XIV Legislatura - Dossier di documentazione | |||
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Autore: | Servizio Studi - Dipartimento giustizia | ||
Titolo: | Inappellabilità delle sentenze di proscioglimento - A.C. 4604 - Documentazione | ||
Serie: | Progetti di legge Numero: 609 Progressivo: 1 | ||
Data: | 18/06/04 | ||
Abstract: | Atti di rilievo internazionale; dottrina; giurisprudenza costituzionale; pubblicistica (in collaborazione con il Servizio biblioteca). | ||
Organi della Camera: | II-Giustizia | ||
Riferimenti: |
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Servizio studi |
progetti di legge |
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Inappellabilità delle sentenze di proscioglimento A.C. 4604 Documentazione |
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n. 609/1
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xiv legislatura 18 giugno 2004 |
Camera dei deputati
La documentazione predisposta in occasione dell’esame della proposta di legge recante modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento (A.C. 4604) si articola nei seguenti volumi:
§ dossier n. 609, contenente le schede di lettura e la normativa di riferimento;
§ dossier n. 609/1, contenente atti di rilievo internazionale, dottrina, e giurisprudenza costituzionale;
§ dossier n. 609/2, suddiviso in due volumi, contenente i lavori preparatori della legge 22 febbraio 2006, n. 46;
§ dossier n. 609/3, contenente le schede di lettura e i riferimenti normativi per l’esame ex art. 74, primo comma, della Costituzione;
Dipartimento Giustizia |
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Consiglieri |
Francesca Fazio (9876) Massimiliano Lucà (3784) |
Documentaristi |
Amedeo Caravani (2141) Elisa Guarducci (2236) |
Segretari |
Sabrina Cavalieri (9148) Lina Pantanella (9559) |
I dossier del Servizio studi sono destinati alle esigenze di documentazione interna per l'attività degli organi parlamentari e dei parlamentari. La Camera dei deputati declina ogni responsabilità per la loro eventuale utilizzazione o riproduzione per fini non consentiti dalla legge.
File: GI0459a.doc
INDICE
§ Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici (artt. 9-15) 3
§ VII Protocollo addizionale alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali 7
§ Spangher G., Doppio grado di giurisdizione (principio del) – II) Diritto processuale penale, in Enciclopedia giuridica, 2001. 13
§ Bellomia A., Corte costituzionale e doppio grado di giurisdizione (nota a Corte cost., sent. n. 8 del 1982), in Giurisprudenza costituzionale, 1982, pt. I. 21
§ Marchetti M.R., Commento alla legge 9/4/1990, n. 98 (Ratifica ed esecuzione del protocollo n. 7 alla Convenzione per la salvaguardi dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, concernenti l’estensione della lista dei diritti civili e politici, adottato a Strasburgo il 22 novembre 1984) e Commento al Protocollo n. 7 alla convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, in La legislazione penale, 1991, n. 2. 25
§ Padovani T., Doppio grado di giurisdizione: appello dell’imputato, appello del PM, principio del contraddittorio, in Cassazione penale, 2003, n. 12. 57
§ Coppi F., No all’appello del PM dopo la sentenza di assoluzione, in Il giusto processo, 2003, n. 5. 69
§ Troisi M., I pro e i contro sulla possibilità di un percorso processuale più breve (intervista a Paolo Ferrua), in Diritto e giustizia On-line, 10 marzo 2004. 79
§ Oliveri del Castillo R., Appello del PM? Deve restare, in Diritto e giustizia, 2004, n. 13. 83
§ Stella F., Sul divieto per il pubblico ministero di proporre appello contro le sentenze di assoluzione, in Cassazione penale, 2004, n. 3. 85
§ Corte costituzionale, sentenza n. 177 del 1971 93
§ Corte costituzionale, sentenza n. 117 del 1973 95
§ Corte costituzionale, sentenza n. 62 del 1981 99
§ Corte costituzionale, sentenza n. 98 del 1991 103
§ Corte costituzionale, sentenza n. 280 del 1995 109
§ Corte costituzionale, sentenza n. 288 del 1997 119
Alogna Forrest G., Double Jeopardy, Acquittal Appeals, and The Law-Fact Distinction, in Cornell Law Review, July 2001, n. 5. 129
Atti di rilievo internazionale
Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici (1)
(1) Il Patto è stato adottato ed aperto alla firma a New York il 19 dicembre 1966. La legge 25 ottobre 1977, n. 881 (pubblicata nel Suppl. ord. alla Gazz. Uff. 7 dicembre 1977, n. 333) lo ha ratificato e vi ha dato esecuzione.
Di seguito si riporta il testo della traduzione non ufficiale.
PREAMBOLO
Gli Stati parti del presente Patto,
considerato che, in conformità ai principi enunciati nello Statuto delle Nazioni Unite, il riconoscimento della dignità inerente a tutti i membri della famiglia umana e dei loro diritti, uguali e inalienabili, costituisce il fondamento della libertà, della giustizia e della pace nel mondo;
riconosciuto che questi diritti derivano dalla dignità inerente alla persona umana;
riconosciuto che, in conformità alla Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo, l'ideale dell'essere umano libero, che goda delle libertà civili e politiche e della libertà dal timore e dalla miseria, può essere conseguito soltanto se vengono create condizioni le quali permettano ad ognuno di godere dei propri diritti civili e politici, nonché dei propri diritti economici, sociali e culturali;
considerato che lo Statuto delle Nazioni Unite impone agli Stati l'obbligo di promuovere il rispetto e l'osservanza universale dei diritti e delle libertà dell'uomo;
considerato infine che l'individuo, in quanto ha dei doveri verso gli altri e verso la collettività alla quale appartiene, è tenuto a sforzarsi di promuovere e di rispettare i diritti riconosciuti nel presente Patto;
hanno convenuto quanto segue:
(omissis)
PARTE TERZA
(omissis)
Articolo 9
1. Ogni individuo ha diritto alla libertà e alla sicurezza della propria persona. Nessuno può essere arbitrariamente arrestato o detenuto. Nessuno può essere privato della propria libertà, se non per i motivi e secondo la procedura previsti dalla legge.
2. Chiunque sia arrestato deve essere informato, al momento del suo arresto, dei motivi dell'arresto medesimo, e deve al più presto aver notizia di qualsiasi accusa mossa contro di lui.
3. Chiunque sia arrestato o detenuto in base ad un'accusa di carattere penale deve essere tradotto al più presto dinanzi a un giudice o ad altra autorità competente per legge ad esercitare funzioni giudiziarie, e ha diritto ad essere giudicato entro un termine ragionevole, o rilasciato. La detenzione delle persone in attesa di giudizione non deve costituire la regola, ma il loro rilascio può essere subordinato a garanzie che assicurino la comparizione dell'accusato sia ai fini del giudizio, in ogni altra fase del processo, sia eventualmente, ai fini della esecuzione della sentenza.
4. Chiunque sia privato della propria libertà per arresto o detenzione ha diritto a ricorrere ad un tribunale, affinché questo possa decidere senza indugio sulla legalità della sua detenzione e, nel caso questa risulti illegale, possa ordinare il suo rilascio.
5. Chiunque sia stato vittima di arresto o detenzione illegali ha diritto a un indennizzo.
Articolo 10
1. Qualsiasi individuo privato della propria libertà deve essere trattato con umanità e col rispetto della dignità inerente alla persona umana.
2. a) gli imputati, salvo circostanze eccezionali, devono essere separati dai condannati e sottoposti a un trattamento diverso, consono alla loro condizione di persone non condannate;
b) gli imputati minorenni devono esser separati dagli adulti e il loro caso deve esser giudicato il più rapidamente possibile.
3. Il regime penitenziario deve comportare un trattamento dei detenuti che abbia per fine essenziale il loro ravvedimento e la loro riabilitazione sociale. I rei minorenni devono essere separati dagli adulti e deve esser loro accordato un trattamento adatto alla loro età e al loro stato giuridico.
Articolo 11
Nessuno può essere imprigionato per il solo motivo che non è in grado di adempiere a un obbligo contrattuale.
Articolo 12
1. Ogni individuo che si trovi legalmente nel territorio di uno Stato ha diritto alla libertà di movimento e alla libertà di scelta della residenza in quel territorio.
2. Ogni individuo è libero di lasciare qualsiasi Paese, incluso il proprio.
3. I suddetti diritti non possono essere sottoposti ad alcuna restrizione, tranne quelle che siano previste dalla legge, siano necessarie per proteggere la sicurezza nazionale, l'ordine pubblico, la sanità o la moralità pubbliche, ovvero gli altrui diritti e libertà, e siano compatibili con gli altri diritti riconosciuti dal presente Patto.
4. Nessuno può essere arbitrariamente privato del diritto di entrare nel proprio Paese.
Articolo 13
Uno straniero che si trovi legalmente nel territorio di uno Stato parte del presente Patto non può esserne espulso se non in base a una decisione presa in conformità della legge e, salvo che vi si oppongano imperiosi motivi di sicurezza nazionale, deve avere la possibilità di far valere le proprie ragioni contro la sua espulsione, di sottoporre il proprio caso all'esame dell'autorità competente, o di una o più persone specificamente designate da detta autorità, e di farsi rappresentare innanzi ad esse a tal fine.
Articolo 14
1. Tutti sono eguali dinanzi ai tribunali e alle corti di giustizia. Ogni individuo ha diritto ad un'equa e pubblica udienza dinanzi a un tribunale competente, indipendente e imparziale, stabilito dalla legge, allorché si tratta di determinare la fondatezza di un'accusa penale che gli venga rivolta, ovvero di accertare i suoi diritti ed obblighi mediante un giudizio civile. Il processo può svolgersi totalmente o parzialmente a porte chiuse, sia per motivi di moralità, di ordine pubblico o di sicurezza nazionale in una società democratica, sia quando lo esiga l'interesse della vita privata delle parti in causa, sia, nella misura ritenuta strettamente necessaria del tribunale, quando per circostanze particolari la pubblicità nuocerebbe agli interessi della giustizia; tuttavia, qualsiasi sentenza pronunciata in un giudizio penale o civile dovrà essere resa pubblica, salvo che l'interesse di minori esiga il contrario, ovvero che il processo verta su controversie matrimoniali o sulla tutela dei figli.
2. Ogni individuo accusato di un reato ha il diritto di essere presunto innocente sino a che la sua colpevolezza non sia stata provata legalmente.
3. Ogni individuo accusato di un reato ha diritto, in posizione di piena eguaglianza, come minimo alle seguenti garanzie:
a) ad essere informato sollecitamente e in modo circostanziato, in una lingua a lui comprensibile, della natura e dei motivi dell'accusa a lui rivolta;
b) a disporre del tempo e dei mezzi necessari alla preparazione della difesa ed a comunicare con un difensore di sua scelta;
c) ad essere giudicato senza ingiustificato ritardo;
d) ad essere presente al processo ed a difendersi personalmente o mediante un difensore di sua scelta: nel caso sia sprovvisto di un difensore, ad essere informato del suo diritto ad averne e, ogni qualvolta l'interesse della giustizia lo esiga, a vedersi assegnato un difensore di ufficio, a titolo gratuito se egli non dispone di mezzi sufficienti per compensarlo;
e) a interrogare o far interrogare i testimoni a carico e ad ottenere la citazione e l'interrogatorio dei testimoni a discarico nelle stesse condizioni dei testimoni a carico;
f) a farsi assistere gratuitamente da un interprete, nel caso egli non comprenda o non parli la lingua usata in udienza;
g) a non essere costretto a deporre contro se stesso od a confessarsi colpevole.
4. La procedura applicabile ai minorenni dovrà tener conto della loro età e dell'interesse a promuovere la loro riabilitazione.
5. Ogni individuo condannato per un reato ha diritto a che l'accertamento della sua colpevolezza e la condanna siano riesaminati da un tribunale di seconda istanza in conformità della legge.
6. Quando un individuo è stato condannato con sentenza definitiva e successivamente tale condanna viene annullata, ovvero viene accordata la grazia, in quanto un fatto nuovo o scoperto dopo la condanna dimostra che era stato commesso un errore giudiziario, l'individuo che ha scontato una pena in virtù di detta condanna deve essere indennizzato, in conformità della legge, a meno che non venga provato che la mancata scoperta in tempo utile del fatto ignoto è a lui imputabile in tutto o in parte.
7. Nessuno può essere sottoposto a nuovo giudizio o a nuova pena, per un reato per il quale sia stato già assolto o condannato con sentenza definitiva in conformità al diritto e alla procedura penale di ciascun Paese.
Articolo 15
1. Nessuno può essere condannato per azioni od omissioni che, al momento in cui venivano commesse, non costituivano reato secondo il diritto interno o il diritto internazionale. Così pure, non può essere inflitta una pena superiore a quella applicabile al momento in cui il reato sia stato commesso. Se, posteriormente alla commissione del reato, la legge prevede l'applicazione di una pena più lieve, il colpevole deve beneficiarne.
2. Nulla, nel presente articolo, preclude il deferimento a giudizio e la condanna di qualsiasi individuo per atti od omissioni che, al momento in cui furono commessi, costituivano reati secondo i principi generali del diritto riconosciuti dalla comunità delle nazioni.
(omissis)
VII Protocollo
addizionale
alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle
libertà fondamentali
firmato a Strasburgo il 22 novembre 1984 (1)
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(1)Il Protocollo, reso esecutivo con legge 9 aprile 1990, n. 98 pubblicata nella G.U. n. 100 del 2 maggio 1990, è entrato in vigore per l'Italia il 1° febbraio 1992.
Gli Stati membri del Consiglio d'Europa, firmatari del presente Protocollo,
Risoluti ad adottare ulteriori misure idonee per assicurare la garanzia collettiva di alcuni diritti e libertà mediante la Convenzione per la salvaguardia dei Diritti dell'Uomo e delle Libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950 (qui di seguito denominata "la Convenzione")
Hanno convenuto quanto segue:
Articolo 1
Garanzie procedurali in caso di espulsioni di stranieri.
1. Uno straniero regolarmente residente nel territorio di uno Stato non può essere espulso, se non in esecuzione di una decisione presa conformemente alla legge e deve poter:
a. far valere le ragioni che si oppongono alla sua espulsione,
b. far esaminare il suo caso e
c. farsi rappresentare a tali fini davanti all'autorità competente o ad una o più persone designate da tale autorità.
2. Uno straniero può essere espulso prima dell'esercizio dei diritti enunciati al paragrafo 1 a, b e c di questo articolo, qualora tale espulsione sia necessaria nell'interesse dell'ordine pubblico o sia motivata da ragioni di sicurezza nazionale.
Articolo 2
Diritto ad un doppio grado di giurisdizione in materia penale.
1. Ogni persona dichiarata rea da un tribunale ha il diritto di far esaminare la dichiarazione di colpevolezza o la condanna da un tribunale della giurisdizione superiore. L'esercizio di tale diritto, ivi inclusi i motivi per cui esso può essere esercitato, è disciplinato dalla legge.
2. Tale diritto può essere oggetto di eccezioni per i reati minori, quali sono definiti dalla legge, o quando l'interessato è stato giudicato in prima istanza da un tribunale della giurisdizione più elevata o è stato dichiarato colpevole e condannato a seguito di un ricorso avverso il suo proscioglimento.
Articolo 3
Diritto di risarcimento in caso di errore giudiziario .
Qualora una condanna penale definitiva sia successivamente annullata o qualora la grazia sia concessa perchè un fatto sopravvenuto o nuove rivelazioni comprovano che vi è stato un errore giudiziario, la persona che ha subito una pena in ragione di tale condanna sarà risarcita, conformemente alla legge o agli usi in vigore nello Stato interessato, a meno che non sia provato che la mancata rivelazione in tempo utile del fatto non conosciuto le sia interamente o parzialmente imputabile.
Articolo 4
Diritto a non essere giudicato o punito due volte.
1.Nessuno può essere perseguito o condannato penalmente dalla giurisdizione dello stesso Stato per un reato per il quale è già stato assolto o condannato a seguito di una sentenza definitiva conformemente alla legge ed alla procedura penale di tale Stato.
2. Le disposizioni del paragrafo precedente non impediscono la riapertura del processo, conformemente alla legge ed alla procedura penale dello Stato interessato, se fatti sopravvenuti o nuove rivelazioni o un vizio fondamentale nella procedura antecedente sono in grado di inficiare la sentenza intervenuta.
3. Non è autorizzata alcuna deroga al presente articolo ai sensi dell'articolo 15 della Convenzione.
Articolo 5
Uguaglianza degli sposi.
I coniugi godono dell'uguaglianza di diritti e di responsabilità di carattere civile tra di essi e nelle loro relazioni con i loro figli riguardo al matrimonio, durante il matrimonio e in caso di suo scioglimento. Il presente articolo non impedisce agli Stati di adottare le misure necessarie nell'interesse dei figli.
Articolo 6
Applicazione territoriale
1. Ogni Stato, al momento della firma o al momento del deposito del suo strumento di ratifica, d'accettazione o d'approvazione, puó designare il territorio o i territori nei quali si applicherà il presente Protocollo, indicando i limiti entro cui si impegna ad applicare le disposizioni del presente Protocollo in tale territorio o territori.
2. Ogni Stato, in qualunque altro momento successivo, mediante una dichiarazione indirizzata al Segretario Generale del Consiglio d'Europa, puó estendere l'applicazione del presente Protocollo ad ogni altro territorio indicato nella dichiarazione. Il Protocollo entrerà in vigore per questo territorio il primo giorno del mese successivo al termine di un periodo di due mesi dalla data di ricezione della dichiarazione da parte del Segretario Generale.
3. Ogni dichiarazione fatta in virtù dei due paragrafi precedenti potrà essere ritirata o modificata per quanto riguarda ogni territorio designato in questa dichiarazione, mediante notificazione indirizzata al Segretario Generale. Il ritiro o la modifica avrà effetto a decorrere dal primo giorno del mese successivo al termine di un periodo di due mesi dalla data di ricezione della notificazione da parte del Segretario Generale.
4. Una dichiarazione fatta conformemente al presente articolo sarà considerata come fatta in conformità al paragrafo 1 dell'articolo 56 della Convenzione.
5. Il territorio di ogni Stato nel quale il presente Protocollo si applica in virtù della ratifica, dell'accettazione o della approvazione da parte di tale Stato, e ciascuno dei territori nei quali il Protocollo si applica in virtù di una dichiarazione sottoscritta dallo stesso Stato conformemente al presente articolo, possono essere considerati come territori distinti ai fini del riferimento al territorio dì uno Stato fatto dall'articolo 1.
6.Ogni Stato che ha reso una dichiarazione in conformità con il paragrafo 1 o 2 del presente articolo può in qualsiasi momento successivo, dichiarare relativamente ad uno o più dei territori indicati in tale dichiarazione, che accetta la competenza della Corte a giudicare i ricorsi di perone fisiche, di organizzazioni non governative o di gruppi di privati, come lo prevede l'articolo 34 della Convenzione, secondo gli articoli da 1 a 5 del presente Protocollo.
Articolo 7
Relazioni con la Convenzione.
1. Gli Stati contraenti considerano gli articoli da 1 a 6 del presente Protocollo come articoli addizionali alla Convenzione e tutte le disposizioni della Convenzione si applicano di conseguenza.
Articolo 8
Firma e ratifica.
Il presente Protocollo è aperto alla firma degli Stati membri del Consiglio d'Europa che hanno firmato la Convenzione. Esso sarà sottoposto a ratifica, accettazione o approvazione. Uno Stato membro del Consiglio d'Europa non può ratificare, accettare o approvare il presente Protocollo senza aver simultaneamente o anteriormente ratificato la Convenzione. Gli strumenti di ratifica, d'accettazione o d'approvazione saranno depositati presso il Segretario Generale del Consiglio d'Europa.
Articolo 9
Entrata in vigore.
1. Il presente Protocollo entrerà in vigore il primo giorno del mese successivo al termine di un periodo di due mesi dalla data in cui sette Stati membri del Consiglio d'Europa avranno espresso il loro consenso ad essere vincolati dal Protocollo conformemente alle disposizioni dell'articolo 8.
2. Per ogni Stato membro che esprimerà ulteriormente il suo consenso ad essere vincolato dal Protocollo, questo entrerà in vigore il primo giorno del mese successivo al termine di un periodo di due mesi dalla data del deposito dello strumento di ratifica, d'accettazione o d'approvazione.
Articolo 10
Funzioni del depositario.
Il Segretario Generale del Consiglio d'Europa notificherà agli Stati membri del Consiglio d'Europa:
a. ogni firma;
b. il deposito di ogni strumento di ratifica, d'accettazione o d'approvazione;
c. ogni data d'entrata in vigore del presente Protocollo conformemente agli articoli 6 e 9;
d. ogni altro atto, notificazione o dichiarazione riguardante il presente Protocollo.
In fede di che, i sottoscritti, debitamente autorizzati a tal fine, hanno firmato il presente Protocollo.
Fatto a Strasburgo il 22 novembre 1984 in francese ed in inglese, i due testi facendo ugualmente fede, in un unico esemplare che sarà depositato negli archivi del Consiglio d'Europa. Il Segretario Generale del Consiglio d'Europa ne trasmetterà copia certificata conforme a ciascuno degli Stati membri del Consiglio d'Europa.
Dottrina
Giurisprudenza costituzionale
Corte costituzionale, sentenza n. 177 del 1971
LA CORTE COSTITUZIONALE
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi riuniti di legittimità costituzionale dell'art. 515, ultimo comma, del codice di procedura penale, promossi con le seguenti ordinanze:
1) ordinanze emesse il 28 gennaio 1970 ed il 13 novembre 1970 dalla Corte d'Appello di Genova nei procedimenti penali rispettivamente a carico di Burnengo Giuseppe ed altri e di Romeo Arturo e Marco, iscritte ai nn. 65 e 366 del registro ordinanze 1970 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 82 del 1 aprile 1970 e n. 35 del 10 febbraio 1971;
2) ordinanze emesse il 25 febbraio 1970 e l'11 marzo 1970 dal Tribunale di Lecce nei procedimenti penali rispettivamente a carico di Ventura Francesco ed altri e di De Vergori Alessandro ed altri, iscritte ai nn. 147 e 159 del registro ordinanze 1970 ed pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 136 del 3 giugno 1970 e n. 143 del 10 giugno 1970; .
3) ordinanza emessa il 24 aprile 1970 dal Tribunale di Venezia nel procedimento penale a carico di Casarin Dante, iscritta al n. 255 del registro ordinanze 1970 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 254 del 7 ottobre 1 970.
Visti gli atti di costituzione di Romeo Marco e Casarin Dante;
udito nell'udienza pubblica del 13 ottobre 1971 il Giudice relatore Enzo Capalozza;
udito l'avv. Gian Domenico Pisapia, per il Romeo.
Considerato in diritto
l. Le ordinanze di rimessione hanno lo stesso oggetto e i relativi giudizi possono, pertanto, essere riuniti e decisi con unica sentenza.
2. Dette ordinanze sottopongono a questa Corte la questione di legittimità dell'art. 515, quarto comma, del codice di procedura penale, che regola l'istituto dell'appello incidentale del pubblico ministero, prospettandone il contrasto con gli artt. 3 e 24 della Costituzione (Corte d'Appello di Genova, 28 gennaio e 13 novembre 1970); con l'art. 3 Cost. (Tribunale di Lecce, 25 febbraio e 11 marzo 1970); con gli artt. 3, 24 e 112 Cost., Tribunale di Venezia, 24 aprile 1970).
3. Ad avviso di questa Corte, le censure mosse dalle ordinanze di rimessione sotto il profilo della disparità di trattamento nell'esercizio del diritto di difesa ( artt. 3 e 24, secondo comma, Cost.) che se isolatamente considerate potrebbero dar luogo a perplessità sulla loro fondatezza prese nel loro complesso giustificano la dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma denunziata. E, invero, l'appello incidentale, essendo consentito ad una sola delle parti nel processo, turba l'equilibrio del contraddittorio, che si polarizza nell'imputato (e nel suo difensore), da un lato, e, dall'altro, nel pubblico ministero, portatori di interessi solitamente contrapposti (vedi sentenza n. 190 del 1970).
E la fondatezza delle censure è avvalorata dall'inciso, contenuto nello stesso art. 515, quarto comma, cod. proc. pen., relativo all'inefficacia, ai fini del prosieguo del giudizio di secondo grado, della rinuncia dell'imputato al proprio appello; e dall'ultima parte di detto articolo, relativa al coimputato non appellante.
4. E, comunque, assorbente il profilo della violazione dell'art. 112 della Costituzione, dato che il potere di impugnazione - come è stato posto in rilievo dal Tribunale di Venezia (ordinanza 24 aprile 1970) è un'estrinsecazione ed un aspetto dell'azione penale, un atto conseguente - obbligatorio e non discrezionale al promovimento dell'azione penale (beninteso, con gli stessi limiti di comportamento che il pubblico ministero ha rispetto alla "notitia criminis", dopo la quale può convincersi a proporre al giudice istruttore il decreto di non promovimento, oppure, in istruttoria o in udienza, l'assoluzione o una pronuncia più favorevole a fronte della contestazione dell'accusa): vale a dire un atto dovuto, che si concreta nella richiesta al giudice superiore di emettere una diversa decisione, più conforme alla pretesa punitiva, e di rimuovere il pregiudizio che, a criterio dell'organo dell'accusa, la precedente statuizione abbia arrecato alla realizzazione di essa. Un carattere tale da non consentire che il pubblico ministero (quale istituto), titolare di questo potere-dovere, tenga un comportamento contraddittorio: quello di lasciar scadere i termini per l'impugnazione, manifestando implicitamente il convincimento che l'esercizio dell'azione penale non debba esprimersi anche nella proposizione dell'appello; e di esperire successivamente il gravame, fuori dei termini ordinari stabiliti dal codice per il suo appello principale: e ciò allo scopo pratico di contenere l'iniziativa dell'imputato (Lav. Prep., vol. VII, pag. 74), che è quanto dire di ostacolarne l'esplicazione del diritto di tutela giurisdizionale e di difesa giudiziaria (ex art. 24 Cost., primo e secondo comma).
Per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara la illegittimità costituzionale dell'art. 515, quarto comma, del codice di procedura penale.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte Costituzionale, Palazzo della Consulta, il 10 novembre 1971.
Corte costituzionale, sentenza n. 117 del 1973
REPUBBLICA ITALIANA
In nome del Popolo Italiano
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
Prof. FRANCESCO PAOLO BONIFACIO, Presidente
Dott. GIUSEPPE VERZÌ
Dott. GIOVANNI BATTISTA BENEDETTI
Dott. LUIGI OGGIONI
Dott. ANGELO DE MARCO
Avv. ERCOLE ROCCHETTI
Prof. ENZO CAPALOZZA
Prof. VINCENZO MICHELE TRIMARCHI
Prof. VEZIO CRISAFULLI
Dott. NICOLA REALE
Prof. PAOLO ROSSI
Avv. LEONETTO AMADEI
Prof. GIULIO GIONFRIDA
Prof. EDOARDO VOLTERRA
Prof. GUIDO ASTUTI, Giudici,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi riuniti di legittimità costituzionale dell'art. 6 del d.P.R. 25 ottobre 1955, n. 932 (norme di attuazione e coordinamento della legge 18 giugno 1955, n. 517), promossi con ordinanze emesse il 23 ed il 30 giugno 1971 dalla sezione istruttoria della Corte d'appello di Palermo nei procedimenti penali rispettivamente a carico di Failla Guido e Billone Serafina e di Cardile Ignazio, iscritte ai nn. 322 e 323 del registro ordinanze 1971 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 259 del 13 ottobre 1971 e n. 290 del 17 novembre 1971.
Udito nella camera di consiglio del 30 maggio 1973 il Giudice relatore Nicola Reale.
Ritenuto in fatto
Nel corso di due procedimenti penali a carico di persone imputate di falso ideologico e peculato ai danni della Regione siciliana nel primo, di omicidio colposo di una bambina, per omissione di cautele nell'esecuzione di opere pericolose, nel secondo, la sezione istruttoria della Corte d'appello di Palermo, con ordinanze di identico contenuto, ha sollevato, in riferimento agli artt. 24 e 25 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell'art. 6 del d.P.R. 25 ottobre 1955, n. 932, recante norme di attuazione della legge 18 giugno 1955, n. 517, con la quale furono apportate modificazioni al codice di procedura penale.
La sezione istruttoria ha premesso che in entrambi i procedimenti il giudice istruttore presso il tribunale di Palermo aveva dichiarato non doversi procedere a carico degli imputati. Ma contro queste decisioni era stata proposta impugnazione dalla Procura generale presso la stessa Corte, a norma dell'art. 387 c.p.p., perché fosse accertata la violazione, nel procedimento di primo grado, della normativa circa la partecipazione del p.m. agli atti istruttori, ai sensi dell'art. 185, n. 2, di detto codice, e fosse, quindi, disposta la rimessione degli atti allo stesso giudice istruttore per la rinnovazione del procedimento.
La sezione istruttoria - ha rilevato che all'accoglimento di quest'ultima domanda osta l'art. 6 del d.P.R. 25 ottobre 1955, n. 932 (contenente norme di attuazione e coordinamento della legge 18 giugno 1955, n. 517, modificativa di alcuni articoli del c.p.p.) in quanto esso prescrive che, il giudice di appello, ove dichiari la nullità della sentenza istruttoria per essersi verificata una delle ipotesi indicate nel citato art. 185, debba egli stesso procedere alla rinnovazione degli atti invalidi a norma dell'art. 189 del codice di procedura penale.
Senonché la disposizione dell'art. 6 delle ricordate norme di attuazione apparirebbe in contrasto con gli artt. 24 e 25 Cost., in quanto priverebbe l'imputato di un grado di giurisdizione, con pregiudizio del diritto di difesa, e lo distoglierebbe dal giudice precostituito per legge per il procedimento istruttorio di primo grado.
Non essendosi costituita alcuna parte, a norma dell'art. 26 della legge 11 marzo 1953, n. 87, le due cause sono state fissate per la camera di consiglio del 30 maggio 1973.
Considerato in diritto
1. - L'art. 6 del d.P.R. 25 ottobre 1955, n. 932, recante norme di attuazione della legge 18 giugno 1955, n. 517, di modifica del c.p.p., stabilisce che il giudice d'appello il quale dichiara la nullità della sentenza istruttoria, impugnata a termini dell'art. 387 del codice predetto, per essersi verificata una delle nullità indicate nell'art. 185, procede direttamente a norma dell'art. 189. Orbene in forza di quest'ultima disposizione al giudice d'appello é attribuita la potestà di rinnovare o rettificare direttamente gli atti invalidi del procedimento istruttorio. Allo stesso giudice é poi demandato emettere il provvedimento conclusivo della istruzione.
Dal che deriva - assume il giudice a quo - che, nel caso di nullità dell'istruzione di primo grado, unico procedimento validamente svolto é quello definito dalla sezione istruttoria della Corte d'appello. All'imputato risulterebbe in tal guisa precluso il doppio grado della cognizione istruttoria, con conseguente limitazione del diritto di difesa, in contrasto con l'art. 24 della Costituzione. E ricorrerebbe altresì violazione del principio del giudice naturale (art. 25 della stessa Costituzione) - per il fatto che, nonostante la nullità della sentenza istruttoria, dichiarata con decisione rescindente della sezione istruttoria, la rinnovazione del procedimento (in sede rescissoria) non é rimessa al giudice istruttore competente per il primo grado, ma é attribuita allo stesso organo competente per l'impugnazione.
Le questioni non sono fondate.
2. - Questa Corte, con precedente sentenza (n. 41 del 1965), ha affermato (in relazione alla legittimità dell'art. 522, ultima parte, c.p.p.) che l'art. 24 della Costituzione garantisce il diritto di difesa dell'imputato in giudizio come effettiva possibilità di esplicazione, personale e con l'assistenza tecnica e professionale di un difensore, del potere di fare deduzioni e addurre prove a sua tutela, rimanendo assicurato il contraddittorio e rimosso ogni ostacolo all'accertamento giudiziale del fondamento dell'accusa.
Nella ricordata decisione é stato altresì chiarito che la garanzia della difesa si realizza non tanto con la duplicità della cognizione della causa da parte di giudici di merito diversi, ma con la possibilità concreta che nel processo vengano prospettate le domande e le ragioni delle parti, che non siano legittimamente precluse.
Anche nella specie, con riguardo alla normativa in esame e con riferimento alle accennate situazioni processuali, legittimanti l'esercizio dell'appello, deve ribadirsi che il doppio grado della cognizione di merito non ha rilevanza costituzionale e non inerisce, per necessaria implicazione, alla garanzia della difesa. E, con la dottrina processualistica, può ritenersi che il principio del doppio grado non esprime l'esigenza della piena cognizione in ogni grado della giurisdizione, ed in particolare nel giudizio di appello, ma si risolve in una garanzia pratica del miglior risultato delle decisioni. Sicché, senza contrasto coi precetti della Costituzione, il legislatore ordinario può diversamente strutturare il processo di appello disciplinando, nell'ambito della sua discrezione, l'effetto devolutivo del gravame e l'opportunità o meno della rimessione della causa al primo giudice. E ciò anche nelle ipotesi di gravame nelle quali si adducono nullità incidenti sul procedimento di primo grado.
Può aggiungersi che l'art. 111, secondo comma, della Costituzione, a garanzia dell'osservanza della retta attuazione giudiziale della legge, sancisce la inderogabilità del solo ricorso per cassazione, per motivi di legittimità, contro tutte le sentenze e contro i provvedimenti sulla libertà personale pronunziati dagli organi ordinari o speciali.
3. - Ne consegue che la norma dell'art. 6, oltretutto non irrazionale in quanto riferibile a criteri di celerità ed economia di giudizi, non é incompatibile con la tutela costituzionale della difesa.
4. - Né la norma in questione é censurabile sotto il diverso profilo dell'asserita violazione dell'art. 25 della Costituzione.
Come emerge dall'interpretazione che di detta norma é stata adottata da questa Corte, il principio del giudice naturale é ispirato alla garanzia di obiettività ed imparzialità del giudizio e ha riferimento alla precostituzione del giudice al quale spetta di giudicare, nei limiti della cognizione propria di ciascuna fase processuale.
Con tale criterio non contrasta la disposizione in esame, volta appunto alla predeterminazione della competenza funzionale in sede di appello contro sentenze di proscioglimento del giudice istruttore.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 6 del d.P.R. 25 ottobre 1955, n. 932 (norme di attuazione e coordinamento della legge 18 giugno 1955, n. 517), sollevate, con le ordinanze di cui in epigrafe, in riferimento agli artt. 24 e 25 della Costituzione.
Così deciso in Roma, in camera di consiglio, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 27 giugno 1973.
FRANCESCO PAOLO BONIFACIO, PRESIDENTE
NICOLA REALE, REDATTORE
Depositata in cancelleria il 10 luglio 1973.
Corte costituzionale, sentenza n. 62 del 1981
REPUBBLICA ITALIANA
In nome del Popolo Italiano
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
Avv. LEONETTO AMADEI, Presidente
Dott. GIULIO GIONFRIDA
Prof. EDOARDO VOLTERRA
Dott. MICHELE ROSSANO
Prof. GUGLIELMO ROEHRSSEN
Avv. ORONZO REALE
Dott. BRUNETTO BUCCIARELLI DUCCI
Avv. ALBERTO MALAGUGINI
Prof. LIVIO PALADIN
Dott. ARNALDO MACCARONE
Prof. ANTONIO LA PERGOLA
Prof. VIRGILIO ANDRIOLI
Prof. GIUSEPPE FERRARI, Giudici,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 435, ultima parte, del codice di procedura penale (Reati commessi in udienza), promosso con ordinanza emessa il 16 settembre 1975 dalla Corte d'appello di Venezia, nel procedimento penale a carico di Pinna Giovanna, iscritta al n. 609 del registro ordinanze 1975 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 38 dell'11 febbraio 1976.
Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell'udienza pubblica del 10 dicembre 1980 il Giudice relatore Leopoldo Elia;
udito l'avvocato dello Stato Franco Chiarotti, per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
La Corte d'appello di Venezia, investita da gravame avverso sentenza del tribunale pronunziata per reato di falsa testimonianza, in ipotesi commesso nel corso del dibattimento, sollevava, con ordinanza emessa il 16 settembre 1975, questione di costituzionalità dell'art. 436, ultimo comma, del codice di procedura penale (in realtà dell'art. 435, ultimo comma, cod. proc. pen.) per contrasto con gli artt. 3, 24, 25 e 111 della Costituzione. La norma, infatti, senza giustificazione alcuna, ad avviso del giudice a quo, esclude il diritto ad un doppio grado di giurisdizione, lasciando sussistere solo la possibilità di esperire ricorso alla Suprema Corte di legittimità (art. 111, Cost.) a favore dell'imputato di delitto di falsa testimonianza quando questi sia giudicato in primo grado da giudice del dibattimento superiore per competenza a quello che dovrebbe conoscere il reato secondo le norme generali; risulterebbero in conseguenza lesi il principio di eguaglianza, per non giustificata diversità di disciplina di fattispecie analoghe, il diritto di difesa, il principio secondo cui nessuno può essere sottratto al giudice naturale precostituito per legge.
L'ordinanza, regolarmente notificata e comunicata, veniva pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 38 dell'11 febbraio 1976.
Interveniva nel presente giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, attraverso l'Avvocatura dello Stato, deducendo l'infondatezza della questione. Richiamava precedenti sentenze di rigetto di questa Corte (sentt. nn. 122 del 1963 e 92 del 1967) relative alla disciplina dei reati commessi in udienza, le quali pongono in luce le caratteristiche specifiche dei medesimi idonee a giustificare un differenziato trattamento processuale. Nè costituirebbe diritto costituzionalmente garantito quello al doppio grado di giurisdizione, del resto riconosciuto non senza significative eccezioni nel vigente ordinamento processuale. Non sarebbe comprensibile, infine, il richiamo all'art. 111 della Costituzione, attesochè la norma impugnata non esclude il ricorso alla Suprema Corte.
All'udienza di discussione l'Avvocatura dello Stato ribadiva le tesi in precedenza svolte.
Considerato in diritto
Basta leggere la breve ordinanza di rimessione della Corte d'appello di Venezia per accorgersi che la disposizione denunziata non è l'art. 436, ultima parte, del codice di procedura penale bensì l'art. 435, ultimo comma, dello stesso codice. Su quest'ultimo articolo o su parte di esso questa Corte ebbe già a pronunziarsi, ma ad altro proposito (sentt. nn. 122 del 1963 e 92 del 1967). Questa volta la denunzia di illegittimità costituzionale dell'ultimo comma, pur sollevata con riguardo agli artt. 3, 24, 25 e 111 della Costituzione, si fonda sulla ingiustificata esclusione del "diritto ad un doppio grado di giurisdizione" quando si proceda a giudizio immediato per reati commessi in udienza.
Nemmeno in questi termini la questione è fondata.
Già nella sentenza n. 117 del 1973 - con un asserto non riducibile ad obiter dictum - questa Corte aveva escluso che il sistema costituzionale prevedesse la garanzia del doppio grado di giurisdizione (cognizione di merito). L'esclusione di tal garanzia, data per pacifica da dottrina largamente prevalente e dalla giurisprudenza della Cassazione, si fonda innanzitutto sulla assenza nel testo costituzionale di una proposizione analoga a quella contenuta nel secondo comma dell'art. 111 per il ricorso in Cassazione. Del resto i lavori preparatori dell'Assemblea Costituente chiariscono esaurientemente i motivi di tale assenza: a parte le c.d. contravvenzioni oblazionabili, rimaneva dubbio se potesse concepirsi appello contro le sentenze adottate dalle giurie e ad ogni modo la questione andava rimessa alla legge, che avrebbe conformato l'istituto stesso della giuria "in un modo o nell'altro". Sicchè il Presidente della Commissione per la Costituzione concludeva a favore di una formula poco impegnativa: si paò ricorrere contro tutte le sentenze, salvo che la legge disponga altrimenti. Comunque questa proposta non venne nemmeno formalizzata e fu invece respinto un emendamento all'art. 102 del progetto (attuale art. 111), secondo il quale era ammesso l'appello contro tutte le sentenze penali comportanti pene detentive, salvo le limitazioni poste dalla legge per i giudizi di lieve entità (Ass. Cost., 27 novembre 1947, pag. 2593).
Nè diversa conclusione (a favore di una protezione costituzionale sia pure indiretta dell'appello) può, con una argomentazione a fortiori, trarsi dal disposto dell'art. 125, secondo comma, della Costituzione ("Nella Regione sono istituiti organi di giustizia amministrativa di primo grado, secondo l'ordinamento stabilito da legge della Repubblica"). Infatti questa norma disciplina innanzitutto una modalità che deve assumere il sindacato giurisdizionale sugli atti amministrativi della Regione, modalità che, del resto, va inquadrata in un sistema di giustizia amministrativa nel quale, in base all'art. 111, ultimo comma, della Costituzione, non si dà ricorso in Cassazione per violazione di legge.
La garanzia costituzionale del doppio grado di giurisdizione non può neppure farsi discendere dall'art. 24, primo e secondo comma, della Costituzione come proiezione diretta del diritto di difesa: in realtà questo precetto assicura la tutela di tale diritto in ogni stato e grado del procedimento, ma non garantisce la parte contro la soppressione di un grado del processo.
Nè il diritto dell'imputato ad un riesame delle decisioni che non prosciolgono con formula piena può dirsi garantito indirettamente dalla nostra Costituzione, soltanto come mezzo per rendere effettivo l'esercizio dei diritti costituzionali esercitabili nel processo (si vedano anche le sentt. nn. 110 del 1963 e 54 del 1968). In effetti, talune pronunzie che richiamano l'appello quale mezzo o modo generale del diritto di difesa (sentt. nn. 70 del 1975, 73 del 1978, 72 del 1979 e 53 del 1981) si fondano altresì sulla necessità di ristabilire la par condicio tra imputato e pubblica accusa (artt. 512, n. 2 e 3; 513, n. 2 e 3 cod. proc. pen.) e non contraddicono pertanto alla più generale conclusione che la non appellabilità delle sentenze di proscioglimento per amnistia non contrasta di regola con gli artt. 3 e 24 della Costituzione (così sent. n. 72 del 1979, n. 2 del considerato in diritto).
La situazione non può poi dirsi mutata per effetto dell'art. 14, paragrafo 5, del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici (legge 25 ottobre 1977, n. 881 e deposito dello strumento di ratifica da parte del Governo italiano comunicato in G.U. 23 novembre 1978, n. 328). Oltre alle considerazioni di carattere generale contenute nella sentenza n. 188 del 1980 (n. 5 del considerato in diritto), soprattutto in relazione all'art. 2, paragrafo 2 - che prevede misure legislative degli Stati parti del Patto per dare efficacia ai diritti in esso enunziati - è da soggiungere come già ora non appare in contrasto con l'art. 14, paragrafo 5, un sistema che prevede un riesame nel merito di un giudizio di condanna per delitti, solamente nelle ipotesi di accoglimento di un ricorso (art. 111, secondo comma, Cost.) con il quale si denunzino veri e propri vizi nello svolgimento del processo e nella formazione del convincimento del giudice.
Quanto alla violazione dell'art. 3, primo comma, della Costituzione (o anche del combinato disposto degli artt. 3 e 24), è da dire che le peculiarità del contesto in cui si svolge il giudizio previsto dall'art. 435 del codice di procedura penale (specie in ordine alla evidenza della prova), peculiarità già sottolineate nella sentenza n. 92 del 1967, escludono che si realizzi una illegittimità costituzionale per disparità di trattamento.
Le affermazioni precedenti, peraltro, non tolgono che l'intera disciplina processuale dei reati commessi in udienza sia suscettibile di una opportuna riconsiderazione in sede legislativa, dal momento che non a caso si è parlato in dottrina, proprio con riguardo all'art. 435, ultimo comma, del codice di procedura penale, di grave dissonanza, di deviazione dal sistema, di mancato coordinamento con l'abrogazione del terzo comma dell'art. 34 del codice di procedura penale (legge 18 giugno 1955, n. 517). Solo che il difetto di ragionevolezza così denunziato non è tale da conferire consistenza ad una censura di costituzionalità.
Le altre disposizioni costituzionali, richiamate come parametro nella ordinanza di rimessione, non appaiono pertinenti ai termini in cui è stato proposto il presente giudizio.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondata, in riferimento agli artt. 3, 24, 25 e 111 della Costituzione, la questione proposta con l'ordinanza in epigrafe dalla Corte d'appello di Venezia relativa alla legittimità costituzionale dell'art. 435, ultimo comma, del codice di procedura penale.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 2 aprile 1981.
LEONETTO AMADEI, PRESIDENTE
LEOPOLDO ELIA, REDATTORE
Depositata in cancelleria il 15 aprile 1981.
Corte costituzionale, sentenza n. 98 del 1991
REPUBBLICA ITALIANA
In nome del Popolo Italiano
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
Presidente
Prof. Ettore GALLO
Giudici
Dott. Aldo CORASANITI
Prof. Giuseppe BORZELLINO
Dott. Francesco GRECO
Prof. Gabriele PESCATORE
Avv. Ugo SPAGNOLI
Prof. Francesco Paolo CASAVOLA
Prof. Antonio BALDASSARRE
Prof. Vincenzo CAIANIELLO
Avv. Mauro FERRI
Prof. Luigi MENGONI
Prof. Enzo CHELI
Dott. Renato GRANATA
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio promosso con ricorso della Regione Sardegna notificato il 2 agosto 1990, depositato in Cancelleria il 3 agosto successivo, per conflitto di attribuzione sorto a seguito del decreto del Ministro dei trasporti del 18 maggio 1990, comunicato il 7 giugno 1990, concernente facilitazioni tariffarie sulle linee di trasporto pubblico locale ed iscritto al n. 30 del registro conflitti 1990.
Visto l'atto di costituzione del Presidente del (Consiglio dei ministri;
udito nell'udienza pubblica del 29 gennaio 1991 il Giudice relatore Francesco Paolo Casavola;
uditi l'avv. Sergio Panunzio per la Regione Sardegna e l'Avvocato dello Stato Giorgio D'Amato per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
1- Con ricorso notificato al Presidente del Consiglio dei ministri il 2 agosto 1990, la Regione autonoma Sardegna ha proposto conflitto di attribuzione, lamentando che lo Stato, con decreto del Ministro dei trasporti del 18 maggio 1990, n. 963 (comunicato il 7 giugno 1990), nel fissare per il 1990 una serie di agevolazioni tariffarie relative alle linee di trasporto locale, avrebbe di fatto posto a carico della Regione la relativa spesa, invadendo in tal modo sia la sfera di competenza primaria costituita dalla materia dei trasporti d'interesse regionale, sia il più vasto ambito dell'autonomia finanziaria.
Espone infatti la ricorrente che il decreto-legge 4 marzo 1989, n. 77 (convertito, con modificazioni, nella legge 5 maggio 1989, n. 160) ha consentito al Ministro dei trasporti (cfr. art. 1, terzo comma) di stabilire entro il 30 giugno 1989, per il 1990 le facilitazioni tariffarie per le quali lo Stato, le regioni ed i comuni devono contestualmente provvedere, con finanziamenti propri, alla copertura della minore entrata che risulta per le aziende interessate.
La medesima disposizione impone inoltre che, laddove venga stabilita un'agevolazione tariffaria, la minore entrata che per le aziende ne risulta, vada contestualmente ripianata "con finanziamenti propri a carico dello Stato, della regione o del comune". Viceversa l'impugnato provvedimento ha disposto, ben oltre il termine indicato, concedendo per il 1990 agevolazioni riconosciute - ai fini del ripiano delle minori entrate -a carico del Fondo nazionale trasporti.
Ma così recitando il decreto ministeriale, invece di assumere a carico dello Stato l'onere derivante dalle agevolazioni tariffarie, lo lascerebbe in realtà gravare sulla Regione. Infatti l'art. 18, primo comma, del decretolegge 28 dicembre 1989, n. 415 (convertito, con modificazioni, nella legge 28 febbraio 1990, n. 38) ha escluso, a decorrere dal 1990, la stessa ricorrente nonchè le altre regioni a Statuto speciale e le province autonome dal riparto del Fondo nazionale trasporti.
Risulterebbe quindi vulnerata l'autonomia finanziaria della Regione, strumento fondamentale della più ampia autonomia statutaria (artt. 3, lettera g), 4, 1~ g), 6, e titolo terzo dello Statuto), in quanto la medesima sarebbe costretta a ripianare con risorse proprie, stornate da altri settori, il deficit conseguente al mancato intervento dello Stato, con l'ulteriore effetto di sconvolgere, la precedente programmazione finanziaria.
Il decreto inciderebbe altresì sulla materia dei trasporti d'interesse regionale, sancita come primaria competenza dallo Statuto ed in ogni caso inquadrabile anche come concorrente, ex art. 4, lettera g), in quanto servizio pubblico d'interesse regionale.
Da un lato quindi la ricorrente si troverebbe a dover garantire il servizio, dall'altro verrebbe privata dei potere di controllo sulla spesa, venendo meno, nella specie, quell'"affidabilità" dei trasferimenti da parte dello Stato che é garanzia dell'effettività dell'autonomia.
Sarebbero poi violati gli artt. 81, quarto comma, 3 e 116 della Costituzione.
Il principio della copertura finanziaria risulterebbe infatti disatteso in ragione del contrasto con l'espressa previsione di cui al citato art. 1, terzo comma, del decreto-legge n. 77 del 1989 (e malgrado esso sia stato ribadito formalmente dall'art. 27 della legge 5 agosto 1978, n. 468, con riguardo alle leggi concernenti gli enti del cd. "settore pubblico allargato").
Con riferimento agli altri due parametri costituzionali, la ricorrente lamenta un'ingiustificata disparità di trattamento rispetto alle altre regioni che si vedono invece attribuita per il 1990 una quota del Fondo nazionale trasporti.
Ma anche l'art. 3 dell'impugnato decreto non si sottrae alle medesime censure, là dove dispone il ripiano delle minori entrate per il 1989 con la erogazione del Fondo per l'anno medesimo; infatti, emanato con molto ritardo, il provvedimento de quo avrebbe disposto retroattivamente di somme già trasferite alla ricorrente alla data del decreto stesso e da essa già spese. In concreto anche per il 1989 si sarebbero verificati tutti gli, inconvenienti lamentati per il 1990.
2.- E' intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura dello Stato, depositando, nell'imminenza dell'udienza, una sintetica memoria in cui si esclude che l'impugnato decreto ministeriale abbia leso l'autonomia regionale, giudicando altresì inconferente il richiamo agli artt.3 e 116 della Costituzione proprio perchè la specialità di alcune regioni escluderebbe che i rapporti finanziari tra esse e lo Stato debbano attuarsi attraverso gli stessi strumenti previsti per le regioni a statuto ordinario.
Si osserva poi, dopo aver citato la sentenza n. 381 del 1990 di questa Corte (a Proposito della cessazione delle erogazioni del Fondo trasporti), che, in particolare per l'anno 1989, le censure della ricorrente non avrebbero fondamento in quanto essa ammette di aver, per tale periodo, beneficiato della quota del Fondo nazionale.
Considerato in diritto
1. -La Regione Sardegna ha sollevato conflitto di attribuzione nei confronti dello Stato in relazione al decreto n. 963 del Ministro dei trasporti, adottato il 18 maggio 1990, sul presupposto che tale provvedimento nel determinare all'art. 1 i soggetti beneficiari di riduzioni tariffarie sulle linee di trasporto pubblico locale e ponendo contestualmente il ripiano delle minori entrate a carico del Fondo nazionale trasporti per il 1990, avrebbe leso le competenze legislative ed amministrative in tema di trasporti e di autonomia finanziaria alla Regione garantite dagli artt. 3, lettera g), 4, lettera g), 6, e dal titolo terzo dello Statuto speciale per la Sardegna (legge costituzionale 26 febbraio 1948, n. 3), nonchè, più in generale, gli artt. 3, 81, quarto comma, 116 e 119 della Costituzione.
Analoghe violazioni sono prospettate dalla ricorrente con riferimento all'art. 3 dello stesso decreto, che ha disposto per l'anno 1989 secondo il medesimo meccanismo di ripiano.
2.1 - Il ricorso va accolto.
L'impugnato decreto riconosce-all'art. 1 -agevolazioni tariffarie in favore di una serie di categorie ai fini del ripiano, per l'anno 1990, a carico dello Stato attraverso il Fondo nazionale trasporti, delle corrispondenti minori entrate delle aziende esercenti le linee di trasporto pubblico locale.
II provvedimento dovrebbe realizzare la previsione contenuta nell'art. 1, terzo comma, del decreto-legge 4 marzo 1989, n. 77, convertito, con modificazioni, nella legge 5 maggio 1989, n. 160, recante <disposizioni urgenti in materia di trasporti e di concessioni marittime>.
Tale norma prescrive, tra l'altro, che <ogni disposizione statale e regionale, o delibera comunale, volta a stabilire, con separati provvedimenti, speciali facilitazioni tariffarie deve contestualmente provvedere a ripianare, con finanziamenti propri a carico dello Stato, della Regione o del Comune la minore entrata che ne risulta per le aziende interessate. Dette speciali agevolazioni possono avere decorrenza soltanto dal 1o gennaio dell'anno successivo>.
Non e tanto il mancato rispetto di quest'ultima scadenza temporale -che pure rende illegittimo il decreto (v. infra sub 2.2)-quanto la contraddizione che esso esibisce sul piano sostanziale dell'imputazione del ripiano a rappresentare il dato più evidente: per l'anno 1990, infatti, la ricorrente (come le altre regioni a statuto speciale e le province autonome) e stata esclusa dal riparto del Fondo nazionale in argomento, per effetto del disposto dell'art. 18, primo comma, del decreto-legge 28 dicembre 1989, n.415, convertito, con modificazioni, nella legge 28 febbraio 1990, n. 38, recante <norme urgenti in materia di finanza locale e di rapporti finanziari tra lo Stato e le regioni, nonchè disposizioni varie>. Di qui la necessita, per la ricorrente, di provvedere direttamente essa stessa al ripiano (cfr.art. 9, commi primo, ottavo e nono, in relazione agli artt. 5 e 6 della legge 10 aprile 1981, n. 151-concernente l'istituzione del Fondo nazionale trasporti-nonchè la legge regionale d'attuazione 27 agosto 1982, n. 16, e successive modificazioni).
In proposito questa Corte ha bensì ritenuto non fondata la questione di legittimità costituzionale relativa a tale intervento legislativo, sul presupposto della provvisorietà di misure <volte ad allineare le entrate prese in considerazione su un livello minimo calcolato in base a parametri di omogeneità delle relative prestazioni in riferimento all'intero territorio nazionale> (sentenza n. 381 del 1990).
Ma ciò che viene qui in evidenza non e, diversamente da quanto argomentato dall'Avvocatura dello Stato, la circostanza dell'indisponibilità delle erogazioni del Fondo da parte della ricorrente, bensì l'idoneità di un provvedimento che surrettiziamente individua tale fonte per il ripiano dei disavanzi, ad interferire con l'autonomia finanziaria della Regione Sardegna.
L'erronea imputazione ad erogazioni ormai venute meno, disposta contestualmente al riconoscimento di una serie di agevolazioni, valide per l'anno di emissione del decreto ministeriale (e non già per il successivo) segna, prima di tutto, una contraddizione così netta con i presupposti legislativi del provvedimento da far qualificare come esercitato nelle forme non dovute il potere riconosciuto al Ministro dal citato art. 1 del decretolegge n. 77 del 1989.
Attraverso siffatta violazione del principio di legalità si e, in secondo luogo, concretizzata una sovrapposizione non coordinata alle attribuzioni regionali in tema di trasporti pubblici locali sotto il profilo della loro gestione finanziaria, così sottratte in parte qua all'autonomia della ricorrente. Questa ha visto crearsi un ulteriore onere senza la relativa provvista, trovandosi a dover intervenire con mezzi propri in quel <circuito di distribuzione e di successiva assegnazione agli enti o alle aziende di trasporto delle somme> necessarie al ripiano dei disavanzi (sentenza n. 731 del 1988).
2.2-Ma anche con riferimento all'anno 1989, in cui tale dotazione finanziaria e in effetti avvenuta, si apprezza in positivo la lamentata interferenza.
Recita infatti l'art. 3 dell'impugnato decreto: <Per le agevolazioni tariffarie vigenti alla data di entrata in vigore del decreto-legge 4 marzo 1989, n. 77 le minori entrate risultanti per le aziende interessate per l'anno 1989 si intendono ripianate con le erogazioni del Fondo nazionale trasporti per l'anno medesimo>.
Il citato art. 1, terzo comma, del decreto-legge n. 77 del 1989, nel prevedere il ripiano per le disposizioni e delibere concernenti agevolazioni in vigore a quella data, imponeva pero che in tal senso, <L'amministrazione statale, regionale o comunale provvede, entro il 31 maggio 1989, alla emanazione delle relative disposizioni e delibere>.
Mentre la ricorrente ottempera in conformità per la parte di propria competenza istituendo un <Fondo regionale compensativo delle minori entrate per tariffe agevolate> nell'art. S7 della legge <finanziaria> regionale del 30 maggio 1989, n. 18, il decreto ministeriale sopravviene ad un anno di distanza, prescrivendo che per il ripiano vadano utilizzate somme a quella data già trasferite alla Regione e da questa spese nel quadro di quelle esigenze di riordino e risparmio espresse dal citato decreto-legge n. 77 del 1989, normativa, quest'ultima appunto destinata ad attuare una <manovra generale di finanza pubblica> per il <ripianamento del deficit statale nel settore dei trasporti> (sentenze n. 545 e n. 544 del 1989).
A fronte di tale complesso disegno, il valore strumentale della programmazione finanziaria regionale rispetto alla stessa autonomia non può che risaltare: il perseguimento delle funzioni proprie e la realizzazione delle attribuzioni costituzionalmente garantite impongono non soltanto la disponibilità effettiva delle risorse, ma anche la capacita di manovra dei medesimi mezzi finanziari.
La norma che retroattivamente impone di attingere ad erogazioni già impegnate ostacola una programmazione puntuale e più in generale interferisce con una corretta attività di bilancio, entrambe condizioni di una piena realizzazione dell'autonomia finanziaria.
Nel censurato decreto ministeriale, con riguardo all'art. 3, l'omessa osservanza della scansione temporale imposta dal decreto- legge n. 77 del 1989 va quindi ben oltre quel <mancato o incompleto rispetto degli affidamenti che il legislatore statale abbia dato alle amministrazioni regionali>, censurabile solo sul <piano politico> (sentenza n. 245 del 1984), traducendosi viceversa in <una provvista di mezzi finanziari incongrua e, comunque, priva della dovuta certezza> (sentenza n. 314 del 1989) sicuramente idonea ad integrare le lamentate violazioni.
La lesione degli invocati parametri statutari assorbe gli ulteriori profili dedotti.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
- dichiara che non spetta allo Stato provvedere a riconoscere le agevolazioni tariffarie sulle linee di trasporto pubblico locale della Regione Sardegna per l'anno 1990, ne disporre il ripiano delle agevolazioni stesse per l'anno 1989 nei modi e nei termini di cui al decreto ministeriale 18 maggio 1990, n. 963;
- annulla di conseguenza, relativamente alla Regione Sardegna, gli artt. 1 e 3 del detto decreto.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 25/02/91.
Ettore GALLO, Presidente
Francesco Paolo CASAVOLA, Redattore
Depositata in cancelleria il 02/03/91.
Corte costituzionale, sentenza n. 280 del 1995
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
Presidente
Prof. Antonio BALDASSARRE
Giudici
Prof. Vincenzo CAIANIELLO
Avv. Mauro FERRI
Prof. Luigi MENGONI
Prof. Enzo CHELI
Dott. Renato GRANATA
Prof. Giuliano VASSALLI
Prof. Francesco GUIZZI
Prof. Cesare MIRABELLI
Prof. Fernando SANTOSUOSSO
Avv. Massimo VARI
Dott. Cesare RUPERTO
Dott. Riccardo CHIEPPA
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 595 del codice di procedura penale, promosso con ordinanza emessa il 16 marzo 1994 dalla Corte di Cassazione sul ricorso proposto da Tramannoni Renzo, iscritta al n. 415 del registro ordinanze 1994 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 28, prima serie speciale, dell'anno 1994. Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; udito nella camera di consiglio del 5 aprile 1995 il Giudice relatore Mauro Ferri.
Ritenuto in fatto
1. - La Corte di Cassazione - 3u Sezione penale, nell'ambito di un giudizio su ricorso avverso sentenza della Corte di Appello di Ancona, con la quale, a seguito di appello incidentale proposto dal pubblico ministero, la pena inflitta dal primo giudice per la contravvenzione di cui all'art. 21, primo e secondo comma, della legge 16 maggio 1976, n. 319, determinata nel giudizio di primo grado in due mesi e venti giorni di arresto, era stata aumentata a sei mesi di reclusione (sic), ha sollevato, in riferimento all'art. 112 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 595 del codice di procedura penale nella parte in cui prevede il potere del pubblico ministero di proporre appello in via incidentale. L'ordinanza del giudice a quo premette che la questione di costituzionalità dell'art. 595 nei sensi su accennati era stata sollevata, in via subordinata, dal ricorrente sostenendo che l'appello incidentale del pubblico ministero nel processo penale "si pone in palese contrasto con i princìpi di cui agli articoli 3, 24 comma secondo e 112 della Costituzione". In particolare, sotto il profilo dell'art. 3 Cost., il ricorrente negava che l'esistenza dell'appello incidentale dell'imputato, introdotto nel codice vigente, avesse eliminato la disparità tra le due parti processuali, in quanto l'istituto "giova esclusivamente alla posizione del P.M., per il rischio dell'imputato di una 'reformatio in peius', mentre nessuna conseguenza negativa può derivare al P.M., appellante principale, se è l'imputato a proporre appello incidentale". Inoltre - prosegue l'Ordinanza, sempre riferendo la posizione del ricorrente, - "il potere d'impugnazione costituisce esplicazione della funzione d'accusa del P.M.: potere che deve essere esercitato per la sua piena soddisfazione della pretesa punitiva, in base ad una valutazione che deve prescindere dall'eventuale proposizione del gravame dell'imputato".
2. - Ciò premesso, la Corte di Cassazione osserva che la questione di legittimità costituzionale sollevata dal ricorrente non appare manifesta mente infondata, "ma soltanto nella parte in cui viene prospettato il contrasto con l'art. 112 della Costituzione". Al riguardo ricorda la Corte che, vigente il codice del 1930, quando il potere di appello incidentale era conferito soltanto al pubblico ministero (art. 515, comma quarto), vari giudici di merito avevano sollevato incidente di legittimità costituzionale dell'istituto perchè ritenuto contrastante con gli articoli 3 e 24 della Costituzione, mentre altro giudice di merito (il Tribunale di Venezia) aveva profilato, oltre alle questioni suddette, anche il contrasto dell'istituto con l'art. 112 della Costituzione; e che la questione era stata da questa Corte costituzionale, con sentenza n. 177 del 10 novembre 1971, dichiarata infondata per la "disparità di trattamento nell'esercizio del diritto di difesa (articoli 3 e 24)", perchè "l'appello incidentale, consentito ad una delle parti del processo, turba l'equilibrio del contraddittorio". "Tuttavia" - prosegue l'Ordinanza del giudice a quo - nella stessa sentenzaLA CORTE COSTITUZIONALEaveva considerato "assorbente" il profilo della violazione dell'art. 112 (dovere di impugnazione come estrinsecazione di quello, non discrezionale, dell'esercizio dell'azione penale; e quindi comportamento contraddittorio nell'esperire il gravame dopo aver lasciato scadere i termini dell'appello principale, allo scopo di "contenere l'iniziativa dell'imputato", ostacolando, in pratica, il diritto di quest'ultimo alla tutela giurisdizionale. "Quanto meno" questo profilo - sostiene l'Ordinanza del giudice rimettente - sopravvive anche nel sistema del nuovo codice, risultante dagli articoli 595 e seguenti, attuativi della direttiva n. 90 dell'art. 2 n. 3 della legge-delega del 16 febbraio 1987.
"Si rende quindi necessaria - sempre ad avviso della Corte di Cassazione - una nuova pronuncia della Corte Costituzionale, dato che - come si evince chiaramente dalla motivazione della precedente sentenza ablativa (n. 177/1971) - l'obbligo del P.M. di attuare la pretesa punitiva dello Stato non può ritenersi esaurito con il promovimento dell'azione penale, ma permane nelle fasi successive del, in modo particolare quando si tratta di "verificare" un giudizio di insostenibilità dell'accusa e decidere per l'acquiescenza o per l'impugnazione".
3. - È intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, che ha chiesto che la questione sia dichiarata infondata, riportandosi a un proprio atto di intervento relativo ad altro giudizio (R.O. n. 339 del 1993), riguardante la mancata attribuzione al pubblico ministero del potere di proporre appello incidentale avverso le sentenze - inappellabili, per tale organo, in via principale - pronunciate a seguito di rito abbreviato.
Considerato in diritto
1. - La Corte di Cassazione dubita della legittimità costituzionale dell'art. 595 del codice di procedura penale nella parte in cui detto articolo prevede il potere del pubblico ministero di proporre appello incidentale quando non abbia proposto appello principale: e ciò in relazione all'art. 112 della Costituzione, in quanto l'obbligo di esercitare l'azione penale, ivi sancito, non può ritenersi esaurito con il promovimento dell'azione penale, ma permane nelle fasi successive del procedimento, in modo particolare quando si tratta di verificare un giudizio di insostenibilità dell'accusa e di decidere per l'acquiescenza o per l'impugnazione. Sotto tale profilo, secondo il giudice rimettente, il fatto che il codice vigente - diversamente da quello del 1930, che prevedeva il solo appello incidentale del pubblico ministero - abbia esteso, in conformità di esplicita direttiva della legge-delega del 16 febbraio 1987, n. 81, il diritto di appello incidentale a tutte le parti processuali, non avrebbe rilievo. Varrebbero infatti, tuttora, le enunciazioni che il giudice rimettente coglie nella sentenza n. 177 del 1971, con le quali l'appello incidentale, allora previsto per il solo pubblico ministero, fu dichiarato costituzionalmente illegittimo anche per contrasto con l'art. 112 della Costituzione.
2. - La questione non è fondata.
3. - L'appello incidentale nel processo penale - ancorchè sia risultato statisticamente marginale tanto sotto l'impero del codice abrogato quanto sotto l'impero di quello vigente - è istituto segnato da una storia complessa e controversa ed è stato oggetto di adesioni e di critiche variamente motivate. Per quanto in particolare riguarda l'appello del pubblico ministero, è da ricordare che il suo ingresso nel sistema del diritto processuale penale italiano fu propugnato per la prima volta all'epoca della formazione di quello che poi divenne il codice del 1913; ma la proposta non venne accolta nè nel progetto definitivo nè nel codice. L'art. 480 del codice medesimo contemplò invece, nel comma secondo, il divieto di reformatio in peius in danno dell'imputato quando appellante fosse soltanto l'imputato stesso o alcuna delle altre parti private abilitate a proporre appello ai sensi dell'art. 128, e non vi fosse invece appello del pubblico ministero. Tuttavia il giudice d'appello, che avesse ritenuto di dover dare del reato una diversa definizione anche più grave, purchè nei limiti della competenza del giudice di primo grado, poteva stabilire la nuova definizione, pronunciando in conformità ad essa il dispositivo della sentenza (art. 480, comma terzo). Il divieto di reformatio in peius, inteso nel contenuto e nei limiti sanciti dal codice del 1913, fu oggetto di aspra contestazione al momento della formazione del codice del 1930. In particolare, il Guardasigilli dell'epoca sostenne in un discorso al Senato, e scrisse nella relazione al Progetto preliminare, che "una volta che l'imputato appella e che il processo viene portato avanti al giudice di secondo grado, questo, se ritiene inadeguata la pena inflitta dal primo giudice, deve avere il potere di aumentarla; altrimenti il suo giudizio sarebbe incompleto e incoerente". E ancora: "Quando il rapporto processuale venga mantenuto in vita mediante un atto sia pure del solo imputato, il giudice assume e mantiene il potere-dovere di conoscere e di decidere, senza che alcuno possa limitarglielo o privarnelo, fuori dei casi eccezionalmente consentiti dalla legge". E a queste considerazioni, chiamate di "ragione logico-giuridica", altre ne aggiungeva "d'ordine pratico": "conviene togliere all'imputato la facoltà d'appellare senza alcun rischio, anzi col vantaggio, nella peggiore delle ipotesi, di differire il momento dell'esecuzione della condanna.
Così facendo si ridurrà il numero degli appelli a quei soli casi che possono apparire meritevoli di riesame, perchè l'imputato, conscio della possibilità di reformatio in peius, si guarderà bene dal proporre la impugnazione, quando non abbia la coscienza di meritare l'assoluzione, o quanto meno una diminuzione di pena. Se egli reclama un nuovo giudizio, deve assoggettarvisi completamente; se non vuole correre alcun rischio, si accontenti della prima sentenza". Queste proposizioni, nella loro durezza e categoricità, non incontrarono il favore degli organismi interpellati sui contenuti del progetto preliminare. Di conseguenza il ministro Guardasigilli modificò le proprie vedute originarie; e - come volle scrivere nella relazione al progetto definitivo - non per le querimonie sprovviste di buone ragioni, che mai sarebbero state idonee a rimuoverlo dalla sua prima idea, ma per essersi convinto che "se la possibilità pratica della reformatio in peius appare come freno efficace al dilagare degli appelli, l'istituto giuridico, che vorrebbe porsi a base di tale pratica conseguenza, cioè il carattere pienamente devolutivo dell'appello, non può andare esente da critiche.
Questo carattere dell'appello, infatti, implica la facoltà, data anche alle parti private, di far cadere in tutto la sentenza, con un semplice atto unilaterale di volontà, negando così la natura stessa decisoria della sentenza, e trasformando il giudizio di primo grado in una specie di procedimento preparatorio, duplicato superfluo del procedimento d'istruzione". E proseguiva: "Ho perciò modificato l'art. 520 (divenuto poi l'art. 515 del codice del 1930), riconoscendo al pubblico ministero la facoltà di proporre appello incidentale, quando l'impugnazione sia stata proposta dal solo imputato. In questo modo le temerarietà degli imputati rimangono frenate dalla possibilità dell'appello incidentale del pubblico ministero (che naturalmente ha tutti gli effetti dell'appello principale dello stesso pubblico ministero), e si conserva il divieto della riforma in peggio in quel caso in cui, essendo stato proposto l'appello dal solo imputato, il pubblico ministero non abbia ritenuto che mettesse conto d'appellare a sua volta". Gli stessi concetti il Guardasigilli ripeteva nella relazione al Re (n. 188), osservando che, mentre la Commissione parlamentare aveva espresso il parere che l'appello incidentale del pubblico ministero fosse da abolire, egli aveva "ammesso codesto appello esclusivamente per attenuare il rigore della regola della incondizionata possibilità della reformatio in peius accolta nel progetto preliminare". L'istituto dell'appello incidentale del pubblico ministero - adottato, come si è visto, nell'intento di permettere una reformatio in peius della sentenza dopo che fosse stato proposto appello principale da parte del solo imputato - non andò esente da critiche neanche dopo l'entrata in vigore del codice del 1930. Da taluno esso fu chiamato "istituto anacronistico e antigiuridico", criticandosene soprattutto la strumentalità vantata nelle relazioni del Guardasigilli in funzione di "mezzo di ritorsione" contro gli appelli dell'imputato. Da altri fu messo invece in rilievo il suo carattere sostitutivo rispetto alla soluzione della piena devolutività di ogni appello, intravvista ad un certo momento con favore da una certa corrente di pensiero, come soluzione globale e non compromissoria. Altri invece, severamente criticando l'enunciazione dello "appello- spauracchio" fatta nelle relazioni ufficiali sopra menzionate, sostenne la piena validità logica e giuridica dell'istituto come "esercizio di un potere giuridico tendente ad impedire la definitività di una determinata situazione giuridica". Queste ed analoghe valutazioni si collegavano alla definizione, pure oggetto di dibattito, dei limiti dell'appello incidentale, visto come un mezzo diretto a permettere l'aumento della pena, la revoca di eventuali benefici e l'applicazione di pene accessorie, misure di sicurezza e ogni altro provvedimento imposto o consentito dalla legge, ma non mai come un mezzo diretto ad investire anche capi della decisione di primo grado ai quali non fosse riferibile l'appello dell'imputato: ciò che veramente avrebbe convertito l'appello incidentale in un "appello di dispetto". Altri, e con essi la giurisprudenza prevalente, sostenevano invece che l'appello incidentale del pubblico ministero potesse investire anche punti di decisione diversi da quelli cui si riferiva l'appello dell'imputato e del tutto autonomi. Altro punto oggetto di controversia fu, sempre sotto il vigore del codice del 1930, quello concernente la limitazione dell'effetto devolutivo dell'appello incidentale del pubblico ministero al coimputato appellante e al coimputato non appellante che abbia partecipato al giudizio d'appello, evidentemente intervenuto, quest'ultimo, per giovarsi dell'effetto estensivo dell'appello principale.
Secondo alcuni questa regola avrebbe vulnerato il principio della "indivisibilità dell'azione penale". Nonostante queste ed altre critiche, l'istituto dell'appello incidentale del pubblico ministero rimase indenne nella vasta riforma del processo penale attuata con la legge 18 giugno 1955, n. 517, che estese una quantità di diritti dell'imputato e dette maggiore spazio alla sua difesa. Esso cadde soltanto in virtù della ricordata sentenza n. 177 del 1971 di questa Corte costituzionale, della quale più oltre si dirà.
4. - Nei progetti susseguitisi durante più di un quarto di secolo per la riforma del codice di procedura penale del 1930 l'appello incidentale del pubblico ministero subì alterne vicende. Nel 1969, durante i lavori parlamentari per la prima legge-delega - e precisamente durante l'esame del disegno di legge di iniziativa del Governo n. 380 presentato dal Guardasigilli alla Camera il 5 settembre 1968 - fu proposto, in seno alla Camera dei Deputati (IV^ Commissione giustizia, seduta antimeridiana del 27 febbraio 1969), ed approvato con il parere favorevole del Governo, un emendamento aggiuntivo volto ad introdurre, nell'art. 2, contenente le direttive per il legislatore delegato, il punto 51 del seguente testuale tenore: "Parità tra il pubblico ministero e l'imputato in ordine all'eventuale appello incidentale".
Il Parlamento devolveva dunque al Governo la scelta tra il mantenimento e la soppressione dell'istituto dell'appello incidentale nel processo penale, ma imponeva allo stesso, nel caso di scelta positiva, di estendere il diritto d'appello anche all'imputato e in condizioni di parità rispetto all'appello incidentale lasciato al pubblico ministero. Detta direttiva, approvata dall'Assemblea della Camera il 22 maggio 1969, ivi divenuta il punto 59 ed integrata con il punto 61 ("divieto di reformatio in peius nel caso di appello del solo imputato"), fu approvata anche dal Senato della Repubblica il 4 dicembre 1970, quando il punto relativo assunse il n. 65, divenendo poi (sempre nello stesso letterale tenore) il n. 63 nel testo riapprovato dalla Camera dei Deputati nelle sedute del 18, 19 e 20 ottobre 1971 e successivamente ritrasmesso dal Senato alla Camera. Scioltasi anticipatamente la quinta legislatura, e insediatesi le Camere della sesta, in data 5 ottobre 1972 il Guardasigilli presentava alla nuova Camera dei Deputati il disegno di legge n. 864, contenente il nuovo testo di legge-delega.
In esso la direttiva soprariportata più non figura, risultando anzi sostituita dalla seguente (n. 67): "esclusione dell'istituto dell'appello incidentale". Veniva invece mantenuto il "divieto di reformatio in peius nel caso di appello del solo imputato" (direttiva 69). Frutto dichiarato, questa nuova scelta abolitiva dell'appello incidentale, della sentenza n. 177 del 1971 di questa Corte, intervenuta nel frattempo, come si è detto. Le due direttive ora riportate rimasero immutate nella legge-delega 3 aprile 1974 n. 108, dove assunsero i numeri, rispettivamente, 72 e 74; e ad esse si uniformò, ovviamente, il progetto preliminare del codice di procedura penale divulgato nel 1978 ma non divenuto mai legge dello Stato. La relazione al Progetto stesso sottolinea peraltro nettamente di avere escluso, in conformità dei lavori preparatori della legge- delega, anche l'effetto pienamente devolutivo dell'impugnazione "scelta che è sembrata alla Commissione (ministeriale) del tutto preclusa". Del tutto diverse furono invece, in merito all'istituto dell'appello incidentale, le scelte del Parlamento nel corso dell'ottava e della nona legislatura, i cui lavori approdarono alla nuova legge- delega del 16 febbraio 1987 n. 81 e, attraverso questa, al codice vigente. Nel testo unificato approvato dalla Camera dei Deputati il 18 luglio 1984 e trasmesso al Senato il 3 agosto 1984 (n. 916), sotto il punto 87 dell'art. 2 compare la seguente direttiva: "potere delle parti di proporre appello incidentale; perdita di efficacia dell'appello incidentale in caso di inammissibilità dell'appello principale": una disciplina, come si vede, contrastante con quella del codice del 1930, sia per l'estensione dell'appello incidentale a tutte le parti, anche diverse dal pubblico ministero, sia per la prevista perdita di efficacia dell'appello incidentale in tutti i casi di inammissibilità (dunque anche di rinuncia) dell'appello principale (il codice abrogato, nell'art. 515, ultimo comma, manteneva invece l'efficacia dell'appello incidentale del pubblico ministero anche nel caso di rinuncia dell'imputato alla propria impugnazione). Al punto 89 di detto testo unificato rimaneva sancito il "divieto di reformatio in peius in caso di appello del solo imputato".
Queste direttive rimasero immutate attraverso l'esame condotto dal Senato della Repubblica, essendosi ritenuto soltanto di dovere aggiungere nella seconda parte del punto 87 (divenuto punto 88 e successivamente punto 90) l'espressa menzione della rinuncia a fianco di quella della inammissibilità dell'appello principale. La Camera non modificò il testo emendato dal Senato, con la conseguenza che il punto 90 dell'art. 2 della legge-delega 16 febbraio 1987, n. 81, risultò del seguente tenore: "potere delle parti di proporre appello incidentale; perdita di efficacia dell'appello incidentale in caso di inammissibilità o di rinuncia all'appello principale". Da questa direttiva scaturì il testo dell'art. 587 del progetto preliminare e del progetto definitivo, divenuto poi l'art. 595 del codice di procedura penale del 1989, sottoposto all'odierno scrutinio di costituzionalità.
5. - Così ricordati i precedenti e l'iter legislativo dell'articolo 595 del codice di procedura penale, giova ora definire la ragion d'essere dell'istituto dell'appello incidentale nel processo penale, quale è dato desumerla sia dal dibattito parlamentare che dall'elaborazione dottrinale e giurisprudenziale sull'argomento. Par chiaro che la ragion d'essere dell'istituto trova le proprie radici nel sistema generale delle impugnazioni, e più specificamente in quello dell'appello, intendendosi con l'appello incidentale assicurare a ciascuna delle parti (od anche, in ipotesi, ad una soltanto di esse) il potere di esprimere le proprie scelte dopo avuta la piena conoscenza della posizione assunta dalle altre parti in ordine alla sentenza di primo grado. Ogni parte, nel sistema del processo, può, alla luce della sentenza di primo grado, mantenere le posizioni originariamente assunte e quindi, ove la sentenza non abbia dato ad esse piena soddisfazione, impugnare la decisione stessa: ed è qui che si colloca il rimedio dell'appello principale. Ma la parte stessa può anche decidere di rivedere le proprie posizioni originarie e di fare acquiescenza alla sentenza che non abbia dato soddisfazione alle proprie ragioni o abbia dato ad esse una soddisfazione soltanto parziale. Diversa è invece la situazione della parte rispetto alle prospettive di una sentenza futura quale è quella del giudice di secondo grado, quando una divergenza di quest'ultima rispetto a quella resa dal giudice di primo grado sia divenuta possibile per effetto dell'appello proposto da altra parte processuale, in particolare da quella le cui ragioni od istanze siano contrapposte alle proprie. In questo caso appare equo e ragionevole assicurare alla parte, che si era risolta a fare acquiescenza alla sentenza del primo giudice, il mezzo per impedire che la sentenza di secondo grado possa sacrificare le proprie ragioni al di là di quanto già accaduto per effetto della sentenza di primo grado. In modo particolare, per stare al tema, il pubblico ministero può bene accettare una sentenza che abbia concesso all'imputato circostanze attenuanti da lui contrastate o una pena meno alta di quella da lui richiesta; ma ben può, viceversa, non essere disposto ad accettare che quella pena sia nel giudizio d'appello ulteriormente diminuita o che alle circostanze attenuanti riconosciute in primo grado altre se ne aggiungano per effetto della sentenza d'appello: sì che se ritiene di avere un mezzo più efficace per impedire questo risultato, facendo valere proprie doglianze autonome e diverse da quelle consistenti nella semplice resistenza contro l'accoglimento dell'appello principale dell'imputato, è equo e ragionevole che gli sia consentito di usarlo. E ciò tanto più in relazione all'esistenza di un espresso divieto, sancito nell'ordinamento, di una reformatio in peius da parte del giudice di secondo grado che sia investito del solo appello dell'imputato. Potrebbe dirsi, secondando una definizione dottrinale proposta in relazione al sistema del codice del 1930, che l'appello incidentale è per il pubblico ministero un onere, nel senso che egli deve farvi ricorso solo se intende cercare di impedire quegli effetti favorevoli per l'imputato che potrebbero derivare da un accoglimento dell'appello principale dall'imputato stesso proposto. Queste considerazioni svelano l'equivoco in cui cadono i critici dell'istituto quando ne assumono una contraddittorietà logica asserendo che ogni sentenza debba essere guardata in sè e per sè, per ciò che essa rappresenta e che soltanto su questa valutazione possa fondarsi l'esercizio del potere d'appello. Essi trascurano del tutto la visione, pur legittima e in qualche caso doverosa, di quella che potrebbe essere, nella stessa causa, una sentenza del giudice d'appello nonchè il correlativo diritto di premunirsi contro i suoi possibili contenuti. Il legislatore, con l'appello principale e l'appello incidentale, conferisce alle parti due poteri diversi, che logicamente si collocano e si svolgono in due momenti diversi. Il primo potere è quello di dolersi della sentenza impugnata in sè stessa: e a tal proposito sono stabiliti i termini per l'impugnazione principale.
Il secondo potere è quello che si riferisce alla prevenzione di effetti non desiderati ma possibili ad opera della futura sentenza di secondo grado: e a ciò si riferisce il secondo momento, in quanto i termini per fare uso dell'appello incidentale decorrono proprio dalla conoscenza dell'esistenza e del contenuto dell'appello principale avversario. È pertanto del tutto fuorviante guardare, come taluno fa, all'appello incidentale con la stessa ottica con cui si guarda all'appello principale. L'appello principale attiene infatti alla posizione che l'avente diritto all'appello stesso intende assumere, dopo la propria valutazione, nei confronti della sentenza di primo grado, mentre l'appello incidentale viene valutato e proposto con riguardo a quella che potrebbe essere una sentenza futura a seguito dell'appello principale dell'altra parte. Questa essendo la ragion d'essere dell'istituto, appare di scarso rilievo il fatto, enfatizzato nei lavori preparatori del codice del 1930 e al quale si fa riferimento anche in quelli preparatori del codice vigente, oltre che da una parte della dottrina e della giurisprudenza, che la previsione di un potere di appello incidentale conferito dalla legge al pubblico ministero possa servire da "deterrente" per l'imputato, in modo dal trattenerlo dal proporre appelli principali più o meno fondati, intesi spesso non solo a migliorare la propria sorte nel giudizio d'appello, ma anche a realizzare, in relazione alla prevedibile lunghezza dei giudizi di impugnazione, il traguardo della prescrizione del reato. La prevenzione di siffatti pericoli non è che un effetto collaterale e non necessario dell'istituto dell'appello incidentale del pubblico ministero. Come rispetto ad altri istituti del diritto, bisogna saper distinguere anche in questo caso quella che è la giuridica ragion d'essere dell'appello incidentale da quelli che ne possono essere gli effetti. Comunque, il doppio grado di giurisdizione, così diffuso e tradizionale nell'ordinamento italiano, non è oggetto di un diritto elevato a rango costituzionale, sì che ogni scelta circa l'adozione o meno dell'appello incidentale nel processo penale non può che essere riservata al legislatore.
6. - A questo punto si deve esaminare la questione di costituzionalità sollevata dal giudice rimettente sulla base di alcune proposizioni contenute nella sentenza n. 177 del 1971 di questa Corte e del dispositivo con cui la stessa ebbe ad eliminare dall'ordinamento processuale del tempo l'istituto dell'appello incidentale del pubblico ministero. La sentenza ora menzionata consta di due parti ben distinte. In una prima parte (n. 3 della sentenza) la Corte, considerando fondate le questioni sollevate dai giudici di merito sulla base degli articoli 3 e 24 visti nel loro complesso, rileva che "l'appello incidentale, essendo consentito ad una sola delle parti nel processo, turba l'equilibrio del contraddittorio, che si polarizza nell'imputato (e nel suo difensore), da un lato, e, dall'altro nel pubblico ministero, portatori di interessi solitamente contrapposti". Ed aggiunge che la fondatezza delle censure mosse alla norma denunciata sotto il duplice riflesso degli articoli 3 e 24 della Costituzione "è avvalorata dall'inciso, contenuto nello stesso art. 515, quarto comma, cod. proc. pen., relativo all'inefficacia, ai fini del prosieguo del giudizio di secondo grado, della rinuncia dell'imputato al proprio appello; e dall'ultima parte di detto articolo, relativa al coimputato non appellante". Nel successivo paragrafo (n. 4) la sentenza n. 177 del 1971 prende poi in considerazione la censura mossa all'art. 515, quarto comma, del codice di procedura penale del 1930 da uno dei giudici rimettenti in relazione all'asserito contrasto dell'articolo stesso non soltanto con gli articoli 3 e 24, ma anche con l'art. 112 della Costituzione. E considerando "assorbente" questo profilo di incostituzionalità rispetto ai due profili precedentemente riconosciuti come sufficienti, sia pure nel loro insieme, per il giudizio di illegittimità costituzionale della disposizione denunciata, contiene le proposizioni dalle quali parte l'odierno giudice rimettente per rilevare il possibile contrasto dell'istituto dell'appello incidentale del pubblico ministero reintrodotto nell'art. 595 del codice vigente in concomitanza con il riconoscimento dello stesso diritto alle altre parti processuali, ed in particolare all'imputato, con l'art. 112 della Costituzione; e ciò a causa del collegamento tra la impugnazione del pubblico ministero in materia penale e l'obbligo di esercitare l'azione penale sancito appunto nella suddetta norma costituzionale, obbligo rispetto al quale l'appello principale del pubblico ministero è dalla sentenza definito "estrinsecazione ed aspetto" e qualificato "atto conseguente, obbligatorio e non discrezionale". Di tale paragrafo 4 della sentenza 177/1971 sono possibili due letture: la prima, rigorosamente ancorata ad alcune proposizioni, dalle quali può evincersi che convincimento della Corte sia che il potere di impugnazione del pubblico ministero è un potere-dovere scaturente direttamente dall'obbligo costituzionale di esercitare l'azione penale; ed una seconda, per cui, pur sempre con riferimento ai doveri nascenti per il pubblico ministero nel quadro segnato dall'articolo 112, sembra che la Corte censuri l'uso improprio che il pubblico ministero può fare dell'appello incidentale "allo scopo pratico di contenere l'iniziativa dell'imputato, che è quanto dire di ostacolarne l'esplicazione del diritto di tutela giurisdizionale e di difesa giudiziaria (ex art. 24, primo e secondo comma, Cost.)". Con questa proposizione finale la sentenza sembra così tornare, mediante l'ulteriore passaggio dell'art. 112, alla censura di incostituzionalità dell'art. 515, quarto comma, codice abrogato, sotto il profilo della violazione del diritto di difesa dell'imputato.
7. - Ora, quale che sia l'interpretazione più corretta da darsi alla citata sentenza n. 177/1971, deve ritenersi che il potere di appello del pubblico ministero non può riportarsi all'obbligo di esercitare l'azione penale come se di tale obbligo esso fosse - nel caso in cui la sentenza di primo grado abbia disatteso in tutto o in parte le ragioni dell'accusa - una proiezione necessaria ed ineludibile. Nei lavori preparatori della Costituzione (resoconti delle sedute della Commissione per la Costituzione, detta anche "Commissione dei settantacinque" e resoconti delle sedute dell'Assemblea Costituente), non è dato rinvenire la benchè minima traccia di un collegamento tra obbligo di esercitare l'azione penale e potere di impugnazione - in particolare potere d'appello - del pubblico ministero quasi che quest'ultimo fosse un'estrinsecazione od una conseguenza necessaria, e pertanto configurante un nuovo dovere, del dovere di esercitare l'azione penale. Dall'esame degli atti suddetti risulta che la costituzionalizzazione dell'obbligo di esercitare l'azione penale fu trattata sotto i tre seguenti profili: rapporti del pubblico ministero con il potere esecutivo nel momento iniziale dell'azione penale; possibilità di prevedere eccezioni a tale obbligo nel senso di possibili sospensioni o ritardi nel suo esercizio; controllo del giudice sui possibili casi di mancata attivazione del pubblico ministero nei confronti di una determinata notitia criminis. Tutti argomenti attinenti al momento iniziale dell'azione penale, senza il minimo, neanche implicito, riferimento ai momenti successivi, e tanto meno a giudizi d'impugnazione. Ma, al di là di queste constatazioni, si deve rilevare che tutto il sistema delle impugnazioni penali, ed in particolare dell'appello, tanto sotto il codice abrogato quanto sotto il codice vigente, depone nel senso che il potere del pubblico ministero di proporre appello avverso la sentenza di primo grado, anche se in certe situazioni ne possa apparire istituzionalmente doveroso l'esercizio, non è riconducibile all'obbligo di esercitare l'azione penale. Innanzi tutto il pubblico ministero è abilitato dalla legge a fare acquiescenza alla sentenza di primo grado, quali che siano state le sue conclusioni e quale che sia stato il contenuto della sentenza. Questa acquiescenza è testualmente prevista dalla legge nell'art. 570, primo comma, del codice di procedura penale (art. 191 del codice abrogato) e non è concepibile che la legge processuale preveda istituti che possono essere in contrasto con doveri funzionali o addirittura con obblighi elevati a rango costituzionale. Da tale possibile acquiescenza deriva, come unica conseguenza prevista dall'ordinamento processuale, il potere di impugnazione del procuratore generale presso la Corte d'appello (v. ancora il citato art. 570, comma primo). Di qui un secondo argomento a favore della impossibilità di considerare il potere di impugnazione del pubblico ministero come inerente all'obbligo di esercitare l'azione penale. Ed infatti un potere conferito alternativamente a due soggetti mal si concilia con la doverosità in capo ad uno solo di essi. Per di più uno dei due soggetti del diritto d'appello alternativamente previsti dall'ordinamento - e cioè il procuratore generale - non è di regola il titolare dell'obbligo di esercitare l'azione penale. In terzo luogo l'appello, come ogni altra impugnazione del pubblico ministero in materia penale, è rinunciabile nelle forme previste dall'art. 589 del codice di procedura penale (art. 206 del codice del 1930), senza che la legge richieda al riguardo alcuna motivazione. Non risulta che siano stati ravvisati profili di illegittimità costituzionale nei suddetti istituti; nè sembra che i ricordati comportamenti del pubblico ministero (acquiescenza, rinunzia) siano suscettibili di censura sotto il profilo della violazione di obblighi funzionali. Se di un dovere in senso lato si può parlare per il pubblico ministero di fronte all'esercizio del potere d'impugnazione, tale dovere è riconducibile a quei generali doveri che competono al pubblico ministero in relazione alle funzioni ad esso demandate, doveri che nel vigente ordinamento giudiziario (art. 73 del r.d. 30 gennaio 1941, n. 12) sono indicati con riferimento alla vigilanza sull'osservanza delle leggi e sulla pronta e regolare amministrazione della giustizia e, con specifico riferimento al campo penale, come promovimento della repressione dei reati.
Nel suddetto ordinamento lo specifico obbligo di iniziare ed esercitare l'azione penale è indicato nel separato articolo 74. Da questo insieme di riferimenti è dato trarre la conclusione che quando il pubblico ministero deve decidere se impugnare o meno una sentenza, egli deve interrogare la propria coscienza in relazione al contenuto del provvedimento impugnabile e determinarsi secondo gli interessi generali della giustizia. Questo vale per l'appello principale; ma analoga considerazione può farsi per l'appello incidentale, con il correttivo del particolare profilo derivante dalla visione che il pubblico ministero possa essere indotto ad avere circa i contenuti della sentenza che il giudice di secondo grado potrebbe essere tratto a pronunciare in accoglimento dell'appello principale dell'imputato pervenendo a conclusioni che egli ritiene, ove fossero adottate, contrarie a giustizia. Se dunque è legittima l'acquiescenza del pubblico ministero nei confronti della sentenza di primo grado, non è accoglibile la tesi secondo la quale tutti i poteri che al pubblico ministero stesso competono dovrebbero esaurirsi nella proposizione dell'appello principale, con ciò restandogli precluso, come incompatibile con i suoi doveri, il ricorso all'appello incidentale. Si deve pertanto escludere che l'art. 595 del codice di procedura penale, nella parte in cui prevede, con quello di altre parti processuali, l'ap pello incidentale del pubblico ministero, sia da considerarsi costituzionalmente illegittimo perchè in contrasto con l'art. 112 della Costituzione. dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 595 del codice di procedura penale, sollevata, in riferimento all'art. 112 della Costituzione, con l'ordinanza della Corte di Cassazione in epigrafe indicata.
Corte costituzionale, sentenza n. 288 del 1997
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Dott. Renato GRANATA Presidente
- Prof. Giuliano VASSALLI Giudice
- Prof. Francesco GUIZZI _
- Prof. Cesare MIRABELLI _
- Prof. Fernando SANTOSUOSSO _
- Avv. Massimo VARI _
- Dott. Cesare RUPERTO _
- Dott. Riccardo CHIEPPA _
- Prof. Gustavo ZAGREBELSKY _
- Prof. Valerio ONIDA _
- Prof. Carlo MEZZANOTTE _
- Avv. Fernanda CONTRI _
- Prof. Guido NEPPI MODONA _
- Prof. Piero Alberto CAPOTOSTI _
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 443, comma 1, lettera b), del codice di procedura penale, promosso con ordinanza emessa il 2 ottobre 1996 dalla Corte di cassazione sui ricorsi riuniti proposti dal Procuratore generale militare della Repubblica presso la Corte militare d'appello di Roma nei confronti di Ruggerini Cesare e da Ruggerini Cesare, iscritta al n. 1 del registro ordinanze 1997 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 5, prima serie speciale, dell'anno 1997.
Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 7 maggio 1997 il Giudice relatore Guido Neppi Modona.
Ritenuto in fatto
1. Con sentenza in data 22 luglio 1994, il Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale militare di Roma, all'esito del giudizio abbreviato, condannava Cesare Ruggerini per il reato di tentata truffa pluriaggravata alla pena di mesi quattro di reclusione militare, sostituita con la libertà controllata di mesi otto. Il Ruggerini proponeva appello, formalmente qualificato _atto di impugnazione_, osservando che avverso le sentenze pronunciate a seguito di giudizio abbreviato, con il quale sono applicate sanzioni sostitutive, l'appello dell'imputato doveva ritenersi ammissibile e, subordinatamente, eccepiva l'incostituzionalità dell'art. 443, comma 1, lettera b), del codice di procedura penale, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, sulla base dei princìpi già espressi dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 363 del 1991, con la quale era stata dichiarata l'illegittimità costituzionale della medesima norma nella parte in cui prevedeva l'inappellabilità per l'imputato delle sentenze pronunciate a seguito di giudizio abbreviato recanti una condanna a pena che _non deve essere eseguita_.
La Corte militare di appello, qualificata l'impugnazione come ricorso per cassazione, trasmetteva gli atti alla Corte di cassazione.
Dal canto suo, la Corte di legittimità, con ordinanza in data 3 luglio 1994, preso atto della volontà _delle parti_ di proporre appello e ritenuta pregiudiziale la soluzione della questione di legittimità ai fini della eventuale investitura della Corte di cassazione, disponeva la restituzione degli atti alla Corte militare di appello.
Con ordinanza del 17 aprile 1996, la Corte di merito dichiarava la manifesta infondatezza della questione di legittimità e, qualificato come ricorso l'impugnazione proposta dall'imputato, ordinava la trasmissione degli atti alla Corte di cassazione.
2. Con ordinanza in data 2 ottobre 1996, la Corte di cassazione ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 443, comma 1, lettera b), cod. proc. pen., in riferimento agli artt. 2, 3, 10 e 24 della Costituzione.
Osserva in primo luogo la Corte che la questione sollevata dall'imputato deve ritenersi ammissibile, nonostante la Corte militare di appello si fosse già espressa nel senso della manifesta infondatezza, in quanto spetta alla Corte di cassazione, quale giudice funzionalmente sovraordinato e al quale é attribuita la competenza sulle impugnazioni a norma dell'art. 443, comma 1, lettera b), cod. proc. pen., la legittimazione a conoscere di ogni doglianza, eccezione o questione proposta con le impugnazioni; tanto più che, in base all'art. 24 della legge 11 marzo 1953, n. 87, l'eccezione di incostituzionalità di una norma di legge, respinta per manifesta irrilevanza o infondatezza, può essere riproposta in ogni grado ulteriore del processo.
Ciò premesso, ad avviso della Corte rimettente la questione deve ritenersi non manifestamente infondata. Al riguardo, il giudice rimettente osserva che anche nel caso di applicazione delle sanzioni sostitutive di pene detentive brevi si ha intervento di un elemento estrinseco alla natura del reato, rappresentato dal potere discrezionale riservato al giudice dall'art. 58 della legge 24 novembre 1981, n. 689, nei limiti fissati dalla legge e tenuto conto dei criteri indicati dall'art. 133 cod. pen., che sono poi i medesimi da osservarsi in tema di sospensione condizionale della pena: da qui l'assimilazione della situazione presa in esame dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 363 del 1991 (sentenza, emessa a seguito di giudizio abbreviato, di condanna a pena condizionalmente sospesa) a quella del presente procedimento (sentenza di condanna, emessa a seguito di giudizio abbreviato, a pena detentiva sostituita con la libertà controllata).
Inoltre, osserva la Corte rimettente, é possibile che la sanzione sostitutiva sia convertita in quella detentiva sostituita al verificarsi delle condizioni previste negli artt. 66 e 72 della legge n. 689 del 1981, con la conseguenza che il condannato, cui l'appello sia negato in forza della sostituzione operata con la sentenza di condanna, non sarebbe poi reintegrato nel diritto di esperire tale mezzo di gravame. Ciò determinerebbe una irrazionale disparità di trattamento rispetto a chi, condannato a pena detentiva non sostituita, ha facoltà di proporre appello senza alcuna limitazione; nè la lesione della par condicio potrebbe ritenersi giustificata dal verificarsi solo _postumo_, nel primo caso, delle condizioni per il ripristino della pena detentiva. Appare dunque ravvisabile, anche sotto questo profilo, la lesione dell'art. 3 della Costituzione.
Ma la norma denunciata può ritenersi in contrasto anche con gli artt. 2 e 10 Cost., con riferimento al protocollo addizionale n. 7 della convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, il cui art. 2, comma 1, stabilisce che ogni persona condannata ha diritto di fare esaminare da una giurisdizione superiore la dichiarazione di colpevolezza o la condanna. Si tratta, osserva il Collegio rimettente, _di diritto internazionale formalmente riconosciuto dallo Stato italiano per ratifica dei relativi patti_ (legge 9 aprile 1990, n. 98), che sembra delineare la necessità che nell'ordinamento di ogni Stato aderente alla convenzione sia previsto il doppio grado di giurisdizione. Tale principio, con specifico riferimento all'ordinamento italiano, implica _il concetto di un doppio grado di merito, riguardante il vaglio delle prove di colpevolezza e l'applicazione dei parametri determinativi della sanzione, posto che il diverso giudizio di cassazione, delimitato al solo controllo della correttezza logico-giuridica di giudizio inferiore, non riguarda direttamente la dichiarazione di colpevolezza o di condanna_. Sarebbe pertanto da escludere che la _giurisdizione superiore_ di cui alla citata previsione convenzionale possa identificarsi nel giudizio di cassazione.
3. Nel giudizio é intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, che ha concluso per la non fondatezza della questione. La più favorevole situazione venutasi a creare in capo all'imputato con l'applicazione di sanzione sostitutiva di quella detentiva non può comportare una ulteriore agevolazione per lo stesso soggetto che abbia, in sostanza, causato con il proprio comportamento il verificarsi delle condizioni per la conversione della sanzione sostitutiva in pena detentiva. Si tratta di circostanza non solo successiva alla decisione non appellabile, ma anche basata su comportamenti antidoverosi dell'imputato, che come tali non sono meritevoli di tutela.
Incongruo sarebbe anche il riferimento alla Convenzione europea dei diritti dell'uomo, sia perchè le disposizioni di tale strumento internazionale trovano la sede di tutela avanti alla Corte dei diritti dell'uomo, unico organo competente ad affermare la esistenza o meno delle pretese violazioni delle disposizioni medesime; sia perchè la Convenzione é una norma pattizia che non rientra nell'ambito di operatività dell'art. 10 Cost., richiamato dalla Corte rimettente, il quale ha per oggetto solo norme di carattere consuetudinario.
Considerato in diritto
1. Il Giudice rimettente dubita della legittimità costituzionale dell'art. 443, comma 1, lettera b), del codice di procedura penale, ove si stabilisce, in tema di giudizio abbreviato, che l'imputato e il pubblico ministero non possono proporre appello nei confronti delle sentenze con le quali sono applicate sanzioni sostitutive.
Ad avviso del giudice rimettente, tale disciplina contrasterebbe:
- con l'articolo 3 della Costituzione, per l'irragionevole disparità di trattamento tra la situazione dell'imputato, a cui viene negato l'appello perchè gli é stata applicata una sanzione sostitutiva della pena detentiva, e quella dell'imputato condannato ad una eguale pena detentiva non sostituita, che conserva il diritto di proporre appello senza limitazione alcuna;
- con gli articoli 3 e 24 della Costituzione, per la irragionevole disparità di trattamento tra categorie di imputati, tale da incidere anche sul diritto di difesa, per essere la situazione oggetto del presente giudizio del tutto analoga a quella presa in considerazione dalla sentenza di questa Corte n. 363 del 1991, che ha dichiarato illegittimo l'art. 443, comma 2, cod. proc. pen., nella parte in cui preclude all'imputato di proporre appello in caso di condanna ad una pena che comunque non deve essere eseguita: in entrambi i casi - concessione della sospensione condizionale della pena e applicazione della pena sostituita a norma dell'art. 58 della legge 24 novembre 1981, n. 689 - la preclusione all'appellabilità della sentenza sarebbe infatti conseguenza dell'esercizio di un potere discrezionale del giudice, sorretto dai medesimi criteri desumibili dall'art. 133 del codice penale;
- con gli articoli 2 e 10 della Costituzione, in relazione al protocollo addizionale n. 7 della convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, il cui art. 2, comma 1, statuisce che ogni persona condannata ha diritto di fare esaminare da una giurisdizione superiore la dichiarazione di colpevolezza o la condanna; principio che, con riferimento all'ordinamento italiano, non potrebbe ritenersi soddisfatto dalla possibilità di proporre ricorso in Cassazione nei confronti della sentenza di condanna a sanzione sostitutiva.
2. La questione é infondata con riferimento a tutti i parametri costituzionali evocati dal giudice rimettente.
3. Le censure mosse alla disciplina impugnata, con riferimento ai profili di illegittimità costituzionale per contrasto con l'articolo 3, nonchè con gli articoli 3 e 24 della Costituzione, sono prospettate assumendo come punto di riferimento la sentenza n. 363 del 1991, che il giudice rimettente ritiene abbia affrontato una situazione del tutto analoga a quella oggetto del presente giudizio.
Il tema va affrontato - come d'altronde era stato fatto nella sentenza ora menzionata - nel contesto dei principi ispiratori dei riti alternativi al dibattimento. Tali riti, demandati all'iniziativa e all'accordo tra le parti (non a caso si parla nei loro confronti di _giustizia negoziata_), comportano - come é noto - la libera e consapevole accettazione, unitamente ai vantaggi premiali che li caratterizzano in forma più o meno intensa, di alcune limitazioni di diritti e di facoltà dell'imputato, altrimenti riconosciuti nel rito ordinario.
In particolare, per quanto riguarda il giudizio abbreviato, il _premio_ della riduzione di un terzo della pena si accompagna alla consapevole rinuncia al dibattimento, al consenso ad essere giudicato allo stato degli atti e a che vengano utilizzati come prova ai fini del giudizio gli atti contenuti nel fascicolo delle indagini preliminari, alla preventiva rinuncia ad avvalersi dell'appello in caso di condanna a pena sostitutiva e alla sola pena pecuniaria, nonchè, in caso di proscioglimento, quando l'appello tende ad ottenere una diversa formula.
La posizione processuale dell'imputato incontra pertanto, per effetto della scelta del giudizio abbreviato, un doppio limite: in primo luogo perchè l'imputato, a seguito della sua richiesta, accetta che il giudizio si svolga solo sulla base degli atti contenuti nel fascicolo pubblico ministero, senza potere usufruire delle maggiori garanzie connesse alla formazione della prova in dibattimento; in secondo luogo perchè, nei casi espressamente previsti dall'art. 443, commi 1 e 2, cod. proc. pen., l'imputato rinuncia preventivamente al giudizio in grado di appello. Nei confronti di tale disciplina, si può parlare di una preventiva e consapevole accettazione da parte dell'imputato dell'attenuazione di alcune facoltà difensive, a fronte dei vantaggi premiali che gli vengono assicurati in caso di sentenza di condanna.
Le peculiarità del giudizio abbreviato sono state ricollegate da questa Corte, in adesione alla Relazione al Progetto preliminare del nuovo codice di procedura penale, ad esigenze di celerità, rapidità ed economia del procedimento, perseguite, da un lato, evitando il passaggio alla fase dibattimentale, secondo uno schema deflattivo comune a tutti i sistemi processuali che si ispirano al modello accusatorio, e imponendo il giudizio allo stato degli atti; dall'altro, introducendo limiti all'appellabilità della sentenza, destinati a garantire la rapida definizione del processo (sentenze n. 363 del 1991 e n. 183 del 1990).
Con specifico riferimento ai limiti all'appellabilità delle sentenze, la già menzionata sentenza n. 363 del 1991 a cui si é appunto richiamato il giudice rimettente, ha dichiarato illegittimo l'art. 443, comma 2, cod. proc. pen., nella parte in cui prevede che l'imputato non può proporre appello contro le sentenze di condanna a una pena che comunque non deve essere eseguita, per contrasto con l'art. 3 della Costituzione, a causa della _irrazionalità della limitazione apportata che, in relazione al rilievo costituzionale dell'interesse inciso, non trova adeguata giustificazione nelle caratteristiche e nelle finalità proprie del giudizio abbreviato_.
In particolare, questa Corte ha rilevato che la diversità di posizione tra imputati condannati ad una pena concretamente eseguibile - per i quali é ammesso l'appello - e quelli a pena che comunque non deve essere eseguita - per i quali vige il divieto di proporre appello - non trova _un fondamento ragionevolmente commisurato all'entità della limitazione apportata al diritto di difesa_. Il criterio in base al quale agli uni é riconosciuto e agli altri é negato il diritto all'appello assume infatti a proprio presupposto - prosegue la Corte - _un elemento estrinseco alla natura del reato commesso e ai caratteri della pena irrogata_, così trascurando _ogni riferimento agli aspetti che più sono destinati a caratterizzare la responsabilità dell'imputato e le conseguenze dell'azione criminosa, quali il titolo del reato, il tipo di sanzione, la misura della pena edittale_.
4. Sulla base di queste premesse, si deve valutare se anche la norma censurata dal giudice rimettente determini un irragionevole sacrificio dell'interesse dell'imputato a proporre appello.
A prescindere dalla qualificazione dogmatica delle pene sostitutive, non si può non constatare che tali sanzioni - semidetenzione, libertà controllata e pena pecuniaria, giusta l'elencazione contenuta nell'art. 53 della legge 24 novembre 1981, n. 689 - hanno certamente natura meno afflittiva delle pene detentive; inoltre, operano nei confronti di categorie di reati in assoluto meno gravi rispetto a quelli per cui la pena può non essere eseguita, in quanto sono applicabili quando la durata della corrispondente pena detentiva é contenuta, rispettivamente, entro il limite di un anno per la semidetenzione, di sei mesi per la libertà controllata e di tre mesi per la pena pecuniaria, mentre la sospensione condizionale, in cui si sostanzia l'ipotesi più frequente di pena non eseguibile, può essere concessa per condanne alla pena della reclusione o dell'arresto sino a due anni.
I tre requisiti giustificativi del sacrificio dell'appello risultano pertanto pienamente rispettati in caso di condanna a pena sostitutiva: la minore gravità dei titoli di reato, la minore afflittività delle sanzioni sostitutive, i livelli necessariamente più bassi della misura delle pene edittali escludono vizi di irragionevolezza e consentono di concludere che la disciplina rientra negli spazi di discrezionalità legittimamente utilizzati dal legislatore per realizzare l'obiettivo della rapida definizione del giudizio abbreviato.
Al contrario, nel confronto con la posizione degli imputati condannati a pena concretamente eseguibile, la non appellabilità delle sentenze di condanna a pena che non deve essere eseguita non teneva conto nè del titolo di reato, nè del tipo di sanzione, nè della misura della pena edittale, ma si basava su di un elemento estrinseco, ricollegabile all'entità della pena comminata in concreto, ovvero alla circostanza che ricorressero le condizioni personali per la concessione della sospensione condizionale della pena.
5. Il giudice rimettente ravvisa la violazione dell'art. 3 della Costituzione anche con riferimento al verificarsi delle condizioni che, a norma degli articoli 66 e 72 della legge n. 689 del 1981, determinano la conversione o la revoca della restante parte di pena sostitutiva nella pena detentiva sostituita (rispettivamente, conversione per l'inosservanza anche di una sola delle prescrizioni inerenti alla semidetenzione e alla libertà controllata; revoca e successiva conversione in caso di condanne successive a pena detentiva): in tali situazioni il condannato alla pena sostitutiva non potrebbe infatti essere reintegrato nel diritto di esperire appello e sarebbe pertanto esposto ad una irragionevole disparità di trattamento rispetto a chi, originariamente condannato a pena detentiva di eguale misura, avrebbe potuto esperire l'appello senza alcuna limitazione.
La specifica censura non é conferente, per la ragione assorbente che i casi di conversione e di revoca della pena sostitutiva hanno come presupposti comportamenti e fatti successivi ascrivibili al condannato, imprevedibili e del tutto indipendenti ed estranei rispetto al titolo del reato, alla qualità e alla misura della sanzione, di cui l'imputato affronta consapevolmente il rischio nel momento in cui chiede di essere ammesso al giudizio abbreviato. L'interesse che in tali situazioni l'imputato conserverebbe a proporre appello non appare, cioé, suscettibile di autonoma considerazione rispetto al più generale interesse a fare valere la propria innocenza; interesse che, per le ragioni sopra esposte, non risulta comunque irragionevolmente sacrificato dalla inappellabilità della condanna a pena sostitutiva.
6. Il giudice rimettente lamenta inoltre che la proponibilità o meno dell'appello deriverebbe dalla scelta meramente discrezionale del giudice nel momento in cui decide, a norma dell'art. 53 della legge n. 689 del 1981, se applicare la pena detentiva ovvero la pena sostitutiva, alla stregua di una valutazione non dissimile da quella sottostante alla concessione della sospensione condizionale della pena.
Il fatto che sia l'art. 58 della legge citata, sia l'art. 164 cod. pen. si richiamino all'esercizio di una valutazione discrezionale, ancorata ai criteri e alle circostanze indicati nell'art. 133 cod. pen., non implica che il giudice sia titolare di scelte arbitrarie, volte a provocare, in caso di applicazione della sanzione sostitutiva, l'inappellabilità della sentenza, e in quanto tali suscettibili di determinare una ingiustificata disparità di trattamento rispetto all'ipotesi di concessione della sospensione condizionale della pena, la quale dopo l'intervento della sentenza n. 363 del 1991 non produce più - come già precisato - effetti in ordine alla proponibilità dell'appello. Al riguardo, é sufficiente rilevare che l'esercizio del potere discrezionale del giudice di sostituire o meno la pena detentiva é sorretto dai precisi criteri indicati dall'art. 58 della legge n. 689 del 1981, tra cui sono richiamate in primo luogo le circostanze di cui all'art. 133 cod. pen.; inoltre il giudice deve scegliere tra le pene sostitutive quella più idonea al reinserimento sociale del condannato e non può comunque provvedere alla sostituzione della pena detentiva quando presume che le prescrizioni non saranno adempiute dal condannato; infine, deve in ogni caso indicare specificamente i motivi che giustificano la scelta del tipo di pena erogata.
La conseguenza della improponibilità dell'appello é quindi del tutto estranea alle valutazioni discrezionali del giudice che applica la pena sostitutiva, ma si pone come un possibile effetto negativo di cui l'imputato é in condizione di tenere conto quando presenta la richiesta di giudizio abbreviato e di cui accetta preventivamente il rischio in caso di sentenza di condanna a pena sostituita.
7. Infine, infondata é pure la denunciata violazione degli articoli 2 e 10 della Costituzione, con riferimento all'art. 2, comma 1, del protocollo addizionale n. 7 della convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, adottato a Strasburgo il 22 novembre 1984, ratificato dal Presidente della Repubblica Italiana in seguito ad autorizzazione conferitagli dalla legge 9 aprile 1990, n. 98, ed entrato in vigore per l'Italia il 1° febbraio 1992.
Premesso che l'art. 2 del Protocollo sopra menzionato ha introdotto nel comma 1 il principio che il colpevole di una infrazione penale _ha il diritto di sottoporre ad un tribunale della giurisdizione superiore la dichiarazione di colpa o la condanna_, rinviando alla legge per la disciplina dell'esercizio di tale diritto e per l'individuazione dei motivi per cui può essere invocato, e che il secondo comma stabilisce che il diritto _potrà essere oggetto di eccezioni in caso di infrazioni minori_, il giudice rimettente ha erroneamente dato per scontato che l'art. 2 faccia riferimento ad un secondo giudizio di merito.
Il tenore dell'art. 2, comma 1, del protocollo addizionale n. 7, anche attraverso il confronto con quanto già disposto in tema di impugnazioni dall'art. 14, comma 1, del patto internazionale relativo ai diritti civili e politici del 19 dicembre 1966, ratificato dall'Italia con legge 25 ottobre 1977, n. 881, non legittima una interpretazione per cui il riesame ad opera di un tribunale superiore debba coincidere con un giudizio di merito. La formulazione dell'art. 2, nel demandare al legislatore interno ampi spazi per la disciplina dell'esercizio del diritto all'impugnazione, non esclude, infatti, che il principio si sostanzi nella previsione del ricorso in Cassazione, già previsto dalla Costituzione italiana. La norma, anche alla luce dell'interpretazione sostenuta dalla prevalente dottrina con riferimento all'analogo principio enunciato dal comma primo dell'art. 14 del Patto internazionale del 1966, é volta ad assicurare comunque un'istanza davanti alla quale fare valere eventuali errori in procedendo o in iudicando commessi nel primo giudizio, con la conseguenza che il riesame nel merito interverrà solo ove tali errori risultino accertati.
Ove si volesse, poi, sostenere che, essendo la ricorribilità in Cassazione già prevista dalla Costituzione, l'art. 2, comma 1, ha introdotto il diritto ad un secondo grado di giudizio di merito, si incorrerebbe in un palese vizio logico, in quanto la norma convenzionale verrebbe interpretata alla luce del diritto interno, come se la disposizione pattizia avesse il ruolo di riempire i vuoti dell'ordinamento nazionale. Vuoto che, tra l'altro, non si porrebbe in contraddizione con l'ordinamento costituzionale italiano, alla luce della consolidata giurisprudenza di questa Corte in tema di non rilevanza costituzionale della garanzia del doppio grado della giurisdizione di merito (vedi, da ultimo, sentenze n. 438 del 1994 e n. 543 del 1989).
A prescindere dalle considerazioni sino ad ora svolte, il richiamo del giudice rimettente all'art. 10, primo comma, della Costituzione, appare comunque incongruo, posto che la costante giurisprudenza di questa Corte ha affermato che tale disposizione, nel richiamare ai fini dell'adeguamento del diritto interno le norme di diritto internazionale generalmente riconosciute, si riferisce alle norme internazionali di natura consuetudinaria, e non a quelle di origine pattizia (vedi, da ultimo, sentenze n. 146 del 1996 e n. 15 del 1996).
8. La disciplina denunziata non determina, quindi, nè una ingiustificata disparità di trattamento, nè un irragionevole sacrificio dell'interesse dell'imputato al doppio grado del giudizio di merito, e non si pone in contrasto con il protocollo addizionale n. 7 della convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali.
Tale disciplina, che del resto si inquadra in un sistema che prevede altre ipotesi di inappellabilità, riferite sia ai procedimenti speciali che al rito ordinario (vedi, ad esempio, articoli 448, comma 2; 469; 593, comma 2, cod. proc. pen.), realizza un non irragionevole equilibrio tra le esigenze di efficienza e di rapidità nella definizione dei processi e la garanzia del doppio grado del giudizio di merito.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 443, comma 1, lettera b), del codice di procedura penale, sollevata, in riferimento agli articoli 2, 3, 10 e 24 della Costituzione, dalla Corte di cassazione, con l'ordinanza in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 18 luglio 1997.
Presidente: Renato GRANATA
Redattore: Guido NEPPI MODONA
Depositata in cancelleria il 30 luglio 1997.