriminata per motivi connessi al sesso (art. 2, comma 1, lettere d) e e) e art. 3, comma 2);

§          il riferimento espresso del divieto di discriminazione nell’accesso al lavoro tanto al lavoro subordinato quanto al lavoro autonomo (art. 3, comma 1, lettera a));

§          l’estensione del divieto di discriminazione per motivi connessi al sesso anche all’affiliazione e all’attività delle organizzazioni sindacali o professionali e alle prestazioni erogate da tali organizzazioni (art. 3, comma 1, lettera b));.

Relazioni e pareri allegati

Lo schema di decreto risulta corredato della sola relazione illustrativa.


 

Elementi per l’istruttoria legislativa

Conformità con la norma di delega

Si rileva che in materia di definizioni sussiste una divergenza tra la disciplina comunitaria e la norma di delega, soprattutto per ciò che attiene alle definizioni di «molestie» e «molestie sessuali».

Lo schema di decreto legislativo, nell’enunciare le suddette definizioni, sembra essersi attenuto più alla normativa comunitaria che alla norma di delega (per un esame analitico della questione, si rinvia alla scheda di lettura, a pag.

Si valuti dunque se questo modus procedendi sia corretto, considerando che:

§       da un lato, ai sensi dell’articolo 76 della Costituzione, il Governo è tenuto ad attenersi ai criteri e principi direttivi previsti dal Parlamento nella norma di delega;

§       dall’altro, ai sensi dell’articolo 117, primo comma, della Costituzione, i vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario costituiscono comunque un limite alla potestà legislativa dello Stato.

Si rileva inoltre che tra i principi e criteri di delega vi è la previsione dell’azionabilità da parte di coloro che si ritengono vittime di una discriminazione  di una tutela giurisdizionale o amministrativa, con la garanzia di una riparazione o di un equo indennizzo (art. 17, comma 1, lettera c), legge n. 306/2003), conformemente alla normativa comunitaria (art. 6, par. 2, dir. 76/207/CEE).

Lo schema di decreto legislativo ha attuato detto principio di delega, prevedendo il risarcimento del danno, anche non patrimoniale, nel caso di ricorso contro la discriminazione proposto in via d’urgenza (art. 15, comma 1, legge n. 903/77, modificato dall’art. 3, comma 2, dello schema di decreto), e in caso di ricorsi per discriminazioni di carattere collettivo promossi dai consiglieri di parità in via ordinaria o di urgenza (art. 4, commi 9 e 10, legge n. 125/1991, modificati dall’art. 2, comma 1, lettere d) ed e) dello schema di decreto).

Lo schema di decreto non prevede invece il diritto al risarcimento del danno non patrimoniale nel caso in cui la persona lesa ritenga di agire in via ordinaria contro la discriminazione (come è previsto dal comma 13 dell’art. 4 l. 125/1991, non modificato dallo schema di decreto in esame). Appare opportuna un’integrazione del testo sul punto.

Rispetto delle competenze legislative costituzionalmente definite

Il principio di parità di trattamento tra uomini e donne in ambito lavorativo o professionale mira a salvaguardare la dignità ed i diritti fondamentali del lavoratore (artt. 2 e 3, primo comma, della Costituzione) e rientra dunque nella competenza esclusiva dello Stato (cfr. Corte Costituzionale sent. n. 359 del 2003).

Rispetto degli altri princìpi costituzionali

La parità di trattamento è uno dei principi fondamentali della nostra Costituzione che, all’articolo 3, stabilisce la pari dignità sociale di tutti i cittadini e la loro uguaglianza, senza distinzioni basate sul sesso, oltre che sulla razza, sulla lingua, sulla religione, sulle opinioni politiche e sulle condizioni personali e sociali.

Per ciò che attiene all’ambito lavorativo, la Costituzione stabilisce inoltre, all’articolo 37, che la donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni spettanti al lavoratore.

Compatibilità comunitaria

Esame del provvedimento in relazione alla normativa comunitaria

Si rinvia a quanto rilevato con riferimento alla conformità con la norma di delega.

Procedure di contenzioso in sede comunitaria
(a cura dell’Ufficio rapporti con l’Unione europea)

Il 19 settembre 2001 la Commissione ha inviato all'Italia una lettera di messa in mora[1] nella quale, a seguito del reclamo di una cittadina italiana, rileva che la legislazione nazionale, non consentendo alle donne di accedere a tutti i posti di lavoro nelle forze armate, non rispetti gli obblighi derivanti dalla direttiva 76/207/CEE relativa all'attuazione del principio della parità di trattamento fra gli uomini  le donne per quanto riguarda l'accesso al lavoro, alla formazione e alla promozione professionali e le condizioni di lavoro.

La Commissione precisa che in base alle condizioni di deroga previste all'articolo 2, paragrafo 2, della direttiva 76/207/CEE, gli Stati membri hanno la facoltà di escludere dal campo di applicazione della direttiva unicamente le attività professionali, ed eventualmente la relativa formazione, per le quali, in considerazione della loro natura o delle condizioni per il loro esercizio, il sesso rappresenta una condizione determinante; inoltre la Commissione sottolinea che, secondo la giurisprudenza della Corte[2] , il margine di apprezzamento di cui fruiscono gli Stati membri per escludere talune attività professionali dal campo di applicazione della direttiva è soggetto a criteri molto rigorosi e che gli Stati membri sono tenuti a riesaminare periodicamente la legittimità dell'esclusione. Non può, pertanto, essere consentito il mantenimento di un'esclusione in maniera tale per cui la composizione di tutte le unità delle forze armate permanga in generale esclusivamente maschile.

Con lettera del 12 marzo 2003 il Governo italiano ha chiesto alla Commissione europea una proroga di due mesi del termine concesso per rispondere alle contestazioni sollevate con la  lettera di messa in mora.

La Commissione ha inviato all’Italia il parere motivato il 16 marzo 2005.

Il 22 maggio 2003 la Commissione ha inviato all’Italia una lettera di messa in mora[3] nella quale ritiene che le diverse regolamentazioni nazionali che fissano una riserva di posti nell’amministrazione pubblica a favore dei militari[4] violano la direttiva 76/207/CEE. La Commissione constata che tale riserva di posti, prima dell’entrata in vigore della legge italiana n. 380 del 20 ottobre 2000 recante l’istituzione del servizio militare femminile poteva giovare solo agli uomini. La lettera di messa in mora ricorda inoltre che la legislazione italiana stabilisce che, per il personale militare volontario interessato dalla riserva di posti nell’amministrazione pubblica, la percentuale di personale femminile fissato in data 4 luglio 2002 è del 30%: la Commissione pertanto contesta che la disposizione che limita l’accesso delle donne militari volontarie alle riserve di posti a concorrenza del 30% al massimo in seguito all’entrata in vigore della citata legge italiana n. 380 del 20 ottobre 2000, opera una discriminazione diretta nei confronti delle donne, in violazione della direttiva 76/207/CEE.

 La Commissione ha inviato all’Italia il parere motivato il 16 marzo 2005.


Documenti all’esame delle istituzioni europee
(a cura dell’Ufficio rapporti con l’Unione europea)

Il 21 aprile 2004 la Commissione ha presentato una proposta di direttiva volta a rifondere le precedenti direttive sulla parità di trattamento nel lavoro (cosiddetta direttiva “rifusione”) (COM(2004) 279).

La proposta intende fondere le seguenti direttive vigenti: 75/117/CEE sulla parità retributiva; 76/207/CEE, modificata dalla direttiva 2002/73/CE, sulla parità di trattamento per quanto riguarda l’accesso al lavoro, alla formazione e alla promozione professionali e le condizioni di lavoro; 86/378/CEE, modificata dalla direttiva 96/97/CEE, sulla parità di trattamento nel settore dei regimi professionali di sicurezza sociale; direttiva 97/80/CE, modificata dalla direttiva 98/52/CE, riguardante l’onere della prova nei casi di discriminazione basata sul sesso.

La proposta di direttiva verrà esaminata secondo la procedura di codecisione. In attesa del parere del Parlamento europeo, il Consiglio ha approvato, il 7 dicembre 2004, un’impostazione comune sulla proposta di direttiva.

Il 19 agosto 2004 la Commissione ha presentato la proposta di decisione che modifica la decisione 2001/51/CE relativa al programma concernente la strategia quadro comunitaria in materia di parità tra donne e uomini e la decisione n. 848/2004/CE che istituisce un programma d’azione comunitario per la promozione delle organizzazioni attive a livello europeo nel settore della parità tra donne e uomini (COM(2004)551).

La proposta è volta a prolungare al 31 dicembre 2006 sia il programma concernente la strategia comunitaria in tema di parità tra donne e uomini (2001-2005), sia il programma d’azione comunitario per la promozione delle organizzazioni attive a livello europeo nel settore della parità tra donne e uomini; intende inoltre portare l’importo finanziario di riferimento della strategia quadro a 61,5 milioni di euro e quello assegnato al programma d’azione a 3,3 milioni di euro.

La proposta verrà esaminata secondo la procedura di codecisione. In attesa del parere del Parlamento europeo, il Consiglio ha approvato, il 7 dicembre 2004, un’impostazione comune sulla proposta che allinea la durata dei due programmi con la scadenza delle attuali prospettive finanziarie (31 dicembre 2006).

L’8 marzo 2005 la Commissione ha presentato la proposta di regolamento mirata a creare un Istituto europeo per l’uguaglianza di genere (COM(2005) 81).

L’Istituto dovrebbe operare come sostegno tecnico sia delle istituzioni europee, sia degli Stati membri, nella lotta contro le discriminazioni fondate sul sesso e promuovere l’uguaglianza tra uomini e donne in tutti gli ambiti di competenza della Comunità. L’Istituto dovrebbe inoltre perseguire anche una maggiore sensibilizzazione dei cittadini europei in merito all’uguaglianza di genere.

La proposta di regolamento verrà esaminata secondo la procedura di codecisione.


Schede di lettura


LA NORMA DI DELEGA

La legge comunitaria 2003 (legge 31 ottobre 2003, n. 306) all’articolo 17[5] ha recato una delega al Governo per il recepimento della direttiva 2002/73/CE, che modifica la direttiva 76/207/CEE, relativa all’attuazione del principio di parità di trattamento tra gli uomini e le donne per quanto riguarda l’accesso al lavoro, alla formazione e alla formazione professionale e le condizioni di lavoro.

 

Il Governo deve dunque apportare le modifiche strettamente necessarie alle disposizioni vigenti in materia di parità di trattamento tra gli uomini e le donne per quanto riguarda l'accesso al lavoro, alla formazione e alla promozione professionali e le condizioni di lavoro, facendo salve le disposizioni vigenti compatibili con la citata direttiva 2002/73/CE, nel rispetto dei seguenti princìpi e criteri direttivi:

 

a) garantire l'effettiva applicazione del principio di parità di trattamento tra uomini e donne in materia di lavoro, assicurando che le differenze di genere non siano causa di discriminazione diretta o indiretta, in un'ottica che tenga conto delle condizioni relative allo stato matrimoniale o di famiglia, per quanto attiene alle seguenti aree: condizioni di accesso all'occupazione e al lavoro, sia dipendente che autonomo, compresi i criteri di selezione e le condizioni di assunzione, indipendentemente dal ramo di attività e a tutti i livelli della gerarchia professionale; svolgimento del rapporto di lavoro, comprese le condizioni di lavoro, la retribuzione, le promozioni e le condizioni del licenziamento; accesso a tutti i tipi e i livelli di orientamento e di formazione, di perfezionamento e di riqualificazione professionale, inclusi i tirocini; attività prestata presso le organizzazioni dei lavoratori o dei datori di lavoro e accesso alle prestazioni erogate da tali organizzazioni;

b) definire la nozione di discriminazione come «diretta» quando una persona è trattata meno favorevolmente, in base al sesso, di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un'altra in una situazione analoga; definire la nozione di discriminazione «indiretta» quando una disposizione, un criterio o una prassi, apparentemente neutri, mettono o possono mettere in una situazione di particolare svantaggio le persone di un determinato sesso, rispetto a persone dell'altro sesso, salvo che, nel caso di attività di lavoro, caratteristiche specifiche di sesso costituiscano requisiti essenziali al loro svolgimento; definire la nozione di «molestie» quando viene posto in essere, per ragioni connesse al sesso, un comportamento indesiderato e persistente, avente lo scopo o l'effetto di violare la dignità di una persona o di creare un clima intimidatorio, ostile e degradante, tenuto conto delle circostanze, anche ambientali; definire la nozione di «molestie sessuali» quando il suddetto comportamento abbia in maniera manifesta una connotazione sessuale; considerare le molestie e le molestie sessuali come discriminazioni;

c) prevedere l'applicazione del principio di parità di trattamento senza distinzione di sesso in tutti i settori di lavoro, sia pubblici che privati, assicurando che sia azionabile da parte di coloro che si ritengono lesi una tutela giurisdizionale o amministrativa, con la garanzia di una riparazione o di un equo indennizzo;

d) riconoscere la legittimazione ad agire in giudizio o in via amministrativa alle organizzazioni o associazioni che abbiano un legittimo interesse al rispetto delle disposizioni comunitarie in tema di parità di trattamento senza distinzioni di sesso per conto o a sostegno della persona lesa, con il suo consenso; designare uno o più organismi per la promozione, l'analisi, il controllo e il sostegno delle parità di trattamento di tutte le persone senza discriminazioni fondate sul sesso, tenendo conto della normativa vigente sui consiglieri di parità;

e) prevedere misure adeguate per incoraggiare il dialogo fra le parti sociali al fine di promuovere il principio della parità di trattamento anche attraverso accordi nell'àmbito della contrattazione collettiva, codici di comportamento, scambi di esperienze e pratiche nonché il monitoraggio della prassi sui luoghi di lavoro.

 


Articolo 1
(Ambito di applicazione)

L’articolo 1 dello schema di decreto in esame reca una disposizione di carattere generale in merito all’ambito applicativo del medesimo decreto, volto ad integrare l’ordinamento vigente in materia di attuazione del principio relativo alla parità di trattamento tra uomini e donne in materia di accesso al lavoro, alla formazione e alla promozione professionali e le condizioni di lavoro.

Al riguardo si osserva che il quadro normativo nazionale già reca numerose disposizioni a garanzia di tale principio.

 

La parità di trattamento è innanzitutto uno dei principi fondamentali della nostra Costituzione che, all’articolo 3, stabilisce la pari dignità sociale di tutti i cittadini e la loro uguaglianza, senza distinzioni basate sul sesso, oltre che sulla razza, sulla lingua, sulla religione, sulle opinioni politiche e sulle condizioni personali e sociali.

Una specificazione di tale principio generale si ritrova nell’articolo 51, 1° comma, che stabilisce la parità dei sessi nell’accesso agli uffici pubblici e alle cariche elettive. La recente legge costituzionale n. 1 del 2003 ha integrato tale disposizione prevedendo l’adozione di appositi provvedimenti per la promozione delle pari opportunità tra donne e uomini.

La Costituzione stabilisce poi, all’articolo 37, che la donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni spettanti al lavoratore.

 

Il legislatore ha poi provveduto, nel corso degli anni, a creare una serie di strumenti, al fine di garantire le pari opportunità sul luogo di lavoro, idonei a promuovere l’occupazione femminile e a contrastare le discriminazioni sul luogo di lavoro.

Si ricorda, in primo luogo, che già la legge n. 903 del 1977[6]ha previsto una normativa organica volta ad assicurare la parità di trattamento tra uomini e donne in materia di lavoro. In particolare, si vieta qualsiasi discriminazione fondata sul sesso per quanto riguarda l'accesso al lavoro indipendentemente dalle modalità di assunzione e qualunque sia il settore o il ramo di attività, a tutti i livelli della gerarchia professionale (il concetto di discriminazione è stato successivamente ripreso dall’articolo 4 della legge n. 125 del 1991). Il divieto si applica anche alle iniziative in materia di orientamento, formazione, perfezionamento e aggiornamento professionale, per quanto concerne sia l'accesso sia i contenuti.

Occorre comunque ricordare che in precedenza, alcune norme, pur non rappresentando un intervento organico, avevano trattato la materia in oggetto, intervenendo però su specifici settori. Ad esempio, con la legge n. 7 del 1963 è stata disposta la nullità delle clausole contenute in un contratto di lavoro (individuale o collettivo) concernenti la risoluzione del rapporto di lavoro in seguito a matrimonio e, conseguentemente, è stato considerato nullo il licenziamento della lavoratrice attuato a causa del matrimonio. Lo stesso Statuto dei lavoratori (legge n. 300 del 1970), all’articolo 15 ha sancito la nullità di patti o atti diretti a fini di discriminazione politica, sindacale, religiosa, razziale, di lingua o di sesso.

La successiva legge n. 125 del 1991[7]ha disciplinato le azioni positive per la realizzazione della parità uomo-donna nel lavoro, cioè le misure aventi lo scopo di rimuovere le diseguaglianze che impediscono la realizzazione della parità di trattamento tra gli uomini e le donne in ambito lavorativo. Tali azioni, prevedendo situazioni di favore per le donne, incoraggiano queste ultime alla partecipazione alle varie attività lavorative presenti in ogni settore e livello del posto di lavoro.

La stessa legge, inoltre, ha disposto ulteriori obblighi a carico del datore di lavoro. In particolare, l’articolo 9 ha stabilito l’obbligo, per le aziende con più di 100 dipendenti, di redigere e trasmettere – almeno ogni 2 anni – alle rappresentanze sindacali aziendali ed al consigliere regionale di parità un rapporto sulla situazione lavorativa maschile e femminile nell'azienda.

Successivamente, l’articolo 47 della legge n. 144 del 1999, ha delegato il Governo, al fine di rafforzare gli strumenti volti a promuovere l'occupazione femminile e a prevenire e contrastare le discriminazioni di genere nei luoghi di lavoro, uno o più decreti legislativi recanti norme intese a ridefinire e potenziare le funzioni, il regime giuridico e le dotazioni strumentali della figura del consigliere di parità, di cui alla citata legge n. 125 del 1991, nonché a migliorare l'efficienza delle richiamate azioni positive.

La delega è stata attuata con il D.Lgs. n. 196 del 2000[8], il quale ha provveduto a ridefinire e rafforzare le funzioni, il regime giuridico e le dotazioni strumentali dei consiglieri di parità al fine di migliorare l'efficienza delle azioni positive e l'efficacia delle azioni per l'attuazione dei principi di uguaglianza e non discriminazione.

Il divieto di discriminazione fondata sul sesso per quanto concerne l'accesso al lavoro, indipendentemente dalle modalità di assunzione e qualunque sia il settore o il ramo di attività, attuata attraverso il riferimento allo stato matrimoniale o di famiglia o di gravidanza, è stato ulteriormente ribadito nell’articolo 3 del D.Lgs. n. 151 del 2001, recante disposizioni in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità[9]. Lo stesso articolo vieta, inoltre, qualsiasi discriminazione fondata sul sesso per quanto riguarda le iniziative in materia di orientamento, formazione, perfezionamento e aggiornamento professionale, per quanto concerne sia l'accesso sia i contenuti, nonché per quanto riguarda la retribuzione, la classificazione professionale, l'attribuzione di qualifiche e mansioni e la progressione nella carriera.

 

La legge comunitaria 2001 (legge 1° marzo 2002, n. 39) ha poi disposto l’attuazione delle direttive comunitarie 2000/43/CE, recepita con il D.Lgs. 9 luglio 2003, n. 215 “Attuazione della direttiva 2000/43/CE per la parità di trattamento tra le persone indipendentemente dalla razza e dall'origine etnica”, e 2000/78/CE, attuata con il D.Lgs. 9 luglio 2003, n. 216 ”Attuazione della direttiva 2000/78/CE per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro”.

 

Il decreto legislativo n. 215/2003, di attuazione della direttiva 2000/43/CE, reca le disposizioni attuative della parità di trattamento tra le persone indipendentemente dalla razza e dall’origine etnica. Il provvedimento dispone a tal fine le misure necessarie per evitare che le differenze di razza e di origine etnica siano causa di discriminazione, diretta e indiretta, anche in considerazione del differente impatto che le medesime forme di discriminazione possano avere:

•      su donne e uomini;

•      sull’esistenza di forme di razzismo a carattere culturale e religioso.

Nella nozione di discriminazione indiretta si fa riferimento, quali possibili fonti di discriminazione, oltre che ad una disposizione, a un criterio e una prassi anche a “un atto, un patto o un comportamento”.

Il provvedimento, all’articolo 3, specifica che il principio di parità di trattamento senza distinzioni di razza ed origine etnica si applica a tutte le persone sia del settore pubblico che del settore privato, con particolare riferimento alle seguenti aree:

•      accesso all’occupazione e al lavoro, sia autonomo sia dipendente, compresi i criteri di selezione e le condizioni di assunzione;

•      occupazione e condizioni di lavoro, compresi gli avanzamenti di carriera, la retribuzione e le condizioni di licenziamento;

•      accesso a tutti i tipi e livelli di orientamento e formazione professionale, perfezionamento e riqualificazione professionale, inclusi i tirocini professionali;

•      attività nell’ambito di organizzazioni dei lavoratori o dei datori di lavoro e accesso alle prestazioni erogate da tali organizzazioni;

•      protezione sociale, inclusa la sicurezza sociale;

•      assistenza sanitaria;

•      prestazioni sociali;

•      istruzione;

•      accesso a beni e servizi e alla loro fornitura, incluso l’alloggio.

Il Decreto disciplina anche la tutela giurisdizionale dei diritti, prevedendo una particolare azione civile contro la discriminazione: in presenza del comportamento di un privato o della pubblica amministrazione produttivo di una discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi, il giudice può, su istanza di parte, ordinare la cessazione del comportamento pregiudizievole e adottare ogni altro provvedimento idoneo, secondo le circostanze, a rimuovere gli effetti della discriminazione.

Il giudice che accoglie il ricorso, oltre a provvedere, se richiesto, al risarcimento del danno anche non patrimoniale, impartisce le opportune disposizioni per la cessazione del comportamento, della condotta o dell’atto discriminatorio, ove ancora sussistente. Inoltre, al fine di impedire la ripetizione degli atti di discriminazione, il giudice ordina a chi li ha posti in essere di adottare, entro il termine fissato nel provvedimento, un piano di rimozione delle discriminazioni accertate. Ai fini della liquidazione del danno, il giudice tiene conto del fatto che l’atto o il comportamento discriminatorio costituiscono ritorsione ad una precedente azione giudiziale ovvero ingiusta reazione ad una precedente attività del soggetto leso finalizzata ad ottenere il rispetto del principio della parità di trattamento.

La legittimazione ad agire è riconosciuta alle associazioni e agli enti inseriti in un apposito registro approvato con decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali e del Ministro per le pari opportunità.

Viene inoltre istituito presso la Presidenza del Consiglio dei ministri – Dipartimento per le pari opportunità un Ufficio per la promozione della parità di trattamento e la rimozione delle discriminazioni fondate sulla razza o sull’origine etnica con funzioni di controllo e di garanzia delle parità di trattamento e dell’operatività degli strumenti di tutela, ed attività di promozione della parità e di rimozione di qualsiasi forma di discriminazione fondata sulla razza o sull’origine etnica[10].

 

Il decreto legislativo n. 216/2003, di attuazione della direttiva 2000/78/CE, stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, contro ogni forma di discriminazione legata a religione, convinzioni personali, handicap, età, orientamento sessuale.

Per principio di parità di trattamento si intende l'assenza di qualsiasi discriminazione diretta o indiretta a causa della religione, delle convinzioni personali, degli handicap, dell'età o dell'orientamento sessuale. Tale principio comporta che non sia praticata alcuna discriminazione diretta o indiretta (art. 2).

In particolare si ha discriminazione:

§         quando una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un'altra in una situazione analoga (discriminazione diretta);

§         quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri possono mettere le persone in una situazione di particolare svantaggio rispetto ad altre persone (discriminazione indiretta);

§         quando vengono perpetrate molestie o comportamenti indesiderati che hanno lo scopo o l'effetto di violare la dignità di una persona e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante od offensivo;

Dopo aver stabilità l’ambito di applicazione del principio di parità di trattamento ed aver enucleato una serie di ipotesi che non costituiscono discriminazione (art. 3), il decreto legislativo disciplina la tutela giurisdizionale dei suddetti diritti, riconoscendo anche il ruolo delle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative ad agire in giudizio in nome e per conto di chi abbia subito discriminazioni  (artt. 4 e 5).


Articolo 2
(Modifiche alla legge 10 aprile 1991, n. 125, in materia di azioni positive per la realizzazione della parità uomo-donna nel lavoro)

Legge 10 aprile 1991, n. 125

Testo vigente

Legge 10 aprile 1991, n. 125

Testo modificato dallo schema di decreto in esame

Art. 4 - Azioni in giudizio.

Art. 4 - Azioni in giudizio.

1. Costituisce discriminazione, ai sensi della legge 9 dicembre 1977, n. 903, e della presente legge, qualsiasi atto, patto o comportamento che produca un effetto pregiudizievole discriminando anche in via indiretta le lavoratrici o i lavoratori in ragione del loro sesso.

1. Si ha discriminazione diretta, ai sensi della legge 9 dicembre 1977, n. 903, e della presente legge, quando, in ragione del sesso, una lavoratrice o un lavoratore sono trattati meno favorevolmente di quanto siano, siano stati o sarebbero stati trattati altra lavoratrice o altro lavoratore in situazione analoga.

2. Costituisce discriminazione indiretta ogni trattamento pregiudizievole conseguente all'adozione di criteri che svantaggino in modo proporzionalmente maggiore i lavoratori dell'uno o dell'altro sesso e riguardino requisiti non essenziali allo svolgimento dell'attività lavorativa.

 

2. Si ha discriminazione indiretta, ai sensi della legge 9 dicembre 1977, n. 903, e della presente legge, quando un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri mettono o possono mettere i lavoratori di un determinato sesso in una posizione di particolare svantaggio rispetto a lavoratori dell’altro sesso, salvo che riguardino requisiti essenziali allo svolgimento del’attività lavorativa, purché l’obiettivo sia legittimo e i mezzi impiegati per il suo conseguimento siano appropriati e necessari.

 

2-bis. Sono considerate come discriminazioni anche le molestie, ovvero quei comportamenti indesiderati, posti in essere per motivi connessi al sesso, aventi lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una lavoratrice o di un lavoratore e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante e offensivo.

 

2-ter. Sono, altresì, considerate come discriminazioni anche le molestie sessuali, ovvero quei comportamenti indesiderati a connotazione sessuale, espressi in forma fisica, verbale o non verbale, aventi lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una lavoratrice o di un lavoratore e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante e offensivo.

 


 

 

2-quater. Le molestie di cui al comma 2-bis e le molestie sessuali di cui al comma 2-ter sono considerate discriminazioni fondate sul sesso e sono, pertanto, vietate.

 

2-quinquies. Il rifiuto dei comportamenti di cui ai commi 2-bis e 2-ter  o la sottomissione agli stessi non possono essere utilizzati per prendere decisioni riguardo alla lavoratrice o al lavoratore vittima di molestie.

 

2-sexies. L’ordine di discriminare in ragione del sesso è considerato una discriminazione ai sensi della legge 9 dicembre 1977, n. 903 e della presente legge.

 

2-septies. Sono considerati, altresì, discriminazioni quei trattamenti sfavorevoli da parte del datore di lavoro che costituiscono una reazione ad un reclamo o ad una azione volta ad ottenere il rispetto del principio di parità di trattamento tra uomini e donne.

3. Nei concorsi pubblici e nelle forme di selezione attuate, anche a mezzo di terzi, da datori di lavoro privati e pubbliche amministrazioni la prestazione richiesta dev'essere accompagnata dalle parole «dell'uno o dell'altro sesso», fatta eccezione per i casi in cui il riferimento al sesso costituisca requisito essenziale per la natura del lavoro o della prestazione

3. Identico.

4. Chi intende agire in giudizio per la dichiarazione delle discriminazioni ai sensi dei commi 1 e 2 e non ritiene di avvalersi delle procedure di conciliazione previste dai contratti collettivi, può promuovere il tentativo di conciliazione ai sensi dell'articolo 410 del codice di procedura civile o, rispettivamente, dell'articolo 69-bis del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29, anche tramite la consigliera o il consigliere di parità provinciale o regionale territorialmente competente

4. Identico.

 


 

5. Le consigliere o i consiglieri di parità provinciali e regionali competenti per territorio, ferme restando le azioni in giudizio di cui ai commi 8 e 10, hanno facoltà di ricorrere innanzi al tribunale in funzione di giudice del lavoro o, per i rapporti sottoposti alla sua giurisdizione, al tribunale amministrativo regionale territorialmente competenti, su delega della persona che vi ha interesse, ovvero di intervenire nei giudizi promossi dalla medesima.

5. Identico.

6. Quando il ricorrente fornisce elementi di fatto - desunti anche da dati di carattere statistico relativi alle assunzioni, ai regimi retributivi, all'assegnazione di mansioni e qualifiche, ai trasferimenti, alla progressione in carriera ed ai licenziamenti - idonei a fondare, in termini precisi e concordanti, la presunzione dell'esistenza di atti, patti o comportamenti discriminatori in ragione del sesso, spetta al convenuto l'onere della prova sull'insussistenza della discriminazione.

6. Identico.

7. Qualora le consigliere o i consiglieri di parità regionali e, nei casi di rilevanza nazionale, il consigliere o la consigliera nazionale, rilevino l'esistenza di atti, patti o comportamenti discriminatori diretti o indiretti di carattere collettivo, anche quando non siano individuabili in modo immediato e diretto le lavoratrici o i lavoratori lesi dalle discriminazioni, prima di promuovere l'azione in giudizio ai sensi dei commi 8 e 10, possono chiedere all'autore della discriminazione di predisporre un piano di rimozione delle discriminazioni accertate entro un termine non superiore a centoventi giorni, sentite, nel caso di discriminazione posta in essere da un datore di lavoro, le rappresentanze sindacali aziendali ovvero, in loro mancanza, le associazioni locali aderenti alle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative sul piano nazionale. Se il piano è considerato idoneo alla rimozione delle discriminazioni, la consigliera o il consigliere di parità promuove il tentativo di conciliazione ed il relativo verbale, in copia autenticata, acquista forza di titolo esecutivo con decreto del tribunale in funzione di giudice del lavoro.

7. Identico

 


 

8. Con riguardo alle discriminazioni di carattere collettivo di cui al comma 7 le consigliere o i consiglieri di parità, qualora non ritengano di avvalersi della procedura di conciliazione di cui al medesimo comma o in caso di esito negativo della stessa, possono proporre ricorso davanti al tribunale in funzione di giudice del lavoro o al tribunale amministrativo regionale territorialmente competenti.

8. Identico.

9. Il giudice, nella sentenza che accerta le discriminazioni sulla base del ricorso presentato ai sensi del comma 8, ordina all'autore della discriminazione di definire un piano di rimozione delle discriminazioni accertate, sentite, nel caso si tratti di datore di lavoro, le rappresentanze sindacali aziendali ovvero, in loro mancanza, gli organismi locali aderenti alle organizzazioni sindacali di categoria maggiormente rappresentative sul piano nazionale, nonché la consigliera o il consigliere di parità regionale competente per territorio o il consigliere o la consigliera nazionale. Nella sentenza il giudice fissa i criteri, anche temporali, da osservarsi ai fini della definizione ed attuazione del piano.

9. Il giudice, nella sentenza che accerta le discriminazioni sulla base del ricorso presentato ai sensi del comma 8, oltre a provvedere, se richiesto, al risarcimento del danno anche non patrimoniale, ordina all'autore della discriminazione di definire un piano di rimozione delle discriminazioni accertate, sentite, nel caso si tratti di datore di lavoro, le rappresentanze sindacali aziendali ovvero, in loro mancanza, gli organismi locali aderenti alle organizzazioni sindacali di categoria maggiormente rappresentative sul piano nazionale, nonché la consigliera o il consigliere di parità regionale competente per territorio o il consigliere o la consigliera nazionale. Nella sentenza il giudice fissa i criteri, anche temporali, da osservarsi ai fini della definizione ed attuazione del piano.

10. Ferma restando l'azione di cui al comma 8, la consigliera o il consigliere regionale e nazionale di parità possono proporre ricorso in via d'urgenza davanti al tribunale in funzione di giudice del lavoro o al tribunale amministrativo regionale territorialmente competenti. Il giudice adito, nei due giorni successivi, convocate le parti e assunte sommarie informazioni, ove ritenga sussistente la violazione di cui al ricorso, con decreto motivato e immediatamente esecutivo ordina all'autore della discriminazione la cessazione del comportamento pregiudizievole e adotta ogni altro provvedimento idoneo a rimuovere gli effetti delle discriminazioni accertate, ivi compreso l'ordine di definizione ed attuazione da parte del responsabile di un piano di rimozione delle medesime. Si applicano in tal caso le disposizioni del comma 9. Contro il decreto è ammessa entro quindici giorni dalla comunicazione alle parti opposizione avanti alla medesima autorità giudiziaria territorialmente competente, che decide con sentenza immediatamente esecutiva.

 

10. Ferma restando l'azione di cui al comma 8, la consigliera o il consigliere regionale e nazionale di parità possono proporre ricorso in via d'urgenza davanti al tribunale in funzione di giudice del lavoro o al tribunale amministrativo regionale territorialmente competenti. Il giudice adito, nei due giorni successivi, convocate le parti e assunte sommarie informazioni, ove ritenga sussistente la violazione di cui al ricorso, con decreto motivato e immediatamente esecutivo, oltre a provvedere, se richiesto, al risarcimento del danno anche non patrimoniale, ordina all'autore della discriminazione la cessazione del comportamento pregiudizievole e adotta ogni altro provvedimento idoneo a rimuovere gli effetti delle discriminazioni accertate, ivi compreso l'ordine di definizione ed attuazione da parte del responsabile di un piano di rimozione delle medesime. Si applicano in tal caso le disposizioni del comma 9. Contro il decreto è ammessa entro quindici giorni dalla comunicazione alle parti opposizione avanti alla medesima autorità giudiziaria territorialmente competente, che decide con sentenza immediatamente esecutiva.

11. L'inottemperanza alla sentenza di cui al comma 9, al decreto di cui al comma 10 o alla sentenza pronunciata nel relativo giudizio di opposizione è punita ai sensi dell'articolo 650 del codice penale e comporta altresì la revoca dei benefìci di cui al comma 12 ed il pagamento di una somma di lire centomila per ogni giorno di ritardo da versarsi al Fondo di cui all'articolo 9.

11. Identico.

12. Ogni accertamento di atti, patti o comportamenti discriminatori ai sensi dei commi 1 e 2, posti in essere da soggetti ai quali siano stati accordati benefìci ai sensi delle vigenti leggi dello Stato, ovvero che abbiano stipulato contratti di appalto attinenti all'esecuzione di opere pubbliche, di servizi o forniture, viene comunicato immediatamente dalla direzione provinciale del lavoro territorialmente competente ai Ministri nelle cui amministrazioni sia stata disposta la concessione del benefìcio o dell'appalto. Questi adottano le opportune determinazioni, ivi compresa, se necessario, la revoca del benefìcio e, nei casi più gravi o nel caso di recidiva, possono decidere l'esclusione del responsabile per un periodo di tempo fino a due anni da qualsiasi ulteriore concessione di agevolazioni finanziarie o creditizie ovvero da qualsiasi appalto. Tale disposizione si applica anche quando si tratti di agevolazioni finanziarie o creditizie ovvero di appalti concessi da enti pubblici, ai quali la direzione provinciale del lavoro comunica direttamente la discriminazione accertata per l'adozione delle sanzioni previste. Le disposizioni del presente comma non si applicano nel caso sia raggiunta una conciliazione ai sensi dei commi 4 e 7.

12. Identico

13. Ferma restando l'azione ordinaria, le disposizioni dell'articolo 15 della legge 9 dicembre 1977, n. 903, si applicano in tutti i casi di azione individuale in giudizio promossa dalla persona che vi abbia interesse o su sua delega da un'organizzazione sindacale o dalla consigliera o dal consigliere provinciale o regionale di parità.

13. Identico.

14. Qualora venga presentato un ricorso in via di urgenza ai sensi del comma 10 o ai sensi dell'articolo 15 della legge 9 dicembre 1977, n. 903, come modificato dal comma 13, non trova applicazione l'articolo 410 del codice di procedura civile.

14. Identico

L’articolo 2 dello schema di decreto legislativo in esame reca alcune modifiche all’art. 4 della legge n. 125/1991, in materia di definizione della discriminazione diretta ed indiretta, di tutela dalle molestie in ambito lavorativo e di risarcimento del danno in caso di azioni in via giudiziaria.

 

Per ciò che attiene le definizioni, introdotte dai nuovi commi 2, 2-bis e 2-ter, si rilevano innanzitutto alcune difformità tra la disposizione di delega e la normativa comunitaria, soprattutto con riferimento alle definizioni di molestie, come messo in evidenza dalla seguente tabella.

Normativa comunitaria

(Art. 2 dir. n. 76/207/CEE, modificato dalla dir. 2002/73/CE)

Legge di delega

(art. 17. l. n. 306/2003)

Schema di decreto legislativo in esame

(art. 2)

Discriminazione diretta:

situazione nella quale una persona è trattata meno favorevolmente in base al sesso di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un'altra in una situazione analoga

Discriminazione diretta:

quando una persona è trattata meno favorevolmente, in base al sesso, di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un'altra in una situazione analoga

Discriminazione diretta:

quando, in ragione del sesso, una lavoratrice o un lavoratore sono trattati meno favorevolmente di quanto siano, siano stati o sarebbero stati trattati altra lavoratrice o altro lavoratore in situazione analoga

Discriminazione indiretta: situazione nella quale una disposizione, un criterio o una prassi apparentemente neutri possono mettere in una situazione di particolare svantaggio le persone di un determinato sesso, rispetto a persone dell'altro sesso, a meno che detta disposizione, criterio o prassi siano oggettivamente giustificati da una finalità legittima e i mezzi impiegati per il suo conseguimento siano appropriati e necessari

Discriminazione indiretta:

quando una disposizione, un criterio o una prassi, apparentemente neutri, mettono o possono mettere in una situazione di particolare svantaggio le persone di un determinato sesso, rispetto a persone dell'altro sesso, salvo che, nel caso di attività di lavoro, caratteristiche specifiche di sesso costituiscano requisiti essenziali al loro svolgimento.

Discriminazione indiretta:

quando un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri mettono o possono mettere i lavoratori di un determinato sesso in una posizione di particolare svantaggio rispetto a lavoratori dell’altro sesso, salvo che riguardino requisiti essenziali allo svolgimento del’attività lavorativa, purché l’obiettivo sia legittimo e i mezzi impiegati per il suo conseguimento siano appropriati e necessari

Molestie:

situazione nella quale si verifica un comportamento indesiderato connesso al sesso di una persona avente lo scopo o l'effetto di violare la dignità di tale persona e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante od offensivo.

Molestie:

quando viene posto in essere, per ragioni connesse al sesso, un comportamento indesiderato e persistente, avente lo scopo o l'effetto di violare la dignità di una persona o di creare un clima intimidatorio, ostile e degradante, tenuto conto delle circostanze, anche ambientali

Molestie:

un comportamenti indesiderato, posto in essere per motivi connessi al sesso, avente lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una lavoratrice o di un lavoratore e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante e offensivo.

Molestie sessuali:

situazione nella quale si verifica un comportamentoindesiderato a connotazione sessuale, espresso in forma fisica, verbale o non verbale, avente lo scopo o l'effetto di violare la dignità di una persona, in particolare creando un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante o offensivo.

Molestie sessuali:

quando viene posto in essere un comportamento indesiderato e persistente, che abbia in maniera manifesta una connotazione sessuale; avente lo scopo o l'effetto di violare la dignità di una persona o di creare un clima intimidatorio, ostile e degradante, tenuto conto delle circostanze, anche ambientali

Molestie sessuali:

un comportamento indesideratia connotazione sessuale, espresso in forma fisica, verbale o non verbale, avente lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una lavoratrice o di un lavoratore e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante e offensivo.

 

La definizione di «discriminazione diretta» non presenta differenze tra normativa comunitaria, norma di delega e disciplina dello schema di decreto in esame, mentre la definizione di «discriminazione indiretta» presenta alcune differenze che non sembrano avere una carattere essenziale.

 

Con riferimento alla nozione di «molestie», la definizione dello schema di decreto in esame:

§          non prevede che il comportamento indesiderato debba anche essere «persistente», conformemente alla normativa comunitaria ma in contrasto con la norma di delega;

§          ritiene necessario che, affinché vi sia una molestia, vi sia tanto una violazione della dignità della persona quanto la creazione di un clima ostile (infatti usa la congiunzione «e» anziché la disgiunzione «o» prima delle parole «di creare un clima»), conformemente alla normativa comunitaria ma in contrasto con la norma di delega, che considera le due situazione alternative;

§          nella definizione del clima usa la congiunzione «e» anziché la disgiunzione «o» per individuare gli attributi del clima («clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante e offensivo»), così indicando che essi devono sommarsi tra di loro, in conformità alla norma di delega - che però prevede un numero minore di attributi («clima intimidatorio, ostile e degradante») - ma in contrasto con la direttiva comunitaria, che considera gli attributi alternativi;

La relazione illustrativa precisa in proposito che l’uso della congiunzione “e” ai commi 2-bis e 2-ter “non significa che i caratteri del clima ivi elencati debbano essere tutti presenti ai fini della configurazione delle forme di discriminazione lì disciplinate, ma evidenzia solamente l’elencazione; pertanto l’utilizzo della stessa ha una valenza di carattere disgiuntivo. Si rileva perlatro che un’intepretazione di carattere letterale depone nel senso opposto.

§          non prevede espressamente che si debba «tener conto delle circostanze, anche ambientali», conformemente alla normativa comunitaria ma in contrasto con la norma di delega.

 

Con riferimento alla nozione di «molestie sessuali», la definizione dello schema di decreto in esame:

§          come nel caso delle «molestie», non prevede che il comportamento indesiderato debba anche essere «persistente», conformemente alla normativa comunitaria ma in contrasto con la norma di delega;

§          non prevede cha la connotazione sessuale del comportamento debba essere manifesta, conformemente alla normativa comunitaria ma in contrasto con la norma di delega;

§          prevede che il comportamento deve essere espresso «in forma fisica, verbale o non verbale», conformemente alla normativa comunitaria; la norma di delega non dispone nulla al riguardo;

§          come nel caso delle «molestie», ritiene necessario che, affinché vi sia una molestia, vi sia tanto una violazione della dignità della persona quanto la creazione di un clima ostile (infatti usa la congiunzione «e» anziché la disgiunzione «o» prima delle parole «di creare un clima»), conformemente alla normativa comunitaria ma in contrasto con la norma di delega, che considera le due situazione alternative;

§          come nel caso delle «molestie», nella definizione del clima usa la congiunzione «e» anziché la disgiunzione «o» per individuare gli attributi del clima («clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante e offensivo»), così indicando che essi devono sommarsi tra di loro, in conformità alla norma di delega - che però prevede un numero minore di attributi («clima intimidatorio, ostile e degradante») - ma in contrasto con la direttiva comunitaria, che considera gli attributi alternativi;

§          come nel caso delle «molestie»,non prevede espressamente che si debba «tener conto delle circostanze, anche ambientali», conformemente alla normativa comunitaria ma in contrasto con la norma di delega.

 

Lo schema di decreto legislativo, nell’enunciare le suddette definizioni, sembra dunque essersi attenuto più alla normativa comunitaria che alla norma di delega.

 

Si valuti dunque se questo modus procedendi sia corretto, considerando che:

§       da un lato, ai sensi dell’articolo 76 della Costituzione, il Governo è tenuto ad attenersi ai criteri e principi direttivi previsti dal Parlamento nella norma di delega;

§       dall’altro, ai sensi dell’articolo 117, primo comma, della Costituzione, i vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario costituiscono comunque un limite alla potestà legislativa dello Stato.

 

Si ricorda che in materia di parità di trattamento tra le persone indipendentemente dalla razza e dall'origine etnica, in cui si riscontrava una analoga difformità tra normativa comunitaria e norma di delega, il decreto legislativo n. 215/2003 ha dettato una definizione di «molestia», conforme al diritto comunitario ma non alla norma di delega.

 

L’art. 2, par. 3 della direttiva n. 2000/43/CEE definisce le molestie come un «comportamento indesiderato adottato per motivi di razza o di origine etnica e avente lo scopo o l'effetto di violare la dignità di una persona e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante od offensivo».

La norma di delega per l’attuazione della suddetta direttiva (art. 29, comma 1, lettera b), della legge comunitaria 2001 – L. n. 39/2002) definisce la molestia per motivi di razza o di origine etnica come «un comportamento indesiderato che persista, anche quando è stato inequivocabilmente dichiarato dalla persona che lo subisce come offensivo, cosí pregiudicando oggettivamente la sua dignità e libertà, ovvero creando un clima di intimidazione nei suoi confronti».

L’art. 2, comma 3, del decreto legislativo n. 215/2003, attuativo della suddetta delega, definisce le molestie «comportamenti indesiderati, posti in essere per motivi di razza o di origine etnica, aventi lo scopo o l'effetto di violare la dignità di una persona e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante e offensivo.»

 

Si ricorda infine la norma di delega attuata dal decreto legislativo in esame è stata oggetto di dibattito e modifica parlamentare proprio con riferimento alla definizione di «molestie».

Nell’esame in terza ed ultima lettura alla Camera, il Governo ha inoltre accolto l’ordine del giorno Di Teodoro 9/3618-B/9, che prevedeva l’impegno al Governo «a tenere conto, in sede di attuazione della delega contenuta nell'articolo 17 del disegno di legge in esame, della necessità di assicurare un pieno coordinamento delle disposizioni normative di attuazione delle direttive comunitarie vertenti sull'unico tema della parità di trattamento prevedendo, in particolare, che sia richiesto un “comportamento di contrasto” da parte della vittima - consistente nell'aver inequivocabilmente dichiarato il comportamento come offensivo - ai fini della definizione di tale comportamento come “molestia sessuale” sul luogo di lavoro, in aderenza con quanto previsto per la definizione di molestia per motivi connessi alla razza o all'origine etnica.» Peraltro, come già segnalato, nella definizione di molestia per motivi connessi alla razza o all’origine etnica il decreto legislativo attuativo della direttiva comunitaria non richiede il cd. comportamento di contrasto.

 

Il nuovo comma 2-quater precisa che le molestie e le molestie sessuali sono considerate discriminazioni fondate sul sesso e pertanto pone il divieto di porre in atto tali comportamenti, attuando così il disposto dell’art. 2, par. 3, primo periodo, della direttiva 76/207/CEE, come modificato dalla direttiva 2002/73/CE.

Il nuovo comma 2-quinquiesstabilisce che il rifiuto o la sottomissione ai comportamenti che costituiscono molestie non possono essere utilizzati per prendere decisioni nei confronti del lavoratore o della lavoratrice vittima di molestie, recependo cosìl’art. 2, par. 3, secondo periodo, della direttiva 76/207/CEE, come modificato dalla direttiva 2002/73/CE).

Il nuovo comma 2-sexies considera come discriminazione anche l’ordine di discriminare in ragione del sesso, in attuazione dell’art. 2, par. 4, della direttiva 76/207/CEE, come modificato dalla direttiva 2002/73/CE;

Il nuovo comma 2-septies stabilisce che sono considerati discriminazioni anche i trattamenti sfavorevoli da parte del datore di lavoro in reazione ad un reclamo o ad una azione volta ad ottenere il rispetto del principio di parità tra uomini e donne, recependo così il disposto dell’art. 7 della direttiva 76/207/CEE, come modificato dalla direttiva 2002/73/CE.

 

 

Le modifiche ai commi 9 e 10 dell’art. 4 della legge n. 125/1991 introducono il diritto al risarcimento del danno, anche non patrimoniale, a richiesta, per i soggetti che hanno subito discriminazioni, nei procedimenti contro le discriminazioni di carattere collettivo promossi dai consiglieri di parità in via ordinaria o di urgenza.

 

Viene in tal modo attuato il principio di delega di cui alla lettera c) del comma 1 dell’art. 17 della legge 306, il quale assicura alla parte lesa una tutela giurisdizionale o amministrativa, con la garanzia di una riparazione o di un equo indennizzo, in recepimento della disposizione di cui all’art. 6, par. 2, della Direttiva 76/207/CEE, come modificata dalla direttiva 2002/73/CE.

 

Lo schema di decreto in esame ha attuato detto principio di delega, prevedendo il risarcimento del danno, anche non patrimoniale, e in caso di ricorsi contro discriminazioni di carattere collettivo promossi dai consiglieri di parità in via ordinaria o di urgenza  e nel caso di ricorso contro la discriminazione proposto in via d’urgenza (v. il successivo. 3, comma 2, dello schema di decreto).

Lo schema di decreto non prevede invece il diritto al risarcimento del danno non patrimoniale nel caso in cui la persona lesa ritenga di agire in via ordinaria contro la discriminazione (come è previsto dal comma 13 dell’art. 4 l. 125/1991, non modificato dallo schema di decreto in esame). Appare opportuna un’integrazione del testo sul punto.

 

Si ricorda che l’art. 2059 c.c. prevede che il danno non patrimoniale deve essere risarcito solo nei casi determinati dalla legge.

 

Si ricorda inoltre che i decreti legislativi emanati nel 2003 in attuazione della normativa comunitaria in materia di parità già contengono disposizioni che stabiliscono il risarcimento del danno non patrimoniale nei casi di discriminazione razza e origine etnica[11] e, con specifico riferimento all’occupazione o alle condizioni di lavoro, per motivi legati a religione, convinzioni personali, handicap, età, orientamento sessuale[12].

Lo schema in esame estende la possibilità di chiedere il risarcimento del danno non patrimoniale anche in caso di discriminazione per ragioni di sesso.

 

 

Il testo in esame non prevede inoltre specifiche disposizioni atte a recepire i criteri e principi di delega di cui alle lettere d) ed e) del comma 1 dell’art. 17 della citata legge n. 306, in quanto la relativa normativa comunitaria risulta già pienamente attuata.

 

I citati criteri di delega prevedono, in particolare:

§          lettera d): dispone l’attuazione di quanto previsto dal nuovo paragrafo 3 dell’articolo 6 e dai nuovi articoli 8-bis, 8-ter, 8-quater e 8-quinquies della direttiva 76/207/CEE, come modificata dalla direttiva 2002/73/CE, anche tenendo conto della normativa nazionale vigente, in particolare degli articoli 15 e 16 della legge n. 903 del 1977, in materia di delega alle organizzazioni sindacali per promuovere ricorso giurisdizionale per conto del lavoratore e di comminazione delle sanzioni previste in caso di inadempienza al divieto di discriminazione, nonché della legge n. 125 del 1991 , e più in generale della disciplina relativa agli organismi di parità;

§          lettera e): dispone che, al fine di promuovere il principio della parità di trattamento, deve essere incoraggiato il dialogo tra le parti sociali anche mediante accordi, codici di comportamento, scambi di esperienze e monitoraggio della prassi sui luoghi di lavoro.

 

 

L’art. 15 della legge n. 903/1977 prevede infatti che le organizzazioni sindacali possano agire in giudizio per delega del lavoratore, mentre il comma 4 dell’art. 4 della legge n. 125/1991 stabilisce che il lavoratore possa ricorrere in giudizio anche tramite il consigliere o la consigliera di parità. Quest’ultimo può agire anche in via autonoma o intervenire nei giudizi già avviati, su delega dell’interessato, ed occuparsi anche di atti, patti o comportamenti discriminatori diretti o indiretti di carattere collettivo, con facoltà di proporre ricorso davanti al tribunale in funzione di giudice del lavoro o al TAR territorialmente competenti (art. 4, commi 5, 7 e 8).

Per quanto concerne la designazione degli organismi per la promozione, l’analisi, il controllo ed il sostegno della parità di trattamento di tutte le persone stabilita dall’art. 8-bis della Direttiva 76/207/CEE, come modificata dalla direttiva 2002/73/CE, si osserva che nell’ordinamento nazionale è già presente la figura del consigliere di parità, effettivo e supplente, che opera sia a livello nazionale, sia a livello regionale e provinciale, come stabilito dal D. Lgs. n. 196/2000. Inoltre con l’art. 5 della legge n. 125/1991 è stato istituito presso il Ministero del lavoro il “Comitato nazionale per l'attuazione dei principi di parità di trattamento ed uguaglianza di opportunità tra lavoratori e lavoratrici”, con il compito di promuovere la rimozione dei comportamenti discriminatori per sesso e di ogni altro ostacolo che limiti di fatto l'uguaglianza delle donne nell'accesso al lavoro e sul lavoro e la progressione professionale e di carriera.

Le disposizioni dell’art. 8-ter della Direttiva in merito all’incoraggiamento del dialogo tra le parti sociali, sono già state recepite con l’istituzione del Comitato previsto dall’art. 5 della legge n. 125/91: del Comitato fanno parte, oltre al Ministro del lavoro ad al consigliere di parità componente la commissione centrale per l'impiego., cinque componenti designati dalle confederazioni sindacali dei lavoratori e cinque componenti designati dalle confederazioni sindacali dei datori di lavoro dei diversi settori economici, maggiormente rappresentativi sul piano nazionale, un componente designato unitariamente dalle associazioni di rappresentanza, assistenza e tutela del movimento cooperativo più rappresentative sul piano nazionale, e undici componenti designati dalle associazioni e dai movimenti femminili più rappresentativi sul piano nazionale operanti nel campo della parità e delle pari opportunità nel lavoro.

L’art. 8-ter, par. 4, della Direttiva, che prevede informazioni anche statistiche sulla parità di trattamento e sulla distribuzione di uomini e donne all’interno di un’impresa, è stato recepito con l’art. 9 della Legge 125 che obbliga le aziende pubbliche e private che occupano oltre cento dipendenti a redigere un rapporto almeno ogni due anni sulla situazione del personale maschile e femminile in ognuna delle professioni ed in relazione allo stato di assunzioni, della formazione, della promozione professionale, dei livelli, dei passaggi di categoria o di qualifica, di altri fenomeni di mobilità, dell'intervento della Cassa integrazione guadagni, dei licenziamenti, dei prepensionamenti e pensionamenti, della retribuzione effettivamente corrisposta. Il rapporto deve essere trasmesso alle rappresentanze sindacali aziendali e al consigliere regionale di parità.

L’incoraggiamento del dialogo con le organizzazioni non governative, di cui all’art. 8-quater della Direttiva, viene considerato nella Relazione illustrativa allegata allo schema in esame un principio immanente nell’ordinamento giuridico italiano, ed uno dei compiti che può assolvere il Comitato istituito presso il Ministero del lavoro.

 


Articolo 3
(Modifiche alla legge 9 dicembre 1977, n. 903, in materia di parità di trattamento tra uomini e donne in materia di lavoro)

Legge 9 dicembre 1977, n, 903

Testo vigente

 

Legge 9 dicembre 1977, n, 903

Testo modificato dallo schema di decreto in esame

 

Articolo 1

1. È vietata qualsiasi discriminazione fondata sul sesso per quanto riguarda l'accesso al lavoro indipendentemente dalle modalità di assunzione e qualunque sia il settore o il ramo di attività, a tutti i livelli della gerarchia professionale.

Articolo 1

1. È vietata qualsiasi discriminazione fondata sul sesso per quanto riguarda l'accesso al lavoro, sia subordinato che autonomo, indipendentemente dalle modalità di assunzione e qualunque sia il settore o il ramo di attività, a tutti i livelli della gerarchia professionale.

2. La discriminazione di cui al comma precedente è vietata anche se attuata:

1) attraverso il riferimento allo stato matrimoniale o di famiglia o di gravidanza;

2) in modo indiretto, attraverso meccanismi di preselezione ovvero a mezzo stampa o con qualsiasi altra forma pubblicitaria che indichi come requisito professionale l'appartenenza all'uno o all'altro sesso

2. Identico

3.Il divieto di cui ai commi precedenti si applica anche alle iniziative in materia di orientamento, formazione, perfezionamento e aggiornamento professionale, per quanto concerne sia l'accesso sia i contenuti.

 

3. Il divieto di cui ai commi precedenti si applica anche alle iniziative in materia di orientamento, formazione, perfezionamento e aggiornamento professionale, per quanto concerne sia l'accesso sia i contenuti, nonché all’affiliazione e all’attività in un’organizzazione di lavoratori o datori di lavoro, o in qualunque organizzazione i cui membri esercitino una particolare professione, e alle prestazioni erogate da tali organizzazioni.

 

(omissis)

(omissis)

 


 

Articolo 15

 

1. Qualora vengano posti in essere comportamenti diretti a violare le disposizioni di cui agli articoli 1 e 5 della presente legge, su ricorso del lavoratore o per sua delega delle organizzazioni sindacali, il pretore del luogo ove è avvenuto il comportamento denunziato, in funzione di giudice del lavoro, nei due giorni successivi, convocate le parti e assunte sommarie informazioni, se ritenga sussistente la violazione di cui al ricorso, ordina all'autore del comportamento denunciato, con decreto motivato ed immediatamente esecutivo, la cessazione del comportamento illegittimo e la rimozione degli effetti.

 

Articolo 15

 

1. Qualora vengano posti in essere comportamenti diretti a violare le disposizioni di cui agli articoli 1 e 5 della presente legge, su ricorso del lavoratore o per sua delega delle organizzazioni sindacali, il pretore del luogo ove è avvenuto il comportamento denunziato, in funzione di giudice del lavoro, nei due giorni successivi, convocate le parti e assunte sommarie informazioni, se ritenga sussistente la violazione di cui al ricorso, oltre a provvedere, se richiesto, al risarcimento del danno anche non patrimoniale, ordina all'autore del comportamento denunciato, con decreto motivato ed immediatamente esecutivo, la cessazione del comportamento illegittimo e la rimozione degli effetti.

 

(omissis)

(omissis)

 

 

L’articolo 3 dello schema in esame reca alcune modifiche agli articoli 1 e 15 della legge n. 903/1977, in attuazione dei criteri principi di delega previsto dall’art. 17, comma 1, lettere a) e c) della legge n. 306/2003.

In particolare:

·                   all’art. 1, comma 1, si prevede che il divieto di qualsiasi discriminazione fondata sul sesso in materia di accesso al lavoro deve riguardare sia il lavoro subordinato sia quello autonomo.

·                   all’art. 1, comma 3, si estende il divieto di discriminazione fondata sul sesso anche all’affiliazione e all’attività in un’organizzazione di lavoratori o datori di lavoro, o in qualunque organizzazione i cui membri esercitino una particolare professione, e alle prestazioni erogate da tali organizzazioni.

·                   all’art. 15, comma 1 viene previsto, in analogia con quanto stabilito nel precedente articolo 2 dello schema in esame, la possibilità che in sede di giudizio venga risarcito – qualora richiesto dalla parte lesa – il danno anche non patrimoniale.

 




[1]     Procedura 1999/4239

[2]     Nella lettera di messa in mora in oggetto, la Commissione richiama, in particolare, la sentenza dell'11.1.2000 della Corte nella causa C-285/98, Kreil, nonché la sentenza del 15.5.1985 nella causa 222/84 Johnstone la sentenza del 26.10.1999 nella causa Sirdar.

[3]     Procedura 2000/5088

[4]     La lettera di messa in mora ricorda che la legge n. 958/86 (art. 19) prevedeva a favore dei militari una riserva del 5% degli impegni annui per personale impiegatizio e del 10% di impegni per personale operaio a disposizione delle amministrazioni pubbliche. Questa riserva è stata portata a 20% con il decreto legge n. 196 del 12 maggio 1995 e, successivamente, al 30% con decreto legge n. 215 dell’8 maggio 2001.

 

[5]     La delega deve essere esercitata secondo i termini e le modalità richiamate dall’art. 1 della legge n. 306/2003. In particolare il comma 1 dell’articolo 1 richiama i due elenchi di direttive comprese negli allegati A e B alla legge comunitaria, alle quali dare attuazione entro 18 mesi dalla data di entrata in vigore della legge; la distinzione tra i due allegati deriva dal fatto che (comma 3) il procedimento per l’attuazione delle direttive incluse nell’allegato B prevede l’espressione del parere da parte dei competenti organi parlamentari entro il termine di quaranta giorni dalla data di trasmissione, decorso il quale i decreti possono comunque essere emanati. Tale procedura – che riproduce quella già prevista nell’art. 1 della legge comunitaria 2001 (L. n. 39/2002) e nell’art. 1 della legge comunitaria 2002 (L. n. 14/2003) è estesa anche ai decreti di attuazione delle direttive di cui all’allegato A, qualora in essi sia previsto il ricorso a sanzioni penali. E’ a tal proposito previsto che, qualora il termine fissato per l’espressione del parere parlamentare venga a spirare in un periodo compreso tra il trentesimo giorno antecedente ed il giorno ultimo per l’esercizio della delega (tale previsione normativa si applica anche ai decreti legislativi integrativi o correttivi previsti dal successivo comma 4), la scadenza del termine finale sia prorogata di novanta giorni.

Il comma 2 dell’art. 1 della Legge 306 richiama la procedura prevista dall’art. 14 della L. 400/1988 per l’adozione dei decreti legislativi, i quali sono emanati dal Presidente della Repubblica previa deliberazione del Consiglio dei ministri su proposta del Presidente del Consiglio dei ministri o del ministro per le politiche comunitarie e del ministro con competenza istituzionale prevalente per materia, di concerto con i ministri degli affari esteri, della giustizia, dell’economia e delle finanze e con gli altri ministri interessati in relazione all’oggetto della direttiva.

[6]     Legge 9 dicembre 1977, n. 903 “Parità di trattamento tra uomini e donne in materia di lavoro”.

[7]     Legge 10 aprile 1991, n. 125 “Azioni positive per la realizzazione della parità uomo-donna nel lavoro”.

[8]     D.Lgs. 23 maggio 2000, n. 196 “Disciplina dell'attività delle consigliere e dei consiglieri di parità e disposizioni in materia di azioni positive, a norma dell'articolo 47 della L. 17 maggio 1999, n. 144”.

[9]     Il D.Lgs. 26 marzo 2001, n. 151 (“T.U. delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, a norma dell’art. 15 della L. 8 marzo 2000, n. 53”), successivamente modificato e integrato dal D.Lgs. 23 aprile 2003, n. 115, ha ridefinito in modo organico la disciplina dei riposi e dei permessi, stabilendo il diritto delle lavoratrici madri di fruire, durante il primo anno di età del bambino, di due periodi di riposo, di un'ora ciascuno (ridotti alla metà in presenza di asilo nido o struttura simile messi a disposizione dal datore), anche cumulabili durante la giornata. Detti riposi spettano al padre nelle ipotesi previste dall'articolo 40. I riposi sono raddoppiati in caso di parto plurimo e le ore fruibili sono individuate secondo l'orario di lavoro del genitore che si avvale dei riposi.

Le richiamate disposizioni si applicano anche in caso di adozione entro il primo anno di vita del bambino. Egualmente, nel caso di adozione o di affidamento si applicano le disposizioni relative ai riposi e permessi per i figli con handicap grave.

[10]    L’Ufficio è stato istituito con il D.P.C.M. 11 dicembre 2003 “Costituzione e organizzazione interna dell'Ufficio per la promozione della parità di trattamento e la rimozione delle discriminazioni, di cui all'art. 29 della L. 1° marzo 2002, n. 39, legge comunitaria”.

[11]    D.Lgs. n. 215/2003, art. 4, comma 5.

[12]    D.Lgs. n. 216/2003, art. 4, comma 4.