XIV Legislatura - Dossier di documentazione | |
---|---|
Autore: | Servizio Studi - Dipartimento ambiente |
Altri Autori: | Servizio Studi - Dipartimento ambiente |
Titolo: | Schema di decreto legislativo di cui alla delega contenuta nella legge 308/2004 - Schema di D.Lgs. n. 572 (art. 1, L. 308/2004) |
Serie: | Pareri al Governo Numero: 499 |
Data: | 20/12/05 |
Organi della Camera: | VIII-Ambiente, territorio e lavori pubblici |
Servizio studi |
pareri al governo |
|||
Schema di decreto legislativo di cui alla delega contenuta nella legge 308/2004 Schema di D.Lgs. n. 572 (art. 1, L. 308/2004)
|
|||
n. 499
|
|||
xiv legislatura 20 dicembre 2005 |
Camera dei deputati
La parte terza “norme in materia di difesa del suolo e lotta alla desertificazione, di tutela delle acque dall’inquinamento e di gestione delle risorse idriche” è stata redatta in collaborazione con il Servizio Studi del Senato della Repubblica.
Dipartimento Ambiente
SIWEB
I dossier del Servizio studi sono destinati alle esigenze di documentazione interna per l'attività degli organi parlamentari e dei parlamentari. La Camera dei deputati declina ogni responsabilità per la loro eventuale utilizzazione o riproduzione per fini non consentiti dalla legge.
File: Am0627
INDICE
PARTE PRIMA-DISPOSIZIONI COMUNI
§ La legge delega in materia di VIA, VAS e IPPC
§ L’attuazione dei principi e criteri specifici di delega
§ Tabella -Disposizioni normative vigenti trasposte nella parte seconda del decreto*
§ Titolo II La valutazione ambientale strategica - VAS
§ Titolo III La valutazione di impatto ambientale - VIA
§ Capo I Le disposizioni comuni in materia di VIA
§ Capo II Le disposizioni specifiche per la VIA statale
§ Capo III Le disposizioni specifiche per la VIA regionale o provinciale
§ Titolo II La valutazione ambientale strategica - VAS
§ Capo I Le disposizioni comuni in materia di VAS
§ Capo II Le disposizioni specifiche per la VAS statale
§ Capo III Le disposizioni specifiche per la VAS regionale o provinciale
§ TITOLO IV DISPOSIZIONI TRANSITORIE E FINALI
§ Sezione Prima Norme in materia di difesa del suolo e lotta alla desertificazione
§ Sezione Seconda Tutela delle acque dall'inquinamento
§ Sezione Terza Gestione delle risorse idriche
PARTE QUARTA-NORME IN MATERIA DI GESTIONE DEI RIFIUTI E DI BONIFICA DEI SITI INQUINATI
§ Divieto di abbandono dei rifiuti
§ Catasto dei rifiuti e trasporto dei rifiuti
§ Imballaggi e particolari categorie di rifiuti
§ Le principali modifiche alla disciplina dei consorzi
§ Le modifiche recate alla disciplina dei consorzi per la gestione degli imballaggi
§ Tariffa per la gestione dei rifiuti urbani
§ Bonifica e ripristino ambientale dei siti inquinati
PARTE QUINTA - NORME IN MATERIA DI TUTELA DELL’ARIA E DI RIDUZIONE DELLE EMISSIONI IN ATMOSFERA
§ Titolo I Prevenzione e limitazione delle emissioni in atmosfera di impianti e attività
§ Autorizzazione alle emissioni in atmosfera
§ Convogliamento delle emissioni
§ Valori limite di emissione e prescrizioni
§ Impianti e attività in deroga
§ Attività agricole e zootecniche
§ Grandi impianti di combustione
§ Composti organici volatili (COV)
§ Sanzioni
§ Disposizioni transitorie e finali
§ Titolo II Impianti termici civili
§ Installazione o modifica dell’impianto
§ Limiti di emissione e caratteristiche tecniche
§ Sanzioni
§ Disposizioni transitorie e finali
§ Tenore di zolfo di alcuni combustibili liquidi
§ Sanzioni
§ Disposizioni transitorie e finali
§ Allegati
PARTE SESTA-NORME IN MATERIA DI TUTELA RISARCITORIA CONTRO I DANNI ALL’AMBIENTE
§ Il danno ambientale nella normativa vigente, fra disciplina codicistica e legislazione ambientale
§ La responsabilità per l’inquinamento pregresso
§ La responsabilità del proprietario
§ La legge delega in materia di danno ambientale
§ Lo schema di decreto (Parte VI in materia di danno ambientale)
§ Ruolo dell’amministrazione centrale
§ TITOLO PRIMO – Ambito di applicazione
§ TITOLO SECONDO – Prevenzione e ripristino ambientale
§ TITOLO TERZO – Risarcimento del danno ambientale
La normativa di riferimento e lo schema di decreto legislativo, comprensivo della relazione tecnico-normativa e degli allegati, sono contenuti in un CD-ROM a disposizione presso il dipartimento Ambiente.
Atto del Governo n. 572
In attuazione dell’articolo 1, comma 11, della legge 15 dicembre 2004, n. 308Il Ministro dell’Ambiente e della Tutela del Territorio ha costituito con decreto del 21 gennaio 2005 la commissione di esperti composta da “ventiquattro membri scelti tra professori universitari, dirigenti apicali della pubblica amministrazione ed esperti di alta qualificazione nei settori e nelle materie oggetto della delega”.
Il 5 ottobre 2005 la Commissione di esperti ha approvato gli schemi di cinque decreti legislativi.
In data 25 novembre il Consiglio dei Ministri ha approvato un unico testo risultante dalla fusione dei cinque schemi.
Lo schema di decreto legislativo trasmesso alle Camere per il parere (Atto del Governo 572), si compone di 318 articoli, suddivisi in sei Parti e di 45 Allegati.
Reca un articolo che definisce la finalità generale delle norme inserite nello schema di decreto che è la promozione dei livelli di qualità della vita umana. A tale obiettivo sono strumentali:
§ La salvaguardia e il miglioramento dell’ambiente,
§ L’utilizzazione razionale delle risorse naturali
Vengono poi indicati tre obiettivi (o criteri generali):
§ Rispetto delle norme comunitarie
§ Rispetto delle attribuzioni di regioni e autonomie locali
§ Invarianza della spesa.
Viene infine disposta un’autorizzazione ad adeguare le norme di rango subprimario con regolamenti (sia di delegificazione che di attuazione ed esecuzione di norme legislative).
In merito al rinvio a successivi regolamenti, si ricorda che – ai sensi dell’art. 117, comma sesto, della Costituzione, la potestà regolamentare spetta allo Stato solo nelle materie di legislazione esclusiva.
Si segnala in proposito che, nonostante il titolo del provvedimento in esame, non sembra possibile ricondurre in modo uniforme alla materia ambientale[1] tutte le disposizioni contenute nello schema di decreto. Come si richiamerà nei punti specifici delle schede di lettura, alcuni dei settori sui quali incidono le norme in esame appaiono particolarmente connessi all’ambito materiale individuato in Costituzione con l’espressione “governo del territorio” (di competenza concorrente)[2]. In tali casi (si veda particolarmente la parte terza, e le norme ivi contenute in materia di difesa del suolo) la sussistenza di una potestà regolamentare dello Stato non appare scontata. In ogni caso sembrerebbe opportuno che il legislatore statale – nell’indicare le forme successive di svolgimento dell’attività normativa in tutti gli ambiti che non sono direttamente riconducibili alle funzioni di tutela ambientale (strettamente intesa) - facesse ampio ricorso a strumenti di concertazione e cooperazione (in primo luogo l’intesa con la Conferenza Stato-Regioni). Tali accorgimenti valorizzerebbero il principio generale di leale collaborazione, richiamato dalla giurisprudenza costituzionale come principio interpretativo primario, particolarmente in quei settori nei quali un riparto netto di competenze legislative appare oggettivamente impossibile.
La Parte seconda dello schema di decreto in esame contiene il riordino della normativa relativa alle procedure per la VIA, VAS e IPPC ed è, a sua volta, suddivisa in quattro Titoli, così strutturati:
· Titolo I, dedicato alle norme generali, con gli artt. dal 4 al 6;
· Titolo II, recante le norme relative alla VAS, artt. dal 7 al 22, suddiviso, a sua volta in tre Capi:
§ Capo I - disposizioni comuni in materia di VAS;
§ Capo II - disposizioni specifiche per la VAS in sede statale;
§ Capo III - disposizioni specifiche per la VAS in sede regionale o provinciale;
· Titolo III contenente le disposizioni sulla VIA, artt. dal 23 al 47, articolato anch’esso in tre Capi;
§ Capo I - disposizioni comuni in materia di VIA;
§ Capo II - disposizioni specifiche per la VIA in sede statale;
§ Capo III – disposizioni specifiche per la VIA in sede regionale o provinciale;
· Titolo IV, artt. dal 48 al 52, con le disposizioni transitorie e finali.
Costituiscono parte integrante della Parte seconda anche cinque allegati così suddivisi:
· Allegato I – Informazioni da inserire nel rapporto ambientale;
· Allegato II – Criteri per verificare se lo specifico piano o programma oggetto di approvazione possa avere effetti significativi sull’ambiente;
· Allegato III – Progetti sottoposti a VIA;
· Allegato IV – Elementi di verifica per l’assoggettamento a VIA di progetti dell’Allegato III, elenco B, non ricadenti in aree naturali protette;
· Allegato V – Informazioni da inserire nello studio di impatto ambientale.
Si fa notare che l’illustrazione dl contenuto dei vari Titoli dello schema di decreto non rispetterà lo stesso ordine previsto nello schema stesso, in quanto si è preferito commentare, dopo il Titolo I sulle norme generali, il Titolo III recante le disposizioni sulla VIA, istituto che vanta ormai ben venti anni di applicazione a livello comunitario e nazionale. Solo successivamente si è illustrato il Titolo II, le cui disposizioni recepiscono per la prima volta in Italia le norme comunitarie sulla VAS della direttiva 2001/42/CE, in quanto la procedura adottata è stata disegnata dul modello della VIA, alla quale, tra l’altro, è collegata da nessi giuridici sostanziali e procedurali. Da ultimo si è dato conto del Titolo IV con le disposizioni transitorie e finali e degli Allegati.
Le norme in materia di VIA, VAS e IPPC recate dalla Parte Seconda del decreto in esame provvedono ad accorpare in un unico testo un quadro normativo disomogeneo, formato essenzialmente da almeno tre plessi:
§ l’originaria disciplina statale, dichiaratamente transitoria, di recepimento dell'allegato I della direttiva 85/337/CEE[3], che già conteneva al suo interno norme derogatorie sulle centrali termoelettriche e a turbogas dell'Enel;
§ le numerose fonti, di rango primario e secondario, che hanno subordinato alla VIA, episodicamente e secondo schemi differenziati, l'approvazione delle più varie tipologie di opere;
§ la disciplina sulla VIA regionale[4] che ha completato il recepimento della direttiva 85/337/CEE, sottoponendo a VIA anche le opere elencate nell’allegato II della direttiva stessa.
Rimane esclusa dal riordino normativo, come, tra l’altro, sottolinea anche la Relazione generale al decreto in esame, la disciplina speciale e derogatoria delle opere infrastrutturali e strategiche di cui alla legge n. 443 del 2001 e al suo decreto attuativo n. 190 del 2002. Si rileva, comunque, che la competenza sull’istruttoria relativa alla VIA di tali opere è ora assegnata alla nuova Commissione tecnico-consultiva (art. 48, comma 2).
Rimarrebbero escluse, inoltre, dal processo di riordino (ma per motivi comprensibili di coerenza con i rispettivi ambniti normativi di competenza) anche alcune disposizioni collegabili alla VIA, inserite in altri contesti normativi, ma che fanno riferimento anch’esse alla VIA, in ambiti quali la disciplina della conferenza di servizi[5]), la progettazione delle opere pubbliche[6] e il c.d. «sportello unico per le attività produttive»[7].
Si rileva, inoltre, che anche se la rubrica del decreto in esame dispone il riordino della normativa sull’IPPC, il testo del decreto reca solo alcune disposizioni di coordinamento (artt. 34 e 37, commi 8 e segg.), in quanto la relativa disciplina è ora contenuta nel decreto legislativo n. 59 del 2005 (che non viene compreso nella codificazione operata dallo schema di decreto).
Si ritiene opportuno valutare l’ipotesi di una riconsiderazione di tale scelta, in quanto la materia del decreto legislativo n. 59 del 2005 rientra a pieno titolo nell’ambito della delega, nell’ambito della materia che si intende complessivamente riordinare e anche nell’ambito indicato dalla rubrica della Parte Seconda dello schema di decreto.
Ciò premesso, si dà conto sinteticamente delle novità introdotte rispetto all’ordinamento vigente e di alcune problematiche emerse nel corso dell’esame delle singole disposizioni.
Viene istituita un’unica Commissione di 80 membri, per gestire tutte e tre le diverse valutazioni/autorizzazioni (VAS, VIA e IPPC), cui spetteranno anche le attività della VIA sulle cosiddette grandi opere.
In relazione alle opere da sottoporre a VIA ai sensi della nuova normativa, dal lungo elenco delle categorie progettuali ricomprese nell’ambito di applicazione dell’art. 23, si rileva la vastità del campo di applicazione di tale procedura, in quanto sembrerebbe che non possa esistere progetto di infrastruttura o impianto industriale che possa sfuggire all’applicazione della normativa in materia di VIA.
Una delle innovazioni principali e sostanziali, introdotta dalla nuova disciplina sulla VIA - ed anche per la nuova VAS - è l’introduzione di un nuovo criterio per l’attribuzione della competenza statale o regionale, non più collegato alla tipologia dell’opera/intervento in relazione al suo impatto ambientale, bensì all’autorità competente a rilasciare l’autorizzazione alla costruzione/esercizio, oppure il suo carattere interregionale o, ancora, l’eventuale impatto transfrontaliero (art. 35).
L’adozione di tale criterio porterebbe quindi al superamento di una spesso illogica sovrapposizione di procedimenti e di competenze.
Tanto per citare un esempio, allo Stato spetta tuttora la VIA degli impianti di smaltimento di rifiuti ex tossici e nocivi (DPCM n. 377 del 1988, art. 1, comma 1, lett. i), la cui autorizzazione spetta invece alle regioni (art. 27 del decreto legislativo n. 22 del 1997). In base alla nuova normativa ora la VIA spetterebbe, quindi, non più allo Stato, bensì alle regioni, organo cui spetta la relativa autorizzazione alla costruzione/esercizio.
Per quanto riguarda, invece, le norme procedimentali, sono state introdotte, nella disciplina comune e in quella per la VIA statale, alcune fasi del procedimento introduttivo peculiari della VIA regionale di cui al DPR 12 aprile 1996 che aveva previsto una procedura più articolata rispetto a quella indicata per la VIA nazionale: la fase preliminare e la fase di verifica, adeguando, in tal modo, la normativa al dettato comunitario.
La fase preliminare (art. 27, comma 2) consiste in un sub-procedimento attivabile su richiesta del committente/proponente onde poter meglio individuare, in contraddittorio con l’autorità competente, quali informazioni, tra quelle elencate nell’allegato V, debbano essere contenute nel SIA.
La fase di verifica (art 32), ha la finalità di accertare se assoggettare all’ordinaria procedura di VIA alcune categorie progettuali che ne potrebbero essere eventualmente escluse.
E’ stata, inoltre, introdotta, tra le norme comuni e per la VIA statale, un’ulteriore fase (art. 26, comma 2 e 36, comma 4) che fino ad oggi era prevista dalla vigente normativa relativa alla VIA regionale, sempre relativa alla fase introduttiva del procedimento che prevede che le regioni e gli enti locali esprimano il loro parere entro sessanta giorni dall’invio di tutta la documentazione relativa al progetto. Decorso tale termine, il giudizio di compatibilità può essere emesso anche in assenza dei predetti pareri. Tale nuova fase procedurale appare, pertanto, finalizzata ad ottenere un preliminare consenso delle autonomie locali sull’opera.
Sono state migliorate le forme di partecipazione al procedimento finalizzate a consentire la partecipazione del pubblico, soprattutto attraverso l’introduzione dell’istituto dell’inchiesta pubblica nella fase istruttoria, istituto previsto dall’attuale normativa regionale sulla VIA, e limitato ai progetti di centrali termoelettriche e turbogas superiori a 300 MW termini, nella disciplina statale.
Per quanto riguarda le disposizioni relative alla VAS, esse recepiscono per la prima volta la direttiva 2001/42/CE, anche se alcune regioni hanno già provveduto ad attuarla.
Le norme recate dal decreto in esame per la VAS sono state modellate sulla procedura di VIA, alla quale, tra l’altro, essa è collegata da nessi giuridici, sostanziali e procedurali.
In modo del tutto analogo, sono quindi previsti:
a) una matrice di criteri per individuare i piani e i programmi soggetti a VAS (rinvio per relationem ai piani e programmi che definiscono il quadro di riferimento per l'autorizzazione dei progetti classificati ai sensi della direttiva 85/337/CEE);
b) la predisposizione, durante la fase preparatoria del piano, di un rapporto ambientale che individua, descrive e valuta gli effetti ambientali del piano nonché le sue ragionevoli alternative[8];
c) una fase di informazione del «pubblico» e di consultazione del «pubblico interessato»;
d) una decisione di adozione del piano motivata, corredata da una dichiarazione di sintesi sugli aspetti ambientali e resa pubblica;
e) un obbligo di monitoraggio ex post degli effetti del piano/programma.
Analogamente a quanto disposto per la procedura di VIA, quindi, il criterio in base al quale dovrà essere deciso se sottoporre un piano/programma a VAS statale o regionale, non sarà solo la tipologia del piano/programma, ma l’autorità competente alla sua approvazione.
Logicamente, quanto alla competenza sulla VAS, analogamente a quello adottato per la VIA, essa non potrà che accedere a quella relativa al procedimento di pianificazione a cui si riferisce, appartenendo allo Stato (e quindi al Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio ex art. 2, comma 5, della legge n. 349 del 1986[9]), alla regione o ad altro ente locale territoriale, a seconda del livello territoriale di pianificazione interessato.
Anche le scansioni procedimentali attraverso cui si snoda la procedura di VAS statale ripercorrono sostanzialmente quelle previste per la procedura di VIA.
Appaiono, invece, più pregnanti nella procedura di VAS, le forme di controllo prevedendo uno specifico monitoraggio (art. 14) ai fini di individuare tempestivamente eventuali effetti negativi e di essere in grado di adottare le opportune misure correttive.
Il coordinamento operato dal decreto legislativo lascia aperte alcune problematiche di cui si fornisce una brevissima disamina.
In relazione alla procedura di VIA, le numerose disposizioni contenute nel testo del decreto prevedono – in linea generale - la VIA sul progetto definitivo, tranne i casi in cui le leggi di settore dispongano altrimenti (art. 5, comma 1, lettera e)[10]. Si ricorda che – invece - la specifica formulazione della legge delega prevedeva di “anticipare le procedure di VIA alla prima presentazione del progetto dell'intervento da valutare” (comma 9, lettera f)), con procedure di verifica di conformità fra il preliminare e il definitivo
Com’è noto, attualmente la VIA può essere svolta sui progetti di massima (ai sensi del DPCM n. 377 del 1988), sui progetti definitivi (art. 16 della legge n. 109 del 1994 e artt. 14-bis e 14-ter della legge n. 241 del 1990), ovvero sui progetti preliminari (dlgs. n. 190 del 2002).
Inoltre, sia le disposizioni relative alla VAS che quelle sulla VIA, prevedono (rispettivamente, all’art. 12 e all’art. 31) un potere sostitutivo del Consiglio dei Ministri nel caso l’autorità preposta non emetta il giudizio di compatibilità ambientale, che, se non esercitato, è da considerasi come giudizio favorevole (cd. silenzio-assenso) sul piano/opera.
Si osserva che nell’ipotesi di esercizio del potere sostitutivo da parte del Consiglio dei Ministri, la valutazione non è effettuata da un organo specialistico, quale sembra comunque configurarsi l’”autorità competente” prevista dalla norma comunitaria. Si rileva, inoltre, in relazione al cd. silenzio-assenso, che tale norma – già oggetto di successive rielaborazioni nel corso della fase preparatoria dello schema di decreto - potrebbe in effetti determinare oggettivamente una violazione della disciplina comunitaria che sembra imperniata su un obbligo comunque di valutazione e di decisione da parte dell’Autorità competente (secondo un’interpretazione finalistica del par. 1 dell’art. 2 della direttiva 85/337/CEE)
Da ultimo si evidenzia che le norme recate con il testo del decreto sulla disciplina della VIA e della VAS hanno, con qualche discostamento che si segnalerà nel commento, pressoché interamente recepito le disposizioni delle rispettive direttive comunitarie.
In relazione alla VIA, si segnala la mancata trasposizione nel testo dell’art. 10-bis della direttiva 85/337/CEE, introdotto dalla direttiva 2003/35/CE, relativo alle procedure di ricorso amministrativo e giurisdizionale “per contestare la legittimità sostanziale o procedurale di decisioni, atti od omissioni soggetti alle disposizioni sulla partecipazione del pubblico stabilite dalla presente direttiva”.
La legge 15 dicembre 2004, n. 308, cosiddetta delega ambientale, ha previsto che il Governo riordini, coordini ed integri la legislazione in materia ambientale. Pertanto i decreti legislativi delegati non saranno semplicemente testi unici di riordino della normativa vigente, ma potranno apportare innovazioni sostanziali del quadro normativo, sempre e comunque nel rispetto dei criteri direttivi e della normativa comunitaria. Il principio che ne sta alla base è la constatazione della frammentarietà e disorganicità della legislazione italiana in materia ambientale, dovuta essenzialmente all’enorme produzione normativa che, soprattutto negli ultimi anni, è stata sollecitata soprattutto dalla necessità di attuare le numerose direttive comunitarie.
Ai sensi della legge n. 308, i decreti legislativi dovranno, inoltre, recare l'indicazione espressa delle disposizioni abrogate a seguito della loro entrata in vigore (art. 1, comma 3) ed essere accompagnati, nel momento della loro trasmissione alle Camere per l'espressione del parere da parte delle competenti Commissioni parlamentari, dall'analisi tecnico-normativa e dall'analisi dell'impatto della regolamentazione (art. 1, comma 5).
Tra le sette materie oggetto del riordino e per le quali si prevede l’emanazione dei decreti legislativi chiaramente individuate dall’art. 1, comma 1, la lettera f) indica le procedure per la valutazione di impatto ambientale (VIA), per la valutazione ambientale strategica (VAS) e per l'autorizzazione ambientale integrata (IPPC).
I criteri direttivi – generali e speciali – indicati dal legislatore delegante sono riportati, rispettivamente, all’art. 1, commi 8 e 9.
Ai sensi del comma 8 quindi, i decreti legislativi dovranno conformarsi ”nel rispetto dei principi e delle norme comunitarie e delle competenze per materia delle amministrazioni statali, nonché delle attribuzioni delle regioni e degli enti locali, come definite ai sensi dell'articolo 117 della Costituzione, della legge 15 marzo 1997, n. 59, e del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112, e fatte salve le norme statutarie e le relative norme di attuazione delle regioni a statuto speciale e delle province autonome di Trento e di Bolzano, e del principio di sussidiarietà” ad una serie di principi e criteri direttivi generali.
Inoltre, ai sensi del successivo comma 9, i decreti legislativi dovranno essere informati agli obiettivi di massima economicità e razionalità, anche utilizzando tecniche di raccolta, gestione ed elaborazione elettronica di dati e, se necessario, mediante ricorso ad interventi sostitutivi, sulla base dei seguenti principi e criteri specifici che, per quanto riguarda la VIA, la VAS e l’IPPC, la lettera f) testualmente recita:
§ “garantire il pieno recepimento delle direttive 85/337/CEE del Consiglio, del 27 giugno 1985, e 97/11/CE del Consiglio, del 3 marzo 1997, in materia di VIA e della direttiva 2001/42/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 27 giugno 2001, in materia di VAS”.
L’importanza di tale criterio direttivo può rinvenirsi nel quadro normativo italiano in materia di VIA, tuttora caratterizzato da un elevato grado di frammentarietà e disorganicità derivante da una stratificazione di disposizioni con cui sono stati disciplinati, di volta in volta, singoli aspetti della materia senza, tuttavia, pervenire alla creazione di un corpo omogeneo ed esaustivo di norme. Basti pensare che, in relazione alla disciplina in materia di VIA di competenza statale, è ancora in vigore il regime transitorio introdotto dall’art. 6 della legge n. 349 del 1986 e dai relativi DPCM di attuazione del 1988[11].
Si noti, inoltre, che la disposizione contenuta nella citata lettera f) della legge delega dimentica di menzionare la recente direttiva 2003/35/CE che ha nuovamente modificato la direttiva 85/337/CEE in materia di VIA.
§ semplificare le procedure di VIA, anche mediane l’emanazione di regolamenti, fatte salve le procedure di VIA previste dalla legge n. 443 del 2001 in materia di infrastrutture ed insediamenti produttivi strategici, cosiddetta “legge obiettivo”;
§ introdurre una specifica analisi costi-benefici del progetto dal punto di vista ambientale, economico e sociale;
§ anticipare le procedure di VIA alla prima presentazione del progetto dell'intervento da valutare;
§ introdurre un sistema di controlli idoneo ad accertare l'effettivo rispetto delle prescrizioni impartite in sede di valutazione;
§ garantire il completamento delle procedure in tempi certi;
§ introdurre meccanismi di coordinamento tra la procedura di VIA e quella di VAS e di IPPC (quest’ultima, naturalmente, solo nel caso si tratti di impianti sottoposti ad entrambe le procedure), al fine di evitare inutili ed onerose duplicazioni e sovrapposizioni fra i vari procedimenti menzionati.
Con riferimento alla procedura di IPPC, viene previsto, sempre nella lettera f), che essa venga estesa ai nuovi impianti, individuando le autorità competenti per il rilascio dell'autorizzazione unica e identificando i provvedimenti autorizzatori assorbiti da detta autorizzazione.
Al riguardo giova ricordare che a tale dettato normativo è stata data recente attuazione attraverso l’emanazione del decreto legislativo 18 febbraio 2005, n. 59 che, attraverso l’integrale recepimento della direttiva 96/61/CE (direttiva IPPC) relativa alla prevenzione e riduzione integrate dell’inquinamento, ha esteso l’autorizzazione integrata ambientale (AIA) a tutti gli impianti abrogando, conseguentemente, le disposizioni del decreto n. 372 del 1999.
E’ opportuno, inoltre, rammentare che la direttiva 2001/42/CE, relativa alla valutazione degli effetti di determinati piani e programmi sull’ambiente (VAS), il cui termine di recepimento è scaduto il 21 luglio 2004, non è stata ancora attuata dall’ordinamento italiano, salvo qualche isolata iniziativa a livello regionale[12].
Infine, la medesima lettera f) del comma 9, contiene una previsione che potrebbe condurre ad una radicale riforma dell’intero sistema delle autorizzazioni ambientali di settore (vale a dire quelle in materia di emissioni atmosferiche, scarichi idrici, gestione dei rifiuti, ecc.) nel senso di “accorpare in un unico provvedimento di autorizzazione le diverse autorizzazioni ambientali, nel caso di impianti non rientranti nel campo di applicazione della direttiva 96/61/CE del Consiglio, del 24 settembre 1996, ma sottoposti a più di un'autorizzazione ambientale settoriale”.
Rispetto all’attuazione data ai principi e criteri direttivi specifici dalle disposizioni recate dal decreto in esame, si fa notare:
§ appare – in linea generale - rispettato il recepimento delle direttive comunitarie in materia di VIA nella loro evoluzione e stratificazione.
Per quanto riguarda, invece, il nuovo recepimento della direttiva VAS, si riscontrano alcune differenze rispetto alle norme comunitarie, soprattutto in relazione alle modalità di pubblicizzazione dei piani/provvedimenti adottati, prevista all’art. 13 dello schema di decreto, che sembrerebbe porre delle limitazioni alle citate modalità.
Inoltre, i tempi previsti (trenta giorni) per la partecipazione del "pubblico", fase essenziale nel processo valutativo della proposta di piano/programma (art. 10 relativo alle consultazioni), potrebbero risultare insufficienti dato che i piani/programmi riguardano un complesso di opere e interventi con ricadute molteplici sul territorio, sull’ambiente, sui beni culturali e naturalistici. La direttiva, d’altro canto, dà facoltà a ciascuno Stato di stabilire i tempi relativi alle attività di consultazione, purché la popolazione interessata abbia una "effettiva opportunità di esprimere in termini congrui il proprio parere sul piano o programma e sul rapporto ambientale che la accompagna, prima dell'adozione…";
§ in relazione alla semplificazione delle procedure di VIA, si osserva soprattutto l’adozione del criterio uniforme, sia per la VIA che per la VAS, relativo all’attribuzione di competenza statale o regionale a seconda dell’autorità preposta all’autorizzazione alla costruzione/esercizio dell’opera/intervento o all’approvazione del piano/programma, che porterebbe al superamento di uno spesso illogica sovrapposizione di competenze e di procedimenti. Carattere semplificatorio sembrano avere, inoltre, anche le disposizioni sulle relazioni tra VIA e VAS e tra VIA e IPPC (artt. 33 e 34) in quanto volte ad evitare duplicazioni di giudizi e sovrapposizione di procedimenti;
§ per quanto riguarda l’introduzione di una specifica analisi costi-benefici del progetto dal punto di vista ambientale, economico e sociale, essa è da rinvenirsi all’interno dell’art. 27 relativo alle modalità di predisposizione del SIA (studio impatto ambientale), ove viene previsto che, tra le informazioni necessarie che devono essere inserite nel SIA, compaia anche una valutazione del rapporto costi benefici del progetto dal punto di vista ambientale, economico e sociale. Anche l’Allegato V relativo alle informazioni da inserire nel SIA fa riferimento a tale valutazione.
§ In relazione all’anticipazione delle procedure di VIA alla prima presentazione del progetto dell'intervento da valutare, si osserva che le numerose disposizioni contenute nel testo del decreto prevedono – in linea generale - la VIA sul progetto definitivo, tranne i casi in cui le leggi di settore dispongano altrimenti (vedi in particolare l’art. 4, comma 1, lettera b), n. 3, l’art. 5, comma 1, lettera e) e l’art. 37, comma 5). Si ricorda che – invece - la specifica formulazione della legge delega prevedeva di “anticipare le procedure di VIA alla prima presentazione del progetto dell'intervento da valutare” (comma 9, lettera f)), mirando a generalizzare l’impostazione accolta dalla legge obiettivo (e dal citato decreto legislativo) sulla procedura di VIA anticipata al progetto preliminare.
Si ricorda, che le disposizioni della legge n. 443 del 2001 e del decreto di attuazione n. 190 del 2002, con le quali sono state introdotte procedure accelerate e semplificate per la VIA delle “infrastrutture strategiche”, che prevedono, tra l’altro l’effettuazione della VIA sul progetto preliminare, sono state oggetto – in un primo momento - di procedura di infrazione da pare della Commissione europea (20 aprile 2004) per contrasto con le disposizioni contenute nella direttiva n. 97/11/CE. La procedura di infrazione riguardava le norme contenute nell’art. 17, comma 2, e art. 20, comma 5 del decreto legislativo n. 190, che non prevedevano venisse svolta l’obbligatoria e regolare procedura VIA sul progetto definitivo prima del rilascio delle autorizzazioni a realizzare l’opera. Al fine di adeguarsi ai rilievi comunitari, tali norme sono state conseguentemente modificate dell'art. 24, della legge 18 aprile 2005, n. 62 (comunitaria 2004) al fine di garantire l’informazione e la partecipazione del pubblico anche al momento della progettazione definitiva.
Si osserva che la terminologia usata “configurazione definitiva”, non riscontrabile, peraltro, nelle tipologie della progettazione, preliminare, definitiva ed esecutiva, indicate dall’art. 16 della legge n. 109 del 1994, non fa chiarezza su quale fase della progettazione debba intervenire la VIA.
§ per quanto riguarda l’introduzione di un sistema di controllo idoneo ad accertare l'effettivo rispetto delle prescrizioni impartite in sede di valutazione, esso non sembrerebbe efficacemente conseguito per quanto riguarda le disposizioni comuni in materia di VIA, in quanto l’art. 31, comma 4, si limita a stabilire che gli esiti della procedura vengano pubblicizzati anche nei confronti delle amministrazioni pubbliche competenti in materia di controlli ambientali, mentre non vengono poi previste delle norme puntuali in merito al potere di tali autorità nel caso di difformità dei progetti agli esiti del giudizio di compatibilità ambientale.
Solamente all’interno delle disposizioni sulla VIA statale, l’art. 41 prevede controlli da parte della Commissione tecnico-consultiva durante l’esecuzione delle opere sottoposte a VIA. Nel caso vengano ravvisate situazioni contrastanti con il giudizio espresso sulla compatibilità ambientale del progetto, essa ne dà tempestiva comunicazione al Ministero dell’ambiente il quale, esperite le eventuali verifiche, ordina la sospensione dei lavori e impartisce le prescrizioni necessarie al ripristino delle condizioni di compatibilità ambientale dei lavori medesimi.
Per quanto riguarda la procedura di VAS, le forme di controllo appaiono più idonee e conformi, tra l’altro, anche alla normativa comunitaria, prevedendo uno specifico monitoraggio (art. 14) ai fini di individuare tempestivamente eventuali effetti negativi e di essere in grado di adottare le opportune misure correttive. Viene anche prevista la possibilità di avvalersi, per tali controlli, delle Agenzie ambientali.
§ in merito alla garanzia del completamento delle procedure in tempi certi, sia le disposizioni relative alla VAS che quelle sulla VIA prevedono che l’inutile decorso dei termini previsti, da computarsi tenuto conto delle eventuali interruzioni e sospensioni intervenute, implica automaticamente l’esercizio del potere sostituivo da parte del Consiglio dei Ministri, che provvede entro sessanta giorni, previa diffida all’organo competente ad adempiere entro il termine di venti giorni, anche su istanza delle parti interessate. Nel caso che il Consiglio dei ministri non esprima un parere motivato entro i successivi sessanta giorni, il parere inespresso è da considerasi come giudizio favorevole (cd. silenzio-assenso) sul piano/opera.
In merito all’intervento con poteri sostitutivi del Consiglio dei Ministri e al silenzio-assenso, si rinvia alle osservazioni già riportate nella parte introduttiva.
§ per quanto riguarda l’introduzione di meccanismi di coordinamento tra la procedura di VIA e quella di VAS e di IPPC, sono state introdotte norme che appaiono ancora non specifiche (dichiaratamente sperimentali) per quanto riguarda le relazioni tra VAS e VIA (art. 33), mentre risultano più dettagliate le disposizioni dedicate alle relazioni tra VIA e IPPC (art. 34 e art. 37, commi 8 e seguenti), prevedendo che per le opere/interventi sottoposti a VIA rientranti anche nel campo di applicazione dell’IPPC, il proponente possa richiedere che la procedura di VIA venga integrata nel procedimento per il rilascio dell’AIA (autorizzazione integrata ambientale) e dettando, quindi, le eventuali prescrizioni;
§ infine, in merito all’introduzione di un’autorizzazione unica ambientale per gli impianti non rientranti nel campo di applicazione dell’IPPC, le norme del decreto in esame non ne hanno ancora previsto l’istituzione.
Norme della parte seconda del decreto |
Normativa vigente |
|
TITOLO I - Norme generali |
||
Art. 4 Contenuti e obiettivi |
|
|
Comma 1, lett. a) |
Art. 1 direttiva 2001/42/CE |
|
lett. b) |
Co. 9, lett f), legge n. 308/04 |
|
Commi 2, 3 e 4 |
- |
|
|
|
|
Art. 5 Definizioni |
Artt. 1, 3, 5, par. 3, direttiva 85/337/CEE, art.2 direttiva 2001/42/CE |
|
|
|
|
Art. 6 Commissione tecnico-consultiva per le valutazioni ambientali |
- |
|
TITOLO II - Norme generali |
||
Capo I – Disposizioni comuni in materia di VAS |
||
Art. 7 Ambito di applicazione |
Art. 3 direttiva 2001/42/CE |
|
|
|
|
Art. 8 Integrazione della valutazione ambientale nei procedimenti di pianificazione |
Art. 4 direttiva 2001/42/CE |
|
|
|
|
Art. 9 Rapporto ambientale |
Art. 5 direttiva 2001/42/CE |
|
Comma 4 |
- |
|
Comma 6 |
Allegato I, lett. j) direttiva 2001/42/CE |
|
|
|
|
Art. 10 Consultazioni |
Art. 6 direttiva 2001/42/CE |
|
|
|
|
Art. 11 Consultazioni transfrontaliere |
Art. 7 direttiva 2001/42/CE |
|
|
|
|
Art. 12 Giudizio di compatibilità ambientale ed approvazione del piano o programma proposto |
Artt. 8 e 9 direttiva 2001/42/CE |
|
Comma 2 |
- |
|
Comma 4 |
- |
|
|
|
|
Art. 13 Informazioni circa la decisione |
Art. 9 direttiva 2001/42/CE |
|
Norme della parte seconda del decreto |
Normativa vigente |
|
Art. 14 Monitoraggio |
Art. 10direttiva 2001/42/CE |
|
Capo II – Disposizioni specifiche per la VAS in sede statale |
||
Art. 15 Piani e programmi sottoposti a VAS in sede statale |
- |
|
|
|
|
Art. 16 Avvio del procedimento |
- |
|
|
|
|
Art. 17 Istruttoria e adozione del giudizio di compatibilità ambientale |
- |
|
|
|
|
Art. 18 Effetti del giudizio di compatibilità ambientale |
- |
|
|
|
|
Art. 19 Procedura di verifica preventiva |
- |
|
|
|
|
Art. 20 Fase preliminare |
- |
|
Capo II – Disposizioni specifiche per la VAS in sede regionale o provinciale |
||
Art. 21 Piani e programmi sottoposti a VAS regionale o provinciale |
- |
|
|
|
|
Art. 22 Procedure di VAS in sede regionale o provinciale |
- |
|
TITOLO III - VIA |
||
Capo I - Disposizioni comuni in materia di VIA |
||
Art. 23 – ambito di applicazione |
|
|
Comma 1, lett. a) |
Art. 1, DPCM n. 377/1988 (VIA statale) e art. 1, co. 3, DPR 12.4.1996 e allegato A (VIA regionale) |
|
lett. b) |
Art. 1, co. 4, DPR 12.4.1996 e Allegato B |
|
lett. c) |
Art. 1, co. 6, DPR 12.4.1996 e Allegato D |
|
lett d) |
- |
|
Comma 2 |
art. 1, comma 5, DPR 12.4.1996 |
|
Comma 3 |
art. 1, comma 2, DPCM n. 377/1988 |
|
Norme della parte seconda del decreto |
Normativa vigente |
|
Comma 4, lett. a) |
Art. 1, co. 5 DPCM n. 377/1988 |
|
Comma 4, lett. b) |
Art. 1, co. 8, DPR 12.4.1996 e art. 15 legge n. 306/2003 |
|
Comma 4, lett. c) |
- |
|
Comma 5 |
Art. 15 legge n. 306/2003 |
|
Comma 6 |
- |
|
Comma 7 |
- |
|
|
|
|
Art. 24 Finalità della VIA |
Art. 2 DPR 12.4.1996 |
|
|
|
|
Art. 25 Competenze e procedure |
Art. 6, co. 4, legge n. 349/1986 e art. 4, co. 1, DPR 12.4.1996 |
|
|
|
|
Art. 26 Fase introduttiva del procedimento |
|
|
Comma 1 |
Art. 5, co. 1, DPR 12.4.1996 e art. 2, co. 1, lett. c) DPCM 27.12.1988 |
|
Comma 2 |
Art. 5, co. 2, DPR 12.4.1996 |
|
Comma 3 |
- |
|
Comma 4 |
Art. 5, comma 3, DPR 12.4.1996 |
|
|
|
|
Art. 27 Studio di impatto ambientale |
|
|
Comma 1. |
Art. 6, comma 1, DPR 12.4.1996 e allegato C |
|
Comma 2 |
Art. 6, co. 2, DPR 12.4.1996 |
|
Comma 3 |
Art. 6, par. 1 direttiva 85/337/CEE |
|
Comma 4 |
Art. 6, comma 3, DPR 12 aprile 1996 e art. 10, par. 1 direttiva 85/337/CEE |
|
Comma 5 |
Art. 6, comma 4, DPR 12.4.1996 e art. 5, par. 3 direttiva 85/337/CEE |
|
Comma 6 |
Art. 2, co. 1, lett. c) DPCM 27.12.1988 |
|
Comma 7 |
Art. 6, comma 5, DPR 12.4.1996 |
|
|
|
|
Art. 28 Misure di pubblicità |
Art. 5 DPCM n. 377/1988 e art. 8 DPR 12.4.1996 |
|
|
|
|
Art. 29 Partecipazione al procedimento |
Art. 9 del DR 12 aprile 1996 |
|
|
|
|
Norme della parte seconda del decreto |
Normativa vigente |
|
Art. 30 Istruttoria tecnica |
Art. 6, comma 1, DPCM 377/1988 |
|
|
|
|
Art. 31 Giudizio di compatibilità ambientale |
|
|
Comma 1 |
Art. 6, comma 2, DPCM 377/1988 e art. 7, comma 1 DPR 12.4.1996 |
|
Comma 2 |
- |
|
Comma 3 |
Art. 7 DPR 12 aprile 1996 |
|
Comma 4 |
Art. 7, co. 3, DPR 12.4.1996 e art. 9, par. 1 direttiva 85/337/CEE |
|
|
|
|
Art. 32 |
Art. 10 DPR 12.4.1996 e |
|
|
|
|
Art. 33 Relazioni tra VIA e VAS |
Art. 11, par. 1 e 2 direttiva 2002/42/CE |
|
|
|
|
Art. 34 Relazioni tra VIA e IPPC |
Art. 1, direttiva 96/61/CE |
|
Capo II – Disposizioni specifiche per la VIA in sede statale |
||
Art. 35 Progetti sottoposti a VIA in sede statale |
|
|
Comma 1, lett. a) |
- |
|
Comma 1, lett. b) e c) |
Artt. 11 e 12 DPR 12.4.1996 |
|
Comma 2 |
- |
|
|
|
|
Art. 36 Procedimento di valutazione |
|
|
Comma 1 |
Art. 6, co. 3, legge 349/1996 |
|
Comma 2 |
- |
|
Comma 3 |
- |
|
Comma 4 |
- |
|
Comma 5 |
Art. 6, co. 3, legge 349/1996 |
|
Comma 6 |
Art. 6, co. 9, legge 349/1996 |
|
Comma 7 |
Art. 6, co. 4, legge 349/1996 |
|
Comma 8 |
- |
|
Comma 9 |
Art. 6, co. 5, legge 349/1996 |
|
|
|
|
Art. 37 Compiti istruttori della Commissione tecnico-consultiva |
Art. 6 DPCM 27.12.1988
|
|
Comma 6 |
Art. 20, commi 4 e 5 d.lgs. 190/2002 |
|
Norme della parte seconda del decreto |
Normativa vigente |
|
Art. 38 Fase preliminare e verifica preventiva |
- |
|
Art. 39 Procedure per i progetti con impatti ambientali transfrontalieri |
art. 7 direttiva 85/337/CEE |
|
|
|
|
Art. 40 Effetti del giudizio di compatibilità ambientale |
art. 9 direttiva 85/337/CEE e art. 7 DPR 12.4.1996 |
|
|
|
|
Art. 41 Controlli successivi |
art. 6, co. 6, legge 349/1986 e art. 4 DPCM n. 377/1988 |
|
Capo III - Disposizioni specifiche per la VIA in sede regionale o provinciale |
||
Art. 42 Progetti sottoposti a VIA in sede regionale o provinciale |
|
|
Comma 1 |
- |
|
Comma 2 |
Art. 1, co. 7, DPR 12.4.1996 |
|
Comma 3 |
Artt. 11 e 12 DPR 12.4.1996 |
|
|
|
|
Art. 43 Procedura di VIA in sede regionale o provinciale |
Art. 4 DPR 12.4.1996 |
|
|
|
|
Art. 44 Termini del procedimento |
Art. 5, co. 4, DPR 12.4.1996 |
|
|
|
|
Art. 45 Coordinamento ed integrazione dei procedimenti amministrativi |
Art. 5, co. 5, DPR 12.4.1996 |
|
|
|
|
Art. 46 Procedure semplificate ed esoneri |
|
|
Comma 1 |
Art. 8, co.4, DPR 12.4.1996 |
|
Comma 2 |
Art. 10, co. 3, DPR 12.4.1996 |
|
|
|
|
Art. 47 Obblighi di informazione |
Art. 4, co. 2 DPR 12.4.1996 |
|
Norme della parte seconda del decreto |
Normativa vigente |
|
Titolo IV – Disposizioni transitorie e finali |
||
Art. 48 |
- |
|
Art. 49 Provvedimenti di attuazione per la costituzione e il funzionamento della Commissione tenico-consultiva per le valutazioni ambientali |
- |
|
Art. 50 Adeguamento delle disposizioni regionali e provinciali |
Art. 1, co. 2 DPR 12.4.1996 |
|
|
|
|
Art. 51 Regolamenti e norme tecniche integrative |
Art. 3 DPCM 377/1988 |
|
Art. 52 Entrata in vigore |
- |
|
Gli Allegati
Norme della parte seconda del decreto |
Normativa vigente |
Allegato I – Informazioni da inserire nel rapporto ambientale |
Allegato I della direttiva comunitaria 2001/42/CE |
Allegato II – Criteri per verificare se lo specifico piano o programma oggetto di approvazione possa avere effetti significativi sull’ambiente |
Allegato II della direttiva comunitaria 2001/42/CE |
Allegato III – Progetti sottoposti a VIA |
|
Elenco A – Progetti di cui all’articolo 23, comma 1, lettera a) |
Art. 1, co. 1 DPCM 377/1988, Allegato A DPR 12.4.1996 |
n. 4, lett. b) |
Allegato I dlgs n. 59/2005 (impianti soggetti a AIA) |
n. 7 |
Allegato I direttiva 85/337/CEE, n. 7 |
nn. 10 e 11
|
All.gato I direttiva 85/337/CEE, nn. 11 e 12 |
n. 14, lett. a) |
Allegato I direttiva 85/337/CEE, n. 14 |
n. 17 |
Allegato I direttiva 85/337/CEE, n. 17 |
n. 18, lett. b) |
Allegato I direttiva 85/337/CEE, n. 18, lett. b) |
Elenco B – Progetti di cui all’articolo 23, comma 1, lettere b) e c) |
Allegato B DPR 12.4.1996 |
Norme della parte seconda del decreto |
Normativa vigente |
Allegato IV – Elementi di verifica per l’assoggettamento a VIA di progetti dell’Allegato III, elenco B, non ricadenti in aree naturali protette |
Allegato D DPR 12. 4.1996 e Allegato III direttiva 85/337/CEE |
n. 3 Caratteristiche dell’impatto potenziale |
Allegato III, n. 3, direttiva 85/337/CEE |
|
|
Allegato V – Informazioni da inserire nello studio di impatto ambientale |
Allegato C DPR 12.4.1996 |
n. 2 |
E’ nuovo l’inserimento del “…rapporto costi-benefici”, nell’ambito dei motivi principali della scelta compiuta dal committente/proponente. |
* Nella Tabella sono state confrontate le disposizioni normative vigenti con quelle presenti nello schema di decreto in esame: da tale confronto è risultata, in alcuni casi, una identità di contenuto o addirittura anche di forma, in altri casi (per i quali si rinvia al commento) la tabella ha solo la funzione di favorire un rapido confronto tra le norme.
Le norme generali dello schema di decreto sulla VIA, VAS e IPPC sono contenute nel Titolo I, composto da tre articoli, le cui disposizioni precisano i contenuti e gli obiettivi della nuova normativa (art. 4), le definizioni - utilizzate nell’articolato del decreto stesso –prevalentemente di derivazione comunitaria (art. 5) e le norme relative alla nuova Commissione tecnico-consultiva per le valutazioni ambientali (art. 6).
L’art. 4, comma 1, precisa, alla lettera a), che lo schema di decreto costituisce l’attuazione della direttiva comunitaria 2001/42/CE concernente la valutazione degli effetti di determinati piani e programmi sull’ambiente (VAS) e, attraverso le nuove disposizioni, si ripropone di raggiungere una serie di obiettivi, quali quelli di garantire un elevato livello di protezione dell'ambiente e di contribuire all'integrazione di considerazioni ambientali all'atto dell'elaborazione e dell'adozione di piani e programmi al fine di promuovere lo sviluppo sostenibile, assicurando che venga effettuata la valutazione ambientale di determinati piani e programmi che possono avere effetti significativi sull'ambiente. Dovrà essere , altresì, promosso l’utilizzo della VAS nella stesura dei piani e programmi statali, regionali e sovracomunali.
Al riguardo, si osserva che gli obiettivi – eccetto quello relativo alla promozione dell’utilizzo della VAS nella stesura dei piani e programmi statali, regionali e sovracomunali – sono perfettamente coincidenti con quelli indicati nell’art. 1 della direttiva comunitaria 2001/42/CE.
Si ricorda che l’art. 13 della direttiva 2001/42/CE ha previsto il suo recepimento, da parte degli Stati membri, prima del 21 luglio 2004. A livello nazionale, il recepimento era stato dapprima anticipato al 26 marzo 2003 con la legge 1 marzo 2002 n. 39 (comunitaria 2001), e poi successivamente posticipato al 31 dicembre 2003 dall’art. 13-nonies del decreto legge 25 ottobre 2002, n. 236, ed infine al 30 ottobre 2004 dall’art. 19 della legge 18 aprile 2005, n. 62 (comunitaria 2004), che aveva anche indicato i principi ed i criteri direttivi per il recepimento stesso.
Nella lettera b) dello stesso comma 1 si sottolinea che il decreto dà completa attuazione anche alla normativa comunitaria in tema di VIA - direttiva 85/337/CEE, come modificata dalle direttive 97/11/CE e 2003/35/CE – ed alla direttiva 96/61/CE (direttiva IPPC) relativa alla prevenzione e riduzione integrate dell’inquinamento e la cui integrale attuazione è stata recentemente disposta con l’emanazione del decreto legislativo 18 febbraio 2005, n. 59.
Appare opportuno ricordare sinteticamente che due delle direttive comunitarie in materia di VIA 85/337/CEE e 97/11/CE sono già state attuate nel nostro ordinamento e che pertanto, si richiede l’adeguamento della normativa italiana alle ultime modifiche recate dalla direttiva 2003/35/CE. Si sottolinea, infatti, che l'evoluzione della normativa comunitaria in tema di VIA è stata sostanzialmente lineare e incrementale. Infatti, l'impostazione della prima direttiva 85/337/CEE, dopo un adeguato periodo di rodaggio e lo svolgimento di studi e ricerche sulla sua applicazione, è stata consolidata e precisata dalla direttiva 97/11/CE. Ulteriori modifiche in tema di partecipazione e accesso sono state introdotte poi dalla direttiva 2003/35/CE, in attuazione della Convenzione di Aarhus del 1998.
Si fa osservare che, in relazione all’attuazione della direttiva IPPC citata nella stessa lettera b), essa è stata attuata integralmente con il decreto legislativo n. 59 che ha esteso l’autorizzazione integrata ambientale (AIA) a tutti gli impianti (abrogando, conseguentemente, le disposizioni del decreto n. 372 del 1999) e, pertanto, più che di una vera e propria attuazione, lo schema di decreto reca le norme di coordinamento tra le due procedure (VIA e IPPC) contenute nell’art. 34.
Conseguentemente la rubrica della Parte seconda in esame che fa riferimento anche all’IPPC non sembrerebbe del tutto appropriata, in quanto lo schema di decreto reca prevalentemente disposizioni relative alla VAS ed alla VIA.
Per quanto riguarda gli obiettivi indicati nella lettera b) e conseguenti all’attuazione delle citate direttive, essi riproducono sostanzialmente il contenuto dei principi e criteri direttivi specifici indicati nella lettera f) del comma 9, della legge n. 308 del 2004 [13]
Dubbi interpretativi sorgono dalla lettura dell’obiettivo indicato al n. 3) della lettera b) ove si legge “anticipare le procedure di valutazione di impatto ambientale alla prima configurazione definitiva - e pertanto sottoponibile ad un esame esauriente - del progetto di intervento da valutare”.
Come già rilevato, la terminologia usata “configurazione definitiva”, non riscontrabile, peraltro, nelle tipologie della progettazione – preliminare, definitiva ed esecutiva- indicate dall’art. 16 della legge n. 109 del 1994, non fa chiarezza su quale fase della progettazione debba intervenire la VIA, mentre si ricorda che nei principi e criteri direttivi specifici della delega ambientale il riferimento sembrerebbe rivolto alla progettazione preliminare.
Il commi successivi, dal 2 al 5, definiscono l’ambito di applicazione della VAS e della VIA ribadendo che entrambe le procedure costituiscono parte integrante del procedimento ordinario di adozione ed approvazione dei piani e programmi (per la VAS) e dei progetti di opere/interventi (per la VIA). Conseguentemente i provvedimenti adottati privi di VAS o privi o difformi dalla prescritta VIA, ove prescritte, sono nulli.
Le definizioni rilevanti ai fini dello schema di decreto in esame, sia in riferimento alle norme sulla VIA, che alla disciplina VAS, sono contenute nell’art. 5. Alcune di esse riproducono sostanzialmente i contenuti delle definizioni recate dalle rispettive direttive 85/337/CEE (come modificata ed integrata da ultimo dalla direttiva 2003/35/CE) e dalla direttiva 2001/42/CE, altre, invece, se ne discostano.
Tra le definizioni riportate ci si sofferma sulle seguenti che sembrerebbero discostarsi dalle norme comunitarie:
a) procedimento di valutazione ambientale strategica – VAS. Si osserva che la formulazione adottata in relazione all’elaborazione di un rapporto di impatto ambientale “conseguente” all’attuazione di un determinato piano o programma“ sembrerebbe non appropriata. Infatti, la VAS e, di conseguenza, il rapporto ambientale, si pone nella fase di elaborazione e adozione (si veda anche l’art. 9, comma 1, del decreto in esame) di piani e programmi e li integra al fine di garantire la protezione dell’ambiente. La direttiva 2001/42/CE, all’art. 2, lettera b), reca, invece, la seguente definizione «per "valutazione ambientale" s'intende l'elaborazione di un rapporto di impatto ambientale, lo svolgimento di consultazioni, la valutazione del rapporto ambientale e dei risultati delle consultazioni nell'iter decisionale e la messa a disposizione delle informazioni sulla decisione a norma degli articoli da 4 a 9».
Pertanto sembrerebbe più opportuno riportare testualmente la definizione contenuta nella direttiva comunitaria ove la VAS è riferita ad un complesso di azioni;
b) procedimento di valutazione di impatto ambientale – VIA. Si fa osservare che la definizione recata fa riferimento, prevalentemente, alle fasi relative alla procedura di approvazione e autorizzazione del progetto, discostandosi da quella indicata nell’art. 3 della direttiva 85/337/CE, come sostituito dalla direttiva 97/11/CE, ove la VIA «individua, descrive e valuta, in modo appropriato, per ciascun caso particolare gli effetti diretti e indiretti di un progetto sull’ambiente, sul paesaggio, sul territorio, sul clima, sul patrimonio culturale e naturalistico e l’interazione tra i diversi fattori…»;
e) progetto di un’opera od intervento, la definizione risulta più ampia rispetto a quella contenuta nell’art. 1, par. 2, della direttiva 85/337/CEE che definisce quale"progetto" “la realizzazione di lavori di costruzione o di altri impianti od opere e altri interventi sull'ambiente naturale o sul paesaggio, compresi quelli destinati allo sfruttamento delle risorse del suolo”. La definizione in commento aggiunge che per progetto debba intendersi “un elaborato tecnico, preliminare, definitivo o esecutivo” relativo, appunto, alle tipologie di lavori o interventi come definitivi dalla direttiva. Nella definizione, viene anche previsto che “salvi i casi in cui le normative vigenti di settore espressamente dispongano altrimenti, la VIA viene eseguita sui progetti definitivi, o comunque giunti ad un grado di elaborazione necessario e sufficiente per la loro presentazione per l’approvazione o l’autorizzazione o altro atto decisorio che ne consenta la realizzazione”;
f) modifica sostanziale di un piano o programma. Tale definizione/eventualità non viene contemplata nella direttiva 2001/42/CE, ma la ritroviamo nella direttiva 96/6!/CE in relazione a modifiche sostanziali ad impianti;
l) studio di impatto ambientale. La definizione sintetica di cosa dovrebbe contenere un SIA appare lacunosa rispetto a quella recata dall’art. 5, par. 3 della direttiva 85/337/CEE, come sostituito dalla direttiva 97/11/CE, ove il SIA deve contenere, ovviamente, anche “una descrizione del progetto con informazioni relative alla sua ubicazione, concezione e dimensioni”;
q) e r) pubblico e pubblico interessato, le definizioni recepiscono le modifiche apportate alla direttiva 85/337/CEE dalla direttiva 2003/35/CE, al fine di migliorare la partecipazione del pubblico alle attività decisionali in materia ambientale. La direttiva 85/337/ CEE aveva, infatti, lasciato alla discrezionalità degli Stati membri la scelta in ordine alle forme della partecipazione dei singoli e dei portatori di interessi diffusi e collettivi al procedimento di VIA. Con la distinzione tra “pubblico” e “pubblico interessato” viene recepita la differenza tra le due categorie di soggetti, operata, appunto , con la direttiva 2003/35/CE.
Sembrerebbero rientrare, pertanto, in una accezione estensiva della nozione di «pubblico», anche i beneficiari delle funzioni di dotazione infrastrutturale, ossia i cittadini che ne fruiscono, ovvero, ai sensi della legislazione nazionale, le associazioni, le organizzazioni o i gruppi di tali persone. Fanno, invece, parte del «pubblico interessato», coloro che ne subiscono le «esternalità» economiche, territoriali e ambientali positive o negative. Tali soggetti possono essere i proprietari espropriati (che possono far valere le loro osservazioni e opposizioni nello specifico procedimento ablativo) e i soggetti che, in genere, dalla realizzazione dell'opera subiscano un pregiudizio (ad es., perché l'ambiente o la qualità della vita subiscono un degrado dalla modificazione del territorio) o acquisiscono un vantaggio indiretto (perché l'opera favorisce l'occupazione e lo sviluppo economico delle loro attività). Analogamente alle disposizioni comunitarie, ne fanno parte anche le organizzazioni non governative che promuovono la protezione dell’ambiente;
s) soggetti interessati. Tale definizione esula da quelle recate dalle direttive comunitarie citate. Visto che le due lettere precedenti (pubblico e pubblico interessato) racchiudono già tutte le categorie di persone fisiche e giuridiche, nonché i soggetti (associazioni) che rappresentano gli interessi collettivi, non appare chiaro cosa debba intendersi per soggetti interessati, a meno che non si faccia riferimento, non tanto a titolari di diritti o interessi collettivi, bensì a soggetti legati ad interessi singoli e non generali , senza alcun riferimento a un interesse legittimo diretto o che comunque rispondano ai requisiti previsti per legge come portatori
Viene istituita un’unica Commissione di 80 membri, oltre al Presidente e a tre Vicepresidenti, per gestire tutte e tre le diverse valutazioni/autorizzazioni (VAS, VIA e IPPC).
Essa, inoltre, ai sensi del successivo art. 48, comma 2, del decreto in esame, svolge anche le attività della VIA sulle cosiddette grandi opere, attualmente svolte dalla Commissione speciale VIA, istituita dall’art. 19, comma 2, del decreto legislativo n. 190 del 2002 (disposizione che viene infatti abrogata dall’art. 48).
Si osserva che, anche se la Commissione tecnico-consultiva svolgerà l’istruttoria anche per le infrastrutture strategiche, la disciplina della VIA di tali infrastrutture rimane comunque incardinata all’interno della normativa speciale di cui al decreto legislativo n. 190 del 2002, come, tra l’altro, sottolinea anche la relazione generale allo schema di decreto in esame.
Si ricorda che attualmente la Commissione VIA speciale è composta da 18 membri, oltre al Presidente, che durano in carica tre anni a far data dall’istituzione (DPCM 16 dicembre 2003), la Commissione VIA ordinaria è composta da 35 membri, oltre al Presidente, che durano in carica quattro anni, sempre a far data dall’istituzione (DPCM 23 gennaio 2004). infine, per le istruttorie della IPPC, la Commissione (istituita presso il Ministero dell’Ambiente e della tutela del territorio, ai sensi dell’art. 5 comma 9 del D.Lgs. n.59 del 2005) conta 27 membri, di cui uno con funzioni di presidente.
La nuova “Commissione tecnico-consultiva per le valutazioni ambientali” sarà articolata in tre diverse settori operativi, a seconda della procedura di competenza:
· una per la VIA di competenza statale;
· una per la VAS statale sui piani e programmi;
· una per l’IPPC (AIA di competenza statale) per gli stabilimenti industriali.
Essa dovrà operare attraverso sottocommissioni, composte da un numero variabile di componenti a seconda delle professionalità necessarie per l’esame della specifica pratica, la cui individuazione spetterà al vicepresidente competente.
In relazione alle modalità di costituzione della Commissione, essa dovrà essere nominata con DPCM, su proposta del Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio. Nello stesso DPCM dovranno essere stabilite la durata e le modalità per l’organizzazione ed il funzionamento della Commissione stessa.
Con riferimento ai compiti della Commissione, essa svolge:
§ l’attività tecnico-istruttoria per la VAS dei piani e programmi la cui approvazione compete ad organi statali (di cui al successivo art. 17);
§ l’attività tecnico-istruttoria per la VIA dei progetti di opere/interventi di competenza statale (di cui al successivo art. 37);
§ l’attività tecnico-istruttoria per sull’AIA di competenza statale.
Nel caso esistano specifici interessi locali coinvolti, la relativa sottocommissione può essere integrata da un esperto designato da ciascuna regione, provincia e comune direttamente interessati per territorio. Il commi 7 e 8 precisano, quindi, le modalità di tale designazione e il funzionamento della sottocommissione nel caso di mancata designazione.
I commi 2 e 3 dell’art. 48 dello schema di decreto prevedono, infatti, che la Commissione tecnico-consultiva svolga, attraverso le sottocommissioni previste, tutte le attività già di competenza della Commissione per la VIA ordinaria, di quella per la VIA speciale relativa alle grandi ope, di quella per l’IPPC, soppresse per effetto delle abrogazioni previste dal comma 1 dello stesso art. 48. Nelle more della nomina della Commissione, resta sospesa l’applicazione delle norme relative all’abrogazione delle singole Commissioni.
Per concludere la disamina delle disposizioni relative alla nuova Commissione tecnico-consultiva, occorre anche far riferimento che anche l’art. 49 dello schema di decreto che reca norme relative ai provvedimenti attuativi per la costituzione e funzionamento della stessa. Viene previsto un termine di novanta giorni (dalla data di pubblicazione del decreto in esame) per l’emanazione del DPCM di nomina della Commissione e norme transitorie in sede di prima attuazione. Inoltre, in sede di prima attuazione, restano in carica i componenti delle commissioni soppresse VIA, VIA speciale e IPPC, assumendo le funzioni di componenti della nuova Commissione fino alla scadenza del quarto anno dall'entrata in vigore del presente decreto. La nuova Commissione verrà integrata nel caso di componenti mancanti, nonché, con le modalità previste dall'art. 6, con gli esperti regionali.
In relazione ai compensi dei componenti, dovrà essere emanato, entro lo stesso termine di novanta giorni previsto per l’emanazione del DPCM di istituzione della nuova Commissione, un ulteriore decreto interministeriale nel quale dovranno essere disciplinate anche le modalità e le tariffe da applicare in relazione alle istruttorie ed ai controlli previsti, quantificati secondo una serie di parametri specificati dallo stesso art. 49, comma 2.
Come già accennato, il commento delle disposizioni recate dal Titolo II relativo al recepimento delle norme comunitarie sulla VAS, è trattato dopo l’illustrazione del Titolo III sulla VIA, in quanto la procedura adottata per la VAS è disegnata in relazione a quella della VIA, alla quale, tra l’altro, è collegata da nessi giuridici sostanziali e procedurali.
Prima di affrontare il commento delle disposizioni recate nel Titolo III sulla VIA, e ai fini di una loro migliore comprensione, si è preferito richiamare innanzitutto le disposizioni attualmente vigenti, sia quelle riferite alla VIA nazionale, che quelle relative alla VIA regionale. Tale operazione è risultata opportuna in quanto il nuovo testo, accanto a delle innovazioni sostanziali derivanti dal recepimento dell’ultima direttiva 2003/35/CE, unifica le due normative in un corpo organico, soprattutto nel Capo I recante le disposizioni di carattere comune.
La disciplina della VIA nel nostro ordinamento è stata introdotta a seguito dell'emanazione della direttiva 337/85/CEE relativa alla valutazione dell'impatto ambientale di determinati progetti pubblici e privati.
Si ricorda che la direttiva 337/85/CEE ha definito obiettivi e modalità del procedimento di VIA ed ha imposto agli Stati membri l’adozione di normative nazionali per determinati progetti od attività incidenti sugli equilibri ambientali. Per l’individuazione dei progetti da sottoporre a VIA, l’art. 2 della direttiva ha rinviato al successivo art. 4, che li ha suddivisi in due distinte «classi» in ragione del diverso grado di impatto sull’ambiente:
- alla prima classe – di cui all’elenco contenuto nell’allegato I della direttiva – appartengono i progetti a più elevato impatto, che devono obbligatoriamente essere assoggettati a VIA in base alle norme procedurali contenute nei successivi articoli da 5 a 10;
- della seconda classe fanno invece parte quei progetti, elencati nell’allegato II, la cui sottoposizione alla procedura di VIA è soltanto eventuale: la decisione in merito al loro assoggettamento alla procedura è, infatti, affidata alla discrezionalità degli Stati membri.
La direttiva è stata successivamente modificata dalla direttiva 97/11/CE che, pur non imponendo nuovi obblighi, ha ampliato gli elenchi dei progetti da sottoporre a VIA: le opere comprese nell'allegato I sono salite da 9 a 21, mentre per quanto riguarda le opere previste dall'allegato II, al fine di individuare quali sottoporre a VIA, è stato previsto che gli Stati possano optare o per un esame «caso per caso» dei singoli progetti o per la fissazione di «soglie» o di «criteri» cui poter fare riferimento, oppure, infine, per l’adozione congiunta di entrambe le soluzioni.
Le ultime modifiche alla direttiva 337/85/CEE sono state poi apportate dalla direttiva 2003/35/CE, al fine di garantire la totale compatibilità con le disposizioni della convenzione di Arhus prevedendo soprattutto la partecipazione del pubblico nell’elaborazione di taluni piani e programmi in materia ambientale, migliorando la partecipazione del pubblico e prevedendo, infine, disposizioni sull’accesso alla giustizia nel quadro delle Direttive 337/85/CEE.
Sulla base di tale quadro comunitario vigente, gli Stati membri hanno ora i seguenti obblighi principali:
a) incorporare nella procedura di VIA le finalità di precauzione e di prevenzione;
b) introdurre una nuova fase procedurale, o un nuovo sub-procedimento o procedimento amministrativo, avente lo scopo di «individuare, descrivere e valutare» anticipatamente gli impatti ambientali «importanti» indotti dalle attività «classificate» prima che le stesse vengano autorizzate e realizzate;
c) assoggettare a VIA tutti i progetti dell'allegato I nonché, qualora si rivelino idonei a generare un impatto ambientale importante, all'esito della procedura di c.d. screening, anche i progetti dell'allegato Il (lo screening deve essere effettuato in base a soglie o ad un esame caso per caso, avvalendosi di specifici criteri di selezione concernenti le caratteristiche dei progetti, la loro localizzazione e il loro impatto potenziale);
d) collaborare, su richiesta del proponente/committente dell'opera, alla determinazione dei contenuti delle informazioni che questi è tenuto a rendere in merito agli impatti ambientali attesi (c.d. scoping);
e) assicurare il coordinamento e la partecipazione delle amministrazioni competenti in materia ambientale, nonché un approccio intersettoriale alla prevenzione ambientale;
f) garantire trasparenza e informazione del «pubblico» e la possibilità effettiva di partecipare al «pubblico interessato»[14] quando tutte le opzioni sono ancora aperte;
g) in sede decisionale, prendere in considerazione tutti i pareri, le osservazioni e le informazioni raccolti in fase istruttoria e valutare le principali alternative che, a tal fine, il proponente/committente deve individuare e motivare in sede di domanda;
h) motivare e pubblicare il provvedimento che conclude il procedimento principale di autorizzazione, rendendo conto dei risultati della procedura di VIA;
i) predisporre adeguati istituti di tutela giustiziale e giurisdizionale in favore del «pubblico interessato».
Pertanto, l’Italia è ancora priva di una completa disciplina legislativa sulla VIA, infatti, essa presenta evidenti caratteri di frammentarietà e disorganicità derivanti principalmente dal fatto che tale normativa costituisce il frutto di una stratificazione di norme con cui – in maniera del tutto episodica – sono stati di volta in volta regolati singoli aspetti della materia.
Alla base dell’anzidetta stratificazione vi è, infatti, ancora il regime «transitorio» introdotto dall’art. 6 della legge 8 luglio 1986, n. 349 (si tratta, va ricordato, della legge istitutiva del Ministero dell’ambiente) per la VIA statale e dai relativi decreti di attuazione: DPCM 10 agosto 1988, n. 377 e DPCM 27 dicembre 1988.
A tali norme si sono man mano aggiunte numerose disposizioni settoriali volte, rispettivamente, ad estendere la sfera di operatività dell’istituto a tipologie di interventi che in origine non vi erano ricomprese[15] ed ad indirizzare la potestà legislativa delle regioni in ordine alla predisposizione della disciplina della procedura di VIA regionale, attraverso l’emanazione del DPR 12 aprile 1996 "Atto di indirizzo e coordinamento per l'attuazione dell'art. 40, comma 1, della legge 22 febbraio 1994, n. 146, concernente disposizioni in materia di valutazione d'impatto ambientale", in seguito modificato ed integrato dal DPCM 3 settembre 1999 e dal DPCM 1 settembre 2000.
Giova ricordare, infatti, che il citato DPR 12 aprile 1996 è stato emanato in seguito ai richiami da parte comunitaria per l'incompleta applicazione della direttiva. Il DPR ha conferito alle regioni ed alle province autonome il compito di attuare la direttiva 337/85/CEE per tutte quelle categorie di opere (elencate in due allegati A e B al DPR) non comprese nella normativa statale, ma previste dalla direttiva comunitaria (allegato II). Le opere dell'allegato A sono sottoposte a VIA regionale obbligatoria (se queste sono localizzate in un parco, ai sensi della legge n. 394 del 1991, la soglia dimensionale è dimezzata); le opere dell'allegato B sono sottoposte a VIA regionale obbligatoria, con soglie dimezzate, solo nelle aree a parco, mentre al di fuori dei parchi sono sottoposte ad una fase di verifica per stabilire la necessarietà o meno della VIA.
Pertanto, ai fini di un sintetico richiamo alla normativa vigente che prescrive quali siano gli interventi sottoposti a VIA, si ricorda che nell’attuale contesto normativo italiano si presentano sostanzialmente due livelli:
§ una procedura di VIA a livello nazionale per opere/interventi a rilevante impatto e/o di interesse nazionale;
§ una procedura di VIA a livello di enti locali per opere/interventi di minore rilevanza.
Nel primo caso l’Autorità competente è il Ministero dell’Ambiente, nel secondo caso gli enti locali.
Le norme che regolano i progetti sottoposti a procedura statale di VIA sono, come anzidetto, quelle contenute nell’art. 6 della legge n. 349 del 1986 e nei decreti attuativi.
Il DPCM 10 agosto 1988, n. 377 ha, infatti, definito le opere sottoposte a VIA nazionale - solo i progetti di cui all'allegato I della direttiva 337/85/CEE, mentre non si fa cenno alcuno ai progetti di cui all'allegato II – e ha specificato le norme tecniche riguardanti le fasi di comunicazione del progetto, di pubblicità e di istruttoria. Esso è stato successivamente integrato dal DPR 11 febbraio 1998[16]che ha ampliato e ulteriormente precisato l’ambito dei progetti da sottoporre a VIA nazionale (con riferimento al settore energetico, minerario e nucleare, a quello delle dighe, a quello stradale e aeroportuale).
Con il DPCM 27 dicembre 1988, successivamente modificato ed integrato (per talune categorie di opere) dal DPR 2 settembre 1999, n. 348, sono state invece definite le norme tecniche per la redazione del SIA.
Le opere da sottoporre a VIA statale
In base ai due DPCM del 1988 (10 agosto e 27 dicembre) e al DPR 11 febbraio 1998[17], le categorie di interventi sottoposti a VIA - nel nostro ordinamento - corrispondono a quelle che erano ricomprese nel testo originario dell’allegato I alla direttiva 85/337/CEE (come già osservato, tale allegato è stato sensibilmente modificato dalla direttiva 97/11/CE) e ad alcune delle categorie riportate nell'allegato II alla medesima direttiva. Si è già osservato che, a norma dell'art. 4 della direttiva comunitaria, le opere incluse nel primo dei due allegati devono formare oggetto di VIA, mentre, per le opere comprese nell’allegato II, la decisione di sottoporre i relativi progetti alla predetta procedura è rimessa alla valutazione degli Stati membri.
Il procedimento
Quanto all'articolazione della procedura di VIA, essa ha inizio con la comunicazione - domanda sulla pronuncia di compatibilità ambientale - da parte del committente al Ministro dell'ambiente, al Ministro per i beni culturali ed alla regione territorialmente interessata (art. 6, comma 3 della legge n. 349 del 1986 ed art. 2 del DPCM 27 dicembre 1988):
- del progetto di massima (art. 2, commi 1 e 2 del DPCM n. 377 del 1988);
- dello studio d'impatto ambientale dell'opera (SIA), di una sintesi non tecnica destinata all’informazione del pubblico e della documentazione attestante l’avvenuta pubblicazione ai sensi dell’art. 5 del DPCM n. 377 del 1988 (art. 2, comma 1, DPCM 27 dicembre 1988).
Nello studio di impatto ambientale (SIA), articolato secondo i tre quadri di riferimento previsti – programmatico, progettuale e ambientale (artt. 3, 4 e 5 del DPCM 27 dicembre 1988)[18] – devono essere contenute le seguenti informazioni :
incidenza spaziale e territoriale dell'intervento;
alternative prese in esame;
incidenza sulle risorse naturali;
rispondenza alle previsioni urbanistiche ed ambientali;
specificazione degli scarichi idrici, dei rifiuti solidi e delle emissioni;
descrizione dei dispositivi di prevenzione e di eliminazione dei danni all'ambiente;
indicazione dei piani di monitoraggio.
All'istruttoria sulla domanda di valutazione della compatibilità ambientale dell'intervento progettato - le cui finalità sono quelle indicate dall’art. 6, comma 1, del DPCM n. 377 del 1988 - provvede la Commissione VIA, istituita dall'art. 18, comma 5, della legge n. 67 del 1988[19] nell'ambito del Servizio valutazione dell'impatto ambientale del Ministero dell'Ambiente ed ai sensi dell’art. 6 del DPCM 27 dicembre 1988.
La Commissione può promuovere anche ulteriori accertamenti d'ufficio in relazione ai contenuti della documentazione e può richiedere pareri ad enti, amministrazioni pubbliche ed a organi di consulenza tecnico-scientifica dello Stato.
L'istruttoria si conclude con parere motivato e non vincolante della Commissione, mediante il quale la stessa comunica al Ministro dell'Ambiente i risultati delle verifiche effettuate, identificando, inoltre, se necessario, le eventuali prescrizioni finalizzate alla compatibilità ambientale del progetto.
In ogni caso, l'istruttoria deve essere compiuta con celerità, al fine di consentire al Ministro dell'Ambiente di pronunciarsi sulla compatibilità ambientale entro 90 giorni dalla comunicazione del progetto: in caso contrario, la procedura di approvazione del progetto riprende il suo corso, salvo proroga deliberata dal Consiglio dei Ministri in casi di "particolare rilevanza" (art. 6, comma 4 della legge n. 349 del 1986 ed art. 6, comma 2 del DPCM n. 377 del 1988[20]). Il Ministro dell'Ambiente, acquisito il parere della Commissione e valutate le istanze del pubblico, sentita la Regione interessata, si pronuncia, con atto definitivo - di concerto con il Ministro per i Beni culturali - sulla compatibilità ambientale dell'opera.
Nell'ipotesi in cui il Ministro competente alla realizzazione dell'opera non ritenga di uniformarsi alla valutazione del Ministro dell'Ambiente, secondo quanto disposto dall’art. 6, comma 5, della legge n. 349 del 1986, la questione è rimessa al Consiglio dei Ministri, che può decidere in difformità; tale facoltà è esclusa, peraltro, nel caso di opere di competenza regionale.
Qualora, infine, le indicazioni contenute nel parere sulla compatibilità siano disattese od emerga, nel corso della realizzazione dell'opera, un pericolo per l'equilibrio ambientale, non valutabile al momento della formulazione del giudizio, il Ministro dell'Ambiente può ordinare la sospensione dei lavori e rimettere la decisione finale al Consiglio dei Ministri (art. 6, comma 6, della legge n. 349 del 1986).
Ai fini di un’adeguata informazione del pubblico, la normativa provvisoria nazionale ha, come sopra accennato, previsto che contestualmente alla comunicazione del progetto preliminare dell'opera, il committente debba provvedere alla pubblicazione di un annuncio dell'avvenuta comunicazione, sul quotidiano più diffuso nella Regione territorialmente interessata e su un quotidiano a diffusione nazionale, ed al deposito di una o più copie del progetto e degli elaborati presso un apposito ufficio da individuarsi da parte della Regione (art. 6, comma 3 della legge n. 349 del 1986 e art. 5 del DPCM n. 377 del 1988). Ciò al fine di permettere a qualsiasi cittadino di presentare, ex art. 6, comma 9, della legge n. 349 del 1986, entro trenta giorni dall'annuncio, istanze, osservazioni o pareri, sull'intervento soggetto a VIA: tali rilievi vengono presi in considerazione, singolarmente o per gruppi, contestualmente alla formulazione del giudizio di compatibilità (art. 7, comma 2 del DPCM 27 dicembre 1988). Soltanto per i progetti di centrali termoelettriche ed a turbogas superiori a 300 MW termici è previsto, secondo le disposizioni di cui all'allegato IV del DPCM 27 dicembre 1988, lo svolgimento di un'inchiesta pubblica.
Si ricorda, infine, che il quadro normativo esposto è stato notevolmente ampliato, non solo da una serie di circolari emanate in tempi diversi da parte del Ministero dell’Ambiente, ma anche a seguito dell’introduzione di ulteriori norme nazionali, tra le quale ricordiamo, per citare solo le ultime, la cosiddetta “legge obiettivo” con il relativo decreto di attuazione n. 190 del 2002, recanti la disciplina speciale e derogatoria delle opere infrastrutturali strategiche ove la VIA viene anticipata alla fase iniziale dell’intervento, cioè alla progettazione preliminare (art. 3, comma 7, del decreto legislativo n. 190); la disciplina relativa alla sicurezza del sistema elettrico nazionale e le infrastrutture lineari energetiche[21]; le disposizioni inserite in altri contesti normativi, ma che fanno riferimento alla VIA in ambiti quali la disciplina della conferenza di servizi[22] e la progettazioni delle opere pubbliche[23]; il decreto legge 14 novembre 2003, n. 315 recante “Disposizioni urgenti in tema di composizione delle commissioni per la valutazione di impatto ambientale e di procedimenti autorizzatori per le infrastrutture di comunicazione elettronica”[24]; l’art. 30 della legge comunitaria 2004 (legge n. 62 del 2005) che prevede il recepimento dell'articolo 5, paragrafo 2, della direttiva 85/337/CEE in materia di VIA[25].
In definitiva l’istituto della VIA, per i progetti di rilevanza nazionale, risulta attualmente regolato da circa più di un centinaio di disposizioni legislative di rango primario e secondario, la cui lettura deve essere coordinata ed integrata[26]. Pertanto, al fine di collocare organicamente la procedura di VIA in tale contesto normativo, il Ministero dell’ambiente ha emanato il decreto 1 aprile 2004 recante “Linee guida per l'utilizzo dei sistemi innovativi nelle valutazioni di impatto ambientale”, nel quale ha precisato i criteri di valutazione che dovranno essere adottati in funzione dei diversi livelli di progettazione e specificando i requisiti qualitativi e quantitativi degli studi di impatto ambientale.
Le norme che invece regolano i progetti sottoposti a VIA regionale sono quelle contenute nell’atto di indirizzo e di coordinamento di cui al DPR 12 aprile 1996, come modificato ed integrato dal DPCM 3 settembre 1999 e dal DPCM 1 settembre 2000, con il quale sono stati fissati condizioni, criteri e norme tecniche per l'applicazione della procedura di VIA da parte delle Regioni e delle Province autonome di Trento e di Bolzano che dovranno provvedere a disciplinare i contenuti e le procedure di VIA, ovvero ad armonizzare le proprie disposizioni vigenti con quelle ivi contenute. Con il D.P.R. del 1996 si è tentato, pertanto, di offrire una soluzione unitaria al duplice problema derivante dalla necessità di soddisfare due distinte esigenze:
§ completare il recepimento della direttiva 85/337/CEE, sottoponendo a VIA anche le opere elencate nell’allegato II della direttiva stessa;
§ rendere maggiormente omogeneo il panorama legislativo regionale in materia di VIA, mediante l’indicazione di norme-quadro in grado di fungere da indirizzo per i legislatori delle varie Regioni e Province autonome nella loro opera di riforma.
Le opere da sottoporre a VIA regionale
Le tipologie di progetti dell’allegato II della direttiva 85/337/CEE sono suddivisi a seconda sia della loro diversa potenzialità inquinante, sia della differente incidenza di ciascuno di essi sulla conformazione del territorio – in due distinti elenchi, contenuti rispettivamente negli allegati A e B del D.P.R. 12 aprile 1996:
§ per i progetti di cui all’allegato A la procedura di VIA regionale è obbligatoria (art. 1, comma 3);
§ per i progetti di cui di cui all’allegato B essa è invece soltanto eventuale, ossia deve essere effettuata solamente qualora ricorra una delle seguenti circostanze:
- che il progetto ricada, anche parzialmente, all’interno di aree naturali protette (così come definite dalla legge 6 dicembre 1991, n. 394);
- o, se non vi ricade, che le sue caratteristiche, a seguito di una verifica (screening) eseguita dall’autorità competente secondo le modalità di cui all’art. 10 e sulla base degli elementi indicati nell’allegato D, richiedano comunque lo svolgimento della procedura di VIA (commi 4 e 6). In riferimento alle ipotesi di questo secondo tipo, l’autorità competente deve inoltre curare la tenuta di un registro in cui sia riportato l’elenco dei progetti per i quali è stata richiesta la suddetta verifica (comma 9).
In ogni modo, per tutti i progetti di opere o di impianti (sia dell’allegato A che dell’allegato B) ricadenti all’interno di aree naturali protette, le soglie dimensionali devono essere ridotte del 50% (comma 5).
Sono, invece esclusi dalla procedure di VIA regionale:
§ gli interventi disposti in via d'urgenza, ai sensi delle norme vigenti, sia per la salvaguardia dell'incolumità delle persone da un pericolo imminente, sia in seguito a calamità per le quali sia stato dichiarato lo stato di emergenza;
§ le opere o impianti comprese nei due allegati A e B la cui disciplina di VIA rientra tra le competenze del Ministero dell’ambiente;
§ quelli che costituiscono modifica di progetti già sottoposti a VIA statale.
Il procedimento
Premesso che l’art. 4 del DPR 12 aprile 1996 dispone che le regioni e le province autonome debbano individuare l’autorità competente in materia di VIA e l’organo deputato allo svolgimento dell’istruttoria, la procedura di VIA regionale risulta più articolata rispetto a quella prevista per la VIA nazionale, in quanto con tale DPR sono state introdotte due fasi ulteriori – ma preliminari alla procedura ordinaria ed in linea con quanto è stato successivamente stabilito dalla direttiva 97/11/CE: la procedura di verifica (c.d. screening) (art. 10, ma attinente ai soli progetti dell’allegato B) e la fase preliminare (c.d. scoping) (art. 6, commi 2 e 3, attivabile facoltativamente dal committente).
Ai sensi di tali innovazioni, il procedimento potrebbe prendere avvio (ma solo nel caso in cui riguardi progetti di cui all’allegato B che non ricadono all’interno di aree naturali protette), con la verifica preliminare (screening) da parte dell’autorità competente, prevista dall’art. 10 del DPR 12 aprile 1996, dell’opportunità della loro sottoposizione a VIA regionale. La procedura di screening funge pertanto da “filtro”, poiché ha la specifica funzione di vagliare preliminarmente se un determinato progetto (ma lo ripetiamo appartenente solo a quelli elencati nell’allegato B) debba o meno essere sottoposto a VIA. Nel dare avvio a questo sub-procedimento, il committente deve fornire alcune informazioni comprendenti, oltre ad una descrizione del progetto, i dati necessari per individuare e valutare i principali effetti che il progetto può avere sull’ambiente. L'autorità competente si dovrà pronunciare entro i successivi 60 giorni (silenzio-assenso) sulla base di elementi (contenuti nell’allegato D) quali le caratteristiche del progetto e la sua ubicazione in considerazione della sensibilità ambientale delle zone geografiche che possono essere danneggiate dal progetto.
Ai sensi dell’art. 5, comma 1, il procedimento di VIA regionale inizia quindi con la trasmissione all’autorità competente, da parte del committente, di una domanda che contiene il progetto dell’opera e lo studio di impatto ambientale (SIA).
Il SIA, al pari di quanto avviene per la procedura di VIA statale, predisposto a cura e spese del committente, deve essere redatto secondo le indicazioni contenute nell’allegato C (art. 6, comma 1) e deve comunque recare un contenuto minimo indicato nel comma 4 dell’art. 6:
§ la descrizione del progetto (con indicazione dei parametri ubicativi, dimensionali, strutturali e delle finalità dello stesso)
§ la descrizione dei potenziali effetti sull’ambiente (anche con riferimento a parametri e standard previsti dalla normativa ambientale, nonché ai piani di utilizzazione del territorio);
§ la rassegna delle relazioni esistenti fra l’opera proposta, le norme in materia ambientale e i piani di utilizzazione del territorio
§ la descrizione delle misure previste per eliminare o ridurre gli effetti sfavorevoli sull’ambiente.
Attiene specificamente al contenuto del SIA la fase preliminare (cd. scoping)disciplinata dai commi 2 e 3 dell’art. 6 che consiste in un sub-procedimento a carattere preliminare, attivabile facoltativamente dal committente onde poter meglio individuare, in contraddittorio con l’autorità competente alla VIA, quali informazioni, tra quelle elencate nell’allegato C, siano in concreto effettivamente necessarie.
Proseguendo nell’illustrazione del procedimento, una copia della documentazione prevista dal comma 1 dell’art. 5,deve essere trasmessa alla Provincia, ai Comuni interessati e, nel caso di aree naturali protette, anche ai relativi Enti di gestione, che sono chiamati ad esprimere il proprio parere entro sessanta giorni dalla data di trasmissione, poiché, decorso tale termine, l’autorità competente può rendere il giudizio di compatibilità ambientale, nei successivi novanta giorni, anche in assenza dei predetti pareri (art. 5, comma 2).
Al committente può essere richiesto, per una sola volta e con indicazione di un congruo termine per la risposta, di apportare eventuali integrazioni allo studio trasmesso o alla documentazione allegata. In questi casi l’autorità competente rende il giudizio di compatibilità ambientale entro novanta giorni dalla ricezione della documentazione integrativa. Nell’ipotesi, poi, che il proponente non ottemperi, non si procede all’ulteriore corso della valutazione, ferma restando la possibilità di presentare una nuova domanda (comma 3).
Le regioni e le province autonome possono altresì stabilire, in casi di particolare rilevanza, la proroga dei termini per la conclusione della procedura, ma sino ad un massimo di sessanta giorni (comma 4).
L’atto che conclude la procedura di VIA regionale consiste in un giudizio motivato, da formularsi prima dell’eventuale rilascio del provvedimento amministrativo, che consente in via definitiva la realizzazione del progetto e, comunque, prima dell’inizio dei lavori (art. 7, comma 1). Esso può risolversi in un giudizio positivo (quindi, di compatibilità dell’opera) o, viceversa, negativo, e può altresì dettare eventuali prescrizioni per la mitigazione degli impatti ed il monitoraggio delle opere e degli impianti (comma 2).
Si ricorda, infine, così come avviene per la procedura di VIA statale, che al momento dell’avvio del procedimento incombe sul committente l’ulteriore dovere di informare adeguatamente il pubblico secondo le disposizioni recate dall’art. 8[27]
Oltre alle forme di pubblicità previste dall’art. 8, il DPR del 1996 ha attribuito un maggior rilievo alla disciplina della partecipazione del pubblico grazie all’introduzione dell’istituto dell’inchiesta pubblica prevista dall’art. 9 nella fase istruttoria (rispetto a quella prevista per la VIA di competenza statale solo per i progetti di centrali termoelettriche ed a turbogas superiori a 300 MW termici).
Innanzitutto, l’art. 9, comma 1 stabilisce che chiunque, tenuto conto delle caratteristiche del progetto e della sua localizzazione, intenda fornire elementi conoscitivi e valutativi concernenti i possibili effetti dell’intervento medesimo possa, nel termine di quarantacinque giorni dalla pubblicazione dell’annuncio, presentare all’autorità competente osservazioni in forma scritta sull’opera soggetta alla procedura di VIA.
Inoltre, ai fini dell’esame dello SIA presentato dal committente, dei pareri forniti dalle pubbliche amministrazioni e delle osservazioni dei cittadini, l’autorità competente alla VIA può, come anticipato, disporre lo svolgimento di un’inchiesta pubblica che si conclude con una relazione sui lavori svolti ed un giudizio sui risultati emersi, che debbono poi essere acquisiti e valutati ai fini del giudizio finale di compatibilità ambientale del progetto (art. 9, commi 2 e 3).
Qualora l’inchiesta pubblica non abbia luogo – quindi, in alternativa ad essa –, il committente può, d’ufficio o su propria richiesta, esser chiamato prima della conclusione della procedura ad un sintetico contraddittorio con i soggetti che hanno presentato pareri o osservazioni, e, anche qui, il relativo verbale deve essere acquisito e valutato ai fini del giudizio di compatibilità ambientale (comma 4).
In relazione alla normativa vigente per la VIA regionale, si ricorda ancora che, nonostante l’«atto di indirizzo e coordinamento» di cui al DPR 12 aprile 1996 si fosse proposto di completare il recepimento della direttiva 85/337/CEE - fino ad allora limitato ai soli progetti dell’allegato I -, la Commissione CE, con parere motivato del 29 settembre 1998 (in gran parte, peraltro, fondato sulle medesime ragioni già espresse nel precedente parere del 7 luglio 1993), aveva ribadito la non corretta attuazione della direttiva da parte dell’Italia in quanto l’ordinamento nazionale non prevedeva ancora l’assoggettamento a procedura di VIA di alcune tipologie progettuali contenute nell’allegato II. Pertanto, dando seguito ai rilievi comunitari, sono stati emanati, dapprima il DPCM. 3 settembre 1999 che è intervenuto sul precedente atto del 1996 modificandone ed integrandone gli allegati A e B[28] e, successivamente, il DPCM 1 settembre 2000, che ha, a sua volta, integrato le disposizioni del precedente DPCM 3 settembre 1999[29].
Per quanto riguarda, infine, le singole leggi regionali in materia di VIA, si ricorda che, se da un lato alcune Regioni non hanno ancora provveduto a fornirsi di una propria legge specifica in materia di VIA (Abruzzo, Calabria, Campania, Lazio, Sardegna, Sicilia), limitandosi invece a recepire o ad applicare direttamente il DPR 12 aprile 1996 e le sue successive modifiche, dall’altro diverse regioni, ancor prima dell’entrata in vigore del citato DPR di indirizzo, disponevano già di una specifica normativa sulla VIA[30].
I progetti da sottoporre a procedura di VIA sono tutti quelli soggetti a procedura di VIA statale e regionale ai sensi dell’attuale disciplina vigente, nonché i progetti di specifiche opere/interventi per i quali la procedura di VIA sia espressamente prescritta dalle leggi speciali di settore che disciplinano dette opere o interventi.
L’art. 23, comma 1, dello schema di decreto in esame prevede, infatti, che siano assoggettati alla procedura di VIA, le seguenti categorie di progetti:
a) i progetti di cui all’elenco A dell’Allegato III, ovunque ubicati. Nel caso in cui, invece, tali progetti ricadano all’interno di aree naturali protette, il successivo comma 2, prevede, come già dispone la normativa sulla VIA regionale all’art. 1, comma 5, del DPR 12 aprile 1996, la riduzione delle soglie dimensionali del 50 per cento.
Si fa presente, innanzitutto, che le categorie progettuali contenute nell’elenco A dell’Allegato III dello schema di decreto in esame ricomprendono sia quelle indicate nell’art. 1 del DPCM n. 377 del 1988 per le quali è obbligatoria la procedura di VIA nazionale, sia le tipologie progettuali previste dall’allegato A al DPR 12 aprile 1996 per le quali è, invece, obbligatoria la procedura di VIA regionale
b) i progetti di cui all’elenco B dell’Allegato III che ricadano, anche parzialmente, all’interno di aree naturali protette.
Si fa osservare tali progetti coincidono con quelli contenuti nell’Allegato B del DPR 12 aprile 1996, per i quali è obbligatoria la VIA regionale, ai sensi dell’art. 1, comma 4, del citato DPR;
c) i progetti elencati di cui all’elenco B dell’Allegato III che non ricadano in aree naturali protette, ma che, sulla base degli elementi indicati nell’Allegato IV, a giudizio dell’autorità competente richiedano ugualmente lo svolgimento della procedura di VIA.
Si fa notare che tali progetti corrispondono a quelli contenuti nell’Allegato B del DPR 12 aprile 1996, per i quali la VIA regionale è rimessa alla discrezionalità dell’autorità competente, sulla base degli elementi contenuti nell’allegato D (che coincide, sostanzialmente con l’Allegato IV citato), ai sensi dell’art. 1, comma 6, del citato DPR 12 aprile 1996;
d) i progetti di specifiche opere o interventi per i quali la procedura di VIA sia espressamente prescritta dalle leggi speciali di settore.
Al riguardo basti ricordare alcune leggi quali la legge n. 396 del 1990 relativa agli interventi per Roma capitale i cui progetti esecutivi devono essere corredati da VIA, ai sensi dell’art. 4, comma 1, oppure le recenti leggi sulla sicurezza del sistema elettrico nazionale e le infrastrutture lineari energetiche[31].
La procedura di VIA viene, inoltre estesa (comma 3):
§ agli interventi su opere già esistenti, non rientranti nelle categorie previste, nel momento in cui da tali interventi derivi un’opera che rientra nelle categorie stesse;
§ alle modifiche sostanziali di opere/interventi rientranti nelle categorie di cui al comma 1, lettere a) e b).
Vengono quindi elencati i casi di possibile esclusione dalla procedura di VIA (comma 4) di determinate categorie di opere: difesa nazionale, protezione civile o situazioni di necessità e d’urgenza per la salvaguardia dell’incolumità delle persone, interventi temporanei collegati alle operazioni di bonifica.
Si osserva, in relazione a tali possibili casi di esclusione che, per progetti riguardanti la difesa nazionale, è la stessa direttiva comunitaria a contemplarla espressamente (art. 1, par. 4, della direttiva 85/337/CEE, come sostituito dalla direttiva 2003/35/CE), mentre, per le altre esclusioni la direttiva prevede(art. 2, par. 3), in via generale, che gli Stati membri, in casi eccezionali, possano esentare in tutto o in parte progetti specificidalla applicazione della procedura di VIA prescrivendo, in tali casi, particolari adempimenti[32].
Si ricorda che la normativa nazionale vigente, a sua volta, per i progetti destinati a scopi di difesa, ha previsto la stessa esclusione all’art. 1, comma 5, del DPCM n. 377 del 1988.
Per quanto riguarda gli interventi disposti in via d’urgenza per calamità naturali, essi sono esclusi dalla procedura di VIA regionale o statale ai sensi dell’art. 1, comma 8, del DPR 12 aprile 1996 e dall’art. 15 della legge n. 306 del 2003 (legge comunitaria 2003) ed anche dall’art. 17, comma 3, del decreto legislativo n. 190 del 2002.
Si ricorda che, in relazione all’interpretazione di tale ultima disposizione comunitaria sull’esclusione della VIA in casi eccezionali, la stessa Commissione europea ha avviato, nei confronti dello Stato italiano, una specifica procedura d’infrazione (proc. 1999/5166 del 23 ottobre 2001), relativa alla costruzione di due impianti d’incenerimento di rifiuti autorizzati senza previa sottoposizione a VIA[33]. I rilievi comunitari sono stati quindi superati con l’approvazione dell’art. 15 della legge 31 ottobre 2003, n. 306 (comunitaria 2003).
L’art. 15 della legge n. 306 del 2003 prevede che l’esclusione dalla procedura di VIA in caso di calamità sia possibile:
• per singoli interventi disposti in via d'urgenza per i quali sia stato dichiarato lo stato d'emergenza;
• e solo quando la situazione d'emergenza sia particolarmente urgente al punto da non consentire l'adempimento della normativa vigente in materia d'impatto ambientale per garantire la messa in sicurezza di immobili e persone da situazioni di pericolo immediato, non altrimenti eliminabile.
L’articolo dispone, altresì, una serie di adempimenti in capo ai soggetti competenti al rilascio dell’autorizzazione.
Lo schema di decreto in esame, al comma 5, prevede una procedura particolare di verifica, disciplinata dal successivo art. 32, per l’esclusione dei progetti delle categorie di opere di cui al comma 4 (le eventuali esclusioni) e di quelli di cui all’elenco B dell’Allegato III che non ricadono all’interno di aree naturali protette.
Inoltre, per i soli progetti di cui al comma 4 è, inoltre, previsto un obbligo aggiuntivo di comunicazione, da parte dell’autorità competente, alla Commissione europea dei motivi che giustificano una eventuale esenzione, in conformità all’art. 2, par. 3, della direttiva 85/337/CEE, che stabilisce, come già detto, che gli Stati membri, in casi eccezionali, possano esentare in tutto o in parte progetti specificidalla applicazione della procedura di VIA prescrivendo, in tali casi, particolari adempimenti.
Per quanto riguarda le opere ed interventi di somma urgenza destinati esclusivamente alla difesa nazionale, viene, inoltre, previsto che il Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio, su proposta del Ministro della difesa, disponga l’esenzione da ogni verifica di compatibilità ambientale unicamente per i progetti relativi a lavori coperti da segreto di Stato (comma 7).
Da ultimo sono contemplate norme specifiche per la procedura di VIA per i progetti aeroportuali, che dovrà tenere conto anche delle prescrizioni definite nell'allegato 2 del decreto legislativo 17 gennaio 2005, n. 13, con il quale è stata recentemente recepita la direttiva 2002/30/CE relativa all'introduzione di restrizioni operative ai fini del contenimento del rumore negli aeroporti comunitari (comma 6).
Si rileva quindi, dal lungo elenco delle categorie progettuali ricomprese nell’ambito di applicazione dell’art. 23, la vastità del campo di applicazione di tale procedura, in quanto sembrerebbe che esso copra tutti i progetti di infrastruttura o impianto industriale.
Rimangono, invece, esplicitamente esclusi i progetti relativi alle grandi opere della cosiddetta legge obiettivo, come si è già detto, in quanto la specifica disciplina della VIA di tali infrastrutture rimane incardinata all’interno della normativa speciale di cui al decreto legislativo n. 190 del 2002.
Le finalità della VIA indicate nell’art. 24 dello schema di decreto riproducono quasi esattamente il contenuto delle disposizioni recate dell’art. 2 del DPR 12 aprile 1996 relativo alla VIA regionale.
Ai fini di una più piena aderenza alla direttiva comunitaria, si osserva che l’elenco potrebbe essere arricchito con uno degli scopi introdotti nella procedura di VIA dalla direttiva 97/11/CE, cioè la valutazione comparativa delle alternative che consente di scegliere quella a minore impatto ambientale, sociale ed economico, peraltro presente nell’Allegato V dello schema di decreto in esame.
Si ricorda, infatti, che l’art. 5, par. 3, della direttiva n. 85/337/CEE, come sostituito dalla direttiva 97/11/CE, prevede che ciascun progetto debba presentare una descrizione delle principali alternative prese in esame dal committente, con indicazione delle principali ragioni della scelta sotto il profilo dell’impatto ambientale.
La valutazione di impatto ambientale compete:
a) al Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio, di concerto con il Ministro per i beni e le attività culturali, per i progetti di opere/interventi sottoposti ad autorizzazione statale e per quelli aventi impatto ambientale interregionale o internazionale, secondo le disposizioni comuni (Capo I) e quelle specifiche per la VIA statale (Capo II);
b) all’autorità individuata dalla regione o dalla provincia autonoma con propria legge, negli altri casi, tenuto conto delle attribuzioni della competenza al rilascio dell’autorizzazione alla realizzazione delle varie opere ed interventi e secondo le procedure dalla stessa stabilite sulla base dei criteri direttivi indicati nelle disposizioni specifiche per la VIA regionale (Capo III) e ferme restando le disposizioni comuni (Capo I).
Viene qui individuato il soggetto cui spetterà la pronuncia sulla compatibilità ambientale: sarà il Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio, di concerto con il Ministro per i beni e le attività culturali, per i progetti di opere/interventi sottoposti ad autorizzazione statale e per quelli aventi impatto ambientale interregionale o internazionale, mentre, negli altri casi, sarà l’autorità individuata dalla regione o dalla provincia autonoma.
Le scansioni procedimentali attraverso cui si snoda la procedura di VIA possono essere essenzialmente ricondotte a tre fasi principali:
§ fase introduttiva, comprendente eventualmente anche un sub-procedimento di carattere preliminare (art. 26), il SIA (art. 27), le adeguate forme di pubblicità (art. 28) e la procedura di verifica (art. 32);
§ fase istruttoria, con la partecipazione del pubblico al procedimento (art. 29) e l’ istruttoria tecnica (art. 30);
§ fase decisionale, alla quale va ricondotto il giudizio di compatibilità ambientale (art. 31).
Si osserva innanzitutto che le norme procedimentali previste nella fase introduttiva (artt. 26, 27, 28 e 32) riproducono prevalentemente quelle introdotte per la VIA regionale dal DPR 12 aprile 1996 (si vedano in particolare gli artt 5, 6, 8, 9 e 10), che ha previsto una procedura più articolata rispetto a quella indicata per la VIA nazionale con due fasi ulteriori: la fase preliminare (art. 6, commi 2 e 3), e la fase di verifica (art. 10).
Ora tali norme vengono estese anche alla procedura di VIA statale, in quanto assumono il carattere di norme comuni ad entrambi i procedimenti.
Il procedimento di VIA inizia, ai sensi dell’art. 26, comma 1, con la trasmissione all’autorità competente, da parte del committente o proponente dell’opera/intervento della domanda che dovrà contenere:
§ il progetto dell’opera;
§ il SIA;
§ la sintesi non tecnica.
Si ricorda che tale documentazione era prevista anche nella procedura di VIA statale ai sensi dell’art. 2, comma 1, del DPCM 27 dicembre 1988.
Il procedimento di VIA si arricchisce di un ulteriore passaggio introduttivo (tra l’altro già previsto all’interno della procedura di VIA regionale dall’art. 5, comma 2, del DPR 12 aprile 1996) che prevede la trasmissione di una copia di tale documentazione alla Regione, Provincia, ai Comuni interessati e, nel caso di aree naturali protette, anche ai relativi Enti di gestione che dovranno esprimere il proprio parere entro sessanta giorni dalla data di trasmissione. Decorso tale termine, l’autorità competente può rendere il giudizio di compatibilità ambientale, nei successivi novanta giorni, anche in assenza dei predetti pareri (comma 2). Tale nuova fase procedurale appare, pertanto, finalizzata ad ottenere un preliminare consenso delle autonomie locali sull’opera.
Il comma 3 prevede, però, la possibilità per il committente/proponente di essere esonerato, in tutto o in parte, dall’invio della copia della documentazione agli enti locali, oppure di adottare altri sistemi di divulgazione, a causa delle specifiche caratteristiche dimensionali e funzionali dell’opera/intervento, del numero degli enti locali potenzialmente interessati e della dimensione documentale del progetto e del relativo SIA.
La funzione di tale procedimento di carattere preliminare sembrerebbe quella di evitare un’immotivata sovrabbondanza di produzione documentale.
Al committente/proponente può essere, infine, richiesto, per una sola volta e con indicazione di un congruo termine per la risposta, di apportare eventuali integrazioni allo studio trasmesso o alla documentazione allegata.
In tali casi tutti i termini del procedimento vengono interrotti e ricominciano a decorrere dalla data di ricezione della documentazione integrativa. Nell’ipotesi, poi, che il proponente non ottemperi, non si procede all’ulteriore corso della valutazione, ferma restando la possibilità di presentare una nuova domanda (comma 4).
La disposizione dettaglia ulteriormente un’analoga norma contenuta nella disciplina della VIA regionale (art. 5, comma 3, del DPR 12 aprile 1996) ove però non veniva esplicitato che tutti i termini del procedimento venivano interrotti.
Si fa presente preliminarmente che le norme per la predisposizione del SIA, indicate all’art. 27, riprendono le linee fondamentali tracciate per la redazione del SIA dalla VIA regionale con il DPR 12 aprile 1996. Non vengono, al contrario, trasfuse nel nuovo schema (e relativi allegati) le norme tecniche previste per la redazione del SIA per la VIA statale dal DPCM 27 dicembre 1988.
A questo proposito, l’art. 51, comma 3 prevede che vengano emanate nuove norme (conformi alla nuova disciplina di rango primario). Conseguentemente, il successivo comma 4 dell’articolo 51 assicura che – fino all’emanazione delle nuove norme tecniche per la redazione del SIA – restino comunque in vigore le norme oggi vigenti.
Si suggerisce – in proposito – di richiamare espressamente (al comma 4 dell’art. 51) il DPCM 27 dicembre 1988.
L’art. 27, comma 1, prevede, infatti, che il SIA venga predisposto a cura e spese del committente/proponente, secondo le indicazioni di cui all’allegato V[34](comma 1).
Esso deve, altresì recare un contenuto minimo indicato nel successivo comma 5. Si fa osservare che le informazioni facenti parte del contenuto minimo riproducono quelle indicate per la VIA regionale (art. 6, comma 4 del citato DPR), ma ne vengono aggiunte due ulteriori:
d) una descrizione sommaria delle principali alternative prese in esame dal committente, ivi compresa la cosiddetta “opzione zero”, con indicazione delle principali ragioni della scelta, sotto il profilo dell’impatto ambientale;
e) una valutazione del rapporto costi-benefici del progetto dal punto di vista ambientale, economico e sociale.
In tal modo, soprattutto, in relazione alla lett. d) ci si adegua al dettato comunitario, previsto dall’art. 5, par. 3, della direttiva 85/337/CEE, come sostituito dalla direttiva 97/11/CE.
Tali informazioni, dovranno, peraltro, essere coerenti con il grado di approfondimento progettuale necessario e strettamente attinenti alle caratteristiche specifiche di un determinato tipo di progetto e delle componenti ambientali che, anche in relazione alla localizzazione, possono subire un pregiudizio, tenuto conto delle conoscenze e dei metodi di valutazione disponibili (comma 4). Rispetto all’analoga norma prevista per la via di competenza regionale dall’art. 6, comma 3, del DPR 12 aprile 1996, il comma 4 in esame aggiunge una disposizione a tutela del diritto alla riservatezza, recependo il principio indicato nell’art. 10 della direttiva comunitaria 85/337/CEE, come sostituito dalla direttiva 97/11/CE.
Viene infatti previsto che, qualora il committente/proponente ritenga che alcune informazioni non debbano essere diffuse per ragioni di riservatezza - imprenditoriale o personale, di tutela della proprietà intellettuale, di pubblica sicurezza o di difesa nazionale – egli può produrre, unitamente alla versione completa, anche una versione del SIA priva di tali informazioni per la consultazione da parte del pubblico interessato. Sarà quindi compito dell’autorità competente, valutate le ragioni di riservatezza, disporre o meno la consultazione della versione limitata del SIA da parte del pubblico interessato.
Attiene specificatamente al contenuto del SIA, la procedura disciplinata dal comma 2 consistente nell’introduzione, per tutti i procedimenti, sia statali che regionali, di un sub-procedimento a carattere preliminare attivabile su richiesta del committente/proponente onde poter meglio individuare, in contraddittorio con l’autorità competente, quali informazioni, tra quelle elencate nell’allegato V, debbano essere contenute nel SIA.
Si ricorda che l’introduzione di tale fase preliminare (cd. scoping) era stata una delle principali novità (insieme alla procedura di verifica, cd. screening) introdotte dall’art. 6, commi 2 e 3, del DPR 12 aprile 1996, per la VIA regionale, anticipando le stesse norme della direttiva comunitaria (art. 5 come sostituito dalla direttiva 97/11/CE) che hanno previsto la possibilità, da parte del committente, di chiedere alle autorità competenti il loro parere sulle informazione da fornire per i progetti soggetti a VIA.
E’ sempre il comma 2 che dettaglia ulteriormente il contenuto di tale fase preliminare, prevedendo che il committente/proponente debba presentare una relazione che, sulla base dell'identificazione degli impatti ambientali attesi, dovrà definire il piano di lavoro per la redazione del SIA, le metodologie che intende adottare per l’elaborazione delle informazioni in esso contenute e il relativo livello di approfondimento. Nulla vieta all’autorità competente, una volta che ha reso il proprio parere, di richiedere al committente/proponente, successivamente all’avvio della procedura di VIA, ulteriori chiarimenti e integrazioni in merito alla documentazione presentata.
Tale disposizione adegua, pertanto, la normativa italiana alle disposizioni comunitarie previste dall’art. 5, par. 2, della direttiva 85/337/CEE, il cui recepimento è stato, tra l’altro, anche disposto con l’art. 30 della legge 18 aprile 2005, n. 62 (comunitaria 2004), a seguito dell’apertura di una specifica procedura di infrazione.
Si ricorda, infatti, che la Commissione ha inviato all’Italia, il 16 ottobre 2003, una lettera di messa in mora[35] nella quale contesta la legislazione a livello statale e regionale con cui è stata recepita la direttiva 85/337/CEE. In particolare la Commissione definisce lacunosa la disciplina del procedimento VIA di competenza statale, per quanto riguarda il cosiddetto “scoping”, previsto all’art. 5, comma 2[36], della direttiva: tale sistema, infatti, non prevede che le autorità competenti, se il committente lo richiede prima di presentare una domanda di autorizzazione, diano il loro parere sulle informazioni che il committente deve fornire a norma del par. 1 dell’art. 5 (“scoping”). La Commissione rileva, inoltre, che anche la disciplina di competenza regionale è carente sia nell’atto che detta la disciplina generale, sia in alcune normative regionali.
Nel caso ci fossero altre autorità interessate agli effetti sull’ambiente dovuti alla realizzazione e all’esercizio dell’opera/intervento progettato, esse devono essere consultate, al momento della decisione da parte dell’autorità competente, sulla portata delle informazioni da includere nel SIA. Con tale norma viene, pertanto, recepito l’art. 6, par. 1, della direttiva 85/337/CEE, come sostituito dalla direttiva 97/11/CE (comma 3).
Al SIA dovrà essere allegata, analogamente a quanto viene già previsto per la VIA statale e per quella regionale, una sintesi non tecnica delle caratteristiche dimensionali e funzionali dell’opera o intervento progettato e dei dati ed informazioni contenuti nello studio stesso (comma 6).
Da ultimo, viene disposto che ai fini della predisposizione del SIA, il soggetto pubblico o privato interessato alla realizzazione delle opere/impianti ha diritto di accesso alle informazioni e ai dati disponibili presso gli uffici delle amministrazioni pubbliche (comma 7).
Adeguate misure di pubblicità sono quindi previste dall’art. 28. Infatti, al momento dell’avvio del procedimento, incombe sul committente/proponente l’ulteriore dovere di informare adeguatamente il pubblico.
Il comma 2 dispone quindi che il committente/proponente, contestualmente alla presentazione della domanda, debba a proprio carico provvedere:
§ al deposito, presso gli appositi uffici - individuati secondo le modalità recate dal comma 1 - del progetto dell’opera, del SIA e di un congruo numero di copie della sintesi non tecnica;
§ alla diffusione di un annuncio dell’avvenuto deposito a mezzo stampa, secondo le modalità che dovranno essere stabilite dall’autorità competente con il regolamento di cui all’art. 10, comma 3, previsto per le forme di pubblicità relative alla procedura di VAS.
Si fa notare che il riferimento all’art. 10, comma 3, non sembrerebbe appropriato in quanto, come appena detto, tale comma riguarda un regolamento specifico per le forme di pubblicità della VAS e non della VIA.
Si osserva che tale procedura relativa alle misure di pubblicità ricalca sostanzialmente quella prevista per la VIA statale e per la VIA regionale (art. 5 del DPCM n. 377 del 1988 e art. 8 del DPR 12 aprile 1996), ma sembrerebbe meno puntuale della procedura di informazione al pubblico prevista all’art. 6 della direttiva 85/337/CEE.
Rientra, infine, nella fase introduttiva della procedura di VIA anche il sub procedimento di verifica, disciplinato dall’art. 32 dello schema di decreto, che ricalca, ampliandone però le categorie progettuali, quello già previsto per la VIA regionale dall’art. 10 (cd. screening) del DPR 12 aprile 1996. Pertanto tale procedimento viene ora esteso anche alla procedura di VIA statale, in quanto assume il carattere di norma comune ad entrambi i procedimenti.
Ai sensi delle presente norma, sono assoggettati all’ordinaria procedura di VIA soltanto se le loro caratteristiche, così come risultanti dall’esito di una preliminare verifica eseguita dall’autorità competente, lo richiedano, le seguenti categorie progettuali:
§ i progetti di cui all’elenco B dell’Allegato III che non ricadono all’interno di aree naturali protette (analogamente alle vigenti disposizioni per la via regionale);
§ i progetti relativi alla difesa nazionale, protezione civile, situazioni di necessità e d’urgenza per la salvaguardia dell’incolumità delle persone, interventi temporanei collegati alle operazioni di bonifica.
La richiesta di tale verifica preliminare incombe sul committente/proponente che, nel dare avvio a questo sub-procedimento, ha anche l’obbligo di fornire alcune informazioni comprendenti, oltre ad una descrizione del progetto, i dati necessari per individuare e valutare i principali effetti che il progetto può avere sull’ambiente.
Ricevute le predette informazioni, l’autorità competente dovrà pronunciarsi entro i successivi sessanta giorni, individuando eventuali prescrizioni per la mitigazione degli impatti e il monitoraggio delle opere/impianti. Nulla viene detto nel caso in cui l’autorità competente non si pronuncia nel termine previsto.
Si osserva che la disposizione non chiarisce in merito alla ipotesi di mancata pronuncia da parte dell’autorità competente entro il termine previsto. Ai fini di una non ambigua applicazione della norma sembrerebbe opportuno chiarire se la mancata pronuncia equivale ad un assenso ovvero ad un rifiuto. Si osserva che, in una precedente versione del testo si prevedeva esplicitamente il silenzio-assenso (cioè, in caso di mancata pronuncia, il progetto non doveva essere sottoposto a VIA).
Le norme procedimentali relative alla fase istruttoria riguardano, da un lato la fase di partecipazione al procedimento (art. 29), per la quale vengono riproposte sostanzialmente le disposizioni attualmente vigenti per la VIA regionale recate nell’art. 9 del DR 12 aprile 1996, dall’altro la vera e propria fase di istruttoria tecnica (art. 30), per la quale, invece, si mutuano le norme della VIA statale (art. 6 del DPCM n. 377 del 1988).
Le forme di partecipazione al procedimento di cui all’art. 29, sono, ovviamente, finalizzate a consentire la partecipazione del pubblico.
A tal proposito, va evidenziato che la riproposizione da parte dell’art. 29 in esame della normativa per la VIA regionale è probabilmente da attribuirsi al fatto che punto qualificante del DPR del 1996 era stato proprio l’aver dettato una disciplina della partecipazione del pubblico alla fase istruttoria, soprattutto grazie all’introduzione dell’istituto dell’inchiesta pubblica, migliorativa – nel senso di valorizzazione dei contenuti partecipativi – rispetto a quella, assai scarna, prevista per la VIA di competenza statale (solo per i progetti di centrali termoelettriche ed a turbogas superiori a 300 MW termici nell’Allegato IV del DPCM 27 dicembre 1988).
Innanzitutto, il comma 1, stabilisce che il soggetto interessato che intenda fornire elementi conoscitivi e valutativi concernenti i possibili effetti dell’intervento medesimo possa, nel termine di trenta giorni dalla pubblicazione dell’annuncio, presentare all’autorità competente osservazioni in forma scritta sull’opera soggetta alla procedura di VIA.
Si ricorda – in proposito – che l’art. 9, comma 1, del DPR 12 aprile 1996, stabilisce un termine maggiore, pari a 45 giorni
Si osserva che la direttiva comunitaria 85/337/CEE, all’art. 6, par. 6, dispone che gli Stati membri, fissino “scadenze adeguate per le varie fasi, che concedano un tempo sufficiente per informare il pubblico nonché per consentire al pubblico interessato di prepararsi e di partecipare efficacemente al processo decisionale in materia ambientale”.
Per l’esame del SIA presentato dal committente/proponente, dei pareri forniti dalle pubbliche amministrazioni e delle osservazioni dei cittadini l’autorità competente alla VIA può, come anticipato, disporre lo svolgimento di un’inchiesta pubblica, che ha come primo effetto immediato quello di sospendere il termine previsto per il giudizio di compatibilità ambientale di cui al successivo art. 31. L’inchiesta si conclude con una «relazione» sui lavori svolti ed un «giudizio» sui risultati emersi, che debbono poi essere acquisiti e valutati ai fini del giudizio finale di compatibilità ambientale del progetto (commi 2 e 3).
Con l’introduzione dell’inchiesta pubblica tra le norme comuni dei procedimenti di VIA, viene data attuazione all’art. 6, par. 5, della direttiva 85/337/CEE, introdotto dalla direttiva 2003/35/CE, che prevede che “Gli Stati membri stabiliscono le modalità dettagliate di informazione del pubblico (ad esempio mediante affissione entro una certa area o mediante pubblicazione nei giornali locali) e di consultazione del pubblico interessato (ad esempio per iscritto o tramite indagine pubblica)”.
Qualora l’inchiesta pubblica non abbia luogo – quindi, in alternativa ad essa –, il committente/proponente può, d’ufficio o su propria richiesta, esser chiamato prima della conclusione della procedura ad un «sintetico contraddittorio» con i soggetti che hanno presentato pareri o osservazioni, e, anche qui, il relativo verbale deve essere acquisito e valutato ai fini del giudizio di compatibilità ambientale (comma 4).
Da ultimo viene prevista la possibilità per il committente/proponente di uniformare, in tutto o in parte, il progetto ai pareri, alle osservazioni o ai rilievi emersi nel corso dell’inchiesta pubblica o del contraddittorio. Egli ne può far richiesta all’autorità competente, indicando il tempo necessario, e questa richiesta interrompe il termine della procedura, che ricomincerà a decorrere al momento del deposito del progetto modificato (comma 5).
Si segnala la mancata trasposizione - nel testo dello schema - dell’art. 10-bis della direttiva 85/337/CEE, introdotto dalla direttiva 2003/35/CE, relativo alle procedure di ricorso amministrativo e giurisdizionale “per contestare la legittimità sostanziale o procedurale di decisioni, atti od omissioni soggetti alle disposizioni sulla partecipazione del pubblico stabilite dalla presente direttiva”.
Le norme relative all’istruttoria tecnica, recate dall’art. 30, riportano unicamente le sue finalità in analogia a quanto già disposto dalla normativa per la VIA statale dall’art. 6 del DPCM n. 377 del 1988. Essa, pertanto, dovrà:
a) accertare la completezza della documentazione presentata;
b) verificare la rispondenza della descrizione dei luoghi e delle loro caratteristiche ambientali a quelle documentate dal proponente;
c) verificare che i dati del progetto, per quanto concerne la produzione e gestione di rifiuti liquidi e solidi, le emissioni inquinanti nell’atmosfera, i rumori ed ogni altra eventuale sorgente di potenziale inquinamento, corrispondano alle prescrizioni dettate dalle normative di settore;
d) accertare la coerenza del progetto, per quanto concerne le tecniche di realizzazione ed i processi produttivi previsti, con i dati di utilizzo delle materie prime e delle risorse naturali;
e) accertare il corretto utilizzo degli strumenti di analisi e previsione, nonché l’idoneità delle tecniche di rilevazione e previsione impiegate dal proponente in relazione agli effetti ambientali;
f) individuare e descrivere l’impatto complessivo della realizzazione del progetto sull’ambiente anche in ordine ai livelli di qualità finale, raffrontando la situazione esistente al momento della comunicazione con la previsione di quella successiva.
L’ultima fase delle norme comuni della procedura di VIA riguarda la fase decisionale, alla quale va ricondotto il giudizio di compatibilità ambientale disciplinato dall’art. 31.
Si ricorda che anche per tale fase sono state riprodotte la maggior parte delle norme contenute per la disciplina della VIA regionale nell’art. 7 del DPR 12 aprile 1996, eccetto quelle recate dal successivo comma 2 dell’art. 31 sul potere sostitutivo del Consiglio dei Ministri.
L’atto che conclude la procedura di VIA, ai sensi dell’art. 31, comma 1, consiste in un giudizio motivato di compatibilità ambientale che deve essere reso entro novanta giorni dalla pubblicazione dell’annuncio a mezzo stampa ai sensi dell’art. 28, comma 2, lettera b), decorrenti dalla scadenza dei sessanta giorni entro cui gli enti indicati nell’art. 26, comma 2, debbono esprimere il proprio parere, o, nei casi in cui vengano apportate delle integrazioni allo studio trasmesso o alla documentazione allegata, decorrenti dalla ricezione della documentazione integrativa (art. 26, comma 4).
L’inutile decorso del termine previsto dal comma precedente, da computarsi tenuto conto delle eventuali interruzioni e sospensioni intervenute, implica l’esercizio del potere sostituivo da parte del Consiglio dei Ministri, che provvede entro sessanta giorni, previa diffida all’organo competente ad adempiere entro il termine di venti giorni, anche su istanza delle parti interessate.
Nel caso che il Consiglio dei ministri non esprima un parere motivato entro i successivi sessanta giorni, il parere inespresso è da considerasi come giudizio favorevole (cd. silenzio-assenso) (comma 2).
Il giudizio di compatibilità ambientale può risolversi in un giudizio positivo (quindi, di compatibilità dell’opera) oppure può dettare eventuali prescrizioni per la mitigazione degli impatti ed il monitoraggio delle opere e degli impianti. Inoltre, non paiono esservi dubbi in merito all’efficacia vincolante del giudizio di compatibilità ambientale, poiché viene espressamente disposto che i progetti, prima del rilascio dell’autorizzazione alla loro realizzazione, debbano essere adeguati agli esiti dell’anzidetto giudizio; giudizio che, pertanto, l’amministrazione competente alla autorizzazione definitiva dell’opera ha l’obbligo di acquisire prima del rilascio dell’autorizzazione alla realizzazione (comma 3).
Infine, secondo il comma 4, gli esiti della procedura di VIA devono essere comunicati ai soggetti del procedimento e a tutte le altre amministrazioni pubbliche competenti (anche in materia di controlli ambientali), nonché adeguatamente pubblicizzati. Rispetto alle analoghe disposizioni dettate per la VIA regionale (art. 7, comma 3, del DPR 12 aprile 1996), il comma 4 precisa quali debbano essere le informazioni messe a disposizione del pubblico, in concordanza con quanto previsto dall’art. 9 della direttiva 85/337/CEE, come sostituito, da ultimo, dalla direttiva 2003/35/CE.
Le relazioni tra VIA e VAS e tra VIA e IPPC sono disciplinate rispettivamente dagli artt. 33 e 34.
Si ricorda, infatti, che è il comma 9 dell’art. 1 della legge delega ambientale, ad indicare espressamente, tra i principi e criteri specifici di delega, quello di introdurre meccanismi di coordinamento tra la procedura di VIA e quella di VAS edi IPPC, al fine di evitare inutili ed onerose duplicazioni e sovrapposizioni fra i vari procedimenti menzionati.
L’introduzione di tali meccanismi risulta necessaria per il fatto che tutte le suddette discipline prevedono nessi di collegamento reciproci, in quanto vi possono essere profili di possibile interferenza. In particolare, sebbene la VIA e la VAS abbiano ad oggetto una differente tipologia di atti (nel primo caso, i progetti; nel secondo caso, i piani ed i programmi), questi ultimi riguardano i medesimi settori (almeno per quanto concerne i piani/programmi soggetti a VAS obbligatoria). Vi sono, inoltre, parziali sovrapposizioni tra l'elenco di progetti sottoposti a VIA e quelli soggetti a IPPC.
Sono le stesse direttive comunitarie a prevedere tali sovrapposizioni e collegamenti tra le tre direttive, infatti, l’art 1 della direttiva 96/61/CE (IPPC) prevede che le sue disposizioni si applicano lasciando impregiudicate le disposizioni della direttiva 85/337/CEE. Analogamente dispone anche l’art 11, par. 1 della direttiva 2001/42/CE (VAS) che aggiunge “Per i piani e i programmi in merito ai quali l'obbligo di effettuare una valutazione dell'impatto ambientale risulta contemporaneamente dalla presente direttiva e da altre normative comunitarie, gli Stati membri possono prevedere procedure coordinate o comuni per soddisfare le prescrizioni della pertinente normativa comunitaria, tra l'altro al fine di evitare duplicazioni della valutazione”. Le disposizioni comunitarie prevedono quindi una sorta di «principio di applicazione cumulativa»: ciascuna delle tre discipline deve essere applicata integralmente e nessuna delle tre pregiudica l'applicazione delle altre. Tale regola potrà poi essere temperata da principi e criteri di efficienza e semplificazione del procedimento decisionale, la cui applicazione tenderà a ridurre gli oneri burocratici gravanti sui soggetti interessati e il carico di lavoro delle amministrazioni, conformemente anche alle raccomandazioni sulla semplificazione del contesto delle attività di impresa formulate dai più autorevoli organismi internazionali (OCSE) e dalla stessa Comunità Europea.
Viene, quindi, previsto, all’art. 33, che per i progetti di opere/interventi da realizzarsi in attuazione di piani o programmi già sottoposti a VAS, e che rientrino tra le categorie per le quali è prescritta anche la VIA, costituiscono dati acquisiti tutti gli elementi positivamente già valutati in sede di VAS o comunque decisi in sede di approvazione del piano o programma.
Appare evidente che la finalità della norma dovrebbe essere quello di produrre vantaggi anche per le imprese, fornendo loro un quadro più coerente in cui operare, in quanto le informazioni raccolte nel corso della procedura di VAS, ove pertinenti o equipollenti, potranno essere utilizzate nelle successive procedure decisionali (VIA), comportando anche un’economia degli oneri documentali.
Si ricorda che la direttiva comunitaria 2001742/CE, prevede, all’art. 11, par. 1 e 2, che la VAS lasci impregiudicate le disposizioni della direttiva 85/337/CEE e qualsiasi altra disposizione della normativa comunitaria e che per “i piani e i programmi in merito ai quali l'obbligo di effettuare una valutazione di impatto ambientale risulti contemporaneamente dalla presente direttiva e da altre normative comunitarie, gli Stati membri possono prevedere procedure coordinate o comuni per soddisfare le prescrizioni della pertinente normativa comunitaria, tra l'altro al fine di evitare duplicazioni della valutazione”.
Per quanto riguarda, invece le opere/interventi sottoposti a VIA, nonché per le modifiche sostanziali ad essi apportate, rientranti anche nel campo di applicazione dell’IPPC, l’art. 34, comma 1, dello schema di decreto dispone che il proponente possa richiedere che la procedura di VIA venga integrata nel procedimento per il rilascio dell’AIA (autorizzazione integrata ambientale).
Si osserva, in relazione alla formulazione del comma, che la facoltà del proponente di richiedere l’unificazione delle procedure sembrerebbe lasciare comunque impregiudicata la discrezionalità dell’autorità competente di acconsentire o meno alla richiesta. Qualora si intendesse invece prefigurare un diritto dell’interessato alla unificazione dei due procedimenti, occorrerebbe formulare la disposizione in modo più chiaro.
Nel caso in cui il proponente decida di avvalersi di tale facoltà, vengono elencate, al comma 2, una serie di disposizioni di carattere procedurale:
a) il progetto e il SIA devono comprendere anche le informazioni di cui all’art. 5, commi 1 e 2, del decreto legislativo n. 59 del 2005con il necessario grado di dettaglio.
Si ricorda che ai sensi dell’art. 5, del decreto legislativo n. 59, la domanda per il rilascio dell’AIA deve contenere una serie di informazioni elencate nel comma 1[37], una sintesi non tecnica dei dati riferiti ad alcune di tali informazioni, nonché l'indicazione delle informazioni che ad avviso del gestore non devono essere diffuse per ragioni di riservatezza industriale, commerciale o personale, di tutela della proprietà intellettuale e di pubblica sicurezza o di difesa nazionale. In tale caso il richiedente fornisce all'autorità competente anche una versione della domanda priva delle informazioni riservate, ai fini dell'accessibilità al pubblico.
b) i depositi di atti e documenti, le pubblicazioni e le consultazioni previste dalle disposizioni comuni in materia di VIA sostituiscono ad ogni effetto tutte le forme di informazione e partecipazione previste dal decreto legislativo n. 59.
Si ricorda che le forme di informazione e partecipazione previste dal decreto legislativo n. 59 sono contenute nell’art. 5, commi 6, 7 ed 8. Esse dispongono che l'autorità competente provveda all’individuazione degli uffici presso i quali sono depositati i documenti e gli atti inerenti il procedimento, al fine della consultazione del pubblico (comma 6), definiscono i termini dell’avvio del procedimento e la sua pubblicità (comma 7) e la possibilità, per i soggetti interessati, di presentare eventuali osservazioni sulla domanda (comma 8).
c) in pendenza della procedura di VIA, il procedimento di rilascio dell’AIA, eventualmente avviato, resta sospeso.
Tale disposizione è già contenuta nell’art. 5, comma 12, ultimo periodo, del decreto legislativo n. 59 del 2005 che espressamente prevede:“L'autorizzazione integrata ambientale non può essere comunque rilasciata prima della conclusione del procedimento di valutazione di impatto ambientale”.
d) l’istruttoria sul SIA è condotta dagli organi preposti alla istruttoria sulla domanda di AIA e il relativo parere di VIA è integrato da quanto riguarda gli aspetti connessi alla prevenzione e riduzione integrata dell’inquinamento;
e) una volta conclusa la procedura di VIA, il giudizio di compatibilità ambientale viene comunicato all’autorità competente al rilascio dell’AIA per l’avvio o la ripresa del relativo procedimento.
Si ricorda, infatti che l’art. 5, comma 12, del decreto legislativo n. 59 prevede, in caso di impianti sottoposti a VIA, la sospensione del termine ordinario di centocinquanta giorni dalla presentazione della domanda per il rilascio dell’AIA fino alla conclusione della procedura di VIA.
f) l’autorità competente al rilascio dell’AIA si pronuncia tenendo conto del giudizio di compatibilità ambientale.
A tale proposito si ricorda che l’art. 7, comma 2, del decreto legislativo n. 59 del 2005, con quale è stata data integralmente recepita la direttiva 96/61/CE, prevede che, nel caso di nuovo impianto o di modifica sostanziale, se sottoposti alla normativa in materia di VIA, le informazioni o conclusioni pertinenti risultanti dall'applicazione di tale normativa devono essere prese in considerazione per il rilascio dell'autorizzazione.
Pertanto il riferimento anche alle conclusioni della procedura di VIA, induce a ritenere che l’autorità competente per l’AIA non possa disconoscere, se non attraverso un’accurata motivazione del provvedimento, quanto stabilito dalla pronuncia di VIA (se e in quanto, ovviamente, i due provvedimenti vertano sui medesimi temi).
Gli ultimi due commi dell’art. 34 in esame recano, infine, due disposizioni di carattere definitorio relative alle modifiche non sostanziali degli impianti soggetti ad AIA.
Ulteriori norme sull’AIA sono da rinvenirsi nel successivo art. 37, ai commi da 8 da 11, ove sono indicate una serie di disposizioni specifiche per gli impianti di produzione di energia elettrica di potenza superiore a 300 MW termici che prevedono che la procedura di VIA venga integrata nel procedimento per il rilascio dell’AIA.
Si ricorda, infine che l’art. 1 della direttiva 96/61/CEsulla prevenzione e la riduzione integrate dell'inquinamento, all’art. 1, dispone che la direttiva “prevede misure intese a evitare oppure, qualora non sia possibile, ridurre le emissioni delle suddette attività nell'aria, nell'acqua e nel terreno, comprese le misure relative ai rifiuti, per conseguire un livello elevato di protezione dell'ambiente nel suo complesso, lasciando impregiudicate le disposizioni della direttiva 85/337/CEE concernente la valutazione dell'impatto ambientale di determinati progetti pubblici e privati nonché altri requisiti comunitari”.
La nuova disciplina sulla VIA statale introdotta dal decreto in esame supera il criterio su cui è fondato il modello cosiddetto “binario” vigente fino ad oggi, che sostanzialmente prevede una procedura di VIA a livello nazionale qualora le opere/interventi abbiano un rilevante impatto di interesse nazionale ed una procedura di VIA a livello di enti locali nel caso in cui le opere/interventi siano di minore rilevanza.
Esemplificando, in base alla vigente normativa (DPCM 10 agosto e 27 dicembre 1988), sono sottoposti a VIA statale i progetti dell’allegato I alla direttiva 85/337/CEE, mentre a VIA regionale (allegati A e B del D.P.R. 12 aprile 1996), i progetti dell’allegato II della stessa direttiva 85/337/CEE.
Ai sensi dell’art. 35 del decreto in esame, sono ora sottoposti a procedura di VIA statale tutti i progetti di opere/interventi che fanno parte delle categorie di cui al precedente art. 23 (nel quale rientrano indistintamente sia i progetti di opere sottoposte dalla attuale normativa vigente a procedura di VIA statale che regionale, oltre a nuove tipologie ivi previste), ma che presentino i seguenti ulteriori requisiti:
a) devono essere opere/interventi la cui autorizzazione alla costruzione/esercizio è rilasciata da organi statali;
b) oppure opere/interventi localizzati sul territorio di più regioni o con un impatto ambientale interregionale;
c) o ancora opere/interventi che possano avere effetti significativi sull’ambiente di un altro Stato dell’Unione europea.
Pertanto il criterio in base al quale dovrà essere deciso se sottoporre un progetto a VIA statale o regionale non sarà più la tipologia dell’opera/intervento in relazione al suo impatto ambientale, bensì l’autorità competente a rilasciare l’autorizzazione alla costruzione/esercizio, oppure il suo carattere interregionale o, ancora, l’eventuale impatto transfrontaliero[38].
Si rileva, quindi, che l’adozione del primo di tali criteri, basato sull’autorità competente al rilascio dell’autorizzazione alla costruzione/esercizio dell’impianto, porterebbe al superamento di una sovrapposizione di procedimenti e di competenze che – in passato - non ha mancato di sollevare critiche.
Tanto per citare un esempio, allo Stato spetta tuttora la VIA degli impianti di smaltimento di rifiuti ex tossici e nocivi (DPCM n. 377 del 1988, art. 1, comma 1, lett. i), la cui autorizzazione spetta invece alle regioni (art. 27 del decreto legislativo n. 22 del 1997). Ne derivano, pertanto, due possibili disfunzioni (la prima delle quali registrata più frequentemente nella pratica): o la VIA raggiunge un grado di dettaglio tale da esaurire, nella sostanza, le valutazioni inerenti al progetto, per cui il procedimento di autorizzazione regionale si tramuta in un inutile doppione; oppure residuano significativi margini di valutazione tecnica e/o discrezionale da parte dell'amministrazione regionale, e, in tale caso, la VIA si rivela inidonea sotto il profilo della certezza del procedimento.
Per quanto riguarda poi la VIA statale necessaria per opere localizzate sul territorio di più regioni e per i progetti con impatti transfrontalieri, la normativa vigente non ne esclude una disciplina regionale.
Si ricorda, infatti, che l’art. 11 del DPR 12 aprile 1996, prevede che le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano debbano assicurare la definizione delle modalità di partecipazione alla procedura di VIA delle regioni confinanti, nel caso di progetti con impatti rilevanti anche sul loro territorio oppure per progetti localizzati sul territorio di più regioni. Mentre, per i progetti con impatti transfrontalieri, il successivo art. 12 dispone che le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano debbano informare il Ministro dell'ambiente per l'adempimento degli obblighi di cui alla convenzione sulla VIA in un contesto transfrontaliero, stipulata a Espoo il 25 febbraio 1991, ratificata con la legge 3 novembre 1994, n. 640.
Pertanto, con la nuova disciplina, essi rientrerebbero nell’ambito della procedura di VIA statale.
La competenza al rilascio della VIA statale, sempre ai sensi dello stesso art. 35, spetta al Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio, di concerto con il Ministro per i beni e le attività culturali, sentita la regione interessata e sulla base dell’istruttoria esperita dalla Commissione tecnico-consultiva (secondo le modalità specificate nel successivo art. 36, commi 7 e successivi).
Le scansioni procedimentali attraverso cui si snoda la procedura di VIA possono essere essenzialmente ricondotte a tre fasi principali:
§ fase introduttiva, comprendente il procedimento di valutazione (art. 36, commi da 1 a 6) e la fase preliminare e verifica preventiva (art. 38);
§ fase istruttoria, con le attività tecnico istruttorie della Commissione tecnico-consultiva (art. 37);
§ fase decisionale, alla quale va ricondotto il giudizio di compatibilità ambientale (art. 36, commi da 7 a 9 e art. 40).
Si osserva, in primo luogo, che le norme procedimentali previste nella fase introduttiva per la VIA statale, all’art. 36, integrano, con alcune innovazioni, le disposizioni contenute nell’art. 6 della legge n. 349 del 1986.
Il procedimento di VIA statale inizia con la trasmissione al Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio, al Ministero per i beni e le attività culturali, alla regione territorialmente interessata, alla Commissione tecnico-consultiva ed agli altri Ministeri eventualmente interessati, da parte del committente/proponente dell’opera/intervento, della domanda che dovrà contenere:
§ il progetto dell’opera/intervento;
§ il SIA;
§ la sintesi non tecnica.
Nel caso l’opera/intervento abbia un carattere interregionale, una copia del progetto deve essere inviata a ciascuna regione interessata (comma 1).
Dalla lettura di tale ultimo inciso, sembrerebbe che la disposizione non preveda l’obbligo comunicare alle altre regioni anche la restante parte della documentazione, ovverosia il SIA e la sintesi non tecnica (si veda il successivo comma ove presso gli enti locali può, invece, essere depositato stralcio del progetto e del SIA e della sintesi non tecnica in versione integrale).
Per le opere ed interventi che ricadano, invece, nel territorio di più enti locali, possono essere depositati, presso ciascuna provincia e ciascun comune, solo lo stralcio del progetto e del SIA relativo alla porzione dell’opera o intervento che interessa il relativo ambito territoriale, fermo restando il deposito della sintesi non tecnica in versione integrale. Identica possibilità è ammessa con riguardo alle aree naturali protette ed i relativi enti di gestione (comma 2).
Una volta informati, sia gli enti locali che la regione sono chiamati ad esprimere il loro parere entro sessanta giorni dalla data della trasmissione di cui ai commi 1 e 2. Decorso tale termine, il giudizio di compatibilità può essere emesso anche in assenza dei predetti pareri (comma 4).Tale nuova fase procedurale appare, come già prevede le disposizioni comuni all’art. 26, comma 2, pertanto, finalizzata ad ottenere un preliminare consenso delle autonomie locali sull’opera.
Il committente/proponente può anche attivare un sub procedimento di carattere preliminare, come previsto dalle norme comuni all’art. 26, comma 3, richiedendo, al Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio (che si pronuncia sulla base di un progetto anche solo preliminare), la definizione di modalità di divulgazione più adeguate e praticabili in relazione alle specifiche caratteristiche del progetto. Con le stesse modalità, su espressa richiesta del committente o proponente, possono essere definite le comunicazioni ed i depositi da effettuarsi per la riapertura, presso il Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio, del procedimento originariamente avviato in sede regionale o provinciale, e per il quale l’autorità designata dalla regione o provincia autonoma si sia dichiarata incompetente ai sensi dell’articolo 42, comma 3 (in quanto con impatti interregionali o transfrontalieri) (comma 3).
Vengono quindi indicate, nei commi 5 e 6, le disposizioni per garantire l’adeguata informazione e partecipazione del pubblico mediante la pubblicazione dell’annuncio dell’avvenuta presentazione, a cura del committente/proponente, almeno in un quotidiano a diffusione nazionale e in un quotidiano a diffusione regionale per ciascuna regione territorialmente interessata. E’ prevista, inoltre, la possibilità, per chiunque vi abbia interesse, ai sensi delle leggi vigenti, di presentare al Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio, oppure alla Commissione tecnico-consultiva e alla regione interessata, istanze, osservazioni o pareri scritti sull’opera soggetta a VIA, nel termine di trenta giorni dalla pubblicazione dell’avvenuta comunicazione del progetto[39].
Le ulteriori disposizioni recate dall’art. 36 (commi dal 7 al 9) verranno illustrate successivamente all’interno della fase decisionale, in quanto ad essa più propriamente afferenti.
Attengono, invece, ancora alla fase preliminare del procedimento di VIA statale le norme contenute nell’art. 38 che prevedono che, per tutti i progetti sottoposti a procedura di VIA statale di cui all’art. 35, la Commissione tecnico-consultiva provvede a svolgere la relativa istruttoria anche per le nuove fasi preliminari ed eventuali di verifica preventiva, previste:
§ all’art. 26, comma 3 relativo alla semplificazione documentale;
§ all’art. 27, comma 2, riguardante la definizione delle informazioni da inserire nel SIA;
§ all’art. 32 sulla verifica preliminare di assoggettamento a VIA;
§ all’art. 36, comma 3, per una semplificazione delle modalità di divulgazione.
Vengono quindi precisate le modalità per l’attivazione di tali fasi preliminari presso la Commissione tecnico- consultiva, e quelle relative allo svolgimento dell’istruttoria da parte di sottocommissioni appositamente costituite.
Le norme procedimentali relative alla fase istruttoria recate dall’art. 37, riguardano, da un lato i compiti prettamente istruttori della Commissione tecnico-consultiva (commi da 1 a 7), dall’altro una serie di disposizioni specifiche per gli impianti di produzione di energia elettrica di potenza superiore a 300 MW termici, per i quali si prevede che la procedura di VIA venga integrata nel procedimento per il rilascio dell’AIA (commi da 8 a 11).
Si ricordano, in relazione a tale fase, anche le disposizioni di carattere comune relative alle finalità della fase istruttoria recate dal precedente art. 30.
Le attività tecnico-istruttorie per la VIA dei progetti di opere/interventi di competenza statale sono, pertanto, svolte dalla Commissione tecnico-consultiva con le seguenti modalità.
Sarà compito del vicepresidente competente provvedere alla costituzione di apposita sottocommissione per ogni progetto ricevuto e di provvedere, altresì, alla sua integrazione in presenza di interessi regionali coinvolti (comma 1). Viene, inoltre, specificato che tale comma non si applica agli impianti agli impianti di energia elettrica di potenza superiore a 300 MW termici, disciplinati separatamente dai successivi commi dall’8 all’11.
Nel caso in cui la sottocommissione verifichi l’incompletezza della documentazione presentata, essa può richiederne l’integrazione, sospendendo i termini temporali del procedimento fino al ricevimento delle integrazioni richieste. Ove il soggetto interessato non provveda, quindi, a fornire le integrazioni richieste entro i trenta giorni successivi, o entro un termine diverso indicato nella richiesta di integrazioni, il procedimento viene archiviato. Nulla vieta, comunque, al committente/proponente di presentare una nuova domanda (comma 2).
Sarà poi compito della sottocommissione valutare tutta la documentazione presentata, nonché le osservazioni, obiezioni e suggerimenti inoltrati ai sensi degli artt. 36, commi 4 e 6 (il parere degli enti locali/regione e di chiunque vi abbia interesse, nella fase introduttiva del procedimento) e 39 (il parere di una altro Stato membro), ed esprimere il proprio parere motivato entro il termine di trenta giorni a decorrere dalla scadenza di tutti i termini indicati nei citati artt. 36, commi 4 e 6 e 39, fatta comunque salva la sospensione eventualmente disposta per incompletezza della documentazione (comma 3).
Il parere della sottocommissione dovrà, quindi, essere trasmesso, entro dieci giorni dalla sua verbalizzazione, dal vicepresidente al Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio, cui spetterà il giudizio di compatibilità ambientale, ai sensi del comma 7 dell’art. 36 (comma 4).
Vengono quindi indicate norme ulteriori (commi 5, 6 e 7) per i casi in cui, in base alle procedure di approvazione previste dalle specifiche leggi di settore, la VIA venga eseguita su progetti preliminari o di massima. Viene, infatti, prevista una verifica di ottemperanza,da parte della sottocommissione, del progetto definitivo alle prescrizioni del giudizio di compatibilità ambientale ed effettuare gli opportuni controlli in tal senso.
Pertanto, se nel corso di tali verifiche venga accertato che il progetto definitivo differisce da quello preliminare quanto alle aree interessate o alle risorse ambientali coinvolte, la sottocommissione ne dà comunicazione, con uno specifico rapporto, al Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio, per l’adozione dei provvedimenti relativi all’aggiornamento del SIA e per la nuova pubblicazione dello stesso, ed anche ai fini dell’eventuale invio di osservazioni da parte dei soggetti pubblici e privati interessati.
A sua volta, ai fini dello svolgimento di tali compiti di verifica, il proponente è tenuto, pena la decadenza dell’autorizzazione alla realizzazione del progetto, a trasmettere il progetto definitivo alla sottocommissione prima dell’avvio della realizzazione dell’opera.
Si osserva che tali disposizioni sulla verifica del progetto definitivo mutua, con alcune modifiche, le norme previste per la VIA delle grandi opere dall’analoga procedura di ottemperanza dall’art. 20, commi 4 e 5 del decreto legislativo n. 190 del 2002, recentemente modificate dal comma 12 dell'art. 24, della legge 18 aprile 2005, n. 62 (legge comunitaria 2004).
Si ricordano, al riguardo, le norme specifiche per la VIA per le grandi opere previste dalla legge obiettivo recate dal decreto legislativo di attuazione n. 190 del 2002, che prevedono che la procedura di VIA venga effettuata sul progetto preliminare (art. 3) e le disposizioni sullo svolgimento dell’istruttoria da parte della Commissione speciale VIA tra le quali, viene, appunto, prevista anche una verifica di ottemperanza del progetto definitivo al preliminare (art. 20).
Nel comma 5 dell’art. 20 del decreto legislativo si legge “Qualora il progetto definitivo sia sensibilmente diverso da quello preliminare, la Commissione riferisce al Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio il quale, ove ritenga, previa valutazione della Commissione stessa, che le varianti abbiano significativo impatto sull'ambiente, dispone, nei trenta giorni dalla comunicazione fatta dal soggetto aggiudicatore, concessionario o contraente generale, l'aggiornamento dello studio di impatto ambientale e la nuova pubblicazione dello stesso, anche ai fini dell'eventuale invio di osservazioni da parte dei soggetti pubblici e privati interessati”.
Tuttavia, nel raffronto fra le due normative, si osserva che le norme sulla verifica recate dal provvedimento in esame limitino i parametri su cui andrà operato il confronto tra progetto definitivo e preliminare. Il parametro su cui verificare lo scostamento del definitivo dal preliminare potrà essere riferito solo “alle aree interessate o alle risorse ambientali coinvolte”, e non al progetto definitivo “sensibilmente diverso da quello preliminare…le cui varianti abbiano un significativo impatto sull’ambiente”, come, invece,dispone il comma 5, dell’art. 20 del decreto legislativo n. 190.
Le norme contenute nei commi da 8 a 11 recano, invece, una serie di disposizioni specifiche per gli impianti di produzione di energia elettrica di potenza superiore a 300 MW termici che prevedono che la procedura di VIA venga integrata nel procedimento per il rilascio dell’AIA, secondo le particolari prescrizioni dettate dai suddetti commi..
Tali prescrizioni relative alla documentazione da presentare, alle competenze sullo svolgimento dell’istruttoria, alla sospensione del procedimento per il rilascio dell’AIA fino alla conclusione della procedura di VIA statale, sono identiche a quelle previste dall’art. 34 del decreto in esame per le opere/interventi sottoposti a VIA rientranti anche nel campo di applicazione dell’IPPC, per le quali il proponente ha facoltà di richiedere l’integrazione della procedura di VIA nel procedimento per il rilascio dell’AIA, previsto dal decreto legislativo n. 59 del 2005[40].
Pertanto, sembrerebbe opportuno, anche in considerazione dell’estraneità di tali disposizioni rispetto alla rubrica dell’articolo in esame sui compiti istruttori della Commissione tecnico-consultiva, una più appropriata collocazione delle stesse nell’ambito del citato art. 34 del decreto.
L’ultima fase relativa alla procedura di VIA statale riguarda la fase decisionale, alla quale va ricondotto il giudizio di compatibilità ambientale disciplinato dagli art. 36, commi da 7 e 9 e dall’art. 40.
Si ricorda che, per tale fase, sono state maggiormente dettagliate le disposizioni recate dalla normativa sulla disciplina della procedura di VIA statale di cui all’art. 6, commi 4 e seguenti della legge n. 349 del 1986.
L’atto che conclude la procedura di VIA statale, ai sensi dell’art. 36, comma 7, consiste in un giudizio di compatibilità ambientale che deve essere reso dal Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio, sulla base dell’istruttoria svolta dalla Commissione tecnico-consultiva, e di concerto con il Ministro per i beni e le attività culturali e con il Ministro proponente, entro novanta giorni (dalla data della pubblicazione di cui al precedente comma 5, e comunque non prima che siano decorsi i sessanta giorni dalla trasmissione prevista alle regioni e agli enti locali per il loro parere nella fase introduttiva).
L’inutile decorso del termine previsto dal comma precedente, da computarsi tenuto conto delle eventuali interruzioni e sospensioni intervenute, implica l’esercizio del potere sostituivo da parte del Consiglio dei Ministri, che deve provvedere entro sessanta giorni, ai sensi e con gli effetti di cui all’art. 31, comma 2 (comma 8).
Giova qui ripetere che il comma 2 del precedente art. 31 prevede che, nel caso che il Consiglio dei ministri non esprima un parere motivato entro i successivi sessanta giorni, il parere inespresso sia da considerasi come giudizio positivo incondizionato (cd. silenzio-assenso).
Per le problematiche relative a tale procedura si rinvia, pertanto, a quanto già sottolineato nell’art. 31.
Per le sole opere/interventi la cui autorizzazione alla costruzione o all’esercizio è competenza di organi dello Stato (art. 35, comma 1, lett. a), viene prevista la possibilità per il Ministro competente alla loro realizzazione, ove non ritenga di uniformare il progetto proposto al giudizio di compatibilità del Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio, di proporre motivatamente al Presidente del Consiglio dei Ministri l’adozione di un provvedimento di revisione di tale giudizio, o di disporre la non realizzazione del progetto. Sulla proposta di revisione il Consiglio dei Ministri si esprime nei termini e con gli effetti di cui al precedente comma 8 (entro sessanta giorni ed il parere inespresso equivale a giudizio positivo incondizionato).
Ai sensi dell’art. 40 dello schema di decreto, quindi, gli esiti della procedura di VIA devono essere comunicati ai soggetti del procedimento e a tutte le altre amministrazioni pubbliche competenti (anche in materia di controlli ambientali), nonché adeguatamente pubblicizzati (comma 1).
Vengono pertanto recepite le disposizioni comunitarie recate dall’art. 9 della direttiva 85/337/CEE, come sostituite dalla direttiva 2003/35/CE.
Il giudizio di compatibilità ambientale può risolversi in un giudizio positivo (quindi, di compatibilità dell’opera) oppure può dettare eventuali prescrizioni per la mitigazione degli impatti ed il monitoraggio delle opere e degli impianti. Esso deve essere acquisito dall’autorità competente al rilascio dell’autorizzazione definitiva alla realizzazione dell’opera o dell’intervento progettato (comma 2).
Viene, inoltre, precisato che nel caso di iniziative promosse da autorità pubbliche, il provvedimento definitivo che ne autorizza la realizzazione deve adeguatamente evidenziare la conformità delle scelte effettuate agli esiti della procedura d’impatto ambientale. In tutti gli altri casi, i progetti devono essere adeguati agli esiti del giudizio di compatibilità ambientale prima del rilascio dell’autorizzazione alla realizzazione (comma 3).
Infine viene introdotta una norma (comma 4) che dispone che, nell’ipotesi di opere non realizzate almeno per il venti per cento entro tre anni dal giudizio di compatibilità ambientale, la procedura dovrà essere riaperta per valutare se le informazioni riguardanti il territorio e lo stato delle risorse abbiano subito nel frattempo mutamenti rilevanti.
In ogni caso il giudizio di compatibilità ambientale cessa di avere efficacia al compimento del quinto anno dalla sua emanazione.
Disposizioni specifiche disciplinano la terza categoria di opere sottoposte a VIA statale, vale a dire quelle che potrebbero avere effetti significativi sull’ambiente di un altro Stato dell’Unione europea, dando, nel contempo, piena attuazione alle disposizioni recate dalla direttiva 2003/35/CE, che ha sostituito l’art. 7 della direttiva 85/337/CEE.
Si ricorda che la normativa vigente non esclude le procedure per i progetti con impatti ambientali transfrontalieri da quelle soggette a disciplina regionale. L’art. 12 del DPR 12 aprile 1996 dispone, infatti, che le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano debbano informare il Ministro dell'ambiente per l'adempimento degli obblighi di cui alla convenzione sulla VIA in un contesto transfrontaliero, stipulata a Espoo il 25 febbraio 1991, ratificata con la legge 3 novembre 1994, n. 640.
Viene ora previsto che, nel caso in cui l’opera/l’intervento progettato possa avere effetti significativi sull’ambiente di un altro Stato membro dell’Unione europea, ovvero qualora lo Stato membro che potrebbe essere coinvolto in maniera significativa ne faccia richiesta, a tale Stato devono essere trasmesse una serie di informazioni che devono, almeno contenere:
a) una descrizione del progetto con tutte le informazioni disponibili circa il suo eventuale impatto transfrontaliero;
b) le informazioni sulla natura della decisione che può essere adottata.
A sua volta, lo Stato membro che ha ricevuto tali informazioni, può comunicare, entro i successivi trenta giorni, che intende partecipare alla procedura di VIA. In tal caso dovranno essergli trasmesse anche delle informazioni aggiuntive quali: copia la domanda del committente/proponente, il progetto dell’opera/intervento, il SIA e la sintesi non tecnica.
Rispetto alle disposizioni comunitarie, che prevedono di lasciare all’altro Stato membro un “ragionevole lasso di tempo per far sapere se desidera partecipare alle procedure decisionali in materia ambientale”, la nuova disciplina provvede ad indicare tale lasso di tempo in trenta giorni.
Una volta trasmessa la documentazione aggiuntiva, lo Stato interessato ha trenta giorni di tempo per presentare eventuali osservazioni, salvo che non decida di esprimere il proprio parere previa consultazione delle autorità competenti e del pubblico interessato. In tale seconda ipotesi il termine viene prorogato a novanta giorni.
Con tale norme viene tutelato l’interesse e la partecipazione del pubblico ribadita dalle modifiche apportate in ambito comunitario con la direttiva 2003/35/CE.
Tali disposizioni prevedono, infatti, ai par. 3 e 4, dell’art. 7 che gli “Stati membri interessati, ciascuno per quanto lo concerne:
a) provvedono, entro un ragionevole lasso di tempo, a mettere a disposizione delle autorità di cui all'art. 6, par. 1, nonché dei cittadini interessati per quanto riguarda il territorio dello Stato membro che rischi di subire un rilevante impatto ambientale, le informazioni di cui ai par. 1 e 2; e
b) si accertano che le suddette autorità e i suddetti cittadini interessati abbiano la possibilità, anteriormente al rilascio dell'autorizzazione al progetto, di comunicare, entro un ragionevole lasso di tempo, i loro pareri sulle informazioni fornite all'autorità competente dello Stato membro nel cui territorio è prevista la realizzazione del progetto. Gli Stati membri interessati avviano consultazioni riguardanti, tra l'altro, l'eventuale impatto transfrontaliero del progetto e le misure previste per ridurre o eliminare tale impatto e fissano un termine ragionevole per la durata del periodo di consultazione”.
In pendenza dei termini indicati, vengono pertanto sospesi tutti i termini della procedura di VIA.
Viene, infine, disposto che gli Stati membri interessati possono ulteriormente dettagliare le modalità di attuazione dell’articolo in esame, concordandole, caso per caso con lo Stato membro interessato.
Si osserva che nella disposizione comunitaria di riferimento contenuta nel par. 5 dell’art. 7 della direttiva è presente un inciso (introdotto dall’ultima direttiva 2003/35/CE) che fa comunque salve condizioni adeguate di partecipazione del pubblico alle procedure decisionali[41]. In proposito, sembrerebbe opportuno che anche il testo italiano riportasse questo inciso.
Analogamente a quanto già previsto dalla normativa vigente in materia di VIA statale (art. 6, comma 6, della legge n. 349 del 1986 e art. 4 del DPCM n. 377 del 1988), viene riconfermato il potere di vigilanza del Ministro dell’ambiente sull’osservanza del giudizio di compatibilità ambientale o delle eventuali prescrizioni in esso contenute, durante la realizzazione dell’opera/intervento. Tale potere, attivabile su segnalazione della Commissione tecnico-consultiva, può spingersi fino alla sospensione dei lavori ed all’ordine di ripristino delle condizioni di compatibilità ambientale dei lavori stessi.
La nuova disciplina sulla VIA regionale o provinciale, come già indicato per quella statale, sottopone a VIA tutti i progetti di opere/interventi previsti dall’art. 23 (nel quale, lo ripetiamo, rientrano indistintamente sia i progetti di opere sottoposte dalla attuale normativa vigente a procedura di VIA statale che regionale, oltre a nuove tipologie ivi previste), ad esclusione di quelli sottoposti ad autorizzazione statale o aventi impatto ambientale interregionale o transfrontaliero (comma 1).
Alle regioni e alle province autonome è poi attribuita la facoltà di disporre, sulla base degli elementi indicati nell’Allegato IV del decreto in esame, un incremento, nella misura massima del 20 per cento, delle soglie di cui all’elenco B dell’Allegato III, per determinate categorie progettuali e/o aree predeterminate (comma 2).
Si osserva che tale facoltà era già prevista dalla normativa sulla VIA regionale all’art. 1, comma 7, del DPR 12 aprile 1996, ma tali soglie potevano essere non solo incrementate ma anche diminuite nella misura percentuale del 30, anziché del 20 per cento.
Viene, infine, previsto che nel caso in cui dall’istruttoria svolta in sede regionale/provinciale emerga che l’opera/intervento progettato possa avere un impatto rilevante interregionale/interprovinciale o transfrontaliero, l’autorità competente, con provvedimento motivato, si dichiara incompetente e rimette gli atti alla Commissione tecnico-consultiva per il loro eventuale utilizzo nel procedimento riaperto in sede statale (comma 3).
Si ricorda che la disciplina sul procedimento di VIA regionale (art. 12 del DPR 12 aprile 1996), nel caso di progetti che possano avere impatti rilevanti sull’ambiente di un altro Stato membro, prevede un obbligo di informazione in capo alle regioni/province autonome verso il Ministro dell'ambiente per l'adempimento degli obblighi di cui alla convenzione sulla VIA in un contesto transfrontaliero, stipulata a Espoo il 25 febbraio 1991, ratificata con la legge 3 novembre 1994, n. 640.
Ai sensi dell’art. 43, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano disciplinano con proprie leggi e regolamenti le procedure per la VIA dei progetti delle opere/interventi che rientrano nella loro competenza ai sensi del precedente art. 42, in conformità alle norme comuni in materia di VIA indicate nel Capo I (del Titolo III).
Si ricorda che la disciplina vigente in materia di VIA regionale prevede analoga potestà legislativa, nell’ambito dell’atto di indirizzo di cui al DPR 12 aprile 1996 con il quale sono stati fissati condizioni, criteri e norme tecniche per l'applicazione della procedura di VIA da parte delle regioni e delle province autonome.
Le regioni/province autonome dovranno, comunque, nel disciplinare i contenuti e la procedura di VIA, assicurare che siano almeno individuati:
a) l’autorità competente in materia di VIA;
b) l’organo tecnico competente allo svolgimento dell’istruttoria;
c) le eventuali deleghe agli enti locali per particolari tipologie progettuali;
d) le eventuali modalità, ulteriori o in deroga rispetto a quelle indicate nella parte seconda del presente decreto, per l’informazione e la consultazione del pubblico;
e) le modalità di realizzazione o adeguamento delle cartografie, degli strumenti informativi territoriali di supporto e di un archivio dei SIA consultabile dal pubblico;
f) i criteri integrativi con i quali vengono definiti le province ed i comuni interessati dal progetto.
Le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano possono individuare appropriate forme di pubblicità, ulteriori rispetto a quelle previste nel regolamento di cui all’art. 10, comma 3, del decreto in esame.
Si fa notare che il riferimento all’art. 10, comma 3, non sembrerebbe appropriato in quanto, tale comma riguarda un regolamento specifico per le forme di pubblicità della VAS e non della VIA.
Fino all’entrata in vigore delle discipline regionali/provinciali previste, si applicano le disposizioni di cui alla parte seconda del decreto in esame.
Analogamente a quanto già prevedono le attuali norme in materia di VIA regionale all’art. 5, comma 4, del DPR 12 aprile 1996, le regioni/ province autonome possono, per casi di particolare rilevanza, prorogare i termini per la conclusione della procedura (prevista dalle norme comuni all’art. 31 entro novanta giorni dalla pubblicazione degli atti ad essa inerenti) sino ad un massimo di sessanta giorni (art. 44).
Le ultime disposizioni in materia di VIA regionale o delle province autonome, recate dagli artt. 45 e seguenti, ripropongono esattamente quanto già previsto nell’atto di indirizzo di cui al DPR 12 aprile 1996 sul coordinamento della procedura di VIA con le procedure ordinarie di assenso alla realizzazione delle opere (art. 5, comma 5, del DPR), in merito alla possibilità di prevedere procedure semplificate per progetti di dimensioni ridotte o di durata limitata (art. 8, comma 4, del DPR) o, addirittura, casi di esclusione dalla stessa procedura di VIA regionale (art. 10, comma 3, del DPR).
Come già dispone l’art. 10, comma 3, del citato DPR, è confermato l’obbligo annuale di informazione in capo alle regioni/province autonome nei confronti del Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio in merito ai provvedimenti adottati, i procedimenti di VIA in corso e lo stato di definizione delle cartografie e degli strumenti informativi.
Infine, è prevista la possibilità per le regioni/province autonome di integrare le disposizioni comuni in materia di VIA/VAS e VIA/IPPC (di cui agli artt. 33 e 34 del decreto in esame).
Come già accennato, il commento delle disposizioni recate dal Titolo II relativo al recepimento delle norme comunitarie sulla VAS, è stato trattato dopo l’illustrazione del Titolo III sulla VIA, in quanto la procedura adottata per la VAS è disegnata in relazione a quella della VIA, alla quale, tra l’altro, è collegata da nessi giuridici sostanziali e procedurali.
Con le disposizioni recate dal Titolo II si dà, pertanto, attuazione alla direttiva comunitaria 2001/42/CE relativa alla valutazione degli effetti di determinati piani e programmi sull’ambiente, cosiddetta “valutazione ambientale strategica” (VAS), il cui recepimento è stato, da ultimo[42] previsto, entro il 30 ottobre 2004, dall’art. 19 della legge 18 aprile 2005, n. 62 (comunitaria 2004).
Per la mancata attuazione entro i termini previsti del 21 luglio 2004, la Commissione europea ha inviato, l’11 luglio 2005, il proprio parere motivato, a dodici Stati membri tra cui l’Italia invitandoli a recepire la direttiva 2001/42/CE.[43]
Occorre ancora ricordare che, se da un lato la VAS non è ancora stata disciplinata dalla normativa statale, eccetto all’interno della legge n. 285 del 2000 relativa allo svolgimento dei giochi olimpici invernali “Torino 2006”, dall’altro alcune regioni hanno già emanato disposizioni riguardanti l’applicazione di tale procedura con riferimento alla direttiva comunitaria.
Si ricordano soprattutto la legge regionale n. 11 del 6 maggio 2005 del Friuli-Venezia Giulia “Disposizioni per l'adempimento degli obblighi della Regione Friuli Venezia Giulia derivanti dall'appartenenza dell'Italia alle Comunità europee. Attuazione delle direttive 2001/42/CE, 2003/4/CE e 2003/78/CE. (Legge comunitaria 2004)”, ove al Capo I ( artt. dal 2 all’11) viene interamente recepita la direttiva 2001/42/CE sulla VAS e la legge regionale del Veneto n. 11 del 23 aprile 2004 “Norme per il governo del territorio”, in cui all’art. 4, vengono sottoposti a VAS il piano territoriale regionale di coordinamento, i piani territoriali di coordinamento provinciali, i piani di assetto del territorio comunali e intercomunali. Si ricorda, inoltre che la legge regionale n. 15 del 14 luglio 2004 delle Marche "Disciplina delle funzioni in materia di difesa della costa", prevede, all’art. 3, la VAS per il Piano di gestione integrata delle aree costiere analogamente alla Calabria (art. 10 della legge n. 13 del 17 agosto 2005) e l’art. 4 della legge n. 26 del 29 dicembre 2003 dell’Umbria “Ulteriori modificazioni, nonché integrazioni, della legge regionale 3 gennaio 2000, n. 2 - Norme per la disciplina dell'attività di cava e per il riuso di materiali provenienti da demolizioni”, sottopone a VAS il Piano Regionale delle Attività Estrattive (PRAE).
La direttiva 2001/42/CE, adottata il 27 giugno 2001 dal Parlamento Europeo e dal Consiglio, sulla valutazione degli effetti di determinati piani e programmi sull’ambiente (VAS), si pone come obiettivo quello di garantire un elevato livello di protezione dell’ambiente. Essa individua nella valutazione ambientale strategica lo strumento per l’integrazione delle considerazioni ambientali all’atto dell’elaborazione e dell’adozione di piani e programmi, al fine di promuovere lo sviluppo sostenibile. In tal modo garantisce che gli effetti ambientali derivanti dall’attuazione di determinati piani e programmi (art. 3)[44], siano presi in considerazione e valutati durante la loro elaborazione e prima della loro adozione (art. 4).
L'interessante innovazione introdotta dalla direttiva è, infatti, riconducibile al momento di applicazione della valutazione stessa che "deve essere effettuata durante la fase preparatoria del piano o del programma ed anteriormente alla sua adozione o all'avvio della relativa procedura legislativa". È quindi una procedura che accompagna l'iter pianificatorio o programmatico capace di garantire la scelta coscienziosa fra le ragionevoli alternative "alla luce degli obiettivi e dell'ambito territoriale del piano e programma" indicate in uno specifico rapporto ambientale (art. 5).
Altra fondamentale innovazione è la sostanziale partecipazione del "pubblico" al processo valutativo (art. 6 relativo alle consultazioni) dove per pubblico si intende "una o più persone fisiche o giuridiche, secondo la normativa o la prassi nazionale, e le loro associazioni, organizzazioni o gruppi" (art. 2).
La direttiva prevede, inoltre, che, durante l’attuazione del piano, siano contemplate misure per il monitoraggio, permettendo, quindi, di effettuare delle correzioni al processo in atto nel caso di effetti negativi sull’ambiente del piano stesso (art. 10).
L’art. 13 della direttiva prevede, infine, il suo recepimento da parte degli Stati membri prima del 21 luglio 2004.
La VAS, si delinea, quindi, come un processo sistematico inteso a valutare le conseguenze sul piano ambientale delle azioni proposte – politiche, piani o iniziative nell’ambito di programmi nazionali, regionali e locali - in modo che queste siano incluse e affrontate, alla pari delle considerazioni di ordine economico e sociale, fin dalle prime fasi (strategiche) del processo decisionale. In altre parole, la VAS assolve al compito di verificare la coerenza delle proposte programmatiche e pianificatorie con gli obiettivi di sostenibilità, a differenza della VIA che si applica a singoli progetti di opere.
Pertanto, la direttiva VAS estende, in sostanza, le medesime garanzie procedurali della VIA anche ai piani e ai programmi, coronando un percorso evolutivo che la Commissione europea aveva auspicato fin dalla sua prima proposta del 1980 sulla VIA, e avvicinando il modello europeo a quello dello statunitense NEPA (National Environmental Policy Act) del 1969.
In modo del tutto analogo, sono quindi previsti:
a) una matrice di criteri per individuare i piani e i programmi soggetti a VAS (rinvio per relationem ai piani e programmi che definiscono il quadro di riferimento per l'autorizzazione dei progetti classificati ai sensi della direttiva 85/337/CEE);
b) la predisposizione, durante la fase preparatoria del piano, di un rapporto ambientale che individua, descrive e valuta gli effetti ambientali del piano nonché le sue ragionevoli alternative;
c) una fase di informazione del «pubblico» e di consultazione del «pubblico interessato»;
d) una decisione di adozione del piano motivata, corredata da una dichiarazione di sintesi sugli aspetti ambientali e resa pubblica;
e) un obbligo di monitoraggio ex post degli effetti del piano/programma.
Si ricorda che la Commissione europea ha elaborato, nel 2003, delle linee guida per l’attuazione della direttiva VAS con la finalità di “aiutare gli Stati membri ad attuare la direttiva per rispettarne le disposizioni e ricavarne i benefici previsti. Dovrebbe infine permettere loro di comprendere meglio la finalità e il funzionamento della direttiva, considerando le implicazioni che avrà sulle procedure di pianificazione in vigore al loro interno”[45].
Infine, va ricordato, che anche la direttiva 2003/4/CE relativa all’accesso del pubblico all’informazione ambientale, recentemente recepita dal decreto legislativo 19 agosto 2005, n. 195, ha previsto, all’art. 7, comma 2, che “L'informazione che deve essere resa disponibile e diffusa viene aggiornata, se del caso, e comprende almeno: …b) le politiche, i piani e i programmi relativi all'ambiente”.
I piani e programmi da sottoporre obbligatoriamente alla procedura VAS sono, analogamente a quanto dispone l’art. 3 della direttiva 2001/42/CE:
a) quelli che presentino entrambi i requisiti seguenti:
1) riguardano i settori agricolo, forestale, della pesca, energetico, industriale, dei trasporti, della gestione dei rifiuti e delle acque, delle telecomunicazioni, turistico, della pianificazione territoriale o della destinazione dei suoli;
2) definiscono il quadro di riferimento per l’approvazione, l’autorizzazione, la localizzazione o comunque la realizzazione di opere ed interventi i cui progetti sono sottoposti a VIA in base alla normativa vigente.
b) i piani/programmi relativi ai siti designati come zone di protezione speciale per la conservazione degli uccelli selvatici e quelli classificati come siti di importanza comunitaria per la protezione degli habitat naturali e della flora e della fauna selvatica, ai sensi della direttiva 92/43/CE, eccettuati i piani e i programmi direttamente connessi e necessari alla gestione di tali siti (commi 1 e 2).
Si osserva che tale ultimo inciso “eccettuati i piani e i programmi direttamente connessi e necessari alla gestione di tali siti” non è previsto nell’art. 3 della direttiva 2001/42/CE.
Sono, altresì, soggetti a VAS, solo nel caso possano avere effetti significativi sull’ambiente, anche i piani/programmi:
- diversi da quelli per i quali la VAS è obbligatoria, contenenti la definizione del quadro di riferimento per l’approvazione, l’autorizzazione, la localizzazione o comunque la realizzazione di opere/interventi i cui progetti non sono sottoposti a VIA, ma che, a giudizio della Commissione tecnico-consultiva, possono avere effetti significativi sull’ambiente;
- che determinano l’uso di piccole aree a livello locale e le modifiche dei piani/programmi per i quali la VAS è obbligatoria e che siano già stati approvati (commi 3 e 4 ).
Si osserva che la possibilità di tale ampliamento dell’ambito di applicazione della VAS è attribuito agli Stati membri, dall’art. 3, par. 3 e 4 della stessa direttiva, che attribuisce agli Stati il potere discrezionale di verificare da un lato, se piani/programmi che riguardano piccole aree a livello locale o piccole modifiche producano significativi effetti ambientali e di stabilire l'opportunità di sottoporli a valutazione e, dall’altro, anche di ampliare l'elenco dei settori a cui devono fare riferimento i piani/programmi da sottoporre a VAS, sempre che producano effetti significativi sull'ambiente.
Ai fini della sottoposizione a VAS di tali piani/programmi che potrebbero avere effetti significativi sull’ambiente e delle modifiche di un piano/programma già approvato, è prevista una verifica preliminare da parte dell’autorità competente all’approvazione del piano/programma stesso, secondo i criteri di cui all’Allegato II al decreto in esame (comma 5).
Si osserva che l’autorità competente all’approvazione del piano/programma dovrebbe corrispondere, a seconda del livello di pianificazione interessato, al Ministero dell’ambiente, ai sensi dell’art. 2, comma 5, della legge n. 349 del 1986 che prevede che il Ministro dell'ambiente intervenga, per il concerto, nella predisposizione dei piani di settore a carattere nazionale che abbiano rilevanza di impatto ambientale, oppure alla regione o ad altro ente locale territoriale.
L’articolo prevede, inoltre, in ottemperanza alle disposizioni comunitarie, una procedura di consultazione delle altre autorità che, per le loro specifiche competenze ambientali, possono essere interessate agli effetti sull’ambiente dovuti all’applicazione del piano/programma oggetto d’esame e una procedura di informazione nei confronti del pubblico.
Per i piani/programmi la cui approvazione compete ad organi dello Stato deve, inoltre, essere acquisito il parere della Commissione tecnico-consultiva (commi 6 e 7).
Le esplicite esclusioni dal campo di applicazione della VAS, analogamente a quanto dispone, il par. 8 dell’art. 3 della direttiva, sono:
a) i piani e i programmi destinati esclusivamente a scopi di difesa nazionale e di protezione civile;
b) i piani e i programmi finanziari o di bilancio.
Analogamente a quanto disposto in una delle più rilevanti innovazioni introdotte dalla direttiva 2001/42/CE (art. 4, par. 1), l’art. 8 del decreto in esame prevede che VAS deve essere effettuata durante la fase preparatoria del piano/programma ed anteriormente alla sua approvazione in sede legislativa o amministrativa.
Conseguentemente, le procedure amministrative previste dal presente titolo del decreto in esame dovranno essere integrate nelle procedure ordinarie in vigore per l’adozione ed approvazione dei piani/programmi.
Inoltre, per piani/programmi gerarchicamente ordinati, le autorità competenti alla loro approvazione dovranno tenere conto, al fine di evitare duplicazioni del giudizio, delle valutazioni già effettuate ai fini dell’approvazione del piano sovraordinato e di quelle da effettuarsi per l’approvazione dei piani sottordinati.
Si ricorda che tali disposizioni ricalcano il dettato della direttiva (art. 4, par. 2 e 3) che stabilisce l'obbligo per gli Stati membri di integrare la VAS nelle procedure per l'adozione dei piani e dei programmi e, per evitare duplicazioni della valutazione, viene altresì previsto che gli Stati membri tengano conto del livello gerarchico di piani e programmi.
Si osserva che le norme recate dall’art. 8 permettono di configurare la VAS come un processo sistematico inteso a valutare le conseguenze sul piano ambientale delle azioni proposte, in modo che queste siano incluse e affrontate, al pari delle considerazioni di ordine economico e sociale, fin dalle prime fasi (strategiche) del processo decisionale.
La VAS si configura, pertanto, come una procedura che accompagna l'iter pianificatorio o programmatico capace di garantire la scelta fra le ragionevoli alternative, alla luce degli obiettivi e dell'ambito territoriale del piano/programma, indicate in uno specifico rapporto ambientale, redatto secondo le disposizioni contenute nell’art. 9.
Vengono, quindi, stabiliti i modi ed i termini di stesura del rapporto ambientale nel quale devono essere individuati, descritti e valutati:
§ gli effetti significativi che l'attuazione del piano/programma proposto potrebbero avere sull'ambiente;
§ le ragionevoli alternative alla luce degli obiettivi e dell'ambito territoriale del piano/programma stesso.
Le informazioni da riportare nel rapporto sono quindi contenute nell'Allegato I dello schema di decreto (che corrisponde all’Allegato I della direttiva), ma esse costituiscono indicazioni di "minima", in quanto possono esservi inserite anche informazioni aggiuntive, purché utili alle finalità della valutazione. In questo senso, il comma 3 dello stesso art. 9, stabilisce che possono essere utilizzate anche altre informazioni, purché pertinenti, ottenute ad altri livelli dell'iter decisionale, o attraverso altre disposizioni normative (come dispone l’art. 5, par. 3, della direttiva 2001/42/CE).
Criterio generale per determinare il contenuto del rapporto è la ragionevolezza. Infatti, le informazioni da comprendere sono quelle che possono essere “ragionevolmente richieste” in virtù:
- delle conoscenze attuali e dei metodi di valutazione;
- dei contenuti e del livello di dettaglio del piano/programma;
- della fase in cui sarà utilizzato nell'iter decisionale;
- della misura in cui taluni aspetti possono essere più adeguatamente valutati in altre fasi dell'iter.
Tali criteri rispecchiano esattamente quelli indicati dall’art. 5, par. 2, della direttiva 2001/42/CE.
Il rapporto costituisce, inoltre, parte integrante della documentazione dei piani/programmi stessi.
Viene quindi prevista l’obbligatorietà della consultazione delle autorità che, per le loro specifiche competenze ambientali, possono essere interessate agli effetti sull’ambiente dovuti all’applicazione del piano/programma oggetto d’esame al momento della decisione sulla portata delle informazioni da includere nel rapporto ambientale e sul loro livello di dettaglio (come prevede l’art. 5, par. 4, della direttiva 2001/42/CE).
Innovativamente rispetto a quanto dispone l’art. 5 della direttiva comunitaria che nulla indica al riguardo, l’art. 9, comma 4, in esame prevede la possibilità, per il proponente di attivare una fase preliminare allo scopo di definire, in contraddittorio con l’autorità competente, le informazioni che devono essere fornite nel rapporto ambientale e le cui modalità di attuazione saranno disciplinate nel successivo art. 20.
Si ricorda che una procedura analoga è prevista per la definizione delle informazioni da inserire nel SIA nel procedimento di VIA ai sensi dell’art. 27, comma 2, dello schema di decreto in esame, che però era contemplata dalla rispettiva direttiva 85/337/CEE all’art. 5, par. 2.
Al rapporto ambientale deve essere allegata una sintesi non tecnica dei contenuti del piano/programma proposto e degli altri dati ed informazioni contenuti nel rapporto stesso (comma 6).
Si osserva che la direttiva 2001/42/CE prevede la sintesi non tecnica solo per i dati contenuti nel rapporto ambientale (Allegato I, lett. j).
Al fine di permettere alle autorità ed al pubblico interessato di esprimere il proprio parere sul rapporto ambientale e sulla proposta di piano/programma, viene previsto, all’art. 10, un processo di consultazione, con le seguenti modalità:
- l’invio della proposta di piano/programma ed il relativo rapporto ambientale alle altre autorità che, per le loro specifiche competenze ambientali/paesaggistiche, esercitano funzioni amministrative correlate agli effetti sull’ambiente dovuti all’applicazione del piano/programma stesso;
- il deposito della sintesi non tecnica, con indicazione delle sedi ove può essere presa visione della documentazione integrale, in congruo numero di copie presso gli uffici delle province e delle regioni il cui territorio risulti anche solo parzialmente interessato dal piano/programma;
- l’annuncio a mezzo stampa dell’avvenuto invio e deposito secondo modalità stabilite con apposito regolamento, che dovrà assicurare criteri uniformi di pubblicità per tutti i piani/programmi sottoposti a VAS, garantendo che il pubblico interessato venga in tutti i casi adeguatamente informato.
Il regolamento che dovrà, altresì, stabilire i casi e le modalità per la contemporanea pubblicazione totale o parziale in internet della proposta di piano/programma e del rapporto ambientale, dovrà essere emanato con decreto ministeriale entro novanta giorni dalla data di entrata in vigore del decreto in esame.
Fino all’entrata in vigore del regolamento le pubblicazioni andranno eseguite a cura e spese dell’interessato in un quotidiano a diffusione nazionale ed in un quotidiano a diffusione regionale per ciascuna regione direttamente interessata.
Entro il termine di trenta giorni dalla pubblicazione della notizia di avvenuto deposito e dell’eventuale pubblicazione in internet, chiunque ne abbia interesse può prendere visione della proposta di piano/programma e del relativo rapporto ambientale e presentare proprie osservazioni, anche fornendo nuovi o ulteriori elementi conoscitivi e valutativi.
Appare opportuno osservare che il termine indicato di trenta giorni per presentare eventuali osservazioni (analogo a quello previsto per la procedura di VIA dall’art. 29, comma 1 dello schema di decreto in esame) potrebbe risultare insufficiente dato che i piani/programmi riguardano un complesso di opere e interventi con ricadute molteplici sul territorio, sull’ambiente, sui beni culturali e naturalistici, e, pertanto, potrebbe essere valutata l’opportunità di estendere il termine suddetto.
Si ricorda, al riguardo che anche l’art. 6, par. 2, della direttiva comunitaria, prevede che tale attività di consultazione deve essere realizzata in modo tempestivo, dando alle autorità e alla popolazione una "effettiva opportunità di esprimere in termini congrui il proprio parere sul piano o programma e sul rapporto ambientale che la accompagna, prima dell'adozione”.
Da ultimo, l’art. 10, prevede che le modalità attraverso cui si esplica tale procedura di consultazioni e le consultazioni stesse, sostituiscono ad ogni effetto tutte le forme di informazione e partecipazione eventualmente previste dalle procedure ordinarie di adozione ed approvazione dei medesimi piani/programmi.
Vengono, inoltre, specificate le procedure per le consultazioni transfrontaliere che devono essere attivate nella preparazione di piani/programmi che possono comportare effetti ambientali significativi ad altri Stati membri (art. 11).
La consultazione prevede l'invio del piano/programma e del rapporto ambientale prima dell'adozione allo Stato interessato, invitandolo ad esprimere il proprio parere entro il termine di sessanta giorni dal ricevimento della documentazione trasmessa.
Nel caso, invece, che lo Stato membro comunichi, entro il termine di trenta giorni dal ricevimento della documentazione, che, per esprimere il proprio parere, intende procedere a consultazioni, l’autorità competente deve concedere un congruo termine, comunque non superiore a novanta giorni, per consentire allo Stato membro di procedere alle consultazioni al proprio interno delle autorità e del pubblico interessato.
Si ricorda che le disposizioni della direttiva in merito alle consultazioni transfrontaliere (art. 7, par. 2), prevedono che gli Stati membri provvedono al coinvolgimento delle autorità e della popolazione garantendo le condizioni perché possano esprimere il loro parere entro “termini ragionevoli”.
Appartengono alla fase decisionale il giudizio di compatibilità ambientale e l’approvazione del piano/programma proposto (art. 12), nonché la loro pubblicizzazione (art. 13).
Vengono indicate innanzitutto le modalità di utilizzo della VAS nell'iter decisionale: il rapporto ambientale, i pareri espressi ai sensi dell’art. 10 e gli eventuali pareri di consultazioni transfrontaliere, devono essere presi in considerazione prima dell'adozione del piano/programma e dell'avvio della procedura legislativa (art. 12, comma 1).
Si ricorda che l’art. 8 della direttiva 2001/42/CE prevede che essi debbano essere presi in considerazione non solo prima dell’adozione del piano/programma, ma “in fase di preparazione del piano o del programma”.
Conseguentemente, sulla base degli esiti dell’esame e delle valutazioni di cui al comma precedente, l’autorità preposta alla VAS emette il giudizio di compatibilità ambientale contenente un parere ambientale articolato e motivato che costituisce presupposto per la prosecuzione del procedimento di approvazione del piano o del programma.
Il giudizio di compatibilità ambientale deve essere emesso entro sessanta giorni dalla scadenza dell’ultimo termine utile per la presentazione dei pareri di cui agli artt. 10 ed 11.
Inoltre, nel caso in cui tale giudizio venga condizionato all’adozione di specifiche modifiche ed integrazioni della proposta del piano/programma valutato, esso dovrà essere trasmesso al proponente con invito a provvedere alle necessarie varianti prima di ripresentare il piano/programma per l’approvazione.
Analogamente a quanto disposto nel procedimento di VIA (art. 31, comma 2), anche nel procedimento di VAS, l’inutile decorso del termine di sessanta giorni previsti per emettere il giudizio di compatibilità ambientale da parte dell’autorità ad esso preposta, implica l’esercizio del potere sostituivo del Consiglio dei Ministri, che è chiamato a provvedervi entro i successivi sessanta giorni, previa diffida all’organo competente ad adempiere entro il termine di venti giorni, anche su istanza delle parti interessate. Nel caso che il Consiglio dei ministri non esprima un parere motivato entro i sessanta giorni previsti,il parere inespresso è da considerasi come giudizio positivo incondizionato, cd. silenzio-assenso (comma 2).
Viene quindi previsto (comma 3) che l’approvazione del piano/programma dovrà tenere conto del giudizio di compatibilità ambientale.
A tal fine il provvedimento di approvazione dovrà essere accompagnato da una dichiarazione di sintesi nella quale saranno illustrate:
- in che modo le considerazioni ambientali sono state integrate nel piano/programma;
- in che modo si è tenuto conto del rapporto ambientale, dei pareri derivanti dalle consultazioni nazionali (art. 10) e di quelle transfrontaliere (art. 11);
- le ragioni per le quali è stato scelto il pian/programma adottato, anche rispetto alle alternative possibili che erano state individuate.
Si osserva, in merito al contenuto di tale dichiarazione di sintesi, che esso ripropone quanto previsto dall’art. 9, par. 1 della direttiva 2001/42/CE sul contenuto delle informazioni da mettere a disposizione del pubblico e delle autorità interessate.
Viene, inoltre, precisato che nel caso in cui emerga, durante l’istruttoria per l’approvazione di un piano/programma da sottoporre a VAS, che la relativa procedura non è stata attivata, l’autorità competente all’approvazione di detto piano/programma invita formalmente il proponente a provvedervi e, nel frattempo, sospende il procedimento di approvazione (comma 4).
Infine, l’art. 13, comma 1,prevede che l’adozione dei giudizi di compatibilità ambientale, nonché dei provvedimenti di adozione dei piani/programmi, devono essere resi noti al pubblico tramite avviso sulla stampa, effettuato dal proponente, secondo le modalità fissate dal regolamento di cui al precedente art. 10, comma 3.
Nel comma 2 è, inoltre, previsto che gli stessi giudizi di compatibilità ambientale e i provvedimenti di approvazione vengano trasmessi, in copia integrale, dall’autorità competente alle altre autorità ed agli Stati membri che hanno partecipato alle consultazioni di cui ai precedenti artt. 10 e11.
Si rileva, dal combinato disposto dei due commi, che l’articolo sembrerebbe prevedere due diverse modalità di pubblicizzazione dei giudizi di compatibilità: una sintetica in cui vengono pubblicizzati gli esiti della procedura di VAS e dei provvedimenti di adozione dei piani/programmi, nel caso si tratti di renderli noti al pubblico (comma 1), un’altra più analitica che prevede la trasmissione integrale della stessa documentazione, nel caso si tratti di renderla nota alle autorità da consultare per le specifiche competenze ambientali o agli Stati membri (comma 2). Tali diverse modalità di pubblicizzazione sembrerebbero, pertanto, non conformi all’art. 9 della direttiva 2001/42/CE che prevede che, dopo l'adozione, le autorità e la popolazione consultate siano informate degli esiti della decisone e che siano messi a loro disposizione anche il piano o programma adottato, una dichiarazione di sintesi in cui si illustra in che modo le considerazioni ambientali sono state integrate nel piano o nel programma e come si è tenuto conto del rapporto, dei pareri espressi, dei risultati delle consultazioni, nonché le ragioni perché sia stato scelto il piano o il programma adottato alla luce delle alternative possibili che erano state individuate ed, infine, le misure adottate in merito al monitoraggio.
Una delle innovazioni significative introdotte dalla direttiva 2001/42/CE (art. 10) è la previsione di una particolare procedura di controllo – monitoraggio - per controllare gli effetti ambientali significativi dell'attuazione dei piani/programmi, al fine di adottare le misure correttive che ritengono opportune, nel caso si dovessero riscontrare effetti negativi imprevisti.
L’art. 14 in esame recepisce, pertanto, tale innovazione, prevedendo che tale controllo debba essere effettuato dalle autorità preposte all’approvazione dei piani/programmi avvalendosi del sistema delle Agenzie ambientali.
Viene, quindi, disposto che devono essere impiegati, per quanto possibile, i meccanismi di controllo esistenti, al fine di evitare la duplicazione del monitoraggio, analogamente a quanto dispone l’art. 10, par. 2, della direttiva.
Dei risultati del monitoraggio dovrà essere data notizia al pubblico a mezzo stampa, secondo le modalità stabilite dal regolamento di cui al precedente art. 10, comma 3.
Si osserva, in proposito, che l’art. 9, par. 1, della direttiva 2001/42/CE prevede, che, oltre alla pubblicizzazione, le misure adottate in merito al monitoraggio, debbano anche essere messe a disposizione del pubblico, delle autorità e degli Stati membri che hanno partecipato alle consultazioni.
Analogamente a quanto disposto per la procedura di VIA statale, il criterio in base al quale dovrà essere deciso se sottoporre un piano/programma a VAS statale o regionale, non sarà solo la tipologia del piano/programma (che dovrà essere uno di quelli indicati nell’art. 7), ma l’autorità competente alla sua approvazione.
Pertanto saranno sottoposti a VAS in sede statale i piani/programmi di cui all’art. 7 la cui approvazione compete ad organi dello Stato.
Logicamente, quanto alla competenza sulla VAS, essa non potrà che accedere a quella relativa al procedimento di pianificazione a cui si riferisce, appartenendo allo Stato (e quindi al Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio ex art. 2, comma 5, della legge n. 349 del 1986), alla regione o ad altro ente locale territoriale, a seconda del livello territoriale di pianificazione interessato.
Le scansioni procedimentali attraverso cui si snoda la procedura di VAS statale ripercorrono sostanzialmente quelle previste per la procedura di VIA e possono essere essenzialmente ricondotte a tre fasi principali:
§ fase introduttiva, comprendente l’avvio del procedimento e le adeguate forme di pubblicità (art. 16), la procedura di verifica preventiva per alcuni piani/programmi (art. 19) ed anche una fase preliminare nella quale dovranno essere definite le informazioni da inserire nel rapporto ambientale (art. 20);
§ fase istruttoria con l’ istruttoria tecnica svolta dalla Commissione tecnico-consultiva (art. 17, commi dall’1 al 4))
§ fase decisionale, con il giudizio di compatibilità reso dal Ministro dell’ambiente (art. 17, commi 5 e 6) e gli effetti del giudizio di compatibilità ambientale (art. 18).
Il procedimento di VAS statale, illustrato all’art. 16, inizia con la trasmissione, prima dell’avvio del procedimento di approvazione, al Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio, al Ministero per i beni e le attività culturali, alla Commissione tecnico-consultiva e agli altri Ministeri eventualmente interessati, dei seguenti documenti:
§ il piano/programma adottato o comunque proposto;
§ il rapporto ambientale;
§ la sintesi non tecnica.
Si osserva che tale documentazione è pressoché analoga a quella prevista per la VIA statale ove, naturalmente, è diversa la sua natura in quanto lì si fa riferimento a progetti di opere/interventi, e, al posto del rapporto ambientale troviamo il SIA.
Inoltre, viene previsto che per i piani/programmi che interessino il territorio di più enti locali, venga depositato un sufficiente numero di copie della sintesi non tecnica, mentre alle regioni andrà inviata anche “copia integrale della proposta di piano o programma del rapporto ambientale”.
All’articolo 16, comma 2, sembrerebbe opportuno specificare che i documenti da trasmettere alle regioni sono la proposta di piano programma e il rapporto ambientale, che rappresentano due distinti documenti, anche ai sensi della direttiva comunitaria (art. 6 della direttiva 2001/42/CE).
La pubblicazione dell’annuncio dell’avvenuta trasmissione o deposito dovrà essere effettuata nei modi previsti dal precedente art. 10, comma 3.
Vengono, inoltre, contemplate modalità diverse di pubblicazione ed informazione per la fase di verifica preventiva al fine di valutare se alcuni piani/programmi debbano essere sottoposti a VAS (art. 19) e la fase preliminare nella quale dovranno essere definite le informazioni da inserire nel rapporto ambientale (art. 20).
Attiene alla fase introduttiva del procedimento di VAS statale la procedura di verifica preventiva disciplinata dall’art. 19 e prevista già dall’art. 7, comma 5, dello schema di decreto in esame.
Si ricorda, infatti, che il comma 5 dell’art. 7 dello schema di decreto in esame prevede, che possano essere sottoposti a VAS anche piani/programmi diversi da quelli per i quali essa è obbligatoria (e come, tra l’altro, prevede anche la direttiva 2001/42/CE all’art. 3, par. 4) o anche le delle modifiche di un piano/programma già approvato, previa una verifica preliminare da parte dell’autorità competente all’approvazione del piano/programma stesso e secondo i criteri di cui all’Allegato II al decreto in esame.
Ai sensi delle disposizioni recate dall’art. 19 in esame, la richiesta di tale verifica preliminare all’autorità competente all’approvazione dei piani/programmi (che ricalca quella prevista per la VIA statale all’art. 32) incombe sul proponente che, nel dare avvio a questo sub-procedimento, ha anche l’obbligo di fornire copia della documentazione necessaria anche alla Commissione tecnico-consultiva che è tenuta a dare il proprio parere all’autorità competente.
Tale procedura sembrerebbe avere (come quella prevista per la VIA statale all’art. 32) la funzione di “filtro”, poiché ha la specifica funzione di vagliare preliminarmente se un determinato piano/programma (ma, si ricorda diversi da quelli previsti dall’art. 7 ma comunque riguardanti gli stessi settori) debba o meno essere sottoposto a VAS.
L’art. 19 prevede, infine, la possibilità da parte dell’autorità competente di sostituirsi al soggetto proponente nell’attivazione della procedura di verifica preventiva, nel caso in cui nel corso dell’istruttoria per l’approvazione di un nuovo piano/programma, o di una modifica ad un pian/programma già approvato, venga rilevato che non è stata esperita la procedura di verifica prevista.
Attiene ancora alla fase introduttiva del procedimento di VAS statale e, nello specifico al contenuto del rapporto ambientale previsto dall’art. 9, la procedura disciplinata dall’art. 20 che prevede la possibilità, per il proponente, di attivare una fase preliminare allo scopo di definire, in contraddittorio con la Commissione tecnico-consultiva, le informazioni che devono essere fornite nel rapporto ambientale.
Nel caso in cui si faccia riferimento alla procedura di VAS regionale, il contraddittorio per la determinazione delle informazioni da inserire nel rapporto, dovrà essere, invece, con l’autorità competente, ai sensi dell’art. 9, comma 4, del decreto in esame.
Si ricorda che una procedura analoga è prevista per la definizione delle informazioni da inserire nel SIA nel procedimento di VIA ai sensi dell’art. 27, comma 2, dello schema di decreto in esame.
Le attività tecnico-istruttorie per la VAS statale sono svolte dalla Commissione tecnico-consultiva con modalità che ripercorrono i passaggi principali previsti dall’art. 37 dello schema di decreto in esame per la VIA statale.
Sarà compito del vicepresidente competente provvedere alla costituzione di apposita sottocommissione per ogni piano/programma ricevuto e di provvedere, altresì, alla sua integrazione in presenza di interessi regionali coinvolti.
Nel caso in cui la sottocommissione verifichi l’incompletezza della documentazione presentata, essa può richiederne l’integrazione, sospendendo i termini temporali del procedimento fino al ricevimento delle integrazioni richieste.
Sarà poi compito della sottocommissione valutare tutta la documentazione presentata, nonché le osservazioni, obiezioni e suggerimenti inoltrati ai sensi degli artt. 10 e 11ed esprimere il proprio parere motivato entro il termine di trenta giorni a decorrere dalla scadenza di tutti i termini indicati nei citati artt. 10 e 11, fatta comunque salva la sospensione eventualmente disposta per incompletezza della documentazione.
Il parere della sottocommissione dovrà essere trasmesso immediatamente al Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio per l’adozione, nei successivi trenta giorni, del giudizio di compatibilità ambientale.
Sembrerebbe, pertanto, che il giudizio di compatibilità ambientale nel procedimento di VAS statale debba concludersi entro il termine complessivo di novanta giorni (trenta giorni per presentare le osservazioni, trenta giorni per la Commissione ai fini del parere motivato e trenta per l’adozione del giudizio di compatibilità da parte del Ministro), analogamente a quanto dispongono le norme generali all’art. 12, comma 2, che prevedono che l’autorità preposta alla VAS emetta il giudizio di compatibilità ambientale entro sessanta giorni dalla scadenza dell’ultimo termine utile per la presentazione dei pareri di cui agli artt. 10 ed 11.
Viene, infine, previsto, analogamente a quanto disposto nella procedura di VIA dall’art. 31, comma 2, che l’inutile decorso del termine dei trenta giorni implica l’esercizio del potere sostituivo da parte del Consiglio dei Ministri, che deve provvedere entro sessanta giorni, ai sensi e con gli effetti di cui all’art. 12, comma 2, che prevede che, nel caso di parere inespresso esso è da considerasi come giudizio favorevole sulla compatibilità ambientale del piano/progetto presentato (cd. silenzio-assenso).
In relazione agli effetti del giudizio di compatibilità ambientale, indicati all’art. 18, viene previsto che le proposte di piani e programmi sottoposte a VAS, anche qualora siano già state adottate con atto formale, vengono riviste e, se necessario, riformulate, sulla base del giudizio di compatibilità ambientale.
Peraltro, dato che la procedura di VAS costituisce parte integrante del procedimento di adozione/approvazione del piano/programma, il giudizio di compatibilità ambientale deve essere comunque allegato al piano/programma inoltrato per l’approvazione.
Inoltre, nell’approvazione del piano/programma si dovrà tener conto del parere di compatibilità ambientale di cui al giudizio di compatibilità.
Si ricordano, infine, le disposizioni sulla pubblicità degli esiti del giudizio di compatibilità ambientale previste dalle norme di carattere generale sulla VAS all’art. 13.
La nuova disciplina sulla VAS regionale o provinciale, come già indicato per quella statale, sottopone a VIA tutti i piani/programmi previsti dall’art. 7, la cui approvazione compete alle regioni o agli enti locali.
Analogamente a quanto disposto per la VAS statale, il criterio che attribuisce la competenza sulla VAS è quello relativo al procedimento di pianificazione cui si riferisce, appartenendo allo Stato, alla regione o ad altro ente locale territoriale, a seconda del livello territoriale di pianificazione interessato.
Fra le numerose tipologie di pianificazione territoriale (molte delle quali disciplinate ormai da fonte regionale), possono citarsi: i piani territoriali di area vasta e i piani territoriali regionali di coordinamento (PTRC) - approvati dalle regioni - i piani di assetto del territorio (PAT) con le scelte strategiche di assetto e di sviluppo per il governo del territorio comunale, e il piano degli interventi (PI) - approvati dai comuni.
L’articolo prevede che, ferme restando le disposizioni comuni in materia di VAS recate dal Capo I, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano disciplinino con proprie leggi e regolamenti le procedure per la VAS dei piani/programmi di cui all’art. 21.
Fino all’entrata in vigore delle discipline regionali e provinciali trovano applicazione le disposizioni del decreto in esame.
Occorre qui ricordare che, se da un lato la VAS non è ancora stata disciplinata dalla normativa statale, dall’altro alcune regioni hanno già emanato disposizioni riguardanti l’applicazione di tale procedura con riferimento alla direttiva comunitaria 2001/42/CE.
Come sottolinea un recente documento elaborato dall’APAT[46], alcune regioni [47]hanno già emanato disposizioni concernenti la sua attuazione, anche se parziale. In altre leggi regionali, aspetti riguardanti la valutazione ambientale di piani e programmi (VAS) sono stati presi in considerazione nell’ambito della legislazione VIA[48] oppure nell’ambito della legislazione urbanistica e di pianificazione territoriale regionale[49].
E’, peraltro, da registrare un ricorso per legittimità costituzionale, presentato dal Presidente del Consiglio dei ministri in data 14 luglio 2005[50], contro la legge 4 febbraio 2005 n. 11 del Friuli-Venezia Giulia per la violazione, tra le altre, dell’art. 117 lett. s) della Costituzione.
Nel ricorso si denuncia la violazione di tale articolo della Costituzione in quanto si sostiene l’appartenenza della attuazione della direttiva 2001/42CE alla materia ambientale che è di competenza esclusiva dello Stato. A fondamento di quest’affermazione viene fatto riferimento agli obiettivi prefissati dalla direttiva ovvero il raggiungimento di un «elevato livello di protezione dell'ambiente» e la promozione «dello sviluppo sostenibile attraverso la integrazione di considerazioni ambientali all'atto dell'elaborazione e dell'adozione di piani e programmi». L’impugnazione non mette in discussione il potere di recepire le norme comunitarie da parte delle regioni e delle province autonome così come previsto dall’art. 117 della Costituzione, ma sottolinea il limite a tale potere, ricavabile dal primo comma dello stesso articolo “La potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali”.
Le norme raccolte all’interno di tale titolo riguardano le abrogazioni (art. 48), i provvedimenti di attuazione per la costituzione della Commissione tecnico-consultiva (art. 49) - e per i quali si rinvia all’art. 6 relativo alla Commissione ove sono stati già illustrati, l’adeguamento delle disposizioni regionali e provinciali (art. 50), l’eventuale emanazione di regolamenti e norme tecniche integrative (art. 51) e l’entrata in vigore (art. 52).
Riguardo alle abrogazioni decorrenti dalla data di entrata in vigore del decreto (ad eccezione di quelle relative alle singole Commissioni che dovranno essere sostituite dalla Commissione tecnico-consultiva), caso per caso, si motiva:
a) l’art. 6 della legge 8 luglio 1986, n. 349, è’ l’articolo di riferimento, nella legge istitutiva del Ministero dell’Ambiente per la procedura di VIA ordinaria, sostituito ora dall’art. 36 relativo al procedimento di valutazione per la VIA statale.
b) l’art. 18, comma 5, della legge 11 marzo 1988, n. 67; è il comma istitutivo della Commissione per la Via ordinaria, recentemente sostituito dall’art. 2, del decreto legge 14 novembre 2003, n. 315;;
c), d) ed e) il DPR 12 aprile 1996, il DPCM 3 settembre 1999 e il DPCM 1 settembre 2000. Il DPR è l’atto di indirizzo e coordinamento recante le norme che regolano i progetti sottoposti a VIA regionale, i due DPCM costituiscono le sue successive modifiche ed integrazioni. Tutte le citate disposizioni cono interamente confluite nell’ambito delle norme comuni in materia di VIA (Capo I) e in quelle specifiche per la VIA regionale (Capo III) dello schema in esame. Si osserva, inoltre, che anche le disposizioni contenute negli Allegati al DPR sono state riproposte negli Allegati allo schema del decreto in esame;
f) l’art. 6 della legge 23 marzo 2001, n. 93, incrementava il numero dei componenti la Commissione per la VIA ordinaria, ora soppressa;
g) l’art. 19, commi 2 e 3 del decreto legislativo 20 agosto 2002, n. 190, riguarda l’istituzione della Commissione per la VIA speciale e la possibilità della stessa di avvalersi delle risorse versate dai soggetti aggiudicatori a norma dell'art. 27 della legge 30 aprile 1999, n. 136;
h) l’art. 77, commi 1 e 2 della legge 27 dicembre 2002, n. 289 prevede da un lato, la possibilità del Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio di avvalersi, mediante la stipula di apposite convenzioni, del supporto dell'APAT e di altri enti ed organismi (comma 1), dall’altro si assicura la copertura finanziaria dei maggiori oneri che si prevede deriveranno dalla stipula di tali convenzioni, ampliando il ricorso alla misura introitale prevista dall’art. 27 della legge 30 aprile 1999, n. 136. Dato che nel testo del decreto in esame non si rinvengono norme relative alla possibilità di stipula di tale convenzioni, l’abrogazione del comma 1 dell’art. 77 non sembrerebbe comportare alcuna problematica.
Al contrario, l’abrogazione del comma 2 dell’art. 77, sembrerebbe comportare la riviviscenza della versione originaria dell’art. 27 della legge n. 136 del 1999 che prevedeva che, per le maggiori esigenze connesse allo svolgimento della procedura di VIA statale, per i progetti di opere il cui valore fosse di entità superiore a 100 miliardi (50 milioni di euro)[51] venisse posto a carico del soggetto committente il versamento di una somma pari allo 0,5 per mille del valore delle opere da realizzare;
i) gli artt. 1 e 2 del decreto legge 14 novembre 2003, n. 315, convertito, con modificazioni, dalla legge 16 gennaio 2004, n. 5, hanno sostituito l’art. 19, comma 2, del decreto legislativo n. 190 del 2002 relativo alla Commissione speciale VIA e l’art. 18, comma 5, della legge n. 67 del 1988 sulla Commissione per la VIA ordinaria;
l) l’art. 5, comma 9 del decreto legislativo 18 febbraio 2005, n. 59 relativo all’istituzione di un’apposita Commissione istruttoria IPPC, ora sostituita dalla Commissione unica tecnico-consultiva;
m) l’art. 30 della legge 18 aprile 2005, n. 62 (comunitaria 2004) che prevede, al fine dell’integrale recepimento dell’art. art. 5, par. 2, della direttiva 85/337/CEE, la facoltà del proponente, prima dell'avvio del procedimento di VIA, di richiedere alla competente direzione del Ministero dell'ambiente un parere in merito alle informazioni che devono essere contenute nel SIA. Tale previsione è ora contenuta nell’art. 27, comma 2, dello schema di decreto in esame tra le disposizioni comuni in materia di VIA.
In merito alle abrogazioni recate dal comma 1 si osserva che tra esse non compaiono (opportunamente), sia il DPCM 27 dicembre 1988 che il DPCM 10 agosto 1988, n. 377.
Infatti – per quanto riguarda il contenuto del primo – occorre fare riferimento all’articolo 51, comma 3 che rinvia ad un successivo regolamento (da emanarsi) la disciplina finora contenuta nel citato DPCM (Norme tecniche per la redazione del SIA). Conseguentemente, il comma 4 dello stesso art. 51, proroga comunque la vigenza delle suddette Norme tecniche fino all’emanazione di tale nuovo DPCM.
Si osserva, in proposito, che sembrerebbe migliorativo della chiarezza complessiva del comma 4 dell’art. 51 un esplicito riferimento al DPCM 27 dicembre 1988.
Per quanto riguarda invece il DPCM 10 agosto 1988, n. 377 (con cui sono state definite le opere sottoposte a VIA nazionale e specificate le norme tecniche riguardanti le fasi di comunicazione del progetto, di pubblicità e di istruttoria) occorre fare riferimento all’art. 51, comma 2, dello schema di decreto in esame, dove si chiarisce che le norme contenute nel DPCM cessano di essere in vigore dal momento dell’entrata in vigore del nuovo decreto, in quanto in esso trasfuse (tranne l’art. 2), ma limitatamente agli impianti di gestione rifiuti sottoposti a VIA statale (in quanto con la nuova disciplina, tali impianti saranno sottoposti a VIA regionale, poiché per legge sono sottoposti ad autorizzazione regionale).
Per quanto riguarda l’art. 2 del DPCM, non trasfuso nello schema in esame, il comma 2 (ultimo periodo) dell’art. 51, ne fa comunque salva la vigenza fino all’entrata in vigore di norme regolamentari di semplificazione previste dallo stesso art. 51, comma 1.
I commi 2 e 3 dell’art. 48 dello schema di decreto dettano norme transitorie volte a garantire una operatività del sistema di valutazione nella fase precedente la costituzione della Commissione tecnico-consultiva che dovrà svolgere, attraverso le sottocommissioni previste, tutte le attività già di competenza della Commissione per la VIA ordinaria, di quella per la VIA speciale relativa alle grandi opere di quella per l’IPPC, soppresse per effetto delle abrogazioni previste dal comma 1 dello stesso art. 48. Nelle more della nomina della Commissione, resta sospesa l’applicazione delle norme relative all’abrogazione delle singole Commissioni.
Per la loro illustrazione si rinvia all’art. 6 dello schema di decreto relativo alla Commissione tecnico-consultiva.
L’entrata in vigore delle disposizioni legislative e regolamentari emanate dalle regioni e dalle province autonome, per adeguare i rispettivi ordinamenti al decreto in esame sulle procedure per la VIA, VAS e IPPC, è prevista entro centoventi giorni dalla pubblicazione del decreto stesso (art. 50)
Viene prevista, inoltre, la possibilità di adottare norme puntuali per una migliore integrazione delle procedure di VAS e VIA negli specifici procedimenti amministrativi vigenti di approvazione o autorizzazione dei piani/programmi e delle opere/interventi sottoposti a valutazione, attraverso appositi regolamenti di delegificazione (art. 51, comma 1).
Come già indicato nella parte relativa alle abrogazioni, per le opere/interventi sottoposti a VIA, fino all’emanazione di tali regolamenti di delegificazione, continuano ad applicarsi, per quanto compatibili, le disposizioni di cui all’art. 2 del DPCM 10 agosto 1988, n. 377.
Dovranno, invece, essere disapplicate, dalla data di entrata in vigore del decreto in esame, le norme di tale DPCM relative alla VIA di competenza statale dei rifiuti tossici e nocivi (in quanto trasferite alla VIA regionale).
Al riguardo, si ricorda che l’art. 2, comma 1, lett. d) del DPCM n. 377, qualifica i progetti degli impianti di eliminazione dei rifiuti tossici e nocivi, sottoposti a procedura di VIA statale, quelli che vengono inoltrati alla regione per l’approvazione. Pertanto, ai sensi dell’art. 23 dello schema di decreto in esame, tali progetti rientrerebbero, ora, nell’ambito del procedimento di VIA regionale, in quanto l’attribuzione della competenza statale o regionale in materia di VIA si basa, oltre che sul tipo di progetto, sull’autorità cui compete l’autorizzazione alla costruzione dell’opera/intervento.
Infine, viene prevista l’emanazione, con DPCM, di norme tecniche integrative della disciplina di VIA per la redazione dei SIA e la formulazione dei giudizi di compatibilità in relazione a ciascuna categoria di opere, e la contestuale vigenza, fino alla loro emanazione, delle norme tecniche attualmente vigenti (art. 51).
Le disposizioni del decreto in esame entrano in vigore centoventi giorni dopo la sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana.
I procedimenti amministrativi in corso alla data di entrata in vigore del presente decreto, nonché i procedimenti per i quali a tale data sia già stata formalmente presentata istanza introduttiva da parte dell’interessato, si concludono in conformità alle disposizioni ed alle attribuzioni di competenza in vigore all’epoca della presentazione di tale istanza.
Nella “Scheda di analisi di impatto della regolamentazione”, che accompagna lo schema di decreto, si legge che tale ultima disposizione dell’art. 52, è finalizzata ad evitare che la nuova disciplina incida sui procedimenti in corso “mirando, quindi ad assicurare la piena attuazione del principio tempus regit actum”.
Costituiscono parte integrante della Parte seconda anche cinque allegati così suddivisi:
· Allegato I – Informazioni da inserire nel rapporto ambientale;
· Allegato II – Criteri per verificare se lo specifico piano o programma oggetto di approvazione possa avere effetti significativi sull’ambiente;
· Allegato III – Progetti sottoposti a VIA;
· Allegato IV – Elementi di verifica per l’assoggettamento a VIA di progetti dell’Allegato III, elenco B, non ricadenti in aree naturali protette;
· Allegato V – Informazioni da inserire nello studio di impatto ambientale.
Pertanto, i primi due allegati riguardano la disciplina relativa alla VAS, mentre gli altri tre fanno, invece, riferimento alla procedura di VIA.
L’Allegato I indicata le informazioni da inserire nel rapporto ambientale che deve essere redatto durante la fase preparatoria del piano/programma al fine di individuare, valutare e descrivere gli effetti ambientali del piano/programma stesso, nonché le sue ragionevoli alternative, ai sensi dell’art. 9 del decreto in esame.
Le informazioni da riportare nel rapporto sono quindi quelle che vengono indicate nell'Allegato I dello schema di decreto, che recepisce esattamente il contenuto dell’Allegato I della direttiva comunitaria 2001/42/CE.
Si ricorda, infine, che tali informazioni costituiscono indicazioni di "minima": rappresentano, pertanto, le informazioni che quantomeno devono essere inserite nel rapporto, mentre informazioni aggiuntive, purché utili alle finalità della valutazione, possono comunque essere inserite. In questo senso, il comma 3 dello stesso art. 9, stabilisce che possono essere utilizzate anche altre informazioni, purché pertinenti, ottenute ad altri livelli dell'iter decisionale, o attraverso altre disposizioni normative.
Ai fini della sottoposizione a VAS di tali piani/programmi che potrebbero avere effetti significativi sull’ambiente e delle modifiche di un piano/programma già approvato, l’art. 7, comma 5, prevede l’effettuazione di una verifica preliminare da parte dell’autorità competente all’approvazione del piano/programma stesso, secondo i criteri di cui all’Allegato II al decreto in esame.
Nel procedimento relativo alla VAS statale tale verifica è operata dalla Commissione tecnico-consultiva che si dovrà pronunciare sempre secondo i criteri riportati in tali allegato ai sensi dell’art. 19, comma 2 dello schema di decreto.
I criteri indicati nell’Allegato II per verificare se il piano/programma oggetto di approvazione possa avere effetti significativi sull’ambiente si basano su una pluralità di parametri quali: gli elementi che caratterizzano il piano/programma stesso, gli effetti conseguenti all’attuazione del piano/programma e le caratteristiche delle aree interessate.
Tali criteri rispecchiano quelli indicati nell’Allegato II della direttiva comunitaria 2001/42/CE.
L’Allegato III relativo ai progetti da sottoporre a VIA, è articolato, a sua volta in due elenchi: elenco A ed elenco B.
L’elenco A riguarda i progetti da sottoporre a VIA ai sensi dell’art. 23, comma 1, lett. a).
Si ricorda, pertanto, che l’art. 23 che definisce l’ambito di applicazione della procedura di VIA, sottopone a tale procedura una serie di progetti relativi ad opere/interventi tra i quali:
§ alla lettera a) del comma 1, i progetti di cui all’elenco A dell’Allegato III, ovunque ubicati.
Nel caso in cui tali progetti ricadano all’interno di aree naturali protette, il successivo comma 2, prevede (come già dispone la normativa sulla VIA regionale all’art. 1, comma 5, del DPR 12 aprile 1996) la riduzione delle soglie dimensionali del 50 per cento.
Si fa presente che le categorie progettuali contenute nell’elenco A in esame corrispondono pressoché alle categorie di opere per le quali è richiesta la procedura di VIA nazionale ai sensi della normativa vigente elencate nell’art. 1 del DPCM n. 377 del 1988.
L’elenco A contiene anche tutte le tipologie progettuali previste dall’allegato A al DPR 12 aprile 1996 per le quali è, invece, obbligatoria la procedura di VIA regionale ai sensi della disciplina vigente.
Si ricorda, brevemente, che in base alla vigente normativa (DPCM 10 agosto e 27 dicembre 1988), sono sottoposti a VIA statale i progetti dell’allegato I alla direttiva 85/337/CEE, mentre a VIA regionale (allegati A e B del D.P.R. 12 aprile 1996), i progetti dell’allegato II della stessa direttiva 85/337/CEE. Era stato, infatti adottato un criterio “binario”, che sostanzialmente prevedeva una procedura di VIA a livello nazionale qualora le opere/interventi avessero un rilevante impatto di interesse nazionale ed una procedura di VIA a livello di enti locali nel caso in cui le opere/interventi fossero di minore rilevanza.
Pertanto, unificando in un unico elenco tutte le tipologie progettuali per le quali la disciplina vigente prevede o la procedura di VIA nazionale o regionale, ora tutte le categorie progettuali dovranno essere sottoposte a procedura di VIA e la competenza nazionale o regionale dipenderà dall’organo cui spetterà l’autorizzazione alla costruzione/esercizio dell’opera/impianto.
Da ultimo, nell’elenco A compaiono anche alcune categorie progettuali indicate nell’Allegato I della direttiva 85/337/CEE, come integrato dalle direttive 97/11/CE e 2003/35/CE.
Si rileva che per alcune categorie progettuali (ad esempio gli elettrodotti aerei esterni per il trasporto di energia elettrica, ma si tratta solo di un esempio) la normativa italiana di recepimento è più severa, nella determinazione delle soglie, rispetto a quella comunitaria.
L’elenco B è relativo ai progetti sottoporre a VIA ai sensi dell’art. 23, lettere b) e c).
Si ricorda, pertanto, che l’art. 23, comma 1, sottopone a procedura di VIA una serie di progetti relativi ad opere/interventi tra i quali:
§ alla lettera b), i progetti di cui all’elenco B dell’Allegato III che ricadano, anche parzialmente, all’interno di aree naturali protette.
§ alla lettera c), gli stessi progetti elencati di cui all’elenco B dell’Allegato III che non ricadano, però, in aree naturali protette, ma che, sulla base degli elementi indicati nell’Allegato IV, a giudizio dell’autorità competente richiedano ugualmente lo svolgimento della procedura di VIA.
Si fa presente che le categorie progettuali contenute nell’elenco B coincidono con quelle contenute nell’Allegato B del DPR 12 aprile 1996, per i quali è obbligatoria la VIA regionale ai sensi della normativa vigente (art. 1, comma 4, del citato DPR).
Come già sottolineato per le categorie di opere dell’elenco A, anche le opere dell’elenco B (che la normativa vigente sottoponeva a VIA regionale obbligatoria), ora dovranno comunque essere sottoposte a procedura di VIA, ma la competenza nazionale o regionale dipenderà dall’organo cui spetterà l’autorizzazione alla costruzione/esercizio dell’opera/impianto.
L’Allegato IV reca gli elementi in base ai quali l’autorità competente dovrà verificare se i progetti di cui all’elenco B dell’Allegato III, nel caso in cui non ricadano all’interno di aree naturali protette, richiedano o meno la procedura di VIA, ai sensi dell’art. 23, comma 1, lett. c).
Si fa notare che gli elementi indicati nell’Allegato IV ai fini della verifica riguardano quelli relativi alla definizione delle caratteristiche progettuali, della localizzazione dei progetti e dell’impatto potenziale.
Inoltre, alcuni di essi, quali gli elementi atti a definire le caratteristiche e la localizzazione dei progetti, corrispondono agli elementi indicati nell’Allegato D al DPR 12 aprile 1996 dalla attuale normativa sulla VIA regionale per la verifica dei progetti per i quali la VIA regionale è rimessa alla discrezionalità dell’autorità competente, ai sensi dell’ art. 1, comma 6, del citato DPR, nonché agli ulteriori elementi recati dall’Allegato III della direttiva 85/337/CEE, come sostituito dalla direttiva 97/11/CE.
Infine, gli elementi atti a valutare le caratteristiche dell’impatto potenziale recepiscono integralmente quelli indicati nell’Allegato III della direttiva 85/337/CEE, come sostituito dalla direttiva 97/11/CE.
L’allegato V reca le informazioni da inserire nel SIA, predisposto secondo le modalità e con i criteri dettati dall’art. 27 del decreto in esame.
Qui si osserva che le informazioni indicate nell’Allegato V riproducono il contenuto dell’Allegato C del DPR 12 aprile 1996 sulla VIA regionale che prevede, ai sensi dell’art. 6 comma 1, che il SIA venga redatto secondo le indicazioni contenute nell’allegato C al DPR stesso.
Pertanto per l’individuazione delle informazioni da inserire nell’ Allegato V si è preso come riferimento il modello del SIA previsto dalla VIA regionale, mentre non sono state considerate le norme tecniche per la redazione del SIA previste per la VIA statale dal DPCM 27 dicembre 1988 e dai suoi allegati.
Si ricorda, infatti, che con il DPCM 27 dicembre 1988successivamente modificato ed integrato (per talune categorie di opere) dal DPR 2 settembre 1999, n. 348, sono state definite le norme tecnicheper la redazione del SIA, con una serie di Allegati in cui vengono descritti i contenuti specifici dei fattori ambientali che devono essere considerati nella redazione dei SIA suddivisi per ogni categoria di opera sottoposta a VIA nazionale. Le norme tecniche di tale DPCM sono altresì richiamate esplicitamente nell’art. 18, comma 1 del decreto legislativo n. 190 del 2002.
Si rileva, inoltre, che il DPCM 27 dicembre 1988 non compare tra le abrogazioni espresse elencate nell’art. 48 del decreto in esame, ma nell’art. 51 viene prevista l’emanazione, con DPCM, di norme tecniche integrative della disciplina di VIA per la redazione dei SIA e la contestuale vigenza, fino alla loro emanazione, delle norme tecniche attualmente vigenti.
Pertanto, qualora tale omissione implicasse la vigenza di tali norme, sembrerebbe opportuno richiamarle espressamente all’interno del testo dell’articolato, in particolare al comma 1, dell’art. 27 relativo al SIA, oppure all’interno dell’Allegato V in esame.
Ai fini di una rapidissima guida alla lettura della Parte Terza dello schema di decreto, può segnalarsi che negli articoli 53-176 dello schema di decreto vengono sostanzialmente operati i seguenti interventi normativi:
§ vengono sostanzialmente unificate in un unico corpus (ma senza introdurre norme di raccordo particolarmente innovative)tre filoni finora distinti: difesa del suolo, tutela delle acque dall’inquinamento e gestione dei servizi idrici;
§ viene recepita la direttiva europea 2000/60/CE (cd “direttiva acque”), innovando profondamente l’assetto amministrativo disegnato dalla legge n. 183 del 1989 sui bacini idrografici, e in particolare su tre differenti livelli di bacini (nazionali, interregionale e regionali), e riportando invece tale assetto differenziato ad uniformità (bacini di distretto);
§ vengono introdotte alcune incisive innovazioni normative in materia di affidamento e gestione del servizio idrico integrato e di assetto istituzionale del settore (creazione della Autorità di vigilanza sulle risorse idriche e sui rifiuti).
L'articolo 53 definisce, al comma 1, le finalità delle disposizioni recate dalla Sezione prima della Parte Terza, individuandole nella tutela e nel risanamento del suolo e del sottosuolo, nel risanamento idrogeologico del territorio tramite la prevenzione dei fenomeni di dissesto, nella messa in sicurezza delle situazioni a rischio e nella lotta alla desertificazione.
I commi 2 e 3 del medesimo articolo riproducono, invece, formulazioni di principio attualmente contenute rispettivamente nei commi 2 e 4 dell'art. 1 della legge 18 maggio 1989, n. 183 (Norme per il riassetto organizzativo e funzionale della difesa del suolo).
Nella Relazione che accompagna lo schema di decreto legislativo in esame, si fa presente che <<seppur prendendo atto della tripartizione storica, e per questo consolidata, delle diverse impostazioni e relativi obiettivi che hanno caratterizzato fino ad oggi la disciplina della risorsa 'acqua' - difesa del suolo; tutela delle acque; gestione - il Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio ha sempre assunto un approccio 'integrato', prescindendo dalla ferma demarcazione fra leggi diverse e da diversi strumenti di pianificazione, riconducendo ogni intervento nell'alveo di un'azione unitaria, la quale, nel perseguimento delle finalità di salvaguardia e valorizzazione della risorsa, consentisse il dialogo fra le diverse pianificazioni e, quindi, garantisse la più esauriente risposta ed il più efficace intervento per raggiungere l'obiettivo preposto>>.
L'articolo 54 detta una serie di definizioni, in gran parte nuove e più particolareggiate rispetto a quelle stabilite dall'art. 1, comma 3, della legge 183/1989. Le nuove definizioni (tra le quali, in particolare, quelle di fiume, lago, acque costiere, corpo idrico artificiale, corpo idrico superficiale, bacino idrografico, sottobacino, distretto idrografico) riproducono le definizioni stabilite dall'art. 2 della Direttiva 23 ottobre 2000 n. 2000/60/CE (Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio che istituisce un quadro per l'azione comunitaria in materia di acque). La definizione di difesa del suolo (<<il complesso delle azioni ed attività riferibili alla tutela e alla salvaguardia del territorio, dei fiumi, dei canali e collettori, degli specchi lacuali, delle lagune, della fascia costiera, delle acque sotterranee, nonché del territorio a questi connessi, aventi le finalità di ridurre il rischio idraulico, stabilizzare i fenomeni di dissesto geologico, ottimizzare l'uso e la gestione del patrimonio idrico, valorizzare le caratteristiche ambientali e paesaggistiche collegate>>) è, peraltro, nuova e originale anche rispetto alle definizioni recate dall'art. 2 della Direttiva 2000/60/CE.
La disciplina dell'attività conoscitiva finalizzata alla difesa del suolo (raccolta, elaborazione, archiviazione e diffusione di dati; ricerca e studio degli elementi dell'ambiente fisico e delle condizioni di rischio; carte tematiche di territorio; valutazione degli effetti di piani, programmi e progetti di opere, etc.) recata dall'articolo 55 riproduce sostanzialmente, se non quasi letteralmente, quella al momento in vigore ai sensi dell'art. 2 della legge 183/1989, con le sole novità rappresentate:
- dal riferimento (contenuto nelcomma 4) al D.lgs. 19 agosto 2005, n. 195 (Attuazione della direttiva 2003/4/CE sull'accesso del pubblico all'informazione ambientale) e a quanto disposto dall'art. 1 della legge 17 maggio 1999, n. 144 (Misure in materia di investimenti, delega al Governo per il riordino degli incentivi all'occupazione e della normativa che disciplina l'INAIL, nonché disposizioni per il riordino degli enti previdenziali) in tema di unità tecniche di supporto alla programmazione, alla valutazione e al monitoraggio degli investimenti pubblici;
- dalla previsione (comma 5) per cui l'attività conoscitiva è effettuata anche dall'ANCI mediante la raccolta e l'elaborazione dei dati necessari al monitoraggio della spesa ambientale, svolte in regime di convenzione con il Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio, a valere sul Fondo per la difesa del suolo e per la tutela ambientale, con destinazione annuale disposta, con decreto ministeriale, in misura non inferiore all'1 per cento e non superiore al 2 per cento dell'importo del medesimo Fondo.
Per quanto concerne le attività di pianificazione, di programmazione e di attuazione finalizzate alla difesa del suolo, l'articolo 56 reca un'elencazione che riproduce quella introdotta dall'art. 3 della legge 183/1989, con le seguenti particolarità :
- si precisa che restano ferme le competenze e le attività istituzionali del Servizio nazionale di protezione civile;
- viene meno il riferimento (presente nella lettera h) del comma 1 del sopra citato art. 3) al <<risanamento delle acque superficiali e sotterranee allo scopo di fermarne il degrado e, rendendole conformi alle normative comunitarie e nazionali, assicurarne la razionale utilizzazione per le esigenze della alimentazione, degli usi produttivi, del tempo libero, della ricreazione e del turismo, mediante opere di depurazione degli effluenti urbani, industriali ed agricoli, e la definizione di provvedimenti per la trasformazione dei cicli produttivi industriali ed il razionale impiego di concimi e pesticidi in agricoltura>>;
- viene soppresso il riferimento ai servizi di piena e di pronto intervento idraulico, attualmente presente nel comma 1, lettera l), del sopra citato art. 3.
Passando ora a considerare il sistema delle competenze in materia di difesa del suolo definito dallo schema di decreto in esame, si rileva innanzi tutto che al Presidente del Consiglio dei ministri spettano (articolo 57, comma 1):
- l'approvazione (su proposta del Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio) delle deliberazioni concernenti i metodi ed i criteri, anche tecnici, per lo svolgimento delle attività conoscitive e di quelle di pianificazione, di programmazione e di attuazione, nonché per la verifica ed il controllo dei piani di bacino, dei programmi di intervento e di quelli di gestione;
- l'approvazione dei piani di bacino, sentita la Conferenza Stato-Regioni;
- l'approvazione degli atti volti a provvedere in via sostitutiva in caso di persistente inattività dei soggetti ai quali sono demandate le funzioni previste dal decreto, qualora si tratti di attività essenziali;
- l'approvazione di ogni altro atto di indirizzo e coordinamento nel settore della difesa del suolo;
- l'approvazione (su proposta del Comitato dei ministri per i servizi tecnici nazionali e gli interventi nel settore della difesa del suolo) del programma nazionale di intervento.
Rispetto alle competenze attualmente spettanti al Presidente del consiglio ai sensi dell'art. 4 della legge 183/1989, si rileva da un lato che il venir meno delle attribuzioni relative all'approvazione rispettivamente dei metodi e dei criteri per la verifica ed il controllo dei piani di gestione e degli atti di delimitazione dei bacini di rilievo nazionale e interregionale va ricollegato alle innovazioni previste dal presente schema di decreto in tema di strumenti di pianificazione; dall'altro che nel sistema della legge 183/1989 il Presidente del Consiglio approva i piani di bacino di rilievo nazionale (sentiti il Comitato nazionale per la difesa del suolo e il Consiglio superiore dei lavori pubblici), mentre spetta alle Regioni l'approvazione dei piani di bacino di rilievo regionale e interregionale.
Con riferimento alla formulazione del punto 3) della lettera a) del comma 1 dell'articolo 57 dello schema di decreto in esame, si segnala che la proposizione linguistica <<qualora si tratti di attività essenziali per il conseguimento delle finalità di cui al precedente comma 1>> appare in grado di ingenerare dubbi interpretativi.
Al Comitato dei ministri per i servizi tecnici nazionali e gli interventi nel settore della difesa del suolo spettano (articolo 57, commi 2, 3, 4, 5 e 6) le medesime funzioni di alta vigilanza e di indirizzo e coordinamento ad esso al momento attribuite dall'art. 4 della legge 183/1989.
Al Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio spettano (articolo 58), in aggiunta alle attribuzioni già previste dai commi 1 e 2 dell'art. 5 della legge n. 183/1989, le seguenti funzioni:
a) programmazione, finanziamento e controllo degli interventi in materia di difesa del suolo;
b) previsione, prevenzione e difesa del suolo da frane, alluvioni e altri fenomeni di dissesto idrogeologico, al fine di garantire le migliori condizioni ambientali, ferme restando le competenze del Dipartimento della protezione civile in merito agli interventi di somma urgenza;
c) indirizzo e coordinamento dell’attività dei rappresentanti del Ministero in seno alle Autorità di Bacino Distrettuali;
d) identificazione delle linee fondamentali dell’assetto del territorio nazionale con riferimento ai valori naturali e ambientali e alla difesa del suolo, nonché con riguardo all’impatto ambientale dell’articolazione territoriale delle reti infrastrutturali, delle opere di competenza statale e delle trasformazioni territoriali;
e) determinazione di criteri, metodi e standard di raccolta, elaborazione – da parte dell’Agenzia per la protezione dell’ambiente e per i servizi tecnici (APAT) – e di consultazione dei dati, definizione di modalità di coordinamento e di collaborazione tra i soggetti pubblici operanti nel settore, nonché definizione degli indirizzi per l’accertamento e lo studio degli elementi dell’ambiente fisico e delle condizioni generali di rischio;
f) valutazione degli effetti conseguenti all’esecuzione dei piani, dei programmi e dei progetti su scala nazionale di opere nel settore della difesa del suolo;
g) coordinamento dei sistemi cartografici.
Inoltre, rispetto a quanto già previsto dai commi 1 e 2 dell'art. 5 della legge n. 183/1989, si precisa che restano ferme le competenze istituzionali del Servizio nazionale di protezione civile e viene soppresso il riferimento ai servizi di piena e di pronto intervento idraulico, attualmente presente nella lettera a), del sopra citato comma 2.
Alla Conferenza Stato-Regioni l'articolo 59, innovando a quanto attualmente previsto dalla legge 183/1989, attribuisce espressamente le seguenti funzioni:
a) formulare proposte per l’adozione degli indirizzi, dei metodi e dei criteri di competenza del Presidente del Consiglio e del Comitato dei ministri per i servizi tecnici nazionali e gli interventi nel settore della difesa del suolo;
b) formulare proposte per il costante adeguamento scientifico ed organizzativo dell’APAT e per il suo coordinamento con i servizi, gli istituti, gli uffici e gli enti pubblici e privati che svolgono attività di rilevazione, studio e ricerca in materie riguardanti, direttamente o indirettamente, il settore della difesa del suolo;
c) formulare osservazioni sui piani di bacino;
d) esprimere pareri sulla ripartizione degli stanziamenti autorizzati da ciascun programma triennale tra i soggetti preposti all’attuazione delle opere e degli interventi individuati dai piani di bacino;
e) esprimere pareri sui programmi di intervento di competenza statale.
All'APAT,ferme restando le competenze e le attività istituzionali del Servizio nazionale di protezione civile, spettano (articolo 60) le seguenti funzioni (già attribuite dall'art. 9 della legge 183/1989 ai Servizi tecnici nazionali):
a) svolgere l’attività conoscitiva;
b) realizzare il sistema informativo unico e la rete nazionale integrati di rilevamento e sorveglianza;
c) fornire, a chiunque ne faccia richiesta, dati, pareri e consulenze, secondo un tariffario fissato ogni biennio con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, sentito il Comitato dei ministri per i servizi tecnici nazionali e gli interventi nel settore della difesa del suolo. Le tariffe sono stabilite in base al principio della partecipazione al costo delle prestazioni da parte di chi ne usufruisca.
Alle Regioni, ferme restando le attività da queste svolte nell'ambito delle competenze del Servizio nazionale di protezione civile,spettano le seguenti competenze (art. 61, comma 1):
a) collaborare nel rilevamento e nell’elaborazione dei piani di bacino dei distretti idrografici secondo le direttive assunte in sede di conferenza di servizi ed adottare gli atti di competenza;
b) formulare proposte per la formazione dei programmi e per la redazione di studi e di progetti relativi ai distretti idrografici;
c) provvedere alla elaborazione, adozione, approvazione ed attuazione dei piani di tutela;
d) per la parte di propria competenza, disporre la redazione e provvedere all’approvazione e all’esecuzione dei progetti, degli interventi e delle opere da realizzare nei distretti idrografici, istituendo, ove occorra, gestioni comuni;
e) provvedere, per la parte di propria competenza, alla organizzazione e al funzionamento del servizio di polizia idraulica ed a quelli per la gestione e la manutenzione delle opere e degli impianti e la conservazione dei beni;
f) provvedere alla organizzazione e al funzionamento della navigazione interna, ferme restando le residue competenze spettanti al Ministero delle infrastrutture e dei trasporti;
g) predisporre annualmente la relazione sull’uso del suolo e sulle condizioni dell’assetto idrogeologico del territorio di competenza e sullo stato di attuazione del programma triennale in corso e trasmetterle al Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio entro il mese di dicembre;
h) assumere ogni altra iniziativa ritenuta necessaria in materia di conservazione e difesa del territorio, del suolo e del sottosuolo e di tutela ed uso delle acque nei bacini idrografici di competenza ed esercitare ogni altra funzione prevista dalla presente sezione.
Lo schema di decreto conferma il quadro delle competenze regionali risultante dall'art. 10 della legge 183/1989 là dove riferisce alle Regioni le competenze sopra indicate rispettivamente alle lettere f), g), h) e sostanzialmente anche e).
Invece, le lettere a), b), c) e d) innovano profondamente all'attuale assetto delle competenze regionali, in quanto - in parallelo al superamento della distinzione dei bacini idrografici in di rilievo nazionale, regionale ed interregionale e al contestuale affermarsi della figura unica del distretto idrografico (vedi infra, art. 61) - le Regioni sono chiamate a svolgere attività di collaborazione rispetto all'elaborazione dei piani di bacino dei distretti idrografici, nonché attività di proposta rispetto a programmi, studi e progetti relativi agli stessi distretti, ma non delimitano più i bacini di propria competenza né elaborano e adottano i piani dei bacini di rilievo regionale né approvano più i piani dei bacini di rilievo interregionale, mentre ad esse è attribuita la competenza relativa all'elaborazione, adozione, approvazione ed attuazione dei piani di tutela.
Alle Regioni spettano, inoltre, come già stabilito dall'art. 10, comma 6, della legge 183/1989, Le funzioni relative al vincolo idrogeologico di cui al regio decreto-legge 30 dicembre 1923, n. 3267.
Va segnalato, inoltre, che il comma 6 dell'articolo 61 tiene ferme tutte le altre funzioni amministrative già trasferite o delegate alle Regioni.
Sembrerebbe opportuno specificare se rimangano attribuite alle Regioni le funzioni amministrative relative alla difesa delle coste. Le norme attuali prevedono infatti che siano svolte dalle regioni - nel rispetto degli indirizzi generali e dei criteri definiti dallo Stato - le funzioni amministrative statali relative alla difesa delle coste, “con esclusione delle zone comprese nei bacini di rilievo nazionale, nonché delle aree di preminente interesse nazionale per la sicurezza dello Stato e della navigazione marittima, nonché delle aree di preminente interesse nazionale per la sicurezza dello Stato e della navigazione marittima” (comma 7 dell'art. 10 della legge 183/1989). Ora, venendo meno i bacini idrografici di rilievo nazionale, rimarrebbe un dubbio interpretativo in merito a questa competenza.
Al Registro Italiano Dighe (RID), al Ministero delle attività produttive e alle Regioni spettano (articolo 61, commi da 2 a 4) le medesime competenze ad essi rispettivamente attribuite, in materia di dighe, opere di sbarramento e traverse dai commi 3, 4 e 5 dell'art. 10 della legge 183/1989.
Con riferimento agli enti locali (comuni, province, loro consorzi o associazioni, comunità montane) e agli altri enti pubblici e di diritto pubblico l'articolo 62 ribadisce quanto previsto dall'art. 11 della legge 183/1989, e cioè che essi partecipano all’esercizio delle funzioni regionali in materia di difesa del suolo nei modi e nelle forme stabilite dalle Regioni singolarmente o d’intesa tra loro.
Si segnala, peraltro, che l'articolo 62 (a differenza dell’art. 11 della legge n. 183, del quale rappresenta sostanzialmente una riscrittura, non fa riferimento ai consorzi di bacino imbrifero montano.
L'articolo 63 istituisce in ciascun distretto idrografico l’Autorità di bacino distrettuale e sopprime, a far data dal 30 giugno 2006, le Autorità di bacino previste dalla legge 183/1989, rimettendo ad un decreto del Presidente del Consiglio (da adottarsi, su proposta del Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio, di concerto con il Ministro dell'economia e delle finanze e con il Ministro per la funzione pubblica, sentita la Conferenza permanente Stato – Regioni, entro 90 giorni dall’entrata in vigore della parte terza del presente decreto) la disciplina del trasferimento di funzioni e la regolamentazione del periodo transitorio. Al medesimo decreto è affidata la nomina dei segretari generali delle Autorità di bacino distrettuali e la definizione dei criteri e delle modalità per la nomina dei componenti degli organi delle Autorità, nonché per l'attribuzione o il trasferimento del personale e delle risorse patrimoniali e finanziarie.
Si ricorda che la legge 183/89, nel quadro di una riorganizzazione complessiva delle competenze delle amministrazioni statali e locali in materia di difesa del suolo, ha istituito le Autorità di bacino, assegnando loro il compito di assicurare la difesa del suolo, il risanamento delle acque, la fruizione e la gestione del patrimonio idrico e la tutela degli aspetti ambientali nell’ambito dell’ecosistema unitario del bacino idrografico. Per la prima volta sono stati così attribuiti compiti di pianificazione e programmazione ad un ente il cui territorio di competenza è stato delimitato non su base politica, ma in applicazione di criteri geomorfologici e ambientali, con l'obiettivo di affrontare i problemi legati al ciclo dell’acqua e alla difesa del suolo unitariamente e su una scala territoriale adeguata.
La legge 183/89 ha suddiviso il territorio nazionale in bacini idrografici di rilievo nazionale, bacini idrografici di rilievo interregionale e bacini idrografici di rilievo regionale. I bacini di rilievo nazionale indicati dalla legge sono complessivamente 11. A fini gestionali e di pianificazione, è stato deciso di istituire un’unica Autorità di bacino che è competente per i territori compresi nei 5 bacini di rilievo nazionale dei fiumi che sfociano nella parte più settentrionale mare Adriatico (Isonzo, Tagliamento, Livenza, Piave e Brenta-Bacchiglione). Analogamente è stato fatto per i due bacini di rilievo nazionale (Liri-Garigliano e Volturno) sfocianti nella parte meridionale del mare Tirreno. Le altre 4 Autorità di rilievo nazionale sono preposte ai bacini dei fiumi Adige e Po per il versante adriatico e ai bacini dei fiumi Arno e Tevere per il versante Tirrenico. Inoltre, la legge 183/89 elenca 16 bacini di rilievo interregionale, di cui 11 per il versante adriatico e 5 per il versante tirrenico. Per questi bacini, le regioni territorialmente competenti amministrano le funzioni relative alle opere idrauliche e alle risorse idriche e definiscono la formazione del comitato istituzionale e del comitato tecnico, il piano di bacino e la programmazione degli interventi. I bacini di rilievo regionale sono tutti i restanti bacini.
Per quanto riguarda la struttura organizzativa tecnica e funzionale delle Autorità di bacino nazionali, la legge 183/89 ha previsto 4 organi (la cui organizzazione è stata poi parzialmente modificata dalla legge 179/2002): il comitato istituzionale; il comitato tecnico; il segretario generale; la segreteria tecnico-operativa.
Il comitato istituzionale è presieduto dal Ministro per l’ambiente e il territorio ed è composto dai Ministri delle infrastrutture e trasporti, delle politiche agricole e forestali, per i beni e le attività culturali, nonché dai presidenti delle giunte regionali delle Regioni il cui territorio è compreso nel bacino e dal segretario generale dell’Autorità di Bacino. Il comitato istituzionale esercita i principali compiti di indirizzo e amministrativi e in particolare sancisce tutte le fasi dell’iter di elaborazione ed adozione del piano di bacino, a partire dai criteri e metodi d’impostazione del progetto di piano, fino all’adozione del progetto definitivo, controllando anche i tempi e i modi dell’attuazione delle prescrizioni in esso contenute.
Il comitato tecnico è l’organo di consulenza del comitato istituzionale ed elabora, avvalendosi dell’apporto della segreteria tecnica operativa, il piano di bacino. Il comitato tecnico è presieduto dal segretario generale, ed è composto da funzionari designati uno per ciascuna delle amministrazioni presenti nel comitato istituzionale, nonché dal direttore dell’APAT. Il comitato tecnico può essere integrato da esperti di elevato livello scientifico designati dal comitato istituzionale, nonché da un rappresentante del dipartimento della protezione civile.
Al segretario generale sono affidati svariati compiti sia di tipo organizzativo che tecnico. Le competenze organizzative riguardano il funzionamento complessivo dell’Autorità ed in particolare della segreteria tecnica di cui è responsabile, la cura dei rapporti con le amministrazioni statali, regionali e con gli altri enti locali presenti nel territorio del bacino.
La segreteria tecnico-operativa svolge funzioni di segreteria, di studio e raccolta di documentazione e di formulazione e gestione di piani e programmi.
Organi dell'Autorità di bacino distrettuale sono: il segretario generale, la segreteria tecnico-operativa e il comitato tecnico. Ad un decreto del Presidente del consiglio dei ministri sono rimessi la nomina del segretario generale e la definizione dei criteri e delle modalità per la nomina dei componenti degli organi dell’Autorità, nonché per l’attribuzione o il trasferimento del personale e delle risorse patrimoniali e finanziarie.
Si osserva che – nella normativa attuale (art. 12, comma 3, della legge n. 183) – un importante elemento di raccordo fra autorità centrali e Autorità territoriali è rappresentato dalla presenza, nel comitato istituzionale delle Autorità di bacino di rilievo nazionale dei presidenti delle giunte regionali delle regioni il cui territorio è interessato dal bacino idrografico (vedi i documenti conclusivi approvati al termine dell’indagine conoscitiva sulla difesa del suolo svolta congiuntamente dalle Commissioni 13° del Senato e VIII della Camera nel corso della XIII Legislatura).
Sembra opportuno valutare l’ipotesi di inserire tale previsione anche nel testo del decreto in esame.
§ l’elaborazione del Piano di bacino distrettuale;
§ l'elaborazione, secondo le specifiche tecniche che figurano negli allegati alla parte terza del decreto, di un'analisi delle caratteristiche del distretto, di un esame sull'impatto delle attività umane sullo stato delle acque superficiali e sulle acque sotterranee, nonché di un'analisi economica dell'utilizzo idrico.
Inoltre, le Autorità di Bacino - fatte salve le discipline adottate dalle Regioni ai sensi dell'articolo 62 - coordinano e sovraintendono alle attività e le funzioni dei consorzi di bonifica integrale, nonché del Consorzio del Ticino – Ente autonomo per la costruzione, manutenzione ed esercizio dell’opera regolatrice del lago Maggiore, del Consorzio dell’Oglio – Ente autonomo per la costruzione, manutenzione ed esercizio dell’opera regolatrice del lago d’Iseo e del Consorzio dell’Adda – Ente autonomo per la costruzione, manutenzione ed esercizio dell’opera regolatrice del lago di Como, con particolare riguardo all’esecuzione, manutenzione ed esercizio delle opere idrauliche e di bonifica, alla realizzazione di azioni di salvaguardia ambientale e di risanamento delle acque, anche al fine della loro utilizzazione irrigua, alla rinaturalizzazione dei corsi d’acqua ed alla fitodepurazione (comma 7).
Gli atti di indirizzo, coordinamento e pianificazione delle Autorità di bacino distrettuali vengono adottati in sede di conferenza di servizi (presieduta e convocata, anche su proposta delle amministrazioni partecipanti, dal Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio su istanza del segretario generale, che vi partecipa senza diritto di voto). Alla conferenza di servizi partecipano i rappresentanti del Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio, del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti, del Ministero delle politiche agricole e forestali, del Ministero per i beni e le attività culturali e delle Regioni e Province autonome il cui territorio è interessato dal distretto idrografico, nonché del Dipartimento della protezione civile. La conferenza delibera a maggioranza, mentre per ogni altro aspetto relativo alla sua convocazione e al suo funzionamento si applicano le disposizioni di cui agli articoli 14 e seguenti della legge 7 agosto 1990, n. 241(Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi).
Si ricorda che gli articoli 14, 14-bis, 14-ter, 14-quater e 14-quinquies della legge 7 agosto 1990, n. 241 disciplinano rispettivamente la conferenza di servizi, la conferenza di servizi preliminare, i lavori della conferenza di servizi, gli effetti del dissenso espresso nella conferenza di servizi e la conferenza di servizi in materia di finanza di progetto. In particolare l'art. 14-quater prevede che se il motivato dissenso è espresso da un'amministrazione preposta alla tutela ambientale, paesaggistico-territoriale, del patrimonio storico-artistico o alla tutela della salute e della pubblica incolumità, la decisione è rimessa dall'amministrazione procedente, entro dieci giorni: a) al Consiglio dei Ministri, in caso di dissenso tra amministrazioni statali; b) alla Conferenza Stato-regioni, in caso di dissenso tra un'amministrazione statale e una regionale o tra più amministrazioni regionali; c) alla Conferenza unificata, in caso di dissenso tra un'amministrazione statale o regionale e un ente locale o tra più enti locali. Verificata la completezza della documentazione inviata ai fini istruttori, la decisione è assunta entro trenta giorni, salvo che il Presidente del Consiglio dei Ministri, della Conferenza Stato-regioni o della Conferenza unificata, valutata la complessità dell'istruttoria, decida di prorogare tale termine per un ulteriore periodo non superiore a sessanta giorni. Se il motivato dissenso è espresso da una regione o da una provincia autonoma in una delle materie di propria competenza, la determinazione sostitutiva è rimessa dall'amministrazione procedente, entro dieci giorni: a) alla Conferenza Stato-regioni, se il dissenso verte tra un'amministrazione statale e una regionale o tra amministrazioni regionali; b) alla Conferenza unificata, in caso di dissenso tra una regione o provincia autonoma e un ente locale. Verificata la completezza della documentazione inviata ai fini istruttori, la decisione è assunta entro trenta giorni, salvo che il Presidente della Conferenza Stato-regioni o della Conferenza unificata, valutata la complessità dell'istruttoria, decida di prorogare tale termine per un ulteriore periodo non superiore a sessanta giorni. Se entro i suddetti termini la Conferenza Stato-regioni o la Conferenza unificata non provvede, la decisione, su iniziativa del Ministro per gli affari regionali, è rimessa al Consiglio dei Ministri, che assume la determinazione sostitutiva nei successivi trenta giorni, ovvero, quando verta in materia non attribuita alla competenza statale ai sensi dell'articolo 117, secondo comma, e dell'articolo 118 della Costituzione, alla competente Giunta regionale ovvero alle competenti Giunte delle province autonome di Trento e di Bolzano, che assumono la determinazione sostitutiva nei successivi trenta giorni; qualora la Giunta regionale non provveda entro il termine predetto, la decisione è rimessa al Consiglio dei Ministri, che delibera con la partecipazione dei Presidenti delle regioni interessate.
Spetta alla conferenza di servizi :
- adottare criteri e metodi per la elaborazione del piano di bacino in conformità agli indirizzi ed ai criteri definiti dal Presidente del Consiglio e dal Comitato di ministri per i servizi tecnici nazionali e per gli interventi nel settore della difesa del suolo;
- individuare tempi e modalità per l’adozione del piano di bacino, che potrà eventualmente articolarsi in piani riferiti a sub-bacini;
- determinare quali componenti del piano costituiscono interesse esclusivo delle singole Regioni e quali costituiscono interessi comuni a più Regioni;
- adottare i provvedimenti necessari per garantire comunque l’elaborazione del piano di bacino;
- adottare il piano di bacino;
- controllare l’attuazione degli schemi previsionali e programmatici del piano di bacino e dei programmi triennali e, in caso di grave ritardo nell’esecuzione di interventi non di competenza statale rispetto ai tempi fissati nel programma, diffidare l’amministrazione inadempiente, fissando il termine massimo per l’inizio dei lavori. Decorso infruttuosamente tale termine, all’adozione delle misure necessarie ad assicurare l’avvio dei lavori provvede, in via sostitutiva, il Presidente della Giunta regionale interessata che, a tal fine, può avvalersi degli organi decentrati e periferici del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti.
L'articolo 64 stabilisce che l’intero territorio nazionale, ivi comprese le isole minori, è ripartito in distretti idrografici e precisa che sono fra l’altro assegnate ai distretti idrografici sia le aree dei bacini idrografici di rilievo nazionale ed interregionale di cui alla legge 183/1989, che le aree dei bacini idrografici regionali di cui alla medesima legge.
Al decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri (di cui all’articolo 63, comma 2) che dovrà recare la disciplina del trasferimento delle funzioni attualmente in capo alle Autorità di bacino previste dalla legge 183/1989 è rimessa anche l'individuazione dei distretti idrografici, secondo criteri di ripartizione in macroaree anche interregionali, prevedendosi che i bacini idrografici che si estendono sul territorio di altri Stati siano assegnati ad un distretto idrografico internazionale e contestualmente individuandone le autorità competenti.
Si osserva che – anche alla luce della costante giurisprudenza costituzionale intervenuta a seguito dell’approvazione della legge n. 183 del 1989 – la difesa del suolo è “una finalità il cui raggiungimento coinvolge funzioni e materie assegnate tanto alla competenza statale quanto a quella regionale (o provinciale)” e tale funzione può essere perseguita “soltanto attraverso la via della cooperazione fra l’uno e gli altri soggetti”[52].
Pertanto, nel passaggio decisivo da un sistema nel quale i bacini idrografici sono identificati per legge (artt. 14 e 15 della legge n. 183) ad un sistema nel quale la loro individuazione è rinviata ad un atto di normazione secondaria, appare opportuno prevedere che la Conferenza Stato-Regioni eserciti una funzione più penetrante rispetto alla mera consultazione. Lo strumento dell’intesa sembrerebbe essere scelta più conforme alla giurisprudenza costituzionale in materia.
Nella Relazione che accompagna lo schema di decreto legislativo in esame, si fa presente che <<Con l'introduzione dell'unità logica di distretto idrografico si supera la frammentazione territoriale esistente, recependo appieno la logica di distretto voluta dalla Direttiva[53]. Conformemente alla rinnovata delimitazione territoriale, si introduce una pianificazione a scala di distretto, facente capo alle Autorità di bacino distrettuali, le quali, assumendo il ruolo e le funzioni delle Autorità di bacino preesistenti, consentono una analoga razionalizzazione in termini operativo-pianificatori>>.
Si ricorda che la Direttiva 2000/60/CE (Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio che istituisce un quadro per l'azione comunitaria in materia di acque) all'art. 3, impone agli Stati membri di individuare i singoli bacini idrografici presenti nel loro territorio e di assegnarli a singoli distretti idrografici. Ove opportuno, è possibile accomunare in un unico distretto bacini idrografici di piccole dimensioni e bacini di dimensioni più grandi, oppure unificare bacini limitrofi. Qualora le acque sotterranee non rientrino interamente in un bacino idrografico preciso, esse vengono individuate e assegnate al distretto idrografico più vicino o più consono. Le acque costiere vengono individuate e assegnate al distretto idrografico o ai distretti idrografici più vicini o più consoni. Gli Stati membri provvedono a adottare le disposizioni amministrative adeguate, ivi compresa l'individuazione dell'autorità competente, per l'applicazione delle norme previste dalla presente direttiva all'interno di ciascun distretto idrografico presente nel loro territorio….Ai fini della presente direttiva, gli Stati membri possono individuare quale autorità competente un organismo nazionale o internazionale esistente. Successivamente alla delimitazione, la Direttiva prescrive che siano condotte per ogni distretto le seguenti operazioni preliminari: l'analisi delle caratteristiche del distretto (art. 5); l'esame dell'impatto delle attività umane sullo stato delle acque superficiali e sotterranee (art. 5); l'analisi economica dell'utilizzo idrico (art. 5); l'istituzione del registro delle zone protette (art. 6). La direttiva stabilisce che per i singoli distretti idrografici un'autorità competente è designata entro il 22 dicembre 2003.
Il distretto idrografico costituisce, pertanto, l'unità territoriale di riferimento per la gestione integrata del sistema delle acque superficiali e sotterranee e rispetto ad esso è predisposto e attuato il Piano di gestione per il conseguimento degli obiettivi posti dalla Direttiva. I criteri generali per l'identificazione dei distretti a partire dai bacini idrografici sono contenuti nella linea guida “ Identification of River Basin Districts in Member States - Overview, criteria and current state of play - 2002 ”, redatta nell'ambito della Common Implementation Strategy for the Water Framework Directive 2000/60/EC. I criteri generali suggeriti dalla linea guida prevedono, a partire dall'individuazione bacini idrografici, le seguenti scansioni: delimitazione degli acquiferi principali; accorpamento dei bacini di piccole dimensioni; attribuzione ai distretti degli acquiferi; attribuzione ai distretti delle acque costiere.
Va segnalato che la Commissione europea in data 18 febbraio 2005 ha deferito alla Corte di giustizia l’Italia per omesso recepimento della direttiva 2000/60/CE, il cui termine di trasposizione era fissato al 22 dicembre 2003 (Causa C-85/05). La Commissione ha chiesto alla Corte di accertare che la Repubblica italiana è venuta meno all’obbligo di recepimento, o, in ogni caso, all’obbligo di comunicare le misure di attuazione, imposto dall’articolo 24, paragrafo 1, della direttiva.
Va poi evidenziato che la Commissione europea ha inviato, in data 12 ottobre 2005, un parere motivato all’Italia (procedura n. 2005/2315) per non aver rispettato la direttiva 2000/60/CE, e in particolare il suo articolo 3, nella parte in cui impone agli Stati di istituire distretti idrografici, che possano includere uno o più bacini idrografici, con le rispettive acque sotterranee e costiere. Entro il 22 dicembre 2003 gli Stati erano tenuti a individuare i bacini idrografici e entro il 22 giugno 2004 a trasmettere alla Commissione informazioni dettagliate sulle autorità nominate per gestirli. L’Italia, secondo la Commissione europea, non ha fornito tutte le informazioni necessarie al riguardo e conseguentemente le è stato inviato un parere motivato, che costituisce il secondo stadio di una procedura di infrazione. Ai sensi dell’articolo 226 del Trattato CE, qualora lo Stato non si conformi nel termine indicato al parere della Commissione europea, la stessa può adire la Corte di giustizia con azione di inadempimento.
Sempre il 12 ottobre 2005 la Commissione europea ha inviato all’Italia una lettera di costituzione in mora per il mancato adempimento all’obbligo di trasmettere alla stessa Commissione entro il 22 marzo 2005 una relazione sui risultati di studi ambientali dettagliati sull’attuale stato di ogni distretto idrografico sul proprio territorio. La lettera di costituzione in mora costituisce il primo stadio di una procedura di infrazione, con cui si invita lo Stato membro a fornire osservazioni in un termine prestabilito. Il successivo passaggio, eventuale, è costituito dal parere motivato.
Il piano di bacino distrettuale, secondo quanto previsto dall'articolo 65, comma 1, ha valore di piano territoriale di settore ed è lo strumento conoscitivo, normativo e tecnico-operativo mediante il quale sono pianificate e programmate le azioni e le norme d’uso finalizzate alla conservazione, alla difesa e alla valorizzazione del suolo ed alla corretta utilizzazione della acque, sulla base delle caratteristiche fisiche ed ambientali del territorio interessato.
In effetti, il comma 1 dell'articolo 65 riproduce letteralmente quanto disposto dall'art. 17, comma 1, della legge 183/1989 con riferimento al piano di bacino. Anche la procedura di redazione del piano di bacino distrettuale corrisponde sostanzialmente a quella attualmente prevista per l'adozione del piano di bacino dall'art. 17, comma 2, della legge 183/1989, con la differenza che l'articolo 65 contempla una deliberazione della Conferenza Stato-Regioni (e non del Comitato nazionale per la difesa del suolo).
Il comma 3 dell'articolo 65 stabilisce che il piano di gestione (di cui all'articolo 117 dello schema di decreto) e il piano di tutela (di cui all'articolo 121 dello schema di decreto) costituiscono piani stralcio del piano di bacino distrettuale.
I contenuti del piano di bacino distrettuale corrispondono a i contenuti stabiliti dall'art. 17, comma 3, della legge 183/1989 con riferimento al piano di bacino, fatta eccezione per le seguenti novità:
§ il piano di bacino distrettuale deve contenere anche gli elementi di cui all'Allegato 4 alla Parte Terza (Contenuti dei piani di gestione dei bacini idrografici e dei piani di tutela delle acque);
§ il piano di bacino distrettuale deve contenere anche l'indicazione delle opere necessarie in funzione dei pericoli di siccità e dei pericoli di frane, smottamenti e simili;
§ il piano di bacino distrettuale deve prevedere anche meccanismi premiali a favore dei proprietari delle zone agricole e boschive che attuano interventi idonei a prevenire fenomeni di dissesto idrogeologico;
§ il piano di bacino distrettuale deve contenere anche le misure per contrastare i fenomeni di desertificazione, anche mediante programmi ed interventi utili a garantire maggiore disponibilità della risorsa idrica ed il riuso della stessa.
§ il piano di bacino distrettuale non deve più contenere le prescrizioni contro l'inquinamento del suolo ed il versamento nel terreno di discariche di rifiuti civili ed industriali che comunque possano incidere sulle qualità dei corpi idrici superficiali e sotterranei;
§ il piano di bacino distrettuale deve contenere anche l'indicazione delle risorse finanziarie previste a legislazione vigente.
Sempre con riferimento ai contenuti del piano di bacino distrettuale si segnala che l'articolo in esame, nell'elencare tra i contenuti quelli attualmente previsti dalla lettera g) dell'art. 17, comma 3, della legge 183/1989 - il proseguimento ed il completamento delle opere idrauliche, idraulico-agrarie, idraulico-forestali, di forestazione, di bonifica idraulica, di stabilizzazione e consolidamento dei terreni, qualora siano già state intraprese con stanziamenti disposti da leggi speciali e da leggi ordinarie di bilancio - sopprime la precisazione <<di bilancio>> e aggiunge l'ipotesi che le stesse opere siano state già intraprese a seguito dell'approvazione dei relativi atti di programmazione. Si suggerisce di ripristinare la dizione vigente, comprensiva degli interventi previsti anche con legge di bilancio (nella cui dizione rientra, ad esempio, la legge finanziaria).
Anche la normativa risultante dai commi 4, 5 e 6 dell'articolo 65 in ordine agli effetti e ai vincoli derivanti dal piano di bacino distrettuale corrisponde sostanzialmente a quella al momento vigente ai sensi dell'art. 17 della legge 183/1989. Come già prevista dalla normativa vigente (art. 17, comma 6-ter) è la possibilità di redigere ed approvare i piani di bacino per sottobacini o per stralci relativi a settori funzionali.
Parimenti corrispondente a quella già vigente (rispettivamente art. 17, comma 6-bis e comma 6-ter, della legge 183/1989) è la disciplina prevista dal comma 7 dell'art. 65 in ordine all'adozione di misure di salvaguardia e dal comma 8 del medesimo articolo in tema di approvazione dei piani per sottobacini o per stralci.
Nella Relazione che accompagna lo schema di decreto legislativo in esame, si fa presente che <<Attraverso il piano di bacino distrettuale, del quale costituiscono parte integrante il vero e proprio piano di gestione, nonché il piano di tutela, si consente quella pianificazione integrata funzionale all'adeguamento alla normativa comunitaria, ma ancor prima all'ottimizzazione della programmazione degli usi legittimi ed al governo della risorsa nel suo complesso>>.
La procedura di adozione ed approvazione del piano di bacino distrettuale è disciplinata dall'articolo 66.
Il piano di bacino distrettuale, corredato dal relativo rapporto ambientale a fini di valutazione ambientale strategica (VAS), è adottato a maggioranza dalla conferenza di servizi che, con propria deliberazione, contestualmente stabilisce:
a) i termini per l’adozione da parte delle regioni dei provvedimenti conseguenti;
b) quali componenti del piano costituiscono interesse esclusivo delle singole Regioni e quali costituiscono interessi comuni a due o più Regioni.
Si ricorda che i contenuti di cui alle lettere a) e b) sono già previsti per i piani di bacino di rilievo nazionale dall'art. 18, comma 1, della legge 183/1989).
Il piano di bacino distrettuale, corredato dal relativo rapporto ambientale, è inviato ai componenti della conferenza di servizi almeno 20 giorni prima della data fissata per la conferenza e, in caso di decisione a maggioranza, la delibera di adozione deve fornire una adeguata ed analitica motivazione rispetto alle opinioni dissenzienti espresse nel corso della conferenza.
In caso di inerzia in ordine agli adempimenti regionali, il Presidente del Consiglio dei Ministri, su proposta del Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio, previa diffida e sentita la regione interessata, assume i provvedimenti necessari, ivi compresa la nomina di un commissario ad acta, per garantire comunque lo svolgimento delle procedure e l’adozione degli atti necessari per la formazione del piano (comma 4, articolo 66).
Con riferimento al comma 4 dell'articolo 66 (che riproduce sostanzialmente quanto attualmente previsto dall'art. 18, comma 2, della legge 183/1989), si segnala che non è agevole individuare gli adempimenti regionali in ordine ai quali potrebbe attivarsi l'intervento sostitutivo, visto che la competenza riconosciuta alle Regioni dall'articolo 61 dello schema in esame è quella, piuttosto generica, di collaborare nel rilevamento e nell’elaborazione dei piani di bacino dei distretti idrografici secondo le direttive assunte in sede di conferenza di servizi ed adottare gli atti di competenza.
Dell’adozione del piano distrettuale è data notizia secondo le forme e con le modalità previste dalla normativa vigente ai fini dell’esperimento della procedura di VAS in sede statale. Conclusa la procedura di VAS, sulla base del giudizio di compatibilità ambientale espresso dall’autorità competente, i piani di bacino sono approvati con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, su proposta del Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio, e sono poi pubblicati nella Gazzetta Ufficiale e nei Bollettini Ufficiali delle Regioni territorialmente competenti.
L'articolo 67, al comma 1, stabilisce che, nelle more dell’approvazione dei piani di bacino, le Autorità di bacino adottano piani stralcio di distretto per l’assetto idrogeologico (PAI), che contengono in particolare l’individuazione delle aree a rischio idrogeologico, la perimetrazione delle aree da sottoporre a misure di salvaguardia e la determinazione delle misure medesime. Nei piani stralcio sono individuati le infrastrutture e i manufatti che determinano il rischio idrogeologico e sulla base di tali individuazioni, le Regioni stabiliscono le misure di incentivazione a cui i soggetti proprietari possono accedere al fine di adeguare le infrastrutture e di rilocalizzare fuori dall’area a rischio le attività produttive e le abitazioni private (previsione questa già contenuta nell'art. 1, comma 5, del decreto-legge 11 giugno 1998, n. 180 (Misure urgenti per la prevenzione del rischio idrogeologico ed a favore delle zone colpite da disastri franosi nella regione Campania, convertito in legge, con modificazioni, dall'art. 1, legge 3 agosto 1998, n. 267).
I progetti di piano stralcio per la tutela dal rischio idrogeologico non sono sottoposti a VAS e sono adottati con le modalità previste per i piani di bacino distrettuale (articolo 68, comma 1). Al fine di garantire la necessaria coerenza tra pianificazione di distretto e pianificazione territoriale l'articolo 68 ribadisce sostanzialmente quanto già stabilito dai commi 3 e 4 dell'art. 1-bis del decreto-legge 12 ottobre 2000, n. 279 (Interventi urgenti per le aree a rischio idrogeologico molto elevato e in materia di protezione civile, nonché a favore di zone colpite da calamità naturali, convertito in legge, con modificazioni, dall'art. 1, legge 11 dicembre 2000, n. 365).
Inoltre, il comma 2 sempre dell'articolo 67 prevede che le Autorità di bacino, anche in deroga alle procedure di cui all’articolo 66, approvano piani straordinari diretti a rimuovere le situazioni a più elevato rischio idrogeologico, redatti anche sulla base delle proposte delle Regioni e degli enti locali. La disciplina di tali piani straordinari corrisponde sostanzialmente a quella dettata dal comma 1-bis dell'art. 1-bis del decreto-legge 11 giugno 1998, n. 180, in tema di approvazione di piani straordinari da parte delle autorità di bacino di rilievo nazionale ed interregionale e delle Regioni.
Va ricordato che della possibilità di utilizzare strumenti di pianificazione meno complessi del piano generale di bacino, quali per l'appunto i piani stralcio, si sono ampiamente avvalse le Autorità di bacino, anche se per tali strumenti il procedimento di approvazione ed entrata in vigore non si discosta da quello previsto in linea generale dalla legge quadro sulla difesa del suolo per il piano di bacino organico. In effetti, l'esperienza dei piani stralcio conferma la difficoltà di elaborazione del piano generale di bacino e la tendenza a ricorrere ad atti pianificatori parziali, che dal punto di vista formale si qualificano come anticipazioni del piano comprensivo.
Al Comitato dei ministri per i servizi tecnici nazionali e per gli interventi nel settore della difesa del suolo spetta, tenendo conto dei programmi già adottati dalle Autorità di bacino e dei piani straordinari, definire, d’intesa con la Conferenza Stato-regioni, programmi di interventi urgenti, anche attraverso azioni di manutenzione dei distretti idrografici, per la riduzione del rischio idrogeologico nelle zone in cui la maggiore vulnerabilità del territorio è connessa con più elevati pericoli per le persone, le cose ed il patrimonio ambientale (articolo 67, comma 3, che riproduce sostanzialmente la normativa vigente ai sensi dell'art. 1, comma 2, del decreto-legge 180/1998).
Agli organi di protezione civile spetta predisporre, per le aree a rischio idrogeologico, con priorità assegnata a quelle in cui la maggiore vulnerabilità del territorio è connessa con più elevati pericoli per le persone, le cose e il patrimonio ambientale, piani urgenti di emergenza contenenti le misure per la salvaguardia dell’incolumità delle popolazioni interessate, compreso il preallertamento, l’allarme e la messa in salvo preventiva (articolo 67, comma 5, che riproduce sostanzialmente la normativa vigente ai sensi dell'art. 1, comma 4, del decreto-legge 180/1998).
Il comma 6 dell'articolo in esame riproduce i contenuti dell'art. 1, comma 5, del decreto-legge 180/1998 in tema di individuazione delle infrastrutture e dei manufatti che determinano il rischio idrogeologico.
Invece, il comma 7 innova alla normativa vigente con il prevedere che i piani stralcio di distretto per l'assetto idrogeologico, i piani straordinari e i programmi di interventi urgenti devono contenere l'indicazione dei mezzi per la loro realizzazione e della relativa copertura finanziaria.
L'articolo 69 prevede che i piani di bacino sono attuati attraverso programmi triennali di intervento, redatti tenendo conto degli indirizzi e delle finalità dei piani medesimi - ribadendo per questa parte la disciplina dettata al riguardo dallo stesso art. 21 della legge 183/1989 (sia pur sostituendo, al comma 3, il parere favorevole del Comitato di bacino con quello della conferenza di servizi) - e indicando i mezzi per farvi fronte e la relativa copertura finanziaria.
La procedura di adozione dei programmi triennali di intervento da parte della conferenza di servizi è disciplinata dall'articolo 70: i programmi sono inviati ai componenti della conferenza di servizi almeno 20 giorni prima della data fissata per la conferenza e, in caso di decisione a maggioranza, la delibera di adozione deve fornire una adeguata ed analitica motivazione rispetto alle opinioni dissenzienti espresse nel corso della conferenza. Il comma 4 dell'articolo 70 (analogamente al comma 6-bis dell'art. 22 della legge 183/1989) stabilisce che gli interventi previsti dai programmi triennali sono di norma attuati in forma integrata e coordinata dai soggetti competenti, in base ad accordi di programma.
Si ricorda che attualmente (art. 22, commi 1, 2 e 3 della legge 183/1989) i programmi di intervento nei bacini di rilievo nazionale sono adottati dai competenti comitati istituzionali e i programmi triennali di intervento relativi ai bacini di rilievo interregionale sono adottati d'intesa dalle Regioni, mentre all' adozione dei programmi di intervento nei bacini di rilievo regionale provvedono le regioni competenti.
In tema di attuazione degli interventi, l'articolo 71 ribadisce la disciplina al momento vigente ai sensi dei commi 1, 4 e 5 dell'art. 23 della legge 183/1989, soltanto che l'eventuale affidamento di incarichi di studio, di progettazione e tecnico-organizzativi ad istituzioni universitarie, liberi professionisti o organizzazioni tecnico-professionali specializzate deve essere deliberato dalla conferenza di servizi (anziché dal comitato istituzionale dell'Autorità di bacino).
Il comma 1 dell'articolo 72 prevede che, ferme restando le entrate connesse alle attività di manutenzione ed esercizio delle opere idrauliche, di bonifica e di miglioria fondiaria, gli interventi previsti dalla sezione prima della parte terza dello schema di decreto sono a totale carico dello Stato e si attuano mediante i programmi triennali.
Le disposizioni in materia di finanziamento recate dai successivi commi dell'articolo 72 riproducono sostanzialmente la disciplina dettata dai commi 2, 3, 4 e 5 dell'art. 25 della legge 183/1989.
L'articolo 73 definisce le finalità delle disposizioni recate dalla Sezione seconda della Parte Terza (comma 1), individua gli strumenti adeguati al perseguimento di tali obiettivi (comma 2) e stabilisce i principi applicabili alla materia (comma 3).
L'articolo in esame riproduce in gran parte le disposizioni attualmente contenute nell'art. 1 del D.lgs. 11 maggio 1999, n. 152 (Disposizioni sulla tutela delle acque dall'inquinamento e recepimento della direttiva 91/271/CEE concernente il trattamento delle acque reflue urbane e della direttiva 91/676/CEE relativa alla protezione delle acque dall'inquinamento provocato dai nitrati provenienti da fonti agricole), con alcune differenze.
In particolare, nel comma 1, in aggiunta alle finalità attualmente già previste, si introducono due ulteriori obiettivi che le disposizioni della sezione in esame devono perseguire, ovvero:
§ mitigare gli effetti delle inondazioni e della siccità contribuendo quindi a:
1. garantire una fornitura sufficiente di acque superficiali e sotterranee di buona qualità per un utilizzo idrico sostenibile, equilibrato ed equo,
2. ridurre in modo significativo l’inquinamento delle acque sotterranee,
3. proteggere le acque territoriali e marine e realizzare gli obiettivi degli accordi internazionali in materia, compresi quelli miranti a impedire ed eliminare l’inquinamento dell’ambiente marino, allo scopo di arrestare o eliminare gradualmente gli scarichi, le emissioni e le perdite di sostanze pericolose prioritarie al fine ultimo di pervenire a concentrazioni, nell’ambiente marino, vicine ai valori del fondo naturale per le sostanze presenti in natura e vicine allo zero per le sostanze sintetiche antropogeniche
§ e impedire un ulteriore deterioramento, proteggere e migliorare lo stato degli ecosistemi acquatici e degli ecosistemi terrestri e delle zone umide direttamente dipendenti dagli ecosistemi acquatici sotto il profilo del fabbisogno idrico. Tali formulazioni riproducono rispettivamente le disposizioni di cui alle lett. e) ed a) dell'art. 1 della Direttiva 23 ottobre 2000, n. 2000/60/CE (Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio che istituisce un quadro per l'azione comunitaria in materia di acque).
Il comma 2 prevede, quali nuovi strumenti forniti per il perseguimento degli obiettivi di cui al comma 1, l'adozione di misure per la graduale riduzione degli scarichi, delle emissioni e di ogni altra fonte di inquinamento diffuso contenente sostanze pericolose o per la graduale eliminazione degli stessi contenenti sostanze pericolose prioritarie, contribuendo a raggiungere nell'ambiente marino concentrazioni vicine ai valori del fondo naturale per le sostanze presenti in natura e vicine allo zero per le sostanze sintetiche antropogeniche e l'adozione delle misure volte al controllo degli scarichi e delle emissioni nelle acque superficiali secondo un approccio combinato.
Il comma 3 stabilisce che le disposizioni recate dai due commi precedenti, nell'ambito delle risorse finanziarie previste dalla legislazione vigente, contribuiscono a proteggere le acque territoriali e marine e a realizzare gli obiettivi degli accordi internazionali applicabili in materia. In merito, si rileva che nel presente comma è stato eliminato il riferimento all'obbligo delle Regioni a statuto ordinario e speciale, rispettivamente al rispetto dei principi fondamentali della materia e all'adeguamento della propria legislazione.
L'articolo 74 detta una serie di definizioni, che si ricollegano in parte a quelle stabilite dall'art. 2 del D. lgs. 152/1999 e in parte alle definizioni stabilite dall'art. 2 della direttiva n. 2000/60/CE.
Con riguardo al primo gruppo di definizioni si segnala la parziale riformulazione di molte di esse, l'introduzione di nuove definizioni e la modifica di altre. In particolare, la definizione di "acque costiere" (<<le acque superficiali situate all’interno rispetto a una retta immaginaria distante, in ogni suo punto, un miglio nautico sul lato esterno dal punto più vicino della linea di base che serve da riferimento per definire il limite delle acque territoriali e che si estendono eventualmente fino al limite esterno delle acque di transizione>>) e "inquinamento" (<<l’introduzione diretta o indiretta, a seguito di attività umana, di sostanze o di calore nell’aria, nell’acqua o nel terreno, che possono nuocere alla salute umana o alla qualità degli ecosistemi acquatici o degli ecosistemi terrestri che dipendono direttamente da ecosistemi acquatici, perturbando, deturpando o deteriorando i valori ricreativi o altri legittimi usi dell’ambiente>>), termini già esistenti nell'elenco di cui all'art. 2 del d. lgs. 152/1999, riproducono fedelmente la definizione prevista dalla menzionata direttiva.
Nuova è la definizione di "acque termali" con cui si intendono <<le acque minerali naturali di cui all’articolo 2, comma 1, lettera a) della legge 24 ottobre 2000, n. 323, utilizzate per le finalità consentite dalla stessa legge>>. La legge n. 323/2000, che reca il riordino del settore termale, al riguardo definisce le acque termali come le acque minerali naturali utilizzate a fini terapeutici.
Le modifiche riguardano le seguenti definizioni:
- "acque dolci". Si elimina il riferimento espresso alla necessità di una "bassa"concentrazione di sali;
- "acque reflue industriali". Si aggiunge un'espressa specificazione relativamente alle acque meteoriche di dilavamento;
- "acque reflue urbane". Si elimina dalla definizione la possibilità che consistano in semplici acque reflue domestiche;
- "acque sotterranee". Si definiscono come acque al di sotto della superficie del suolo e non più del terreno;
- "agglomerato". Si modifica la dicitura "attività economiche" in "attività produttive";
- "effluente di allevamento". Si specifica espressamente che comprende i reflui provenienti da attività di piscicoltura;
- "eutrofizzazione". La proliferazione di alghe prodotta dall'arricchimento delle acque deve essere "abnorme";
- "rete fognaria". Si specifica che le canalizzazioni di cui si compone la rete sono generalmente sotterranee e si aggiunge che la rete raccoglie e convoglia acque domestiche e industriali, oltre che urbane;
- "fognatura separata". Si specifica che le acque reflue raccolte e convogliate sono urbane;
- "scarico". Si elimina la specificazione delle acque reflue in liquide e semiliquide;
- "trattamento primario", "trattamento secondario". Si elimina la specificazione "urbane" delle acque reflue trattate;
- "stabilimento industriale", "stabilimento". Si specifica che si tratta di un'area sottoposta al controllo di un unico gestore.
Con riguardo al secondo gruppo di definizioni, ovvero quelle che riproducono le definizioni dell'art. 2 della direttiva 2000/60/CE (tra le quali figurano, a titolo esemplificativo, quelle di fiume, lago, acque di transizione, corpo idrico artificiale, corpo idrico superficiale, bacino idrografico, distretto idrografico, sostanze pericolose), si rileva che la definizione di "approccio combinato" provvede ad attuare quanto previsto dall'art. 10 della direttiva, cui la definizione della direttiva medesima rinvia.
Infine, le definizioni di "costi ambientali" e "costi della risorsa" riproducono quelle stabilite dalla Comunicazione della Commissione del 27 luglio 2000 (Politiche di tariffazione per una gestione più sostenibile delle riserve idriche, COM(2000) 477 def.), mentre quella di "impianto" riprende la definizione fornita dalla direttiva 96/61/CE (Direttiva sulla prevenzione e la riduzione integrate dell'inquinamento).
L'articolo 75 provvede a disciplinare la ripartizione e le modalità di attuazione delle competenze in materia di acque. In particolare, le competenze statali per la tutela dell’ambiente e dell’ecosistema sono esercitate dal Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio, salve le competenze in materia igienico-sanitaria spettanti al Ministro della salute, mentre le funzioni e i compiti spettanti alle Regioni e agli enti locali devono essere esercitati nel quadro delle competenze determinate dalla Costituzione e nel rispetto delle attribuzioni statali (comma 1).
Modifiche sono introdotte con riguardo alla disposizione applicabile per il caso di inattività delle Regioni e degli enti locali: a tal riguardo, il Presidente del Consiglio, su proposta del Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio, in aggiunta agli strumenti già forniti dalla legislazione vigente, potrà nominare un commissario che provvede in via sostitutiva (comma 2).
Si specifica altresì che i regolamenti di attuazione del presente decreto saranno adottati su proposta del Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio (comma 3).
Vengono eliminate le disposizioni che permettevano ai consorzi di bonifica di concorrere alla realizzazione di azioni di salvaguardia ambientale e di risanamento delle acque e che facevano salve le competenze delle regioni a statuto speciale e delle province autonome. Per contro, sono introdotti due nuovi commi che disciplinano le competenze delle regioni con riguardo a corpi idrici che ricadono nei bacini idrografici internazionali e nel caso in cui il distretto idrografico superi i confini della Comunità europea (commi 7 e 8).
Analogamente a quanto previsto dalla normativa vigente, si stabilisce (comma 9) che i consorzi di bonifica e di irrigazione concorrono alla realizzazione di azioni di salvaguardia ambientale e di risanamento delle acque.
Le disposizioni del presente Capo (articoli 76-79) si inseriscono nel Titolo II relativo agli obiettivi di qualità e disciplinano in particolare l'obiettivo di qualità ambientale e l'obiettivo di qualità per specifica destinazione. Il Capo in esame riproduce in gran parte le disposizioni attualmente contenute nell'omonimo Capo I del Titolo II del D.lgs. 11 maggio 1999, n. 152, ma si rilevano alcune differenze. Al riguardo, si segnala una modifica che investe tutti gli articoli del presente Capo, ovvero l'anticipazione del termine finale entro cui devono essere conseguiti gli obiettivi di qualità, che dal 31 dicembre 2016 viene fissato al 22 dicembre 2015.
L'articolo 76 reca disposizioni generali che forniscono la definizione di obiettivi di qualità e individuano gli stati di qualità che devono essere mantenuti o raggiunti dai diversi corpi idrici. In proposito, rispetto a quanto previsto dal corrispondente art. 4 del D.lgs. n. 152/1999, si evidenzia l'eliminazione del rinvio al relativo allegato per la definizione di "buono" stato dei corpi idrici superficiali e sotterranei, mentre permane tale rinvio per lo stato di qualità "elevato" (comma 4, lett. a) e b)). La definizione di "buono stato delle acque superficiali" e "buono stato delle acque sotterranee" è stata infatti espressamente inserita nell'articolo 74 del decreto, recante le definizioni in materia di acque.
L'articolo 77 disciplina le modalità di individuazione e perseguimento dell'obiettivo di qualità ambientale, con particolare riguardo all'attività delle Regioni.
Rispetto a quanto disposto dall'articolo 5 del D.lgs. n. 152/1999 si rilevano delle differenze. Innanzi tutto si dispone un nuovo termine entro il quale le Regioni devono provvedere ad identificare per i corpi idrici significativi la classe di qualità corrispondente. Tale termine è fissato a dodici mesi dall'entrata in vigore della parte terza del decreto (comma 1).
Viene eliminato il riferimento al rilievo nazionale e interregionale delle autorità di bacino per i corpi idrici sovraregionali, nell'ambito della disposizione relativa all'adozione di misure necessarie al raggiungimento o mantenimento degli obiettivi di qualità ambientale da parte delle Regioni (comma 2).
Nuova è l'introduzione del comma 4, che fissa le scadenze temporali per la conformità agli obiettivi e agli standard di qualità delle acque ricadenti nelle aree protette. Tale disposizione recepisce l'articolo 4, paragrafo 1, lett. c), della direttiva quadro 2000/60/CE sull'azione comunitaria in materia di acque.
Analoghe considerazioni si applicano al nuovo comma 5, che recepisce l'art. 4, paragrafo 3, della direttiva 2000/60/CE, che attiene alle condizioni per poter definire un corpo idrico artificiale o fortemente modificato. Si evidenzia che la disposizione della direttiva affida tale compito agli Stati membri, mentre secondo il comma 5 tale funzione è affidata alle Regioni.
Il comma 6 disciplina la possibilità per le Regioni di derogare al termine finale del 22 dicembre 2015 per il raggiungimento degli obiettivi di qualità. Al riguardo, si sottolinea l'introduzione della previsione della necessità che sussista almeno uno dei seguenti tre motivi: <<- la portata dei miglioramenti necessari può essere attuata, per motivi di realizzabilità tecnica, solo in fasi che superano il periodo stabilito; - il completamento dei miglioramenti entro i termini fissati sarebbe sproporzionatamente costoso; - le condizioni naturali non consentono miglioramenti dello stato del corpo idrico nei tempi richiesti>>. Tali motivi riproducono le condizioni previste dall'art. 4, paragrafo 4, lett. a), numeri i), ii) e iii), della direttiva 2000/60/CE.
Il comma 7 disciplina la possibilità per le Regioni di stabilire obiettivi di qualità ambientale meno rigorosi al verificarsi di determinate condizioni. Si segnala l'eliminazione della condizione relativa all'<<esistenza di circostanze impreviste o eccezionali, quali alluvioni o siccità>>.
Infine, si rileva l'introduzione di un nuovo comma 10, che specifica a quali condizioni il deterioramento temporaneo dello stato dei corpi idrici dovuto a circostanze naturali o di forza maggiore eccezionali o ragionevolmente imprevedibili o conseguente ad incidenti ragionevolmente imprevedibili non debba essere considerato una violazione delle prescrizioni del decreto. Al riguardo, si rileva che anche in questo caso la norma riproduce disposizioni della direttiva 2000/60/CE, ovvero l'art. 4, paragrafo 6. Si segnala, inoltre, che il comma menziona espressamente, quale esempio di circostanze naturali eccezionali o imprevedibili, le alluvioni violente o le siccità prolungate, che costituiva una condizione prevista dall'art. 5 del D. lgs. n. 152/1999 per la previsione da parte delle Regioni di obiettivi di qualità ambientale meno rigorosi (v. supra, comma 7).
L'articolo 78, di nuova introduzione, concerne gli standard di qualità per l'ambiente acquatico. In particolare, al comma 1 si fissa al 31 dicembre 2008 il termine finale per il perseguimento della conformità dei corpi idrici significativi agli standard di qualità previsti nella tabella 1/A dell'allegato 1 alla parte terza del decreto (la cui disciplina sostituisce ad ogni effetto quella di cui al D.M. 6 novembre 2003, n. 367). Tale tabella suddivide i parametri di base da controllare nelle acque superficiali in base a sei categorie di sostanze pericolose: inquinanti inorganici, idrocarburi policiclici aromatici, idrocarburi aromatici, idrocarburi alifatici clorurati, prodotti fitosanitari e biocidi, composti organici semivolatili.
Il comma 2 stabilisce che gli strumenti per il conseguimento degli standard di qualità per l'ambiente acquatico devono essere previsti dai piani di tutela delle acque, anche ai fini della gestione dei fanghi derivanti dagli impianti di depurazione e dalla disciplina degli scarichi i piani di tutela delle acque.
Con il comma 3, infine, si dispone l'attuazione mediante decreto del Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio dell'art. 16 della direttiva 2000/60/CE, il quale reca le strategie per combattere l'inquinamento idrico. Tale attuazione deve realizzarsi entro il 31 dicembre 2015. Entro lo stesso termine occorre inoltre garantire la conformità delle acque a specifica destinazione previste dal successivo articolo 79 (v. infra) agli standard prescritti dallo stesso decreto.
Infine, l'articolo 79, che riproduce fedelmente le disposizioni dell'art. 6 del D. lgs. n. 152/1999, disciplina l'obiettivo di qualità per specifica destinazione.
Il comma 1 provvede a definire le acque a specifica destinazione, ovvero <<le acque dolci superficiali destinate alla produzione di acqua potabile; le acque destinate alla balneazione; le acque dolci che richiedono protezione e miglioramento per essere idonee alla vita dei pesci; le acque destinate alla vita dei molluschi>>.
Il comma 2 stabilisce che tali acque, ad eccezione di quelle di balneazione, devono essere conformi all’obiettivo di qualità per specifica destinazione stabilito nell’allegato 2 alla parte terza del decreto.
Infine, il comma 3 affida alle Regioni la predisposizione di un elenco delle acque a specifica destinazione funzionale che andrà aggiornato periodicamente. Alle Regioni è altresì affidato il compito di stabilire programmi, che vengono recepiti nel piano di tutela, per il mantenimento o l'adeguamento della qualità delle acque a specifica destinazione al corrispondente obiettivo di qualità.
Le disposizioni del Capo II del Titolo II (articoli 80-90) disciplinano le acque a specifica destinazione e i relativi obiettivi di qualità. Tali disposizioni riproducono in larga parte quelle attualmente previste dal Capo II del Titolo II del D. lgs. 11 maggio 1999, n. 152.
Gli articoli 80 e 81 attengono alle acque superficiali destinate alla produzione di acqua potabile e disciplinano, rispettivamente, le modalità di classificazione e monitoraggio di tali acque e le corrispondenti deroghe.
L'articolo 80 riproduce nella sua totalità l'art. 7 del D. lgs. n. 152/1999. In particolare, secondo il comma 1, per permettere l'utilizzo o la destinazione alla produzione di acqua potabile delle acque dolci superficiali, spetta alle Regioni la classificazione delle stesse in tre categorie, che tengono conto delle caratteristiche fisiche, chimiche e microbiologiche di cui alla Tabella 1/A dell’allegato 2 alla parte terza del decreto. Il comma 2 stabilisce i trattamenti cui devono essere sottoposte le acque a seconda della categoria di appartenenza. Secondo il comma 3 spetta alle Regioni inviare i dati relativi al monitoraggio e alla classificazione delle acque al Ministero della salute, che provvede ad inoltrarli alla Commissione europea. Infine, il comma 4 prevede che, qualora le acque dolci superficiali presentino caratteristiche fisiche, chimiche e microbiologiche qualitativamente inferiori ai valori limite imperativi della terza categoria prevista al comma 2, tali acque possano essere eccezionalmente utilizzate, solo qualora non sia possibile ricorrere ad altre fonti di approvvigionamento e a condizione che le acque siano sottoposte ad opportuno trattamento che consenta di rispettare le norme di qualità delle acque destinate al consumo umano.
L'articolo 81 elenca i casi in cui le Regioni possono derogare ai valori dei parametri previsti dalla Tabella 1/A dell’allegato 2 alla parte terza del decreto per le acque superficiali destinate alla produzione di acqua potabile. Si specifica che tali deroghe non sono ammesse se ne derivi un concreto pericolo per la salute pubblica. Il presente articolo diverge dall'art. 8 del D. lgs. n. 152/1999 solo con riferimento alla condizione prevista alla lettera d), nella quale viene meno la specificazione che i laghi con una profondità non superiore ai 20 metri debbano anche avere acque quasi stagnanti.
L'articolo 82, di nuova introduzione, disciplina le acque utilizzate per l’estrazione di acqua potabile. In particolare, si prevede che le Regioni individuino, all’interno del distretto idrografico di appartenenza, <<tutti i corpi idrici superficiali e sotterranei che forniscono in media oltre 10 m3 al giorno o servono più di 50 persone>> e <<i corpi idrici destinati a tale uso futuro>> (comma 1). Si prescrive quindi il monitoraggio ad opera della competente autorità dei corpi idrici che forniscono mediamente più di 100 m3 al giorno (comma 2). Infine, per i corpi idrici previsti al comma 1, si prescrive l'obbligo di conformità all'obiettivo di qualità ambientale previsto dal Capo I relativo agli obiettivi di qualità (comma 3).
L'articolo 82 riproduce in parte l'art. 7 della direttiva 2000/60/CE. Al riguardo, si sottolinea la circostanza che secondo il testo della direttiva l'individuazione dei corpi idrici e l'attività di monitoraggio è affidata – ovviamente - agli Stati membri, mentre la norma nazionale demanda tali attività alle Regioni. Inoltre, l'art. 7 della direttiva prevede espressamente a carico degli Stati membri l'obbligo di provvedere affinché l'acqua risultante soddisfi i requisiti di cui alla direttiva 98/83/CE (recepita con D. lgs. n. 31/2001) e l'obbligo di provvedere alla necessaria protezione dei corpi idrici individuati allo scopo di impedire il peggioramento della loro qualità per ridurre il livello della depurazione necessaria alla produzione di acqua potabile. Agli Stati membri è lasciata altresì la possibilità di definire zone di salvaguardia per tali corpi idrici.
L'articolo 83 disciplina le acque di balneazione e riproduce l'art. 9 del D. lgs. n. 152/1999. Il comma 1 dispone l'obbligo di conformità delle acque destinate alla balneazione ai requisiti previsti dal D.P.R. 8 giugno 1982, n. 470. Tale decreto dà attuazione alla direttiva 76/160/CEE relativa alla qualità delle acque di balneazione e prevede una tabella con i requisiti di qualità delle acque in questione suddivisa per parametri, valori limite, frequenza minima dei campioni e metodo d'analisi o d'ispezione. Il comma 2 riguarda le acque risultate ancora non idonee alla balneazione e prevede che le Regioni comunichino al Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio tutte le informazioni relative alle cause della non balneabilità e alle misure che intendono adottare. Tale comunicazione deve avvenire entro l’inizio della stagione balneare successiva alla data di entrata in vigore della parte terza del decreto e, successivamente, con periodicità annuale prima dell’inizio della stagione balneare.
Gli articoli 84, 85 e 86 recano disposizioni attinenti alle acque dolci idonee alla vita dei pesci, disciplinando rispettivamente le modalità di designazione e classificazione, l'accertamento della qualità delle acque e le relative deroghe.
Più dettagliatamente, l'articolo 84 riproduce, accorpandole, le disposizioni previste dagli artt. 10 e 11 del D.lgs. n. 152/1999. In conformità al comma 1, le Regioni designano le acque dolci che richiedono protezione o miglioramento per esser idonee alla vita dei pesci, privilegiando determinati corpi idrici espressamente elencati in quattro punti (a titolo esemplificativo si menzionano i corsi d’acqua che attraversano il territorio di parchi nazionali e riserve naturali dello Stato o i laghi naturali ed artificiali e gli stagni di parchi e riserve naturali statali e regionali). I commi 2 e 3 disciplinano le modalità di classificazione ad opera delle regioni delle acque designate in acque dolci “salmonicole” o “ciprinicole”. Il comma 4 prevede la possibilità per il Presidente della giunta regionale o della giunta provinciale, di adottare, nell’ambito delle rispettive competenze e per eccezionali ed urgenti necessità di tutela della qualità delle acque dolci idonee alla vita dei pesci, provvedimenti specifici e motivati, integrativi o restrittivi degli scarichi ovvero degli usi delle acque. Infine, il comma 5 sottrae all'applicazione delle disposizioni del presente articolo e dei successivi artt. 85 e 86 (v. infra), <<le acque dolci superficiali dei bacini naturali o artificiali utilizzati per l’allevamento intensivo delle specie ittiche nonché i canali artificiali adibiti a uso plurimo, di scolo o irriguo, e quelli appositamente costruiti per l’allontanamento dei liquami e di acque reflue industriali>>.
Ai sensi dell'articolo 85 è necessario che le acque designate e classificate ai sensi del precedente articolo 84 rispondano ai requisiti della Tabella 1/B dell’allegato 2 alla parte terza del decreto per poter essere considerate idonee alla vita dei pesci (comma 1). Qualora emerga il mancato rispetto di uno o più valori di tali parametri, spetta alle autorità competenti al controllo accertare se tale inosservanza sia dovuta a fenomeni naturali, a causa fortuita, ad apporti inquinanti o a eccessivi prelievi e quindi proporre all’autorità competente le misure appropriate (comma 2). Alle Regioni è attribuito il compito di promuovere la realizzazione di programmi di analisi biologica delle acque designate e classificate, per una più completa valutazione delle qualità delle acque (comma 3).
L'articolo 86 prevede che le Regioni possano derogare al rispetto dei parametri indicati nella Tabella 1/B sopra menzionata dal simbolo (o) in caso di circostanze meteorologiche eccezionali o speciali condizioni geografiche e, quanto al rispetto dei parametri riportati nella medesima Tabella, in caso di arricchimento naturale del corpo idrico da sostanze provenienti dal suolo senza intervento diretto dell’uomo.
Si segnala che gli articoli 85 e 86 riproducono i corrispondenti articoli 12 e 13 del D.lgs. n. 152/1999.
Gli articoli 87, 88 e 89 recano disposizioni attinenti alle acque destinate alla vita dei molluschi e disciplinano rispettivamente le modalità di designazione delle acque, l'accertamento della qualità delle acque e le relative deroghe.
L'articolo 87 riproduce l'art. 14 del D.lgs. n. 152/1999. In particolare, il comma 1 demanda alle Regioni la designazione, nell’ambito delle acque marine costiere e salmastre che sono sede di banchi e di popolazioni naturali di molluschi bivalvi e gasteropodi, delle acque che necessitano di protezione e miglioramento per consentire la vita e lo sviluppo dei molluschi e per contribuire alla buona qualità dei prodotti della molluschicoltura direttamente commestibili per l’uomo. Il comma 2 permette alle Regioni di procedere a designazioni complementari, o alla revisione delle designazioni già effettuate, in funzione dell’esistenza di elementi imprevisti al momento della designazione. Infine, il comma 3, prevede la possibilità per il Presidente della giunta regionale o della giunta provinciale e per il sindaco, di adottare, nell’ambito delle rispettive competenze e per eccezionali ed urgenti necessità di tutela della qualità delle acque in questione, provvedimenti specifici e motivati, integrativi o restrittivi degli scarichi ovvero degli usi delle acque.
L'articolo 88, riproduce le disposizioni dell'art. 15 del D.lgs. n. 152/1999. Nel dettaglio, in conformità al comma 1, è necessario che le acque designate ai sensi del precedente articolo 87 rispondano ai requisiti della Tabella 1/C dell’allegato 2 alla parte terza del decreto. In caso di mancata conformità delle acque ai detti requisiti, le regioni devono stabilire dei programmi per la riduzione dell’inquinamento di tali acque. Il comma 2 dispone che, qualora emerga il mancato rispetto di uno o più valori di tali parametri, spetti alle autorità competenti al controllo accertare se tale inosservanza sia dovuta a fenomeni naturali, a causa fortuita o ad altri fattori di inquinamento. Compete invece alle Regioni l'adozione delle misure appropriate.
L'articolo 89, di identico tenore dell'art. 16 del D. lgs. n. 152/1999, prevede che, in caso di condizioni meteorologiche o geomorfologiche eccezionali, le Regioni possano derogare ai requisiti di cui alla Tabella 1/C sopra menzionata.
L'articolo 90, che reca norme sanitarie che riproducono quanto stabilito dall'art. 17 del D.lgs. n. 152/1999, dispone che le attività previste agli articoli 87, 88 e 89, relativi alle acque destinate alla vita dei molluschi, non pregiudicano l’attuazione delle norme sanitarie relative alla classificazione delle zone di produzione e di stabulazione dei molluschi bivalvi vivi, effettuata ai sensi del D. lgs. 30 dicembre 1992, n. 530. Tale decreto dà attuazione alla direttiva 91/492/CEE che stabilisce le norme sanitarie applicabili alla produzione e commercializzazione dei molluschi bivalvi vivi.
Il D. lgs. n. 530/1992 reca un art. 4, relativo alla classificazione delle zone di produzione e di stabulazione, in cui si descrivono le modalità di classificazione e di trasmissione della documentazione da parte delle Regioni, mentre le norme sanitarie per i centri di produzione e per la stabulazione dei molluschi bivalvi vivi sono contenute negli allegati.
Il Capo I dello schema di decreto in esame riguarda le aree richiedenti specifiche misure di prevenzione dall'inquinamento e di risanamento e corrisponde al Titolo III, Capo I, del D.lgs. n. 152 del 1999 (artt. 18-21).
L'articolo 91, al comma 1, stabilisce che le aree sensibili sono individuate secondo i criteri di cui all'Allegato 6 alla parte terza del decreto e che sono comunque aree sensibili quelle aree (i laghi di cui al medesimo Allegato 6, nonché i corsi d'acqua a esse afferenti per un tratto di 10 chilometri dalla linea di costa; le aree lagunari di Orbetello, Ravenna e Piallassa-Baiona, le Valli di Comacchio, i laghi salmastri e il delta del Po; le zone umide individuate ai sensi della convenzione di Ramsar del 2 febbraio 1971, resa esecutiva con decreto del Presidente della Repubblica 13 marzo 1976, n. 448; le aree costiere dell'Adriatico-Nord Occidentale dalla foce dell'Adige al confine meridionale del comune di Pesaro e i corsi d'acqua ad essi afferenti per un tratto di 10 chilometri dalla linea di costa) che il comma 2 dell'art. 18 del d. Lgs. n. 152 designa come aree sensibili <<ai fini della prima individuazione>>. Sono comunque aree sensibili anche il lago di Garda e il lago d'Idro, i fiumi Sarca-Mincio, Oglio, Adda, Lambro-Olona meridionale e Ticino, Greve, l'Arno a valle di Firenze e il relativo affluente, il golfo di Castellammare in Sicilia, le acque costiere dell'Adriatico settentrionale.
Il comma 2, invece, reca una disposizione nuova rispetto alla normativa vigente: il Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio, sentita la Conferenza Stato-Regioni, entro 180 giorni dalla data in vigore della parte terza del decreto legislativo in esame, individua con proprio decreto ulteriori aree sensibili identificate secondo i criteri di cui all’Allegato 6 alla parte terza del decreto stesso.
Il comma 3, riproducendo il comma 3 del sopra citato art. 18 del D.lgs. n. 152, fa salvo quanto disposto dalla legislazione vigente riguardo alla tutela di Venezia.
Il comma 4, analogamente all'art. 18, comma 4, D. lgs. n. 152, prevede che entro un anno dalla entrata in vigore della parte terza del decreto in esame, e successivamente ogni due anni, le Regioni - sulla base dei criteri di cui all'Allegato 6 e sentita l'Autorità di bacino - possono individuare altre aree sensibili o, all'interno di quelle individuate con decreto ministeriale, i corpi idrici che non costituiscono corpi sensibili.
Il comma 5 riproduce il comma 5 dell'art. 18 D.lgs. n. 112 - introducendo ex novo peraltro l'obbligo di sentire l'Autorità di bacino - in tema di delimitazione ad opera delle Regioni dei bacini drenanti nelle aree sensibili che contribuiscono al loro inquinamento.
L'art. 18, comma 6, del D.lgs. n. 152, prevede che ogni quattro anni si provveda alla reidentificazione delle aree sensibili e dei rispettivi bacini drenanti che contribuiscono all'inquinamento delle aree sensibili. L'articolo in esame (comma 6) stabilisce che tale reidentificazione è effettuata ogni quattro anni con decreto del Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio, sentita la Conferenza Stato-Regioni.
Il comma 7 non contiene alcuna innovazione rispetto all'art. 18 D.lgs. n. 112 e prevede che le nuove aree sensibili identificate ai sensi dei commi 2, 4, e 6 devono soddisfare i requisiti dell’articolo 106[54] entro sette anni dall’identificazione.
Il comma 8, innovando alla normativa vigente, assoggetta alle disposizioni del citato articolo 106 gli scarichi recapitanti nei bacini drenanti afferenti alle aree sensibili.
L'articolo 92 disciplina le zone vulnerabili da nitrati di origine agricola e riproduce integralmente quanto disposto dall'art. 19 del D.lgs. n. 152/1999, tranne per la nuova disposizione che viene introdotta dal comma 3, con il quale si stabilisce che il Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio, sentita la Conferenza Stato-Regioni, può modificare i criteri con cui vengono individuate le zone vulnerabili da nitrati di origine agricola di cui all'Allegato 7/A-1, al fine di prendere in considerazione eventuali cambiamenti e/o fattori imprevisti alla data di entrata in vigore della parte terza del decreto in esame.
L'articolo 93[55] disciplina le zone vulnerabili da prodotti fitosanitari e le zone vulnerabili alla desertificazione.
Nel comma 1 si registra un erroneo riferimento normativo, in quanto ci si riferisce all' art. 25 (anziché, come sarebbe corretto, all'art. 5), comma 21, del D.lgs. 194/1995, recante "Attuazione della direttiva 91/414/CEE in materia di immissione in commercio di prodotti fitosanitari".
Le disposizioni dell'art. 20 del D.lgs. n. 152 vengono integralmente riprese, fatta eccezione per una diversa espressione introdotta nel comma 3, dove si dispone che siano adottate specifiche misure di tutela, per le aree vulnerabili alla desertificazione, secondo i criteri previsti nel Piano d'azione nazionale di cui alla delibera del CIPE del 22 dicembre 1998, nell'ambito della pianificazione di distretto, e non più di bacino (comma 3 del citato art. 20) .
L'articolo 94 disciplina le aree di salvaguardia delle acque superficiali e sotterranee destinate al consumo umano, con alcune modifiche rispetto alle disposizioni contenute nell'art. 21 del D.lgs. n. 152/1999, dal quale viene innanzitutto eliminata la disposizione (comma 3) che prevede che per la gestione delle aree di salvaguardia si applichino le disposizioni dell'art. 13 della legge 5 gennaio 1994, n. 36 (Tariffa del servizio idrico) e le disposizioni dell'art. 24 della stessa legge (Gestione delle aree di salvaguardia), anche per quanto riguarda eventuali indennizzi per le attività preesistenti.
Si rinvia in proposito alla scheda di questo dossier “Le forme di affidamento e tariffazione del servizio idrico nella legislazione vigente e nello schema di decreto” (p. 195)
Le altre modifiche alla normativa vigente presenti nell'articolo in esame sono contenute nei commi seguenti:
- comma 5, là dove si fissa in 180 giorni dalla entrata in vigore della parte terza del presente decreto il termine entro il quale le Regioni e le province autonome devono disciplinare, all'interno delle zone di rispetto, le seguenti strutture od attività:
a) fognature;
b) edilizia residenziale e relative opere di urbanizzazione;
c) opere viarie, ferroviarie e in genere infrastrutture di servizio;
d) le pratiche agronomiche e i contenuti dei piani di utilizzazione di cui alla lettera c) del comma 4 dell'articolo in esame[56];
- commi 6, 7 e 8, là dove vengono comprese, oltre alle Regioni, le Province autonome tra i soggetti che devono individuare le zone di rispetto e di protezione.
Il Capo II riguarda la tutela quantitativa della risorsa idrica e del risparmio idrico, ora disciplinata nel Capo II del D.lgs. 11 maggio 1999, n. 152.
L'articolo 95 reca norme in materia di pianificazione del bilancio idrico, contenute attualmente nell'art. 22 del D.lgs. n. 152, di cui sostanzialmente riporta le disposizioni. Si tratta della predisposizione dei piani di tutela adottati al fine di raggiungere gli obiettivi di qualità attraverso una pianificazione delle utilizzazioni delle acque volta a evitare ripercussioni sulla loro qualità e a consentire un consumo idrico sostenibile.
Il comma 4 dell'articolo 95 prevede che, salvo per quanto previsto dal comma successivo, tutte le derivazioni di acqua comunque in atto alla data di entrata in vigore della parte terza del decreto legislativo in esame siano regolate dall’Autorità concedente mediante la previsione di rilasci volti a garantire il minimo deflusso vitale nei corpi idrici, "come definito secondo i criteri adottati dal Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio con apposito decreto, previa intesa con la Conferenza Stato-Regioni", senza che ciò possa dar luogo alla corresponsione di indennizzi da parte della pubblica amministrazione, fatta salva la relativa riduzione del canone demaniale di concessione.
Il comma 5 del citato art. 22 del decreto legislativo n. 152 dispone in modo sostanzialmente simile (anche se con alcune differenze formali). Infatti, secondo l’attuale disciplina, la regolazione da parte dell'autorità concedente si svolga in base all'art. 3, comma 1, lettera i), della legge 18 maggio 1989, n. 183 e all'art. 3, comma 3, della legge 5 gennaio 1994, n. 36. La prima disposizione richiamata prevede che le attività di programmazione, di pianificazione e di attuazione degli interventi destinati a realizzare le finalità della legge curano, tra l'altro, "la razionale utilizzazione delle risorse idriche superficiali e profonde, con una efficiente rete idraulica, irrigua ed idrica, garantendo, comunque, che l'insieme delle derivazioni non pregiudichi il minimo deflusso costante vitale negli alvei sottesi nonché la polizia delle acque". L'art. 3, comma 3, della legge n. 36 prevede che, nell'ambito della definizione del bilancio idrico da parte delle Autorità di bacino, "nei bacini idrografici caratterizzati da consistenti prelievi o da trasferimenti, sia a valle che oltre la linea di displuvio, le derivazioni sono regolate in modo da garantire il livello di deflusso necessario alla vita negli alvei sottesi e tale da non danneggiare gli equilibri degli ecosistemi interessati".
Diversamente da quanto disposto dalla normativa in vigore (art. 22, co. 6, del D.lgs. n. 152) il comma 5 dell'articolo in esame prevede che il censimento - effettuato dalle autorità concedenti per le finalità indicate dall'articolo stesso - di tutte le utilizzazioni in atto nel medesimo corpo idrico debba essere fatto sulla base dei criteri adottati con decreto dal Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio, previa intesa con la Conferenza permanente. Rimane salva la possibilità per le suddette autorità di provvedere in un secondo momento, se necessario, alla revisione di tale censimento.
L'articolo 96 modifica alcuni articoli del Regio Decreto 11 dicembre 1933, n. 1775, recante "Testo unico delle disposizioni di legge sulle acque e impianti elettrici".
In particolare:
· il comma 1 modifica il comma 2 dell'art. 7, relativo alle domande per nuove concessioni e utilizzazioni. Il termine dalla data della ricezione delle domande entro il quale le Autorità di bacino devono comunicare il proprio parere all'ufficio istruttore diventa un termine perentorio; viene altresì differenziato il termine per gli adempimenti procedurali a seconda che si tratti di piccole (quaranta giorni) o grandi derivazioni (novanta). Inoltre, mentre la norma attualmente in vigore prevede che, decorso il termine, il parere si debba intendere espresso in senso favorevole, la modifica introdotta dal comma in esame prevede che in tal caso sia nominato dal Ministro dell'ambiente un commissario "ad acta", che provvede entro gli stessi termini decorrenti dalla data della sua nomina;
· Il comma 2 sostituisce i commi 1 e 1-bis dell'art. 9, introducendo anche il nuovo comma 1-ter; il primo riguarda i criteri in base ai quali deve essere valutata la "più razionale utilizzazione delle risorse idriche" delle domande eventualmente concorrenti, ai fini della loro selezione. In particolare viene modificato, anche se solo in piccola parte, il criterio dettato dalla lettera a), là dove attualmente dispone che "l'attuale livello di soddisfacimento delle esigenze essenziali dei concorrenti anche da parte dei servizi pubblici di acquedotto o di irrigazione, evitando ogni spreco e destinando preferenzialmente le risorse qualificate all'uso potabile". La modifica introdotta elimina l'espressione "evitando ogni spreco", e sostituisce le parole "destinando preferenzialmente le" con l'espressione "la destinazione prioritaria delle". Il comma 1-bis prevede che in caso di più domande concorrenti per usi industriali (espressione che si intende sostituire con la più ampia "usi produttivi") è preferita quella del richiedente che aderisce al sistema ISO 14001 ovvero al sistema di cui al regolamento CEE n. 1836/93 del Consiglio del 29 giugno 1993 sull'adesione volontaria delle imprese del settore industriale a un sistema comunitario di ecogestione e audit. Viene altresì modificato il riferimento alla normativa comunitaria, che diventa il Regolamento CEE n. 761/2001 del 19 marzo 2001 sull'adesione volontaria delle organizzazioni a un sistema comunitario di ecogestione e audit (EMAS), regolamento che ha sostituito quello del 1993, ora abrogato.
Il nuovo comma 1-ter dell'art. 9 dispone che per lo stesso tipo di uso si deve dare la preferenza alla domanda che garantisce che i minori prelievi richiesti siano integrati dai volumi idrici derivati da attività di recupero e di riciclo.
· Il comma 3 sostituisce l'art. 12-bis, che definisce alcune condizioni per il l'adozione del provvedimento di concessione delle utenze, prevedendo alcune integrazioni a quelle già contemplate, che vengono mantenute sostanzialmente inalterate. Nella modifica che si introduce si richiama espressamente la condizione che il provvedimento suddetto garantisca l'equilibrio del bilancio idrico; inoltre si stabilisce che i volumi di acqua concessi siano commisurati alla possibilità di risparmio, riutilizzo o riciclo delle risorse: in tal caso il disciplinare deve fissare, se tecnicamente possibile, la quantità e le caratteristiche qualitative dell'acqua in tal modo restituita.
· Il comma 4 sostituisce l'art. 17, che vieta di utilizzare o derivare acqua pubblica senza un'autorizzazione o una concessione dell'autorità competente, con alcune eccezioni, che sono confermate anche dal nuovo disposto dell'articolo modificato, pur con una diversa formulazione. Viene modificato l'importo della contravvenzione prevista per la violazione del divieto, che si prevede sia da un minimo di 3 mila euro a un massimo di 30 mila, rispetto ad un minimo di cinque milioni e un massimo di cinquanta milioni di lire stabiliti dalla norma vigente. Viene analogamente modificata, seppure di poco, la sanzione per violazioni di lieve entità, che passa da un minimo di 150 mila lire a 300 euro e da un massimo di 3 milioni di lire a 1.500 euro.
· Il comma 5 tiene ferma l'abrogazione dell'art. 54 del Regio Decreto n. 1775, già abrogato dal D.lgs. n. 152 del 1999, che prevedeva il provvedimento di diffida ad eseguire le riparazioni necessarie all'utente che avesse esercitato deviazioni abusivamente o in contravvenzione dello stesso Regio Decreto.
Il comma 6 dispone l'ammissione della presentazione della domanda di concessione in sanatoria entro il 30 giugno 2006 per le derivazioni o utilizzazioni di acqua pubblica in tutto o in parte in atto abusivamente, previo pagamento della sanzione prevista dal comma 3 dell'art. 17 del RD (come si intende novellare) aumentata di un quinto. Il D.lgs. n. 152 del 1999 prevede attualmente, in caso di domanda di sanatoria, che la suddetta sanzione sia ridotta di un quinto. Il comma in esame prevede che, dopo tale data, verrà applicata la sanzione di cui al citato art. 17. Si dispone inoltre che la concessione in sanatoria deve essere rilasciata nel rispetto della legislazione in vigore e delle utenze regolarmente concesse. Nelle more dell'istruttoria l'utilizzazione può proseguire dietro pagamento del canone e fatto salvo il potere dell'autorità concedente di sospenderla se in contrasto con i diritti di terzi o con il raggiungimento o mantenimento degli obiettivi di qualità e di equilibrio del bilancio idrico.
Deve essere attentamente valutata la compatibilità comunitaria dell'articolo 96, comma 6, nella parte in cui sembra escludere che in relazione alla domanda di concessione in sanatoria possano essere presentate domande concorrenti da parte di eventuali terzi interessati. Si evidenzia al riguardo che sia l’art. 9 del testo vigente del R.D. 11 dicembre 1993, n. 1775, che l’articolo 9 come modificato dallo schema di decreto in esame postulano l’effettuazione di una selezione delle migliori proposte, basata su criteri predeterminati.
Si ricorda che le concessioni ricadono nel campo di applicazione degli articoli da 28 a 30, da 43 a 55 del Trattato CE e dei principi sanciti dalla giurisprudenza della Corte di giustizia. Si tratta, in particolare, dei principi di non discriminazione, di parità di trattamento, di trasparenza, di mutuo riconoscimento e proporzionalità. Pertanto, come ricordato dalla Circolare 1° marzo 2002, n. 3944, della Presidenza del Consiglio dei ministri - Dipartimento per le politiche comunitarie, nel sistema comunitario il ricorso alla scelta diretta del concessionario costituisce evenienza eccezionale, giustificabile solo in caso di specifiche ragioni tecniche ed economiche che rendano impossibile in termini di razionalità l’individuazione di un soggetto diverso da quello prescelto.
Il comma 7 dispone una proroga del termine entro il quale far valere, a pena di decadenza, il diritto al riconoscimento o alla concessione di acque che hanno assunto natura pubblica a norma della legge n. 36 del 5 gennaio 1994, oltre che per la presentazione delle denunce dei pozzi in base all'art. 10 del D.lgs. 1 luglio 1993, n. 275 ("Riordino in materia di concessione di acque pubbliche"). La legge n. 36 (art. 34) fissava a tre anni dalla sua entrata in vigore tale termine, che era stato poi prorogato dalla legge n. 136 del 1999. La disposizione recata dal comma in esame fissa il nuovo termine al 30 giugno 2006, facendo decorrere in tali casi i canoni demaniali dal 10 agosto 1999.
Il comma 8 sostituisce il comma 1 dell'art. 21 del citato R.D. n. 1775 del 1933, che rimane in realtà sostanzialmente invariato, tranne che per l'inserimento della piscicoltura, accanto all'uso irriguo, tra le attività relativamente alle quali la durata delle concessioni non può eccedere i 40 anni (contro i 30 anni normalmente previsti).
L’articolo 96, comma 8, dello schema di decreto, nel sostituire il primo comma dell’articolo 21 del R.D. 11 dicembre 1993, n. 1775, lascia ferma la disciplina di cui all’articolo 12, commi 6, 7 e 8 del decreto legislativo 16 marzo 1999, n. 79. Si ricorda al riguardo che la Commissione europea ha avviato due procedure di infrazione ex articolo 226 del Trattato CE (n. 1999/4902 e n. 2002/2282) riguardo alle regole di attribuzione delle concessioni idroelettriche in Italia. E ciò in relazione sia all’articolo 1-bis del D.P.R. n. 235/1977 (Norme di attuazione dello statuto speciale della regione Trentino-Alto Adige in materia di energia), che prevede la preferenza, oltre che in favore del concessionario uscente, anche a favore degli enti strumentali della provincia nonché delle aziende degli enti locali, sia soprattutto in relazione all’articolo 12 del D. Lgs. n. 79/1999 (in particolare anche con riferimento ai commi 6 e 7) che, a parità di condizioni tra richiedenti, stabilisce la preferenza del concessionario uscente.
Il comma 9 inserisce il nuovo comma 3-bis all'art. 21 del suddetto Regio Decreto del 1933, il quale dispone che le concessioni di derivazioni per uso irriguo debbano tener conto delle tipologie delle colture in funzione della disponibilità della risorsa idrica, della quantità minima necessaria alla coltura stessa, prevedendo se necessario specifiche modalità di irrigazione; inoltre si stabilisce che tali concessioni siano assentite o rinnovate solo se non si possa soddisfare la domanda d'acqua attraverso le strutture consortili già operanti sul territorio.
Il comma 10 riprende integralmente quanto disposto dall'art. 23, comma 9-bis, del D.lgs. n. 152/1999.
Il comma 11 riprende nella sostanza quanto disposto dall'art. 23, comma 9-ter, del D.lgs. n. 152/1999 - pur non facendo espresso riferimento né alle norme vigenti contenenti le direttive né alla data della loro emanazione - sulla gestione del demanio idrico, cui devono attenersi le Regioni nel procedimento di rilascio delle concessioni di derivazione di acque pubbliche. Il vigente comma 9-ter, invece, fa riferimento alle "direttive sulla gestione del demanio idrico emanate, entro il 30 settembre 2000, ai sensi dell'articolo 88, comma 1, lettera p), del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112, su proposta del Ministro dei lavori pubblici".
L'articolo 97 riproduce integralmente il disposto dell'art. 24 del D. lgs. n. 152 del 1999 in materia di acque minerali naturali e di sorgenti.
L'articolo 98 corrisponde ai commi 1 e 5 dell'art. 25 D. lgs. n. 152 del 1999 in materia di risparmio idrico.
L'articolo 99, comma 1, riformula in parte l'art. 6, co. 1, della legge n. 36 del 1994 riguardante il riutilizzo dell' acqua, attribuendo ad un decreto del Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio, sentiti i Ministri delle politiche agricole e forestali, della salute e delle attività produttive, il potere di emanare norme tecniche in materia, mentre la norma vigente prevede che il decreto del Ministro dell'ambiente debba emanarsi "di concerto con il Ministro per le politiche agricole, della sanità, dell'industria, del commercio e dell'artigianato, dei lavori pubblici e d'intesa con la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano"[57].
Il comma 2 attribuisce alle Regioni il compito di adottare norme e misure atte a favorire il riciclo dell'acqua e il riutilizzo delle acque reflue depurate, nel rispetto dei principi dettati dalle leggi dello Stato e sentita l'Autorità di vigilanza sulle risorse idriche e sui rifiuti, condizioni queste ultime non previste dalla normativa di cui al citato art. 6, co. 5, della legge n. 36.
Il Capo III disciplina la tutela qualitativa della risorsa, e in particolare gli scarichi.
L'articolo 100 riguarda le reti fognarie, attualmente disciplinate dall'art. 27 del D. lgs. n. 152 del 1999, che viene nella sostanza quasi integralmente riprodotto, fatte salve alcune disposizioni .
Il comma 1 dell'articolo in esame stabilisce che tutti gli agglomerati con un numero di abitanti pari o superiore a 2 mila devono avere reti fognarie per le acque reflue urbane. Il corrispondente comma del citato art. 27 del D.lgs. n. 152 stabilisce tale obbligo con diverse date di scadenza a seconda del numero di abitanti (entro il 31 dicembre 2000 per quelli con un numero di abitanti equivalenti superiore a 15.000, ed entro il 31 dicembre 2005 per quelli con un numero di abitanti equivalenti compreso tra 2.000 e 15.000).
In relazione alle acque reflue urbane, si ricorda che l’8 luglio 2004 la Commissione europea ha inviato all’Italia una lettera di messa in mora (procedura n. 2004/2034) per mancanza di un adeguato trattamento di dette acque in molte città con più di 15 mila abitanti, come previsto dalla direttiva 91/271/CEE. Per le città di queste dimensioni, la direttiva in questione fissava al 31 dicembre 2000 il termine ultimo per realizzare il cosiddetto trattamento secondario, consistente nel trattamento effettuato tramite processi che generalmente comportano il trattamento biologico con sedimentazioni secondarie, ovvero tramite altri processi in cui vengano rispettati i requisiti stabiliti nell’allegato. A tale proposito, si ricorda anche che la Corte di giustizia, il 25 aprile 2002, ha emesso una sentenza di condanna per inadempimento dell’Italia agli obblighi derivanti dalla stessa direttiva sulle acque reflue urbane, 91/271/CEE, relativamente alla città di Milano. Per completezza, giova anche ricordare la relazione della Commissione europea sull’applicazione della direttiva 91/271/CEE (COM(2004)248) con cui si esaminano le situazioni di alcune città.
Il comma 2 corrisponde al comma 3 del citato art. 27, e riguarda la progettazione, costruzione e manutenzione delle reti fognarie, che devono essere fatte tenendo conto di alcuni parametri, che rimangono nella sostanza invariati, tranne per l'inserimento del parametro della "portata media" delle acque reflue urbane, non previsto nella norma vigente.
Il comma 3 corrisponde al comma 4 dell'art. 27 del D.lgs. n. 152, che assegna alle Regioni il compito di individuare sistemi adeguati per la protezione ambientale relativa agli insediamenti isolati che producono[58] acque reflue domestiche, che devono indicare i tempi di adeguamento degli scarichi a detti sistemi. La normativa vigente invece fa espresso riferimento, per l'adozione dei suddetti sistemi, ai criteri di cui alla delibera del Comitato interministeriale per la tutela delle acque del 4 febbraio 1977[59] e successive modifiche ed integrazioni.
L'articolo 101 contiene i criteri generali della disciplina degli scarichi e corrispondente all'art. 28 del D.lgs. n. 152/1999. Poche le modifiche introdotte:
- il comma 3 prevede che il campionamento per il controllo degli scarichi vada effettuato, oltre che nelle acque superficiali e sotterranee, interne e esterne, nelle fognature, sul suolo e nel sottosuolo, anche in tutti gli impluvi naturali;
- il comma 7, lettera b), assimila alle acque reflue domestiche le acque reflue provenienti da imprese dedite ad allevamento di bestiame che, per quanto riguarda gli effluenti di allevamento, praticano l'utilizzazione agronomica in conformità alla disciplina regionale stabilita sulla base dei criteri e delle norme tecniche generali di cui all'articolo 112, comma 2, del presente decreto[60];
- il comma 7, lettera f), introduce una disposizione nuova, inserendo nell'elenco delle acque reflue assimilate a quelle reflue domestiche ai fini della disciplina in materia di scarichi ed autorizzazioni anche quelle provenienti da attività termali, fatte salve le discipline di settore;
- il comma 8 aggiunge tra i destinatari delle informazioni sulla funzionalità dei depuratori e sullo smaltimento dei relativi fanghi, oltre all'Agenzia per la protezione dell'ambiente e per i servizi tecnici (APAT), il Ministero dell'ambiente e l'Autorità di vigilanza sulle risorse idriche e sui rifiuti;
- il comma 9 specifica che la relazione sull'attività di smaltimento delle acque reflue urbane che le Regioni devono redigere ogni due anni debba essere pubblicata sui rispettivi Bollettini Ufficiali e sui siti internet istituzionali.
L'articolo 102 disciplina gli scarichi di acque termali, stabilendo al comma 1 che per le acque termali che presentano all’origine parametri chimici con valori superiori a quelli limite di emissione, è ammessa la deroga ai valori stessi a condizione che le acque siano restituite con caratteristiche qualitative non superiori rispetto a quelle prelevate ovvero che le stesse, nell’ambito massimo del 10%, rispettino i parametri batteriologici e non siano presenti le sostanze pericolose di cui alle Tabelle 3/A e 5 dell’Allegato 5 alla parte terza del presente decreto.
Ai sensi del comma 2, gli scarichi termali sono ammessi, fatta salva la disciplina delle autorizzazioni adottata dalle Regioni ai sensi dell’articolo 124, comma 5:
a) in corpi idrici superficiali, purché la loro immissione nel corpo ricettore non comprometta gli usi delle risorse idriche e non causi danni alla salute ed all’ambiente:
b) sul suolo o negli strati superficiali del sottosuolo, previa verifica delle situazioni geologiche;
c) in reti fognarie, purché vengano osservati i regolamenti emanati dal gestore del Servizio Idrico Integrato e vengano autorizzati dalle Autorità di Ambito;
d) in reti fognarie di tipo separato previste per le acque meteoriche.
L' articolo 103 disciplina gli scarichi sul suolo, attualmente regolamentati dall'art. 29 del D.lgs. n. 152 del 1999, di cui riporta quasi integralmente il contenuto, fatta eccezione per alcune disposizioni che fanno riferimento a scadenze temporali oramai superate.
L'articolo 104 riguarda gli scarichi nel sottosuolo e nelle acque sotterranee e corrisponde all'art. 30 del D.lgs. n. 152/1999, rispetto al quale si introducono ampie modifiche.
Il comma 3 riguarda l'autorizzazione allo scarico di acque risultanti dall'estrazione di idrocarburi nelle unità geologiche profonde da cui gli stessi idrocarburi sono stati estratti, ovvero in unità dotate delle stesse caratteristiche, che contengano o abbiano contenuto idrocarburi, in deroga a quanto previsto dal comma 1 dell'articolo in esame. La disposizione che si intende introdurre prevede che tale autorizzazione venga data dal Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio, d’intesa con il Ministro delle attività produttive per i giacimenti a mare ed anche con le Regioni per i giacimenti a terra, mentre il comma 3 del vigente art. 30 attribuisce questo potere al Ministero dell'ambiente per i giacimenti a mare e - direttamente e non d'intesa - alle Regioni per i giacimenti a terra.
L'articolo in esame introduce disposizioni totalmente nuove con il comma 4, che prevede un'altra deroga al divieto generale di scarico diretto nelle acque sotterranee e nel sottosuolo previstodal comma 1. Esso prevede che l’autoritàcompetente, dopo indagine preventiva anche finalizzata alla verifica dell’assenza di sostanze estranee, può autorizzare gli scarichi nella stessa falda delle acque utilizzate per il lavaggio e la lavorazione degli inerti, purché i relativi fanghi siano costituiti esclusivamente da acqua ed inerti naturali ed il loro scarico non comporti danneggiamento alla falda acquifera. A tal fine, l’Agenzia Regionale per la Protezione dell’Ambiente competente per territorio, a spese del soggetto richiedente l’autorizzazione, accerta le caratteristiche quantitative e qualitative dei fanghi e l’assenza di possibili danni per la falda, esprimendosi con parere vincolante sulla richiesta di autorizzazione allo scarico.
Il comma 5 ripropone il comma 4 dell'art. 30 del D. lgs. n. 152, il quale però, a differenza della disposizione che si intende introdurre, che fa generico riferimento alle "modalità previste dal Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio con proprio decreto", prevede espressamente che, per le perforazioni in mare con le quali è svolta attività di prospezione, ricerca e coltivazione di giacimenti di idrocarburi liquidi o gassosi, lo scarico delle acque diretto in mare avvenga secondo le modalità previste dal decreto 28 luglio 1994 del Ministro dell'ambiente[61].
Il comma 6 introduce una nuova disposizione in base alla quale il Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio, in sede di autorizzazione allo scarico in unità geologiche profonde, di cui al precedente comma 3, autorizza anche lo scarico diretto a mare, secondo le modalità previste dal precedente comma 5 e dal successivo comma 7, per i seguenti casi:
a) per la frazione di acqua eccedente, qualora la capacità del pozzo iniettore o reiniettore non sia sufficiente a garantire la ricezione di tutta l’acqua risultante dall’estrazione di idrocarburi;
b) per il tempo necessario allo svolgimento della manutenzione, ordinaria e straordinaria, volta a garantire la corretta funzionalità e sicurezza del sistema costituito dal pozzo e dall’impianto di iniezione o di reiniezione.
Il comma 7, corrispondente al comma 5 dell'art. 30 del D.lgs. n. 152, ne riproduce sostanzialmente il contenuto.
Il comma 8 prevede l'obbligo di convogliare gli scarichi nel sottosuolo e nelle acque sotterranee in corpi idrici superficiali o destinati se possibile al riciclo o alla riutilizzazione agronomica, al di fuori dei casi previsti dai commi 2, 3, 5 e 7, eliminando i riferimenti alle scadenze temporali del suddetto adempimento, contenuti nel corrispondente comma 6 del citato art. 30 del D.lgs. n. 152 .
L'articolo 105 disciplina gli scarichi in acque superficiali e corrisponde all'art. 31 del D.lgs. n. 152 del 1999, riproducendone quasi integralmente il contenuto. Le poche differenze sono individuate:
- nel comma 2, là dove viene eliminato il riferimento alla data del 31 dicembre 2005 quale termine finale entro il quale determinati scarichi di acque reflue urbane che confluiscono nelle reti fognarie, recapitanti in acque marino-costiere, devono essere sottoposti ad un trattamento appropriato;
- nel comma 3, che ripropone il dispositivo del comma 3 dell'art. 31, ma nel quale viene eliminato il riferimento alle cadenze temporali in esso presenti, differenziate a seconda del numero degli abitanti degli agglomerati;
-nel comma 6, sostanzialmente identico, tranne per l'indicazione di "appositi" studi - anziché "dettagliati", come indicato nel comma 6 dell'art. 31 - che devono comprovare che gli scarichi di acque reflue urbane in acque situate in zone di alta montagna, con determinate caratteristiche ivi specificate, non avranno ripercussioni negative sull'ambiente.
L'articolo 106 disciplina gli scarichi di acque reflue urbane in corpi idrici ricadenti in aree sensibili, e corrisponde all'art. 32 del D.lgs. n. 152 del 1999, di cui riproduce sostanzialmente il contenuto.
L'articolo 107 disciplina gli scarichi in reti fognarie, innovando in parte alla normativa in materia contenuta nell'art. 33 del D.lgs. n. 152. Il comma 1 infatti affida esclusivamente all'Autorità d'ambito competente il compito di adottare le norme tecniche, le prescrizioni regolamentari e i valori- limite, cui sono sottoposti gli scarichi di acque reflue industriali che recapitano in reti fognarie; la norma vigente prevede che tali norme siano adottate dal gestore del servizio idrico integrato e approvate dall'amministrazione pubblica responsabile. Inoltre tale regolamentazione deve avvenire non solo, come attualmente previsto, in modo da assicurare il rispetto della disciplina degli scarichi di acque reflue urbane definite ai sensi dell'art. 101, ma in modo da assicurare altresì "la tutela del corpo idrico ricettore".
Il comma 2 innova alla normativa vigente nel senso di prevedere che i regolamenti emanati dal soggetto gestore del servizio idrico integrato - che devono essere osservati in relazione agli scarichi di acque reflue domestiche che recapitano in reti fognarie - devono essere approvati dall'Autorità d'ambito competente.
Il comma 3 modifica la normativa vigente attribuendo al gestore del servizio idrico integrato la responsabilità del corretto funzionamento del sistema di smaltimento dei rifiuti organici provenienti dagli scarti dell'alimentazione, opportunamente trattati.
Il comma 4 riproduce quasi integralmente l'art. 8 della legge 5 gennaio 1994, n. 36, che prevede la possibilità per le regioni, sentite le province, di stabilire norme integrative per il controllo degli scarichi degli insediamenti civili e produttivi allacciati alle pubbliche fognature, per la funzionalità degli impianti di pretrattamento e per il rispetto dei limiti e delle prescrizioni previsti dalle relative autorizzazioni. La norma vigente si discosta dal testo in esame in quanto quest'ultima non include, tra le province sentite, anche quelle autonome di Trento e Bolzano.
L'articolo 108 riguarda gli scarichi di sostanze pericolose, disciplinati dall'art. 34 del D.lgs. n. 152 del 1999, che viene parzialmente innovato in alcune disposizioni, di seguito indicate.
Il comma 1 stabilisce che le disposizioni relative agli scarichi di sostanze pericolose si applicano agli stabilimenti nei quali si svolgono attività che comportano la produzione, la trasformazione o l'utilizzazione delle sostanze di cui alle tabelle 3/A e 5 dell'allegato 5 e nei cui scarichi sia accertata la presenza di tali sostanze in quantità o concentrazioni superiori ai limiti di rilevabilità consentiti dalle metodiche di rilevamento in essere all'entrata in vigore della parte terza del presente decreto, o, successivamente, superiori ai limiti di rilevabilità consentiti dagli aggiornamenti a tali metodiche messi a punto ai sensi del punto 4 dell'allegato 5.[62]
Il comma 2 prevede che l'Autorità competente possa fissare, in sede di rilascio dell'autorizzazione, valori-limite di emissione più restrittivi di quelli fissati ai sensi dell'art. 101, commi 1 e 2, nei casi in cui risulti accertato che i valori limite definiti da tali norme impediscano o pregiudichino il conseguimento degli obiettivi di qualità previsti nel piano di tutela di cui all'art. 121. La norma vigente è differente, prevedendo questa possibilità da parte dell'Autorità competente "in caso di particolari situazioni di accertato pericolo".
Il comma 3 introduce nuove disposizioni, stabilendo che, per l'attuazione di quanto disposto dal comma 1 dell'art. 107 e del comma 2 dell'articolo in esame, entro il 30 ottobre 2007 devono essere attuate le prescrizioni relative agli scarichi delle imprese assoggettate al D.lgs. 18 febbraio 2005, n. 59, recante "Attuazione integrale della direttiva 96/61/CE relativa alla prevenzione e riduzione integrate dell'inquinamento". Il comma in esame riprende parte dell'art. 7 (Condizioni dell'autorizzazione integrata ambientale)del citato decreto legislativo, stabilendo che le suddette prescrizioni concernenti valori limite di emissione, parametri e misure tecniche si basano sulle migliori tecniche disponibili, senza obbligo di utilizzare una tecnica o una tecnologia specifica, tenendo conto delle caratteristiche tecniche dell’impianto in questione, della sua ubicazione geografica e delle condizioni locali dell’ambiente.
Il comma 4, corrisponde alcomma 3 dell'art. 34 del D.lgs. n. 152, ma una nuova precisazione: gli scarichi contenenti le sostanze pericolose sono assoggettati alle prescrizioni di cui al punto 1.2.3 dell'allegato 5.une finale che d
Il comma 5 corrisponde al comma 4 dell'art. 34 del D.lgs. n. 152, da cui si differenzia per aspetti non rilevanti, in quanto prevede espressamente che per le acque reflue industriali contenenti le sostanze della Tabella 5 dell’Allegato 5 alla parte terza dello schema di decreto legislativo in esame, il punto di misurazione dello scarico sia fissato secondo quanto previsto dall’autorizzazione integrata ambientale di cui al D. lgs. n. 59/2005 (IPPC) e, nel caso di attività non rientranti nel campo di applicazione del decreto legislativo 18 febbraio 2005, n. 59, subito dopo l’uscita dallo stabilimento o dall’impianto di trattamento che serve lo stabilimento medesimo (come disposto dalle norme vigenti. Il comma in esame dispone, riprendendo la disposizione vigente, che l’Autorità competente può richiedere che gli scarichi parziali contenenti le sostanze della tabella 5 del medesimo Allegato 5 siano tenuti separati dallo scarico generale e disciplinati come rifiuti. Un’ultima modifica rispetto al testo vigente in materia riguarda l'ipotesi dell'impianto di trattamento di acque reflue industriali che tratta le sostanze pericolose, di cui alla Tabella 5 dell'Allegato 5, che riceva "acque reflue contenenti sostanze pericolose non sensibili al tipo di trattamento adottato", intendendo sostituire con quest'espressione quella vigente "acque reflue urbane, contenenti sostanze diverse non utili ad una modifica o riduzione delle sostanze pericolose".
Il comma in esame prevede inoltre che, in sede di autorizzazione, l’Autorità competente dovrà ridurre opportunamente i valori limite di emissione indicati nella Tabella 3 del medesimo Allegato 5 per ciascuna delle predette sostanze pericolose indicate in Tabella 5, tenendo conto della diluizione operata dalla miscelazione delle diverse acque reflue. Tale ipotesi è attualmente contemplata dal comma 4 dell'art. 34 del D. lgs. n. 152, ma solo nel caso previsto dall'art. 45, comma 2, secondo periodo, ovvero "ove tra più stabilimenti sia costituito un consorzio per l'effettuazione in comune dello scarico delle acque reflue provenienti dalle attività dei consorziati".
Il presente Capo IV riproduce per gran parte le disposizioni attualmente contenute nel Capo IV, artt. 35-41, del D.lgs. 11 maggio 1999, n. 152.
L'articolo 109 specifica quei materiali di cui è consentita l'immissione in ambiente marino, in particolare materiali di escavo dei fondali, materiali di cui sia dimostrata l'innocuità ambientale e materiale di origine marina prodotto durante l'attività di pesca. L'immissione di tali materiali è comunque soggetta ad autorizzazione dell'autorità competente (fatta eccezione per il materiale di origine marina prodotto durante l'attività di pesca) e l'autorizzazione può essere rilasciata solo quando è dimostrata l'impossibilità tecnica o economica del loro utilizzo a fini di rinascimento o di recupero ovvero lo smaltimento alternativo in conformità alle modalità che saranno stabilite con decreto del Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio.
Rispetto alla formulazione dell'art 35 del D.lgs.. n. 152 sono da segnalare solamente differenze di carattere formale. Viene fissato però un nuovo termine per l'emanazione del decreto del Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio, di concerto con i Ministri delle attività produttive e delle infrastrutture e trasporti, sulle modalità tecniche relative alla movimentazione dei fondali marini derivante dall'attività di posa in mare di cavi e condotte. Tale termine è fissato a centoventi giorni dall'entrata in vigore della parte terza del presente decreto.
L'articolo 110 vieta l'utilizzo degli impianti di trattamento di acque reflue urbane per lo smaltimento dei rifiuti in analogia all'articolo 36 del D. lgs. n. 152. In deroga a questa norma di carattere generale viene stabilito che: 1) l'Autorità di ambito può autorizzare il gestore del servizio idrico a smaltire rifiuti liquidi nell'impianto di trattamento di acque reflue urbane limitatamente alle tipologie compatibili con il processo di depurazione; 2) il gestore del servizio idrico integrato è comunque autorizzato ad accettare in impianti adeguati taluni tipi di rifiuti e materiali purché provenienti dal proprio ATO o, come stabilisce l'articolo 110 differentemente dal suo omologo nel decreto n. 152, da altro ATO sprovvisto di adeguati impianti. Allo smaltimento di cui ai punti 1) e 2) si applica <<l'apposita tariffa determinata dall'Autorità di ambito>>. A tale proposito si segnala che l'art. 36 del D. lgs. n. 152 si riferisce puntualmente alla tariffa prevista per il servizio di depurazione di cui all'articolo 14 della legge 5 gennaio 1994, n. 36 (c.d. "Legge Galli").
L'articolo 111 stabilisce che i criteri relativi al contenimento dell’impatto sull’ambiente derivante dalle attività di acquacoltura e di piscicoltura siano fissati con decreto ministeriale in analogia con la corrispondente norma del D. Lgs. 152.
L'articolo 112 stabilisce che l'utilizzo agronomico degli effluenti di allevamento e delle acque di vegetazione dei frantoi deve essere comunque comunicato all'Autorità competente ai sensi dell'art. 75 del presente decreto. Tra gli effluenti si comprendono i liquami e altri materiali ad essi assimilati (ad es. acque lavaggio strutture), e i letami e altri materiali ad essi assimilati (ad es. polline disidratato). L'utilizzazione agronomica consiste nello spandimento sul suolo agricolo degli effluenti di allevamento, nonché delle acque reflue provenienti dalle aziende di cui all'art. 28, comma 7, lett. a) b) c), del D. lgs. 152/99, e da piccole aziende agroalimentari ad esse assimilate. Tale attività é disciplinata dalla Regioni, ai sensi del comma 2 (corrispondente all'art.38, comma 2, del D. lgs. 152/99), sulla base dei criteri e delle norme tecniche generali adottati con decreto del Ministro per le politiche agricole e forestali di concerto con i Ministri dell'ambiente, dell'industria, del commercio e dell'artigianato, della sanità e dei lavori pubblici Rimane ferma la disciplina recata dall'articolo 92 per le zone vulnerabili e dal D.lgs. n. 59 del 2005 per i seguenti impianti di allevamento intensivo di pollame o di suini con più di: a) 40.000 posti pollame; b) 2.000 posti suini da produzione (di oltre 30 kg), o c) 750 posti scrofe. A tale proposito si segnala che, rispetto alla formulazione dell'articolo 38, nel comma 1 è stato inserito un nuovo riferimento normativo in quanto il decreto n. 59 ha abrogato, sostituendolo, il decreto legislativo 4 agosto 1999, n. 372 citato dall'art. 38 del D.lgs. n. 152 del 1999.
Il comma 3, che riprende testualmente l'art. 38, comma 3, del D. lgs. n. 152, specifica che la disciplina dettata dalle Regioni dovrà stabilire le modalità di attuazione delle legge 11 novembre 1996, n. 574, recante "Nuove norme in materia di utilizzazione agronomica delle acque di vegetazione e di scarichi dei frantoi oleari". Inoltre tale disciplina deve specificare le modalità di effettuazione della comunicazione all'Autorità competente, le modalità tecniche dell'utilizzo agronomico, i criteri e le procedure di controllo, le sanzioni amministrative pecuniarie.
L'articolo 113, comma 1 attribuisce alle Regioni la disciplina e l'attuazione del controllo degli scarichi di acque meteoriche di dilavamento provenienti da reti fognarie separate. Le regioni devono inoltre disciplinare i casi in cui può essere richiesto che le immissioni delle acque meteoriche di dilavamento, effettuate tramite altre condotte separate, siano sottoposte a particolari prescrizioni, ivi compresa l'eventuale autorizzazione. Occorre segnalare che nel presente decreto viene richiesto il parere del Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio, non previsto dall'articolo 39, comma 1, del D. lgs. n. 152 del 1999.
Ai sensi del comma 3 le Regioni sono anche chiamate a disciplinare i casi in cui le acque di prima pioggia e di lavaggio di aree esterne siano convogliate in impianti di depurazione. Il comma 4 conferma il divieto di scarico o l'immissione diretta di acque meteoriche nelle acque sotterranee.
Ai sensi dell'articolo 114, comma 1, relativo alle dighe, le Regioni sono chiamate a disciplinare la materia della restituzione delle acque utilizzate per la produzione idroelettrica, per l'irrigazione, la potabilizzazione, i sondaggi e le perforazioni diversi da quelli relativi alla ricerca ed estrazione di irdocarburi. Come nell'articolo precedente viene richiesto il parere del Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio, non previsto dall'articolo 40, comma 1, del D. lgs. n. 152 del 1999.
Il comma 2 prescrive che le operazioni di svaso, sghiaiamento e sfangamento siano effettuate in base ad un progetto di gestione di ciascun impianto (rectius, secondo la terminologia usata dal presente decreto rispetto alla norma che lo precede, di ciascun "invaso"). Tali operazioni consistono nella prevenzione dell'interrimento, che diminuisce la quantità d'acqua utilizzabile, provocato dai materiali più o meno fini trasportati dai corsi d'acqua.
I progetti di gestione (comma 4) sono predisposti dai gestori degli impianti sulla base di criteri fissati con decreto del Ministro delle infrastrutture e dei trasporti e dell’ambiente e della tutela del territorio di concerto con il Ministro delle attività produttive e con quello delle politiche agricole e forestali, previa intesa con la Conferenza Stato-Regioni. Rispetto alla formulazione del decreto n. 152, manca il riferimento al Ministro delegato alla protezione civile per l'emanazione del decreto. Cambia anche il termine ultimo di emanazione del decreto che passa a centoventi giorni dall'entrata in vigore della parte terza del presente decreto.
Il progetto di gestione, approvato dalle Regione, viene inviato al RID (Registro Italiano Dighe) e diviene parte integrante del "Foglio condizioni". Quest'ultimo, previsto dall'art. 6 del d.P.R. n. 1363 del 1959 ("Approvazione del regolamento per la compilazione dei progetti, la costruzione e l'esercizio delle dighe di ritenuta") prevede diverse norme relative all'esecuzione dell'opera (la deviazione del corso d'acqua, osservazioni e misure da compiere per il controllo del comportamento dello sbarramento ecc.).
L'approvazione del progetto (comma 6) il gestore è autorizzato ad eseguire le operazioni di svaso, sghiaiamento e svasamento. Entro sei mesi dall'emanazione del decreto di cui al comma 4, i gestori degli impianti esistenti sono tenuti a presentare il progetto di gestione per gli impianti esistenti (comma 8).
Le operazioni di svaso, sghiaiamento e sfangamento degli invasi non devono pregiudicare gli usi in atto a valle dell'invaso, né il rispetto degli obiettivi di qualità ambientale e degli obiettivi di qualità per specifica destinazione (comma 9).
L'articolo 115 attribuisce alle Regioni l'emanazione delle disposizioni per la tutela delle aree di pertinenza dei corpi idrici, nella fascia di almeno 10 metri dalla sponda di fiumi, laghi, stagni e lagune. Deve essere comunque vietata la copertura dei corsi d'acqua, salvo sia imposta dalle tutela della pubblica incolumità, e la realizzazione di impianti di smaltimento rifiuti (comma 1). Gli interventi di tutela devono essere comunque autorizzati ai sensi del Testo unico delle disposizioni di legge intorno alle opere idrauliche delle diverse categorie del 1904.
Resta ferma la disciplina dettata dal R.D. n. 523/1904 (T.U. delle opere idrauliche) in merito alle autorizzazioni di opere nei pressi di corpi idrici.
Si ricorda che ai sensi del T:U. delle opere idrauliche l'occupazione delle spiagge dei laghi con opere stabili, gli scavamenti lungo tali spiagge e l'estrazione di ciottoli, ghiaie o sabbie non si possono eseguire se non con speciale permesso del prefetto e sotto l'osservanza delle condizioni dal medesimo imposte (art. 97 T.U.). Non si possono eseguire, se non con speciale autorizzazione del Ministero dei lavori pubblici, e sotto la osservanza delle condizioni dal medesimo imposte, le opere che seguono: le nuove costruzioni nell'alveo dei fiumi, torrenti, rivi, scolatoi pubblici o canali demaniali, di chiuse, ed altra opera stabile per le derivazioni di ponti, ponti canali e botti sotterranee, non che le innovazioni intorno alle opere di questo genere già esistenti (art. 99 lett. d) del T.U.); la costruzione di nuove chiaviche di scolo attraverso gli argini e l'annullamento di quelle esistenti (art. 99 lett. e) del T.U.).
Ai fini della tutela possono essere date in concessione delle aree demaniali oggetto del presente articolo per destinarle a parco o riserva naturale. Se tali aree sono già comprese in aree protette statali o regionali la concessione è gratuita (comma 3). Si conferma poi il principio già affermato dal comma 4 dell’art. 41 del decreto legislativo n. 152, che non possono essere sdemanializzate le aree demaniali formate ai sensi della legge n. 37 del 1994 (recante "Norme per la tutela ambientale delle aree demaniali dei fiumi, dei torrenti, dei laghi e delle altre acque pubbliche").
Si tratta della cd “legge Cutrera”, che, attraverso la modifica degli artt. 942, 946 e 947, ha incluso nel demanio pubblico: i terreni abbandonati dalle acque correnti, che insensibilmente si ritirano da una delle rive portandosi sull'altra; gli alvei abbandonati; ai terreni comunque abbandonati sia a seguito di eventi naturali che per fatti artificiali indotti dall'attività antropica, ivi comprendendo anche i terreni abbandonati per fenomeni di inalveamento.
L'articolo 116,che innova alla disciplina vigente, dispone l'integrazione, da parte delle Regioni, dei Piani di tutela delle acque previsti all'articolo 121 del presente decreto (al commento del quale si rimanda e che corrisponde all'art. 44 del D. lgs. n. 152) con i programmi di misure individuate dall'Allegato 11 alla parte III del presente decreto, nonché, ove necessario, con le misure supplementari previste dallo stesso allegato. L'articolo in commento attua quanto previsto dall'articolo 11 della direttiva 2000/60/CE. L'Allegato 11 citato riproduce testualmente l'Allegato VI, Parte B, della Direttiva n. 60 contenente le misure supplementari da adottare nell'ambito dei programmi di misure.
A tale proposito occorre segnalare che mentre il testo del presente articolo rimanda all'Allegato 11 al decreto anche per le misure necessarie, nel testo attuale dello stesso Allegato si rinviene solamente l'elenco delle eventuali misure supplementari. Sembrerebbe, pertanto, non recepita la Parte A dell’Allegato VI della direttiva 2000/60/CE, recante gli elementi da inserire obbligatoriamente nei programmi di misure.
I piani di tutela così integrati devono essere sottoposti all'approvazione dell'Autorità di bacino che può negare l'autorizzazione qualora non vengano ravvisate misure atte a raggiungere gli obiettivi posti dal Piano di tutela. In tal caso l'Autorità invia di nuovo il Piano alla Regione per il riesame. Il Piano non dovrà in ogni caso comportare un aumento delle acque marine e/o superficiali. I programmi sono approvati entro il 2009 ed attuati dalle Regioni entro il 2012; il successivo riesame deve avvenire entro il 2015 e aggiornato ogni sei anni.
Il titolo IV è dedicato agli strumenti di tutela, individuati rispettivamente nei piani di gestione e nei piani di tutela delle acque (capo I), nelle modalità per l'autorizzazione agli scarichi (capo II), nel controllo degli scarichi (capo III). Il titolo riproduce, nella sua impostazione generale anche se con parziali modifiche di contenuto, il titolo IV del D.lgs. 11 maggio 1999, n. 152, recante "Disposizioni sulla tutela delle acque dall'inquinamento e recepimento della direttiva 91/271/CEE concernente il trattamento delle acque reflue urbane e della direttiva 91/676/CEE relativa alla protezione delle acque dall'inquinamento provocato dai nitrati provenienti da fonti agricole".
L'articolo 117 dispone le modalità di adozione ed i contenuti del Piano di gestione per ciascun distretto idrografico, nonché del registro delle aree protette individuato dalle Autorità di bacino.
Lo strumento del piano di gestione appare una novità rispetto alla legislazione nazionale e riproduce la definizioneed i contenuti della già richiamata direttiva 2000/60/CE.
La normativa comunitaria dispone infatti che per ciascun distretto idrografico siano predisposti un piano di gestione (art. 13) ed un programma operativo che tenga conto dei risultati delle analisi e degli studi svolti sul distretto medesimo.
Le misure previste nel piano di gestione del distretto idrografico sono destinate a:
Il comma 1 dell'articolo 117detta le modalità di adozione ed i contenuti del Piano di gestione, che rappresenta un'articolazione interna del piano di bacino distrettuale di cui all'articolo 65, nonché piano stralcio del medesimo, e che va adottato con le medesime procedure previste dall'articolo 66. Le Autorità di bacino, ai fini della predisposizione dei Piani di gestione, devono garantire la partecipazione di tutti i soggetti istituzionali competenti nello specifico settore. Il comma 2 nell'individuare gli elementi che devono comporre il Piano, rimanda all'elenco di cui all'Allegato 4 alla parte terza del decreto, parte A. Detto allegato - che riproduce pressoché pedissequamente il contenuto dell'Allegato VII alla Direttiva comunitaria 2000/60/CEsopra richiamata - dispone che i piani di gestione comprendano, fra gli altri, la descrizione generale delle caratteristiche del distretto (per le acque superficiali e per quelle sotterranee), una sintesi delle pressioni e degli impatti significativi delle attività antropiche sullo stato delle acque, una specificazione ed una rappresentazione cartografica delle aree protette, una mappa delle reti di monitoraggio presenti, un elenco degli obiettivi ambientali fissati, una sintesi dell'analisi economica sull'utilizzo idrico, un repertorio di eventuali programmi o piani di gestione più dettagliati adottati per il distretto idrografico e relativi a determinati sottobacini, settori, tematiche o tipi di acque, nonché una sintesi delle misure adottate per l'informazione e la consultazione pubbliche, un elenco delle autorità competenti all’interno di ciascun distretto con l'indicazione dei relativi referenti e delle procedure per ottenere la documentazione. Il medesimo Allegato dispone altresì che il primo ed i successivi aggiornamenti del piano di gestione del bacino idrografico comprendano anche una sintesi di eventuali modifiche o aggiornamenti del piano di gestione medesimo, una valutazione dei progressi registrati per il raggiungimento degli obiettivi ambientali, una sintesi delle misure già previste dal piano ma non realizzate ed infine una sintesi di eventuali misure supplementari temporanee adottate.
Il comma 3 statuisce l'obbligatorietà della istituzione da parte dell'Autorità di bacino, sentite le Autorità d'ambito del servizio idrico integrato di cui alla legge n. 36 del 1994, e sulla base delle informazioni trasmesse dalle Regioni, entro sei mesi dall'entrata in vigore del decreto, del registro delle aree protette. L'Allegato 9 alla parte terza dello schema di decreto elenca le tipologie di aree protette che possono essere incluse nel registro, indicandovi le aree designate per l'estrazione di acque destinate al consumo umano, quelle designate per la protezione di specie acquatiche significative dal punto di vista economico, quelle designate per la protezione degli habitat e delle specie, quelle sensibili rispetto ai nutrienti ai sensi delle direttive 91/676/CEE (recante "Direttiva del Consiglio relativa alla protezione delle acque dall'inquinamento provocato dai nitrati provenienti da fonti agricole") e 91/271/CEE (recante "Direttiva del Consiglio concernente il trattamento delle acque reflue urbane"), i corpi idrici intesi a scopo ricreativo. Il richiamato Allegato dispone altresì che le Regioni inseriscano nel Piano di tutela una sintesi del registro delle aree protette, contenente mappe indicative delle aree medesime ed una descrizione della normativa istituiva
Si ricorda come la Legge 6 dicembre 1991, n. 394, recante "Legge quadro sulle aree protette", disponga vari livelli di responsabilità fra le autorità centrali e gli enti territoriali interessati, a seconda della tipologia dell'area protetta; si ricorda altresì come il D.M. 10 maggio 1991, recante "Istituzione del registro delle aree protette italiane", abbia disposto che il "servizio conservazione della natura" del Ministero dell'ambiente venga incaricato della elaborazione dei dati relativi alle aree protette esistenti sul territorio nazionale, da effettuarsi sia per articolazione territoriale sia per quantità e qualità. Il medesimo decreto ministeriale stabilisce altresì che presso il servizio sopra richiamato venga istituito un apposito registro delle aree protette italiane articolato in un repertorio amministrativo ed in uno cartografico.
L'articolo 118, comma 1, che riproduce parzialmente il contenuto dell'art. 42 del D.lgs. 11 maggio 1999, n. 152, dispone che spetti alle Regioni l'attuazione di appositi programmi di rilevamento dei dati relativi alle caratteristiche del bacino idrografico, all'analisi dell'impatto delle attività antropiche e di quelle economiche connesse all'utilizzo delle acque, e ciò al fine di consentire l'aggiornamento delle informazioni necessarie alla redazione del Piano di tutela di cui all'articolo 121, trasmettendo inoltre i risultati delle attività di analisi al Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio ed all'APAT.
La novità introdotta dal comma 1 dell'articolo 118 rispetto alla normativa vigente è riferibile proprio all'analisi economica dell'utilizzo delle acque, in attuazione di quanto disposto dalla direttiva 2000/60/CE. In particolare l'Allegato 10 alla parte terza del presente decreto riproduce i contenuti dell'Allegato III della citata direttiva, dettando le modalità di analisi economica e disponendo che, nell'effettuare calcoli volti a rispettare il principio del recupero dei costi, si indichino le stime del volume, dei prezzi e dei costi connessi ai servizi idrici, nonché le stime dell'investimento corrispondente, consentendo una valutazione sulle misure degli utilizzi idrici più redditizie da includere nel programma di misure previsto dall'articolo 116.
I commi 2 e 3 dispongono che i programmi di rilevamento - da aggiornare ogni sei anni - siano adottati dalle Regioni, utilizzando preventivamente i dati e le informazioni già acquisite, conformemente alle indicazioni dell'Allegato 3 alla parte terza del decreto.
Detto Allegato riproduce i contenuti dell'allegato 3 del Decreto legislativo del 18 agosto 2000, n. 258, recante "Disposizioni correttive e integrative del D.lgs. 11 maggio 1999, n. 152, in materia di tutela delle acque dall'inquinamento, a norma dell'articolo 1, comma 4, della legge 24 aprile 1998, n. 128".
L'articolo 119 recepisce integralmente il principio del recupero dei costi relativi ai servizi idrici posto dall'art. 9 della più volte richiamata direttiva 2000/60/CE. In particolare, il comma 1 dispone che le Autorità competenti tengano conto del principio del recupero dei costi dei servizi idrici, avvalendosi dell'analisi economica di cui all'Allegato 10 e sulla scorta del principio secondo cui chi inquina è tenuto al pagamento delle spese per il ristoro ambientale. A loro volta i commi 2 e 3 stabiliscono che, tenendo conto delle ripercussioni sociali, ambientali ed economiche del recupero, nonché delle condizioni geografiche e climatiche delle diverse aree, entro il 2010 - come disposto dalla direttiva comunitaria richiamata - le Autorità provvedano - riportando le relative fasi attuative nei Piani di tutela delle acque - ad attuare politiche dei prezzi dell'acqua tali da incentivare un uso virtuoso e responsabile delle risorse idriche da parte dei diversi settori di impiego (suddivisi in industria, famiglie e agricoltura), onde contribuire al raggiungimento degli obiettivi ambientali di qualità posti dalla direttiva e dall'articolo 76.
L'articolo 120 riproduce pressoché integralmente, in materia di rilevamento dello stato di qualità dei corpi idrici, i contenuti dell'art. 43 del D. lgs. 11 maggio 1999, n. 152. Le modifiche introdotte riguardano: la possibilità per le Regioni di attuare, e non solo di elaborare, programmi per la conoscenza e la verifica dello stato qualitativo e quantitativo delle acque superficiali e sotterranee (comma 1); l'obbligo di trasmettere le risultanze delle attività di rilevamento al Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio ed all'APAT (comma 2); una più puntuale definizione degli organismi con cui le Regioni possono promuovere accordi di programma con l' APAT, le agenzie regionali e provinciali dell'ambiente, le province, le autorità d'ambito, i consorzi di bonifica ed altri enti pubblici interessati, con il dichiarato fine di evitare sovrapposizioni e di garantire un miglior flusso di informazioni al Sistema Informativo Nazionale dell'Ambiente (SINA) - un programma nazionale avviato nell’ambito del Piano di tutela dell’ambiente del 1988 con l’obiettivo di realizzare e rendere operativo il sistema di monitoraggio e informazione ambientale in Italia (comma 3).
Anche gli allegati richiamati nell'articolo, Allegato 1 alla parte terza ed Allegato 2 alla parte terza, riproducono i contenuti degli omologhi Allegati al richiamato Decreto legislativo 11 maggio 1999, n. 152, recanti rispettivamente "monitoraggio e classificazione delle acque in funzione degli obiettivi di qualità ambientale" e "criteri per la classificazione dei corpi idrici a destinazione funzionale".
L'articolo 121 disciplina, riproducendo largamente il contenuto dell'art. 44 del D.lgs. 11 maggio 1999, n. 152, lo strumento del Piano di tutela delle acque.
Il comma 1, in particolare, dispone che il Piano di tutela delle acque rappresenta un'articolazione interna del Piano di bacino distrettuale e costituisce un piano stralcio di quest'ultimo, da articolare secondo i contenuti elencati nel medesimo articolo 121, nonché secondo le specifiche di cui alla parte B dell'Allegato 4 alla parte terza, documento che riproduce testualmente l'Allegato 4, parte A, del D.lgs. 152/99.
Il comma 2 stabilisce il termine - 31 dicembre 2006 - entro cui le Autorità di bacino sono chiamate a definire gli obiettivi cui devono attenersi i Piani di tutela, ritagliandoli su scala di distretto e non già di bacino, come disposto dal citato art. 44 del D.lgs. 152/99.
Il comma 3 dispone che il Piano contenga anche il riferimento alle misure necessarie alla tutela qualitativa e quantitativa del sistema idrico, mentre il comma 4, nello stabilire gli elementi informativi che il Piano deve contenere, aggiunge rispetto a quanto già previsto dal comma 4 dell'art. 44 del D. lgs. 152/99, anche l'analisi economica di cui all'Allegato 10 alla parte terza, le misure previste per il recupero dei costi dei servizi idrici (lettera h), e le risorse finanziarie previste a legislazione vigente (lettera i).
Da ultimo, il comma 5 eleva a 120 giorni (anziché ai 90 previsti dalla normativa vigente) il termine per la verifica da parte delle Autorità di bacino della conformità del Piano agli obiettivi ed alle priorità indicate dal comma 2, dovendo esprimere al riguardo un parere vincolante. La data ultima per l'approvazione del piano da parte delle Regioni viene fissata al 31 dicembre 2008. Analogamente a quanto disposto dal presente schema per altri aggiornamenti e revisioni, il comma 5, innovando la previsione della normativa vigente, stabilisce che il Piano debba essere aggiornato ogni 6 anni.
Il Piano di tutela delle acque previsto dall'art. 44 del D.lgs. n. 152/1999 costituisce un piano stralcio di settore del piano di bacino ai sensi dell’art. 17, comma 6-ter, della legge 183/1989, ma il suo procedimento di formazione presenta specialità assai rilevanti che consistono, in sintesi, in una elaborazione ripartita tra Autorità di bacino nazionali e interregionali e Regioni, differenziata nei compiti specifici ma condivisa nei risultati, con parere vincolante riconosciuto alle Autorità per la verifica di conformità alle priorità di intervento ed agli obiettivi indicati. Alle Autorità di bacino nazionale ed interregionale (sentite le Province e le Autorità di ambito), in tema di tutela delle risorse idriche, sembra, quindi, rimanere il compito di definire gli obiettivi e le priorità degli interventi dei Piani regionali di tutela su scala di bacino. Per questi profili il Piano di tutela delle acque segna uno scostamento dai caratteri del piano stralcio standard disegnato dalla legge 183/89.
Recependo l'art. 14 della più volte richiamata Direttiva 2000/60/CE, di cui riproduce pressoché testualmente il contenuto, l'articolo 122 dispone le misure per la informazione e la consulta pubblica del Piano di tutela, nonché dei documenti e degli aggiornamenti (comma 3) ad esso relativi, mantenendo la competenza - a differenza di quanto stabilito dalla norma comunitaria - a livello regionale (comma 1).
L'articolo 123, di contenuto innovativo, dispone la trasmissione da parte delle Regioni delle informazioni relative ai Piani di tutela delle acque al Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio al fine del successivo inoltro alla Commissione europea (comma 1), nonché delle relazioni sintetiche - recependo quando disposto dall'art. 15 della Direttiva 2000/60/CE - sull'attività conoscitiva relativa alle caratteristiche del bacino idrografico ed alle attività antropiche che su di esso insistono, nonché sui programmi di monitoraggio dello stato di qualità dei corpi idrici, entro 12 mesi dalla data di entrata in vigore della parte terza del decreto (comma 2). La norma prevede altresì che i successivi aggiornamenti vengano trasmessi ogni sei anni, relativamente all'attività conoscitiva, ed annualmente per quel che riguarda i programmi di monitoraggio.
Da ultimo il comma 3 stabilisce che entro tre anni dalla pubblicazione di ciascun Piano di tutela delle acque o del relativo aggiornamento, la Regioni trasmettano al Ministero una relazione sui progressi realizzati nell'attuazione delle misure di cui all'articolo 116.
Il Capo II, dedicato all'autorizzazione agli scarichi, riproduce quasi testualmente il Capo II del Titolo IV del D.lgs. 11 maggio 1999, n. 152.
In particolare, l'articolo 124 riproduce, con parziali modifiche, il contenuto e l'articolazione in commi dell'art. 45 del D.lgs. 11 maggio 1999, n. 152, e stabilisce l'obbligo preventivo di autorizzazione per tutti gli scarichi (comma 1), da rilasciare al titolare dell'attività o del consorzio da cui lo scarico abbia origine (comma 2). Nella nuova formulazione del comma, si precisa come ove uno o più stabilimenti non costituiti in consorzio, effettuino scarichi in comune, l'autorizzazione è rilasciata al titolare dello scarico finale, subordinandola tuttavia all'approvazione di un idoneo progetto che comprovi la possibilità tecnica di parzializzazione dei singoli scarichi.
Analogamente al comma 3,chedispone che il regime autorizzatorio degli scarichi di acque reflue domestiche e di reti fognarie venga definito dalle Regioni - cui compete anche la disciplina delle fasi di autorizzazione provvisoria agli scarichi degli impianti depurativi delle acque reflue (comma 6) -, il comma 5, innovativo rispetto alla normativa vigente, stabilisce che anche il regime delle autorizzazioni degli scarichi delle acque reflue termali competa alle Regioni, precisando altresì come questo genere di scarichi sia ammesso in reti fognarie nell'osservanza dei regolamenti del gestore del servizio idrico integrato e conformemente a quanto prescritto dall'autorizzazione rilasciata dall'Autorità di ambito.
La domanda di autorizzazione (comma 7), salvo diversa previsione regionale, deve essere presentata alla Provincia o all'Autorità d'ambito per scarichi che insistano in pubbliche fognature; rispetto alla normativa vigente, il comma 7 introduce per le autorità competenti un limite temporale più stringente per provvedere, sessanta giorni rispetto ai novanta previsti dal comma 6 dell'art. 45 del D.lgs. 152/1999, nonché una ipotesi di autorizzazione provvisoria, per i 60 giorni successivi alla scadenza dei tempi previsti per la risposta, pur sempre revocabile (comma 7, ultimo periodo).
L'autorizzazione deve intendersi concessa, salvo quanto disposto dalla norma di recepimento della direttiva 96/61/CE relativa alla prevenzione e riduzione integrate dell'inquinamento - inizialmente il D.lgs 4 agosto 1999, n. 372, poi abrogato e sostituito dal D.lgs. 18 febbraio 2005, n 59 -, per un periodo di quattro anni (comma 8).
L'autorizzazione può contenere delle ulteriori prescrizioni tecniche di garanzia in relazione alle caratteristiche dello scarico (comma 10), mentre le spese necessarie per l'effettuazione dei rilievi e dei controlli per l'istruttoria delle domande di autorizzazione sono a carico del richiedente, tenuto quest'ultimo a versare, a titolo di deposito, una somma che spetta all'Autorità determinare in via preliminare; completata l'istruttoria spetta alla stessa Autorità liquidare le spese sostenute, sulla base di un tariffario - che costituisce una innovazione rispetto alla normativa vigente - dalla stessa approntato (comma 11).
Da ultimo il comma 12, che riproduce quasi testualmente il disposto del vigente comma 11 dell'art. 45 del D.lgs. 152/1999, stabilisce l'obbligo di richiesta di una nuova autorizzazione laddove, a seguito di trasferimenti, ampliamenti o ristrutturazioni, derivino scarichi dalle caratteristiche qualitative e/o quantitative diverse da quelle dello scarico per il quale l'autorizzazione era stata concessa, ed in ogni caso l'obbligo di comunicare all'Autorità competente anche in caso di modifiche da cui non derivino variazioni alle caratteristiche dello scarico preesistente.
In relazione alla domanda di autorizzazione agli scarichi di acque reflue industriali, l'articolo 125 non fa che riprodurre pressoché testualmente, l'art. 46 del D.lgs. 152/1999, allegati e tabelle inclusi, sia pure riformulando parzialmente il comma 1, relativo alle indicazioni degli elementi da specificare a corredo della domanda di stessa (caratteristiche qualitative e quantitative dello scarico al volume annuo di acqua da scaricare, individuazione del punto previsto per i prelievi di controllo, descrizione del sistema complessivo di scarico).
L'articolo 126 disciplina l'approvazione da parte delle Regioni dei progetti degli impianti di trattamento delle acque reflue urbane, riprendendo con qualche modifica, il disposto dell'art. 47 del D.lgs. 152/1999. Rispetto al testo vigente, l'articolo del presente schema di decreto aggiunge la possibilità per le Regioni di disciplinare anche le modalità di autorizzazione provvisoria necessaria all'avvio dell'impianto anche in caso di realizzazione per lotti funzionali.
Anche l'articolo 127, relativo alla applicabilità della disciplina dei rifiuti ai fanghi derivanti dal trattamento delle acque reflue, riprende, quasi testualmente, l'art. 48 del D.lgs 152/1999; esso tuttavia aggiunge che la sottoponibilità a tale disciplina di tali fanghi si attui "ove applicabile". Infine, rispetto all'art. 48 del D.lgs. richiamato, l'articolo 127 consta solo di due commi, il terzo essendo stato espunto per cessazione della disciplina provvisoria in esso contenuta.
Il comma 3, dell'art. 48 del D.lgs 152/1999, dispone infatti che lo smaltimento dei fanghi nelle acque marine mediante immersione da nave, scarico attraverso condotte ovvero altri mezzi e debba comunque cessare entro il 2003, stabilendo altresì che fino a tale data le quantità totali di materie tossiche, persistenti ovvero bioaccumulabili, dovessero essere progressivamente ridotte, in modo da rendere minimo l'impatto negativo sull'ambiente.
Il Capo III del titolo IV (articoli da 128 a 132) del presente schema di decreto, relativo ai controlli degli scarichi, riproduce l'articolazione ed i contenuti del Capo III del titolo IV (articoli da 49 a 53) del D.lgs 152/1999.
Nel disporre quali soggetti siano tenuti al controllo (autorità competente e gestore del servizio idrico integrato per gli scarichi in pubblica fognatura), l'articolo 128 riproduce quasi alla lettera l'art. 49 del vigente decreto legislativo n. 152.
A sua volta l'articolo 129, che dispone che l'autorità competente al controllo è autorizzata alla effettuazione delle ispezioni e degli altri prelievi necessari all'accertamento del rispetto dei valori di emissione e delle altre prescrizioni stabilite, riproduce, con modifiche formali che peraltro non innovano la materia, l'art. 50 del citato decreto.
Anche gli articoli 130, 131 e 132, dedicati rispettivamente alla modalità sanzionatorie relative alla inosservanza delle prescrizioni della autorizzazione allo scarico che l'autorità competente può disporre (diffida, diffida e contestuale sospensione provvisoria dell'autorizzazione, revoca dell'autorizzazione), alle particolari misure di controllo per gli scarichi di sostanze pericolose che l'autorità competente può prescrivere a carico del titolare dello scarico, ai poteri sostitutivi che il Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio può adottare nei confronti della Regione che si sia resa inadempiente nella effettuazione dei controlli previsti, riproducono, pressoché testualmente e comunque con variazioni che non incidono sui contenuti, gli articoli 51, 52 e 53 del D.lgs 152/1999.
Il titolo V è dedicato al quadro sanzionatorio per le violazioni delle norme sugli scarichi.
L'articolo 133, che detta norme sulle sanzioni amministrative applicabili per l'inosservanza delle disposizioni sugli scarichi, si limita a recepire, riorganizzandoli e formulando in euro le sanzioni già previste in lire, i contenuti dell'art. 54 del D.lgs 152/1999, già ampiamente modificato dal D.lgs. 18 agosto 2000, n. 258, recante "Disposizioni correttive e integrative del decreto legislativo 11 maggio 1999, n. 152, in materia di tutela delle acque dall'inquinamento, a norma dell'articolo l, comma 4, della legge 24 aprile 1998, n. 128".
In particolare i comma 1 stabilisce sanzioni da tremila a trentamila euro per chi effettui uno scarico superando i limiti di emissione fissati dalle tabelle dell'Allegato 5 alla parte terza del decreto o i diversi limiti stabiliti dalle Regioni o dalle autorità competenti. Per scarichi che non osservino altre prescrizioni del provvedimento di autorizzazione al di fuori di quelle previste dal comma 1, la sanzione prevista, ai sensi del comma 3, varia da millecinquecento a quindicimila euro.
Il comma 2, a sua volta, dispone che coloro che effettuino scarichi di acque reflue domestiche o di reti fognarie senza la necessaria autorizzazione o dopo che essa sia stata sospesa o revocata, sono passibili di sanzioni amministrative da seimila a sessantamila euro.
Per l'immersione in mare dei materiali indicati dall'articolo 109 (materiali di escavo, inerti, geologici inorganici, organico e inorganico di origine marina o salmastra) senza la necessarie autorizzazione, il comma 4 dispone, salvo che il fatto non rappresenti anche un reato, una sanzione amministrativa pecuniaria da millecinquecento a quindicimila euro.
In relazione al comma 5, occorre rilevare un incongruo riferimento; tale comma, infatti, dispone che chiunque non osservi le disposizioni dell'articolo 140, comma 5, fino all'emanazione della disciplina regionale ed in ogni caso salvo che il fatto non costituisca reato, sia passibile di sanzione pecuniaria variabile dai seimila ai sessantamila euro. Il richiamato articolo 140, tuttavia, si compone solo di un comma; se ne deduce che il riferimento costituisce un errore di richiamo. Ragionando per simmetria rispetto al decreto legislativo vigente di cui il presente schema riprende parzialmente i contenuti, poiché l'articolo 133, come ricordato, riproduce nelle sue linee essenziali i contenuti dell'articolo 54 del D.Lgs 152/1999, e riferendosi il comma 7 alla non osservanza delle disposizioni di cui all'articolo 62, comma 10 del medesimo D.lgs. 152/1999, se ne deduce che l'articolo richiamato dal comma 5 dell'articolo 133 del presente schema di decreto dovrebbe essere il 170, comma 7, che dispone che "Fino all'emanazione della disciplina regionale di cui all'articolo 112, le attività di utilizzazione agronomica sono effettuate secondo le disposizioni regionali vigenti alla data di entrata in vigore del presente decreto".
Il comma 6 stabilisce che la sanzione amministrativa per la non osservanza del divieto di smaltimento dei fanghi vada da seimila a sessantamila euro, mentre il comma 7 ne prevede una fra i tremila ed i trentamila euro per il superamento dei limiti o per la non osservanza delle prescrizioni relative al progetto di gestione dell'impianto nella effettuazione delle operazioni di svaso, sghiaiamento o sfangamento delle dighe.
Da ultimi, il comma 8 disciplina le sanzioni per violazione delle prescrizioni concernenti l'installazione e la manutenzione dei dispositivi per la misurazione delle portate e dei volumi (variabili da millecinquecento a seimila euro), e il comma 9 quella relativa ai casi di inottemperanza della disciplina dettata dalle Regioni ai sensi del comma 113, comma 1, lettera b), che dispone che ai fini della prevenzione di rischi idraulici ed ambientali, le Regioni, previo parere del Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio, disciplinano e attuano i casi in cui possa essere richiesto che le immissioni delle acque meteoriche di dilavamento, effettuate tramite altre condotte separate, siano sottoposte a particolari prescrizioni, ivi compresa l’eventuale autorizzazione (da millecinquecento a quindicimila euro).
L'articolo 134 reca sanzioni per l'inosservanza delle disposizioni in materia di aree di salvaguardiadelle acque superficiali e sotterranee destinate al consumo umano, prevedendo, analogamente all'art. 55 del D.lgs. 152/1999, una sanzione amministrativa pecuniaria da seicento a seimila euro.
L'articolo 135, che riproduce con alcune variazioni il contenuto dell'art. 56 del D.lgs. 152/1999, dispone che la competenza per l'accertamento degli illeciti amministrativi e per l'erogazione delle sanzioni amministrative pecuniarie spetti alle Regioni, alla Province autonome, o, per violazioni delle prescrizioni concernenti l'installazione e la manutenzione dei dispositivi per la misurazione delle portate e dei volumi (art. 133, comma 8), ai comuni, salve le diverse attribuzioni stabilite dalla legge. Il comma 1 precisa - diversamente dal comma 1 dell'art. 56 del decreto legislativo vigente - che all'irrogazione delle sanzioni si provvede con ordinanza-ingiunzione, ai sensi dell'art. 18 della legge 24 novembre 1981, n. 689, recante "Modifiche al sistema penale".
Il comma 2, nello specificare che alla sorveglianza ed all'accertamento degli illeciti in materia di tutela delle acque dall'inquinamento possano concorrere anche il Corpo forestale dello Stato, la Guardia di Finanza e la Polizia di Stato, espunge il riferimento al danno ambientale conseguente all'illecito, riferimento presente nella normativa vigente. Si prevede anche che il Corpo delle capitanerie di porto-Guardia costiera provvede alla sorveglianza e all'accertamento delle violazioni di cui alla parte terza del presente decreto quando dalle stesse possano derivare danni o situazioni di pericolo per l'ambiente marino e costiero. In materia di danno ambientale cfr. le disposizioni recate dalla parte sesta dello schema di decreto in esame.
L'art. 58 del D.lgs. 152/1999 dispone che colui che con il proprio comportamento omissivo o commissivo in violazione delle disposizioni del presente decreto provochi un danno alle acque, al suolo, al sottosuolo e alle altre risorse ambientali, ovvero determini un pericolo concreto ed attuale di inquinamento ambientale, sia tenuto a procedere a proprie spese agli interventi di messa in sicurezza, di bonifica e di ripristino ambientale delle aree inquinate e degli impianti dai quali è derivato il danno, salvo il diritto ad ottenere il risarcimento del danno non eliminabile con la bonifica ed il ripristino ambientale. Il medesimo articolo, nel disporre che nel caso in cui non sia possibile una precisa quantificazione del danno, lo stesso si presume, stabilisce altresì che chi non ottemperi alle prescrizioni in materia di danno ambientale, sia punito con l'arresto da sei mesi ad un anno e con l'ammenda da lire cinque milioni a lire cinquanta milioni.
I commi 3 e 4 si limitano a riprodurre i contenuti della normativa esistente, stabilendo che per i procedimenti penali pendenti alla data di entrata in vigore del decreto, l'autorità giudiziaria disponga la trasmissione degli atti agli enti competenti ai sensi del comma 1 (Regioni, Province autonome o Comuni) e che non sia applicabile il pagamento in misura ridotta previsto dall'art. 16 della richiamata legge 689/1981.
L'art. 16 della legge 689/1981 dispone che è ammesso il pagamento di una somma in misura ridotta pari alla terza parte del massimo della sanzione prevista per la violazione commessa, o, se più favorevole e qualora sia stabilito il minimo della sanzione edittale, pari al doppio del relativo importo, oltre alle spese del procedimento, entro il termine di sessanta giorni dalla contestazione immediata o, se questa non vi è stata, dalla notificazione degli estremi della violazione.
L'articolo 136 dispone - in modo sostanzialmente identico all'art. 57 del D.lgs. 152/1999 - che i proventi delle sanzioni amministrative vengano versati sul bilancio regionale e destinati al risanamento ed alla riduzione dell'inquinamento dei corpi idrici.
L'articolo 137 dispone le misure penali a carico di chi si renda responsabile delle violazioni delle norme poste a tutela delle acque, riproducendo - salvo l'esclusione di tre commi (2, 11-bis e 10, riportato nel presente schema di decreto come articolo 138) e l'adeguamento in euro delle ammende già espresse in lire - il disposto dell'art. 59 del D.lgs. 152/1999.
In particolare, fra le misure di maggior rilievo: il comma 1 dispone l'arresto da due mesi a due anni o un'ammenda da millecinquecento a diecimila euro per i responsabili di scarichi di acque reflue industriali senza la necessaria autorizzazione; il comma sette dispone l'arresto fino ad un massimo da sei mesi a due anni o un'ammenda da tremila a trentamila euro per il gestore di servizio idrico integrato che ometta l'obbligo di comunicare all'autorità l'accettazione in impianti con caratteristiche e capacità depurative adeguate di materiali particolari (rifiuti costituiti da acque reflue, rifiuti costituiti dal materiale proveniente dalla manutenzione ordinaria di sistemi di trattamento di acque reflue domestiche, materiali derivanti dalla manutenzione ordinaria della rete fognaria nonché quelli derivanti da altri impianti di trattamento delle acque reflue urbane, nei quali l’ulteriore trattamento dei medesimi non risulti realizzabile tecnicamente e/o economicamente), essendo poi egli tenuto anche ad indicare la capacità residua dell’impianto e le caratteristiche e quantità dei rifiuti che intende trattare (ai sensi dell'articolo 110, commi 3 e 5). Il comma 8 prevede a carico del titolare di uno scarico, che non consenta l'accesso agli insediamenti al soggetto incaricato del controllo, l'arresto fino a due anni, salvo che il fatto non costituisca reato più grave.
L'articolo 138, come già accennato, riproduce pressoché testualmente, rimodellando le nuove competenze, il comma 10 dell'art. 137 del citato D.lgs. 152/1999; esso dispone che il Ministro della salute, il Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio, nonché la Regione e la Provincia autonoma competente, ai quali è inviata copia delle notizie di reato, possano indipendentemente dall'esito del giudizio penale, disporre, ciascuno per quanto di loro competenza, la sospensione in via cautelare dell'attività di molluschicoltura e, a seguito di sentenza di condanna o di decisione emessa ai sensi dell'art. 444 del codice di procedura penale (relativo all'applicazione della pena su richiesta) divenute definitive, valutata la gravità dei fatti, disporre la chiusura degli impianti.
Anche l'articolo 139 riprende testualmente la normativa vigente, ovvero l'art. 60 del D.lgs. 152/1999, disponendo che il beneficio della sospensione condizionale della pena per i reati di cui alla parte terza del presente decreto sia subordinato al risarcimento del danno da parte del condannato ed alla esecuzione delle misure di bonifica e di ripristino.
Da ultimo l'articolo 140, nel prevedere una circostanza attenuante per chi, prima del giudizio penale o dell'ordinanza-ingiunzione, abbia provveduto a riparare interamente il danno cagionato, si limita a riprodurre il contenuto dell'art. 61 del D.Lgs. 152/1999, disponendo che le sanzioni penali ed amministrative siano in tal caso diminuite dalla metà fino a due terzi.
Si osserva che le disposizioni contenute nella Sezione Terza hanno ad oggetto la gestione dei servizi idrici piuttosto che quella delle risorse (che appaiono trasversalmente distribuite in tutta la Parte Terza dello schema di decreto. Pertanto sarebbe più corretto (e coerente con lo stesso dettato del comma 1 dell’art. 141) denominare tale Sezione “Gestione dei servizi idrici”.
Il Titolo I della sezione in commento, che raccoglie gli articoli da 141 a 146, stabilisce i principi generali e la definizione delle competenze in materia di gestione delle acque. Le norme sono in buona parte trasposte dalle leggi vigenti ed in particolare dalla n. 36 del 1994, recante disposizioni in materia di risorse idriche, così come modificata dal D.lgs n. 152 del 1999.
L'articolo 141 definisce l'ambito applicativo della normativa, che riguarda l'utilizzazione delle acque per scopi sia civili che industriali. Al comma 1 sono chiarite le finalità della disciplina del servizio idrico integrato. Si tratta della tutela ambientale e della concorrenza, nonché dell'individuazione dei livelli essenziali delle prestazioni e delle competenze fondamentali attribuite agli enti territoriali. Il comma 2 reca la definizione del servizio idrico integrato, di contenuto identico a quella di cui all'articolo 4, comma 1, lettera f) della citata legge n. 36 del 1994.
Si rammenta che la norma richiamata qualifica il servizio idrico integrato come l'insieme dei servizi pubblici atti alla captazione, adduzione, distribuzione dell'acqua e allo smaltimento e depurazione delle acque reflue.
Il medesimo comma individua la metodologia di gestione del servizio idrico stesso nel rispetto dei principi di efficienza, efficacia ed economicità e delle norme nazionali e comunitarie.
L'articolo 142 delinea la ripartizione delle competenze tra lo Stato, le Regioni e gli enti locali. Si osserva che, in ordine alle competenze statali, il comma 1 - innovando alla normativa vigente -pone le funzioni ed i compiti di pertinenza statale in capo al Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio.
Diversamente l'art. 4 della legge n. 36 del 1994 riconosce al Presidente del Consiglio - adiuvato, tra gli altri, dal servizio per la tutela delle acque del Ministero dell'ambiente - il compito di determinare una serie di interventi con i quali regolare, nelle linee generali, la gestione delle risorse idriche. Si tratta dell'individuazione di:
Quanto alle Regioni, si prevede che esse esercitano le funzioni e i compiti ad esse spettanti nel quadro delle competenze costituzionalmente determinate e nel rispetto delle attribuzioni statali, provvedendo in particolare a disciplinare il governo del territorio.
Secondo gli articoli 5 e 6 della legge n. 36 del 1994, nell'ambito della finalità del risparmio idrico (art. 5), le Regioni "prevedono norme e misure volte a favorire la riduzione dei consumi e l'eliminazione degli sprechi ed in particolare a:
a) migliorare la manutenzione delle reti di adduzione e di distribuzione di acque a qualsiasi uso destinate al fine di ridurre le perdite;
b) realizzare, in particolare nei nuovi insediamenti abitativi, commerciali e produttivi di rilevanti dimensioni, reti duali di adduzione al fine dell'utilizzo di acque meno pregiate per usi compatibili;
c) promuovere l'informazione e la diffusione di metodi e tecniche di risparmio idrico domestico e nei settori industriale, terziario ed agricolo;
d) installare contatori per il consumo dell'acqua in ogni singola unità abitativa nonché contatori differenziali per le attività produttive e del settore terziario esercitate nel contesto urbano;
e) realizzare nei nuovi insediamenti sistemi di collettamento differenziali per le acque piovane e per le acque reflue".
Le Regioni provvedono inoltre (art. 6) ad adottare misure volte a favorire il riciclo delle acque ed il riutilizzo di quelle reflue.
Il comma 3 - in combinato disposto con il dettato della norma contenuta nel comma 1 dell'articolo 148 dello schema di decreto in commento - riproduce sostanzialmente la disposizione di cui al comma 1 dell'art. 9 della legge 36 del 1994, che individua negli enti locali i soggetti chiamati - tramite l'Autorità d'ambito - ad organizzare il sistema idrico integrato, a sceglierne la forma di gestione (anche in affidamento) e a realizzare le azioni di controllo.
Si rammenta che l'Autorità d'ambito è stata istituita dalla legge n. 36/94 nella logica di un nuovo schema di regolazione dei servizi da erogare nell’Ambito Territoriale Ottimale (c.d. ATO). La nuova organizzazione prevede una netta distinzione di ruoli fra il regolatore di ambito, che definisce gli obiettivi e controlla la realizzazione del Piano, e il Gestore, che organizza il servizio e dà attuazione al Piano. Gli ambiti territoriali ottimali sono individuati dalle regioni nell'ambito delle attività di programmazione e di pianificazione previste dagli articoli 3 e 17 della legge 18 maggio 1989, n. 183. Tale organizzazione risponde ai seguenti criteri:
a) rispetto dell'unità del bacino idrografico o del sub-bacino o dei bacini idrografici contigui, tenuto conto delle previsioni e dei vincoli contenuti nei piani regionali di risanamento delle acque di cui alla legge 10 maggio 1976, n. 319, e successive modificazioni, e nel piano regolatore generale degli acquedotti, nonché della localizzazione delle risorse e dei loro vincoli di destinazione, anche derivanti da consuetudine, in favore dei centri abitati interessati;
b) superamento della frammentazione delle gestioni;
c) conseguimento di adeguate dimensioni gestionali, definite sulla base di parametri fisici, demografici, tecnici e sulla base delle ripartizioni politico- amministrative .
L'articolo 143 - in osservanza degli articoli 822 e ss. del codice civile - riconosce (comma 1) al sistema idrico integrato (fino al punto di consegna e/o di misurazione) il suo carattere demaniale e inalienabile e ne affida la tutela (comma 2) all'Autorità d'ambito.
Il successivo articolo 144 riproduce, nella sostanza, le norme di cui agli articoli 1 e 2 della legge n. 36 del 1994, che dispongono la demanialità di tutte le acque superficiali e sotterranee e la tutela delle stesse ispirata al principio della razionalizzazione del loro uso per evitare sprechi che pregiudichino il patrimonio idrico nonché la vivibilità dell'ambiente considerato nell'interezza delle sue interconnessioni con le attività umane. Si osserva che, rispetto a quanto stabilito attualmente, nulla è esplicitato riguardo alla disciplina delle modificazioni artificiali della fase atmosferica del ciclo naturale dell'acqua.
Ai sensi del comma 2 dell'art. 2 della citata legge n. 36 per tale disciplina si fa rinvio all'emanazione di un apposito regolamento del Ministro dell'Ambiente (di concerto con il Ministro dei lavori pubblici).
L'articolo 145 reca norme sull'equilibrio del bilancio idrico formalmente e sostanzialmente identiche a quelle contenute nella normativa vigente (si veda art. 3 della legge n. 36 del 1994).
Si richiama, a tale proposito, quanto recita la norma citata:
«1. L'Autorità di bacino competente definisce ed aggiorna periodicamente il bilancio idrico diretto ad assicurare l'equilibrio fra le disponibilità di risorse reperibili o attivabili nell'area di riferimento ed i fabbisogni per i diversi usi, nel rispetto dei criteri e degli obiettivi di cui agli articoli 1 e 2.
2. Per assicurare l'equilibrio tra risorse e fabbisogni, l'Autorità di bacino competente adotta, per quanto di competenza, le misure per la pianificazione dell'economia idrica in funzione degli usi cui sono destinate le risorse.
3. Nei bacini idrografici caratterizzati da consistenti prelievi o da trasferimenti, sia a valle che oltre la linea di displuvio, le derivazioni sono regolate in modo da garantire il livello di deflusso necessario alla vita negli alvei sottesi e tale da non danneggiare gli equilibri degli ecosistemi interessati».
L'articolo 146 dispone in merito al risparmio idrico innovando in parte alla disciplina in vigore (si veda ll'art. 5 della legge n. 36 del 1994). In particolare lo schema in esame propone tre misure aggiuntive per la razionalizzazione dei consumi e l'eliminazione degli sprechi consistenti nella:
- previsione, costruzione o sostituzione di nuovi impianti di trasporto e distribuzione dell'acqua sia interni che esterni nonché l'obbligo di utilizzo di sistemi anticorrosivi di protezione delle condotte di materiale metallico;
- adozione di sistemi di irrigazione ad alta efficienza accompagnati da una loro corretta gestione e dalla sostituzione, ove opportuno, delle reti di canali a pelo libero con reti in pressione;
- individuazione di aree di ricarica delle falde ed adozione di misure protettive e di gestione per garantire un processo di ricarica idoneo sia dal punto di vista quantitativo che qualitativo.
Si evidenzia inoltre che la finalità della predisposizione delle reti duali è esplicitamente individuata nell'utilizzazione di acque "non potabili" e non già delle acque genericamente definite "meno pregiate" cui fa riferimento la normativa in vigore (v. comma 1-bis dell'art. 5 della legge n. 36 del 1994). Si fa inoltre osservare che la competenza regolamentare per la definizione dei criteri e dei metodi idonei alla valutazione delle perdite degli acquedotti e delle fognature è trasferita dal Ministero dei lavori pubblici a quello dell'ambiente, che deve consultare, in merito, l'Autorità di vigilanza sulle risorse idriche e sui rifiuti e l'APAT. Diversa è anche la destinazione dei risultati delle rilevazioni eseguite, che vanno inviate, entro il mese di febbraio di ciascun anno, all'Autorità di vigilanza sulle risorse idriche e sui rifiuti e all'Autorità d'ambito.
Si ricorda che la normativa vigente dispone (norma citata) in tema di risparmio idrico quanto segue. Le Regioni prevedono norme e misure volte a favorire la riduzione dei consumi e l'eliminazione degli sprechi ed in particolare a:
§ migliorare la manutenzione delle reti di adduzione e di distribuzione di acque a qualsiasi uso destinate al fine di ridurre le perdite;
§ realizzare, in particolare nei nuovi insediamenti abitativi, commerciali e produttivi di rilevanti dimensioni, reti duali di adduzione al fine dell'utilizzo di acque meno pregiate per usi compatibili;
§ promuovere l'informazione e la diffusione di metodi e tecniche di risparmio idrico domestico e nei settori industriale, terziario ed agricolo;
§ installare contatori per il consumo dell'acqua in ogni singola unità abitativa nonché contatori differenziali per le attività produttive e del settore terziario esercitate nel contesto urbano;
§ realizzare nei nuovi insediamenti sistemi di collettamento differenziali per le acque piovane e per le acque reflue.
Gli strumenti urbanistici, compatibilmente con l'assetto urbanistico e territoriale e con le risorse finanziarie disponibili, prevedono reti duali al fine dell'utilizzo di acque meno pregiate, nonché tecniche di risparmio della risorsa. Il comune rilascia la concessione edilizia se il progetto prevede l'installazione di contatori per ogni singola unità abitativa, nonché il collegamento a reti duali, ove già disponibili. Ad un regolamento ministeriale è rimessa la definizione dei criteri e del metodo in base ai quali valutare le perdite degli acquedotti e delle fognature. Entro il mese di febbraio di ciascun anno, i soggetti gestori dei servizi idrici trasmettono al Ministero dei lavori pubblici i risultati delle rilevazioni.
Il Titolo II, comprensivo degli articoli da 147 a 158, reca norme sull'organizzazione e la gestione del servizio idrico integrato (SII).
L'articolo 147 definisce l'organizzazione del servizio idrico integrato confermando sostanzialmente le norme contenute nel Capo II della legge n. 36 del 1994.
L'articolo 148 definisce l'Autorità d'ambito territoriale ottimale quale struttura dotata di personalità giuridica costituita in ciascun ambito territoriale ottimale delimitato dalla competente Regione, alla quale gli enti locali partecipano obbligatoriamente e alla quale è trasferito l'esercizio delle competenze ad essi spettanti in materia di gestione delle risorse idriche, ivi compresa la programmazione e la realizzazione delle infrastrutture idriche di cui all'articolo 143, comma 1 (comma 1).
Il comma 2 ribadisce quanto già previsto attualmente in merito alla disciplina della cooperazione tra gli enti locali.
Si rammenta che l'Autorità d'ambito è il nuovo soggetto istituzionale introdotto dall'articolo 9 della legge n. 36 del 1994 al quale sono conferite le funzioni di governo, organizzazione e regolazione del servizio idrico integrato ovvero l'insieme dei servizi facenti capo al ciclo idrico integrato.
I successivi commi 3, 4 e 5 contengono norme - innovative rispetto aquanto previsto dalla normativa in vigore- riguardanti la pubblicità dei bilanci preventivi e consuntivi dell'Autorità d'ambito, i suoi costi di funzionamento (che sono a carico degli enti locali in ragione delle rispettive quote di partecipazione alla gestione) e la facoltatività di adesione alla gestione unica del servizio idrico integrato per i comuni con popolazione fino a 1.000 abitanti e inclusi nel territorio delle comunità montane. La facoltà di scelta è riconosciuta a condizione che la gestione del servizio idrico sia operata direttamente dall'amministrazione comunale oppure tramite una società di capitale interamente pubblico ovvero controllata dal comune stesso.
Tali norme ripropongono – parzialmente - il contenuto della proposta di legge AC 5568, all’esame dell’VIII Commissione della Camera dei deputati.
L'articolo 149 individua i documenti che costituiscono il Piano d'ambito predisposto e aggiornato dall'Autorità d'ambito ed approvato con delibera della Regione competente. Le norme sono una trasposizione sostanziale di quanto disposto dall'art. 11, comma 3, della legge n. 36 del 1994, integrate con definizioni più puntuali dei documenti e con la descrizione della modalità di trasmissione del Piano. Riguardo a quest'ultimo aspetto il comma 6 stabilisce che esso venga trasmesso all'Autorità di vigilanza sulle risorse idriche e sui rifiuti ed al Ministero dell'ambiente entro dieci giorni dalla delibera di approvazione. I rilievi eventualmente effettuati dall'Autorità di vigilanza possono essere inviati - entro novanta giorni dalla data di ricevimento del Piano - all'Autorità d'ambito. Ove sia necessario l'Autorità di vigilanza potrà dettare delle prescrizioni in merito al programma degli interventi ed al piano finanziario.
L'articolo 150 reca norme sulla scelta della forma di gestione e sulle procedure di affidamento, prevedendo in particolare che sia l'Autorità d'ambito a deliberare la forma di gestione nel rispetto di quanto è previsto dall'art. 113, commi 5 e 7 del D.lgs 18 agosto 2000, n. 267 (T.U. sugli enti locali). E' fatta salva la possibilità di scelta alternativa nella gestione per i comuni individuati dal comma 5 del precedente articolo 148 (con popolazione fino a 1.000 abitanti).
Si rammenta che secondo il comma 5 dell'art. 113 del D.lgs. n. 267 "l'erogazione del servizio avviene secondo le discipline di settore e nel rispetto della normativa dell'Unione europea, con conferimento della titolarità del servizio:
a) a società di capitali individuate attraverso l'espletamento di gare con procedure ad evidenza pubblica;
b) a società a capitale misto pubblico privato nelle quali il socio privato venga scelto attraverso l'espletamento di gare con procedure ad evidenza pubblica che abbiano dato garanzia di rispetto delle norme interne e comunitarie in materia di concorrenza secondo le linee di indirizzo emanate dalle autorità competenti attraverso provvedimenti o circolari specifiche;
c) a società a capitale interamente pubblico a condizione che l'ente o gli enti pubblici titolari del capitale sociale esercitino sulla società un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi e che la società realizzi la parte più importante della propria attività con l'ente o gli enti pubblici che la controllano".
Con riferimento agli affidamento in house, si ricorda che la Corte di giustizia si è pronunciata in altre due circostanze, oltre al caso Teckal.
Con la prima sentenza, dell’11 gennaio 2005 (Stadt Halle, in Causa C-26/03), la Corte ha statuito che «la partecipazione, anche minoritaria, di un’impresa privata al capitale di una società alla quale partecipi anche l’amministrazione aggiudicatrice in questione, esclude in ogni caso che tale amministrazione possa esercitare sulla detta società un controllo analogo a quello che essa esercita sui propri servizi». La Corte concludeva nel senso che «nell’ipotesi in cui un’amministrazione aggiudicatrice intenda concludere un contratto a titolo oneroso relativo a servizi rientranti nell’ambito di applicazione ratione materiae della direttiva 92/50 con una società da essa giuridicamente distinta, nella quale la detta amministrazione detiene una partecipazione insieme con una o più imprese private, le procedure di affidamento degli appalti pubblici previste dalla citata direttiva debbono sempre essere applicate».
Successivamente, si è pronunciata in un altro caso (sentenza Parking Brixen, del 13 ottobre 2005, in Causa C-458/03), precisando ulteriormente, anche in relazione alle concessioni di pubblici servizi, che non occorre applicare le norme comunitarie in materia di appalti pubblici o di concessioni di pubblici servizi nel caso in cui un’autorità pubblica svolga i compiti di interesse pubblico ad essa incombenti mediante propri strumenti, amministrativi, tecnici e di altro tipo, senza far ricorso ad entità esterne, e che quindi «nel settore delle concessioni di pubblici servizi, l’applicazione delle regole enunciate agli artt. 12 CE, 43 CE e 49 CE nonché dei principi generali di cui esse costituiscono la specifica espressione è esclusa se, allo stesso tempo, il controllo esercitato sull’ente concessionario dall’autorità pubblica concedente è analogo a quello che essa esercita sui propri servizi e se il detto ente realizzata la maggior parte della sua attività con l’autorità detentrice».
Inoltre, ai sensi del comma 7 dell'art. 113 del D.lgs. n. 267, la gara è indetta nel rispetto degli standard qualitativi, quantitativi, ambientali, di equa distribuzione sul territorio e di sicurezza definiti dalla competente Autorità di settore o, in mancanza di essa, dagli enti locali. La gara è aggiudicata sulla base del migliore livello di qualità e sicurezza e delle condizioni economiche e di prestazione del servizio, dei piani di investimento per lo sviluppo e il potenziamento delle reti e degli impianti, per il loro rinnovo e manutenzione, nonché dei contenuti di innovazione tecnologica e gestionale. Tali elementi fanno parte integrante del contratto di servizio.
(Vedi, infra, il capitolo dedicato agli affidamenti e alla tariffazione del servizio).
L'articolo 151 dispone in merito ai rapporti tra Autorità d'ambito e soggetti gestori del servizio idrico integrato. Questi secondo il disposto del comma 1 sono regolati da convenzioni tipo che vengono adottate dalle Regioni e dalle Province autonome. Le previsioni contenute nelle convenzioni (comma 2) sono in gran parte quelle elencate dalla normativa vigente (articolo 11, comma 2 della legge n. 36 del 1994). Vi sono però alcune integrazioni che riguardano:
Il comma 3 stabilisce che le convenzioni esistenti devono essere integrate in conformità alle disposizioni del comma 2. E' inoltre stabilito che allo schema di convenzione, predisposto dall'Autorità d'ambito, venga allegato un disciplinare. Qualora le Regioni o le Province autonome non abbiano adottato convenzioni e disciplinari tipo l'Autorità dovrà procedere sulla base di quanto stabilito dalla normativa vigente. La compilazione del disciplinare è regolata dal successivo comma 4 che indica cosa esso debba contenere. Si tratta della definizione delle opere e delle manutenzioni straordinarie oltre che delle indicazioni di programma temporale e finanziario di esecuzione. Il comma 5 dispone che il gestore, nell'affidare il servizio, fornisca idonea garanzia di fideiussione relativa agli interventi da realizzare nei primi cinque anni di gestione e aggiornata annualmente in modo da coprire le opere da realizzare nei cinque anni successivi.
I commi 6, 7 ed 8 stabiliscono rispettivamente:
- l'aggiornamento dell'atto di ricognizione ad opera del gestore;
- la possibilità della gestione di altri servizi pubblici da parte dell'affidatario purché questi non siano tra loro confliggenti (e previa autorizzazione dell'Autorità d'ambito) ed anche se non estesi all'intero ambito territoriale ottimale (così come stabilito dall'articolo 12, comma 4 della legge n. 36 del 1994);
- la facoltà da parte delle società concessionarie di emettere prestiti obbligazionari sottoscrivibili dagli utenti che hanno facoltà di convertirli in azioni semplici o di risparmio.
Una quota minima del 10 per cento è stabilita per la sottoscrizione degli utenti del servizio qualora vi sia un aumento del capitale sociale.
L'articolo 152 individua i poteri e gli obblighi dell'Autorità d'ambito. I primi consistono nella facoltà di accesso e di verifica delle infrastrutture idriche anche in fase costruttiva (comma 1) e nel controllo del gestore atto a garantire il raggiungimento dei livelli minimi di servizio. In caso di persistente inadempienza l'Autorità d'ambito può sostituirsi al gestore ed affidare a terzi le opere da eseguire (comma 2). Tra gli obblighi, quello di comunicare annualmente al Ministero dell'ambiente ed all'Autorità di vigilanza sulle risorse idriche e sui rifiuti i risultati dei controlli di gestione (comma 4). Il controllo sull'Autorità d'ambito è esercitato dalla Regione che, in caso di inadempienza può sostituirsi all'Autorità d'ambito nominando un commissario ad acta, ovvero dal Ministro dell'Ambiente, sempre attraverso un commissario straordinario, nel caso la Regione non adempia al suo compito entro 45 giorni e previa diffida ad adempiere nel termine di 20 giorni (comma 3).
L'articolo 153, in combinato disposto con l'articolo 173,reca la disciplina sul trasferimento delle dotazioni materiali ed umane[63] ai soggetti gestori, riprendendo quanto è già stabilito dalla normativa vigente (v. art. 12 della legge n. 36 del 1994) e disponendo inoltre che del trasferimento delle infrastrutture idriche al gestore si debba tener conto nella determinazione della tariffa. Il trasferimento del personale, che viene disposto con legge regionale avviene mantenendo i diritti del lavoratore acquisiti presso l'ente di provenienza. Qualora il passaggio riguardi dipendenti di enti pubblici e di ex aziende municipalizzate o consortili, la disciplina applicata è quella dell'articolo 2112 del codice civile.
Il richiamato articolo del codice civile così recita:
"In caso di trasferimento d'azienda, il rapporto di lavoro continua con il cessionario ed il lavoratore conserva tutti i diritti che ne derivano.
Il cedente ed il cessionario sono obbligati, in solido, per tutti i crediti che il lavoratore aveva al tempo del trasferimento. Con le procedure di cui agli articoli 410 e 411 del codice di procedura civile il lavoratore può consentire la liberazione del cedente dalle obbligazioni derivanti dal rapporto di lavoro.
Il cessionario è tenuto ad applicare i trattamenti economici e normativi previsti dai contratti collettivi nazionali, territoriali ed aziendali vigenti alla data del trasferimento, fino alla loro scadenza, salvo che siano sostituiti da altri contratti collettivi applicabili all'impresa del cessionario. L'effetto di sostituzione si produce esclusivamente fra contratti collettivi del medesimo livello.
Ferma restando la facoltà di esercitare il recesso ai sensi della normativa in materia di licenziamenti, il trasferimento d'azienda non costituisce di per sé motivo di licenziamento. Il lavoratore, le cui condizioni di lavoro subiscono una sostanziale modifica nei tre mesi successivi al trasferimento d'azienda, può rassegnare le proprie dimissioni con gli effetti di cui all'articolo 2119, primo comma.
Ai fini e per gli effetti di cui al presente articolo si intende per trasferimento d'azienda qualsiasi operazione che, in seguito a cessione contrattuale o fusione, comporti il mutamento nella titolarità di un'attività economica organizzata, con o senza scopo di lucro, preesistente al trasferimento e che conserva nel trasferimento la propria identità a prescindere dalla tipologia negoziale o dal provvedimento sulla base del quale il trasferimento è attuato ivi compresi l'usufrutto o l'affitto di azienda. Le disposizioni del presente articolo si applicano altresì al trasferimento di parte dell'azienda, intesa come articolazione funzionalmente autonoma di un'attività economica organizzata, identificata come tale dal cedente e dal cessionario al momento del suo trasferimento.
Nel caso in cui l'alienante stipuli con l'acquirente un contratto di appalto la cui esecuzione avviene utilizzando il ramo d'azienda oggetto di cessione, tra appaltante e appaltatore opera un regime di solidarietà di cui all'articolo 29, comma 2, del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276 ".
L'articolo 154 disciplina la determinazione della tariffa idrica, che oltre ai costi individuati dalla normativa vigente, deve consentire di recuperare anche una quota parte di quelli di funzionamento dell'Autorità d'ambito (comma 1). Le componenti di costo sono ora definite con decreto del Ministro dell'ambiente su proposta dell'Autorità di vigilanza, innovando la normativa vigente che invece attribuisce tale compito al Ministro delle infrastrutture e dei trasporti di intesa con il Ministro dell'ambiente e sentita la Conferenza Stato-Regioni (comma 2).
I criteri generali per la determinazione dei canoni di concessione (competenza delle Regioni) per l'utenza di acqua pubblica sono stabiliti con decreto del Ministro dell'economia e delle finanze, di concerto con il Ministro dell'ambiente, tenendo conto dei costi ambientali e dei costi della risorsa e prevedendo riduzioni del canone nell'ipotesi in cui il concessionario attui un riuso delle acque reimpiegando le acque risultanti a valle del processo produttivo o di una parte dello stesso o, ancora, restituisca le acque di scarico con le medesime caratteristiche qualitative di quelle prelevate (comma 3).
La tariffa di base è determinata dall'Autorità d'ambito, così come previsto dalla normativa vigente, pur considerando che - da un punto di vista meramente formale - non esiste nella disciplina in vigore un esplicito riferimento a tale Autorità, bensì agli enti locali chiamati a costituirla (v. articolo 13, comma 5 della legge n. 36 del 1994). Nulla di nuovo è previsto riguardo all'applicazione della tariffa ed in materia di agevolazioni mentre le maggiorazioni sono ora applicabili, per ragioni di equa redistribuzione, anche alle aziende artigianali, commerciali ed industriali (comma 6). Riguardo alla modulazione della tariffa tra i comuni gli investimenti effettuati dagli stessi sono calcolati secondo la modalità "pro capite per residente" (comma 7).
(Vedi, infra, il capitolo dedicato agli affidamenti e alla tariffazione del servizio).
L'articolo 155 raccoglie in gran parte le disposizioni della normativa vigente riguardo la tariffa del servizio di fognatura e depurazione (v. art. 14 legge n. 36 del 1994) con alcune novità così riassumibili:
- i proventi derivanti dalla riscossione delle tariffe non sono più direttamente fruibili dai soggetti gestori tramite accesso al fondo vincolato, ma lo diventano tramite l'Autorità d'ambito cui il fondo stesso è intestato (comma 1);
- è prevista un'esenzione di pagamento per gli utenti che siano proprietari di sistemi propri di collettamento e depurazione, se approvati dall'Autorità d'ambito (comma 1);
- il volume d'acqua scaricata, per stabilire la quota tariffaria, è determinato in misura pari al 100% dell'acqua fornita e non anche di quella "prelevata o comunque accumulata" (comma 4);
- le riduzioni tariffarie per le utenze che provvedono direttamente alla depurazione sono condizionate all'approvazione dei sistemi da parte dell'Autorità di ambito.
E' inoltre stabilito che i Comuni possano destinare i proventi derivanti dal canone di depurazione e fognatura alla manutenzione degli impianti stessi qualora, in pendenza di affidamento gestionale al gestore, non si trovino in condizione di dissesto (comma 2).
L'articolo 156 dispone in merito alla riscossione della tariffa che è, conformemente a quanto stabilito dalle norme vigenti, compito del gestore del servizio idrico integrato oppure, qualora il servizio venga gestito separatamente, del gestore dell'acquedotto il quale provvede poi al riparto dell'importo con gli altri gestori, entro trenta giorni dalla riscossione.
Con l'articolo 157 è attribuita agli enti locali la facoltà di realizzare le opere di adeguamento del servizio idrico. Tali opere devono concretizzarsi nel rispetto dei piani urbanistici e secondo le concessioni rilasciate per i nuovi edifici che sorgono in zone già urbanizzate. E' inoltre necessaria la compatibilità con il Piano d'ambito.
Nell'articolo 158 sono trasposte buona parte delle norme contenute nell'art. 17 della legge n. 36 del 1994, con le quali si disciplina la realizzazione di opere e interventi per il trasferimento di acqua. Si segnala che la promozione dei relativi accordi di programma è affidata alle Autorità di bacino, sentite le Regioni interessate, mentre la normativa vigente la affida alle Autorità di bacino di rilievo nazionale e alle regioni interessate. L'assunzione delle iniziative in merito e le proposte da considerare in caso di inerzia, mancato accordo, mancata attuazione dell'accordo stesso o scelta di finanziamento a totale carico dello Stato, sono ora riferite al Ministro dell'ambiente (che limitatamente alle iniziative opera di concerto con il Ministro delle infrastrutture e dei trasporti), anziché al Ministro delle infrastrutture e dei trasporti.
Il comma 3, innovando in parte a quanto previsto dal comma 5 dell'art. 17 della legge n. 36 del 1994, dispone che, nel caso di opere e impianti posti a totale carico dello Stato, al Ministro delle infrastrutture e dei trasporti compete la determinazione dei criteri e delle modalità per l'esecuzione e la gestione degli interventi, nonché l'affidamento per la realizzazione e la gestione degli impianti, mentre al Ministro dell'ambiente spetta definire la convenzione tipo e le direttive per la concessione delle acque ai soggetti utilizzatori.
L'articolo 158non ribadisce i contenuti normativi dei commi 6 e 7 dell'art. 17 della legge n. 36 del 1994, che prevedono rispettivamente che le opere e gli interventi relativi al trasferimento di acqua sono sottoposti a VIA e che l'approvazione degli accordi di programma comporta variante al piano regolatore generale degli acquedotti.
Il Titolo III, costituito dagli articoli da 159 a 165, contiene disposizioni sulla vigilanza, i controlli e la partecipazione degli utenti del servizio idrico integrato.
L’art. 159 istituisce l’Autorità di vigilanza sulle risorse idriche e sui rifiuti - avente il compito di assicurare l’osservanza, da parte di tutti i soggetti pubblici e privati, dei principi e delle disposizioni dettate dal presente decreto in materia di risorse idriche e rifiuti - come risultato dell’accorpamento[64]:
§ del Comitato per la vigilanza sull’uso delle risorse idriche istituito dall’art. 21 della legge n. 36/1994 (che diventa la Sezione per la vigilanza sulle risorse idriche)
§ dell’Osservatorio nazionale sui rifiuti istituito dall’art. 26 d.lgs. n. 22/1997 (che diventa la Sezione per la vigilanza sui rifiuti).
Secondo l’ANCI l’istituzione di una nuova autorità di vigilanza, peraltro non concertata con gli enti locali, appare eccedere i limiti della delega “nella quale, in nessun caso, si fa riferimento alla istituzione di simile organo né alla necessità di procedere a riformare la struttura dell’amministrazione centrale”.
Il medesimo articolo provvede a disciplinare la composizione, il funzionamento, l’organizzazione e l’operatività dell’autorità.
In particolare il comma 6 prevede, nel rispetto del principio di “invarianza degli oneri a carico della finanza pubblica”, stabilito dall’art. 1, comma 8, lettera c), della legge delega, che i componenti del Comitato per la Vigilanza sull’uso delle risorse idriche e quelli dell’Osservatorio nazionale sui rifiuti rimangono in carica, quali componenti del nuovo organismo, “fino al compimento del primo mandato settennale dell’Autorità”senza oneri aggiuntivi a carico della finanza pubblica.
In proposito la relazione tecnica arriva addirittura ad ipotizzare un “risparmio rispetto al passato, trattandosi dell’accorpamento in un unico organismo di funzioni facenti capo a gestioni oggi espletate dai precedenti organismi”.
L’art. 160 definisce – come si legge nella relazione illustrativa – in modo dettagliato “i compiti dell’Autorità nel proprio ruolo di regolazione e controllo a garanzia del rispetto dei diritti degli utenti, della salvaguardia e valorizzazione dell’ambiente e della risorsa idrica, della tutela e promozione della concorrenza”.
Secondo le osservazioni sollevate da Federambiente nel corso dell’audizione presso le Commissioni riunite di Camera e Senato “la tutela della concorrenza appare tuttavia compito eccessivo e di competenza propria dell’Autorità per la concorrenza ed il mercato. Se si trattasse di concorrenza ex art. 113 del T.U.E.L. le modalità formali di espletamento della gara dovrebbero essere definite in ciascuna sede regionale, come deliberato dalla sentenza della Corte costituzionale 272/2004”.
Più in generale, da più parti[65] vengono sollevati dubbi circa la concentrazione di poteri in capo all’Autorità che rischia di ingenerare conflitti, sovrapposizioni di competenze e duplicazioni di ruoli.
Si noti, poi, che il comma 4 affida alla giurisdizione amministrativa esclusiva e alla competenza del TAR del Lazio i ricorsi contro gli atti e i provvedimenti dell’Autorità.
Da più parti viene sottolineato che tale disposizione farebbe “venir meno il carattere di indipendenza proprio di ogni Authority”[66].
In realtà, le norme recate dall’art. 159 e seguenti sembrano prefigurare una autorità di controllo e vigilanza, e non un’autorità di regolamentazione e coordinamento o di tutela della concorrenza e del mercato.
Il successivo art. 161 prevede poi l’istituzione di un Osservatorio sulle risorse idriche e sui rifiuti, quale organo strumentale dell’autorità ai fini della raccolta, elaborazione e restituzione di dati statistici e conoscitivi.
Si fa notare, in proposito, che nulla è detto circa la provenienza del personale addetto a tale Osservatorio, né viene richiamato il rispetto della clausola di invarianza della spesa prevista nella legge delega. Il comma 5 si limita a demandare ad apposito DPCM l’individuazione della dotazione organica e delle spese di funzionamento.
Ciò premesso Sembrerebbe pertanto opportuno riformulare il comma 5 in modo da garantire il rispetto del citato principio di invarianza.
Si osserva, inoltre, che sembrerebbe opportuno chiarire l’inquadramento organizzativo dell’Osservatorio, poiché dall’articolo in commento non si capisce se sia anch’esso un organo indipendente oppure una struttura incardinata nell’Autorità o altro ancora.
Si nota che l’articolo 161 riproduce nella sostanza l’art. 22 della legge n. 36/1994 che ha istituito e disciplinato l’Osservatorio dei servizi idrici.
Con riferimento poi all’impianto organizzativo previsto dagli articoli 159-161 si fa notare che esso ripropone in ambito nazionale quanto già previsto a livello regionale dagli artt. 20-22 della legge della Regione Emilia-Romagna n. 25/1999 come modificata dalla legge regionale n. 1/2003.
Con riferimento all’osservazione sollevata in precedenza, si fa notare che – nel caso dell’Emilia Romagna – l’art. 20 provvede a collocare l’Osservatorio “nell'ambito della direzione generale competente in materia di ambiente”[67].
Per completare il quadro normativo relativo alla nuova Autorità, si riporta di seguito anche il commento all’articolo 207, comma 5, dello stesso schema di decreto.
Ai sensi dell’art. 207, comma 5, l’Autorità si avvale della Segreteria tecnica di cui all’articolo 1, comma 42, della legge 15 dicembre 2004, n. 308, nonché - eventualmente - di organi ed uffici ispettivi e di verifica di altre amministrazioni pubbliche, per le seguenti finalità:
- espletamento dei propri compiti;
- migliorare, incrementare ed adeguare agli standard europei, alle migliori tecnologie disponibili ed alle migliori pratiche ambientali gli interventi in materia di tutela delle acque interne, di rifiuti e di bonifica dei siti inquinati;
- aumentare l'efficienza di detti interventi anche sotto il profilo della capacità di utilizzare le risorse derivanti da cofinanziamenti.
Si ricorda, in proposito, che il citato comma 42 dispone, che “al fine di migliorare, incrementare ed adeguare agli standard europei, alle migliori tecnologie disponibili ed alle migliori pratiche ambientali gli interventi in materia di tutela delle acque interne, di rifiuti e di bonifica dei siti inquinati, nonché di aumentare l'efficienza di detti interventi anche sotto il profilo della capacità di utilizzare le risorse derivanti da cofinanziamenti dell'Unione europea, è istituita, presso il Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio, una segreteria tecnica composta da non più di ventuno esperti di elevata qualificazione, nominati con decreto del Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio, di concerto con il Ministro dell'economia e delle finanze, con il quale ne è stabilito anche il funzionamento. Per la costituzione ed il funzionamento della predetta segreteria è autorizzata la spesa di 450.000 euro per l'anno 2004, di 500.000 euro per l'anno 2005 e di un milione di euro a decorrere dall'anno 2006”.
Per quanto riguarda, invece, il finanziamento ordinario delle attività dell’Autorità l’art. 170, commi 12 e 13, fa salva la normativa vigente recata dall’art. 22, comma 6, della legge 5 gennaio 1994, n. 36 e riproduce il contenuto dell’art. 26, comma 5, del decreto Ronchi.
L’ammontare di 1,24 milioni di euro indicato dall’art. 170, comma 13, corrisponde alla rivalutazione monetaria dell’importo di 2 miliardi di lire previsto dal citato art. 26, comma 5, del d.lgs. n. 22/1997.
Si ricorda, infine, che l’art. 22, comma 6, della legge n. 36/1994 ha quantificato l’onere derivante dalla costituzione e dal funzionamento del Comitato e dell'Osservatorio in 700 milioni di lire per il 1993 e 1.750 milioni di lire annue a decorrere dal 1994 (pari a circa 0,9 milioni di euro).
L'articolo 162 disciplina la partecipazione e l'informazione degli utenti e corrisponde all'art. 23 della legge n. 36/1994, di cui modifica alcune disposizioni. Innanzitutto viene eliminata la norma che prevede (comma 1) che "le società miste e le società concessionarie del servizio idrico integrato possono emettere prestiti obbligazionari sottoscrivibili esclusivamente dagli utenti con facoltà di conversione in azioni semplici o di risparmio. Nel caso di aumento del capitale sociale, una quota non inferiore al 10 per cento è offerta in sottoscrizione agli utenti del servizio".
Il comma 1 ripropone la normativa in vigore, la quale dispone che il gestore del servizio idrico integrato deve assicurare l'informazione agli utenti, promuovere iniziative per la diffusione della cultura dell'acqua e garantire l'accesso dei cittadini alle informazioni inerenti ai servizi gestiti nell'ambito territoriale "ottimale" (quest'ultima espressione viene introdotta dal comma in esame) di propria competenza, alle tecnologie impiegate, al funzionamento degli impianti, alla quantità e qualità delle acque fornite e trattate.
Il comma 2 riproduce integralmente il disposto della norma vigente, ma contrariamente ad essa limita al caso delle grandi derivazioni d'acqua da fiumi transnazionali e di confine l'obbligo a carico delle amministrazioni competenti di curare la pubblicazione delle domande di concessione su almeno un quotidiano a diffusione nazionale e su un quotidiano a diffusione locale.
Il comma 3, relativo alla pubblicità degli atti, non apporta modifiche alla norma vigente.
L'articolo 163 riguarda la gestione delle aree di salvaguardia, attualmente disciplinata dall'art. 24 delle legge n. 36/1994, di cui riproduce integralmente il disposto.
L'articolo 164 contiene la disciplina delle acque nelle aree protette, e riproduce testualmente le disposizioni contenute nell'art. 25 della legge n. 36 del 1994.
L'articolo 165 disciplina i controlli finalizzati ad assicurare la fornitura di acqua di buona qualità e scarichi a norma nei corpi ricettori e impone a ciascun gestore di servizio idrico di dotarsi di un adeguato servizio di controllo territoriale e di un laboratorio di analisi, ovvero di stipulare apposita convenzione con altri gestori. L'articolo 165 reca una normativa che corrisponde in parte al disposto dell'art. 26 della legge n. 36. Fa eccezione, peraltro, il comma 2,che innova al testo vigente prevedendo che deve avere cadenza annuale la denuncia al gestore del servizio idrico del quantitativo prelevato, denuncia alla quale sono tenuti coloro che si approvvigionano in tutto o in parte di acqua da fonti diverse dal pubblico acquedotto.
Il comma 3 prevede che le sanzioni previste dall'art. 19 del D.lgs. 2 febbraio 2001, n. 31 si applichino al responsabile della gestione dell'acquedotto soltanto nel caso in cui, dopo la comunicazione dell'esito delle analisi, egli non abbia tempestivamente adottato le misure idonee ad adeguare la qualità dell'acqua o a prevenire il consumo o l'erogazione di acqua non idonea. Il comma in esame, pur non modificando nella sostanza il disposto del corrispondente art. 26 della legge n. 36, fa riferimento al citato D. Lgs. n. 31/2001, recante"Attuazione della direttiva 98/83/CE relativa alla qualità delle acque destinate al consumo umano",e non più all'art. 21 delD.P.R. 24 maggio 1988, n. 236, ora abrogato.
Il citato art. 19 del D.lgs. n. 31 del 2001 prevede che:
1. chiunque fornisca acqua destinata al consumo umano, in violazione delle disposizioni relative agli obblighi generali, di cui all'art. 4, comma 2, è punito con la sanzione amministrativa pecuniaria da lire venti milioni a lire centoventi milioni;
2. la violazione delle disposizioni relativi ai punti di rispetto di conformità relativi agli edifici e alle strutture in cui l'acqua è fornita al pubblico (art. 5, comma 2, secondo periodo del Decreto Legislativo stesso), è punita con la sanzione amministrativa pecuniaria da lire dieci milioni a lire sessanta milioni;
3. si applica la stessa sanzione prevista dal punto 2 a chiunque utilizza, in imprese alimentari, mediante incorporazione o contatto per la fabbricazione, il trattamento, la conservazione, l'immissione sul mercato di prodotti o sostanze destinate al consumo umano, acqua che, pur conforme al punto di consegna alle disposizioni di cui all'articolo 4, comma 2, non lo sia al punto in cui essa fuoriesce dal rubinetto, se l'acqua utilizzata ha conseguenze per la salubrità del prodotto alimentare finale;
4. l'inosservanza delle prescrizioni imposte con i provvedimenti adottati dalle competenti autorità, ai sensi degli articoli 5, comma 3 (ipotesi in cui sussista il rischio che le acque fornite da una cisterna, nel punto in cui fuoriescono dalla cisterna, pur essendo nel punto di consegna rispondenti ai valori di parametro fissati nell'allegato I del Decreto Legislativo, non siano conformi a tali valori al rubinetto), o 10, commi 1 e 2 (relativo ai provvedimenti e alle limitazioni dell'uso nel caso in cui le acque destinate al consumo umano non corrispondono ai valori di parametro fissati a norma dell'allegato «I»,), è punita:
a) con la sanzione amministrativa pecuniaria da lire cinquecentomila a lire tre milioni se i provvedimenti riguardano edifici o strutture in cui l'acqua non è fornita al pubblico;
b) con la sanzione amministrativa pecuniaria da lire dieci milioni a lire sessanta milioni se i provvedimenti riguardano edifici o strutture in cui l'acqua è fornita al pubblico;
c) con la sanzione amministrativa pecuniaria da lire venti milioni a lire centoventi milioni se i provvedimenti riguardano la fornitura di acqua destinata al consumo umano.
L'art. 19 del D.lgs. n. 31 del 2001 dispone inoltre che la violazione degli adempimenti relativi all'obbligo di conservare per un periodo di almeno cinque anni i risultati dei controlli interni che il gestore è tenuto a fare, per l'eventuale consultazione da parte dell'amministrazione che effettua i controlli esterni (art. 7, comma 4), è punita con la sanzione amministrativa pecuniaria da euro 5.165 a euro 30.987. La disposizione cui si rinvia inoltre prevede che la violazione delle norme relative alla assicurazione di qualità del trattamento, delle attrezzature e dei materiali di cui all'art. 9 è punita con la sanzione amministrativa pecuniaria da lire venti milioni a lire centoventi milioni. Infine, fatta salva l'applicazione delle sanzioni penali per i fatti costituenti reato, la violazione delle disposizioni emanate ai sensi dell'articolo 11, comma 1, lettere f), g), h), i) ed l), che attribuiscono alla competenza statale la determinazione delle norme di principio in specifici settori, sono punite con la sanzione amministrativa da euro 5.165 a euro 30.987. Si tratta in particolare di:
f) adozione di norme tecniche per la potabilizzazione e la disinfezione delle acque;
g) l'adozione di norme tecniche per la installazione degli impianti di acquedotto nonché per lo scavo, la perforazione, la trivellazione, la manutenzione, la chiusura e la riapertura dei pozzi;
h) adozione di prescrizioni tecniche concernenti il settore delle acque destinate al consumo umano confezionate in bottiglie o in contenitori, nonché per il confezionamento di acque per equipaggiamenti di emergenza;
i) adozione di prescrizioni tecniche concernenti l'impiego delle apparecchiature tendenti a migliorare le caratteristiche dell'acqua potabile distribuita sia in ambito domestico che nei pubblici esercizi;
l) adozione di prescrizioni tecniche concernenti il trasporto di acqua destinata al consumo umano.
Il Titolo IV dello schema di decreto legislativo in esamecorrisponde al Capo IV della legge n. 36 del 1994, e disciplina l'uso industriale delle risorse idriche.
L'articolo 166 disciplina la realizzazione e la gestione delle reti a prevalente scopo irriguo, nonché degli impianti funzionali ai sistemi irrigui e di bonifica, e gli usi delle acque irrigue e di bonifica da parte dei consorzi di bonifica ed irrigazione per attività che comportino la restituzione delle acque e che siano compatibili con le successive utilizzazioni, comprese la produzione di energia idroelettrica e l'approvvigionamento di imprese produttive, in parte riprendendo le disposizioni dell'art. 27 della citata legge n. 36 ed in parte modificandole. Le principali innovazioni al riguardo sono introdotte dal:
- comma 1, che prevede che l'Autorità di bacino ("autorità competente" nella legge vigente) debba decidere in tal merito entro il termine di 120 giorni (60 in base alla norma in vigore). Tra l'altro il comma 1 del citato art. 27 della legge n. 36 dispone, diversamente dal comma 1 in esame, che il predetto termine è interrotto una sola volta qualora l'amministrazione richieda integrazioni della documentazione allegata alla domanda, decorrendo nuovamente nei limiti di trenta giorni dalla data di presentazione della documentazione integrativa;
- comma 3, in base al quale la disposizione vigente, che prevede che chiunque, non associato ai consorzi di bonifica ed irrigazione, utilizza canali consortili o acque irrigue come recapito di scarichi, anche se depurati e compatibili con l'uso irriguo, provenienti da insediamenti di qualsiasi natura, deve contribuire alle spese consortili in proporzione al beneficio ottenuto (art. 27, co.3), è fatta salva "fermo restando il rispetto della disciplina sulla qualità delle acque e degli scarichi" stabilita dallo schema di decreto in esame;
- comma 4, che prevede che il suddetto contributo è determinato dal consorzio interessato e comunicato al soggetto utilizzatore, unitamente alle modalità di versamento.
Si segnala che nel testo del comma 1 dell'articolo 166 sono presenti alcuni errori materiali.
L'articolo 167 disciplina gli usi agricoli delle acque e corrisponde, quanto all'oggetto, all'art. 28 della legge n. 36.
Il comma 1 inserisce nell'uso agricolo, quale priorità che deve essere assicurata nei periodi di siccità e di scarsità di risorse idriche - dopo l'uso umano - anche l'attività di acquacoltura, disciplinata dalla legge 5 febbraio 1992, n. 102[68], che la considera a tutti gli effetti attività imprenditoriale agricola "quando i redditi che ne derivano sono prevalenti rispetto a quelli di altre attività economiche non agricole svolte dallo stesso soggetto".
Il comma 2 prevede che quando nei bacini idrografici caratterizzati da consistenti prelievi o da trasferimenti, sia a valle che oltre la linea di displuvio, si debba procedere alla regolazione delle derivazioni, in modo da garantire il livello di deflusso necessario alla vita negli alvei sottesi e tale da non danneggiare gli equilibri degli ecosistemi interessati (art. 145, co. 3 dello schema di decreto in esame), l'amministrazione competente, sentiti i titolari delle concessioni di derivazione, assume i relativi provvedimenti. Il comma in esame non prevede, contrariamente alla norma in vigore, che tali provvedimenti debbano essere conformi alle determinazioni adottate dal Comitato dei Ministri per i servizi tecnici nazionali e gli interventi nel settore della difesa del suolo cui all'articolo 4, comma 2, della legge 18 maggio 1989, n. 183, recante "Norme per il riassetto organizzativo e funzionale della difesa del suolo".Le altre disposizioni del comma in esame riproducono testualmente le norme contenute nel citato art. 28.
L'articolo 168 disciplina l'utilizzazione delle acque destinate ad uso idroelettrico, attualmente regolata dall'art. 30 della legge n. 36, modificandone in parte il contenuto. Oggetto della suddetta disciplina, invariati rispetto al testo vigente, sono:
a) la produzione al fine della cessione di acqua dissalata conseguita nei cicli di produzione delle centrali elettriche costiere;
b) l'utilizzazione dell'acqua invasata a scopi idroelettrici per fronteggiare situazioni di emergenza idrica;
c) la difesa e la bonifica per la salvaguardia della quantità e della qualità delle acque dei serbatoi ad uso idroelettrico.
Le modifiche riguardano la competenza a disciplinare, che viene trasferita dal CIPE al Ministro dell’ambiente di concerto con il Ministro delle attività produttive. Rimane invariato l’obbligo di sentire previamente le Autorità di bacino, a cui viene aggiunto anche l’obbligo di sentire anche le regioni e le province autonome.
L'articolo 169 stabilisce che i piani, gli studi e le ricerche effettuate dalle amministrazioni dello Stato e da enti pubblici competenti nelle materie disciplinate dallo schema di decreto legislativo in esame (e non solo nelle materie di cui alla legge 18 maggio 1989, n. 183[69], come previsto dal vigente art. 31 della legge n. 36/1994), siano comunicati alle Autorità di bacino competenti per territorio ai fini della predisposizione dei piani ad essi affidati.
L'articolo 170 reca la disciplina transitoria.
Il comma 1 reca norme transitorie relative al piano di bacino distrettuale di cui all'articolo 65 del presente decreto. Tale disciplina si applica limitatamente all'adozione ed approvazione dei piani di gestione e fino alla piena operatività delle procedure per la VAS (valutazione ambientale strategica) di cui alla Parte seconda, Titolo II, del presente decreto, in particolare di cui agli artt. 7-22. Fino all'effettiva adozione delle procedure ivi stabilite si continua ad applicare l'art. 13 della legge 18 maggio 1989, n. 183 .Tale articolo stabilisce che i bacini di rilievo nazionale ed interregionale sono provvisoriamente delimitati come da cartografia allegata al D.P.C.M. 22 dicembre 1977, mentre i bacini di rilievo regionale sono delimitati dalle Regioni competenti.
Il comma 2 stabilisce che i riferimenti all'art. 1 decreto-legge n. 180 del 1998 (recante Norme per il riassetto organizzativo e funzionale della difesa del suolo" e convertito dalla legge n. 267 del 1998) contenuti nell'art. 1 del decreto-legge n. 279 del 2000 (convertito dalla legge n. 365 del 2000) sulle misure per le aree a rischio idrogeologico, dovranno riferirsi all'articolo 66 del presente decreto, alla cui scheda di lettura si rimanda.
Si ricorda che l'art. 1 del citato decreto-legge n. 180 del 1998 reca norme sulle aree a rischio idrogeologico qui di seguito brevemente riassunte, limitatamente a quelle direttamente richiamate dal decreto-legge n. 279 del 2000.
Il comma 1, del citato articolo 1 stabilisce che, entro certi limiti temporali, le autorità di bacino di rilievo nazionale e interregionale e le regioni per i restanti bacini, adottano, ove non si sia già provveduto, piani stralcio di bacino per l'assetto idrogeologico.
Il comma 1-bis stabilisce le autorità di bacino di rilievo nazionale e interregionale e le regioni per i restanti bacini, approvano, piani straordinari diretti a rimuovere le situazioni a rischio più alto, redatti anche sulla base delle proposte delle regioni e degli enti locali. I piani straordinari devono ricomprendere prioritariamente le aree a rischio idrogeologico per le quali è stato dichiarato lo stato di emergenza.
Si ricorda che l'articolo 4, comma 2, della legge n. 183 del 1989, istituisce, presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri, il Comitato dei Ministri per i servizi tecnici nazionali e gli interventi nel settore della difesa del suolo. Il Comitato presieduto dal Presidente del Consiglio dei Ministri o, su sua delega, dal Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio, è composto dai Ministri dei lavori pubblici, dell'ambiente, dell'agricoltura e delle foreste, per il coordinamento della protezione civile, per gli interventi straordinari nel Mezzogiorno, per gli affari regionali ed i problemi istituzionali e per i beni culturali e ambientali.
Il comma 2 stabilisce che il "Comitato dei ministri per i servizi tecnici nazionali e gli interventi nel settore della difesa del suolo" definisce, d'intesa con la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano, programmi di interventi urgenti, anche attraverso azioni di manutenzione dei bacini idrografici.
Parimenti, i riferimenti alla legge n. 183 del 1989, sempre contenuti nell'art. 1 del decreto-legge n. 279 del 2000, dovranno riferirsi alla sezione prima del presente decreto recante "Norme in materie di difesa del suolo e lotta alla desertificazione", ove compatibili
Le disposizioni della legge n. 183 del 1989 che qui interessano sono l'art. 17, commi 6-bis e 6-ter el'art. 4. Essi disciplinano le misure di salvaguardia, adottate dalle Autorità di bacino, in attesa dell'approvazione dei piani di bacino (art. 17) e stabiliscono l'istituzione di un Comitato di ministri (art. 4) per la descrizione del quale cfr. supra la scheda relativa al comma 1-bis dell'articolo 1 del decreto legge n. 180 del 1998.
Il comma 3 detta disposizioni sulle norme da applicare nelle more dell'emanazione di alcuni decreti previsti da vari articoli del presente decreto, alle schede dei quali si rimanda per un approfondimento.
Fino all’emanazione dei decreti di cui ai commi 4 e 5 dell’articolo 95 sulla pianificazione del bilancio idrico, nonché del decreto di cui al comma 4 dell’articolo 104 sugli scarichi nel sottosuolo e nelle acque sotterranee, continua ad applicarsi il D.M. 28 luglio 2004 che stabilisce le linee guida per la predisposizione del bilancio idrico di bacino, comprensive dei criteri per il censimento delle utilizzazioni in atto e per la definizione del minimo deflusso vitale. Tale decreto definisce quale "bilancio idrico" la comparazione, nel periodo di tempo considerato, fra le risorse idriche (disponibili o reperibili) in un determinato bacino o sottobacino, superficiale e sotterraneo, al netto delle risorse necessarie alla conservazione degli ecosistemi acquatici ed i fabbisogni per i diversi usi, esistenti o previsti (lett. a) e c)).
Fino all’emanazione del decreto di cui al comma 1 dell’articolo 99 sul riutilizzo dell'acqua, continua ad applicarsi il D.M. 12 giugno 2003, n. 185, che definisce le norme tecniche per il riutilizzo delle acque reflue domestiche, urbane ed industriali attraverso la regolamentazione delle destinazioni d'uso e dei relativi requisiti di qualità, ai fini della tutela qualitativa e quantitativa delle risorse idriche, limitando il prelievo delle acque superficiali e sotterranee, riducendo l'impatto degli scarichi sui corpi idrici recettori e favorendo il risparmio idrico mediante l'utilizzo multiplo delle acque reflue (lett. b)).
Fino all'emanazione del decreto di cui all'articolo 112, comma 2, si applica il D.M. 6 luglio 2005 (lett. d)). Il D.M. 6 luglio 2005 detta Criteri e norme tecniche generali per la disciplina regionale dell'utilizzazione agronomica delle acque di vegetazione e degli scarichi dei frantoi oleari, di cui all'articolo 38 del decreto legislativo 11 maggio 1999, n. 152.
Fino all’emanazione del decreto di cui al comma 4 dell’articolo 114 sulle dighe, continua ad applicarsi il D.M. 30 giugno 2004 che stabilisce i criteri per la redazione del progetto di gestione degli invasi. Ai sensi di tale decreto il progetto di gestione è finalizzato a definire il quadro previsionale delle operazioni di svaso, sfangamento e spurgo connesse con le attività di manutenzione dell'impianto per assicurare il mantenimento ed il graduale ripristino della capacità utile propria dell'invaso nonché a definire i provvedimenti da porre in essere durante le suddette operazioni per la prevenzione e la tutela delle risorse idriche invasate e rilasciate a valle dello sbarramento, conformemente alle prescrizioni contenute nei piani di tutela delle acque e nel rispetto degli obiettivi di qualità dei corpi idrici interessati (lett. e)).
Fino all’emanazione del decreto di cui al comma 2 dell’articolo 118 sul rilevamento delle caratteristiche del bacino idrografico, continuano ad applicarsi il D.M. 18 settembre 2002 e il D.M. 19 agosto 2003. Il primo detta disposizioni sulle modalità di divulgazione sullo stato delle acque e a tal fine dispone la trasmissione di tutte le informazioni utili dalle Regioni all'ANPA, disciplinando i criteri di redazione di tali informazioni che saranno poi trasmesse alla Commissione europea a cura del Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio. Il secondo disciplina le modalità di trasmissione delle informazioni sullo stato di qualità dei corpi idrici e sulla classificazione delle acque e a tal fine dispone la trasmissione di tutte le informazioni utili dalle Regioni all'APAT e il successivo invio al Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio (lett. f)). Lo stesso decreto ministeriale 19 agosto 2003 continua ad applicarsi fino all’emanazione del decreto di cui al comma 2 dell’articolo 123 sulla divulgazione dei piani di tutela delle acque a livello nazionale e comunitario (lett. g)).
Fino all’emanazione del decreto di cui al comma 3 dell’articolo 146 sul risparmio idrico, continua ad applicarsi il D.M. 8 gennaio 1997, n. 99 sui criteri di rilevazione delle perdite degli acquedotti e delle reti fognarie (lett. h)).
Fino all’emanazione del decreto di cui al comma dell’articolo 150, all’affidamento della concessione di gestione del servizio idrico integrato nonché all’affidamento a società miste continuano ad applicarsi il D.M. 22.11.2001 modalità di affidamento in concessione agli organi di governo degli ambiti territoriali ottimali, quali soggetti aggiudicatori, della gestione del servizio idrico integrato nonché le circolari del Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio del 6 dicembre 2004. Tale circolare fornisce chiarimenti sulla natura giuridica di quelle società di capitali con la partecipazione totalitaria di capitale pubblico cui può essere affidata direttamente la gestione delle reti, degli impianti e delle altre dotazioni patrimoniali gli enti locali, anche in forma associata, ai sensi dell'art. 113 del T.U. degli enti locali, come modificato dall'art. 14 del decreto-legge n. 269 del 2003, convertito dalla legge n. 274 del 2003. La principale peculiarità che caratterizza la suddetta società risiede nella <<legittimazione a diventare soggetto affidatario del servizio idrico integrato senza propedeutica gara europea ad evidenza pubblica>> (secondo capoverso della circolare). Tale modalità, definita comunemente in house a seguito della c.d. sentenza Teckal del 18 novembre 1999 della Corte di giustizia, si giustifica <<nel fatto che il conferimento del servizio, a causa di una motivata e comprovata ragione di interesse pubblico che obiettivamente escluda la possibilità di ricorrere alla gara, non avviene nei confronti di un soggetto giuridico sostanzialmente autonomo, bensì nei confronti di un soggetto gerarchicamente subordinato, assoggettato obbligatoriamente ad un controllo funzionale, gestionale e finanziario stringente>> (settimo capoverso della circolare) (lett. i)).
Fino all’emanazione del decreto di cui al comma 2 dell’articolo 154 sulle tariffe del servizio idrico, continua ad applicarsi il D.M. 1 agosto 1996 recante criteri definizione delle componenti di costo e la determinazione della tariffa di riferimento del servizio idrico integrato costituenti un "metodo normalizzato" (lett. j)).
Il comma 4 fornisce l'elenco delle direttive che trovano attuazione nella parte terza del presente decreto. Esse sono:
a) direttiva 75/440/CEE relativa alla qualità delle acque superficiali destinate alla produzione di acqua potabile;
b) direttiva 76/464/CEE concernente l'inquinamento provocato da certe sostanze pericolose scaricate nell'ambiente idrico;
c) direttiva 78/659/CEE relativa alla qualità delle acque dolci che richiedono protezione o miglioramento per essere idonee alla vita dei pesci;
d) direttiva 79/869/CEE relativa ai metodi di misura, alla frequenza dei campionamenti e delle analisi delle acque superficiali destinate alla produzione di acqua potabile;
e) direttiva 79/923/CEE relativa ai requisiti di qualità delle acque destinate alla molluschicoltura;
f) direttiva 80/68/CEE relativa alla protezione delle acque sotterranee dall'inquinamento provocato da certe sostanze pericolose;
g) direttiva 82/176/CEE relativa ai valori limite ed obiettivi di qualità per gli scarichi di mercurio del settore dell'elettrolisi dei cloruri alcalini;
h) direttiva 83/513/CEE relativa ai valori limite ed obiettivi di qualità per gli scarichi di cadmio;
i) direttiva 84/156/CEE relativa ai valori limite ed obiettivi di qualità per gli scarichi di mercurio provenienti da settori diversi da quello dell'elettrolisi dei cloruri alcalini;
l) direttiva 84/491/CEE relativa ai valori limite e obiettivi di qualità per gli scarichi di esaclorocicloesano;
m) direttiva 88/347/CEE relativa alla modifica dell'Allegato 11 della direttiva 86/280/CEE concernente i valori limite e gli obiettivi di qualità per gli scarichi di talune sostanze pericolose che figurano nell'elenco 1 dell'Allegato della direttiva 76/464/CEE;
n) direttiva 90/415/CEE relativa alla modifica della direttiva 86/280/CEE concernente i valori limite e gli obiettivi di qualità per gli scarichi di talune sostanze pericolose che figurano nell'elenco 1 della direttiva 76/464/CEE;
o) direttiva 91/271/CEE concernente il trattamento delle acque reflue urbane;
p) direttiva 91/676/CEE relativa alla protezione delle acque da inquinamento provocato dai nitrati provenienti da fonti agricole;
q) direttiva 98/15/CE recante modifica della direttiva 91/271/CEE per quanto riguarda alcuni requisiti dell'Allegato 1;
r) direttiva 2000/60/CE, che istituisce un quadro per l’azione comunitaria in materia di acque.
Il comma 5 chiama le Regioni a definire i tempi di adeguamento, non inferiori ai due anni, alle prescrizioni del presente decreto, compresa la definizione degli scarichi di cui al comma 2 dell'articolo 101 (alla cui scheda si rimanda), nella legislazione regionale e nei piani di tutela delle acque di cui all'articolo 121.
Il comma 6 mantiene ferma la disciplina relativa alla liberalizzazione del mercato elettrico recata dall'art. 36 della legge 24 aprile 1998, n. 128 e dal d.lgs. 16 marzo 1999, n. 79 di recepimento della direttiva 96/92/CE ("Norme comuni per il mercato interno dell'energia elettrica").
Fino a che le Regioni non emanino le rispettive discipline in tema di utilizzazione agronomica delle acque reflue degli allevamenti e delle acque provenienti dai frantoi sulla base dei criteri e delle norme tecniche generali adottati con decreto ministeriale, come stabilito dall'articolo 112 del presente decreto (cfr. relativa scheda), si continuano ad applicare le norme regionali vigenti in materia all'entrata in vigore del decreto stesso (comma 7).
Ai sensi del comma 8 dall'applicazione del presente decreto non devono derivare maggiori oneri o minori entrate a carico del bilancio dello Stato. Il comma 9 stabilisce che una quota compresa tra il 10 ed il 15 per cento degli stanziamenti previsti da disposizioni statali di finanziamento è riservata alle attività di monitoraggio e studio destinate all'attuazione della parte terza del presente decreto.
Il comma 10 mantiene ferma la disciplina relativa alla difesa del mare.
Per rimanere solo alle principale norme che hanno riguardato la difesa del mare si ricordano i seguenti provvedimenti:
· Legge 31 dicembre 1982, n. 979 "Disposizioni per la difesa del mare".
· Legge 6 dicembre 1991, n. 394 "Legge Quadro sulle Aree Protette".
· Legge 8 ottobre 1997, n. 344, "Disposizioni per lo sviluppo e la qualificazione degli interventi e dell'occupazione in campo ambientale".
· Legge 9 dicembre 1998, n. 426, "Nuovi interventi in campo ambientale".
· Legge 23 marzo 2001, n. 93. "Disposizioni in campo ambientale".
· Legge 11 ottobre 2001, n. 391, "Ratifica ed esecuzione dell'Accordo relativo alla creazione nel Mediterraneo di un santuario per i mammiferi marini, fatto a Roma il 25 novembre 1999".
· Art. 8 e art. 9 Legge 31 luglio 2002, n. 179, "Disposizioni in materia ambientale"
Il comma 11 stabilisce che nelle more dell'emanazione dei decreti di attuazione della parte terza del presente provvedimento rimangono in vigore le norme di attuazione anche delle norme abrogate.
I commi 12 e 13 individuano la copertura finanziaria per la costituzione rispettivamente della "Sezione per la vigilanza sulle risorse idriche" e della "Sezione per la vigilanza sui rifiuti" che costituiscono articolazioni del consiglio dell'Autorità di vigilanza sulle risorse idriche e sui rifiuti istituita dall'articolo 159 del presente decreto.
In particolare, per la Sezione costituita per le risorse idriche vengono utilizzate le risorse di cui all'art. 22, comma 6 della legge 5 gennaio 1994, n. 36 ("Disposizioni in materia di risorse idriche"). Tali risorse erano stanziate per la costituzione ed il funzionamento del Comitato per la vigilanza sull'uso delle risorse idriche, di cui l'istituenda Autorità qui sopra citata prende il posto. L'onere, che comprendeva anche le spese di istituzione e funzionamento dell'Osservatorio dei servizi idrici, veniva quantificato dall'art. 22, comma 6, della suddetta legge n. 36, in 1.750 milioni di lire annui (pari a euro 903.813 circa). A tale onere si provvede mediante riduzione dello stanziamento iscritto al capitolo 1124 dello stato di previsione del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti (allora del Ministero dei lavori pubblici) per l'anno 1993 e corrispondenti capitoli per gli esercizi successivi (comma 13).
Per la Sezione costituita per i rifiuti lo stesso comma 14 fissa un onere pari a 1.240.000 euro annui da aggiornare in relazione al tasso di inflazione. A tale somma provvede il Consorzio Nazionale Imballaggi di cui all'articolo 224 del presente decreto (cfr relativa scheda). Dette somme sono versate dal Consorzio Nazionale Imballaggi all’entrata del bilancio dello Stato per essere riassegnate con decreto del Ministro dell’economia e delle finanze ad apposito capitolo dello stato di previsione del Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio.
Il comma 14 prevede che, in sede di prima applicazione, decorre dalla data di entrata in vigore della parte terza del presente decreto il termine di 180 giorni per l'adozione con decreto ministeriale dei criteri e delle norme tecniche generali relativi all'utilizzo agronomico degli effluenti di allevamento e delle acque di vegetazione dei frantoi
L'articolo 171 fissa, al comma 1, i canoni annui applicabili a decorrere dal 1° gennaio 2002 per le grandi derivazioni in corso di sanatoria ricadenti nel territorio della Regione Siciliana. Si ricorda brevemente che l'articolo 96, comma 6 del presente decreto (alla cui scheda comunque si rimanda) prevede, per le derivazioni o utilizzazioni di acqua pubblica in tutto o in parte abusivamente in atto, la presentazione di domanda di concessione in sanatoria entro il 30 giugno 2006 previo pagamento della sanzione prevista dalla normativa vigente aumentata di un quinto. Tale norma si applica nelle more della devoluzione per successione alla Regione Siciliana del demanio idrico prevista esplicitamente dallo Statuto della Regione all'art. 32.
I canoni sono fissati come segue:
a) per ogni modulo di acqua assentito ad uso irrigazione, euro 40,00, ridotte alla metà se le colature ed i residui di acqua sono restituiti anche in falda;
b) per ogni ettaro del comprensorio irriguo assentito, con derivazione non suscettibile di essere fatta a bocca tassata, euro 0,40;
c) per ogni modulo di acqua assentito per il consumo umano, euro 1.750,00, minimo euro 300,00;
d) per ogni modulo di acqua assentito ad uso industriale, euro 12.600,00 minimo euro 1.750,00. Il canone è ridotto del 50 per cento se il concessionario attua un riuso delle acque reimpiegando le acque risultanti a valle del processo produttivo o di una parte dello stesso o, ancora, se restituisce le acque di scarico con le medesime caratteristiche qualitative di quelle prelevate. Le disposizioni di cui al comma 5 dell'art. 12 del decreto-legge 27 aprile 1990, n. 90, convertito, con modificazioni, dalla legge 26 giugno 1990, n. 1651, non si applicano per l’uso industriale;
e) per ogni modulo di acqua assentito per la piscicoltura, l'irrigazione di attrezzature sportive e di aree destinate a verde pubblico, euro 300,00, minimo euro 100,00;
f) per ogni kilowatt di potenza nominale assentita, per le concessioni di derivazione ad uso idroelettrico euro 12,00, minimo euro 18,00;
g) per ogni modulo dì acqua assentita ad uso igienico ed assimilati, concernente l'utilizzo dell'acqua per servizi igienici e servizi antincendio, ivi compreso quello relativo ad impianti sportivi, industrie e strutture varie qualora la concessione riguardi solo tale utilizzo, per impianti di autolavaggio e lavaggio strade e comunque per tutti gli usi non previsti dalle precedenti lettere, euro 900,00.
Ai sensi dell'articolo 172 sulle gestioni esistenti, le Autorità di ambito che abbiano approvato il Piano senza scegliere la forma di gestione e senza aver proceduto alle procedure di affidamento della stessa (cfr. schede degli articoli 149 e 150) sono tenute ad assolvere tali adempimenti entro sei mesi dall'entrata in vigore della parte terza del presente decreto (comma 1). Poiché l'articolo 113, comma 15-bis del D.lgs. n. 267 del 2000 prevede che le concessioni rilasciate con procedure diverse dall'evidenza pubblica cessano comunque entro e non oltre la data del 31 dicembre 2006, senza necessità di apposita deliberazione dell'ente affidante (a tale proposito cfr. supra art. 170, comma 3, lett. i)), entro 60 giorni dalla scadenza del suddetto l'Autorità ambito dovrà disporre i nuovi affidamenti secondo i criteri stabiliti dall'articolo 150 del presente decreto (comma 2). In caso di mancato adempimento degli obblighi qui sopra previsti, i poteri sostitutivi vengono esercitati dalla Regione che nomina un commissario ad acta. In caso di mancato adempimento, i poteri sostitutivi spettano al Presidente del Consiglio dei ministri su proposta del Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio (comma 3). Ai sensi del comma 4, alla scadenza o alla anticipata risoluzione delle gestioni in essere ai sensi del precedente comma 2, i beni e gli impianti delle imprese già concessionarie sono trasferiti all'ente locale concedente. Il comma 5 prevede che gli impianti di acquedotto, fognatura e depurazione gestiti da Consorzi di comuni, province, camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura e da altri enti interessati (tali consorzi essendo previsti dal TU delle leggi sugli interventi nel Mezzogiorno approvato con d.P.R. n. 218 del 1978) sono trasferiti in concessione d'uso al gestore del servizio idrico integrato dell'ATO di pertinenza. Tale trasferimento deve avvenire entro il 31 dicembre 2006 secondo un piano adottato con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, su proposta del Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio sentite le Regioni, le province e gli enti interessati.
L'articolo 173 reca disposizione circa il trasferimento di personale ai nuovi gestori del servizio idrico integrato. Le modalità di tale trasferimento dovranno essere fissate con legge regionale. Il trasferimento avviene, garantendo il diritto di opzione, nella posizione giuridica rivestita dal personale stesso presso l'ente di provenienza (dalle amministrazioni comunali, dalle società nascenti dalla trasformazione di consorzi pubblici o e di aziende speciali e di altri enti pubblici già adibiti ai servizi idrici alla data del 31 dicembre 2001). Nel caso di passaggio di dipendenti di enti pubblici e di ex aziende municipalizzate o consortili si applica l'art. 2112 del codice civile sul trasferimento d'azienda.
L'articolo 174 contiene ulteriori disposizioni di attuazione e di esecuzione.
Fino all'emanazione da parte del Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio delle disposizioni di attuazione della disciplina sulla gestione delle risorse idriche, continua ad applicarsi il D.P.C.M. 4 marzo 1996 recante "Disposizioni in materia di risorse idriche" (comma 1).
Il comma 2 dispone che il Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio, sentita l’Autorità di vigilanza e la Conferenza Stato-Regioni, entro un anno dalla data di entrata in vigore della parte terza del del presente decreto, nell’ambito di apposite intese istituzionali, predispone uno specifico programma per il raggiungimento, senza ulteriori oneri a carico del Ministero, dei livelli di depurazione, così come definiti dalla direttiva 91/271/CEE. Tale direttiva concerne la raccolta, il trattamento e lo scarico delle acque reflue urbane, nonché il trattamento e lo scarico delle acque reflue originate da alcuni settori industriali. Se del caso, il Ministero potrà attivare i poteri sostitutivi di cui all'articolo 152 negli ATO ove sussistano agglomerati con procedure di infrazione a carico per violazione della suddetta direttiva.
L'articolo 175 contiene l'elenco delle norme abrogate:
- l'articolo 42, comma terzo, del regio decreto 11 dicembre 1933, n. 1775;
- la legge 10 maggio 1976, n. 319;
- la legge 8 ottobre 1976, n. 690, di conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 10 agosto 1976, n. 544;
- la legge 24 dicembre 1979, n. 650;
- la legge 5 marzo 1982, n. 62, di conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 30 dicembre 1981, n. 801;
- il decreto del Presidente della Repubblica 3 luglio 1982, n. 515;
- la legge 25 luglio 1984, n. 381 di conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 29 maggio 1984, n. 176;
- gli articoli 5, 6 e 7 della legge 24 gennaio 1986 n. 7, di conversione, con modificazioni, del decreto-legge 25 novembre 1985, n. 667;
- gli articoli 4, 5, 6 e 7 del decreto del Presidente della Repubblica 24 maggio 1988, n. 236;
- la legge 18 maggio 1989, n. 183;
- gli articoli 4 e 5 della legge 5 aprile 1990, n. 71 di conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 5 febbraio 1990, n. 16;
- l'articolo 32 della legge 9 gennaio 1991, n. 9, e successive modificazioni;
- il decreto legislativo 25 gennaio 1992, n. 130;
- il decreto legislativo 27 gennaio 1992, n. 131;
- il decreto legislativo 27 gennaio 1992, n. 132;
- il decreto legislativo 27 gennaio 1992, n. 133;
- l’articolo 12 del decreto legislativo 12 luglio 1993, n. 275;
- l’articolo 2, comma 1, della legge 6 dicembre 1993, n. 502, di conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 9 ottobre 1993, n. 408;
- la legge 5 gennaio 1994, n. 36, ad esclusione dell’articolo 22, comma 6;
- l’articolo 9-bis della legge 20 dicembre 1996, n. 642, di conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 23 ottobre 1996, n. 552;
- la legge 17 maggio 1995, n. 172, di conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 17 marzo 1995, n. 79;
- l’articolo 1 del decreto-legge 11 giugno 1998, n. 180, convertito, con modificazioni, dalla legge 3 agosto 1998, n. 267;
- il decreto legislativo 11 maggio 1999, n. 152 come modificato dal decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 258;
- l’articolo 1-bis del decreto-legge 12 ottobre 2000, n. 279, convertito, con modificazioni, dalla legge 11 ottobre 2000, n. 365.
La norma finale, contenuta nell'articolo 176, specifica che le disposizioni di cui alla parte terza del decreto costituiscono principi fondamentali concernenti materie di legislazione concorrente e sono applicabili anche alle Regioni a statuto speciale e alle Province autonome compatibilmente con le norme dei rispettivi statuti. Restano comunque ferme le norme relative all'utilizzazione delle acque pubbliche ed in materia di opere idrauliche previste dallo Statuto della Regione Trentino-Alto Adige.
A tale riguardo si ricorda che lo Statuto attribuisce alle Province autonome la potestà legislativa in materia di uso di acque pubbliche e per le opere idrauliche di terza quarta e quinta categoria (articoli 8 e 9). L'art. 14 stabilisce che le Province vengano sentite obbligatoriamente per le opere idrauliche di prima e seconda categoria. Le diverse categorie di opere idrauliche sono fissate dal R.D. 25 luglio 1904, n. 523 (T.U. sulle opere idrauliche). L'art. 71, infine, stabilisce che per le concessioni di grande derivazione di acque pubbliche lo Stato ceda a favore della Provincia i nove decimi dell’importo del canone annuo.
Le principali disposizioni in materia di affidamento del servizio idrico integrato e di tariffazione sono riportate agli articoli 150 e 154 dello schema di decreto e all’articolo 170 (per quanto riguarda la disciplina transitoria, particolarmente, al comma 3, lettera j).
Occorre valutare – in raffronto alla normativa oggi vigente – quali appaiono essere le principali innovazioni.
In materia di modalità di affidamento, una prima lettura dell’articolo 150 sembra limitarsi a richiamare la disciplina oggi vigente dell’art. 113 del TUEL (decreto legislativo n. 267 del 2000), come recentemente riformata, dapprima dall’art. 35 della legge 448 del 2001, e successivamente dall’art. 14 del decrerto legge n. 269 del 2003 e poi – ancora – dall’art. 4, comma 234 della legge finanziaria per il 2004[70] (e su aspetti non riguardanti la materia qui trattata, anche dalla stessa legge delega per il riordino della normativa ambientale: art. 1, comma 48, della legge n. 308 del 2004). In realtà le norme introdotte recano rilevanti innovazioni.
Occorre preliminarmente ricordare che ai fini della interpretazione del rapporto fra disciplina generale (di cui all’art 113) e discipline di settore, deve essere considerata sia la dizione del comma 1 dello stesso art. 113 - nel quale le norme in esso contenuto si autodichiarano (con una certa contraddittorietà) “inderogabili e integrative delle discipline di settore” – sia la dizione del successivo comma 5, ove si dispone che “l’erogazione del servizio avviene secondo le discipline di settore e nel rispetto della normativa dell’Unione europea”, pur proseguendo poi in una precisa elencazione delle tre note modalità di affidamento (a società di capitali, con gara, a società a capitale misto con scelta del socio privato attraverso gara e affidamento in house).
Infine, sempre al fine di chiarire (ma il termine forse non appare del tutto appropriato) l’intreccio fra norme generali e norme di settore, il comma 5-bis aggiunge che “Le normative di settore, al fine di superare assetti monopolistici, possono introdurre regole che assicurino concorrenzialità nella gestione dei servizi da esse disciplinati prevedendo, nel rispetto delle disposizioni di cui al comma 5, criteri di gradualità nella scelta della modalità di conferimento del servizio”.
Se questo è il quadro generale, dal quale si evince un ampio grado di libertà delle normative di settore di discostarsi dal modello generale recato dall’art. 113, venendo all’esame delle norme dell’art. 150, si riscontrano i seguenti aspetti:
1) La scelta della forma di affidamento del servizio da parte dell’Autorità d’ambito sembrerebbe essere (a discrezione della stessa) fra una delle tre forme indicate dal comma 5 dell’art. 113. Tuttavia, il comma 3 reca due importanti limitazioni:
a. Il ricorso all’affidamento in house può essere ammesso solo “qualora ricorrano obiettive ragioni tecniche od economiche (e tale inciso sembra coerente con le indicazioni di fonte europea, sia normative, sia giurisprudenziali, sia di indirizzo);
b. Viene posta una limitazione all’ipotesi di affidamento a società a capitale misto con scelta del socio privato scelto con gara (ipotesi sub lettera b) del comma 5 dell’art. 113). L’Autorità d’ambito potrà infatti ricorrere a tale forma “purchè il socio privato sia stato scelto, prima dell’affidamento, con gara da espletarsi con le modalità di cui al comma 2”.
In merito a quest’ultimo punto, l’inciso recato in fondo al comma 3, introduce una novità rispetto al regime attualmente esistente (che non prevede questa limitazione ed ammette anche l’ipotesi in cui il socio privato sia scelto dopo l’affidamento).
Durante le audizioni è stato segnalato (Confservizi, Federutility) che tale innovazione normativa potrebbe determinare la cessazione ex lege di gestioni oggi affidate a società quotate in borsa.
Il comma 2 dell’articolo 150 fa poi rinvio alle modalità e ai criteri di espletamento delle gare che vengono indicati al comma 7 dell’art. 113, e che sono i seguenti: rispetto degli standard qualitativi, quantitativi, ambientali, di equa distribuzione sul territorio e di sicurezza definiti dalla competente Autorità di settore o, in mancanza di essa, dagli enti locali. Aggiudicazione sulla base del migliore livello di qualità e sicurezza e delle condizioni economiche e di prestazione del servizio, dei piani di investimento per lo sviluppo e il potenziamento delle reti e degli impianti, per il loro rinnovo e manutenzione, nonché dei contenuti di innovazione tecnologica e gestionale.
Si ricorda – anche ad integrazione di quanto sopra riportato in merito ai rapporti fra disciplina generale e disciplina di settore – che l’ultimo periodo del comma 7 precisa che “Le previsioni di cui al presente comma devono considerarsi integrative delle discipline di settore”.
In sintesi, sembra che le norme in commento – recate dall’art. 150 – siano mirate esattamente alle finalità ipotizzate dal comma 5-bis dell’art. 113, laddove si prevede che le discipline di settore possano introdurre “regole che assicurino la concorrenzialità nella gestione dei servizi da esse disciplinati”
Occorre tuttavia ricordare in proposito che la sentenza n. 274 della Corte costituzionale – che rappresenta il principale riferimento giurisprudenziale successivo al Titolo V in materia di riparto di competenze Stato/Regioni nella materia dei servizi pubblici locali - ha disposto che “l’art. 113, comma 7, pone in essere una illegittima compressione dell'autonomia regionale, poiché risulta ingiustificato e non proporzionato rispetto all'obiettivo della tutela della concorrenza l'intervento legislativo statale”.
Per quanto riguarda la tariffazione, l’art. 154 richiama in buona parte i contenuti del vigente art. 13 della legge n. 36 del 1994 con le seguenti differenze:
1) a carico della tariffa viene posta “una quota parte dei costi di funzionamento dell’Autorità d’ambito” (ma non ne vengono specificate né la misura, né i criteri di terminazione);
2) nella determinazione della tariffa viene affiancato, al principio generale della copertura integrale dei costi di investimento e di esercizio, anche il principio “chi inquina paga” (ma non appare agevole intendere il senso di tale inserimento);
3) le componenti di costo della tariffa sono definite non più dal Ministro dei lavori pubblici, di intesa con il Ministro dell'ambiente, su proposta del comitato di vigilanza sulle risorse idriche, sentite le Autorità di bacino di rilievo nazionale, nonché la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano (secondo la previsione dell’attuale comma 3 dell’art. 13 della legge n. 36), ma con decreto del Ministro dell’ambiente, su proposta della neoistituenda Autorità di vigilanza sui servizi idrici e sui rifiuti.
Infine, l’art. 170, comma 3, lettera j) dispone - in via transitoria - che fino all’emanazione del decreto di cui al comma 2 dell’articolo 154 sulle tariffe del servizio idrico, continua ad applicarsi il D.M. 1 agosto 1996 recante criteri definizione delle componenti di costo e la determinazione della tariffa di riferimento del servizio idrico integrato costituenti un "metodo normalizzato".
A commento generale delle norme recate negli articoli 150 e 154, si osserva che esse richiederebbero un miglior coordinamento normativo con alcune delle disposizioni recate dall’art. 113. In particolare, con il comma 15-bis, che reca disposizioni transitorie[71], e la cui implicita disapplicazione (o meno) – a seguito dell’entrata in vigore delle norme in commento – potrebbe essere oggetto di dubbi interpretativi.
Data la complessità dell’intervento normativo operato in questa parte dello schema di decreto, ai fini di una migliore lettura delle norme si è scelto di raggruppare il commento per argomenti, privilegiando quelli nei quali le innovazioni sono apparse più incisive.
Lo schema di decreto in esame contiene una serie di disposizioni riguardanti la nozione di rifiuto. Si tratta di disposizioni che attraverso le modifiche a tale nozione, incidono in modo significativo sull’intera disciplina della materia, in quanto – com’è noto – l’inclusione di un materiale o di una sostanza nell’ambito della nozione di rifiuto fa scattare una serie di obblighi e divieti nei confronti dei produttori, dei detentori e dei trasportatori di rifiuti.
Si ricorda che tale tema è stato oggetto di numerosi interventi normativi nel corso della XIV Legislatura (che verranno richiamati nella presente scheda), e che – già nel corso della XIII Legislatura - il Parlamento ha esaminato (senza peraltro pervenire all’approvazione definitiva) una proposta di legge recante Norme di interpretazione autentica della definizione di rifiuto di cui all'articolo 6, comma 1, lettera a), del decreto legislativo 5 febbraio 1997 n. 22. Modifiche al medesimo decreto legislativo n. 22 del 1997[72].
Prima di esaminare tali disposizioni, occorre illustrare brevemente il quadro attualmente vigente accennando anche alla giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea.
La direttiva 75/442/CEE del 15 luglio 1975 del Consiglio in materia di rifiuti, come modificata dalla direttiva 91/156/CEE del Consiglio del 18 marzo 1991, ha fornito una definizione della nozione di rifiuto.
Ai sensi della direttiva sopra menzionata (articolo 1 lettera a), si intende per rifiuto qualsiasi sostanza od oggetto che rientri nelle categorie riportate nell'allegato I e di cui il detentore si disfi o abbia deciso o abbia l'obbligo di disfarsi.
L'articolo 1 a) della direttiva è stato trasposto nella legislazione italiana dall'articolo 6, comma 1 - lettera a), del decreto legislativo 5 febbraio 1997, n. 22 (cosiddetto decreto Ronchi), secondo cui «è rifiuto qualsiasi sostanza od oggetto che rientra nelle categorie riportate nell'Allegato A e di cui il detentore si disfi o abbia deciso o abbia l'obbligo di disfarsi».
Il primo elemento essenziale della nozione di rifiuto è costituito dall'appartenenza ad una delle categorie di materiali e sostanze individuate nel citato Allegato A); tale elenco, tuttavia, ha un valore puramente indicativo, poiché lo stesso Allegato A), Parte I, comprende voci residuali capaci di includere qualsiasi sostanza od oggetto, da qualunque attività prodotti.
In particolare, la definizione della nozione di “residui di produzione e di consumo” ha suscitato numerosi dubbi di carattere interpretativo.
Rilievo primario assume inoltre anche il secondo elemento della definizione, ovvero la condotta del detentore, incentrata sulla nozione di disfarsi.
Occorre in proposito ricordare che sia la direttiva 75/442 che il decreto legislativo n.22 del 1997 specificano rispettivamente agli Allegati II e B- C quali sono le attività da qualificare come operazioni di smaltimento e di recupero. Tali attività costituiscono le attività principali attraverso le quali i soggetti obbligati adempiono ai loro obblighi di gestione dei rifiuti.
In tale contesto, incentrato su una serie di definizioni elastiche, la definizione del concetto di rifiuto può dipendere molto dal modo in cui viene interpretato il significato delle tre nozioni sopra specificate ( cioè “residui di produzione e di consumo”, “ disfarsi” e “operazioni di recupero e smaltimento”) non separatamente l’una dall’altra ma una insieme all’altra In questa direzione si è recentemente mosso il legislatore italiano con l’articolo 14 del decreto-legge n. 138 del 2002 e con i commi 25-27 e 29 della legge n. 308 del 2004(“legge delega in materia ambientale”).
Più in particolare, la nozione di rifiuto, in particolare l'atteggiamento del detentore, è stato oggetto di interpretazione autentica con l'articolo 14 del decreto legge 8 luglio 2002, n. 138, convertito nella legge 8 agosto 2002, n. 178 secondo il quale per:
a) «si disfi» deve intendersi: qualsiasi comportamento attraverso il quale in modo diretto o indiretto una sostanza, un materiale, un bene sono avviati o sottoposti ad attività di smaltimento o di recupero, secondo gli allegati B) e C) del decreto legislativo n. 22/1997;
b) «abbia deciso» deve intendersi: la volontà di destinare ad operazioni di smaltimento e di recupero, secondo gli allegati B) e C) del decreto legislativo n. 22/1997, sostanze, materiali o beni;
c) «abbia l'obbligo» deve intendersi: l'obbligo di avviare un materiale, una sostanza o un bene ad operazioni di recupero o smaltimento, stabilito da una disposizione di legge o da un provvedimento delle pubbliche autorità o imposto dalla natura stessa del materiale, della sostanza e del bene o dal fatto che i medesimi siano compresi nell'elenco dei rifiuti pericolosi di cui all'Allegato D) del decreto legislativo n. 22/1997 (che riproduce la lista dei rifiuti che, a norma della direttiva n. 91/689/CEE, sono classificati come pericolosi).
La stessa normativa prevede, inoltre –per quel che riguarda le definizione del concetto di “residui di produzione e di consumo”-, che le fattispecie di cui alle lettere b) e c) non ricorrono – e non si è quindi in presenza di rifiuti- se i beni o le sostanze o i materiali residuali di produzione o di consumo:
1) possono essere e vengono effettivamente ed oggettivamente riutilizzati nel medesimo o in analogo o diverso ciclo produttivo o di consumo, senza subire alcun intervento preventivo di trattamento e senza recare pregiudizio all'ambiente;
2) possono essere e sono effettivamente e oggettivamente riutilizzati nel medesimo o in analogo o diverso ciclo produttivo o di consumo, dopo aver subito un trattamento preventivo, senza che si renda necessaria alcuna operazione di recupero tra quelle individuate nell'Allegato C) del decreto legislativo n. 22/1997.
Il comma 25 della legge n. 308 del 2004 prevede invece che in attesa di una revisione complessiva della normativa sui rifiuti che disciplini in modo organico la materia, alla lettera a) del comma 29, sono individuate le caratteristiche e le tipologie dei rottami che, derivanti come scarti di lavorazione oppure originati da cicli produttivi o di consumo, sono definibili come materie prime secondarie per le attività siderurgiche e metallurgiche, nonché le modalità affinché gli stessi siano sottoposti al regime delle materie prime e non a quello dei rifiuti.
Il comma 26 prevede che fermo restando quanto disposto dall'articolo 14 del decreto-legge 8 luglio 2002, n. 138, convertito, con modificazioni, dalla legge 8 agosto 2002, n. 178, sono sottoposti al regime delle materie prime e non a quello dei rifiuti, se rispondenti alla definizione di materia prima secondaria per attività siderurgiche e metallurgiche di cui al comma 1, lettera q-bis), dell'articolo 6 del decreto legislativo 5 febbraio 1997, n. 22, introdotta dal comma 29, i rottami di cui al comma 25 dei quali il detentore non si disfi, non abbia deciso o non abbia l'obbligo di disfarsi e che quindi non conferisca a sistemi di raccolta o trasporto di rifiuti ai fini del recupero o dello smaltimento, ma siano destinati in modo oggettivo ed effettivo all'impiego nei cicli produttivi siderurgici o metallurgici, mentre il comma 27 prevede che i rottami ferrosi e non ferrosi provenienti dall'estero sono riconosciuti a tutti gli effetti come materie prime secondarie derivanti da operazioni di recupero se dichiarati come tali da fornitori o produttori di Paesi esteri che si iscrivono all'Albo nazionale delle imprese che effettuano la gestione dei rifiuti con le modalità specificate al comma 28.
Il comma 29, aggiungendo la lettera q-bis) all’articolo 6 comma 1 del decreto legislativo 5 febbraio 1997, n. 22, dà la seguente definizione di materia prima secondaria per attività siderurgiche e metallurgiche: rottami ferrosi e non ferrosi derivanti da operazioni di recupero e rispondenti a specifiche CECA, AISI, CAEF, UNI, EURO o ad altre specifiche nazionali e internazionali, nonché i rottami scarti di lavorazioni industriali o artigianali o provenienti da cicli produttivi o di consumo, esclusa la raccolta differenziata, che possiedono in origine le medesime caratteristiche riportate nelle specifiche sopra menzionate
Pertanto, nel caso previsto dai commi 25, 26 e 29 della legge n. 308 sembra essere requisito fondamentale per il riconoscimento ai rottami ferrosi della natura di materia prima secondaria e quindi non di rifiuto la circostanza che degli stessi il detentore non si disfi o non abbia deciso o non abbia l’obbligo di disfarsi.
Per quel che riguarda la nozione di rifiuto nella giurisprudenza della Corte di Giustizia dell'Unione Europea, si ricorda che è stato, in primo luogo, osservato da parte della Corte di giustizia dell’Unione europea che l'ambito di applicazione della nozione di rifiuto dipende dal significato del termine disfarsi (sentenza 18 dicembre 1997, Inter-Environment Wallonie) e che essa è da ritenersi comprensiva delle sostanze e degli oggetti suscettibili di riutilizzo economico (sentenza 28 marzo 1990, Gessoso e Zanetti).
In tale ultima direzione si muove anche la sentenza 25 giugno 1997 “Tombesi” che ha stabilito che la nozione di rifiuto, ai sensi delle direttive Cee, “(…) non deve intendersi nel senso che essa esclude le sostanze e gli oggetti suscettibili di riutilizzazione economica. Una normativa nazionale che adotti una definizione della nozione di rifiuti che esclude le sostanze e gli oggetti suscettibili di riutilizzazione economica non è compatibile (…)”
Con la sentenza “Arco” del 15 giugno 2000 la Corte ha tuttavia precisato che non contrasta con le finalità della direttiva 75/442 l'ipotesi secondo cui un bene, un materiale o una materia prima, che derivi da un processo di fabbricazione o di estrazione che non è principalmente destinato a produrlo, possa essere dall'impresa sfruttato o commercializzato a condizioni per lei favorevoli, in un processo successivo, senza operare trasformazioni preliminari e ciò perché si tratterebbe non tanto di un residuo quanto di un sottoprodotto, del quale l'impresa non ha intenzione di disfarsi ai sensi dell'articolo 1, lettera a), comma 1, della direttiva 75/442.
Sintetizzando la complessa (e non priva di ambiguità) giurisprudenza della corte europea, sembra potersi concludere che non si applica la normativa sui rifiuti, a condizione che il riutilizzo di un bene, di un materiale o di una materia prima sia non solo eventuale, ma certo, senza trasformazione preliminare e nel corso del processo di produzione.
La sentenza interpretativa della Corte di Giustizia delle Comunità europee 11 novembre 2004 C 457/02 confermerebbe tale ultima impostazione.
La sentenza in commento è stata adottata dalla Corte di giustizia della Comunità europea in base all’articolo 234 del Trattato CE. In base a tale norma, la Corte di giustizia è competente a pronunciarsi in via pregiudiziale sulla interpretazione del Trattato, sulla validità e sulla interpretazione degli atti compiuti dalle istituzioni della Comunità e dalla BCE e sull’interpretazione degli statuti degli organismi creati con atti del Consiglio, quando sia previsto dagli Statuti stessi.
Tale articolo prevede inoltre che, qualora una delle questioni citate sia sollevata davanti ad una giurisdizione di uno degli stati membri, tale giurisdizione può, qualora reputi necessaria per emanare la sua sentenza una decisione su questo punto, domandare alla Corte di giustizia di pronunciarsi sulla questione.
Il giudizio dal quale trae origine la decisione della Corte riguarda l’attività di trasporto di rottami ferrosi, configurata dalla pubblica accusa (il Tribunale penale di Terni) nel giudizio penale come attività di gestione di rifiuti non autorizzata ai sensi dell’articolo 51 comma 4 e 1 lettera a) del decreto legislativo n. 22 del 1997.
La sentenza della Corte, in particolare, trae impulso dalla decisione del Tribunale penale di Terni, di sottoporre al giudizio della Corte due questioni pregiudiziali: a) l’interpretazione della direttiva del Consiglio 75/442/CE in tema di gestione dei rifiuti; b) la compatibilità della normativa italiana con la detta normativa comunitaria.
Più in particolare, la Corte nella sentenza in questione ha statuito che “l’interpretazione autentica della nozione di rifiuto” contenuta nell’articolo 14 del decreto-legge 8 luglio 2002, n. 138, non può essere intesa nel senso che tutti i residui di consumo o di produzione possono essere esclusi dalla nozione di rifiuto per il semplice fatto che essi possono “eventualmente” essere riutilizzati in un ciclo di produzione o di consumo.
La Corte ha invece stabilito che i residui di produzione non sono rifiuti solo nel caso in cui essi sono riutilizzati in maniera certa e senza trasformazione nel corso di un medesimo processo di produzione o di utilizzazione. Si deve quindi trattare di un sottoprodotto. Tale circostanza esclude – fra l’altro - che i residui di consumo possano non essere considerati rifiuti.
Secondo la sentenza in esame, quindi, i materiali oggetto del riutilizzo non dovrebbero essere sottoposti ad alcun trattamento preventivo. A tal fine, appare insufficiente, a giudizio della Corte, l'indicazione contenuta nell’articolo 14 del citato decreto che invece fa riferimento alle sole operazioni di recupero configurate dall’Allegato II B della direttiva 75/442/CE (nel senso di comprendere nella nozione di rifiuto solo quei materiali che fossero stati sottoposti a operazioni preventive configurabili come operazioni di recupero).
La sentenza della Corte ha chiarito, in particolare, che non necessariamente il termine disfarsi coincide con lo smaltimento o il recupero, dato che altrimenti non sarebbero rifiuti materiali “abbandonati”, o lo sarebbero altri, come ad esempio la nafta utilizzata come combustibile, che, pur essendo sottoposti a smaltimento o a recupero, non sono certamente da considerare rifiuti.
Secondo la Corte, i rottami ferrosi sono quindi da qualificare come rifiuti, in quanto essi non derivano da un processo produttivo, sono suscettibili di trattamento e non sono riutilizzati in maniera certa nell’ambito di uno stesso processo produttivo.
In sintesi, sembra che la definizione delle nozioni di “recupero”, ”smaltimento”, “residui di produzione e di consumo”, “materia prima secondaria”, “sottoprodotto”, “disfarsi” risultino decisive al fine di annettere a un materiale la natura di “rifiuto” e che inoltre la definizione di ognuno di questi termini in connessione con gli altri può determinare effetti diversi a seconda del tipo di connessione instaurata.
Occorre innanzitutto ricordare che l’articolo 181, comma 4,dello schema di decreto (corrispondente all’articolo 4 del decreto “Ronchi”) contiene norme riguardanti la stipula di accordi di programma riguardanti il riutilizzo, il reimpiego, il riciclaggio ed altre forme di recupero dei rifiuti e norme che tendono a definire il rapporto tra le operazioni di recupero e la cessazione della natura di rifiuto di un materiale soggetto ad un’operazione di recupero.
Tali norme ampliano in modo significativo l’ambito di applicazione degli accordi di programmi (strumento peraltro già previsto dalla normativa vigente). Tuttavia, occorre ricordare che norme di tale impianto non rappresentano (di per sé) una violazione delle direttive comunitarie, in quanto l’art. 11 della direttiva 75/442/CEE, come modificata dalla direttiva 91/156/CEE, prevede che gli Stati membri possano disporre la dispensa autorizzatoria del recupero agevolato. L’articolo citato della direttiva prevede che “possono essere dispensati dall'autorizzazione di cui all'articolo 9 o all'articolo 10:
a) gli stabilimenti o le imprese che provvedono essi stessi allo smaltimento dei propri rifiuti nei luoghi di produzione, e
b) gli stabilimenti o le imprese che recuperano rifiuti.
Tale dispensa si può concedere solo qualora si verifichino le seguenti due circostanze:
§ le autorità competenti abbiano adottato per ciascun tipo di attività norme generali che fissano i tipi e le quantità di rifiuti e le condizioni alle quali l'attività può essere dispensata dall'autorizzazione;
§ i tipi o le quantità di rifiuti ed i metodi di smaltimento o di recupero siano tali da rispettare le condizioni imposte all'articolo 4”.
Si ricorda che già ora, l’art. 4, comma 4, del “decreto Ronchi” prevede che “Le autorità competenti promuovono e stipulano accordi e contratti di programma con i soggetti economici interessati al fine di favorire il riutilizzo, il riciclaggio ed il recupero dei rifiuti, con particolare riferimento al reimpiego di materie prime e di prodotti ottenuti dalla raccolta differenziata con la possibilità di stabilire agevolazioni in materia di adempimenti amministrativi nel rispetto delle norme comunitarie ed il ricorso a strumenti economici”.
In attuazione di tale norma (introdotta con il cd “ronchi bis”, d.lgs. 389 del 1997) è stato emanato il DM 8 maggio 2003, n. 203, recante Norme affinché gli uffici pubblici e le società a prevalente capitale pubblico coprano il fabbisogno annuale di manufatti e beni con una quota di prodotti ottenuti da materiale riciclato nella misura non inferiore al 30% del fabbisogno medesimo.
Il comma 5 dell’articolo 181 introduce un’altra novità rispetto al decreto “Ronchi”, in quanto prevede che gli accordi di programma siano pubblicati sulla Gazzetta ufficiale al fine di consentire l’adesione di altri soggetti interessati.
Il comma 6 prevede inoltre che i metodi di recupero dei rifiuti utilizzati per ottenere materia prima secondaria, combustibili o prodotti devono garantire l’ottenimento di materiali con caratteristiche fissate con decreto del Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio, di concerto con il Ministro delle attività produttive, ai sensi dell’articolo 17, comma 3, della legge 23 agosto 1988, n. 400. Sino all’emanazione del predetto decreto continuano ad applicarsi le disposizioni di cui al decreto ministeriale 5 febbraio 1998, come modificato dal decreto interministeriale 27 luglio 2004 con riferimento alle polveri di ossidi di ferro fuori specifica, ivi incluse le ceneri di pirite, e dal D.M. 12 giugno 2002, n. 161. Le predette caratteristiche possono essere altresì conformi alle autorizzazioni rilasciate ai sensi degli articoli 208, 209 e 210 del presente decreto.
Il comma 7 dell’articolo 181 sembra introdurre una nuova tipologia di accordi riguardante esclusivamente il recupero di rifiuti per l’ottenimento di materie prime secondarie, combustibili o prodotti. Detti accordi devono essere stipulati nel rispetto delle modalità previste dai commi 4,5 e 6. E’ necessario quindi – comunque - il rispetto dei criteri stabiliti nel decreto di cui al comma 6
In particolare, i commi da 8 a 11 disciplinano in modo molto analitico le modalità attraverso le quali i soggetti interessati e la pubblica amministrazione possono concludere – nel rispetto dei criteri dettati da apposito decreto ministeriale- accordi di programma aventi ad oggetto il recupero di materiali mediante trasformazioni in materia prima secondaria, in combustibili o in prodotti.
Il comma 8 dell’art. 181 prevede che la proposta di accordo di programma, con indicazione anche delle modalità usate per il trasporto e per l’impiego delle materie prime secondarie, o la domanda di adesione ad un accordo già in vigore deve essere presentata al Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio, che si avvale per l’istruttoria del Comitato nazionale dell’Albo di cui all’articolo 212 e dell’Agenzia per la protezione dell'ambiente e per i servizi tecnici (APAT). Sulla proposta di accordo è acquisito altresì il parere dell’Autorità di vigilanza sulle risorse idriche e i rifiuti (istituita con l’art. 207 dello schema di decreto).
Il comma 9 dispone che gli accordi di cui al comma 7 devono contenere inoltre, per ciascun tipo di attività, le norme generali che fissano i tipi e le quantità di rifiuti e le condizioni alle quali l'attività di recupero dei rifiuti è dispensata dall'autorizzazione, nel rispetto delle condizioni fissate dall’articolo 178, comma 2.
Ai sensi del comma 10, i soggetti firmatari degli accordi sono iscritti presso un’apposita sezione da costituire presso l’Albo di cui all’articolo 212, a seguito di semplice richiesta scritta, e senza essere sottoposti alle garanzie finanziarie di cui ai commi 7 e 9 del citato articolo 212.
Infine, il comma 11 prevede che gli accordi di programma di cui al comma 7 sono approvati, ai fini della loro efficacia, con decreto del Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio di concerto con il Ministro delle attività produttive e con il Ministro della salute, e sono successivamente pubblicati sulla Gazzetta Ufficiale. Tali accordi sono aperti all’adesione di tutti i soggetti interessati.
I commi 12, 13 e 14 hanno invece la finalità di definire il rapporto tra operazioni di recupero e appartenenza di un materiale alla categoria dei rifiuti.
Più in particolare, il comma 12 prevede che la disciplina in materia di gestione dei rifiuti si applica fino al completamento delle operazioni di recupero, che si realizza quando non sono necessari ulteriori trattamenti perché le sostanze, i materiali e gli oggetti ottenuti possono essere usati in un processo industriale o commercializzati come materia prima secondaria, combustibile o come prodotto da collocare, a condizione che il detentore non se ne disfi o non abbia deciso, o non abbia l’obbligo, di disfarsene.
Il comma 13 prevede invece che la disciplina in materia di gestione dei rifiuti non si applica ai materiali, alle sostanze o agli oggetti che, senza necessità di operazioni di trasformazione, già presentino le caratteristiche delle materie prime secondarie, dei combustibili o dei prodotti individuati ai sensi del presente articolo, a meno che il detentore se ne disfi o abbia deciso, o abbia l'obbligo, di disfarsene.
Il comma 14 prevede invece che i soggetti che producono, trasportano o utilizzano materie prime secondarie, combustibili o prodotti, nel rispetto di quanto previsto dal presente articolo, non sono sottoposti alla normativa sui rifiuti, a meno che se ne disfino o abbiano deciso, o abbiano l’obbligo, di disfarsene.
Dall’analisi dei tre commi in questione sembra quindi che intento del legislatore delegato sia stato quello di sottrarre alla disciplina sui rifiuti le materie prime secondarie, i combustibili e dei prodotti, sia che questi derivino da un’operazione di recupero sia che tale operazione non sia necessaria, a condizione che non vi sia obbligo o volontà di disfarsi.
Si osserva al riguardo che la Corte di giustizia dell’Unione europea nella sentenza interpretativa sopra richiamata ha specificato che un residuo di produzione non è da considerare rifiuto nel caso in cui venga utilizzato in maniera certa e non eventuale nell’ambito di uno stesso processo produttivo e senza trasformazioni preliminari. La Corte non considera quindi il concetto di “materia prima secondaria” così come non lo considera la direttiva 442 del 1975.
Il combustibile è invece indicato dalla direttiva come mezzo per produrre energia nell’ambito delle operazioni di recupero.
Si ricorda che durante le audizioni effettuate dall’VIII Commissione della Camera e 13° del Senato, è stata lamentata – dai rappresentanti delle regioni e degli enti locali – la violazione delle norme generali sul procedimento amministrativo (artt. 11 e 13 della legge n. 241 del 1990) in quanto si attribuisce ad una mera negoziazione materia che rientrerebbe nelle competenze delle amministrazioni pubbliche.
Si osserva in proposito che – mentre l’art. 11 reca solo norme di carattere procedurale – l’art. 13, comma 1, della legge n. 241 prevede che “Le disposizioni contenute nel presente capo non si applicano nei confronti dell'attività della pubblica amministrazione diretta alla emanazione di atti normativi, amministrativi generali, di pianificazione e di programmazione, per i quali restano ferme le particolari norme che ne regolano la formazione”.
L’articolo 183 dello schema di decreto (corrispondente all’articolo 6 del decreto Ronchi), contenente le definizioni, conseguentemente ridefinisce le nozioni di “recupero” e “smaltimento” e provvede inoltre a definire le nozioni di “materia prima secondaria” e ”sottoprodotto”.
Lo smaltimento è definito come “ogni operazione finalizzata a sottrarre definitivamente una sostanza, un materiale o un oggetto dal circuito economico e/o di raccolta e, in particolare, le operazioni previste nell'Allegato B alla parte quarta del presente decreto, mentre per operazioni di recupero si intendono “le operazioni che utilizzano rifiuti per generare materie prime secondarie, combustibili o prodotti, attraverso trattamenti meccanici, termici, chimici o biologici, inclusa la cernita, e, in particolare, le operazioni previste nell'Allegato C alla parte quarta del presente decreto”. Vi è quindi un’estensione delle definizioni in quanto le definizioni attualmente vigenti fanno riferimento esclusivamente alle operazioni definite negli Allegati B e C rispettivamente per le operazioni di smaltimento e di recupero
Per sottoprodotti si intendono invece i prodotti dell’attività dell’impresa che, pur non costituendo l’oggetto dell’attività principale, scaturiscono in via continuativa dal processo industriale dell’impresa stessa e sono destinati ad un ulteriore impiego o al consumo.
Non sono soggetti alle disposizioni riguardanti la gestione dei rifiuti i sottoprodotti di cui l’impresa non si disfi, non sia obbligata a disfarsi e non abbia deciso di disfarsi ed in particolare i sottoprodotti impiegati direttamente dall’impresa che li produce o commercializzati a condizioni economicamente favorevoli per l’impresa stessa direttamente per il consumo o per l’impiego, senza la necessità di operare trasformazioni preliminari in un successivo processo produttivo.
Per trasformazione preliminare s’intende qualsiasi operazione che faccia perdere al sottoprodotto la sua identità, ossia le caratteristiche merceologiche di qualità e le proprietà che esso già possiede, e che si rende necessaria per il successivo impiego in un processo produttivo o per il consumo.
L’utilizzazione del sottoprodotto deve essere, inoltre, certa e non eventuale. Al fine di garantire un impiego certo del sottoprodotto, deve essere verificata la rispondenza agli standard merceologici, nonché alle norme tecniche, di sicurezza e di settore e deve essere attestata la destinazione del sottoprodotto ad effettivo utilizzo in base a tali standard e norme tramite una dichiarazione del produttore o detentore, controfirmata dal titolare dell’impianto dove avviene l’effettivo utilizzo. L’utilizzo del sottoprodotto non deve comportare per l’ambiente o la salute condizioni peggiorative rispetto a quelle delle normali attività produttive.
La definizione di materia prima secondaria è invece la seguente: sostanza o materia avente le caratteristiche stabilite ai sensi dell’articolo 181. Viene quindi fatto rinvio alle norme dell’articolo 181 riguardanti gli accordi per il recupero dei rifiuti.
Vengono introdotte inoltre le seguenti nuove definizioni:
o) frazione umida: rifiuto organico putrescibile ad alto tenore di umidità, proveniente da raccolta differenziata o selezione o trattamento dei rifiuti urbani;
p) frazione secca: rifiuto a bassa putrescibilità e a basso tenore di umidità proveniente da raccolta differenziata o selezione o trattamento dei rifiuti urbani, avente un rilevante contenuto energetico;
r) combustibile da rifiuti (CDR): il combustibile classificabile, sulla base delle norme tecniche UNI 9903-1 e successive modifiche ed integrazioni, come RDF di qualità normale, che è recuperato dai rifiuti urbani e speciali non pericolosi mediante trattamenti finalizzati a garantire un potere calorifico adeguato al suo utilizzo, nonché a ridurre e controllare:
a) il rischio ambientale e sanitario;
b) la presenza di materiale metallico, vetri, inerti, materiale putrescibile e il contenuto di umidità;
c) la presenza di sostanze pericolose, in particolare ai fini della combustione;
s) combustibile da rifiuti di qualità elevata (CDR-Q): il combustibile classificabile, sulla base delle norme tecniche UNI 9903-1 e successive modifiche ed integrazioni, come RDF di qualità elevata, cui si applica il successivo articolo 229
u) materia prima secondaria per attività siderurgiche e metallurgiche:
rottami ferrosi e non ferrosi derivanti da operazioni di recupero e rispondenti a specifiche Ceca, Aisi, Caef, Uni, Euro o ad altre specifiche nazionali e internazionali, individuate entro centottanta giorni dall’entrata in vigore della parte quarta del presente decreto con decreto del Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio di concerto con il Ministro delle attività produttive, non avente natura regolamentare; i rottami o scarti di lavorazioni industriali o artigianali o provenienti da cicli produttivi o di consumo, esclusa la raccolta differenziata, che possiedono in origine le medesime caratteristiche riportate nelle specifiche di cui alla precedente lettera a).
Si ricorda che la definizione di materia prima secondaria per attività siderurgiche e metallurgiche ripropone sostanzialmente la definizione già contenuta nel comma 29 della legge n. 308 del 2004, mentre l’articolo 14 del decreto-legge n. 138 del 2002. viene abrogato dallo schema di decreto in questione, in quanto in gran parte ripreso dalle disposizioni in commento.
Riguardi ai materiali che possono rientrare nell’alveo della definizione di “residui di produzione e di consumo”, si ricorda che l’articolo 186 contiene una dettagliata disciplina relativamente alle terre e rocce di scavo. Tale disciplina è stata oggetto di recenti interventi normativi: dapprima con l’aggiunta di una voce all’elenco delle esclusioni (di cui all’art. 8 del “decreto Ronchi”) operata dall’art. 10 della legge n. 93 del 2001 (sono state escluse dall’applicazione delle norme sui rifiuti “le terre e le rocce da scavo destinate all'effettivo utilizzo per reinterri, riempimenti, rilevati e macinati, con esclusione di materiali provenienti da siti inquinati e da bonifiche con concentrazione di inquinanti superiore ai limiti di accettabilità stabiliti dalle norme vigenti”).
Successivamente, con la legge n. 443 del 2001, come modificato dall’articolo 23 della legge n. 306 del 2003 (comunitaria per il 2004) sono state introdotte norme di interpretazione autentica della norma di esclusione citata.
La disciplina ora inserita nello schema di decreto traspone sostanzialmente le norme appena citate in materia di terre e rocce di scavo, introdotte nel corso della XIV Legislatura, con un ‘unica sostanziale novità, riguardante l’adozione di novi limiti massimi di concentrazione di inquinanti.
Il comma 1 dell’articolo 186 prevede che le terre e rocce da scavo, anche di gallerie, ed i residui della lavorazione della pietra destinate all’effettivo utilizzo per reinterri, riempimenti, rilevati e macinati non costituiscono rifiuti e sono, perciò, esclusi dall'ambito di applicazione del decreto solo nel caso in cui, anche quando contaminati, durante il ciclo produttivo, da sostanze inquinanti derivanti dalle attività di escavazione, perforazione e costruzione siano utilizzati, senza trasformazioni preliminari, secondo le modalità previste nel progetto sottoposto a valutazione di impatto ambientale ovvero, qualora il progetto non sia sottoposto a valutazione di impatto ambientale, secondo le modalità previste nel progetto approvato dall'autorità amministrativa competente, ove ciò sia espressamente previsto, previo parere delle Agenzie regionali e delle province autonome per la protezione dell'ambiente, sempreché la composizione media dell'intera massa non presenti una concentrazione di inquinanti superiore ai limiti massimi previsti dalle norme vigenti e dal decreto di cui al comma 3.
Ai sensi del comma 2, le opere il cui progetto è sottoposto a valutazione di impatto ambientale costituiscono unico ciclo produttivo, anche qualora i materiali di cui al comma 1 siano destinati a differenti utilizzi, a condizione che tali utilizzi siano tutti progettualmente previsti.
Il comma 3 prevede che il rispetto dei limiti di cui al comma 1 può essere verificato anche mediante accertamenti sui siti di destinazione dei materiali da scavo, in alternativa agli accertamenti sul sito di produzione. I limiti massimi accettabili nonché le modalità di analisi dei materiali ai fini della loro caratterizzazione, da eseguire secondo i criteri di cui all’Allegato 2 del Titolo V della parte quarta del decreto, sono determinati con decreto del Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio da emanarsi entro novanta giorni dall'entrata in vigore del decreto, salvo limiti inferiori previsti da disposizioni speciali. Sino all’emanazione del predetto decreto continuano ad applicarsi i valori di concentrazione limite accettabili di cui all'Allegato 1, tabella 1, colonna B, del decreto del Ministro dell'ambiente 25 ottobre 1999, n. 471.
Il comma 4 prevede che il rispetto dei limiti massimi di concentrazione di inquinanti di cui al comma 3 deve essere verificato mediante attività di caratterizzazione dei materiali di cui al comma 1, da ripetersi ogni qual volta si verifichino variazioni del processo di produzione che origina tali materiali.
Ai sensi del comma 5, per i materiali di cui al comma 1 si intende per effettivo utilizzo per reinterri, riempimenti, rilevati e macinati anche la destinazione progettualmente prevista a differenti cicli di produzione industriale, nonché il riempimento delle cave coltivate, oppure la ricollocazione in altro sito, a qualsiasi titolo autorizzata dall'autorità amministrativa competente, qualora ciò sia espressamente previsto, previo, ove il relativo progetto non sia sottoposto a valutazione di impatto ambientale, parere delle Agenzie regionali e delle province autonome per la protezione dell'ambiente, a condizione che siano rispettati i limiti di cui al comma 3 e la ricollocazione sia effettuata secondo modalità progettuali di rimodellazione ambientale del territorio interessato.
Il comma 6 dispone che qualora i materiali di cui al comma 1 siano destinati a differenti cicli di produzione industriale, le autorità amministrative competenti ad esercitare le funzioni di vigilanza e controllo sui medesimi cicli provvedono a verificare, senza oneri aggiuntivi per la finanza pubblica, anche mediante l'effettuazione di controlli periodici, l'effettiva destinazione all'uso autorizzato dei materiali; a tal fine l'utilizzatore è tenuto a documentarne provenienza, quantità e specifica destinazione.
Il comma 7 prevede che ai fini del parere delle Agenzie regionali e delle province autonome per la protezione dell'ambiente, di cui ai commi 1 e 5, per i progetti non sottoposti a valutazione di impatto ambientale, alla richiesta di riutilizzo ai sensi dei commi precedenti è allegata una dichiarazione del soggetto che esegue i lavori ovvero del committente, resa ai sensi dell’articolo 47 del decreto del Presidente della Repubblica 28 dicembre 2000, n. 445, nella quale si attesta che nell’esecuzione dei lavori non sono state utilizzate sostanze inquinanti, che il riutilizzo avviene senza trasformazioni preliminari, che il riutilizzo avviene per una delle opere di cui ai commi 1 e 5 , come autorizzata dall’autorità competente, ove ciò sia espressamente previsto, e che nel materiale da scavo la concentrazione di inquinanti non è superiore ai limiti vigenti con riferimento anche al sito di destinazione.
Il comma 8 dispone che nel caso in cui non sia possibile l’immediato riutilizzo del materiale di scavo, dovrà anche essere indicato il sito di deposito del materiale, il quantitativo, la tipologia del materiale ed all’atto del riutilizzo la richiesta dovrà essere integrata con quanto previsto ai commi 6 e 7. Il riutilizzo dovrà inoltre avvenire entro sei mesi dall’avvenuto deposito, salvo proroga su istanza motivata dell’interessato.
Il comma 9 prevede che il parere di cui al comma 5 deve essere reso nel termine perentorio di trenta giorni, decorsi i quali provvede in via sostitutiva la regione su istanza dell’interessato.
Infine, il comma 10 dispone che non sono in ogni caso assimilabili ai rifiuti urbani i rifiuti derivanti dalle lavorazioni di minerali e di materiali da cava.
Si ricorda che durante l’audizione della Confindustria è stato segnalato che la disciplina in materia rimane troppo complessa (in quanto ritagliata sulle grandi opere), laddove sarebbe opportuna una disciplina semplificatrice per le “terre da scavo provenienti da piccoli cantieri”.
L’articolo 192 introduce una novità per quel che riguarda la responsabilità civilistica del proprietario o del titolare di diritti reali di godimento in caso di abbandono di rifiuti. Viene infatti previsto che la responsabilità del proprietario sussiste solo in caso di dolo o di colpa grave e non in caso di dolo o di colpa generica.
L’articolo 189 prevede alcune novità in materia di catasto dei rifiuti (oggi disciplinato dall’art. 11 del “decreto Ronchi”).
Viene escluso innanzitutto l’obbligo della comunicazione al Catasto per le imprese e degli enti che producono rifiuti non pericolosi industriali, commerciali e artigianali.
Viene inoltre prevista la ridefinizione dell’organizzazione del Catasto attraverso l’emanazione di un apposito regolamento che dovrà sostituire quello attualmente vigente e cioè il decreto del Ministro dell’ambiente 4 agosto 1998, n. 372.
Con l’articolo 193 vengono inserite una serie di disposizioni nuove in materia del formulario di identificazione dei rifiuti, che deve accompagnare i trasporti di rifiuti (la materia è oggi disciplinata dall’art. 15 del “decreto Ronchi”).
Viene demandato, innanzitutto, dal comma 6 dell’articolo 193 a un decreto ministeriale la definizione di un modello, mentre il periodo transitorio sarà regolato come segue:
a) relativamente alla definizione del modello e dei contenuti del formulario di identificazione, si applica il decreto del Ministro dell'ambiente 1° aprile 1998, n. 145;
b) relativamente alla numerazione e vidimazione, i formulari di identificazione devono essere numerati e vidimati dagli uffici dell’Agenzia delle Entrate o dalle Camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura o dagli uffici regionali e provinciali competenti in materia di rifiuti e devono essere annotati sul registro IVA acquisti. La vidimazione dei predetti formulari di identificazione è gratuita e non è soggetta ad alcun diritto o imposizione tributaria.
Il decreto del Ministero dell’ambiente 1 aprile 1998, n. 145 prevede che il formulario di identificazione deve essere emesso, da apposito bollettario a ricalco conforme sostanzialmente al modello riportato negli allegati A e B al decreto, dal produttore, o dal detentore dei rifiuti o dal soggetto che effettua il trasporto. Qualora siano utilizzati strumenti informatici i formulari devono essere stampati su carta a modulo continuo a ricalco. Il formulario è stampato su carta idonea a garantire che le indicazioni figuranti su una delle facciate non pregiudichino la leggibilità delle indicazioni apposte sull'altra facciata e deve essere compilato secondo le modalità indicate nell'allegato C.
Fatta salva la documentazione relativa al trasporto di merci pericolose, ove prevista dalla normativa vigente, e alle spedizioni di rifiuti disciplinate dal regolamento CE 259/93, il formulario sostituisce gli altri documenti di accompagnamento dei rifiuti trasportati. Durante il trasporto devono essere rispettate le norme vigenti che disciplinano l'imballaggio e l'etichettatura dei rifiuti pericolosi nonché le norme tecniche che disciplinano le attività di trasporto dei rifiuti. I formulari di identificazione devono essere numerati progressivamente anche con l'adozione di prefissi alfabetici di serie e sono predisposti dalle tipografie autorizzate dal Ministero delle finanze ai sensi e per gli effetti dell'articolo 11 del decreto ministeriale 29 novembre 1978 pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 335 del 30 novembre 1978, recante norme di attuazione delle disposizioni di cui al decreto del Presidente della Repubblica 6 ottobre 1978, n. 627. Gli estremi dell'autorizzazione alle tipografie devono essere indicati su ciascuno dei predetti stampati, unitamente ai dati identificativi della tipografia. La fattura di acquisto dei formulari di cui al comma 1, dalla quale devono risultare gli estremi seriali e numerici degli stessi, deve essere registrata sul registro IVA-acquisti prima dell'utilizzo del formulario. formulari di identificazione costituiscono parte integrante dei registri di carico e scarico dei rifiuti prodotti o gestiti. A tal fine gli estremi identificativi del formulario dovranno essere riportati sul registro di carico e scarico in corrispondenza all'annotazione relativa ai rifiuti oggetto del trasporto, ed il numero progressivo del registro di carico e scarico relativo alla predetta annotazione deve essere riportato sul formulario che accompagna il trasporto dei rifiuti stessi.
Il comma 7 prevede invece che il formulario è validamente sostituito, per i rifiuti oggetto di spedizioni transfrontaliere, dai documenti previsti dalla normativa comunitaria di cui all’articolo 194, anche con riguardo alla tratta percorsa su territorio nazionale. Si ricorda che l’articolo 194 dispone che per le spedizioni transfrontaliere il formulario di identificazione può essere sostituito dalla documentazione prevista dal regolamento comunitario n. 259 del 1993 e dalle convenzioni ivi previste.
Si ricorda brevemente che il regolamento n. 259 del 1993 prevede un sistema in base al quale per esportare rifiuti e necessario inviare apposita comunicazione al Paese comunitario destinato ad accogliere i rifiuti, che deve accoglierli, il quale provvederà ad autorizzare l’invio.
Il comma 8 prevede che le disposizioni relative al formulario di identificazione dei rifiuti non si applicano alle fattispecie disciplinate dal decreto legislativo 27 gennaio 1992, n. 99, relativo ai fanghi in agricoltura.
Al riguardo si osserva che tale disposizione potrebbe configurare una violazione del regolamento comunitario n. 259 del 1993. Tale regolamento prevede infatti specifiche disposizioni per il trasporto di tutti i rifiuti nell’ambito dell’Unione europea. I fanghi in agricoltura, in quanto residui di produzione rientrano ai sensi dell’allegato I della direttiva 442 del 1975 nell’ambito della nozione di rifiuti.
Il comma 9 prevede che la movimentazione dei rifiuti esclusivamente all’interno di aree private non è considerata trasporto.
Il comma 10 prevede che il documento commerciale, di cui all’articolo 7 del Regolamento (Ce) n. 1774/2002 del Parlamento europeo e del Consiglio, per gli operatori soggetti all’obbligo della tenuta dei registri di carico e scarico di cui all’articolo 190, sostituisce a tutti gli effetti il formulario di identificazione di cui al comma 1.
Il regolamento sopra citato, recante “norme sanitarie relative ai sottoprodotti di origine animale non destinati al consumo umano” dispone all’articolo 7 che i sottoprodotti di origine animale e i prodotti trasformati, ad eccezione dei rifiuti alimentari della categoria 3, sono raccolti, trasportati e identificati conformemente all'allegato II.
Durante il trasporto, i sottoprodotti di origine animale e i prodotti trasformati sono accompagnati da un documento commerciale oppure, ove richiesto dal regolamento, da un certificato sanitario. I documenti commerciali e i certificati sanitari devono soddisfare i requisiti di cui all'allegato II ed essere conservati per il periodo ivi specificato. Essi contengono in particolare informazioni sulla quantità e sulla descrizione del materiale nonché sulla sua marcatura. Gli Stati membri provvedono inoltre affinché siano stabilite adeguate disposizioni per garantire che i materiali di categoria 1 e 2 siano raccolti e trasportati conformemente all'allegato II. Conformemente all'articolo 4 della direttiva 75/442/CEE del Consiglio, del 15 luglio 1975, relativa ai rifiuti, gli Stati membri adottano inoltre le misure necessarie per garantire che la raccolta, il trasporto e lo smaltimento dei rifiuti di cucina e ristorazione della categoria 3 avvengano senza pericolo per la salute umana e senza danno per l'ambiente.
Il comma 11 dispone che la microraccolta dei rifiuti, intesa come la raccolta di rifiuti da parte di un unico raccoglitore o trasportatore presso più produttori o detentori svolta con lo stesso automezzo, dev’essere effettuata nel più breve tempo tecnicamente possibile. Nei formulari di identificazione dei rifiuti devono essere indicate, nello spazio relativo al percorso, tutte le tappe intermedie previste. Nel caso in cui il percorso dovesse subire delle variazioni, nello spazio relativo alle annotazioni dev’essere indicato a cura del trasportatore il percorso realmente effettuato.
Ai sensi del comma 12, la sosta durante il trasporto dei rifiuti caricati per la spedizione all’interno dei porti e degli scali ferroviari, delle stazioni di partenza, di smistamento e di arrivo, gli stazionamenti dei veicoli in configurazione di trasporto, nonché le soste tecniche per le operazioni di trasbordo non rientrano nelle attività di stoccaggio di cui all’articolo 183, comma 1, lettera l), purchè le stesse siano dettate da esigenze di trasporto e non superino le quarantotto ore, escludendo dal computo i giorni interdetti alla circolazione.
Al riguardo si ricorda che la lettera l) dell’articolo 183 fa rientrare nella definizione di stoccaggio le attività di smaltimento consistenti nelle operazioni di deposito preliminare di rifiuti di cui al punto D15 dell'Allegato B alla parte quarta del presente decreto, nonché le attività di recupero consistenti nelle operazioni di messa in riserva di materiali di cui al punto R13 dell'Allegato C alla medesima parte quarta. Tali operazioni sono assoggettate a uno specifico regime autorizzatorio.
Infine, il comma 13 prevede che il trasporto di rifiuti per distanze superiori a duecento chilometri e quantità eccedenti le venticinque tonnellate deve avvenire mediante ferrovia.
Gli articoli 201- 203 dello schema di decreto introducono importanti novità in materia di affidamento del servizio di gestione dei rifiuti.
Analogamente a quanto previsto dal decreto “Ronchi”, anche lo schema di decreto in questione prevede che la gestione dei rifiuti venga organizzata -di regola- all’interno di un “ambito territoriale ottimale”, che si identifica nel decreto Ronchi con la provincia ed è invece determinato dalla legge regionale in base allo schema di decreto in commento.
Il primo elemento di novità riguarda invece la costituzione – sulla base di alcune esperienze già realizzate dalla legislazione regionale[73] - di un’autorità d’ambito all’interno dell’ambito territoriale ottimale e la conseguente gestione integrata del servizio all’interno dell’ambito territoriale ottimale[74].
Si tratta dei cd STUA (soggetti titolari unici dell’autorità d’ambito), soggetti dotati di personalità giuridica di diritto pubblico (art. 201, comma 2) che dovranno essere costituiti dalle regioni entro sei mesi dall’entrata in vigore della parte quarta dello schema di decreto (art. 201, comma 1). Gli STUA saranno dotati di autonomia statutaria, regolamentare, finanziaria e organizzativa.
Gli STUA dovranno affidare il servizio di gestione integrata dei rifiuti mediante gara (art. 202): e questa rappresenta una seconda rilevante novità (vedi infra), in quanto tale disciplina è derogatoria rispetto a quella generale prevista dall’art. 113 del TUEL (d.lgs. n. 267 del 2000).
I rapporti fra STUA e soggetto affidatario vengono regolati attraverso un contratto di servizio (il cui schema è disposto dall’art. 203).
Infine, l’art. 204 reca disposizioni transitorie relative alle gestioni esistenti alla data di entrata in vigore della parte quarta dello schema di decreto.
Il comma 1 dell’articolo 201 prevede infatti che al fine dell’organizzazione del servizio di gestione integrata dei rifiuti urbani, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano, entro il termine di sei mesi dalla data di entrata in vigore dello schema di decreto, disciplinano le forme e i modi della cooperazione tra gli enti locali ricadenti nel medesimo ambito ottimale, prevedendo che gli stessi costituiscano le Autorità d’ambito di cui al comma 2, alle quali è demandata, nel rispetto del principio di coordinamento con le competenze delle altre amministrazioni pubbliche, l’organizzazione, l’affidamento e il controllo del servizio di gestione integrata dei rifiuti.
Il comma 2 prevede che l’Autorità d’ambito è una struttura dotata di personalità giuridica costituita in ciascun ambito territoriale ottimale delimitato dalla competente regione, alla quale gli enti locali partecipano obbligatoriamente ed alla quale è trasferito l’esercizio delle loro competenze in materia di gestione integrata dei rifiuti.
Ai sensi del comma 3, l’Autorità d’ambito organizza il servizio e determina gli obiettivi da perseguire per garantirne la gestione secondo criteri di efficienza, di efficacia, di economicità e di trasparenza e a tal fine adotta un apposito piano d’ambito in conformità a quanto previsto dall’articolo 203, comma 3.
Il comma 4 prevede che .per la gestione ed erogazione del servizio di gestione integrata e per il perseguimento degli obiettivi determinati dall’Autorità d’ambito, sono affidate, ai sensi dell’articolo 202 e nel rispetto della normativa comunitaria e nazionale sull’evidenza pubblica, le seguenti attività:
a) la realizzazione, gestione ed erogazione dell’intero servizio, comprensivo delle attività di gestione e realizzazione degli impianti;
b) la raccolta, raccolta differenziata, commercializzazione e smaltimento completo di tutti i rifiuti urbani e assimilati prodotti all’interno dell’ATO.
Il comma 5 prevede il raggiungimento dei seguenti obiettivi in ogni ambito:
a) raggiungimento, nell’arco di cinque anni dalla sua costituzione, dell’autosufficienza di smaltimento anche, ove opportuno, attraverso forme di cooperazione e collegamento con altri soggetti pubblici e privati;
b) garanzia della presenza di almeno un impianto di trattamento a tecnologia complessa, compresa una discarica di servizio.
Il comma 6 prevede infine che la durata della gestione da parte dei soggetti affidatari, non inferiore a quindici anni, è disciplinata dalle regioni in modo da consentire il raggiungimento di obiettivi di efficienza, efficacia ed economicità.
Gli articoli 202-203, che disciplinano invece le modalità per l’affidamento del servizio da parte dell’Autorità d’ambito.
Ai sensi del comma 1 dell’articolo 202, l’Autorità d’ambito aggiudica il servizio di gestione integrata dei rifiuti mediante gara disciplinata dai principi e dalle disposizioni comunitarie, secondo i criteri di cui all’articolo 113, comma 7, del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, nonché con riferimento all’ammontare del corrispettivo per la gestione svolta, tenuto conto delle garanzie di carattere tecnico e delle precedenti esperienze specifiche dei concorrenti. A tal fine il Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio, con decreti emanati ai sensi dell’articolo 17, comma 3, della legge 23 agosto 1988, n. 400, definisce una griglia di valutazione per la comparazione delle diverse offerte.
Il legislatore delegato ha optato, pertanto, per un modello molto più orientato alla concorrenza rispetto a quello previsto – in via generale – dall’art. 113 del TUEL (decreto legislativo n. 267 del 2000).
Un secondo elemento di forte discontinuità con le norme vigenti è rappresentato dalle modalità di affidamento dei servizi di gestione dei rifiuti, imperniate – oggi - sull’articolo 113 del TUEL, che non impongono la gara quale unica modalità di affidamento.
Il coordinamento fra norme generali (art. 113) e norme speciali (normative di settore) appare alquanto complesso.
Occorre – in proposito - ricordare che ai fini della interpretazione del rapporto fra disciplina generale (di cui all’art 113) e discipline di settore, deve essere considerata sia la dizione del comma 1 dello stesso art. 113 - nel quale le norme in esso contenuto si autodichiarano “inderogabili e integrative delle discipline di settore” – sia la dizione del successivo comma 5, ove si dispone che “l’erogazione del servizio avviene secondo le discipline di settore e nel rispetto della normativa dell’Unione europea”, pur proseguendo poi in una precisa elencazione delle tre note modalità di affidamento (a società di capitali, con gara, a società a capitale misto con scelta del socio privato attraverso gara e affidamento in house).
Infine, sempre al fine di chiarire l’intreccio fra norme generali e norme di settore, il comma 5-bis aggiunge che “Le normative di settore, al fine di superare assetti monopolistici, possono introdurre regole che assicurino concorrenzialità nella gestione dei servizi da esse disciplinati prevedendo, nel rispetto delle disposizioni di cui al comma 5, criteri di gradualità nella scelta della modalità di conferimento del servizio”.
Le disposizioni in commento sembrano muovere nella direzione indicata dal comma 5-bis dell’art. 113 (introdurre regole che assicurino concorrenzialità nella gestione dei servizi), tuttavia inibiscono due delle possibilità previste dal comma 5 dello stesso articolo 113 (affidamento in housee creazione di società miste con scelta del socio privato attraverso procedure di evidenza pubblica), prevedendo come ammissibile solo una delle tre opzioni: la gara.
Si riscontra una prima difformità rispetto alle stesse disposizioni recate dall’art. 150 (in materia di servizi idrici), che apparirebbe opportuno invece coordinare con le disposizioni in commento anche per l’esistenza (segnalata anche durante le audizioni delle due Commissioni parlamentari) di imprese multiservizi[75], che operano cioè in entrambe i settori e che dovrebbero – a seguito dell’entrata in vigore delle nuove norme – procedere ad una separazione organizzativa e societaria.
Inoltre, in merito al comma 7 dell’articolo 113 del decreto legislativo n. 267 del 2000 – richiamato dal comma 1 dell’articolo 202 - si ricorda che tale norma prevede che la gara di cui al comma 5 è indetta nel rispetto degli standard qualitativi, quantitativi, ambientali, di equa distribuzione sul territorio e di sicurezza definiti dalla competente Autorità di settore o, in mancanza di essa, dagli enti locali. La gara è aggiudicata sulla base del migliore livello di qualità e sicurezza e delle condizioni economiche e di prestazione del servizio, dei piani di investimento per lo sviluppo e il potenziamento delle reti e degli impianti, per il loro rinnovo e manutenzione, nonché dei contenuti di innovazione tecnologica e gestionale.
Deve tuttavia ricordarsi che la sentenza n. 274 della Corte costituzionale – che rappresenta il principale riferimento giurisprudenziale successivo al Titolo V in materia di riparto di competenze Stato/Regioni nella materia dei servizi pubblici locali - ha disposto che “l’art. 113, comma 7, pone in essere una illegittima compressione dell'autonomia regionale, poiché risulta ingiustificato e non proporzionato rispetto all'obiettivo della tutela della concorrenza l'intervento legislativo statale”.
l comma 2 dell’articolo 202 prevede poi che i soggetti partecipanti alla gara devono formulare, con apposita relazione tecnico-illustrativa allegata all’offerta, proposte di miglioramento della gestione, di riduzione delle quantità di rifiuti da smaltire e di miglioramento dei fattori ambientali, proponendo un proprio piano di riduzione dei corrispettivi per la gestione al raggiungimento di obiettivi autonomamente definiti.
Il comma 3 dell’articolo 202 prevede che nella valutazione delle proposte si debba tener conto, in particolare, del peso che graverà sull’utente sia in termini economici, sia di complessità delle operazioni a suo carico, mentre il comma 4 prevede che gli impianti e le altre dotazioni patrimoniali di proprietà degli enti locali già esistenti al momento dell’assegnazione del servizio sono conferiti in comodato ai soggetti affidatari del medesimo servizio.
Il comma 5 prevede che. i nuovi impianti vengono realizzati dal soggetto affidatario del servizio o direttamente, ai sensi dell’articolo 113, comma 5-ter, del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, ove sia in possesso dei requisiti prescritti dalla normativa vigente, o mediante il ricorso alle procedure di cui alla legge 11 febbraio 1994, n. 109, ovvero secondo lo schema della finanza di progetto di cui agli articoli 37bis e seguenti della predetta legge n. 109 del 1994.
Si ricorda, in proposito, che il comma 5-ter dell’articolo 113 del decreto legislativo n. 267 del 2000 prevede che qualora la gestione della rete, separata o integrata con la gestione dei servizi, sia stata affidata con procedure di gara, il soggetto gestore può realizzare direttamente i lavori connessi alla gestione della rete, purché qualificato ai sensi della normativa vigente e purché la gara espletata abbia avuto ad oggetto sia la gestione del servizio relativo alla rete, sia l'esecuzione dei lavori connessi
Il comma 1 dell’articolo 203 prevede che i rapporti tra le Autorità d’ambito e i soggetti affidatari del servizio integrato sono regolati da contratti di servizio, da allegare ai capitolati di gara, conformi ad uno schema tipo adottato dalle regioni in conformità ai criteri ed agli indirizzi di cui all’articolo 195, comma 1, lettere m), n) ed o).
Ai sensi del comma 2, lo schema tipo prevede:
a) il regime giuridico prescelto per la gestione del servizio;
b) l'obbligo del raggiungimento dell'equilibrio economico-finanziario della gestione;
c) la durata dell'affidamento, comunque non inferiore a quindici anni;
d) i criteri per definire il piano economico-finanziario per la gestione integrata del servizio;
e) le modalità di controllo del corretto esercizio del servizio;
f) i principi e le regole generali relativi alle attività ed alle tipologie di controllo, in relazione ai livelli del servizio ed al corrispettivo, le modalità, i termini e le procedure per lo svolgimento del controllo e le caratteristiche delle strutture organizzative all’uopo preposte;
g) gli obblighi di comunicazione e trasmissione di dati, informazioni e documenti del gestore e le relative sanzioni;
h) le penali, le sanzioni in caso di inadempimento e le condizioni di risoluzione secondo i principi del codice civile, diversificate a seconda della tipologia di controllo;
i) il livello di efficienza e di affidabilità del servizio da assicurare all'utenza, anche con riferimento alla manutenzione degli impianti;
l) la facoltà di riscatto secondo i princìpi di cui al titolo I, capo II, del regolamento approvato con decreto del Presidente della Repubblica 4 ottobre 1986, n. 902;
m) l'obbligo di riconsegna delle opere, degli impianti e delle altre dotazioni patrimoniali strumentali all’erogazione del servizio in condizioni di efficienza ed in buono stato di conservazione;
n) idonee garanzie finanziarie e assicurative;
o) i criteri e le modalità di applicazione delle tariffe determinate dagli enti locali e del loro aggiornamento, anche con riferimento alle diverse categorie di utenze.
Ai sensi del comma 3, ai fini della definizione dei contenuti dello schema tipo di cui al comma 2, le Autorità d’ambito operano la ricognizione delle opere ed impianti esistenti, trasmettendo alla regione i relativi dati. Le Autorità d’ambito inoltre, ai medesimi fini, definiscono le procedure e le modalità, anche su base pluriennale, per il conseguimento degli obiettivi previsti dalla parte quarta dello schema di decreto ed elaborano, sulla base dei criteri e degli indirizzi fissati dalle regioni, un piano d’ambito comprensivo di un programma degli interventi necessari, accompagnato da un piano finanziario e dal connesso modello gestionale ed organizzativo. Il piano finanziario indica, in particolare, le risorse disponibili, quelle da reperire, nonchè i proventi derivanti dall’applicazione della tariffa sui rifiuti per il periodo considerato.
Infine, in merito alle gestioni esistenti, l’articolo 204 prevede al comma 1 che i soggetti che esercitano il servizio, anche in economia, alla data di entrata in vigore dello schema di decreto, continuano a gestirlo fino alla istituzione e organizzazione del servizio di gestione integrata dei rifiuti da parte delle Autorità d’ambito.
Tale norma sembrerebbe prevedere – anche per le gestioni in economia – una loro obbligatoria cessazione alla scadenza di cui al successivo comma 2 (sei mesi dall’entrata in vigore della parte quarta del decreto legislativo).
Si ricorda che tali gestioni sono invece ammesse – entro soglie ben determinate, e quindi nell’ipotesi di piccoli comuni - dalla normativa vigente sugli appalti di servizi e disciplinate da norme statutarie e regolamentari dei comuni.
Si ricorda, inoltre, che tali disposizioni transitorie andrebbero coordinate con quelle recate dal comma 15-bis dell’art. 113 del TUEL.
Il comma 2 dell’art. 204 prevede che in relazione alla scadenza del termine di cui al comma 15-bis dell’articolo 113 del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267 (cioè il 31 dicembre 2006), l’Autorità d’ambito dispone i nuovi affidamenti, nel rispetto delle disposizioni dello schema di decreto, entro sei mesi dall’entrata in vigore dello schema di decreto
Il comma 3 prevede che qualora l’Autorità d’ambito non provveda agli adempimenti di cui ai commi 1 e 2 nei termini ivi stabiliti, il Presidente della Giunta regionale esercita, dandone comunicazione al Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e all’Autorità di vigilanza sulle risorse idriche e sui rifiuti, i poteri sostitutivi, nominando un commissario”ad acta” che avvia entro quarantacinque giorni le procedure di affidamento, determinando le scadenze dei singoli adempimenti procedimentali. Qualora il commissario regionale non provveda nei termini così stabiliti, spettano al Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio i poteri sostitutivi preordinati al completamento della procedura di affidamento.
Il comma 4 prevede infine che alla scadenza, ovvero alla anticipata risoluzione, delle gestioni di cui al comma 1, i beni e gli impianti delle imprese già concessionarie sono trasferiti direttamente all’ente locale concedente nei limiti e secondo le modalità previste dalle rispettive convenzioni di affidamento.
Si osserva al riguardo che la disposizione contenuta nel comma 4 sembra riguardare sia i beni di proprietà degli enti locali trasferiti ai soggetti concessionari sia i beni di proprietà dei soggetti concessionari.
La restituzione del primo “tipo” di beni , per i quali è previsto il trasferimento in comodato ai soggetti concessionari è giustificata dal fatto che tali beni, una volta venuto a scadenza il contratto tra autorità d’ambito e soggetto concessionario, ritornano nella disponibilità del proprietario.
Durante le audizioni, numerosi dubbi sono stati sollevati in merito a tali disposizioni, sia da parte delle regioni e delle autonomie locali, sia da parte della Confservizi e di Fedrutility.
I rilievi si articolano in due parti. La prima parte contesta la norma che prevede che l’affidamento del servizio possa avvenire solo tramite gara, in quanto ciò violerebbe l’autonomia delle Regioni nello scegliere i mezzi più adatti per il raggiungimento degli obiettivi relativi alle materie di propria competenza “concorrente”. Tale osservazione – tuttavia - non sembrerebbe trovare fondamento nella giurisprudenza costituzionale, in quanto la sentenza n. 272 del 2004 chiarisce che disposizioni generali di tale natura sono poste a tutela della concorrenza, materia che rientra nell’ambito della competenza esclusiva dello Stato.
Una seconda serie di rilevi censura invece il fatto che vengono richiamati i principi che il comma 7 dell’articolo 113 del D.lgs. n. 267 del 2000 individua quali principi ispiratori dello svolgimento delle gare. Il rilievo appare qui maggiormente fondato in quanto la Corte costituzionale nella stessa sentenza ha chiarito che il secondo e il terzo periodo della disposizione in questione ledono le prerogative regionali, in quanto in tali periodi sono enumerati principi specifici, che non sono ricollegabili a esigenze di tutela della concorrenza, ma invadono materie in cui la potestà legislativa regionale di tipo concorrente deve potersi esprimere nell’ambito di principi generali.
L’articolo 205 interviene in materia di raccolta differenziata: l’intento generale delle innovazioni normative sembra essere quello di ampliare la nozione di raccolta differenziata (al fine di favorire il recupero energetico) e di introdurre meccanismi incentivanti in tal senso (art. 205, comma 3). Infatti, si osserva che le seguenti disposizioni devono essere lette insieme alla nuova definizione di raccolta differenziata, recata dall’art. 183, comma 1, lettera f), dove appare chiaro l’intento di ricomprendere nel concetto di raccolta differenziata anche la cd raccolta “multimateriale”, con differenziazione effettuata non alla raccolta, ma al momento della lavorazione.
In primo luogo, il comma 1 ridefinisce la percentuale minima relativa alla raccolta differenziata che deve essere raggiunta negli ambiti territoriali ottimali, disponendo che la stessa deve essere pari ad almeno il 35% entro il 31 dicembre 2008, pari ad almeno il 40% entro il 31 dicembre 2008 e pari ad almeno il 60% entro il 31 dicembre 2012. Tali percentuali erano invece definite nel seguente modo nel decreto n. 22: 15% entro due anni dall’entrata in vigore del decreto; 25% entro quattro anni dall’entrata in vigore del decreto; 35% a partire dal sesto anno successivo alla data di entrata in vigore del decreto.
Sono previste inoltre una serie di nuove disposizioni dall’articolo 205.
In particolare, il comma 2 prevede che la frazione organica umida separata fisicamente dopo la raccolta e finalizzata al recupero complessivo tra materia ed energia, secondo i criteri dell’economicità, dell’efficacia’ dell’efficienza e della trasparenza del sistema, contribuisce al raggiungimento degli obiettivi di cui al comma 1. Si ricorda che la definizione della frazione umida organica è stata introdotta nell’articolo 183 (e non compare nel decreto n. 22 del 1997).
Il comma 3 dispone che nel caso in cui a livello di ambito territoriale ottimale non siano conseguiti gli obiettivi minimi citati è applicata un’addizionale del 20 per cento al tributo di conferimento dei rifiuti in discarica a carico dell’Autorità d’ambito, istituito dall’articolo 3, comma 24, della legge 28 dicembre 1995, n. 549, che la ripartisce tra i Comuni del proprio territorio sulla base delle quote di raccolta differenziata raggiunte nei singoli Comuni.
Il comma 24 dell’articolo 3 della legge n. 549 del 1995, prevede che al fine di favorire la minore produzione di rifiuti e il recupero dagli stessi di materia prima e di energia, a decorrere dal 1° gennaio 1996 è istituito il tributo speciale per il deposito in discarica dei rifiuti solidi, così come definiti e disciplinati dall'articolo 2 del D.P.R. 10 settembre 1982, n. 915
Ai sensi del comma 25 presupposto dell'imposta è il deposito in discarica dei rifiuti solidi, compresi i fanghi palabili.
Il comma 26 stabilisce che soggetto passivo dell'imposta è il gestore dell'impresa di stoccaggio definitivo con obbligo di rivalsa nei confronti di colui che effettua il conferimento.
Il comma 27 prevede che il tributo è dovuto alle regioni e che una quota del 10 per cento di esso spetta alle province. Il 20 per cento del gettito derivante dall'applicazione del tributo, al netto della quota spettante alle province, affluisce invece in un apposito fondo della regione destinato a favorire la minore produzione di rifiuti, le attività di recupero di materie prime e di energia, con priorità per i soggetti che realizzano sistemi di smaltimento alternativi alle discariche, nonché a realizzare la bonifica dei suoli inquinati, ivi comprese le aree industriali dismesse, il recupero delle aree degradate per l'avvio ed il finanziamento delle agenzie regionali per l'ambiente e la istituzione e manutenzione delle aree naturali protette. L'impiego delle risorse è disposto dalla regione, nell'ambito delle destinazioni sopra indicate, con propria deliberazione, ad eccezione di quelle derivanti dalla tassazione dei fanghi di risulta che sono destinate ad investimenti di tipo ambientale riferibili ai rifiuti del settore produttivo soggetto al predetto tributo.
Ai sensi del comma 28 la base imponibile è costituita dalla quantità dei rifiuti conferiti in discarica sulla base delle annotazioni nei registri tenuti in attuazione degli articoli 11 e 19 del decreto del Presidente della Repubblica 10 settembre 1982, n. 915. Ai sensi del comma 29, l'ammontare dell'imposta è fissato, con legge della regione entro il 31 luglio di ogni anno per l'anno successivo, per chilogrammo di rifiuti conferiti: in misura non inferiore ad euro 0,001 e non superiore ad euro 0,01 per i rifiuti ammissibili al conferimento in discarica per i rifiuti inerti ai sensi dell'articolo 2 del D.M. 13 marzo 2003 del Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 67 del 21 marzo 2003; in misura non inferiore ad euro 0,00517 e non superiore ad euro 0,02582 per i rifiuti ammissibili al conferimento in discarica per rifiuti non pericolosi e pericolosi ai sensi degli articoli 3 e 4 del medesimo decreto. In caso di mancata determinazione dell'importo da parte delle regioni entro il 31 luglio di ogni anno per l'anno successivo, si intende prorogata la misura vigente. Il tributo è determinato moltiplicando l'ammontare dell'imposta per il quantitativo, espresso in chilogrammi, dei rifiuti conferiti in discarica, nonché per un coefficiente di correzione che tenga conto del peso specifico, della qualità e delle condizioni di conferimento dei rifiuti ai fini della commisurazione dell'incidenza sul costo ambientale da stabilire con decreto del Ministro dell'ambiente, di concerto con i Ministri dell'industria, del commercio e dell'artigianato e della sanità, entro sei mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge
Il comma 4 prevede che con decreto del Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio di concerto con il Ministro delle attività produttive d’intesa con la Conferenza Stato–regioni, vengono stabilite la metodologia e i criteri di calcolo delle percentuali di cui ai commi 1 e 2, nonchè la nuova determinazione del coefficiente di correzione di cui all’articolo 3, comma 29 della legge 28 dicembre 1995, n. 549 in relazione al conseguimento degli obiettivi di cui ai commi 1 e 2.
Ai sensi del comma 5, sino all’emanazione del decreto di cui al comma 4 continua ad applicarsi la disciplina attuativa di cui all’articolo 3, commi da 24 a 40, della legge 28 dicembre 1995, n. 549.
Infine, il comma 6 prevede che le regioni tramite apposita legge, e previa intesa con il Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio, possono indicare maggiori obiettivi di riciclo e recupero.
L’articolo 207 prevede invece che le funzioni già esercitate dall’Osservatorio nazionale dei rifiuti siano esercitate dall’ Autorità di vigilanza sulle risorse idriche e sui rifiuti (vedi commento agli artt. 159 e seguenti, nella Parte Terza dello schema di decreto)
In particolare, il comma 1 prevede che l’Autorità garantisce e vigila in merito all'osservanza dei principi ed al perseguimento delle finalità di cui allo schema di decreto, con particolare riferimento all'efficienza, all'efficacia, all'economicità ed alla trasparenza del servizio.
Il comma 2 prevede che l’Autorità subentra in tutte competenze già assegnate dall’articolo 26 del decreto legislativo 5 febbraio 1997, n. 22 all’Osservatorio nazionale sui rifiuti, il quale continua ad operare sino all’entrata in vigore del regolamento di cui al comma 4 dell’articolo 159 del lo schema di decreto.
Ai sensi del comma 3, la struttura e la composizione dell’Autorità sono disciplinate dall’articolo 159
Il comma 4 prevede che l’autorità svolge le funzioni previste dall’articolo 160.
Infine, il comma 5 dispone che per l'espletamento dei propri compiti ed al fine di migliorare, incrementare ed adeguare agli standard europei, alle migliori tecnologie disponibili ed alle migliori pratiche ambientali gli interventi in materia di tutela delle acque interne, di rifiuti e di bonifica dei siti inquinati, nonché di aumentare l'efficienza di detti interventi anche sotto il profilo della capacità di utilizzare le risorse derivanti da cofinanziamenti, l’Autorità si avvale della Segreteria tecnica di cui all’articolo 1, comma 42, della legge 15 dicembre 2004, n. 308. Essa può avvalersi, altresì, di organi ed uffici ispettivi e di verifica di altre amministrazioni pubbliche.
Questa parte della normativa rimane pressochè invariata, L’innovazione principale sembrerebbe essere quella recata dall’ articolo 208 in merito alla procedura prevista per la realizzazione e la gestione degli impianti di smaltimento e di recupero dei rifiuti.
In primo luogo, si osserva che il comma 12 dell’art. 208 estende a 10 anni (attualmente l’autorizzazione all’esercizio è valida 5 anni ai sensi dell’art. 28, comma 3 del decreto legislativo n. 22)
Una seconda innovazione consiste nel fatto che due procedure vengono accorpate. Non vi infatti- una procedura per l’autorizzazione degli impianti e una distinta per l’esercizio degli impianti. Vi è un’unica procedura per la realizzazione e per la gestione, che si conclude – fermi restando i termini previsti per la conclusione della VIA- entro 150 giorni dall’avvio della procedura.
Un’altra novità riguarda la previsione, in linea con quanto previsto dal decreto legislativo n. 59 del 2005 in materia di autorizzazione integrata ambientale, di una procedura – che ricalca quella normale- per le variazioni sostanziali dell’impianto che incidono sull’autorizzazione.
Gli articoli 209 e 210 introducono disposizioni nuove in materia di autorizzazioni per l’esercizio delle attività di gestione dei rifiuti.
L’articolo 209 prevede una procedura speciale per il rinnovo delle autorizzazioni di imprese in possesso di specifiche certificazioni.
Più in particolare, il comma 1 prevede che nel rispetto delle normative comunitarie, in sede di espletamento delle procedure previste per il rinnovo delle autorizzazioni all’esercizio di un impianto, ovvero per il rinnovo dell’iscrizione all’Albo di cui all’articolo 212, le imprese che risultino registrate ai sensi del Regolamento CE n. 761/2001, del Parlamento europeo e del Consiglio, del 19 marzo 2001 (Emas) ed operino nell’ambito del sistema Ecolabel di cui al regolamento 17 luglio 2000, n. 1980 o certificati UNI-EN ISO 14001 possono sostituire tali autorizzazioni o il nuovo certificato di iscrizione al suddetto Albo con autocertificazione resa alle autorità competenti, ai sensi del decreto del Presidente della Repubblica 28 dicembre 2000, n. 445.
Il comma 2 prevede che l’autocertificazione di cui al comma 1 deve essere accompagnata da una copia conforme del certificato di registrazione ottenuto ai sensi del regolamento di cui al medesimo comma 1, nonché da una denuncia di prosecuzione delle attività, attestante la conformità dell’impresa, dei mezzi e degli impianti alle prescrizioni legislative e regolamentari, con allegata una certificazione dell’esperimento di prove a ciò destinate, ove previste.
Ai sensi del comma 3, l’autocertificazione e i relativi documenti, di cui ai commi 1 e 2, sostituiscono a tutti gli effetti l’autorizzazione alla prosecuzione, ovvero all’esercizio delle attività previste dalle norme di cui al comma 1 e ad essi si applicano, in quanto compatibili, le disposizioni di cui al decreto del Presidente della Repubblica 26 aprile 1992, n. 300. Si applicano, altresì, le disposizioni sanzionatorie di cui all’articolo 21 della legge 7 agosto 1990, n. 241.
Il comma 4 prevede che l’autocertificazione e i relativi documenti mantengono l’efficacia sostitutiva di cui al comma 3 fino ad un periodo massimo di centottanta giorni successivi alla data di comunicazione all'interessato della decadenza, a qualsiasi titolo avvenuta, della registrazione ottenuta ai sensi del regolamento di cui al comma 1.
Il comma 5 prevede che salva l’applicazione delle sanzioni specifiche e salvo che il fatto costituisca più grave reato, in caso di accertata falsità delle attestazioni contenute nell’autocertificazione e dei relativi documenti, si applica l’articolo 483 del codice penale nei confronti di chiunque abbia sottoscritto la documentazione di cui ai commi 1 e 2.
Infine, ai sensi del comma 6 resta ferma l’applicazione della normativa nazionale di attuazione della direttiva 96/61/CE relativa alla prevenzione e riduzione integrate dell'inquinamento, per gli impianti rientranti nel campo di applicazione della medesima, con particolare riferimento al decreto legislativo 18 febbraio 2005, n. 59.
L’articolo 210 disciplina invece autorizzazioni in casi particolari.
In base al comma 1, coloro che alla data di entrata in vigore della parte quarta del presente decreto non abbiano ancora ottenuto l'autorizzazione alla gestione dell'impianto, ovvero intendano, comunque, richiedere una modifica dell'autorizzazione alla gestione di cui sono in possesso, ovvero ne richiedano il rinnovo presentano domanda alla regione competente per territorio, che si pronuncia entro novanta giorni dall'istanza. La procedura di cui al presente comma si applica anche a chi intende avviare una attività di recupero o di smaltimento di rifiuti in un impianto già esistente, precedentemente utilizzato o adibito ad altre attività. Ove la nuova attività di recupero o di smaltimento sia sottoposta a valutazione di impatto ambientale, si applicano le disposizioni previste dalla parte seconda del decreto per le modifiche sostanziali.
Il comma 2 prevede che resta ferma l’applicazione della normativa nazionale di attuazione della direttiva 96/61/CE relativa alla prevenzione e riduzione integrate dell'inquinamento per gli impianti rientranti nel campo di applicazione della medesima, con particolare riferimento al decreto legislativo 18 febbraio 2005, n. 59.
Ai sensi del comma 3, l'autorizzazione individua le condizioni e le prescrizioni necessarie per garantire l'attuazione dei principi di cui all'articolo 178 e contiene almeno i seguenti elementi:
a) i tipi ed i quantitativi di rifiuti da smaltire o da recuperare;
b) i requisiti tecnici, con particolare riferimento alla compatibilità del sito, alle attrezzature utilizzate, ai tipi ed ai quantitativi massimi di rifiuti ed alla conformità dell'impianto alla nuova forma di gestione richiesta;
c) le precauzioni da prendere in materia di sicurezza ed igiene ambientale;
d) la localizzazione dell'impianto da autorizzare;
e) il metodo di trattamento e di recupero;
f) i limiti di emissione in atmosfera, per i processi di trattamento termico dei rifiuti, anche accompagnati da recupero energetico;
g) le prescrizioni per le operazioni di messa in sicurezza, chiusura dell'impianto e ripristino del sito;
h) le garanzie finanziarie, ove previste dalla normativa vigente, o altre equivalenti; tali garanzie sono in ogni caso ridotte del 50 per cento per le imprese registrate ai sensi del regolamento CE n. 761/2001, del Parlamento europeo e del Consiglio, del 19 marzo 2001 (Emas), e del 40 per cento nel caso di imprese in possesso della certificazione ambientale ai sensi della norma Uni En Iso 14001;
i) la data di scadenza dell’autorizzazione, in conformità a quanto previsto dall’articolo 208, comma 12.
Il comma 4 dispone che quando a seguito di controlli successivi all'avviamento degli impianti, la cui costruzione è stata autorizzata, questi non risultino conformi all'autorizzazione predetta, ovvero non siano soddisfatte le condizioni e le prescrizioni contenute nell'autorizzazione all'esercizio delle operazioni di cui al comma 1, quest'ultima è sospesa, previa diffida, per un periodo massimo di dodici mesi. Decorso tale temine senza che il titolare abbia adempiuto a quanto disposto nell'atto di diffida, l'autorizzazione stessa è revocata.
Il comma 5 detta invece disposizioni in materia di deposito temporaneo dei rifiuti, escludendolo dalla disciplina delle autorizzazioni
Più in particolare, si stabilisce che le disposizioni riguardanti le autorizzazioni non si applicano al deposito temporaneo effettuato nel rispetto delle condizioni di cui all'articolo 183, comma 1, lettera m), che è soggetto unicamente agli adempimenti relativi al registro di carico e scarico di cui all'articolo 190 ed al divieto di miscelazione di cui all'articolo 187. Tale disposizione è già prevista dal decreto legislativo n. 22 del 1997.
Una nuova disposizione introdotta dal comma 5 prevede invece che la medesima esclusione opera anche quando l’attività di deposito temporaneo nel luogo di produzione sia affidata dal produttore ad altro soggetto autorizzato alla gestione di rifiuti. Il conferimento di rifiuti da parte del produttore all’affidatario del deposito temporaneo costituisce adempimento agli obblighi di cui all’articolo 188, comma 3. In tal caso le annotazioni sia da parte del produttore che dell’affidatario del deposito temporaneo debbono essere effettuate entro ventiquattro ore.
Si ricorda in proposito che il comma 3 dell’articolo 188 prevede che la responsabilità del detentore per il corretto recupero o smaltimento dei rifiuti è esclusa:
a) in caso di conferimento dei rifiuti al servizio pubblico di raccolta;
b) in caso di conferimento dei rifiuti a soggetti autorizzati alle attività di recupero o di smaltimento, a condizione che il detentore abbia ricevuto il formulario di cui all'articolo 193 controfirmato e datato in arrivo dal destinatario entro tre mesi dalla data di conferimento dei rifiuti al trasportatore, ovvero alla scadenza del predetto termine abbia provveduto a dare comunicazione alla Provincia della mancata ricezione del formulario. Per le spedizioni transfrontaliere di rifiuti tale termine è elevato a sei mesi e la comunicazione è effettuata alla regione.
Il comma 6 prevede che per i rifiuti in aree portuali e per le operazioni di imbarco e sbarco in caso di trasporto transfrontaliero di rifiuti si applica quanto previsto dall’articolo 208, comma 14.
Il comma 14 dell’articolo 208 contiene una disposizione nuova rispetto al decreto n. 22 del 1997, in base alla quale il controllo e l'autorizzazione delle operazioni di carico, scarico, trasbordo, deposito e maneggio di rifiuti in aree portuali sono disciplinati dalle specifiche disposizioni di cui alla legge 28 gennaio 1994, n. 84 e di cui al decreto legislativo 24 giugno 2003, n. 182 di attuazione della direttiva 2000/59/CE sui rifiuti prodotti sulle navi e dalle altre disposizioni previste in materia dalla normativa vigente. Nel caso di trasporto transfrontaliero di rifiuti, l'autorizzazione delle operazioni di imbarco e di sbarco non può essere rilasciata se il richiedente non dimostra di avere ottemperato agli adempimenti di cui all'articolo 194 del decreto.
Il comma 7 dispone che per gli impianti mobili, di cui all’articolo 208, comma 15, si applicano le disposizioni ivi previste.
Il comma 15 dell’articolo 208 con disposizione eguale ad una disposizione contenuta nel decreto n. 22 del 1997 prevede che “Gli impianti mobili di smaltimento o di recupero, ad esclusione della sola riduzione volumetrica e separazione delle frazioni estranee, sono autorizzati, in via definitiva, dalla regione ove l'interessato ha la sede legale o la società straniera proprietaria dell'impianto ha la sede di rappresentanza. Per lo svolgimento delle singole campagne di attività sul territorio nazionale, l'interessato, almeno sessanta giorni prima dell'installazione dell'impianto, deve comunicare alla regione nel cui territorio si trova il sito prescelto le specifiche dettagliate relative alla campagna di attività, allegando l'autorizzazione di cui al comma 1 e l'iscrizione all'albo nazionale delle imprese di gestione dei rifiuti, nonché l'ulteriore documentazione richiesta. La regione può adottare prescrizioni integrative oppure può vietare l'attività con provvedimento motivato qualora lo svolgimento della stessa nello specifico sito non sia compatibile con la tutela dell'ambiente o della salute pubblica..”
Infine, il comma 8 prevede che ove l'autorità competente non provveda a concludere il procedimento relativo al rilascio dell'autorizzazione entro i termini previsti dal comma 1, si applica il potere sostitutivo di cui all'articolo 5 del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112.
L’articolo 213 prevede che le autorizzazioni integrate ambientali rilasciate ai sensi del decreto legislativo 18 febbraio 2005, n. 59 sostituiscono ad ogni effetto, secondo le modalità ivi previste:
a) le autorizzazioni ;
b) la comunicazione di cui al successivo articolo 216 limitatamente agli impianti non ricadenti nella categoria 5 dell'Allegato I del decreto legislativo 18 febbraio 2005, n. 59, ferma restando la possibilità di utilizzare successivamente le procedure semplificate previste dal capo V.
Lo stesso articolo dispone che, al trasporto dei rifiuti di cui alla lista verde del regolamento (Cee) 1° febbraio 1993, n. 259, destinati agli impianti di cui al comma 1 dello stesso articolo si applicano le disposizioni di cui agli articoli 214 e 216 del presente decreto.
L’articolo 216 introduce inoltre un’importante novità in tema di recupero di rifiuti. Tale articolo, conformemente a quanto prevede il decreto n. 22 del 1997, disciplina le modalità attraverso le quali è possibile esercitare operazioni di recupero in base a procedure semplificate. In questo caso vi è cioè la possibilità di avviare l’attività di recupero sulla base di una denuncia di inizio attività.
La novità introdotta riguarda invece la possibilità di individuare con apposito decreto ministeriale dei rifiuti non pericolosi che sono sottratti al regime delle autorizzazioni e per i quali vige soltanto l’obbligo di rispettare gli articoli 188 comma 3, 189,190 e 193.(registro di carico e scarico, formulario di identificazione dei rifiuti).
In particolare, il comma 9 prevede che con apposite norme tecniche adottate ai sensi del comma 1, da pubblicare entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore del decreto, è individuata una lista di rifiuti non pericolosi maggiormente utilizzati nei processi dei settori produttivi nell’osservanza dei seguenti criteri:
a) diffusione dell’impiego nel settore manifatturiero sulla base di dati di contabilità nazionale o di studi di settore o di programmi specifici di gestione dei rifiuti approvati ai sensi delle disposizioni del decreto;
b) utilizzazione coerente con le migliori tecniche disponibili senza pericolo per la salute dell’uomo e senza usare procedimenti o metodi che potrebbero recare pregiudizio all’ambiente;
c) impiego in impianti autorizzati.
Si osserva al riguardo che la direttiva n. 442 del 1975 prevede che tutte le attività di recupero di rifiuti devono essere esplicitamente autorizzate, mentre nel caso di specie si prevede che con riferimento a determinate categorie di rifiuti non pericolosi non sia necessaria l’autorizzazione.
Occorre peraltro rimarcare la circostanza che l’esenzione dal regime autorizzatorio è possibile solo nel caso in cui i rifiuti in questione siano impiegati in impianti autorizzati.
Sono introdotte una serie di nuovi disposizioni che riguardano particolari categorie di rifiuti.
Vengono introdotte una serie di novità relativamente alla disciplina degli imballaggi, la maggior parte delle quali ha la finalità di adeguare la disciplina italiana in materia di imballaggi alla direttiva 94/62/ Ce in materia di imballaggi e in particolare alla direttiva 2004/12/CE, che ha apportato modifiche alla direttiva 94/62.
La prima novità è contenuta nell’articolo 217, il quale specifica al comma 2 che “gli operatori delle rispettive filiere degli imballaggi nel loro complesso garantiscono, secondo i principi della responsabilità condivisa che l’impatto ambientale degli imballaggi e dei rifiuti da di imballaggio sia ridotto al minimo possibile per tutto il ciclo di vita.” Tale disposizione recepisce una novità introdotta con la direttiva 2004/12 /CE.
Altre novità sonocontenute nell’articolo 218 riguardante le definizioni.
Viene innanzitutto introdotta la definizione di imballaggio riutilizzabile, definito come “imballaggio o componente di imballaggio che è stato concepito e progettato per sopportare nel corso del suo ciclo di vita un numero minimo di viaggi o rotazioni all’interno di un circuito di utilizzo”.
Si osserva al riguardo che tale definizione non è contemplata dalle direttive comunitarie in materia.
Non sono contemplate dalle direttive nemmeno le definizioni di “filiera”, “ritiro” e “ripresa”.
I tre concetti vengono così definiti:
aa) filiera: organizzazione economica e produttiva che svolge la propria attività, dall’inizio del ciclo di lavorazione al prodotto finito di imballaggio, nonché svolge attività di recupero e riciclo a fine vita dell'imballaggio stesso;
bb) ritiro: l’operazione di ripresa dei rifiuti di imballaggio primari o comunque conferiti al servizio pubblico, nonché dei rifiuti speciali assimilati, gestita dagli operatori dei servizi di igiene urbana o simili;
cc) ripresa: l’operazione di restituzione degli imballaggi usati secondari e terziari dall’utilizzatore o utente finale, escluso il consumatore, al fornitore della merce o distributore e, a ritroso, lungo la catena logistica di fornitura fino al produttore dell’ imballaggio stesso.
Viene invece introdotta la definizione di “accordo volontario”, che è presente nelle direttive europee.
La definizione è la seguente:accordo volontario: accordo formalmente concluso tra le pubbliche amministrazioni competenti e i settori economici interessati, aperto a tutti i soggetti interessati, che disciplina i mezzi, gli strumenti e le azioni per raggiungere gli obiettivi di cui all’articolo 220
Un’ulteriore novità costituente adeguamento alla normativa comunitaria è contenuta nell’articolo 219, il quale richiama ai fini dell’etichettatura degli imballaggi la decisione 97/129/CE della Commissione.
L’articolo 220 ridetermina attraverso il richiamo all’Allegato E, gli obiettivi di recupero e di riciclaggio da conseguire, adeguandosi agli obiettivi introdotti con la direttiva 2004/12/CE.
Un’altra novità introdotta dalla direttiva 2004/12 e ripresa dallo schema di decreto è la norma contenuta nell’articolo 220 in base alla quale “i rifiuti di imballaggio esportati dalla Comunità ai sensi del regolamento (Cee) del 1° febbraio 1993, n. 259 del Consiglio, del regolamento (Ce) 29 aprile 1999, n. 1420 del Consiglio e del regolamento (Ce) 12 luglio 1999, n. 1547 della Commissione sono presi in considerazione, ai fini dell'adempimento degli obblighi e del conseguimento degli obiettivi di cui al comma 1, solo se sussiste idonea documentazione comprovante che l'operazione di recupero e/o di riciclaggio è stata effettuata con modalità equivalenti a quelle previste al riguardo dalla legislazione comunitaria”
I commi 3 e 4 dell’articolo 220 riproducono anch’essi nuove disposizioni riproduttive di identiche disposizioni contenute nella direttiva 2004/12/CE.
In base al comma 3, le pubbliche amministrazioni e i gestori incoraggiano, per motivi ambientali o in considerazione del rapporto costi-benefici, il recupero energetico ove esso sia preferibile al riciclaggio, purché non si determini uno scostamento rilevante rispetto agli obiettivi nazionali di recupero e di riciclaggio, mentre ai sensi del comma 4 le pubbliche amministrazioni e i gestori incoraggiano, ove opportuno, l'uso di materiali ottenuti da rifiuti di imballaggio riciclati per la fabbricazione di imballaggi e altri prodotti mediante:
a) il miglioramento delle condizioni di mercato per tali materiali;
b) la revisione delle norme esistenti che impediscono l'uso di tali materiali.
Altre novità sono introdotte dall’articolo 221. La primaè relativa al fatto che, a differenza che nella disciplina vigente, la disciplina prevista dallo schema di decreto dispone che qualora i produttori decidano di adempiere ai loro obblighi senza l’adesione al CONAI o ad uno degli altri consorzi previsti, vi è un controllo da parte dell’autorità competente (Autorità di vigilanza sulle risorse idriche e sui rifiuti) relativamente alle modalità prescelte per l’adempimento degli obblighi stessi. Nel caso in cui tali modalità non vengano ritenute soddisfacenti, vi sarà l’obbligo di partecipare ad uno dei Consorzi previsti.
La seconda è relativa all’inserimento di alcuni obblighi specifici gravanti in capo agli utilizzatori nel caso di mancata adesione ai consorzi per l’assolvimento dei propri obblighi. Viene infatti previsto dal comma 4 dell’articolo 221 che gli utilizzatori sono tenuti a consegnare gli imballaggi usati secondari e terziari e i rifiuti di imballaggio secondari e terziari in un luogo di raccolta organizzato dai produttori e con gli stessi concordato. Gli utilizzatori possono tuttavia conferire al servizio pubblico i suddetti imballaggi e rifiuti di imballaggio nei limiti derivanti dai criteri determinati ai sensi dell’articolo 195, comma 2, lettera e). Fino all’adozione dei criteri di cui all'articolo 195, comma 2, lettera e), il conferimento degli imballaggi usati secondari e terziari e dei rifiuti di imballaggio secondari e terziari al servizio pubblico è ammesso per superfici private non superiori a 150 metri quadri nei comuni con popolazione residente inferiore a diecimila abitanti, ovvero a 250 metri quadri nei comuni con popolazione residente superiore a diecimila abitanti.
Ai sensi dell'articolo 195, comma 2, lettera e) compete allo Stato la determinazione dei criteri qualitativi e quali-quantitativi per l'assimilazione, ai fini della raccolta e dello smaltimento, dei rifiuti speciali ai rifiuti urbani, derivanti da enti e imprese esercitate su aree con superficie non superiore ai 150 metri quadri nei comuni con popolazione residente inferiore a 10.000 abitanti, o superficie non superiore a 250 metri quadri nei comuni con popolazione residente superiore a 10.000 abitanti. Non possono essere di norma assimilati ai rifiuti urbani i rifiuti che si formano nelle aree industriali compresi i magazzini di materie prime e di prodotti finiti, salvo i rifiuti prodotti negli uffici e nelle mense;
Per gli artt. 222-224 e 233-234, si rinvia ai capitoli successivo relativi alle innovazioni normative recate in materia di consorzi.
Nuove disposizioni sono introdotte dall’articolo 227, in base al quale restano invece ferme le disposizioni speciali, nazionali e comunitarie relative alle altre tipologie di rifiuti, ed in particolare quelle riguardanti:
a) rifiuti elettrici ed elettronici: direttiva 2000/53/CE, direttiva 2002/95/CE e direttiva 2003/108/CE e relativo decreto legislativo di attuazione 25 luglio 2005, n. 151. Relativamente alla data di entrata in vigore delle singole disposizioni del citato provvedimento, nelle more dell’entrata in vigore di tali disposizioni, continua ad applicarsi la disciplina di cui all’articolo 44 del decreto legislativo 5 febbraio 1997, n. 22.
b) rifiuti sanitari: decreto del Presidente della Repubblica 15 luglio 2003, n. 254;
c) veicoli fuori uso: direttiva 2000/53/CE e decreto legislativo 24 giugno 2003, n. 209;
d) recupero dei rifiuti dei beni e prodotti contenenti amianto: decreto ministeriale 29 luglio 2004, n. 248.
Per quel che riguarda il punto a), si ricorda che la disciplina di cui all’articolo 44 riguarda i beni durevoli.
Si ricorda brevemente che il decreto legislativo n. 151 del 2005 prevede il termine di un anno dall’entrata in vigore del decreto stesso per l’entrata in vigore di una serie di disposizioni relative alla raccolta differenziata, al trattamento e al ritiro dei rifiuti elettrici ed elettronici.
Tale decreto prevede un vero e proprio ciclo per la gestione dei rifiuti elettrici ed elettronici.
Le finalità del ciclo per la gestione dei rifiuti elettrici ed elettronici sono enunciate dall’articolo 1, che in particolare dispone che la finalità del decreto è quella di prevenire la produzione di RAEE e di promuovere il reimpiego e il riciclaggio e le altre forme di recupero dei RAEE, in modo da ridurne la quantità da avviare allo smaltimento.
L’articolo 2 definisce l’ambito di applicazione del decreto, mentre l’articolo 3 contiene le definizioni. L’articolo, in particolare, distingue tra RAEE domestici e professionali e tra RAEE storici (immessi sul mercato prima del 13 agosto 2005) e non.
L’articolo 4 prevede l’incentivazione da parte dello Stato di modalità di progettazione e fabbricazione delle apparecchiature elettriche ed elettroniche che privilegino il recupero, il riciclaggio e il reimpiego dei RAEE.
L’articolo 6 individua nella raccolta separata la prima fase della gestione dei RAEE, prevedendo obblighi a carico dei comuni, dei distributori e dei cittadini per quel che riguarda i RAEE domestici e a carico dei produttori o dei terzi che agiscono in loro nome per i RAEE professionali.
La seconda fase del ciclo prevede il ritiro e l’invio ai centri di trattamento dei RAEE raccolti da parte dei produttori o dei terzi che agiscono in loro nome (art. 7).
Ai sensi degli articoli 8 e 9, i produttori o i terzi che agiscono in loro norme sono inoltre tenuti a organizzare sistemi per il trattamento e il recupero dei RAEE.
In particolare, l’articolo 9 prevede il raggiungimento di una serie di obiettivi in materia di recupero, riciclaggio e reimpiego dei RAEE.
Gli articoli 10,11 e 12 riguardano invece il finanziamento delle operazioni di trasporto ai centri di trattamento e recupero, recupero e trattamento dei RAEE. Gli oneri relativi a tali operazioni sono sempre a carico del produttore nel caso di RAEE domestici (storici e non),di RAEE professionali non storici e nel caso di apparecchiature di illuminazione, mentre nel caso di RAEE professionali storici l’onere ricade sul detentore in determinati casi.
L’articolo 228 introduce disposizioni riguardanti i pneumatici fuori uso.
Il comma 1 prevede che fermo restando il disposto del decreto legislativo 24 giugno 2003, n. 209 (relativa ai veicoli fuori uso), al fine di ottimizzare il recupero dei pneumatici fuori uso è fatto obbligo ai produttori e importatori di pneumatici di provvedere, singolarmente o in forma associata e con periodicità almeno annuale, alla gestione di quantitativi di pneumatici fuori uso pari a quelli dai medesimi immessi sul mercato e destinati alla vendita sul territorio nazionale.
Il comma 2 prevede che con decreto del Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio, d'intesa con la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano, da emanarsi nel termine di giorni centoventi dalla data di entrata in vigore dello schema di decreto, sono disciplinate le modalità attuative dell'obbligo di cui al comma 1. In tutte le fasi della commercializzazione dei pneumatici è indicato in fattura il contributo a carico degli utenti finali.
Ai sensi del comma 3, il trasferimento all’eventuale struttura operativa associata, da parte dei produttori e importatori di pneumatici che ne fanno parte, delle somme corrispondenti al contributo per il recupero, calcolato sul quantitativo di pneumatici immessi sul mercato nell’anno precedente, secondo le modalità indicate nel decreto di cui al comma 2, costituisce adempimento dell’obbligo di cui al comma 1 con esenzione del produttore o importatore da ogni relativa responsabilità.
Infine, ai sensi del comma 4 produttori e gli importatori di pneumatici inadempienti agli obblighi di cui al comma 1 sono assoggettati ad una sanzione amministrativa pecuniaria fino al doppio del contributo stabilito per il periodo considerato.
L’articolo 229 detta disposizioni in materia di combustibile da rifiuti e combustibile da rifiuti di qualità elevata.
Il comma 1 prevede che il combustibile da rifiuti (CDR), come definito dall'articolo 183, comma 1, lettera r), è classificato come rifiuto speciale.
Tale previsione normativa è già contenuta nel decreto “Ronchi”.
Il comma 2 dispone che è escluso dall’ambito di applicazione del decreto il combustibile da rifiuti di qualità elevata (CDR-Q), come definito dall'articolo 183, comma 1, lettera s), prodotto nell’ambito di un processo produttivo che adotta un sistema di gestione per la qualità basato sullo standard UNI-EN ISO 9001 e destinato all’effettivo utilizzo in co-combustione, come definita dall’articolo 2, comma 1, lettera g), del decreto del ministro dell’industria, del commercio e dell’artigianato 11 novembre 1999, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 292 del 14 dicembre 1999, in impianti di produzione di energia elettrica e in cementifici, come specificato nel decreto del presidente del Consiglio dei ministri 8 marzo 2002, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 60 del 12 marzo 2002. Il Governo è inoltre autorizzato ad apportare le conseguenti modifiche al citato decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 8 marzo 2002.
Tale disposizione è stata introdotta nel decreto n. 22 dalla legge n. 308 del 2004(“legge delega in materia ambientale”)
Ai sensi di una nuova disposizione contenuta nel comma 3, la produzione del CDR e del CDR-Q deve avvenire nel rispetto della gerarchia del trattamento dei rifiuti e rimane comunque subordinata al rilascio delle autorizzazioni alla costruzione e all’esercizio dell’impianto previste dal decreto. Nella produzione del CDR e del CDR-Q è ammesso per una percentuale massima del 50 per cento in peso l'impiego di rifiuti speciali non pericolosi. Per la produzione e l’impiego del CDR è ammesso il ricorso alle procedure semplificate di cui agli articoli 214 e 216., mentre ai sensi di un’altra norma nuova contenuta nel comma 4 ai fini della costruzione e dell’esercizio degli impianti di incenerimento o coincenerimento che utilizzano il CDR si applicano le specifiche disposizioni, comunitarie e nazionali, in materia di autorizzazione integrata ambientale e di incenerimento dei rifiuti. Per la costruzione e per l’esercizio degli impianti di produzione di energia elettrica e per i cementifici che utilizzano CDR-Q si applica invece la specifica normativa di settore. Le modalità per l’utilizzo del CDR-Q sono definite dal citato decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 8 marzo 2002.
Il comma 5 prevede che il CDR-Q è fonte rinnovabile, ai sensi dell’articolo 2, comma 1, lettera a), del decreto legislativo 29 dicembre 2003, n. 387, in misura proporzionale alla frazione biodegradabile in esso contenuta, mentre, infine ai sensi del comma 6 il CDR e il CDR-Q beneficiano del regime di incentivazione di cui all’articolo 17, comma 1, del decreto legislativo 29 dicembre 2003, n. 387.
Tali ultime disposizioni hanno quindi la finalità di equiparare il combustibile da rifiuti di qualità elevata ai rifiuti per quel che concerne il trattamento delle fonti rinnovabili.
Si osserva che appare opportuno aggiungere all’elenco delle abrogazioni anche il comma 29 della legge n. 308 del 2004, in quanto le norme sui combustibili da rifiuti – ivi contenute – sono sostanzialmente riprodotte integralmente nell’art. 229 dello schema di decreto.
.L’articolo 2 comma 1 lettera a) del decreto legislativo n. 387 dispone che per fonti energetiche rinnovabili o fonti rinnovabili si intendono le fonti energetiche rinnovabili non fossili (eolica, solare, geotermica, del moto ondoso, maremotrice, idraulica, biomasse, gas di discarica, gas residuati dai processi di depurazione e biogas) e in particolare, per biomasse si intende la parte biodegradabile dei prodotti, rifiuti e residui provenienti dall'agricoltura (comprendente sostanze vegetali e animali) e dalla silvicoltura e dalle industrie connesse, nonché la parte biodegradabile dei rifiuti industriali e urbani, mentre l’articolo 17 comma 1 prevede che ai sensi di quanto previsto dall'articolo 43, comma 1, lettera e), della legge 1° marzo 2002, n. 39, e nel rispetto della gerarchia di trattamento dei rifiuti di cui al decreto legislativo 5 febbraio 1997, n. 22, sono ammessi a beneficiare del regime riservato alle fonti energetiche rinnovabili i rifiuti, ivi compresa, anche tramite il ricorso a misure promozionali, la frazione non biodegradabile ed i combustibili derivati dai rifiuti, di cui ai decreti previsti dagli articoli 31 e 33 del decreto legislativo 5 febbraio 1997, n. 92 e alle norme tecniche UNI 9903-1.
Per quel che riguarda gli impianti di incenerimento e di coincenerimento, si ricorda che è recentemente intervenuta il decreto legislativo n. 133 del 2005, il quale si applica agli impianti di incenerimento e di coincenerimento dei rifiuti e stabilisce le misure e le procedure finalizzate a prevenire e ridurre per quanto possibile gli effetti negativi dell’incenerimento e del coincenerimento dei rifiuti sull’ambiente, in particolare l'inquinamento atmosferico, del suolo, delle acque superficiali e sotterranee, nonché i rischi per la salute umana che ne derivino.
Il decreto, in 22 articoli e 3 allegati, disciplina i valori limite di emissione degli impianti di incenerimento e di coincenerimento dei rifiuti; i metodi di campionamento, di analisi e di valutazione degli inquinanti derivanti dagli impianti di incenerimento e di coincenerimento dei rifiuti; i criteri e le norme tecniche generali riguardanti le caratteristiche costruttive e funzionali, nonché le condizioni di esercizio degli impianti di incenerimento e di coincenerimento dei rifiuti, con particolare riferimento alle esigenze di assicurare una elevata protezione dell’ambiente contro le emissioni causate dall'incenerimento e dal coincenerimento dei rifiuti; i criteri temporali di adeguamento degli impianti di incenerimento e di coincenerimento di rifiuti esistenti alle disposizioni del presente decreto.
Sono esclusi dal campo di applicazione del decreto gli impianti sperimentali utilizzati a fini di ricerca, sviluppo e sperimentazione per migliorare il processo di incenerimento che trattano meno di 50 tonnellate di rifiuti all’anno e gli impianti che trattano esclusivamente una o più categorie dei seguenti rifiuti: rifiuti vegetali derivanti da attività agricole e forestali; rifiuti vegetali derivanti dalle industrie alimentari di trasformazione, se l’energia termica generata è recuperata; rifiuti vegetali fibrosi derivanti dalla produzione della pasta di carta grezza e dalla relativa produzione di carta, se il processo di coincenerimento viene effettuato sul luogo di produzione e l’energia termica generata è recuperata; rifiuti di legno ad eccezione di quelli che possono contenere composti organici alogenati o metalli pesanti o quelli classificati pericolosi ai sensi dell’articolo 2, comma 1, lettera b), a seguito di un trattamento protettivo o di rivestimento; rientrano in particolare in tale eccezione i rifiuti di legno di questo genere derivanti dai rifiuti edilizi e di demolizione; rifiuti di sughero; rifiuti radioattivi; corpi interi o parti di animali, non destinati al consumo umano, ivi compresi gli ovuli, gli embrioni e lo sperma, di cui all'articolo 2, comma 1, lettera a), del regolamento n. 1774/2002/CE. Rimangono assoggettati al decreto gli impianti che trattano prodotti di origine animale, compresi i prodotti trasformati, di cui al regolamento n. 1774/2002/CE; rifiuti derivanti dalla prospezione e dallo sfruttamento delle risorse petrolifere e di gas negli impianti offshore e inceneriti a bordo di questi ultimi;
Si ricorda che la classificazione del combustibile da rifiuti come rifiuto speciale è stata effettuata per la prima volta dal decreto legge n. 452/2001 che ha aggiunto all’art. 7 comma 3( riguardante l’elencazione dei rifiuti speciali) del D.lgs. n. 22/1997 una lettera l-bis) dal seguente tenore “il combustibile derivato da rifiuti qualora non rivesta le caratteristiche qualitative individuate da norme tecniche finalizzate a definire contenuti ed usi compatibili con la tutela ambientale”.
La disposizione, così formulata, poteva essere interpretata nel senso che il CDR potrebbe – in alcuni casi - essere considerato rifiuto speciale (e cioè qualora non risponda, in termini di caratteristiche, a quanto indicato dalle norme tecniche) in altri casi, invece, rifiuto urbano.
La questione è stata successivamente risolta con la legge n. 179/2002 (cosiddetto. “collegato ambientale”) che, con una modifica stabilita dall’art. 23 comma 1 lettera a), ha soppresso proprio la parte che va da “qualora” a “tutela ambientale”, eliminando in questo modo ogni ambiguità.
Si osserva che l’esclusione del combustibile da rifiuti di qualità elevata dall’ambito di applicazione delle norme sulla gestione dei rifiuti sembra porsi in contrasto con la lettera di messa in mora inviata il 5 luglio 2005 dalla Commissione europea nell’ambito della procedura di infrazione n. 2005/4051.
In tale lettera la Commissione contesta l’esclusione della disciplina sui rifiuti al combustibile di derivato da rifiuti di qualità elevata, in quanto il combustibile da rifiuti non può essere definito come il risultato di un’operazione di recupero completa. Esso è infatti -in base alle argomentazioni fornite dalla Commissione europea- il risultato di un processo di selezione e miscelazione di rifiuti che mantengono tale caratteristica anche dopo detto trattamento.
La Commissione osserva anche che il combustibile derivato da rifiuti è a tutti gli effetti un rifiuto fino a quando lo stesso non viene combusto per produrre energia.
Un altro elemento in base al quale deve riconoscersi la qualifica di rifiuto al combustibile derivato da rifiuti è l’inclusione dello stesso, in base alla decisione della Commissione 2000/532/Ce nel catalogo europeo dei rifiuti.
L’articolo 230 reca disposizioni in materia di attività di manutenzione delle infrastrutture.
Il comma 1 prevede che il luogo di produzione dei rifiuti derivanti da attività di manutenzione alle infrastrutture, effettuata direttamente dal gestore dell’infrastruttura a rete e degli impianti per l’erogazione di forniture e servizi di interesse pubblico o tramite terzi, può coincidere con la sede del cantiere che gestisce l’attività manutentiva o con la sede locale del gestore della infrastruttura nelle cui competenze rientra il tratto di infrastruttura interessata dai lavori di manutenzione ovvero con il luogo di concentramento dove il materiale tolto d’opera viene trasportato per la successiva valutazione tecnica, finalizzata all’individuazione del materiale effettivamente, direttamente ed oggettivamente riutilizzabile, senza essere sottoposto ad alcun trattamento.
Il comma 2 prevede che la valutazione tecnica del gestore della infrastruttura di cui al comma 1 è eseguita non oltre sessanta giorni dalla data di ultimazione dei lavori. La documentazione relativa alla valutazione tecnica è conservata, unitamente ai registri di carico e scarico, per cinque anni.
Il comma 3 dispone che le disposizioni dei commi 1 e 2 si applicano anche ai rifiuti derivanti da attività manutentiva, effettuata direttamente da gestori erogatori di pubblico servizio o tramite terzi, dei mezzi e degli impianti fruitori delle infrastrutture di cui al comma 1.
Il comma 4 prevede infine che fermo restando quanto previsto nell’articolo 190, comma 3, i registri di carico e scarico relativi ai rifiuti prodotti dai soggetti e dalle attività di cui al presente articolo possono essere tenuti nel luogo di produzione dei rifiuti così come definito nel comma 1.
L’articolo 231 riproduce le disposizioni già previstedall’articolo 46 del decreto legislativo n. 22 del 1997 per i veicoli a motore, prevedendo che tali disposizioni non “si applichino ai veicoli appartenenti alle categorie M1 e N1 di cui all’Allegato III parte A della direttiva 2002/24/CE ad eccezione dei tricicli a motore”.
Si osserva in proposito che il riferimento non appare corretto in quanto l’Allegato III parte A della direttiva in questione non elenca veicoli.
L’articolo 232 fa rinvio aldecreto legislativo 24 giugno 2003, n. 182per quel che concerne la disciplina dei rifiuti prodotti dalle navi ed ai residui di carico.
Il decreto legislativo in questione prevede che vi siano in ciascun porto impianti per la raccolta dei rifiuti, impone obblighi di notifica ai comandanti delle navi e prevede che le autorità portuali predispongano appositi piani per la raccolta dei rifiuti
Un’analisi complessiva della disciplina prevista dal presente decreto per i consorzi evidenzia che l’impianto normativo di base viene conservato pressoché inalterato rispetto a quello vigente, mentre alcune significative modifiche vengono introdotte relativamente al regime di obbligatorietà (vedi infra)[76].
Il sistema dei consorzi per il recupero dei rifiuti - La disciplina vigente
L’originalità del sistema dei consorzi previsto dalle norme vigenti si pone sia rispetto alle norme comunitarie, che non prevedono l’istituzione di consorzi, ma si limitano a prescrivere l’obbligo di autorizzazione per il recupero e lo smaltimento dei rifiuti, sia nell’ordinamento nazionale, in quanto tali consorzi non sono identificabili né con le previsioni degli artt. 2602 e ss. c.c. né con i consorzi cd. amministrativi[77].
Si tratta, infatti, di organismi a gestione privata, finanziati dai consorziati e, però, posti sotto il controllo dello Stato. Infatti, pur essendo una sorta di enti strumentali dello Stato, la cui costituzione è obbligatoriamente stabilita dalla legge in vista degli scopi socialmente rilevanti che perseguono, i Consorzi hanno personalità giuridica di diritto privato, ma senza scopo di lucro[78].
Tali consorzi sono retti da uno statuto approvato con decreto ministeriale e ne fanno parte, nella maggior parte dei casi, le imprese private che producono o importano i beni da cui nascono i rifiuti da riciclare.
La soluzione adottata, quindi, realizza un bilanciamento tra pubblico e privato, lasciando al primo le funzioni di indirizzo e controllo e al secondo la responsabilità gestionale per il raggiungimento degli obiettivi stabiliti per legge. Tutto ciò senza aggravi per la collettività, sulla base del principio "chi inquina paga": i consorzi, infatti, provvedono ai mezzi finanziari necessari per la loro attività, principalmente con i proventi delle attività e con i contributi dei consorziati.
Il CONAI e i consorzi di filiera – La disciplina vigente
L’istituzione del Consorzio nazionale imballaggi (CONAI) e dei consorzi per ciascuna tipologia di materiale di imballaggio (cd. consorzi di filiera) ha rappresentato lo strumento concepito dal D.lgs. n. 22/1997 per consentire il raggiungimento degli obiettivi globali di recupero e riciclaggio fissati in sede comunitaria e per garantire il necessario raccordo con le pubbliche amministrazioni, responsabili della raccolta differenziata.
L'art. 40 del D.lgs. n. 22 del 1997 prevede che se i produttori non si organizzano in modo autonomo o non mettono in atto un sistema cauzionale dovranno costituire un consorzio per ciascuna tipologia di materiale di imballaggi (plastica, vetro, carta, metallo, legno)[79].
Tali cd. consorzi di filiera hanno lo scopo di razionalizzare ed organizzare la ripresa degli imballaggi usati, la raccolta dei rifiuti di imballaggi secondari e terziari su superfici private, e il ritiro di rifiuti di imballaggi conferiti al servizio pubblico su indicazione del CONAI, nonché il riciclaggio ed il recupero dei rifiuti di imballaggio secondo criteri di efficacia, efficienza ed economicità.
Si ricorda, in proposito, che con i decreti del ministro dell’ambiente 15 luglio 1998[80] sono stati approvati gli statuti dei seguenti consorzi di filiera:
§ Consorzio nazionale per il recupero ed il riciclo degli imballaggi a base cellulosica (COMIECO);
§ Consorzio nazionale per il recupero degli imballaggi in plastica (COREPLA);
§ Consorzio nazionale per il riciclo ed il recupero degli imballaggi usati di acciaio (CNA);
§ Consorzio imballaggi alluminio (CIAL);
§ Consorzio recupero vetro (COREVE);
§ Consorzio nazionale per il recupero e il riciclaggio degli imballaggi di legno (RILEGNO).
Il CONAI (istituito dall’art. 41 del D.lgs. n. 22/1997) ha un ruolo centrale nel sistema di gestione degli imballaggi, in quanto deve garantire il conseguimento degli obiettivi globali di recupero e di riciclaggio, e quindi il necessario raccordo tra le attività attribuite alla responsabilità dei produttori e degli utilizzatori e l'attività di raccolta differenziata effettuata dalle pubbliche amministrazioni.
La partecipazione al Consorzio è obbligatoria (sono previste sanzioni in caso di inadempimento[81]) ed è garantita in forma paritaria agli utilizzatori e ai produttori[82].
Il CONAI svolge in particolare funzioni di pianificazione, di organizzazione, di coordinamento con le regioni e le pubbliche amministrazioni e tra i consorzi.
I consorzi obbligatori per il recupero di particolari categorie di rifiuti: POLIECO, CONOE, COBAT e COOU – La disciplina vigente
Il problema della raccolta e del recupero energetico dell'olio minerale usato[83] è stato affrontato dal legislatore nazionale con l’emanazione del D.P.R. 691 del 1982 che ha recepito in maniera puntuale i criteri informativi della direttiva 439/75/CE, istituendo il Consorzio Obbligatorio degli Oli Usati (COOU). Successivamente, con il decreto legislativo 27 gennaio 1992, n. 95, integrato dal D.M. industria, commercio e artigianato 16 maggio 1996, n. 392 , è stata recepita nell’ordinamento nazionale anche la direttiva 101/87/CE relativa alla eliminazione degli olii usati.
Con l’art. 9-quinquies del D.L. n. 397 del 1988 è stato invece istituito il Consorzio obbligatorio batterie al piombo esauste e rifiuti piombosi (COBAT) con il compito di assicurare la raccolta delle batterie esauste e dei rifiuti piombosi ed organizzarne lo stoccaggio, quindi cedere i prodotti stessi alle imprese che ne effettuano il riciclaggio, in modo da garantire l'inertizzazione dell'acido solforico[84] e il recupero del piombo metallico.
Gli articoli 47 e 48 del D.lgs. n. 22 del 1997 hanno invece provveduto ad istituire il Consorzio nazionale di raccolta e trattamento degli oli e dei grassi vegetali ed animali esausti[85] (CONOE) nonché, al fine di ridurre il flusso dei rifiuti di polietilene destinati allo smaltimento, il Consorzio per il riciclaggio dei rifiuti di beni in polietilene (POLIECO).
In entrambi questi ultimi casi l’avvio del sistema consortile è stato abbastanza problematico, soprattutto a causa delle resistenze di alcuni operatori ad aderire a tali due consorzi[86].
Si ricorda, infine, che l’art. 48 specifica una serie di beni esclusi dall’attività del consorzio (in quanto disciplinati in altri articoli del decreto Ronchi): gli imballaggi; i beni durevoli per uso domestico; i rifiuti sanitari e i veicoli a motore ed i rimorchi.
Ciò premesso si fa notare che, per ognuno dei consorzi previsti dal decreto in esame, lo stesso provvede ad introdurre, rispetto alla disciplina vigente alcune disposizioni volte a precisare:
§ l’assenza di fini di lucro;
In realtà tale caratteristica, sebbene non esplicitata per certi consorzi, era comunque implicita nella legislazione vigente.
Per il COBAT e il COOU invece l’assenza di fini di lucro è chiaramente indicata, rispettivamente, dall’art. 9-quinquies, comma 4, del DL n. 397/1988, e dall’art. 11, comma 2, del D.lgs. n. 95/1992.
§ l’equilibrio della gestione finanziaria;
§ la redazione dello statuto sulla base di uno schema-tipo predisposto dal Ministero dell’ambiente, di concerto con il Ministro delle attività produttive (ad eccezione del CONAI);
Le norme vigenti prevedono semplicemente l’approvazione ministeriale dello statuto dei vari consorzi.
§ il rispetto, da parte dello statuto, dei principi fissati dal presente decreto, con particolare riguardo a quelli di efficienza, efficacia ed economicità (principi già dettati dalle norme vigenti), nonché all’ulteriore principio (non previsto, almeno in maniera esplicita, dalla disciplina vigente) di “libera concorrenza nelle attività di settore”;
§ che “i sistemi di gestione adottati devono, in ogni caso, essere aperti alla partecipazione di tutti gli operatori e concepiti in modo da assicurare il principio di trasparenza, di non discriminazione, di non distorsione della concorrenza, di libera circolazione nonché il massimo rendimento possibile” (art. 237).
Le novità principali introdotte dal presente decreto riguardano però:
§ la transizione da un regime di obbligatorietà ad un regime di volontarietà per l’adesione ai consorzi, nel rispetto del criterio dettato dalla legge delega (art. 1, comma 9, lettera a). In particolare vengono estese a tutti i consorzi le disposizioni previste per i Consorzi di filiera degli imballaggi (vedi infra) che prevedono, quale alternativa all’adesione ad uno dei consorzi, l’organizzazione autonoma della gestione - o ancora, nel caso del POLIECO o del CONAI, la previsione di un sistema di restituzione - previo riconoscimento del sistema alternativo adottato da parte dell’Autorità di vigilanza sulle risorse idriche e sui rifiuti.
Si ricorda che l’art. 1, comma 9, lettera a), della legge n. 308/2004 prevede, quale criterio di delega specifico in materia di rifiuti, “l'eventuale transizione dal regime di obbligatorietà al regime di volontarietà per l'adesione a tutti i consorzi costituiti ai sensi del decreto legislativo 5 febbraio 1997, n. 22”.
§ la possibilità di istituire più di un consorzio, ogni qualvolta il decreto Ronchi ne prevede solamente uno, ad eccezione del CONAI, che rimane unico. Nel settore degli imballaggi tuttavia la pluralità di soggetti riguarda i “sottostanti” consorzi di filiera.
Le modifiche principali previste dal presente decreto sembrano dunque orientate ad introdurre per tutti i consorzi un regime concorrenziale lasciando agli operatori la facoltà di costituire più consorzi per il recupero dello stesso tipo di rifiuto o di non aderirvi affatto, mettendo in atto un’organizzazione autonoma.
Nella relazione illustrativa il Governo sottolinea che le norme dettate corrispondono alla “necessità di garantire la concorrenzialità ed economicità nella gestione del sistema”.
Si ricorda, in proposito, che tale esigenza è stata riconosciuta dall’Autorità garante della concorrenza e del mercato che ha deliberato, in data 22 marzo 2005, di procedere ad un'indagine conoscitiva di natura generale nel settore dei rifiuti da imballaggio, comprensivo dei segmenti relativi a ciascuno dei consorzi di filiera[87].
Sull’operazione di riordino del regime dei consorzi, volta a ricondurre tutti i consorzi ad un regime gestionale simile, sono state sollevate alcune critiche: “si introduce un sistema di libero mercato portato alle estreme conseguenze; infatti, chiunque potrà creare consorzi per raccogliere e riciclare rifiuti. Non è chiaro però come l'ovvio proliferare degli Accordi di programma (stante la deregolamentazione ad essi connessa) possa far ritenere vincente questa formula. È evidente che sarà difficilissimo capire qualcosa, soprattutto da parte dei produttori di rifiuto e delle autorità di controllo”[88].
Numerose critiche sono state poi sollevate dai Consorzi nel corso delle audizioni svolte in data 14 dicembre 2005 innanzi alle Commissioni riunite di Camera (VIII) e Senato (13a).
Alcuni consorzi (è il caso ad esempio del COBAT e del COOU) hanno sottolineato come il proprio sistema consortile non si configuri come un vero e proprio sistema obbligatorio, poiché spesso l’obbligatorietà investe solo il Consorzio (obbligato alla raccolta), ma non i soggetti che detengono i rifiuti, che non sono né obbligati a conferire gli stessi al consorzio né sanzionati in caso di mancata adesione, e che tali consorzi non operino affatto in regime di monopolio.
Nel caso del COOU e del COBAT le norme vigenti consentono già un’adeguata tutela della concorrenza.
In particolare la disciplina relativa al COBAT è stata recentemente modificata in seguito ai rilievi della Commissione europea proprio per le finalità indicate.
L’art. 15 della legge 1° marzo 2002, n. 39 (legge comunitaria 2001) ha infatti modificato l'art. 9-quinquies, comma 6, del decreto-legge n. 397/1988 (istitutivo del COBAT) per conformarsi alle osservazioni sollevate nella Raccomandazione della Commissione europea del 21 maggio 2001, che invitava lo Stato italiano a superare le restrizioni all’esportazione di batterie al piombo esauste verso altri Stati membri dell’Unione.
Il citato comma 6 prevede infatti che “chiunque detiene batterie al piombo esauste o rifiuti piombosi è obbligato al loro conferimento al consorzio direttamente o mediante consegna a soggetti incaricati del consorzio o autorizzati, in base alla normativa vigente, a esercitare le attività di gestione di tali rifiuti. L'obbligo di conferimento non esclude la facoltà per il detentore di cedere le batterie esauste ed i rifiuti piombosi ad imprese di altro Stato membro della Comunità europea”.
Analoga disposizione è recata, per il COOU, dagli artt. 2 e 7 del D.lgs. n. 95/1992.
Un’analoga obiezione è stata sollevata dal CONOE nonché dal POLIECO, i cui rappresentanti hanno ricordato come per tale Consorzio si siano concluse positivamente ben due procedure di infrazione in materia di concorrenza e di mercato interno da cui è risultata la compatibilità del sistema consortile adottato con i principi comunitari della libera concorrenza, del mercato unico e della libera circolazione di merci.
Si fa notare, inoltre, che da più parti viene sollevato un problema di eccesso di delega relativo agli articoli 235 e 236 con cui il decreto in esame disciplina COBAT e COOU, la cui disciplina è estranea al decreto Ronchi, mentre la legge delega (n. 308/2004) prevede “l'eventuale transizione dal regime di obbligatorietà al regime di volontarietà per l'adesione a tutti i consorzi costituiti ai sensi del decreto legislativo 5 febbraio 1997, n. 22”.
“Infatti, mentre per i consorzi istituiti dal D.lgs. 22/1997 l'obbligatorietà o la volontarietà dell'adesione sono diventati oggetto di una opzione su cui può intervenire il legislatore delegato; di contro, sul regime di obbligatorietà stabilito dalla Legge per il Cobat e il Coou, il legislatore delegato non potrebbe intervenire perché non c'è omogeneità soggettiva ed oggettiva tra i Consorzi costituiti ai sensi del Dlgs 22/1997 e il Cobat e il Coou istituiti con Legge”[89].
All’eccesso di delega appare tuttavia superabile ove si interpreti in senso lato il contenuto dell’art. 1, comma 1, della legge n. 308/2004, ove si prevede la gestione dei rifiuti (quindi, nel suo complesso) tra i settori nei quali “il Governo è delegato ad adottare […] uno o più decreti legislativi di riordino, coordinamento e integrazione delle disposizioni legislative” vigenti.
E’ comunque opportuno osservare che le disposizioni recate dagli artt. 235 e 236 si sovrappongono in gran parte alle norme dettate dall’art. 9-quinquies del D.L. n. 397 del 1988 con cui è stato istituito il COBAT e dall’art. 11 (Consorzio obbligatorio degli oli usati) del decreto legislativo 27 gennaio 1992, n. 95, senza che di tali norme venga disposta l’abrogazione dall’art. 264.
Occorre pertanto – in ogni caso – provvedere ad un riordino della normativa relativa a COBAT e COOU anche abrogando le disposizioni vigenti riordinate e provvedendo alle necessarie integrazioni che, secondo quanto relazionato dai rappresentati di tali consorzi nel corso dell’audizione del 14 dicembre scorso, appaiono numerose.
La necessità di “introdurre ulteriori disposizioni che possano garantire la corretta operatività dei consorzi in essere” è stata evidenziata anche da Confindustria nel corso dell’audizione del 13 dicembre 2005.
Un’altra questione importante riguarda il dubbio, da più parti sollevato, che la proliferazione di soggetti in materia di rifiuti pericolosi (quali batterie e oli usati) consentita dagli artt. 235 e 236 che prevedono la possibilità – come si è detto – di costituire più consorzi, possa portare alla dispersione dei flussi, che invece attualmente sono gestiti in maniera ottimale: si pensi, infatti, che le percentuali di recupero sono superiori al 90%, addirittura nel caso del COBAT il tasso supera il 96% collocando l'Italia ai primi posti nel mondo per efficienza nel recupero di batterie esauste.
Secondo tali Consorzi[90] “la presenza di più consorzi volontari - prevista dallo schema di decreto – in concorrenza tra di loro e quindi necessariamente orientati al business […] produrrebbe, con ogni probabilità, la contrazione dei livelli di raccolta” soprattutto con riferimento alle “quantità di batterie (o oli) che sarà antieconomico raccogliere”.
COBAT e COOU sostengono, quindi, anche qualora venga mantenuta la previsione di più consorzi, la necessità di mantenere in capo ad un unico soggetto il monitoraggio dei flussi al fine di rendere possibile una “valutazione complessiva della situazione ambientale di settore”, di garantire la raccolta delle cd. frazioni difficili, nonché una serie di obblighi più stringenti per gli altri consorzi poiché “la gestione dei rifiuti pericolosi lasciata al libero mercato senza un soggetto prevalente con compiti istituzionali” rischia di provocare una dispersione nell’ambiente di tali rifiuti.
Si fa notare, in proposito, che la soluzione suggerita da COBAT e COOU sembra analoga a quella prevista dal presente decreto per i consorzi degli imballaggi dove la pluralità dei consorzi viene ricondotta all’unità mediante la loro adesione obbligatoria al CONAI (vedi infra).
Sempre in tema di proliferazione di soggetti, ma nel settore dei beni in polietilene, la Confederazione generale dell’agricoltura italiana ha sottolineato, nel corso dell’audizione del 14 dicembre scorso, che “i contenuti oneri per il mondo agricolo (dell’art. 48 del decreto Ronchi) sono rappresentati dall’allargamento della base consortile a tutti i soggetti della filiera […] Se al contrario si restringe il campo di applicazione o vengono eliminati dei soggetti partecipanti, il sistema si squilibra a danno proprio della componente agricola, con aggravi enormi […] a carico dei produttori agricoli”.
Relativamente al campo di applicazione poi sia il POLIECO che la Confederazione generale dell’agricoltura italiana evidenziano la necessità di sopprimere il comma 2 dell’art. 234 che demanda ad apposito decreto ministeriale l’individuazione dei beni che dovranno essere gestiti dai consorzi, sostenendo che “l’elencazione risulterebbe comunque defatigante, esaustiva e foriera di complicanze applicative”.
Lo schema di decreto in esame, sembra confermare, anche relativamente alla disciplina del Consorzio nazionale imballaggi (CONAI) e dei consorzi per ciascun materiale di imballaggio (cd. consorzi di filiera), l’impianto normativo previsto dal decreto Ronchi
Una prima differenza sostanziale – comune a tutti i consorzi trattati dalla parte quarta del decreto in esame, come si ha già avuto modo di sottolineare - emerge tuttavia dalla lettura dell’art. 221, comma 2, in base al quale viene meno l’obbligatorietà dell’adesione al CONAI, per produttori e utilizzatori[91], a certe condizioni. Tali condizioni sono le stesse che il decreto Ronchi pone come obblighi alternativi alla riunione in consorzi di filiera (art. 38, comma 3, lettere a) e c), riprodotte nella sostanza dalle lettere corrispondenti dell’art. 221, comma 3).
Il presente decreto estende le due alternative previste per la riunione ai consorzi di filiera anche all’adesione al CONAI.
La tavola seguente illustra schematicamente il sistema di gestione degli imballaggi delineato dal decreto Ronchi e la sua modifica prevista dal decreto in esame: le linee tratteggiate indicano gli obblighi che vengono meno ai sensi delle disposizioni del presente decreto.
Sistema di gestione degli imballaggi
Ritornando alle due alternative previste dal presente decreto per l’adesione al CONAI o ai consorzi di filiera (cioè l’organizzazione autonoma della gestione o l’adozione di un sistema cauzionale di restituzione) si fa notare che l’art. 221, comma 5, prevede che “i produttori che non aderiscono al Consorzio nazionale imballaggi e a un Consorzio di cui all’articolo 223 devono richiedere all’Autorità di cui all’articolo 207, previa idonea ed esaustiva documentazione, il riconoscimento del sistema adottato ai sensi del precedente comma 3, lettere a) o c)”.
In realtà, considerato che l’Autorità di vigilanza sulle risorse idriche e sui rifiuti subentra nelle funzioni dell’Osservatorio nazionale sui rifiuti, la norma commentata corrisponde nella sostanza all’obbligo recato dall’art. 38, comma 5 e ss., del decreto Ronchi.
Per quanto riguarda i consorzi di filiera si segnala che l’art. 223, comma 1, ultimo periodo, estende la partecipazione ai consorzi di filiera (in via facoltativa) anche ai “recuperatori e i riciclatori che non corrispondono alla categoria dei produttori, previo accordo con gli altri consorziati ed unitamente agli stessi”.
In proposito Federambiente, nell’audizione del 13 dicembre, ha sottolineato che “nel testo non è riportata alcuna definizione o specifica circa il termine recuperatori e riciclatori. Si chiede pertanto che venga opportunamente specificato che nella categoria dei recuperatori/riciclatori siano considerati tutti i soggetti imprenditoriali che effettuano le operazioni di recupero di cui all’art. 183, comma 1, lettera h)”.
Per quanto riguarda il CONAI una delle novità principali risiede nell’introduzione (recata dall’art. 224, comma 3, lettera h) e comma 8),di una disciplina chiara e dettagliata relativa al contributo ambientale CONAI.
Il contributo ambientale CONAI non è infatti chiaramente disciplinato dal decreto Ronchi. Semplicemente l’art. 41, comma 2, lettera e), prevede il CONAI possa destinare “una quota aggiuntiva del contributo ambientale ai consorzi che realizzano le percentuali di recupero superiori a quelle minime indicate nel Programma generale, al fine del conseguimento degli obiettivi globali” di recupero dei rifiuti di imballaggi.
Una disciplina di dettaglio si ritrova, invece, nel Regolamento CONAI[92] (artt. 7 e 8) che determina l'ammontare del contributo ambientale, suddiviso per ogni materiale, nonché le quote del contributo acquisite dal CONAI e quelle da versare invece ai consorzi di filiera.
La lettera h) del comma 3 dell’art. 224 chiarisce, rispetto al testo recato dalla corrispondente lettera dell’art. 41, comma 2, che al fine della ripartizione dei costi tra i produttori e gli utilizzatori il CONAI determina e pone a carico dei consorziati il contributo ambientale CONAI.
L’art. 41, comma 2, lettera h), prevede infatti ambiguamente che “ripartisce tra i produttori e gli utilizzatori i costi della raccolta differenziata, del riciclaggio e del recupero dei rifiuti di imballaggi conferiti al servizio di raccolta differenziata, in proporzione alla quantità totale, al peso ed alla tipologia del materiale di imballaggio immessi sul mercato nazionale, al netto delle quantità di imballaggi usati riutilizzati nell'anno precedente per ciascuna tipologia di materiale”, senza menzionare i legami di tale operazione con il contributo ambientale.
Quanto sopra evidenzia comunque che, a parte l’ambiguità dovuta alla mancata precisazione dello strumento di riparto (il contributo ambientale), il criterio utilizzato per il riparto dal decreto Ronchi è identico a quello previsto dal presente decreto.
Rispetto al D.lgs. n. 22/1997 viene invece introdotto un preciso criterio di destinazione del contributo ambientale, che viene destinato ai consorzi di filiera “in proporzione diretta alla quantità e qualità dei rifiuti da imballaggio recuperati oppure riciclati e tenendo conto della quantità e tipologia degli imballaggi immessi sul territorio nazionale”.
L’art 41, comma 2, lettera e), del decreto Ronchi prevede invece unicamente - lo si ricorda nuovamente - che il CONAI possa destinare “una quota aggiuntiva del contributo ambientale ai consorzi che realizzano le percentuali di recupero superiori a quelle minime indicate nel Programma generale, al fine del conseguimento degli obiettivi globali” di recupero dei rifiuti di imballaggi, e che “Nella medesima misura è ridotta la parte del contributo spettante ai consorzi che non raggiungono i singoli obiettivi di recupero”.
Tale disposizione rimane comunque anche nel presente decreto (art. 224, comma 2, lettera e).
Conseguentemente, l’art. 223, comma 3, inserisce il contributo ambientale CONAI tra i mezzi finanziari per il funzionamento dei consorzi di filiera, colmando una lacuna del decreto Ronchi.
Si ricorda, infatti, che il decreto n. 22 prevede infatti, all’art. 40, comma 3, che “I mezzi finanziari per il funzionamento dei predetti Consorzi sono costituiti dai proventi delle attività e dai contributi dei soggetti partecipanti.”
Si noti, inoltre, che l’art. 224, comma 9, precisa che “l’applicazione del contributo ambientale CONAI esclude l’assoggettamento del medesimo bene e delle materie prime che lo costituiscono ad altri contributi con finalità ambientali previsti dalla parte quarta del presente decreto o comunque istituiti in applicazione del presente decreto”.
Il presente decreto, oltre a confermare la facoltà per il CONAI di stipulare un accordo di programma quadro su base nazionale con l’ANCI[93] (a cui vengono affiancate, dall’art. 224, comma 5, l’Unione delle Province Italiane o le Autorità d’ambito), introduce la possibilità di stipulare accordi volontari nei seguenti casi:
§ accordi tra i Consorzi di filiera e i soggetti che non vi partecipano in quanto hanno optato per le alternative previste dall’art. 221, comma 3, lettere a) e c) con soggetti pubblici e privati. Tali accordi sono promossi dal CONAI e sono relativi alla “gestione ambientale della medesima tipologia di materiale oggetto dell’intervento dei Consorzi con riguardo agli imballaggi, esclusa in ogni caso l’utilizzazione del contributo ambientale CONAI e fermo restando quanto previsto al riguardo dall’articolo 222, comma 3” (art. 224, comma 3, lettera l);
§ accordi tra la PA ed il CONAI, “ai fini della razionalizzazione della raccolta differenziata e di altre frazioni merceologiche omogenee, quali, esemplificativamente, rifiuti elettrici ed elettronici o rifiuti ingombranti”, con cui la PA, tenuto conto della possibilità di miglior valorizzazione dei materiali raccolti, può richiedere al CONAI di farsi carico, tramite i soggetti di cui agli articoli 221, comma 3, lettere a) e c) e 223, del ritiro e dell'avvio al riciclo di tali frazioni (art. 222, comma 3).
L’articolo 238 disciplina la tariffa per la gestione dei rifiuti urbani, confermando peraltro l’abbandono del sistema della tassa dei rifiuti, come già previsto dall’articolo 49 del decreto legislativo n. 22 del 1997.
Il testo introdotto apporta alcune modifiche al testo contenuto nell’articolo 49 del decreto legislativo n. 22 del 1997. Tali modifiche sono evidenziate nel commento seguente
Ai sensi del comma 1 dell’articolo 238, chiunque possegga o detenga a qualsiasi titolo locali, o aree scoperte ad uso privato non costituenti accessorio o pertinenza dei locali medesimi, a qualsiasi uso adibiti, esistenti nelle zone del territorio comunale, che producano rifiuti urbani, è tenuto al pagamento di una tariffa. La tariffa costituisce il corrispettivo per lo svolgimento del servizio di raccolta, recupero e smaltimento dei rifiuti solidi urbani e ricomprende anche i costi indicati dall'articolo 15 del decreto legislativo 13 gennaio 2003, n. 36.
L’articolo 15 del decreto legislativo n. 36 del 2003 prevede che il prezzo corrispettivo per lo smaltimento in discarica deve coprire i costi di realizzazione e di esercizio dell'impianto, i costi sostenuti per la prestazione della garanzia finanziaria ed i costi stimati di chiusura, nonché i costi di gestione successiva alla chiusura per un periodo pari a quello indicato dall'art. 10 comma 1, lettera i).
Viene contestualmente soppressa la tariffa di cui all’articolo 49 del decreto legislativo 5 febbraio 1997, n. 22
Si osserva che l’articolo 49 prevedeva che la tariffa per i rifiuti urbani venisse applicata ai possessori e detentori di locali , indipendentemente dal fatto che i locali producessero o meno rifiuti urbani.
Si ricorda inoltre che, rispetto all’articolo 49 viene specificato che la tariffa costituisce il corrispettivo per lo svolgimento di un servizio. Tale elemento distingue la tassa dalla tariffa.
Il comma 2 prevede che la tariffa per la gestione dei rifiuti è commisurata alle quantità e qualità medie ordinarie di rifiuti prodotti per unità di superficie, in relazione agli usi e alla tipologia di attività svolte, sulla base di parametri, determinati con il regolamento di cui al comma 6, che tengano anche conto di indici reddituali articolati per fasce di utenza e territoriali
Il comma 3 prevede che la tariffa è determinata, entro tre mesi dalla data di entrata in vigore del regolamento di cui al comma 6, dalle Autorità d’ambito ed è applicata e riscossa dai soggetti affidatari del servizio di gestione integrata sulla base dei criteri fissati dal regolamento di cui al comma 6.
La normativa attuale prevede che la tariffa venga determinata dai Comuni e applicati dai soggetti concessionari.
Una novità importante introdotta dal comma 3 è che nella determinazione della tariffa può essere prevista la copertura anche di costi accessori relativi alla gestione dei rifiuti urbani quali, ad esempio, le spese di spazzamento delle strade. Qualora detti costi vengano coperti con la tariffa ciò deve essere evidenziato nei piani finanziari e nei bilanci dei soggetti affidatari del servizio.
Il comma 4 prevede che la tariffa è composta da una quota determinata in relazione alle componenti essenziali del costo del servizio, riferite in particolare agli investimenti per le opere ed ai relativi ammortamenti, nonché da una quota rapportata alle quantità di rifiuti conferiti, al servizio fornito e all’entità dei costi di gestione, in modo che sia assicurata la copertura integrale dei costi di investimento e di esercizio.
Ai sensi del comma 5, le Autorità d’ambito approvano e presentano all’Autorità di cui all’articolo 207 il piano finanziario e la relativa relazione redatta dal soggetto affidatario del servizio di gestione integrata. Entro quattro anni dalla data di entrata in vigore del regolamento di cui al comma 6, dovrà inoltre essere gradualmente assicurata l’integrale copertura dei costi.
Il comma 6 prevede che il Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio, di concerto con il Ministro delle attività produttive, sentita la Conferenza Stato regioni e le province autonome di Trento e Bolzano e le istanze rappresentative delle categorie economiche e dei soggetti interessati, disciplina, con apposito regolamento da emanarsi entro sei mesi dalla data di entrata in vigore del decreto, i criteri generali sulla base dei quali vengono definite le componenti dei costi e viene determinata la tariffa, anche con riferimento alle agevolazioni di cui al comma 7.
Ai sensi del comma 7, nella determinazione della tariffa possono essere previste agevolazioni per le utenze domestiche e per quelle adibite ad uso stagionale o non continuativo, debitamente documentato ed accertato. In questo caso, a fini della integrale copertura dei costi, nel piano finanziario devono essere indicate le risorse necessarie per garantire la copertura dei minori introiti derivanti dalle agevolazioni, secondo i criteri fissati dal regolamento di cui al comma 6.
Rispetto alle previsioni del decreto n. 22 è da sottolineare che possono essere previste agevolazioni per le utenze adibite ad uso stagionale o non continuativo e che invece non sussiste più la possibilità di prevedere agevolazioni per la raccolta differenziata delle frazioni umide e delle altre frazioni.
Il comma 8 prevede che il regolamento di cui al comma 6 tiene conto anche degli obiettivi di miglioramento della produttività e della qualità del servizio fornito e del tasso di inflazione programmato, mentre ai sensi del comma 9 l’eventuale modulazione della tariffa tiene conto degli investimenti effettuati dai comuni o dai gestori che risultino utili ai fini dell’organizzazione del servizio.
Il comma 10 dispone che alla tariffa è applicato un coefficiente di riduzione proporzionale alle quantità di rifiuti assimilati che il produttore dimostri di aver avviato al recupero mediante attestazione rilasciata dal soggetto che effettua l’attività di recupero dei rifiuti stessi.
Infine, il comma 11 prevede che sino alla emanazione del regolamento di cui al comma 6 e fino al compimento degli adempimenti per l'applicazione della tariffa continuano ad applicarsi le discipline regolamentari vigenti.
Si ricorda che l’articolo 49 del “decreto Ronchi” prevedeva che un regolamento disponesse in ordine all’applicazione di un regime transitorio che consentisse il passaggio dal sistema della tassa a quello della tariffa.
Tale regime transitorio è stato disciplinato dall’articolo 11 del d.p.r. 27 aprile 1999, n. 158, come modificato dall’articolo 33 della legge 23 dicembre 1999, n. 448, che ha previsto che gli enti locali sono tenuti a raggiungere la piena copertura dei costi del servizio di gestione dei rifiuti urbani attraverso la tariffa entro la fine della fase di transizione della durata massima così articolata:
a) sei anni per i comuni che abbiano raggiunto nell'anno 1999 un grado di copertura dei costi superiore all'85% (6/a);
b) sei anni per i comuni che abbiano raggiunto un grado di copertura dei costi tra il 55 e 1'85% (6/b);
c) otto anni per i comuni che abbiano raggiunto un grado di copertura dei costi inferiore al 55%;
d) otto anni per i comuni che abbiano un numero di abitanti fino a 5000, qualunque sia il grado di copertura dei costi raggiunto nel 1999.
Il D.P.R. n. 158 D.P.R. 27-04-1999 n. 158 recante “Regolamento recante norme per la elaborazione del metodo normalizzato per definire la tariffa del servizio di gestione del ciclo dei rifiuti urbani” costituisce quindi la normativa da applicare nelle more dell’emanazione del nuovo regolamento.
L’articolo 1 dispone l’approvazione del metodo normalizzato per la definizione delle componenti di costo da coprirsi con le entrate tariffarie e per la determinazione della tariffa di riferimento relativa alla gestione dei rifiuti urbani, riportato nell'allegato 1.
Il comma 1 dell’articolo 2 dispone che la tariffa di riferimento rappresenta l'insieme dei criteri e delle condizioni che devono essere rispettati per la determinazione della tariffa da parte degli enti locali, mentre il comma 2 dell’articolo 2 prevede che la tariffa di riferimento a regime deve coprire tutti i costi afferenti al servizio di gestione dei rifiuti urbani e deve rispettare la equivalenza di cui al punto 1 dell'allegato 1.
L’articolo 3 comma 1 dispone che sulla base della tariffa di riferimento di cui all'articolo 2, gli enti locali individuano il costo complessivo del servizio e determinano la tariffa, anche in relazione al piano finanziario degli interventi relativi al servizio e tenuto conto degli obiettivi di miglioramento della produttività e della qualità del servizio fornito e del tasso di inflazione programmato.
Ai sensi del comma 2 dell’articolo 3, la tariffa è composta da una parte fissa, determinata in relazione alle componenti essenziali del costo del servizio, riferite in particolare agli investimenti per le opere e dai relativi ammortamenti, e da una parte variabile, rapportata alle quantità di rifiuti conferiti, al servizio fornito e all'entità dei costi di gestione., mentre il comma 3 dell’articolo 3 prevede che le voci di costo da coprire rispettivamente attraverso la parte fissa e la parte variabile della tariffa sono indicate al punto 3 dell'allegato 1.
Il comma 1 dell’articolo 4 prevede che la tariffa, determinata ai sensi dell'articolo 3, è articolata nelle fasce di utenza domestica e non domestica.
Il comma 2 dell’articolo 4 prevede che l'ente locale ripartisce tra le categorie di utenza domestica e non domestica l'insieme dei costi da coprire attraverso la tariffa secondo criteri razionali, assicurando l'agevolazione per l'utenza domestica di cui all'articolo 49, comma 10, del decreto legislativo 5 febbraio 1997, n. 22, mentre il comma 3 prevede che a livello territoriale la tariffa è articolata con riferimento alle caratteristiche delle diverse zone del territorio comunale, ed in particolare alla loro destinazione a livello di pianificazione urbanistica e territoriale, alla densità abitativa, alla frequenza e qualità dei servizi da fornire, secondo modalità stabilite dal comune.
L’articolo 5 relativo al calcolo della tariffa per le utenze domestiche dispone al comma 1 che. stabilito, ai sensi dell'articolo 4, comma 2, l'importo complessivo dovuto a titolo di parte fissa dalla categoria delle utenze domestiche, la quota fissa da attribuire alla singola utenza domestica viene determinata secondo quanto specificato nel punto 4.1 dell'allegato 1 al decreto, in modo da privilegiare i nuclei familiari più numerosi e le minori dimensioni dei locali.
Il comma 2 prevede che la parte variabile della tariffa è rapportata alla quantità di rifiuti indifferenziati e differenziati, specificata per kg, prodotta da ciascuna utenza. Gli enti locali che non abbiano validamente sperimentato tecniche di calibratura individuale degli apporti possono inoltre applicare un sistema presuntivo, prendendo a riferimento la produzione media comunale pro capite, desumibile da tabelle che saranno predisposte annualmente sulla base dei dati elaborati dalla Sezione nazionale del Catasto dei rifiuti, mentre il comma 4 dispone che la quota variabile della tariffa relativa alla singola utenza viene determinata applicando un coefficiente di adattamento secondo la procedura indicata nel punto 4.2 dell'allegato 1 al presente decreto.
L’articolo 6 relativo al calcolo della tariffa per le utenze non domestiche, dispone al comma 1 che per le comunità, per le attività commerciali, industriali, professionali e per le attività produttive in genere, la parte fissa della tariffa è attribuita alla singola utenza sulla base di un coefficiente relativo alla potenziale produzione di rifiuti connessa alla tipologia di attività per unità di superficie assoggettabile a tariffa e determinato dal comune nell'ambito degli intervalli indicati nel punto 4.3 dell'allegato 1 al decreto. Il comma 2 prevede che per l'attribuzione della parte variabile della tariffa gli enti locali organizzano e strutturano sistemi di misurazione delle quantità di rifiuti effettivamente conferiti dalle singole utenze. Gli enti locali non ancora organizzati applicano un sistema presuntivo, prendendo a riferimento per singola tipologia di attività la produzione annua per mq ritenuta congrua nell'ambito degli intervalli indicati nel punto 4.4 dell'allegato 1.
L’articolo 7 in materia di agevolazioni e coefficienti di riduzione dispone che gli enti locali assicurano le agevolazioni per la raccolta differenziata previste al comma 10 dell'articolo 49 del decreto legislativo 5 febbraio 1997, n. 22 attraverso l'abbattimento della parte variabile della tariffa per una quota, determinata dai medesimi enti, proporzionale ai risultati, singoli o collettivi, raggiunti dalle utenze in materia di conferimento a raccolta differenziata.
Il comma 2 dell’articolo 7 prevede che per le utenze non domestiche, sulla parte variabile della tariffa è applicato un coefficiente di riduzione, da determinarsi dall'ente locale, proporzionale alle quantità di rifiuti assimilati che il produttore dimostri di aver avviato a recupero mediante attestazione rilasciata dal soggetto che effettua l'attività di recupero dei rifiuti stessi, mentre il comma 3 dispone che l'ente locale può elaborare coefficienti di riduzione che consentano di tenere conto delle diverse situazioni relative alle utenze domestiche e non domestiche non stabilmente attive sul proprio territorio.
L’articolo 8. dispone al comma 1 che ai fini della determinazione della tariffa ai sensi dell'art. 49, comma 8, del decreto legislativo n. 22 del 1997 il soggetto gestore del ciclo dei rifiuti urbani di cui all'art. 23 del decreto legislativo 5 febbraio 1997, n. 22 e successive modificazioni e integrazioni, ovvero i singoli comuni, approvano il piano finanziario degli interventi relativi al servizio di gestione dei rifiuti urbani, tenuto conto della forma di gestione del servizio prescelta tra quelle previste dall'ordinamento.
Il piano finanziario comprende: a) il programma degli interventi necessari; b) il piano finanziario degli investimenti; c) la specifica dei beni, delle strutture e dei servizi disponibili, nonché il ricorso eventuale all'utilizzo di beni e strutture di terzi, o all'affidamento di servizi a terzi; d) le risorse finanziarie necessarie; e) relativamente alla fase transitoria, il grado attuale di copertura dei costi afferenti alla tariffa rispetto alla preesistente tassa sui rifiuti. Il piano finanziario deve essere corredato da una relazione nella quale sono indicati i seguenti elementi: a) il modello gestionale ed organizzativo; b) i livelli di qualità del servizio ai quali deve essere commisurata la tariffa; c) la ricognizione degli impianti esistenti; d) con riferimento al piano dell'anno precedente, l'indicazione degli scostamenti che si siano eventualmente verificati e le relative motivazioni, mentre ai sensi del comma 4 sulla base del piano finanziario l'ente locale determina la tariffa, fissa la percentuale di crescita annua della tariffa ed i tempi di raggiungimento del pieno grado di copertura dei costi nell'arco della fase transitoria; nel rispetto dei criteri di cui all'articolo 12, determina l'articolazione tariffaria.
L’articolo 9 prevede che il soggetto gestore del ciclo dei rifiuti urbani di cui all'art. 23 del decreto legislativo 5 febbraio 1997, n. 22 , e successive modificazioni e integrazioni, ovvero i singoli comuni, provvedono annualmente, entro il mese di giugno, a trasmettere all'Osservatorio nazionale sui rifiuti copia del piano finanziario e della relazione di cui all'articolo 8, comma 3, mentre il comma 2 dispone che i dati relativi alle componenti di costo della tariffa di cui al punto 2 dell'allegato 1 del presente decreto sono comunicati annualmente ai sensi dell'articolo 11, comma 4, del decreto legislativo 5 febbraio 1997, n. 22 secondo le modalità previste dalla legge 25 gennaio 1994, n. 70 . Ai sensi del comma 3, adecorrere dal 1° gennaio 2000 i comuni avviano, con forme adeguate, l'attivazione di servizi di raccolta differenziata dei rifiuti - isole ecologiche, raccolta porta a porta o similari, e di misure atte alla contestuale valutazione quantitativa ai fini del compiuto delle agevolazioni previste dall'articolo 49, comma 10, del decreto legislativo 5 febbraio 1997, n. 22 da corrispondere secondo modalità che i comuni medesimi determineranno.
L’articolo 10 prevede disposizioni in merito alla riscossione della tariffa, mentre l’articolo 12 dispone in merito alla verifica del metodo normalizzato.
Viene profondamente innovata la procedura relativa alla bonifica dei siti inquinati
Una prima modifica riguarda il fatto che vengono previste due differenti soglie di contaminazione, concentrazioni soglia di contaminazione(CSC) e concentrazioni soglia di rischio(CSR), al superamento delle quali sono collegate specifiche azioni da intraprendere da parte del responsabile dell’inquinamento.
Si ricorda che norme che connettono gli interventi di bonifica ad una preventiva analisi di rischio sono – da anni - ampiamente diffuse in numerosi paesi europei.
Si ricorda che dal 1997 l' (allora) ANPA, insieme alle Agenzie Regionali per l’Ambiente, ha avviato un intenso programma per lo sviluppo di una metodologia di analisi di rischio e altri strumenti tecnici per gli interventi sui siti contaminati. Per informazioni dettagliate sulla problematica dell’analisi di rischio, si rinvia al programma europeo CARACAS[94].
L’analisi di rischio nella normativa vigente
L’individuazione di un sito contaminato o di un sito potenzialmente contaminato avviene attraverso una valutazione della qualità del suolo, che può essere condotta mediante due differenti approcci che sono stati messi a punto e diversamente adottati nei maggiori paesi industrializzati:
§ il criterio della concentrazione limite;
§ il criterio dell’analisi di rischio[95];
Il criterio della concentrazione limite consiste nel rapportare a “valori limite” prefissati relativamente al suolo e alle acque sotterranee i risultati delle indagini compiute nel sito, in modo da valutare il grado di contaminazione del medesimo.
Tale criterio è stato accolto nella normativa nazionale dal D.M. n. 471 del 1999 che reca, all’Allegato 1, un elenco di concentrazioni limite accettabili per il suolo, il sottosuolo e le acque sotterranee.
Il criterio dell’analisi di rischio conduce ad una valutazione del rischio connesso ad un singolo sito sospetto, attraverso una quantificazione numerica (ottenuta mediante un modello matematico) dei tradizionali indici di rischio relativi a contaminanti cancerogeni e non cancerogeni[96].
L’articolo 5 del D.M. n. 471 del 1999 prevede la possibilità di ricorrere ad una metodologia di analisi di rischio, “riconosciuta a livello internazionale”, per pervenire ad obiettivi di bonifica che possono essere superiori alle concentrazioni limite indicate nell’Allegato 1, qualora non sia possibile raggiungere tali valori limite mediante l’applicazione delle “migliori tecnologie disponibili a costi sopportabili”.
Alcuni autori fanno osservare che, rispetto all’approccio comunemente adottato negli altri paesi industrializzati, le disposizioni recate dal D.M. n. 471 del 1999 circoscrivono eccessivamente l’applicabilità dell’analisi di rischio.
Su tale punto concorda anche il documento XXIII, n. 59, predisposto dalla Commissione parlamentare d’inchiesta sul ciclo dei rifiuti e sulle attività illecite ad esso connesse ed approvato nella seduta del 7 marzo 2001. Vi si legge, infatti, che “una norma rigida basata solo sulla fissazione di limiti di concentrazione dei contaminanti nei suoli, avulsi da una valutazione di rischio, ha senz’altro sfavorito il ricorso alle operazioni di bonifica”, e che, nel contesto di un risanamento ambientale globale “deve essere invece vista la valutazione del rischio come prioritaria ad ogni intervento”.
In un recente documento redatto dall’APAT si legge che “a 5 anni dall’emanazione del DM 471/99, i progetti contenenti analisi di rischio presentati nell’ambito dei procedimenti istruttori dei Siti di Interesse Nazionale, in cui APAT è istituzionalmente coinvolta, cominciano a formare un numero consistente. La disomogeneità di tali elaborazioni, in termini di procedure, di modellistica e soprattutto di parametri assunti ha portato il sistema delle Agenzie Ambientali (APAT e ARPA regionali) a costituire nel corso del 2004 un Gruppo di Lavoro, che vede anche la partecipazione dell’ISS, dell’ISPESL e dell’ICRAM, al fine di elaborare una procedura completa atta a fornire indicazioni circa le modalità con cui applicare i vari modelli di valutazione del rischio, oggi disponibili sul mercato, e valutare le relative risultanze ottenute”.
Tale Gruppo di lavoro ha terminato i suoi lavori con la pubblicazione di due documenti distinti, uno per l’applicazione dell’analisi di rischio assoluta ai siti contaminati, l’altro per l’approfondimento di aspetti specifici relativi all’analisi di rischio assoluta per le discariche[97].
Si ricorda, in proposito, che la direttiva 99/31/CE relativa alle discariche di rifiuti (recepita nell’ordinamento nazionale con il d.lgs. n. 36 del 2003) contempla, infatti, l’adozione dell’analisi di rischio in relazione alla valutazione dell’efficacia delle soluzioni progettuali e gestionali previste per le nuove discariche ed alla verifica della conformità delle vecchie discariche ai criteri prescritti ed alle prestazioni ambientali da raggiungere.
La disciplina attualmente vigente prevede invece che nel momento in cui si verifichi il superamento- anche accidentale- di determinati limiti o nel caso in cui vi sia il pericolo attuale e concreto di superamento di tali limiti, il responsabile deve approntare un progetto per la bonifica, che deve essere approvato dal comune.
Nella nuova procedura il soggetto che cagiona un rischio di superamento delle concentrazioni soglia di contaminazione (CSC) deve adottare misure di prevenzione. L’obbligo di adozione di un vero e proprio piano di bonifica scatta solo nel caso in cui le autorità competenti verifichino il superamento dei valori di concentrazioni soglia di rischio dopo lo svolgimento di una procedura di analisi del rischio.
Nella nuova procedura- prevista dall’articolo 242 - non viene fatto più riferimento al fatto che il cagionamento del rischio può essere anche accidentale. Inoltre, non vengono comprese le province nell’elenco dei soggetti a cui deve pervenire la comunicazione.
Una seconda modifica riguarda la previsione della redazione di un regolamento apposito per le aree agricole(articolo 241)
Una terza modifica riguarda la disciplina delle acque di falda. L’articolo 243 comma 1 dispone che le acque di falda emunte dalle falde sotterranee, nell'ambito degli interventi di bonifica di un sito, possono essere scaricate, direttamente o dopo essere state utilizzate in cicli produttivi in esercizio nel sito stesso, nel rispetto dei limiti di emissione di acque reflue industriali in acque superficiali previsti dal decreto.
Il comma 2 dell’articolo 243 prevede che in deroga a quanto previsto dal comma 1 dell’articolo 104, ai soli fini della bonifica dell’acquifero, è ammessa la reimmissione, previo trattamento, delle acque sotterranee nella stessa unità geologica da cui le stesse sono state estratte, indicando la tipologia di trattamento, le caratteristiche quali-quantitative delle acque reimmesse, le modalità di reimmissione e le misure di messa in sicurezza della porzione di acquifero interessato dal sistema di estrazione/reimmissione. Le acque reimmesse devono essere state sottoposte ad un trattamento finalizzato alla bonifica dell’acquifero e non devono contenere altre acque di scarico o altre sostanze pericolose diverse, per qualità e quantità, da quelle presenti nelle acque prelevate.
Un’ ulteriore novità è prevista dall’articolo 249 per le aree da bonificare di ridotte dimensioni. Per tali aree è prevista una specifica procedura dall’Allegato IV.
L’articolo 246 prevede inoltre la stipula di accordi di programma per la bonifica dei siti.
Il comma 1 prevede che i soggetti obbligati agli interventi di cui al presente titolo ed i soggetti altrimenti interessati hanno diritto di definire modalità e tempi di esecuzione degli interventi mediante appositi accordi di programma stipulati con le amministrazioni competenti.
Inoltre, ai sensi del comma 2, nel caso in cui vi siano soggetti che intendano o siano tenuti a provvedere alla contestuale bonifica di una pluralità di siti che interessano il territorio di più regioni, i tempi e le modalità di intervento possono essere definiti con appositi accordi di programma stipulati con le regioni interessate.
Infine, ai sensi del comma 3 nel caso in cui vi siano soggetti che intendano o siano tenuti a provvedere alla contestuale bonifica di una pluralità di siti dislocati su tutto il territorio nazionale o vi siano più soggetti interessati alla bonifica di un medesimo sito di interesse nazionale, i tempi e le modalità di intervento possono essere definiti con accordo di programma da stipularsi con il Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio di concerto con i Ministri della salute e delle attività produttive, d'intesa con la Conferenza Stato-regioni.
Si osserva al riguardo che sarebbe opportuno fissare un termine entro il quale gli accordi possono essere stipulati
Un’ultima novità riguarda la disciplina degli oneri reali e dei privilegi speciali.
Innanzitutto, nella nuova disciplina (articolo 253) non è più previsto che le spese sostenute per gli interventi di bonifica siano assistite da privilegio generale mobiliare. Inoltre, gli interventi di messa in sicurezza costituiscono onere reale solo nel caso in cui gli interventi siano effettuati d’ufficio.
Viene introdotta inoltre una norma, in base alla quale “il privilegio e la ripetizione delle spese possono essere esercitati, nei confronti del proprietario del sito incolpevole dell'inquinamento o del pericolo di inquinamento, solo a seguito di provvedimento motivato dell’autorità competente che giustifichi, tra l’altro, l’impossibilità di accertare l’identità del soggetto responsabile ovvero che giustifichi l'impossibilità di esercitare azioni di rivalsa nei confronti del medesimo soggetto ovvero la loro infruttuosità.”.
Infine, è previsto che in ogni caso, il proprietario non responsabile dell’inquinamento può essere tenuto a rimborsare, sulla base di provvedimento motivato e con l'osservanza delle disposizioni di cui alla legge 7 agosto 1990, n. 241, le spese degli interventi adottati dall’autorità competente soltanto nei limiti del valore di mercato del sito determinato a seguito dell’esecuzione degli interventi medesimi. Nel caso in cui il proprietario non responsabile dell’inquinamento abbia spontaneamente provveduto alla bonifica del sito inquinato, ha diritto di rivalersi nei confronti del responsabile dell’inquinamento per le spese sostenute e per l’eventuale maggior danno subito.
La materia in esame deve essere trattata in connessione con quella relativa alle modalità di risarcimento del danno ambientale (Parte Sesta dello schema di decreto, al cui commento si fa rinvio).
Venendo al commento più dettagliato della nuova procedura prevista dallo schema di decreto, si ricorda che l’articolo 242 dispone al comma 1 che al verificarsi di un evento che sia potenzialmente in grado di contaminare il sito, il responsabile dell’inquinamento mette in opera senza indugio le misure necessarie di prevenzione e ne dà immediata comunicazione, entro quarantotto ore dall’evento, al Comune e alla regione territorialmente competenti. La comunicazione costituisce dichiarazione di inizio attività per l’attuazione delle misure di prevenzione necessarie, che prescindono da qualsiasi parere, nulla osta e autorizzazione previsti dalle norme vigenti. La stessa procedura si applica all’atto di individuazione di contaminazioni storiche che possano ancora comportare rischi di aggravamento della situazione di contaminazione. La comunicazione deve contenere una serie di dati.
Il comma 2 dell’articolo 242 prevede- come seconda fase della procedura- che il responsabile dell’inquinamento, attuate le necessarie misure di prevenzione, svolge, nelle zone interessate dalla contaminazione, un’indagine preliminare sui parametri oggetto dell’inquinamento.
Due sono i possibili sbocchi: Ove il responsabile accerti che il livello delle concentrazioni soglia di contaminazione (CSC) non sia stato superato, provvede al ripristino della zona contaminata, dandone notizia, con apposita autocertificazione, al Comune ed alla Provincia competenti per territorio entro quarantotto ore dalla comunicazione. L’autocertificazione conclude il procedimento di notifica, ferme restando le attività di verifica e di controllo da parte dell’autorità competente da effettuarsi nei successivi quindici giorni.
Il secondo possibile esito (comma 3) è che l’indagine preliminare di cui al comma 2 accerti l’avvenuto superamento delle CSC anche per un solo parametro. In questo caso il responsabile dell’inquinamento ne dà immediata notizia al Comune ed alle Province competenti per territorio con la descrizione delle misure di prevenzione e di messa in sicurezza di emergenza adottate. Nei successivi trenta giorni, egli dovrà inoltre presentare alle predette amministrazioni, nonché alla regione territorialmente competente il piano di caratterizzazione con i requisiti di cui all’Allegato 2 alla parte quarta del decreto. Entro i trenta giorni successivi la regione, convocata la conferenza di servizi, autorizza il piano di caratterizzazione con eventuali prescrizioni integrative. L’autorizzazione regionale costituisce assenso per tutte le opere connesse alla caratterizzazione, sostituendosi ad ogni altra autorizzazione, concessione, concerto, intesa, nulla osta da parte della pubblica amministrazione.
Il successivo passaggio relativo al secondo possibile esito è disciplinato dal comma 4, cheprevede che sulla base delle risultanze della caratterizzazione, al sito è applicata la procedura di analisi del rischio sito specifica per la determinazione delle concentrazioni soglia di rischio (CSR), i cui criteri sono riportati nell’Allegato 1 alla parte quarta del decreto. Entro sei mesi dall’approvazione del piano di caratterizzazione, il soggetto responsabile presenta alla regione i risultati dell’analisi di rischio. La conferenza di servizi convocata dalla regione, a seguito dell’istruttoria svolta in contraddittorio con il soggetto responsabile, cui è dato un preavviso di almeno venti giorni, approva il documento di analisi di rischio entro i sessanta giorni dalla ricezione dello stesso. Tale documento è inviato ai componenti della conferenza di servizi almeno venti giorni prima della data fissata per la conferenza e, in caso di decisione a maggioranza, la delibera di adozione fornisce una adeguata ed analitica motivazione rispetto alle opinioni dissenzienti espresse nel corso della conferenza.
Due sono i possibili esiti della procedura di analisi del rischio.
Il primo riguarda il caso in cui gli esiti della procedura dell’analisi di rischio dimostrino che la concentrazione dei contaminanti presenti nel sito è inferiore alle concentrazioni soglia di rischio. In tal caso la conferenza dei servizi, con l’approvazione del documento dell’analisi del rischio, dichiara concluso positivamente il procedimento. In tal caso la conferenza di servizi può peraltro prescrivere lo svolgimento di un programma di monitoraggio sul sito circa la stabilizzazione della situazione riscontrata in relazione agli esiti dell’analisi di rischio e all’attuale destinazione d’uso del sito. A tal fine, il soggetto responsabile, entro sessanta giorni dall’approvazione di cui sopra, invia alla Provincia ed alla regione competenti per territorio un piano di monitoraggio nel quale sono individuati:
a) i parametri da sottoporre a controllo;
b) la frequenza e la durata del monitoraggio.
La regione, sentita la Provincia, approva il piano di monitoraggio entro trenta giorni dal ricevimento dello stesso..
Alla scadenza del periodo di monitoraggio il soggetto responsabile ne dà comunicazione alla regione ed alla Provincia, inviando una relazione tecnica riassuntiva degli esiti del monitoraggio svolto e nel caso in cui le attività di monitoraggio rilevino il superamento di uno o più delle concentrazioni soglia di rischio, il soggetto responsabile dovrà avviare la procedura di bonifica di cui al comma 7. Si approderà cioè in questo caso al secondo possibile esito della procedura di analisi del rischio, previsto dal comma 7.
Il comma 7 prevede infatti che qualora gli esiti della procedura dell’analisi di rischio dimostrino che la concentrazione dei contaminanti presenti nel sito è superiore ai valori di concentrazione soglia di rischio (CSR), il soggetto responsabile sottopone alla regione, nei successivi sei mesi dall’approvazione del documento di analisi di rischio, il progetto operativo degli interventi di bonifica o di messa in sicurezza, operativa o permanente, e, ove necessario, le ulteriori misure di riparazione e di ripristino ambientale, al fine di minimizzare e ricondurre ad accettabilità il rischio derivante dallo stato di contaminazione presente nel sito. La regione, acquisito il parere del Comune e della Provincia interessati mediante apposita conferenza di servizi e sentito il soggetto responsabile, approva il progetto, con eventuali prescrizioni ed integrazioni entro sessanta giorni dal suo ricevimento. Ai soli fini della realizzazione e dell'esercizio degli impianti e delle attrezzature necessarie all'attuazione del progetto operativo e per il tempo strettamente necessario all'attuazione medesima, l'autorizzazione regionale sostituisce a tutti gli effetti le autorizzazioni, le concessioni, i concerti, le intese, i nulla osta, i pareri e gli assensi previsti dalla legislazione vigente compresi, in particolare, quelli relativi alla valutazione di impatto ambientale, ove necessaria, alla gestione delle terre e rocce da scavo all’interno dell’area oggetto dell’intervento ed allo scarico delle acque emunte dalle falde. L'autorizzazione costituisce, altresì, variante urbanistica e comporta dichiarazione di pubblica utilità, di urgenza ed indifferibilità dei lavori. Con il provvedimento di approvazione del progetto sono stabiliti anche i tempi di esecuzione, indicando altresì le eventuali prescrizioni necessarie per l’esecuzione dei lavori ed è fissata l’entità delle garanzie finanziarie, in misura non superiore al 50 per cento del costo stimato dell’intervento, che devono essere prestate in favore della regione per la corretta esecuzione ed il completamento degli interventi medesimi.
Altre disposizioni relative ai criteri e alle modalità per l’effettuazione della bonifica sono stabiliti nei successivi commi 8-10
Il comma 8 dispone che i criteri per la selezione e l’esecuzione degli interventi di bonifica e ripristino ambientale, di messa in sicurezza operativa o permanente, nonché per l’individuazione delle migliori tecniche di intervento a costi sostenibili (B.A.T.N.E.E.C. - Best Available Technology Not Entailing Excessive Costs) ai sensi delle normative comunitarie sono riportati nell’Allegato 3 alla parte quarta del decreto.
Il comma 9 prevede che la messa in sicurezza operativa, riguardante i siti contaminati con attività in esercizio, garantisce una adeguata sicurezza sanitaria ed ambientale ed impedisce un’ulteriore propagazione dei contaminanti. I progetti di messa in sicurezza operativa sono inoltre accompagnati da accurati piani di monitoraggio dell’efficacia delle misure adottate ed indicano se all’atto della cessazione dell’attività si renderà necessario un intervento di bonifica o un intervento di messa in sicurezza permanente.
Ai sensi del comma 10, nel caso di caratterizzazione, bonifica, messa in sicurezza e ripristino ambientale di siti con attività in esercizio, la regione, fatto salvo l'obbligo di garantire la tutela della salute pubblica e dell'ambiente, in sede di approvazione del progetto assicura che i suddetti interventi siano articolati in modo tale da risultare compatibili con la prosecuzione della attività.
Il comma 11 si occupa invece del caso in cui eventi avvenuti anteriormente all’entrata in vigore della parte quarta del decreto si manifestino successivamente a tale data.
Viene disposto che in caso di assenza di rischio immediato per l’ambiente e per la salute pubblica, il soggetto interessato comunica alla regione, alla Provincia e al Comune competenti l’esistenza di una potenziale contaminazione unitamente al piano di caratterizzazione del sito, al fine di determinarne l’entità e l’estensione con riferimento ai parametri indicati nelle CSC ed applica le procedure di cui ai commi 4 e seguenti appena commentate.
Si osserva che la disposizione in commento sembra incompleta in quanto non specifica quali norme si applichino nel caso in cui vi sia “rischio immediato per l’ambiente”.
I commi 12 e 13 contengono infine ulteriori disposizioni procedurali di dettaglio.
Il comma 12 prevede che le indagini ed attività istruttorie sono svolte dalla Provincia, che si avvale della competenza tecnica dell’Agenzia regionale per la protezione dell’ambiente e si coordina con le altre amministrazioni.
Il comma 13 dispone infine che la procedura di approvazione della caratterizzazione e del progetto di bonifica si svolge in Conferenza di servizi convocata dalla regione e costituita dalle amministrazioni ordinariamente competenti a rilasciare i permessi, autorizzazioni e concessioni per la realizzazione degli interventi compresi nel piano e nel progetto. La relativa documentazione è inviata ai componenti della conferenza di servizi almeno venti giorni prima della data fissata per la discussione e, in caso di decisione a maggioranza, la delibera di adozione deve fornire una adeguata ed analitica motivazione rispetto alle opinioni dissenzienti espresse nel corso della conferenza. Compete alla Provincia rilasciare la certificazione di avvenuta bonifica.
L’articolo 244 contiene norme di salvaguardia che disciplinano le modalità per l’intervento della pubblica amministrazione nel caso di inerzia dei privati.
Il comma 1 prevede che le pubbliche amministrazioni che nell'esercizio delle proprie funzioni individuano siti nei quali accertino che i livelli di contaminazione sono superiori ai valori di concentrazione soglia di contaminazione, ne danno comunicazione alla regione, alla Provincia e al Comune competenti.
Il comma 2 prevede che la Provincia, ricevuta la comunicazione di cui al comma 1, dopo aver svolto le opportune indagini volte ad identificare il responsabile dell’evento di superamento e sentito il Comune, diffida con ordinanza motivata il responsabile della potenziale contaminazione a provvedere ai sensi delle norme poc’anzi commentate
Ai sensi del comma 3, l'ordinanza di cui al comma 2 è comunque notificata anche al proprietario del sito ai sensi e per gli effetti dell'articolo 253.
Infine, il comma 4 prevede che se il responsabile non sia individuabile o non provveda e non provveda il proprietario del sito né altro soggetto interessato, gli interventi che risultassero necessari ai sensi delle disposizioni di cui al presente titolo sono adottati dall’amministrazione competente in conformità a quanto disposto dall’articolo 250.
L’articolo 250 prevede che qualora i soggetti responsabili della contaminazione non provvedano direttamente agli adempimenti disposti ovvero non siano individuabili e non provvedano né il proprietario del sito né altri soggetti interessati, le procedure e gli interventi di cui all’articolo 242 sono realizzati d'ufficio dal Comune territorialmente competente e, ove questo non provveda, dalla regione, secondo l’ordine di priorità fissati dal piano regionale per la bonifica delle aree inquinate, avvalendosi anche di altri soggetti pubblici. Al fine di anticipare le somme per i predetti interventi le regioni possono istituire appositi fondi nell'ambito delle proprie disponibilità di bilancio.
L’attuale normativa prevede che se i responsabili non provvedono o non sono individuabili, gli interventi di messa in sicurezza e di bonifica sono realizzati dal Comune e ove questo non provveda dalla Regione(comma 9 articolo 17 del decreto n. 22 del 1997). Viene quindi aggiunta tutta la parte relativa alle segnalazioni effettuate dalle pubbliche amministrazioni.
L’articolo 245 disciplina gli obblighi di interventi e di notifica da parte dei soggetti non responsabili della potenziale contaminazione
Il comma 1 prevede che le procedure per gli interventi di messa in sicurezza, di bonifica e di ripristino ambientale disciplinate possono essere comunque attivate su iniziativa degli interessati non responsabili.
Il comma 2 dispone che fatti salvi gli obblighi del responsabile della potenziale contaminazione di cui all’articolo 242, il proprietario o il gestore dell’area che rilevi il superamento o il pericolo concreto e attuale del superamento delle concentrazione soglia di contaminazione (CSC) deve darne comunicazione alla regione, alla Provincia ed al Comune territorialmente competenti e attuare le misure di prevenzione secondo la procedura di cui all’articolo 242. La Provincia, una volta ricevute le comunicazioni di cui sopra, si attiva, sentito il Comune, per l’identificazione del soggetto responsabile al fine di dar corso agli interventi di bonifica. È comunque riconosciuta al proprietario o ad altro soggetto interessato la facoltà di intervenire in qualunque momento volontariamente per la realizzazione degli interventi di bonifica necessari nell’ambito del sito in proprietà o disponibilità.
Infine, il comma 3 dispone che qualora i soggetti interessati procedano ai sensi dei commi 1 e 2 entro sei mesi dalla data di entrata in vigore della parte quarta del decreto, ovvero abbiano già provveduto in tal senso in precedenza, la decorrenza dell'obbligo di bonifica di siti per eventi anteriori all’entrata in vigore della parte quarta del decreto verrà definita dalla regione territorialmente competente in base alla pericolosità del sito, determinata in generale dal piano regionale delle bonifiche o da suoi eventuali stralci, salva in ogni caso la facoltà degli interessati di procedere agli interventi prima del suddetto termine.
Con tale disposizione sembra che si miri a spostare in avanti il termine per l’entrata in vigore degli obblighi di bonifica previsti dallo schema di decreto.
Si osserva peraltro che la formulazione presenta ambiguità e sarebbe quindi opportuno chiarire la portata della norma.
Si ricorda con riferimento alle norme contenute nell’articolo 245 che il comma 3 dell’articolo 17 del decreto n. 22 dispone che “i soggetti e gli organi pubblici che nell’esercizio delle proprie funzioni istituzionali individuano siti nei quali i livelli di inquinamento sono superiori ai limiti previsti, ne danno comunicazione al Comune,che diffida il responsabile dell’inquinamento a provvedere ai sensi del comma 2, nonché alla Provincia e alla Regione.”
L’articolo 246 disciplina -come già accennato- gli accordi di programma, mentre l’articolo 247, riproducendo una disposizione già contenuta nell’articolo 17 del decreto n. 22 del 1997, prevede che nel caso in cui il sito inquinato sia soggetto a sequestro, l'autorità giudiziaria che lo ha disposto può autorizzare l'accesso al sito per l'esecuzione degli interventi di messa in sicurezza, bonifica e ripristino ambientale delle aree, anche al fine di impedire l'ulteriore propagazione degli inquinanti ed il conseguente peggioramento della situazione ambientale.
L’articolo 248 in materia di controlli delle misure apprestate dispone che la documentazione relativa al piano della caratterizzazione del sito e al progetto operativo, comprensiva delle misure di riparazione, dei monitoraggi da effettuare, delle limitazioni d'uso e delle prescrizioni eventualmente dettate ai sensi dell’articolo 242, comma 4, è trasmessa alla Provincia e all’Agenzia regionale per la protezione dell’ambiente competenti ai fini dell'effettuazione dei controlli sulla conformità degli interventi ai progetti approvati, mentre il comma 2 prevede che il completamento degli interventi di bonifica, di messa in sicurezza permanente e di messa in sicurezza operativa, nonché la conformità degli stessi al progetto approvato sono accertati dalla Provincia mediante apposita certificazione sulla base di una relazione tecnica predisposta dall’Agenzia regionale per la protezione dell’ambiente territorialmente competente, mentre ai sensi del comma 3 la certificazione di cui al comma 2 costituisce titolo per lo svincolo delle garanzie finanziarie di cui all’articolo 242, comma 7.
L’attuale normativa prevede solamente che il completamento degli interventi previsti dai progetti di bonifica è attestato da apposita certificazione rilasciata dalla provincia competente per territorio (comma 8 articolo 17 del decreto n. 22 del 1997).
L’articolo 249 disciplina –come già evidenziato- la procedura per la bonifica delle aree di ridotte dimensioni, rinviando all’Allegato IV.
L’articolo 251 contiene le norme relative al censimento dei siti da bonificare.
In base al comma 1, le regioni, sulla base dei criteri definiti dall'Agenzia per la protezione dell’ambiente e per i servizi tecnici (APAT), predispongono l'anagrafe dei siti oggetto di procedimento di bonifica, la quale deve contenere:
a) l'elenco dei siti sottoposti ad intervento di bonifica e ripristino ambientale nonché degli interventi realizzati nei siti medesimi;
b) l’individuazione dei soggetti cui compete la bonifica;
c) gli enti pubblici di cui la regione intende avvalersi, in caso di inadempienza dei soggetti obbligati, ai fini dell’esecuzione d’ufficio, fermo restando l’affidamento delle opere necessarie mediante gara pubblica ovvero il ricorso alle procedure dell’articolo 242.
Il comma 2 prevede che qualora, all’esito dell’analisi di rischio sito specifica venga accertato il superamento delle concentrazioni di rischio, tale situazione viene riportata dal certificato di destinazione urbanistica, nonché dalla cartografia e dalle norme tecniche di attuazione dello strumento urbanistico generale del Comune e viene comunicata all'Ufficio tecnico erariale competente.
Ai sensi del comma 3, infine, per garantire l'efficacia della raccolta e del trasferimento dei dati e delle informazioni, l'Agenzia per la protezione dell’ambiente e per i servizi tecnici (APAT) definisce, in collaborazione con le regioni e le agenzie regionali per la protezione dell'ambiente, i contenuti e la struttura dei dati essenziali dell'anagrafe, nonché le modalità della loro trasposizione in sistemi informativi collegati alla rete del sistema informativo nazionale per l'ambiente.
Il comma 12 dell’articolo 17 del decreto legislativo n. 22 del 1997 prevede che le Regioni predispongono sulla base delle notifiche dei soggetti interessati ovvero degli accertamenti degli organi di controllo un’anagrafe dei siti da bonificare che individui:
a) gli ambiti interessati, la caratterizzazione ed il livello degli inquinanti presenti;
b) i soggetti cui compete l’intervento di bonifica;
c) gli enti di cui intende avvalersi per l’esecuzione d’ufficio in caso di inadempienza dei soggetti obbligati;
d) la stima degli oneri finanziari
L’articolo 252 in materia di siti di interesse nazionale prevede al comma 1 che i siti di interesse nazionale, ai fini della bonifica, sono individuabili in relazione alle caratteristiche del sito, alle quantità e pericolosità degli inquinanti presenti, al rilievo dell'impatto sull'ambiente circostante in termini di rischio sanitario ed ecologico, nonché di pregiudizio per i beni culturali ed ambientali.
Il comma 2 dispone che all’individuazione dei siti di interesse nazionale si provvede con decreto del Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio, d’intesa con le regioni interessate, secondo i seguenti principi e criteri direttivi:
a) gli interventi di bonifica devono riguardare aree e territori, compresi i corpi idrici, di particolare pregio ambientale;
b) la bonifica deve riguardare aree e territori tutelati ai sensi del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42;
c) il rischio sanitario ed ambientale che deriva dal rilevato superamento delle concentrazioni soglia di rischio deve risultare particolarmente elevato in ragione della densità della popolazione o dell'estensione dell'area interessata;
d) l'impatto socio economico causato dall'inquinamento dell'area deve essere rilevante;
e) la contaminazione deve costituire un rischio per i beni di interesse storico e culturale di rilevanza nazionale;
f) gli interventi da attuare devono riguardare siti compresi nel territorio di più regioni.
Il comma 3 prevede che ai fini della perimetrazione del sito sono sentiti i Comuni, le Province, le regioni e gli altri enti locali, assicurando la partecipazione dei responsabili nonché dei proprietari delle aree da bonificare, se diversi dai soggetti responsabili.
Il comma 4 dispone che la procedura di bonifica dei siti di interesse nazionale è attribuita alla competenza del Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio, sentito il Ministero delle attività produttive. Il Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio può a tal fine avvalersi anche dell’Agenzia per la protezione dell’ambiente e per i servizi tecnici (APAT), delle Agenzie regionali per la protezione dell’ambiente delle regioni interessate e dell'Istituto superiore di sanità nonché di altri soggetti qualificati pubblici o privati.
Ai sensi del comma 5, inoltre, nel caso in cui il responsabile non provveda o non sia individuabile oppure non provveda il proprietario del sito contaminato né altro soggetto interessato, gli interventi sono predisposti dal Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio, avvalendosi dell’Agenzia per la protezione dell’ambiente e per i servizi tecnici (APAT), dell'Istituto Superiore di Sanità e dell'E.N.E.A. nonché di altri soggetti qualificati pubblici o privati, mentre il comma 6 prevede che l’autorizzazione del progetto e dei relativi interventi sostituisce a tutti gli effetti le autorizzazioni, le concessioni, i concerti, le intese, i nulla osta, i pareri e gli assensi previsti dalla legislazione vigente, ivi compresi, tra l’altro, quelli relativi alla realizzazione e all’esercizio degli impianti e delle attrezzature necessarie alla loro attuazione. L’autorizzazione costituisce, altresì, variante urbanistica e comporta dichiarazione di pubblica utilità, urgenza ed indifferibilità dei lavori.
Il comma 7 dispone che se il progetto prevede la realizzazione di opere sottoposte a procedura di valutazione di impatto ambientale, l’approvazione del progetto di bonifica comprende anche tale valutazione.
Infine, il comma 8 prevede che in attesa del perfezionamento del provvedimento di autorizzazione di cui ai commi precedenti, completata l'istruttoria tecnica, il Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio può autorizzare in via provvisoria, su richiesta dell'interessato, ove ricorrano motivi d'urgenza e fatta salva l'acquisizione della pronuncia positiva del giudizio di compatibilità ambientale, ove prevista, l'avvio dei lavori per la realizzazione dei relativi interventi di bonifica, secondo il progetto valutato positivamente, con eventuali prescrizioni, dalla conferenza di servizi convocata dal Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio. L'autorizzazione provvisoria produce gli effetti di cui all’articolo 242, comma 7.
Al riguardo si ricorda che il comma 14 dell’articolo 17 del decreto legislativo n. 22 dispone esclusivamente che i progetti relativi ad interventi di bonifica di interesse nazionale sono presentati al Ministero dell’ambiente e approvati con decreto del Ministro dell’ambiente di concerto con i Ministri dell’industria, del commercio, dell’artigianato e della sanità, d’intesa con la Regione territorialmente competente.
L’articolo 253 regola la materia degli oneri e dei privilegi speciali con le differenze già evidenziate con riferimento alle norme del decreto Ronchi.
Esso contiene inoltre al comma 5 un’ulteriore norma, in base alla quale gli interventi di bonifica dei siti inquinati possono essere assistiti, sulla base di apposita disposizione legislativa di finanziamento, da contributi pubblici entro il limite massimo del 50 per cento delle relative spese qualora sussistano preminenti interessi pubblici connessi ad esigenze di tutela igienico-sanitaria e ambientale o occupazionali. Ai predetti contributi pubblici non si applicano le disposizioni di cui ai commi 1 e 2.
Tale norma riproduce una norma già contenuta nel decreto legislativo n. 22.
Viene disposta l’abrogazione decreto legislativo n. 22 del 1997. Viene inoltre prevista l’abrogazione di una serie di norme delle quali era già prevista l’abrogazione da parte del decreto legislativo n. 22. Abrogazioni nuove non prevista dal decreto n. 22 riguardano l’articolo 14 del decreto-legge n. 138 del 2002 e l’articolo 9 comma 2-bis della legge n. 342 del 2000 relativamente all’obbligo per i produttori che non partecipano ai consorzi di finanziare l’attività del CONAI
Al fine di assicurare che non vi sia alcuna soluzione di continuità nel passaggio dalla preesistente normativa a quella prevista dalla parte quarta del presente decreto, i provvedimenti attuativi del citato decreto legislativo 5 febbraio 1997, n. 22, continuano peraltro ad applicarsi sino alla data di entrata in vigore dei corrispondenti provvedimenti attuativi previsti dallo schema di decreto.
Si ricorda che durante le audizioni svolte dalle Commissioni parlamentari competente in forma congiunta, l’UPI (Unione Province d’Italia) ha lamentato la soppressione di un tributo provinciale, operata dalla lettera n) del comma 1 dell’art. 264. Tuttavia, la disposizione citata nel documento dell’UPI non si riscontra nel testo in esame.
Si segnalano due novità fondamentali.
La prima riguarda le disposizioni che puniscono chi cagiona il superamento dei limiti stabiliti per la bonifica.
Le nuove disposizioni in materia escludono infatti che possa essere punito chi causa il rischio di superamento dei limiti. Viene punito solo chi cagiona il superamento dei limiti.
La seconda novità riguarda le disposizioni che sanzionano la violazione degli obblighi di tenuta dei registri di carico.
Sono previste infatti riduzioni delle sanzioni nel caso in cui le violazioni siano compiute da imprese con un numero di dipendenti inferiore a 15.
Le norme in materia di tutela dell’aria e di riduzione delle emissioni in atmosfera recate dalla Parte V dello schema di decreto in esame provvedono ad accorpare in un unico testo una moltitudine di disposizioni sia di rango primario sia di natura regolamentare e relative ai diversi settori di attività che generano emissioni nell’atmosfera (dai grandi impianti di combustione agli impianti termici civili alle emissioni di composti organici volatili, cd. COV) nonché ai combustibili in esse utilizzati.
La relazione illustrativa sottolinea come il sovrapporsi nel corso degli anni di questa serie di norme di diverso grado e di natura eterogenea senza un adeguato coordinamento ha determinato la progressiva emersione di diversi orientamenti interpretativi, talora contrastanti, in merito ad aspetti fondamentali della materia, come p.es. la nozione di impianto o il regime delle attività agricole.
In questo quadro, secondo la relazione, la parte quinta del decreto si propone l’obiettivo di raccogliere e coordinare in un corpo normativo unitario tutte le norme in oggetto, e l’obiettivo di razionalizzare (anche adeguandoli all’attuale contesto tecnico-economico) i diversi orientamenti interpretativi stabilendo con precisione il campo di applicazione, le nozioni e gli adempimenti da porre in essere. Tutto ciò “in modo da offrire alle Amministrazioni e agli operatori di settore un quadro di attribuzioni e di adempimenti estremamente preciso e rispondente alle esigenze di certezza del diritto che la legge delega persegue”.
Ciò premesso, prescindendo dalle novità introdotte rispetto all’ordinamento vigente (di cui si darà conto nel seguito), viene fornita la seguente tavola sinottica che consente di comprendere l’opera di sistematizzazione della normativa vigente compiuta dalla parte quinta in esame.
La tavola seguente mostra, infatti, per ogni argomento trattato dalla parte quinta, le norme vigenti trasposte nell’articolato della parte quinta e, di conseguenza, abrogate:
Tavola 1.1 Disposizioni normative vigenti trasposte nella parte quinta del decreto
Norme della parte quinta del decreto |
Normativa vigente |
TITOLO I |
|
Impianti e attività generanti emissioni |
|
Art. 268 - definizioni |
La maggior parte delle definizioni deriva dal DPR n. 203/1988 (p.es. inquinamento atmosferico, emissione, valore limite di emissione, fattore di emissione), dal DM n. 44/2004 (p.es. COV, solvente organico, soglia di consumo) e dal DM n. 107/2000 (benzina, terminale, impianto di deposito e caricamento, ecc.)[98] |
Art. 269 – autorizzazione alle emissioni |
Artt. 6-9 e 15 del DPR n. 203/1988 Relativamente agli impianti esclusi (art. 269, comma 14) le fattispecie elencate derivano dell’allegato 1 del DPR 25 luglio 1991 (punti 21, 25 e 26), dall’art. 12, comma 8, del D.lgs. n. 387/2003 e dal DPCM 21 luglio 1989 (punto 3). Un’altra esclusione si trova poi al comma 16 dell’art. 269, che ripropone, nella sostanza, il punto 4 del citato DPCM 21 luglio 1989. |
Art. 270 – convogliamento delle emissioni |
Tale articolo esplicita, almeno in parte, obblighi già impliciti nella normativa vigente. Cfr. ad es. DM 12 luglio 1990 (art. 3, comma 6). |
Art. 271 – limiti di emissione e prescrizioni |
Art. 3 del DM 12 luglio 1990 |
Art. 272 – impianti e attività in deroga |
DM 25 luglio 1991 Relativamente agli impianti esclusi dall’applicazione dell’art. 272, le norme del comma 4 derivano dall’art. 4, comma 3, del DPR 25 luglio 1991 e dall’art. 3, comma 9, del DM n. 44/2004. Le esclusioni recate dal comma 5 riflettono invece il dettato del punto 2 del DM 21 luglio 1989 e punto 2) e del punto 23 dell’Allegato 1 al DPR 25 luglio 1991. |
Grandi impianti di combustione |
|
Art. 273 – grandi impianti di combustione |
DM 8 maggio 1989 e Direttiva 2001/80/CE |
Art. 274 – raccolta e trasmissione dati |
Direttiva 2001/80/CE |
COV |
|
Art. 275 – emissioni di COV |
DM n. 44/2004 |
Art. 276 – COV da depositi di benzina |
DM n. 107/2000 |
Art. 277 – COV da rifornimento autoveicoli |
DM 16 maggio 1996, DM n. 76 del 1999 e legge n. 413 del 1997 (art. 4) |
Sanzioni |
|
Art. 278 – poteri di ordinanza |
Art. 10 del DPR n. 203/1988 |
Art. 279 – sanzioni |
Artt. 24-25 del DPR n. 203/1988 |
TITOLO II |
|
Impianti termici civili |
|
Art. 283 - definizioni |
Art. 3 del DPR n. 1391/1970, DPR n. 412/1993[99] e DPCM 8 marzo 2002 |
Art. 284 – denuncia di installazione |
Si noti che tale denuncia sostituisce l’autorizzazione prevista dall’art. 8 della legge n. 615/1966. |
Art. 285 – caratteristiche tecniche Art. 286 – limiti di emissione |
DPCM 8 marzo 2002 |
Art. 287 – abilitazione alla conduzione |
Artt. 16 e 17 della legge n. 615/1966 |
Art. 288 – controlli e sanzioni |
Tale articolo introduce sanzioni riferite ad attività attualmente non sanzionate. La relazione illustrativa precisa che “si è ritenuto opportuno per l’analogia della materia disciplinata fare riferimento all’entità della sanzione prevista dalla legge n. 10 del 1991 per la violazione degli obblighi generali di esercizio e manutenzione degli impianti termici civili”. |
TITOLO III |
|
Combustibili |
|
Art. 292 – definizioni |
Art. 3 del DPCM n. 395/2001 |
Art. 293 – combustibili consentiti |
Art. 7 del DPCM n. 395/2001 Art. 4, comma 2, del DPCM 8 marzo 2002 |
Art. 294 – rendimento di combustione |
Artt. 5 e 7 del DPCM 8 marzo 2002 |
Art. 295 – raccolta e trasmissione dati |
Art. 9 del DPCM n. 395/2001 |
Art. 296 – sanzioni |
Art. 26 del DPR n. 203/1988 |
Allegati |
|
Allegato I |
Riproduce gli allegati 1 e relative tabelle, 2, 3-B e 3-C del DM 12 luglio 1990. |
Allegato II |
Raccoglie le disposizioni vigenti previste dal DM 8 maggio 1989 adeguandole a quelle più aggiornate della direttiva 2001/80/CE. |
Allegato III |
Riproduce il contenuto degli allegati al DM n. 44/2004, integrandolo con le disposizioni dettate nell’articolato del medesimo DM |
Allegato IV |
Allegati 1 e 2 del DPR 25 luglio 1991 |
Allegato V |
Riproduce gli allegati 6 e 7 del DM 12 luglio 1990 |
Allegato VI |
Riordina in un unico testo alcune disposizioni provenienti dall’allegato 4 al DM 12 luglio 1990 con quelle, soprattutto previste nel relativo allegato, del DM 21 dicembre 1995 |
Allegato VII |
DM 21 gennaio 2000, n. 107 |
Allegato VIII |
DM 16 maggio 1996 |
Allegato IX |
DPR n. 1391/1970 DPCM 8 marzo 2002 |
Allegato X |
Riprende il contenuto dell’articolato e degli allegati del DPCM n. 395/2001 e, soprattutto, del DPCM 8 marzo 2002 |
Si ricorda infine che, come sottolineato anche nella relazione illustrativa, “le disposizioni di natura strettamente tecnica sono state inserite nei dieci allegati i quali potranno essere in qualsiasi momento modificati mediante appositi regolamenti o decreti ministeriali. Ciò consentirà in futuro di adeguare in modo rapido e flessibile al progresso tecnico e alle nuove acquisizioni tale normativa di dettaglio, ferme restando le norme di principio contenute negli articoli del provvedimento”.
Nelle pagine che seguono, il commento delle disposizioni recate dai tre titoli della parte quinta in esame prescinde dalla scansione del testo in articoli e commi ma è finalizzato, per ogni materia trattata, ad evidenziare differenze e innovazioni principali rispetto alla normativa vigente.
L’art. 267 prevede che le disposizioni del Titolo I si applicano, ai fini della prevenzione e della limitazione dell’inquinamento atmosferico, a tutti gli impianti, inclusi gli impianti termici civili non disciplinati dal titolo II[100], ed alle attività che producono emissioni in atmosfera e stabilisce i valori di emissione, le prescrizioni, i metodi di campionamento e di analisi delle emissioni ed i criteri per la valutazione della conformità dei valori misurati ai valori limite.
Sono invece esclusi dal campo di applicazione i seguenti impianti:
§ gli impianti di incenerimento dei rifiuti disciplinati dal D.lgs. 11 maggio 2005, n. 133 di recepimento della direttiva 2000/76/CE;
§ gli impianti sottoposti ad autorizzazione integrata ambientale (AIA). Viene infatti fatta salva la normativa di recepimento della direttiva 96/61/CE (cd. direttiva IPPC) recata dal D.lgs. 18 febbraio 2005, n. 59, per cui per gli impianti sottoposti ad autorizzazione integrata ambientale (AIA), tale autorizzazione sostituisce quella alle emissioni prevista dal presente titolo. Si ricorda, inoltre, che l’art. 271, comma 16, dispone che i limiti di emissione previsti dal medesimo articolo si applicano ai fini del rilascio dell’AIA, fermo restando il potere dell’autorità competente di stabilire valori limite e prescrizioni più severi.
Si ricorda, inoltre, che ulteriori esclusioni (già previste dalla vigente normativa) dal campo di applicazione sono previste:
§ dall’art. 269, commi 14 e 16, che esentano dall’obbligo di autorizzazione alcuni impianti “ad inquinamento atmosferico poco significativo”[101], impianti di emergenza, di ricerca, di prova, ecc. ed impianti di deposito di oli minerali, compresi i gas liquefatti[102].
§ dall’art. 272, comma 5, che esclude l’applicazione delle disposizioni del titolo I della parte quinta per gli impianti destinati alla difesa nazionale[103] nonché per le emissioni provenienti da sfiati e ricambi d’aria esclusivamente adibiti alla protezione e alla sicurezza degli ambienti di lavoro.
Per quest’ultima tipologia di impianti occorre ricordare che nell’attuale contesto normativo è compresa tra gli impianti “ad inquinamento atmosferico poco significativo”[104], il cui elenco è in buona parte riprodotto nella parte I dell’Allegato IV. Dalla parte I del citato Allegato IV però la tipologia in questione viene espunta ed indicata espressamente nell’articolato.
In proposito si rammenta che gli impianti indicati nella parte I del citato Allegato IV non sono sottoposti ad autorizzazione alle emissioni ma ad una semplice comunicazione di inizio attività. Il disposto del citato comma 5 dell’art. 272, quindi, esenta tali impianti anche dall’obbligo di comunicazione citato.
L’art. 268 contiene una raccolta eterogenea di definizioni che provengono in gran parte dalla normativa vigente. In alcuni casi tali definizioni risultano meglio specificate rispetto a quelle vigenti, in altri si tratta di una enunciazione espressa di concetti che comunque, seppur non definiti, già soggiacevano all’impostazione normativa vigente o che comparivano, anziché nell’articolato, negli allegati tecnici.
Si osserva in proposito che l’utilità di trovare in un unico articolo tutte le definizioni utilizzate nel testo dell’articolato potrebbe aumentare ordinando le citate nozioni in ordine alfabetico, in modo da facilitare la ricerca dei termini, che diversamente – vista la mole dell’articolo in questione – potrebbe divenire faticosa.
Si fa notare che la definizione di “modifica sostanziale dell’impianto”, estremamente importante ai fini autorizzativi, varia a seconda dell’argomento, per cui non compare nell’art. 268 ma viene fornita di volta in volta.
Un aspetto innovativo dell’articolo in esame è dato invece dall’introduzione di una nuova definizione di impianto diretta, secondo la relazione illustrativa, a “risolvere una serie di criticità emerse in merito all’interpretazione della definizione attuale”[105].
Si fa notare che gli impianti esistenti vengono suddivisi in due sottocategorie:
§ impianti anteriori al 1988, cioè esistenti e/o autorizzati alla data del 1° luglio 1988 ai sensi della normativa previgente;
§ impianti anteriori al 2006, cioè la cui costruzione è successiva al 1° luglio 1988 e autorizzati ai sensi del DPR n. 203/1988.
A tali impianti vengono poi applicate due diverse discipline in tema di limiti di emissione (ai sensi dell’art. 271) nonché per l’adeguamento alle disposizioni previste dal presente decreto (ai sensi dell’art. 281).
L’art. 269 condensa le varie norme procedimentali disseminate in numerosi articoli del DPR n. 203/1988 (si vedano in particolare gli articoli 6, 7, 8, 9 e 15) provvedendo ad una revisione e semplificazione della disciplina autorizzatoria.
Le principali novità recate dall’articolo in esame riguardano, infatti:
§ l’introduzione (prevista dal comma 3 dell’articolo in esame), ai fini del rilascio dell’autorizzazione, dell’obbligo di convocazione (entro 30 giorni dalla ricezione della richiesta) di una conferenza di servizi. Contestualmente viene abolito l’obbligo di acquisizione, da parte della Regione, del parere del Sindaco del Comune di ubicazione dell’impianto.
Si fa notare che la nuova procedura prevista dall’articolo in esame contempla tempi più lunghi per il rilascio dell’autorizzazione (come evidenziato dal grafico seguente che mette a confronto il diverso iter procedurale previsto dal decreto in esame e dal DPR n. 203/1988), tuttavia il ricorso alla conferenza di servizi dovrebbe in realtà consentire un esame contestuale di tutti gli interessi coinvolti semplificando così l’iter procedurale e garantendo tempi certi.
Del resto la pratica di questi anni ha mostrato che i tempi celeri previsti dal DPR n. 203/1988 spesso non vengono rispettati: “ricevuto il parere del comune competente, gli uffici regionali danno inizio all’istruttoria tecnica sulla documentazione presentata dall’azienda, che dovrebbe concludersi entro sessanta giorni dalla presentazione della richiesta di autorizzazione; nonostante gli uffici provvedano a diffidare i sindaci che non esprimono il parere entro il termine loro assegnato, si verificano spesso inadempienze in tal senso, il che comporta un mancato rispetto del termine di conclusione del procedimento. Ulteriori difficoltà nell’istruttoria delle pratiche relative agli impianti più complessi fanno sì che, realisticamente, si stimi il tempo medio per il rilascio dell’autorizzazione in circa sei mesi dalla presentazione della richiesta”[106].
Tavola 1.2 Disciplina per il rilascio dell’autorizzazione alle emissioni in atmosfera
§ la specificazione (prevista dal comma 4 dell’articolo in esame) dei contenuti dell’autorizzazione, che deve stabilire (oltre alla tempistica e ai controlli per la messa a regime dell’impianto, che il comma 5 riprende dalla legislazione vigente):
a) per le emissioni tecnicamente convogliabili, le modalità di captazione e di convogliamento ai sensi dell’art. 270;
b) per le emissioni convogliate (o di cui è stato disposto il convogliamento), i valori limite di emissione, le prescrizioni, i metodi di campionamento e di analisi, i criteri per la valutazione della conformità dei valori misurati ai valori limite e la periodicità dei controlli di competenza del gestore ai sensi dell’art. 271;
Si fa notare che tale contenuto riprende, nella sostanza, quanto previsto dalla normativa recata dal DPR n. 203/1988 e dai relativi decreti interpretativi e attuativi.
c) per le emissioni diffuse, apposite prescrizioni finalizzate ad assicurarne il contenimento, sempre ai sensi dell’art. 271.
Si ricorda, in proposito, che tale specificazione, seppur non prevista in modo esplicito nei contenuti dell’autorizzazione alle emissioni, riprende l’obbligo, sancito nell’ordinamento vigente, dall’art. 3, comma 7, del DM 12 luglio 1990 secondo cui “ove, il convogliamento non sia tecnicamente attuabile, le emissioni diffuse devono essere adeguate” secondo le modalità indicate nello stesso decreto.
§ l’introduzione (prevista dal comma 7) di una durata fissa (15 anni) per le autorizzazioni. Viene altresì previsto che l’istanza di rinnovo sia presentata almeno un anno prima della scadenza e che nelle more dell’adozione del provvedimento sulla domanda di rinnovo l’esercizio dell’impianto possa continuare, anche dopo la scadenza dell’autorizzazione, in caso di mancata pronuncia entro i termini del Ministero dell’ambiente a cui sia stato richiesto di provvedere ai sensi del comma 3.
Tale disposizione viene motivata nella relazione illustrativa con il fine di “garantire un aggiornamento periodico e uniforme sul territorio nazionale, degli impianti e delle attività alle migliori tecniche disponibili”.
Si ricorda che il DPR n. 203 del 1988 non prevede alcuna scadenza, da cui discende una durata illimitata dell’autorizzazione finché non interviene una modifica sostanziale dell'impianto che comporti variazioni qualitative e/o quantitative delle emissioni inquinanti; oppure vi sia il trasferimento dell'impianto in altra località.
Si rammenta, tuttavia, che l’art. 11 del medesimo DPR prevede che “le prescrizioni dell'autorizzazione possono essere modificate in seguito all'evoluzione della migliore tecnologia disponibile, nonché alla evoluzione della situazione ambientale”.
Sul punto le associazioni ambientaliste sottolineano che una tale durata “appare in contrasto“[107] con il quadro generale della normativa europea sull’ambiente. Infatti, giova ricordare che le autorizzazioni integrate ambientali (direttiva 1996/61 e decreti attuativi) sono rilasciate per 8 anni nel caso di stabilimenti registrati EMAS, per 6 anni per quelli registrati ISO 14001, e per 5 anni in tutti gli altri casi. La stessa cosa vale per le discariche e per gli scarichi idrici, per i quali nei casi ordinari tutte le autorizzazioni valgono per 5 e 4 anni, rispettivamente”.
Del resto la lettera n) del comma 8 dell’art. 1 della legge delega prevede proprio l’introduzione di “agevolazioni amministrative negli iter autorizzativi e di controllo per le imprese certificate secondo le predette norme EMAS o in base al citato regolamento (CE) n. 761/2001”.
§ l’introduzione (prevista dal comma 8) della seguente procedura per l’aggiornamento dell’autorizzazione in caso di modifica (sostanziale o meno) dell’impianto (anche relativa alle modalità di esercizio o ai combustibili utilizzati), che si attiva con l’obbligo (in capo al gestore dell’impianto) di comunicazione delle modifiche all’autorità competente:
a) se si tratta di una modifica non sostanziale, l’autorità competente provvede, ove necessario, ad aggiornare l’autorizzazione in atto.
b) se la modifica è sostanziale, l’autorità competente, entro 60 giorni dalla ricezione della comunicazione, ordina al gestore di presentare una domanda di aggiornamento dell’autorizzazione, alla quale si applicano le disposizioni del presente articolo. Viene altresì previsto che se l’autorità competente non si esprime entro tale termine, il gestore può procedere all’esecuzione della modifica comunicata, fatto salvo il potere dell’organo competente di provvedere anche successivamente, nel termine di sei mesi dalla ricezione della comunicazione.
Lo stesso comma chiarisce cosa debba intendersi per modifica sostanziale (“quella che comporta un aumento o una variazione qualitativa delle emissioni o che altera le condizioni di convogliabilità tecnica delle stesse”).
Si osserva, in proposito, che sembrerebbe opportuno specificare cosa debba intendersi per “variazione qualitativa delle emissioni”.
Si fa notare, inoltre, che, per entrambe le tipologie modificative (sostanziale o meno), ai sensi del comma 7 non si interrompe il decorso del termine quindicennale di scadenza dell’autorizzazione.
Ciò tuttavia sembra contrastare con quanto affermato sia nel DPR n. 203/1988 sia nel recente D.lgs. n. 59/2005 in materia di autorizzazione integrata ambientale (AIA), ove ad una modifica sostanziale segue una nuova richiesta di autorizzazione, che nel caso dell’AIA determina una nuova scadenza quinquennale.
Si osserva infatti che la modifica sostanziale viene di solito equiparata – sul piano normativo – all’installazione di un impianto nuovo. Ciò dovrebbe determinare una “nuova” autorizzazione e quindi l’apertura di un nuovo termine quindicennale. Al contrario, l’ultimo periodo del comma 7 specifica – come si è visto - che “l’aggiornamento dell’autorizzazione ai sensi del comma 8 non comporta il decorso di un nuovo periodo di quindici anni”.
Ai fini di un definitivo chiarimento fra le due fattispecie (aggiornamento in seguito a modifiche non sostanziali e nuova autorizzazione in seguito a modifiche sostanziali) sembrerebbe opportuno separarne la disciplina in due distinti commi.
§ l’introduzione (prevista dai commi 10-13) di una serie di disposizioni volte a disciplinare le emissioni derivanti da particolari tipi di attività, la cui disciplina, in base alle norme vigenti, non appare inequivoca. E’ il caso ad esempio dell’attività non occasionale, ma di modeste dimensioni[108], di verniciatura in un luogo a ciò adibito ed in assenza di un impianto. Si ricorda, infatti, che la sentenza n. 978 del 20 gennaio 2004 della Corte di cassazione - Sez. III Penale, ha ricondotto la fattispecie citata all’applicabilità della disciplina recata dal DPR n. 203/1988[109].
Per tali attività viene previsto l’obbligo di presentare apposita domanda per lo svolgimento dell’attività, sulla base della quale l’autorità competente può imporre il convogliamento delle emissioni e, in tal caso, il rispetto dei valori limite di emissione e delle prescrizioni previsti dall’art. 271.
Si fa notare, infine, che il comma 14 reca una serie di esclusioni dall’autorizzazione alle emissioni che sono già previste dalla vigente normativa[110]. La maggior parte delle esclusioni considerate fanno riferimento ad impianti di combustione “ad inquinamento atmosferico poco significativo” ai sensi dell’allegato 1 del DPR 25 luglio 1991 (punti 21, 25 e 26). Le restanti attività “ad inquinamento atmosferico poco significativo” si ritrovano invece nella parte prima dell’allegato IV alla parte quinta, relativo a impianti e attività in deroga. In realtà il risultato finale sembra lo stesso, e cioè quello di un’esclusione dall’ambito di applicazione del presente decreto, visto che l’art. 272, comma 5, esclude da tale ambito proprio gli impianti e le attività di cui alla parte prima dell’allegato IV alla parte quinta.
Si fa notare che l’indicazione separata di tali impianti di combustione all’interno del comma 14 è funzionale alle disposizioni dell’art. 271, comma 1, che equipara tali impianti a quelli anteriori al 1988 ai fini dell’individuazione dei limiti di emissione da rispettare.
Si fa notare, infine, che l’elencazione recata dal comma 14 in esame è altresì funzionale all’individuazione del campo di applicazione delle norme relative agli impianti termici civili (vedi infra).
L’art. 270 introduce nell’ordinamento criteri specifici per:
§ il convogliamento delle emissioni diffuse;
§ il convogliamento delle emissioni provenienti da uno o più impianti;
§ l’applicazione dei valori limite in funzione dei punti di emissione delle emissioni convogliate.
Si fa notare che tali disposizioni esplicitano obblighi in parte già impliciti nella normativa vigente.
Si ricorda, in proposito, che ai sensi del DPCM 21 luglio 1989 “uno stabilimento può essere costituito da più impianti. Il singolo impianto all'interno di uno stabilimento è l'insieme delle linee produttive finalizzate ad una specifica produzione. Le linee produttive possono comprendere a loro volta più punti di emissione derivanti da una o più apparecchiatura e/o da operazioni funzionari al ciclo produttivo".
Si noti che l'espressione "punti di emissione" riguarda le emissioni convogliate o convogliabili. Si veda in proposito la definizione recata dall’art. 268, comma 1, lett. c) del presente decreto.
L’obbligo sancito dall’articolo in esame circa il convogliamento, ove possibile, delle emissioni si ritrova nell’art. 3, comma 6, del DM 12 luglio 1990 secondo cui “le Regioni […] potranno verificare la convogliabilità di specifiche emissioni diffuse, anche avvalendosi degli accertamenti già effettuati dagli ispettorati del lavoro o dagli altri organi tecnici previsti dalla normativa vigente”.
L’art. 271 disciplina le modalità di determinazione dei valori limite[111] e delle prescrizioni nonché i contenuti dell’autorizzazione in merito agli aspetti citati.
In particolare, l’articolo rinvia ai seguenti allegati, che operano una semplice sistemazione delle norme tecniche vigenti contenute negli allegati ai DM 12 luglio 1990 e 21 dicembre 1995:
- Allegato I recante “Valori di emissione e prescrizioni” relativi alle emissioni convogliate[112] (che riproduce nella sostanza gli allegati 1 e relative tabelle, 2, 3-B e 3-C del DM 12 luglio 1990);
- Allegato V riguardante le prescrizioni relative alle emissioni diffuse derivanti da particolari attività (che riproduce gli allegati 6 e 7 del DM 12 luglio 1990). Tale allegato riguarda precisamente le polveri provenienti da attività di produzione, manipolazione, trasporto, carico, scarico o stoccaggio di materiali polverulenti e le emissioni in forma di gas o vapore derivanti da attività di lavorazione, trasporto, travaso e stoccaggio di sostanze organiche liquide;
- Allegato VI recante “Criteri per la valutazione della conformità dei valori misurati ai valori limite di emissione” (che riordina in un unico testo alcune disposizioni provenienti dall’allegato 4 al DM 12 luglio 1990 con quelle, soprattutto previste nel relativo allegato, del DM 21 dicembre 1995).
Si ricorda che i commi 3, 4 e 5 richiamano disposizioni vigenti volte a consentire una diversa modulazione a livello territoriale (con legge o provvedimento generale regionale o mediante appositi piani e programmi) dei valori limite e delle prescrizioni fissati dall’Allegato I. Il comma 5, in particolare prevede che i piani e programmi previsti per particolari finalità di tutela possano fissare valori limite e prescrizioni anche per impianti non disciplinati dall’Allegato I.
Si ricorda, in proposito, che il disposto dei commi 3 e 7 sembra riprodurre nella sostanza l’art. 4, comma 1, lettera d), del DPR n. 203/1988, che affida alla competenza regionale “la fissazione dei valori delle emissioni di impianti, sulla base della migliore tecnologia disponibile e tenendo conto delle linee guida fissate dallo Stato e dei relativi valori di emissione. In assenza di determinazioni regionali, non deve comunque essere superato il più elevato dei valori di emissione definiti nelle linee guida, fatti salvi i poteri sostitutivi degli organi statali”.
Quanto ai piani e programmi citati al comma 4 si ricorda brevemente che:
- l’art. 8 del D.lgs. n. 351/1999 (Attuazione della direttiva 96/62/CE in materia di valutazione e di gestione della qualità dell'aria ambiente) prevede la predisposizione, da parte della regione, nelle zone ed agglomerati nei quali i livelli di uno o più inquinanti eccedono il valore limite, di un piano o un programma per il rispetto di tali valori;
- l’art. 3 del D.lgs. n. 183/2004 (Attuazione della direttiva 2002/3/CE relativa all'ozono nell'aria) prevede la predisposizione, sempre da parte della regione o della provincia autonoma, nelle zone in cui si ha un superamento dei valori bersaglio, per i livelli di ozono nell'aria ambiente da conseguire, per quanto possibile, a partire dal 2010, di un piano o programma coerente con il piano nazionale delle emissioni predisposto in attuazione della direttiva 2001/81/CE, al fine di raggiungere i citati valori bersaglio. Tale piano deve essere predisposto entro il 7 agosto 2006 (due anni dalla data di entrata in vigore del decreto) e, qualora insista su zone interessate dai paini predisposti ai sensi del citato art. 8 del D.lgs. n. 351/1999, deve essere con questi integrato;
- l’art. 4 del DPR n. 203/1988 assegna, tra l’altro, alle regioni la competenza alla “fissazione di valori limite di qualità dell'aria, compresi tra i valori limite e i valori guida ove determinati dallo Stato, nell'ambito dei piani di conservazione per zone specifiche nelle quali ritengono necessario limitare o prevenire un aumento dell'inquinamento dell'aria derivante da sviluppi urbani o industriali” (lett. b), nonché alla “fissazione dei valori di qualità dell'aria coincidenti o compresi nei valori guida, ovvero ad essi inferiori, nell'ambito dei piani di protezione ambientale per zone determinate, nelle quali è necessario assicurare una speciale protezione dell'ambiente” (lett. c) e alla “fissazione per zone particolarmente inquinate o per specifiche esigenze di tutela ambientale, nell'ambito dei piani di cui al punto a)[113], di valori limite delle emissioni più restrittivi dei valori minimi di emissione definiti nelle linee guida, nonché per talune categorie di impianti la determinazione di particolari condizioni di costruzione o di esercizio” (lett. e).
Il diagramma seguente schematizza, sulla base di quanto premesso, il meccanismo stabilito dai commi 3, 4 e 5 per l’individuazione territoriale dei limiti di emissione:
Tavola 1.3 Individuazione territoriale dei valori limite e delle prescrizioni
La novità principale rispetto alla normativa vigente è che i valori limite di emissione trasposti nell’Allegato I vengono confermati (dal comma 1) solo per le seguenti tipologie di impianto:
- impianti anteriori al 1988[115];
- impianti previsti dal comma 14 dell’art. 269 (indipendentemente dall’anno di costruzione o autorizzazione), cioè impianti di combustione “ad inquinamento atmosferico poco significativo”, ad eccezione di quelli indicati alla lettera d)[116].
Per gli impianti nuovi e per quelli anteriori al 2006[117], invece, il comma 2 prevede l’emanazione, entro un anno dall’entrata in vigore della parte quinta in esame, di un decreto interministeriale finalizzato all’integrazione dell’Allegato I.
Viene inoltre previsto (comma 2, ultimo periodo) che il medesimo decreto provveda ad aggiornare l’Allegato I. Si ricorda che il successivo art. 281, comma 5, prevede che tale aggiornamento avvenga entro il termine di un anno dall’entrata in vigore della parte quinta dello schema di decreto.
Si osserva in proposito che sembrerebbe opportuno integrare il disposto del comma 2 al fine di specificare che, siccome l’integrazione dell’Allegato I è finalizzata a fissare valori per gli impianti nuovi, quindi progettati sulla base di tecnologie più evolute e quindi potenzialmente in grado di ridurre le emissioni, il decreto integrativo dovrebbe basare le sue modifiche sulle MTD. E’ pur vero, comunque, che tali MTD possono essere prese in considerazione dalle regioni (ai sensi del comma 3) nella fissazione dei valori limite da applicare. Tuttavia, le regioni non sono obbligate ad emanare una normativa integrativa dell’allegato I, ma ne hanno la mera facoltà.
Sembrerebbe inoltre opportuno, almeno nella prima fase di applicazione del decreto, prevedere che il decreto interministeriale inserisca un allegato I-bis anziché modificare l’Allegato I. In tal modo, infatti, sarebbe più agevole distinguere le due discipline (quella relativa agli impianti anteriori al 1988 e quella per gli impianti anteriori al 2006 o nuovi) poiché rimanderebbero a due diversi allegati.
Inoltre ciò consentirebbe di rendere più chiaro il disposto dell’ultimo periodo del comma 2, che consentirebbe di aggiornare – occorrerebbe anche qui prevedere che l’aggiornamento sia basato sulle MTD – i limiti di emissione per gli impianti esistenti.
In tal modo si potrebbe scongiurare il timore, rappresentato dalle Regioni[118], di un ritorno alla “situazione emissiva del 1990[119], con il conseguente peggioramento della qualità dell’aria e il mancato incentivo nella applicazione delle migliori tecniche disponibili”.
Si osserva inoltre che nulla sembrerebbe disposto in merito ai valori di riferimento per gli impianti nuovi o anteriori al 2006 nelle more dell’emanazione del decreto di integrazione dell’Allegato I, a differenza di quanto avviene (ai sensi del comma 17) per l’integrazione dell’Allegato VI. Ai sensi del comma 6 sembrerebbe che, in assenza del decreto integrativo, debba applicarsi la versione disponibile dell’Allegato I.
Riassumendo le criticità esposte sembrerebbe pertanto opportuno riformulare i commi 1 e 2 al fine di:
§ assoggettare tutti gli impianti (sia nuovi che esistenti) al rispetto dei limiti e delle prescrizioni fissati dall’Allegato I (il che non comporterebbe problemi per gli impianti esistenti visto che l’Allegato I riproduce le disposizioni vigenti dettate dal DM 12 luglio 1990);
§ prevedere un aggiornamento dei limiti e delle prescrizioni fissati dall’Allegato I basato sulle MTD (eventualmente si potrebbe consentire l’applicazione dei limiti aggiornati per gli impianti esistenti solo dopo un periodo transitorio specificato).
I commi 6, 7, 8 e 9 disciplinano poi il contenuto dell’autorizzazione riguardo ai valori limite e alle prescrizioni in essa indicabili.
Per tutti gli impianti per cui è presentata la domanda di autorizzazione prevista dall’art. 269, l’autorizzazione stabilisce (ai sensi del comma 6):
§ valori limite di emissione e prescrizioni basati sui valori e le prescrizioni individuate dalle fonti normative indicate nella tavola 2.2;
§ prescrizioni finalizzate al contenimento delle emissioni diffuse sulla base delle MTD e degli allegati I e V;
§ limiti di emissione per le sostanze per cui non sono fissati valori di emissione. In tal caso viene previsto che l’autorizzazione stabilisca appositi valori limite con riferimento a quelli previsti per sostanze simili sotto il profilo chimico e aventi effetti analoghi sulla salute e sull’ambiente.
Si osserva, in proposito, che – a causa delle rilevate carenze della formulazione dei commi 1 e 2 dell’art. 271 - non risulta chiaro neanche l’ambito di applicazione del comma 6. Le disposizioni di tale comma si applicano, infatti, a “ciascuno degli impianti per cui é presentata la domanda di cui all’articolo 269”. Ma l’art. 269, comma 2, prevede che la domanda sia presentata dai soli gestori che intendono “installare un impianto nuovo o trasferire un impianto da un luogo ad un altro”. Pur tuttavia il comma 1 dell’art. 269 assoggetta ad autorizzazione tutti gli impianti che producono emissioni nell’atmosfera. Si noti altresì che la presentazione delle domande per gli impianti esistenti (anteriori al 1988 o al 2006) è disciplinata dall’art. 281, che rinvia, per la presentazione della domanda, all’art. 269.
Per gli impianti nuovi o anteriori al 2006 che non siano disciplinati dall’allegato I, l’autorizzazione stabilisce (ai sensi del comma 8):
§ valori limite di emissione e prescrizioni basati sulle MTD e sui valori e le prescrizioni individuati dai piani e programmi di cui al comma 5. Viene però previsto che l’autorizzazione imponga limiti comunque non superiori a quelli minimi fissati dall’Allegato I per gli impianti anteriori al 1988;
Si osserva, in proposito, che non appare chiaro il motivo per cui, per questi impianti – che essendo nuovi si presume vengano progettati con tecnologie all’avanguardia – si rimandi ai limiti previsti per gli impianti anteriori al 1988. Tra l’altro l’espressione “i valori minimi di emissione stabiliti che l’Allegato I fissa per gli impianti anteriori al 1988” rischia di creare problemi in sede di integrazione dell’allegato medesimo (si veda in proposito l’osservazione esposta in precedenza circa l’opportunità di prevedere che l’integrazione avvenga attraverso l’aggiunta di un allegato I-bis).
§ prescrizioni finalizzate al contenimento delle emissioni diffuse sulla base delle MTD e dell’Allegato V;
§ limiti di emissione per le sostanze per cui non sono fissati valori di emissione. In tal caso viene previsto che l’autorizzazione stabilisca appositi valori limite con riferimento a quelli previsti per sostanze simili sotto il profilo chimico e aventi effetti analoghi sulla salute e sull’ambiente.
Si osserva, infine, che il comma 7 - benché riproduca, nella sostanza, il contenuto dell’art. 4, comma 1, lettera d), secondo periodo, del DPR n. 203/1988 - appare superfluo.
Il comma 9 prevede che l’autorizzazione possa stabilire valori limite inferiori rispetto a quelli risultanti dal meccanismo normativo esemplificato nella tavola 1.3, nei seguenti casi:
a) in sede di rinnovo, sulla base delle MTD e di un’analisi costi-benefici;
b) per le zone di particolare pregio naturalistico individuate nei citati piani e programmi.
Tali previsioni sono riprese da quella prevista dall’art. 11 del DPR n. 203/1988 secondo cui “le prescrizioni dell'autorizzazione possono essere modificate in seguito all'evoluzione della migliore tecnologia disponibile, nonché alla evoluzione della situazione ambientale”.
Si noti che anziché rinviare all’art. 8 del D.lgs. n. 351 del 1999, la lettera b) richiama l’art. 9.
Si ricorda, in proposito, che l’art. 9 citato prevede che le regioni individuino le zone e gli agglomerati in cui i livelli degli inquinanti sono inferiori ai valori limite e tali da non comportare il rischio di superamento degli stessi e, successivamente, che adottino “piano di mantenimento della qualità dell'aria al fine di conservare i livelli degli inquinanti al di sotto dei valori limite” e si adoperino “al fine di preservare la migliore qualità dell'aria ambiente compatibile con lo sviluppo sostenibile …”
Non appare tuttavia chiaro il motivo per cui l’art. 8 non venga citato, visto che non è da escludere che esso possa individuare zone di particolare pregio naturalistico.
Si segnala infine che il comma 17 prevede l’integrazione dell’Allegato VI, a cui viene fatto rinvio per l’individuazione dei criteri per la valutazione della conformità dei valori misurati ai valori limite di emissione, analogamente a quanto fatto dal comma 2 per l’Allegato I.
A differenza del comma 2, però, il comma 17 prevede una disciplina transitoria da applicarsi nelle more dell’emanazione del decreto integrativo.
L’art. 272 recepisce le disposizioni del DPR 25 luglio 1991 recante “Modifiche dell'atto di indirizzo e coordinamento in materia di emissioni poco significative e di attività a ridotto inquinamento atmosferico, emanato con D.P.C.M. 21 luglio 1989”.
Si ricorda in proposito che le attività citate sono elencate negli allegati 1 e 2 del citato DPR recanti rispettivamente l’elenco delle attività ad inquinamento atmosferico poco significativo (riprodotto dalla Parte I dell’Allegato IV) e l’elenco delle attività a ridotto inquinamento atmosferico (riprodotto dalla Parte II del medesimo allegato).
Rispetto alla normativa vigente l’articolo in esame introduce (commi 2 e 3) una disciplina maggiormente dettagliata per gli impianti a ridotto inquinamento atmosferico, prevedendo modalità e termini per la presentazione della domanda di adesione all’autorizzazione generale.
Si ricorda che l’art. 5 del DPR 25 luglio 1991 dispone che l’autorità competente autorizza “in via generale” le suddette attività e che può “altresì predisporre procedure specifiche anche con modelli semplificati di domande di autorizzazione …”
Un’altra novità, sempre relativa alle attività a ridotto inquinamento, è l’estensione anche all’autorizzazione generale per esse prevista della durata fissa di 15 anni e la conseguente previsione di disposizioni inerenti il rinnovo di tali autorizzazioni.
Vengono poi dettate le necessarie disposizioni transitorie relative agli impianti in esercizio sulla base di autorizzazioni generali emanate sulla base della normativa vigente.
Si segnala che nel comma 3, secondo periodo, sembra mancare la parola “non” prima della frase “siano rispettati i requisiti previsti dall’autorizzazione generale”.
L’art. 1, comma 9, lettera g), numero 3) della legge n. 308/2004 prevede, quale criterio specifico per l’esercizio della delega, la previsione di “una disciplina in materia di controllo delle emissioni derivanti dalle attività agricole e zootecniche”.
Si segnala, in proposito che, rispetto all’elenco delle attività ad inquinamento atmosferico poco significativo recato dall’Allegato 1 al DPR 25 luglio 1991, nella Parte I dell’Allegato IV vengono aggiunti numerosi tipi di attività di carattere agricolo e zootecnico (lettere t) - z).
L’art. 281, comma 5, prevede inoltre che, in merito all’integrazione e alla modifica degli allegati alla parte quinta del presente decreto, relativamente alle emissioni provenienti da attività agricole, l’emanazione del decreto interministeriale avvenga con il concerto anche del Ministro delle politiche agricole e forestali.
Si segnala, infine, che l’articolo 269, comma 12, detta disposizioni volte a disciplinare le emissioni derivanti da attività – svolte in modo non occasionale ed in un luogo a ciò adibito, in assenza di un impianto - di lavorazione, trasformazione o conservazione di materiali agricoli.
L’art. 273 individua per i grandi impianti di combustione, facendo rinvio alle norme dettate nell’Allegato II, i valori limite di emissione, nonché le modalità di monitoraggio e di controllo delle emissioni e i criteri per la verifica della conformità delle stesse ai valori limite, nonché le ipotesi di anomalie e guasti.
L’Allegato II raccoglie le disposizioni vigenti previste dal DM 8 maggio 1989 recante “Limitazione delle emissioni nell'atmosfera di taluni inquinanti originati dai grandi impianti di combustione” adeguandole a quelle più aggiornate dettate dalla direttiva 2001/80/CE[120].
Si nota, in proposito, che per gli impianti esistenti (commi 3 e 4), l’applicazione dei limiti di emissione previsti dall’Allegato II viene prevista a decorrere dal 1° gennaio 2008, che corrisponde alla data indicata dalla direttiva (art. 4, par. 3 e art. 17, par. 2) come termine, imposto agli Stati membri, per ottenere una riduzione significativa dei valori limite delle emissioni e per la vigenza dei limiti previsti dalla direttiva 88/609/CE.
Il comma 6 prevede, altresì, che il citato adeguamento degli impianti esistenti debba essere oggetto di un apposito progetto presentato contestualmente alla domanda di AIA.
Il comma 7 prevede una specifica procedura per gli impianti aventi potenza uguale a 50 MW.
Il motivo di tale specifica disciplina è da ricondurre alla circostanza che la direttiva IPPC, integralmente recepita nell’ordinamento nazionale dal D.lgs. n. 59/2005, si applica – tra gli altri – agli impianti di combustione con potenza termica di combustione di oltre 50 MW, per cui gli impianti con potenza esattamente pari a 50 MW rientrano nel campo di applicazione della direttiva 2001/80/CE ma non in quello della direttiva IPPC (1996/61/CE).
Altre disposizioni chiaramente rivenienti dalla direttiva si ritrovano nei commi 10, 14 e 15 dell’articolo in esame.
La direttiva 2001/80/CE
La direttiva 2001/80/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 23 ottobre 2001, attualmente in fase di recepimento, concerne la limitazione delle emissioni in atmosfera di taluni inquinanti originati dai grandi impianti di combustione ed è stata adottata allo scopo di aggiornare al progresso tecnico la precedente direttiva 88/609/CEE per consentire una lotta più efficace ai fenomeni di acidificazione ed eutrofizzazione dovuti alle emissioni di ossidi di azoto (NOx) e di anidride solforosa (SO2), nonché per ridurre i rischi per la salute legati in particolare all'emissione di particolato e alla formazione di ozono troposferico di cui gli ossidi di azoto sono precursori.
Oggetto della direttiva sono gli impianti di combustione con potenza termica nominale pari o superiore a 50 MW, indipendentemente dal tipo di combustibile utilizzato (solido, liquido o gassoso), destinati alla produzione di energia, ad eccezione di alcune particolari categorie di impianti e delle turbine a gas autorizzate prima del 27 novembre 2002 (termine per la trasposizione negli Stati membri) e messe in funzione prima del 27 novembre 2003.
Ai sensi dell'allegato VIII, parte C, della direttiva, ogni Stato membro è tenuto, a partire dal 1990 e per ogni anno successivo fino al 2003 compreso, ad elaborare, sulla base dei dati inviati annualmente dai gestori di tali impianti, un inventario completo delle emissioni di SO2 e di NOx di tutti gli impianti di combustione disciplinati dalla direttiva stessa e a comunicare i risultati di tale inventario alla Commissione Europea entro nove mesi dal termine dell'anno considerato.
A partire dall'anno 2004 e per ogni anno successivo, gli Stati membri devono, invece, elaborare un inventario che comprenda, oltre ai dati di emissione di SO2 ed NOx, anche quelli delle polveri prodotte dagli impianti di combustione con potenza termica nominale pari o superiore a 50 MW.
Un sommario dei risultati di questo inventario deve essere comunicato alla Commissione ogni tre anni, entro dodici mesi dalla fine del triennio considerato. I dati annuali, impianto per impianto, devono essere messi a disposizione della Commissione su richiesta di quest'ultima.
In aggiunta alla comunicazione dei dati di emissione annuali, la direttiva prevede anche l'invio da parte degli Stati Membri di una relazione di sintesi sui risultati dell'attuazione dei programmi di riduzione delle emissioni annue complessive degli impianti disciplinati dalla direttiva.
In particolare, l'art. 15 della direttiva stessa prevedeva che entro il 31 dicembre 2004 fosse inviata alla CE una relazione, riferita al periodo 1999-2003, contenente gli elementi per la verifica del rispetto del massimale di emissione dell'SO2 da raggiungere, come previsto dall'allegato I, entro il 31 dicembre 2003.
L’art. 274, relativo alla raccolta e trasmissione dei dati sulle emissioni dei grandi impianti di combustione, provvede (commi 1, 2 e 3) a dare attuazione agli obblighi di comunicazione alla Commissione europea imposti dalla direttiva 2001/80/CE agli Stati membri.
A tal fine i commi 4, 5 e 6 incaricano l’APAT di svolgere le attività propedeutiche necessarie a consentire l’assolvimento degli obblighi citati.
Tornando all’art. 273, si fa notare che il comma 4, ultimo periodo, consente di attuare - almeno in parte - la previsione contenuta nell’art. 1, comma 9, lettera g), numero 6) della legge n. 308/2004.
Si ricorda, infatti, che tale numero 6) prevede la “predisposizione del piano nazionale di riduzione di cui all'articolo 4, paragrafo 6, della direttiva 2001/80/CE del 23 ottobre 2001 del Parlamento europeo e del Consiglio, che stabilisca prescrizioni per i grandi impianti di combustione esistenti”.
Ai sensi dell’art. 4, paragrafo 6, della direttiva 2001/80/CE “Gli Stati membri possono […] definire e attuare un piano nazionale di riduzione delle emissioni per gli impianti esistenti, tra l'altro tenendo conto dell'obbligo di rispettare i massimali di cui agli allegati I e II”.
I massimali previsti negli allegati I e II della direttiva 2001/80/CE sono riprodotti nella Parte V dell’Allegato II che elenca i massimali e obiettivi di riduzione di emissioni di SO2 e NOx per gli impianti esistenti. Tali massimali ed obiettivi di riduzione si applicano, fino al 1° gennaio 2008, ai sensi del comma 4 dell’art. 273, al processo di adeguamento previsto dal medesimo comma per gli impianti anteriori al 1988.
Per quanto riguarda la trasposizione nel decreto in esame delle disposizioni della direttiva 2001/80, secondo le Regioni[121] si ha un eccesso di delega poiché “la legge delega non conteneva mandato per il recepimento della direttiva 2001/80/CE relativa ai grandi impianti di combustione […] ma si limitava a richiedere la predisposizione del piano nazionale di riduzione di cui all’articolo 4, paragrafo 6 della medesima per stabilire prescrizioni per i grandi impianti di combustione esistenti (vale a dire quelli la cui autorizzazione iniziale di conduzione sia stata concessa anteriormente al 1° luglio 1987, termine che l’Italia aveva già fatto diventare 1° luglio 1988 nel decreto di recepimento della vecchia direttiva 88/609/CEE di cui la 2001/80/CE costituisce aggiornamento). Peraltro il suddetto piano nazionale di riduzione avrebbe dovuto essere presentato entro il 27 novembre 2003 alla Commissione europea, perché lo potesse valutare entro il 27 maggio 2004, tutti termini ampliamente trascorsi prima dell’approvazione della legge delega n. 308/2004”.
L’art. 275 individua, relativamente alle emissioni di COV, facendo rinvio alle norme dettate nell’Allegato III, i valori limite di emissione, nonché le modalità di monitoraggio e di controllo delle emissioni e i criteri per la verifica della conformità delle stesse ai valori limite, nonché le modalità di redazione del Piano di gestione dei solventi.
Il medesimo articolo reca, inoltre, una serie di disposizioni volte a riprodurre, spesso in maniera identica, le norme dettate dal DM 16 gennaio 2004, n. 44 recante “Recepimento della direttiva 1999/13/CE relativa alla limitazione delle emissioni di composti organici volatili di talune attività industriali, ai sensi dell'articolo 3, comma 2, del D.P.R. 24 maggio 1988, n. 203”.
L’Allegato III riproduce il contenuto dei vari allegati al citato DM n. 44/2004, integrandolo con le disposizioni dettate nell’articolato del medesimo DM ma non riprodotte dall’art. 275[122].
Il DM 16 gennaio 2004, n. 44
Il DM n. 44 del 2004, di recepimento della direttiva 1999/13/CE, mira a prevenire e ridurre gli effetti delle emissioni di COV mediante il rispetto dei valori limite di emissione e l’applicazione delle migliori tecnologie disponibili.
Oltre all’applicazione di valori limite di emissione specifici, il decreto definisce i criteri temporali di adeguamento ed i metodi di analisi e di valutazione delle emissioni prodotte dagli impianti.
Il decreto si applica agli impianti che svolgono le attività individuate nell’allegato I e che superano le soglie di consumo di solvente ivi indicate. Per le attività non comprese in allegato I e per quegli impianti che non superano le soglie di consumo previste, continuano ad applicarsi i limiti del DM 12 luglio 1990 e/o quelli prescritti nei provvedimenti di autorizzazione già emanati.
Il decreto, entrato in vigore il 12 marzo 2004, ha introdotto nell’ordinamento nazionale alcune significative novità e nuovi obblighi per i gestori degli impianti, sia un punto di vista tecnico che gestionale, tra i quali:
- l’applicazione delle migliori tecniche disponibili, ottimizzando l’esercizio e la gestione degli impianti e, dove necessario, installando idonei dispositivi di abbattimento, in modo da minimizzare le emissioni di composti organici volatili;
- il rispetto delle prescrizioni contenute nell’autorizzazione rilasciata dall’Autorità competente;
- la comunicazione almeno annuale di tutti i dati che consentano di verificare la conformità dell’impianto alle prescrizioni;
- l’elaborazione e l’aggiornamento, almeno annuale, del piano di gestione dei solventi.
Tali prescrizioni riguardano, tuttavia, solo i nuovi impianti e quelli soggetti a modifica sostanziale. Gli impianti esistenti dovranno invece adeguarsi alle prescrizioni del decreto entro il 31 ottobre 2007.
La prima scadenza prevista dal DM è stata però quella del 12 marzo 2005, data entro la quale viene prevista la presentazione all’Autorità competente, da parte dei gestori degli impianti soggetti alla disciplina del decreto, di una relazione tecnica contenente:
- la descrizione delle attività che superano le soglie di consumo di solventi organici;
- la descrizione delle tecnologie adottate per prevenire l’inquinamento;
- la descrizione della qualità e della quantità delle emissioni con riferimento ai valori limite individuati;
- un progetto di adeguamento (se necessario) indicante le misure da adottare per rispettare i valori limite, qualora detti valori siano superati.
L’art. 276 disciplina il controllo delle emissioni di COV derivanti dal deposito della benzina e dalla sua distribuzione dai terminali agli impianti di distribuzione, anche attraverso il rinvio alle prescrizioni dettate nell’Allegato VII.
Tali disposizioni riproducono il contenuto delle norme dettate dal DM 21 gennaio 2000, n. 107 recante “Regolamento recante norme tecniche per l'adeguamento degli impianti di deposito di benzina ai fini del controllo delle emissioni dei vapori”.
Analogamente, anche l’art. 277, relativo al recupero di COV prodotti durante le operazioni di rifornimento degli autoveicoli presso gli impianti di distribuzione dei carburanti, provvede a raccogliere disposizioni vigenti, provenienti soprattutto[123] dal DM 16 maggio 1996 recante “Requisiti tecnici di omologazione e di installazione e procedure di controllo dei sistemi di recupero dei vapori di benzina prodotti durante le operazioni di rifornimento degli autoveicoli presso gli impianti di distribuzione carburanti”.
Gran parte delle disposizioni contenute sia nell’articolato che negli allegati a tale DM vengono riprodotte nell’Allegato VIII, cui l’art. 277 rinvia per le prescrizioni relative.
Gli articoli 278 e 279 riproducono le norme vigenti recate dal DPR n. 203/1988[124] volte a disciplinare i poteri di ordinanza riconosciuti all’autorità competente in caso di inosservanza delle prescrizioni contenute nell’autorizzazione e le sanzioni previste per il mancato rispetto degli obblighi previsti dal presente titolo.
Nella relazione illustrativa si sottolinea che “stante il vincolo imposto dalla legge delega (la quale prevede il mantenimento dei limiti di pena e di sanzione amministrativa pecuniaria previgenti), sono state confermate le sanzioni previste dagli articoli 24 e 25 del decreto n. 203 del 1988 e dall’articolo 4 della legge n. 413 del 1997”.
Si ricorda, infatti, che l’art. 1, comma 8, lettera i), della legge n. 308/2004 prevede, quale criterio generale per l’esercizio della delega, la “garanzia di una più efficace tutela in materia ambientale anche mediante il coordinamento e l'integrazione della disciplina del sistema sanzionatorio, amministrativo e penale, fermi restando i limiti di pena e l'entità delle sanzioni amministrative già stabiliti dalla legge”.
L’art. 280 provvede ad abrogare le varie disposizioni vigenti trasposte negli articoli precedenti[125] con l’eccezione delle singole disposizioni di cui il presente decreto prevede l’ulteriore vigenza.
La relazione illustrativa sottolinea che tale ulteriore vigenza è di solito disposta per un tempo determinato, tipicamente “nel periodo che intercorre tra l’entrata in vigore del decreto ed il termine entro cui alcuni impianti devono adeguarsi alle nuove norme”[126].
L’articolo in esame fa inoltre salvo il disposto dell’art. 14 del D.lgs. n. 351 del 1999.
Si ricorda che l’art. 14 citato prevede una serie di disposizioni transitorie volte a prorogare la vigenza della normativa precedente al D.lgs. n. 351 fino all’emanazione dei relativi decreti di attuazione.
I commi da 1 a 4 dell’art. 281 dettano specifiche disposizioni di natura transitoria per l’autorizzazione delle differenti tipologie di impianti esistenti. Vengono infatti indicate le procedure e le scadenze da rispettare per la presentazione delle istanze, nonché i termini entro i quali tali impianti dovranno essere autorizzati alle emissioni secondo la disciplina prevista dal presente decreto.
Si richiama, in proposito, l’osservazione sollevata nel documento presentato dall’Unione delle Province italiane (UPI), ove si legge che “assai singolare e inconcepibile è che la nuova norma abbia un doppio regime transitorio: uno per gli impianti esistenti prima dell’entrata in vigore della nuova norma, come accade tipicamente quando la legge impone un regime normativo nuovo che impone dei cambiamenti agli impianti esistenti; un altro per gli impianti esistenti prima dell’entrata in vigore del DPR n. 203 del 1988, in relazione al quale tutti i tempi di adeguamento in esso previsti sono ampiamente scaduti”.
I commi 5 e 6 disciplinano le modalità di integrazione e modifica degli allegati, anche con riferimento alle modifiche necessarie per dare attuazione alle direttive comunitarie.
Il comma 7 prevede la messa a disposizione del pubblico delle informazioni seguenti, secondo quanto previsto dal D.lgs. n. 195/2005 recante “Attuazione della direttiva 2003/4/CE sull'accesso del pubblico all'informazione ambientale”:
- domande di autorizzazione;
- provvedimenti adottati dall’autorità competente;
- risultati delle attività di controllo;
- elenchi delle attività autorizzate in possesso dell'autorità competente.
Il comma 9 prevede l’istituzione, con decreto del Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze, senza oneri a carico del bilancio dello Stato, di una Commissione per la raccolta, l’elaborazione e la diffusione, tra le autorità competenti, dei dati e delle informazioni rilevanti ai fini dell’applicazione della parte quinta del presente decreto e per la valutazione delle migliori tecniche disponibili (MTD).
Secondo la relazione illustrativa tale norma ha il fine di consentire una valutazione omogenea da parte delle diverse autorità competenti di “aspetti fondamentali come i criteri di convogliabilità delle emissioni o l’individuazione delle migliori tecniche disponibili”.
Si ricorda che una commissione analoga per l’individuazione delle MTD è prevista (e già funzionante) dalla normativa in materia di IPPC.
Sembrerebbe pertanto opportuno coordinare le disposizioni del comma in esame con quelle previste dall’art. 4, commi 1 e 2, del D.lgs. n. 59/2005.
L’art. 4, comma 1, del D.lgs. n. 59/2005 di attuazione integrale della direttiva IPPC (96/61/CE) prevede che l’AIA sia rilasciata nel rispetto, tra l’altro, “delle linee guida per l'individuazione e l'utilizzo delle migliori tecniche disponibili, emanate con uno o più decreti dei Ministri dell'ambiente e della tutela del territorio, per le attività produttive e della salute, sentita la Conferenza Unificata”.
Il successivo comma 2 dispone, altresì, che “tali linee guida sono definite con il supporto di una commissione composta da esperti della materia alla quale partecipano, anche a titolo consultivo, i rappresentanti di interessi industriali e ambientali, istituita con decreto dei Ministri dell'ambiente e della tutela del territorio, delle attività produttive e della salute, senza oneri a carico del bilancio dello Stato” e che “Fino all'istituzione della predetta commissione come sopra integrata opera, allo stesso fine, la commissione già istituita ai sensi dell'articolo 3, comma 2, del decreto legislativo 4 agosto 1999, n. 372”[127].
Il medesimo comma prevede che l’istituenda commissione assicuri anche il supporto ai Ministri competenti in ordine ai provvedimenti attuativi del decreto n. 59 e allo scambio di informazioni a livello comunitario, nei confronti del pubblico e tra le autorità competenti, ai fini di promuovere una più ampia conoscenza sulle migliori tecniche disponibili e sul loro sviluppo.
Il comma 10 prevede - in presenza di particolari situazioni di rischio sanitario o di zone che richiedano una particolare tutela ambientale - che per le regioni e le province autonome vi sia la possibilità di stabilire, con provvedimento generale, previa intesa con il Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e con il Ministro della salute, per quanto di competenza, valori limite di emissione e prescrizioni, anche inerenti le condizioni di costruzione o di esercizio degli impianti, più severi di quelli fissati dagli allegati al presente titolo, purché ciò risulti necessario al conseguimento dei valori limite e dei valori bersaglio di qualità dell’aria”.
Secondo le Regioni[128] tale disposizione è “lesiva delle attuali competenze regionali di programmazione/pianificazione in materia”.
Si ricorda, in proposito, che sia l’articolo 4 del DPR n. 203/1988 che l’art. 84 del D.lgs. n. 112/1998 affidano alla competenza regionale l’individuazione di aree regionali o, di intesa tra le regioni interessate, interregionali nelle quali le emissioni o la qualità dell'aria sono soggette a limiti o valori più restrittivi, nonché la fissazione di tali valori. Tuttavia tale competenza sembra venir affidata solo in relazione all'attuazione di piani regionali di conservazione o risanamento del proprio territorio.
Occorre comunque considerare che la norma sembra ispirata ad un principio diverso da quello dettato, in materia di AIA, dall’art. 8 del D.lgs. n. 59/2005
Secondo tale articolo 8, infatti, “se, a seguito di una valutazione dell'autorità competente[129], che tenga conto di tutte le emissioni coinvolte, risulta necessario applicare ad impianti, localizzati in una determinata area, misure più rigorose di quelle ottenibili con le migliori tecniche disponibili, al fine di assicurare in tale area il rispetto delle norme di qualità ambientale, l'autorità competente può prescrivere nelle autorizzazioni integrate ambientali misure supplementari particolari più rigorose, fatte salve le altre misure che possono essere adottate per rispettare le norme di qualità ambientale”.
L’art. 282 prevede che le disposizioni del Titolo II si applicano, ai fini della prevenzione e della limitazione dell’inquinamento atmosferico, agli impianti termici civili aventi potenza termica nominale inferiore alle pertinenti soglie stabilite dall’articolo 269, comma 14.
Nella relazione illustrativa viene evidenziato il carattere innovativo di tale disposizione volta ad individuare in modo puntuale soglie di potenza, “stabilite in funzione della tipologia di combustibile utilizzato, al di sopra delle quali gli impianti termici civili ricadono nella disciplina del titolo I”.
Il medesimo articolo, oltre a precisare che qualora la potenza dell’impianto termico civile superi le soglie citate allora si applicano le disposizioni del titolo I, prevede che il titolo si applichi anche agli impianti termici civili che utilizzano carbone da vapore, coke metallurgico, coke da gas, antracite, prodotti antracitosi o miscele di antracite e prodotti antracitosi, aventi potenza termica nominale superiore a 3 MW.
Si ricorda, in proposito che, ai sensi dell’art. 293 negli impianti termici civili aventi potenza termica nominale non superiore a 3 MW è vietato l’uso dei combustibili sopra indicati (carbone da vapore, coke metallurgico, coke da gas, antracite, prodotti antracitosi o miscele di antracite e prodotti antracitosi).
L’art. 293 rinvia infatti, per la determinazione dei combustibili consentiti, alle norme recate dall’Allegato X. In particolare nella Parte I, Sezione 1, paragrafo 7, di tale allegato si ripropone il contenuto dell’art. 4 del DPCM 8 marzo 2002 che vieta l’uso dei combustibili citati negli impianti di combustione con potenza non superiore a 3 MW.
Nella relazione illustrativa viene evidenziato che la disciplina recata dal presente titolo “rimane distinta, per tipo di adempimenti e finalità, da quella recentemente introdotta, con riferimento agli impianti termici civili, dal decreto legislativo n. 192 del 2005 con il quale non sussistono pertanto rischi di sovrapposizioni o di incompatibilità”.
Si ricorda, in proposito, che il decreto legislativo 19 agosto 2005, n. 192, che recepisce la direttiva comunitaria 2002/91/CE sul rendimento energetico nell’edilizia, costituisce il nuovo quadro di normativo di riferimento della disciplina vigente in materia di efficienza energetica, riprendendo la normativa nazionale esistente; infatti, il nuovo decreto rafforza i contenuti della precedente legge n. 10/1991, introducendo alcune significative novità per quanto riguarda i modelli operativi e di calcolo, le competenze e le funzioni dei diversi attori che operano nel campo dell’edilizia dalla progettazione dell’edificio e dei suoi impianti fino alla loro messa in esercizio e manutenzione. Lo stesso decreto fissa il tempo limite di un anno per dotare della cosiddetta certificazione gli edifici interessati dalla riforma.
In proposito le associazioni ambientaliste[130] rilevano la necessità, disattesa dal presente decreto, di riordinare in un unico testo la materia in esame, che “continua ad essere oggetto di molteplici normative tra loro non coerenti, nonostante la necessità evidenziata in diverse sedi di razionalizzare le disposizioni in un’ottica di semplificazione e certezza normativa”.
Si fa notare che il titolo in esame consente di attuare il criterio direttivo dettato dall’art. 1, comma 9, lettera g), punto 1), della legge delega, secondo cui il decreto delegato deve prevedere “l’integrazione della disciplina relativa alle emissioni provenienti dagli impianti di riscaldamento per uso civile”.
L’art. 283 contiene numerose definizioni che provengono in gran parte dalla normativa vigente.
Fanno eccezione le definizioni di “impianto termico” e “impianto termico civile” che, secondo quanto affermato dal Governo nella relazione illustrativa, vengono introdotte per “dirimere le incertezze che emergono nell’attuale disciplina di settore”.
In particolare la definizione adottata chiarisce che per impianto termico civile si intende l’impianto la cui produzione di calore è destinata, anche in edifici ad uso non residenziale, esclusivamente a:
§ riscaldamento o climatizzazione di ambienti;
§ riscaldamento di acqua per usi igienici e sanitari.
Nella relazione illustrativa si sottolinea che tale definizione consente di “superare l’attuale incertezza dell’ordinamento che definisce alcuni impianti alternativamente come civili o come industriali (ristorazione, forni per il pane, ecc.)
Si ricorda, in proposito, che ai sensi dell’art. 2, comma 2, del DPCM 8 marzo 2002[131], rientrano negli impianti termici civili “quelli aventi le seguenti destinazioni d'uso:
a) riscaldamento o climatizzazione di ambienti;
b) riscaldamento di acqua calda per utenze civili;
c) cucine, lavaggio stoviglie, sterilizzazione e disinfezione mediche;
d) lavaggio biancheria e simili;
e) forni da pane;
f) mense ed altri pubblici esercizi destinati ad attività di ristorazione”.
L’art. 284 introduce un’apposita denuncia di installazione o modifica dell’impianto destinata, secondo quanto affermato nella relazione illustrativa, “a sostituire la procedura autorizzativa prevista, sia pure per alcune zone del territorio nazionale, dalla legge n. 615 del 1966”.
Nella medesima relazione si legge che la norma in commento avrebbe il “fine di semplificare i procedimenti amministrativi a carico dei privati cittadini e delle aziende e di alleggerire il carico amministrativo degli enti locali”.
Per quanto riguarda l’iter autorizzativo vigente, si ricorda che, ai sensi dell’art. 8 della citata legge n. 615/1966, nelle zone A e B previste dall’art. 2 della medesima legge “ogni impianto termico di potenzialità superiore alle 30 mila Kcal/h, nonché i locali e le relative installazioni, devono possedere i requisiti tecnici e costruttivi atti ad assicurare un idoneo funzionamento, secondo le norme stabilite nel regolamento di esecuzione della presente legge” e che, secondo il dettato del successivo art. 9, “per l'installazione di un nuovo impianto termico di cui al precedente articolo 8 o per la trasformazione o l'ampliamento di un impianto preesistente, il proprietario o possessore deve presentare domanda corredata da un progetto particolareggiato dell'impianto - con l'indicazione della potenzialità in Kcal/h - al comando provinciale dei vigili del fuoco, che lo approva dopo avere constatato la corrispondenza dell'impianto alle norme stabilite dal regolamento”.
Tale denuncia deve essere redatta dall’installatore in base al modulo previsto nella parte I dell’Allegato IX ma limitatamente agli impianti aventi potenza termica nominale superiore al valore di soglia indicato dall’art. 283, comma 1, lettera g), cioè 0,035 MW.
Si ricorda, in proposto, che tale valore di soglia è già previsto dalla normativa vigente all’art. 6, comma 3, del DPCM 8 marzo 2002 ed equivale alla citata soglia di 30.000 Kcal/h prevista dalla legge n. 615/1966[132].
Gli artt. 285 e 286, rimandano, rispettivamente, alle parti II e III dell’Allegato IX (che ripropongono nella sostanza la normativa vigente) per l’individuazione delle caratteristiche tecniche e dei limiti di emissione che devono essere rispettati dagli impianti termici aventi potenza termica nominale superiore al valore di soglia (0,035 MW), nonché per i metodi di campionamento, analisi e valutazione delle emissioni (commi 1 e 3).
I commi 2 e 4 dell’art. 286 dettano specifiche disposizioni per il controllo delle emissioni da effettuarsi:
§ all’atto dell’installazione o della modifica da parte dell’installatore[133];
§ almeno annualmente, all’atto delle normali operazioni di controllo e manutenzione da parte del responsabile dell’esercizio e della manutenzione dell’impianto;
In quest’ultimo caso il comma 2 prevede che le emissioni misurate e le attività manutentive necessarie a garantire il rispetto dei valori limite siano trascritte nel libretto di centrale disciplinato dal DPR n. 412 del 1993[134].
L’art. 287 conferma le disposizioni vigenti che prevedono il possesso di un patentino di abilitazione per la conduzione di impianti termici civili con potenza termica nominale superiore a 0,232 MW.
Si fa notare che 0,232 MW equivalgono alle 200.000 Kcal/h previste dall’art. 16 della legge n. 615/1966.
L’art. 288 stabilisce le sanzioni amministrative pecuniarie da applicare in caso di violazioni delle prescrizioni del presente titolo.
La relazione illustrativa sottolinea che “la previsione di tali sanzioni, riferite ad attività attualmente non sanzionate, non incontra, a differenza di quelle contenute nell’articolo 279, il vincolo previsto dalla legge delega. Si è ritenuto opportuno per l’analogia della materia disciplinata fare riferimento all’entità della sanzione prevista dalla legge n. 10 del 1991 per la violazione degli obblighi generali di esercizio e manutenzione degli impianti termici civili (sanzione amministrativa da 516 a 2.582 euro). All’irrogazione delle sanzioni provvedono le autorità dotate di analogo potere secondo la normativa vigente in materia di risparmio energetico”.
Si ricorda nuovamente che l’art. 1, comma 8, lettera i), della legge n. 308/2004 prevede, quale criterio generale per l’esercizio della delega, la “garanzia di una più efficace tutela in materia ambientale anche mediante il coordinamento e l'integrazione della disciplina del sistema sanzionatorio, amministrativo e penale, fermi restando i limiti di pena e l'entità delle sanzioni amministrative già stabiliti dalla legge”.
L’art. 289 provvede ad abrogare la legge n. 615/1966 ed il relativo regolamento attuativo recato dal DPR n. 1391/1970, le cui disposizioni principali sono trasposte nel presente titolo[135].
L’art. 290 prevede, oltre alle disposizioni volte a consentire l’aggiornamento degli allegati e a disciplinare la transizione tra i diversi regimi normativi (analogamente a quanto disposto nel Titolo I dall’articolo avente medesima rubrica), una particolare norma secondo cui i regolamenti edilizi comunali possono imporre l’installazione di impianti termici civili centralizzati, relativamente agli interventi di ristrutturazione edilizia ed agli interventi di nuova costruzione, qualora tale misura sia individuata dai piani e dai programmi previsti dall’art. 8 del D.lgs. n. 351/1999 come necessaria al conseguimento dei valori limite di qualità dell’aria.
Si osserva che – per i suoi impatti sulla materia urbanistica e quindi sulle competenze costituzionalmente attribuite alle regioni - apparirebbe opportuno un eventuale rinvio alla legislazione regionale.
L’art. 291 assoggetta alle disposizioni del presente titolo i seguenti combustibili:
§ combustibili utilizzati negli impianti di cui al titolo I;
§ combustibili utilizzati negli impianti di cui al titolo II, inclusi gli impianti termici civili di potenza termica inferiore al valore di soglia (0,035 MW);
§ gasolio marino.
Le definizioni contenute nell’art. 292 provengono dalla normativa vigente, in particolare dall’art. 3 del DPCM n. 395/2001 recante “Recepimento della direttiva 99/32/CE relativa alla riduzione del tenore di zolfo di alcuni combustibili liquidi”.
L’art. 293 stabilisce, con un rinvio all’Allegato X, le caratteristiche merceologiche e le condizioni di utilizzo dei combustibili rientranti nel campo di applicazione del presente titolo.
Tali norme riprendono il contenuto dell’articolato e degli allegati del DPCM n. 395/2001 e, soprattutto, del DPCM 8 marzo 2002.
L’art. 294 riproduce le disposizioni recate dal DPCM 8 marzo 2002 volte ad ottimizzare il rendimento di combustione sia degli impianti disciplinati dal titolo I che di quelli assoggettati alle norme del titolo II.
Nella relazione illustrativa si legge che “con riferimento al tenore di zolfo di alcuni combustibili liquidi, il titolo costituisce attuazione della direttiva 99/32/CE”.
Tale affermazione, benché vera, è però fuorviante, perché in realtà le norme a cui la relazione fa riferimento (art. 293, comma 2, e art. 295) non vengono introdotte ex novo al fine di recepire la direttiva citata, ma derivano semplicemente dalla trasposizione delle disposizioni del DPCM 7 settembre 2001, n. 395, che ha già provveduto al recepimento della direttiva 99/32/CE relativa alla riduzione del tenore di zolfo di alcuni combustibili liquidi.
L’art. 296 stabilisce le sanzioni da applicare per le violazioni del presente titolo.
Nella relazione illustrativa si evidenzia che “per gli impianti disciplinati dal titolo I, si conferma, stante il vincolo previsto dalla legge delega, la sanzione penale prevista dall’articolo 26 del decreto n. 203 del 1988. Per gli impianti disciplinati dal titolo II, i quali utilizzino combustibili non consentiti, si introduce invece, in assenza del vincolo stabilito dalla legge delega (non essendo tale fattispecie attualmente oggetto di alcuna sanzione), un’apposita sanzione amministrativa pecuniaria da 200 a 1.000 euro. L’autorità competente all’irrogazione è la stessa prevista per l’irrogazione delle sanzioni previste dal titolo II”.
Si ricorda nuovamente che l’art. 1, comma 8, lettera i), della legge n. 308/2004 prevede, quale criterio generale per l’esercizio della delega, la “garanzia di una più efficace tutela in materia ambientale anche mediante il coordinamento e l'integrazione della disciplina del sistema sanzionatorio, amministrativo e penale, fermi restando i limiti di pena e l'entità delle sanzioni amministrative già stabiliti dalla legge”.
L’art. 297 provvede ad abrogare le varie disposizioni vigenti trasposte negli articoli precedenti[136].
L’art. 298 prevede, così come i corrispondenti articoli dei primi due titoli (artt. 281 e 290), le consuete disposizioni volte a consentire l’aggiornamento degli allegati e a disciplinare la transizione tra i diversi regimi normativi.
Tale allegato riproduce gli allegati 1 e relative tabelle, 2, 3-B e 3-C del DM 12 luglio 1990.
A tale allegato fa rinvio l’art. 271, comma 1, per l’individuazione dei valori limite di emissione e le prescrizioni per l’esercizio degli impianti anteriori al 1988. Per gli impianti nuovi o anteriori al 2006 il comma 2 del medesimo articolo provvede invece un’apposita integrazione dell’allegato in esame.
Tale allegato raccoglie le disposizioni vigenti previste dal DM 8 maggio 1989 recante “Limitazione delle emissioni nell'atmosfera di taluni inquinanti originati dai grandi impianti di combustione” adeguandole a quelle più aggiornate dettate dalla direttiva 2001/80/CE[137].
A tale allegato rinvia l’art. 273 per l’individuazione, relativamente ai grandi impianti di combustione, dei valori limite di emissione, delle modalità di monitoraggio e di controllo delle emissioni, dei criteri per la verifica della conformità delle stesse ai valori limite, nonché delle ipotesi di anomalie e guasti degli impianti.
Tale allegato riproduce il contenuto dei vari allegati al DM 16 gennaio 2004, n. 44 recante “Recepimento della direttiva 1999/13/CE relativa alla limitazione delle emissioni di composti organici volatili di talune attività industriali, ai sensi dell'articolo 3, comma 2, del D.P.R. 24 maggio 1988, n. 203”, integrandolo con le disposizioni dettate nell’articolato del medesimo DM ma non riprodotte dagli articoli del presente decreto[138].
A tale allegato fa rinvio l’art. 275 per l’individuazione, relativamente alle emissioni di COV, dei valori limite di emissione, delle modalità di monitoraggio e di controllo delle emissioni, dei criteri per la verifica della conformità delle stesse ai valori limite, nonché le modalità di redazione del Piano di gestione dei solventi.
Tale allegato riproduce, con alcune modifiche, gli elenchi degli impianti ed attività recati dagli allegati 1 e 2 del DPR 25 luglio 1991, recanti rispettivamente l’elenco delle attività ad inquinamento atmosferico poco significativo (riprodotto dalla Parte I dell’allegato) e l’elenco delle attività a ridotto inquinamento atmosferico (riprodotto dalla Parte II).
Rispetto all’elenco delle attività ad inquinamento atmosferico poco significativo recato dall’Allegato 1 al DPR 25 luglio 1991, nella Parte I dell’Allegato IV vengono aggiunti - lettere t) e z) - numerosi tipi di attività di carattere agricolo e zootecnico.
Relativamente alla formulazione dell’allegato in questione, si osserva che sembrerebbe opportuno utilizzare numeri o lettere nell’elencazione degli impianti ed attività indicati nella parte II, al fine di facilitare l’individuazione delle varie tipologie previste.
A tale allegato fa rinvio l’art. 272 avente uguale rubrica. Ulteriori commenti sulle disposizioni di tale allegato si trovano nel commento degli articoli 266 e 269.
Tale allegato riproduce gli allegati 6 e 7 del DM 12 luglio 1990.
A tale allegato rinvia l’art. 271 per l’individuazione delle prescrizioni relative alle emissioni diffuse derivanti da particolari attività.
In particolare, tale allegato riguarda precisamente le polveri provenienti da attività di produzione, manipolazione, trasporto, carico, scarico o stoccaggio di materiali polverulenti e le emissioni in forma di gas o vapore derivanti da attività di lavorazione, trasporto, travaso e stoccaggio di sostanze organiche liquide;
Tale allegato riordina in un unico testo alcune disposizioni provenienti dall’allegato 4 al DM 12 luglio 1990 con quelle, soprattutto previste nel relativo allegato, del DM 21 dicembre 1995.
A tale allegato fa rinvio l’art. 271, comma 17.
Tale allegato, a cui rinvia l’art. 276, stabilisce le prescrizioni per il controllo delle emissioni di COV derivanti dal deposito della benzina e dalla sua distribuzione dai terminali agli impianti di distribuzione.
Le disposizioni in esso contenute riproducono le norme dettate dal DM 21 gennaio 2000, n. 107 recante “Regolamento recante norme tecniche per l'adeguamento degli impianti di deposito di benzina ai fini del controllo delle emissioni dei vapori”.
Tale allegato raccoglie disposizioni vigenti provenienti, soprattutto[139], dal DM 16 maggio 1996 recante “Requisiti tecnici di omologazione e di installazione e procedure di controllo dei sistemi di recupero dei vapori di benzina prodotti durante le operazioni di rifornimento degli autoveicoli presso gli impianti di distribuzione carburanti”.
A tale allegato rinvia l’art. 277 per l’individuazione delle prescrizioni finalizzate al recupero di COV prodotti durante le operazioni di rifornimento degli autoveicoli presso gli impianti di distribuzione dei carburanti.
Gran parte delle disposizioni contenute sia nell’articolato che negli allegati a tale DM vengono riprodotte nell’Allegato VIII, cui l’art. 277 rinvia per le prescrizioni relative.
Tale allegato ripropone nella sostanza la normativa vigente recata dal DPR n. 1391/1970 e dal DPCM 8 marzo 2002 per l’individuazione delle caratteristiche tecniche e dei limiti di emissione che devono essere rispettati dagli impianti termici aventi potenza termica nominale superiore al valore di soglia (0,035 MW), nonché per i metodi di campionamento, analisi e valutazione delle emissioni.
A tale allegato rinviano gli artt. 285 e 286 per le finalità indicate, nonché l’art. 284 per il modulo di denuncia di installazione o modifica.
A tale allegato fa rinvio l’art. 293[140] per l’individuazione delle caratteristiche merceologiche e delle condizioni di utilizzo dei combustibili rientranti nel campo di applicazione del titolo III.
Tali norme riprendono il contenuto dell’articolato e degli allegati del DPCM n. 395/2001 e, soprattutto, del DPCM 8 marzo 2002.
A titolo di breve introduzione all’oggetto della Parte VI dello schema di decreto, appare opportuno ricordare alcune tematiche di carattere generale.
Innanzitutto è utile premettere che gli istituti classici del diritto civile, anche qualora siano assoggettati ad una interpretazione evolutiva (come spesso è accaduto), sono poco funzionali alla soluzione delle questioni che si sollevano in materia di danno ambientale.
Infatti, l'ambiente come bene specifico, meritevole di propri distinti strumenti di tutela, è venuto emergendo solo nella storia più recente (non a caso è con l’art. 18 della legge istitutiva del Ministero dell’Ambiente, del 1986, che viene introdotta una prima disciplina del danno ambientale). L’elemento unificante della normativa più recente rispetto alla disciplina codicistica consiste – probabilmente – nel distacco dalla tradizionale dimensione prevalentemente individualistica di disciplina di rapporti fra privati, a cui il codice rimane comunque ispirato.
Tuttavia, ciò non ha impedito – anche anteriormente agli anni ’80 - il formarsi di una cospicua giurisprudenza in materia di danno ambientale accomunata dalla utilizzazione degli artt. 844[141] e 2043[142] del codice civile.
Tuttavia, nel 1986, con la legge n. 349 del 1986, il legislatore, nel dar vita al Ministero dell'ambiente, ha affrontato direttamente il problema del danno ambientale.
Secondo la definizione recata dall’articolo 18, comma 1, della legge n. 349 del 1986, per danno ambientale deve intendersi “qualunque fatto doloso o colposo in violazione di disposizioni di legge o di provvedimenti adottati in base a legge che comprometta l'ambiente, ad esso arrecando danno, alterandolo, deteriorandolo o distruggendolo in tutto o in parte”. Tale danno, ai sensi della stessa norma, “obbliga l'autore del fatto al risarcimento nei confronti dello Stato”[143].
Gli elementi di principale interesse di questa innovazione normativa - introdotta nella stessa legge istitutiva del Ministero dell'ambiente - furono:
1. la creazione di una autonoma nozione di ambiente quale bene giuridico unitario (la cui difesa viene svincolata da quella di altri diritti individuali[144]);
2. l’introduzione di una responsabilità individuale;
3. l’adozione di un modello di imputazione di responsabilità fondato sulla colpa (e quindi non sulla “responsabilità oggettiva”);
4. l’individuazione dei soggetti legittimati, attivi e passivi[145];
5. la deroga al principio generale della responsabilità solidale (ex art. 2055 cc) e la previsione – per il danno ambientale – della responsabilità parziaria[146];
6. l’attribuzione della giurisdizione al giudice ordinario;
7. l’individuazione della forma risarcitoria (in primo luogo: ripristino dello stato dei luoghi a spese del responsabile)[147].
Nell’elencazione dei punti che si è sopra riportata, occorre in particolare sottolineare due incisivi elementi differenziali rispetto alla disciplina codicistica della responsabilità per danno: il punto 3 (responsabilità per colpa o dolo, in luogo del principio della responsabilità oggettiva per attività pericolose ex art. 2050 cc) e il punto 5 (deroga al principio della responsabilità solidale).
Tuttavia, a quasi venti anni dal suo varo, è diffusa l’opinione (anche se spesso con opposte motivazioni) che questa normativa di carattere generale non abbia trovato una facile e soddisfacente applicazione. I motivi più frequentemente denunciati sono diversi. In primo luogo, il modello della responsabilità per dolo o colpa pone a carico del danneggiato l’onere della prova della sussistenza del dolo o della colpa. Inoltre, anche la difficoltà nella stima dei danni, nonché i tempi lunghissimi della giustizia civile, hanno giocato un ruolo negativo.
Non da ultimo, è anche il caso di ricordare che l'art. 18 ha aperto problemi interpretativi che hanno avuto conseguenze non irrilevanti sia dirette, sia indirette (ad esempio sul piano assicurativo) su molti settori economici.
Occorre poi ricordare che la responsabilità per danno ambientale delineata dall’articolo 18 della legge n. 349 non esaurisce il quadro delle fonti normative in materia.
Sulla scorta di alcune anticipazioni da parte della legislazione regionale[148], con l’articolo 17 del “decreto Ronchi”, il modello di responsabilità civile, ma anche penale, per danno ambientale ha avuto una prima – significativa – evoluzione rispetto al quadro normativo delineato dall’articolo 18 della legge n. 349.
Vanno, in proposito, evidenziati:
§ l’introduzione di specifiche fattispecie di responsabilità oggettiva, che prescindono da qualunque accertamento del dolo o della colpa e si basano sul mero nesso di causalità;
§ differentemente dalla responsabilità ex art. 18 della legge n. 349 – che richiede la effettiva compromissione del bene ambientale – la previsione anche di ipotesi di semplice esposizione al pericolo.
Si tratta di norme ispirate al principio comunitario “chi inquina paga”, volte a far valere pienamente (ma non esclusivamente, come si dirà più avanti) la responsabilità del soggetto che abbia cagionato l’inquinamento o tenuto condotte potenzialmente lesive del bene ambiente, nonché del principio di precauzione, anch’esso di origine comunitaria.
In particolare – all’art. 17, comma 2, del decreto legislativo 5 febbraio 1997, n. 22 - si prevede che chiunque cagioni, anche in maniera accidentale, il superamento dei limiti di accettabilità di contaminazione di determinate risorse ambientali, ovvero determini un pericolo concreto ed attuale di superamento dei limiti medesimi, sia tenuto a procedere a proprie spese agli interventi di messa in sicurezza, di bonifica e di ripristino ambientale delle aree inquinate e degli impianti dai quali deriva il pericolo di inquinamento.
Si ricorda che l’inserimento di tali disposizioni all’interno di quello che rappresenta una sorta di “testo unico sui rifiuti”, non ne limita il campo di applicazione alle sole ipotesi di contaminazione da rifiuti. La disciplina dettata dall’articolo 17 ha infatti carattere generale e si estende fino a comprendere la contaminazione dei suoli, delle acque superficiali e delle acque sotterranee (lettera a) del comma 1).
Di tenore parzialmente analogo, l’art. 58, comma 1, del decreto legislativo 11 maggio 1999, n. 152 – in materia di inquinamento delle acque – recita testualmente: “chi con il proprio comportamento omissivo o commissivo in violazione delle disposizioni del presente decreto provoca un danno alle acque, al suolo, al sottosuolo e alle altre risorse ambientali, ovvero determina un pericolo concreto ed attuale di inquinamento ambientale, è tenuto a procedere a proprie spese agli interventi di messa in sicurezza, di bonifica e di ripristino ambientale delle aree inquinate e degli impianti dai quali è derivato il danno ovvero deriva il pericolo di inquinamento, ai sensi e secondo il procedimento di cui all'articolo 17 del decreto legislativo 5 febbraio 1997, n. 22”.
Nonostante il richiamo testuale all’articolo 17 del decreto legislativo n. 22, occorre sottolineare che sussistono differenze fra le due normative citate. Infatti, l’articolo 58, nel richiedere che la condotta del responsabile sia posta in essere “in violazione delle disposizioni del presente decreto” si discosta dal modello di responsabilità oggettiva che ha invece ispirato l’articolo 17 del “decreto Ronchi”.
Infine, si ricorda che l’articolo 22 del decreto legislativo 12 aprile 2001, n. 206 (che disciplina l’impiego confinato dei microrganismi geneticamente modificati) ha introdotto una terza ipotesi normativa di responsabilità per inquinamento ambientale, specificamente riferita all’inquinamento da MOGM.
Il “decreto Ronchi” non ha fatto alcuna distinzione fra siti inquinati in epoca successiva alla sua entrata in vigore[149] e situazioni (estremamente eterogenee) risalenti al passato, cioè anche agli anni (prima della cd “legge Merli” del 1976) in cui mancava completamente una legislazione ambientale, ma valeva il solo limite del pericolo per la salute pubblica: l’articolo 17 – infatti - non reca una disciplina transitoria.
E' stata invece la sola giurisprudenza penale ed amministrativo a ritenere - in linea di massima - l’insieme delle sue disposizioni applicabile anche a fenomeni precedenti alla data di entrata in vigore del “decreto Ronchi”.
Anche il DM n. 471 del 1999, confermando la lacuna del “decreto Ronchi”, non delinea una organica disciplina dell’inquinamento pregresso che lo distingua da quello verificatosi in epoca successiva all’entrata in vigore delle nuove norme (poche e insufficienti disposizioni in cui si differenziano le due situazioni sono all’articolo 9, comma 6 e all’articolo 18, commi 2 e 3).
Tutto ciò non ha reso più agevole (e realistica) una effettiva applicazione della normativa sulla bonifica.
Invece, una significativa innovazione – nel senso di differenziare la disciplina della responsabilità per l’inquinamento pregresso da quella generale – è stata introdotta dall’articolo 114, comma 6, della legge n. 388 del 2000 (finanziaria 2001). In particolare il comma 7 dispone una causa di non punibilità per il soggetto che adotti le procedure di bonifica previste dalla legge, per tutti i reati direttamente connessi all'inquinamento del sito posti in essere anteriormente alla data di entrata in vigore del decreto legislativo n. 22 del 1997 che siano accertati a seguito dell'attività svolta, su notifica dell'interessato. La norma specifica espressamente che la realizzazione e il completamento degli interventi ambientali devono avvenire in conformità alle procedure o agli accordi di programma ed alla normativa vigente in materia.
Accanto alla responsabilità di chi ha cagionato l’evento inquinante, l’articolo 17 del decreto n. 22 ha posto anche delle sanzioni indirette a carico del proprietario del sito.
Si ricorda, infatti, che – ai sensi del comma 13 – nel caso in cui il mutamento di destinazione d'uso di un'area comporti l'applicazione dei limiti di accettabilità di contaminazione più restrittivi, l'interessato (a prescindere dalla propria responsabilità diretta nell’inquinamento dell’area) deve procedere a proprie spese ai necessari interventi di bonifica[150].
Ma si ricorda, soprattutto, che il comma 10 dell’articolo 17 del decreto n. 22 ha previsto che gli interventi di messa in sicurezza, di bonifica e di ripristino ambientale, nonché la realizzazione delle eventuali misure di sicurezza, costituiscono onere reale sulle aree inquinate e che tale onere reale deve essere indicato nel certificato di destinazione urbanistica. Detti oneri, pertanto, continuano a seguire il bene su cui gravano, anche quando il bene stesso sia stato trasferito a terzi. Questa normativa – che fra l’altro non ha precedenti in campo comparatistico[151] - si presenta particolarmente severa per il proprietario incolpevole, a favore del quale non viene neanche prevista una specifica azione di regresso per il recupero delle somme nei confronti degli autori della contaminazione (recupero affidato, pertanto, alle regole, anche probatorie, ordinarie).
A finalità analoghe è riferibile la disposizione di cui al comma 11, introduttiva del privilegio speciale sull'immobile, esercitabile anche in pregiudizio dei diritti acquistati dai terzi.
E' stato osservato in dottrina come le norme in esame non abbiano fugato tutti i possibili dubbi circa la ricostruzione complessiva della posizione giuridica del proprietario incolpevole: se questa sia quella di un soggetto a tutti gli effetti obbligato ad eseguire l'intervento di bonifica, ovvero - più limitatamente - quella di un soggetto che deve prestare garanzia reale con il proprio bene per le eventuali spese sostenute dal soggetto pubblico per l'intervento di bonifica dell'area inquinata.
Sul piano meramente pratico, fra gli effetti indiretti di queste norme, si segnala - da un lato - la diffusione nella prassi commerciale relativa alla circolazione di immobili delle pratiche preventive di “due diligence” ambientale, dall’altra la pratica di introdurre nei contratti clausole di manleva (obbligo del venditore a tenere indenne il compratore dagli obblighi di bonifica), o – all’opposto – clausole contrattuali limitative della responsabilità dell’alienante per la contaminazione del sito.
E’ stata sottolineata dalla dottrina l’impronta nettamente pubblicistica della normativa introdotta dall’articolo 17, con l’attribuzione al Comune territorialmente competente di una serie di poteri amministrativi (a partire dal potere di diffida del responsabile dell'inquinamento a provvedere a proprie spese agli interventi di messa in sicurezza, di bonifica e di ripristino ambientale delle aree inquinate e degli impianti dai quali deriva il pericolo di inquinamento)[152].
In questa prospettiva si colloca anche la previsione di un reato contravvenzionale, recata dall’articolo 51 bis dello stesso decreto legislativo n. 22 del 1997.
Nella attuale formulazione della norma sanzionatoria (modificata, rispetto al testo originario, sia dal cd “Ronchi bis” che dal “Ronchi ter”[153]) si prevede che chiunque cagioni l'inquinamento - o un pericolo concreto ed attuale di inquinamento - sia punito con la pena dell'arresto da sei mesi a un anno e con l'ammenda da lire cinque milioni a lire cinquanta milioni, se non provvede alla bonifica secondo il procedimento di cui all'articolo 17.
La sanzione - posta a tutela del rispetto anche delle specifiche procedure previste dall’articolo 17[154] - è quindi rimasta inattuata fino all’emanazione del DM n. 471 del 1999 a cui risale la disciplina vera e propria degli interventi di bonifica.
In merito all’articolo 51-bis, si segnala che la dottrina (ma anche la giurisprudenza) non è concorde nella interpretazione della formulazione del precetto e quindi nella ricostruzione della natura del reato. Secondo le tre ipotesi prospettate, l’articolo 51-bis configurerebbe
§ un “reato a condotta mista”, per la cui integrazione è richiesta sia un’azione (aver cagionato l’inquinamento o il pericolo di inquinamento) sia una omissione (non aver proceduto alla bonifica);
§ un reato omissivo: ad essere sanzionata sarebbe solo la condotta omissiva di chi non provvede alla bonifica (costituendo l’aver provocato l’inquinamento solo un presupposto da cui nasce l’obbligo della bonifica);
§ un "reato con evento di danno", nel quale la condotta sanzionata sarebbe l’atto di cagionare l’evento inquinante. In questa ipotesi la bonifica verrebbe a costituire una causa speciale di non punibilità.
E’ chiaro che dalla diversa ricostruzione della natura del reato derivano conseguenze non irrilevanti, in primo luogo in merito all’applicabilità delle norme anche a fatti verificatisi prima della emanazione del DM n. 471. Infatti, solo nell’ipotesi della fattispecie in esame quale reato omissivo sarebbe punibile chi non ottemperi all’obbligo di bonifica per fatti di inquinamento pregresso[155].
Tuttavia, in tema di punibilità dei reati commessi anteriormente alla data di entrata in vigore del “decreto Ronchi”, occorre oggi fare riferimento alla normativa introdotta dall’articolo 114, comma 7, della legge n. 388 del 2000 (su cui, vedi supra).
Le disposizioni corrispondenti, nell’ambito della normativa sulla tutela delle acque dall’inquinamento, sono recate dall’articolo 58, comma 4, del decreto legislativo n. 152 del 1999. Anche in questo caso, si riscontra tuttavia un parallelismo non perfetto. Infatti, mentre l’articolo 51-bis, come si è visto, reca una formulazione che si presta a diverse interpretazioni (fra cui quella che oggetto della sanzione sia la condotta del cagionare l’inquinamento), l’illecito tipizzato dall’articolo 58, comma 4, in materia di inquinamento dei corpi idrici consiste chiaramente nell’omesso adempimento degli obblighi di messa in sicurezza, bonifica e ripristino.
Si segnala, inoltre, che – ai sensi dell’articolo 61 dello stesso decreto legislativo n. 152 – in materia di inquinamento dei corpi idrici è prevista una attenuante di carattere generale – con riduzione dalla metà a due terzi delle sanzioni amministrative e penale previste - a favore di chi, prima del giudizio penale o dell'ordinanza-ingiunzione, abbia riparato interamente il danno.
Occorre infine rilevare che la tutela penale dai fatti di contaminazione non è comunque circoscritta alle norme sopra illustrate. Ben maggiore incisività hanno altre norme presenti nell’ordinamento e a cui ha fatto costantemente ricorso la giurisprudenza: in primo luogo l’art. 635 c.p. (reato di danneggiamento), per la cui integrazione non è – fra l’altro – richiesto il superamento delle tabelle del DM n. 471 del 1999. Inoltre, si ricorda che anche in questo caso – come in molti altri relativi alla tutela ambientale – la giurisprudenza ha ampiamente fatto ricorso all’art. 674 c.p. (reato di getto pericoloso di cose), nonché, per l’inquinamento di corsi d’acqua, all’art. 452 c.p. (delitti colposi contro la salute pubblica) o – nell’ipotesi dolosa, per quanto rara – all’art. 439 c.p. (reato di avvelenamento di acque o di sostanze alimentari).
Fra i problemi che un tale sistema ha lasciato ancora aperti possono ricordarsi, in primo luogo una difficoltà definitoria relativamente al concetto di “ripristino”.
Infatti, il soggetto responsabile individuato dall’articolo 17, comma 2, è tenuto alla realizzazione, a proprie spese, degli “interventi di messa in sicurezza, di bonifica e di ripristino ambientale delle aree inquinate e degli impianti dai quali deriva il pericolo di inquinamento”.
Ma l’articolo 6 dello stesso “decreto Ronchi” reca la definizione di bonifica[156] e di messa in sicurezza[157], ma non quella di ripristino.
Si aggiunga che tali definizioni, recate nella norma di rango legislativo, sono state poi completamente modificate nel regolamento di attuazione (il DM n. 471 del 1999) accentuando gli elementi di incertezza per l’interprete chiamato a definire i confini della responsabilità come tracciati dall’articolo 17 del “decreto Ronchi”.
Altri – e maggiori problemi interpretativi – sono ricollegabili all’art. 18 della legge n. 349. Infatti, la giurisprudenza è tuttora divisa in due filoni: una parte delle pronunce si basa sul riconoscimento di un contenuto specifico dell’art. 18, del tutto autonomo dalla responsabilità del risarcimento del danno civilistica (art. 2043 c.c.), mentre un’altra parte – al fine di potenziare gli strumenti di tutela – si è basata sulla sommatoria di disciplina speciale e disciplina civilistica. A questo secondo filone sono ascrivibili poi anche ulteriori esiti:
§ estensione della nozione di danno ambientale (partendo dagli agganci normativi che fanno riferimento al “pregiudizio concreto”);
§ progressiva introduzione di ipotesi di responsabilità oggettiva, attraverso una lettura evolutiva dell’art. 2050 c.c., in materia di “attività pericolose”[158];
§ tensione sulle norme generali relative alla irretroattività della legge: l’applicabilità dell’art. 18 è stata spesso estesa anche ad eventi accaduti antecedentemente alla sua entrata in vigore, sulla base del riconoscimento da parte del giudice della natura meramente ricognitiva della norma.
Il 21 aprile 2004 è stata definitivamente approvata (e pubblicata in GUUE il 30 aprile) una direttiva comunitaria, da lunghi anni attesa e risultato di un lavoro preparatorio che era culminato nel 1993 nella pubblicazione del Libro Verde sul risarcimento dei danni all’ambiente e, nel 2000, nella pubblicazione del Libro bianco sulla responsabilità per danni all’ambiente.
Entro il 30 aprile 2007 gli Stati membri dovranno recepire le nuove norme comunitarie.
La direttiva sembra muoversi su un terreno molto generale e di principio (rispetto al quadro normativo nazionale che si è brevemente descritto e ai problemi interpretativi in esso ancora aperti).
La direttiva afferma che la prevenzione e la riparazione, nella misura del possibile, del danno ambientale “contribuiscono a realizzare gli obiettivi ed i principi della politica ambientale comunitaria, stabiliti nel trattato”. Dovrebbero, in particolare, essere attuate applicando il principio “chi inquina paga”, stabilito nel Trattato istitutivo della Comunità Europea, e coerentemente con il principio dello sviluppo sostenibile.
La direttiva fornisce all’art. 2 una nozione di danno ambientale, che può assumere tre diverse tipologie:
§ danno alle specie e agli habitat naturali protetti;
§ danno alle acque;
§ danno al terreno.
La nuova direttiva in materia di responsabilità ambientale trova applicazione anche in materia di gestione dei rifiuti.
La direttiva specifica, poi, che gli Stati membri possono decidere che tali operazioni non comprendono lo spargimento, per fini agricoli, di fanghi di depurazione provenienti da impianti di trattamento delle acque reflue urbane, trattati secondo una norma approvata (Allegato III, par. 1).
Uno dei principi fondamentali della direttiva dovrebbe essere quindi quello per cui l'operatore la cui attività ha causato un danno ambientale, o la minaccia imminente di tale danno, sarà considerato finanziariamente responsabile, in modo da indurre gli operatori ad adottare misure e a sviluppare pratiche atte a ridurre al minimo i rischi di danno ambientale.
Assecondando dunque il suddetto principio di prevenzione, peraltro inserito dall’Atto Unico europeo all’art. 174 del Trattato che istituisce la Comunità europea, la direttiva disciplina azioni di prevenzione (art. 5) e azioni di riparazione (art. 6).
Quanto alle azioni di riparazione, l'autorità competente richiede – infatti - che esse siano adottate dall’operatore. Se questi non si conforma agli obblighi previsti al paragrafo 1 o al paragrafo 2, lettere b), c) o d), dell’art. 6 della direttiva, se non può essere individuato o se non è tenuto a sostenere i costi a norma della direttiva stessa, l'autorità competente ha facoltà di adottare essa stessa tali misure, “qualora non le rimangano altri mezzi”.
L’art. 3 specifica inoltre un secondo principio generale, secondo cui la nuova disciplina, ferma restando la pertinente legislazione nazionale, non conferisce ai privati un diritto a essere indennizzati in seguito a un danno ambientale o a una minaccia imminente di tale danno (art. 3, par. 3).
La direttiva prevede poi all’art. 4, par. 5, oltre aduna serie di eccezioni, che essa si applichi al danno ambientale o alla minaccia imminente di tale danno, causati da inquinamento di carattere diffuso unicamente quando sia possibile accertare un nesso causale tra il danno e le attività di singoli operatori.
L’art. 8, par. 3 e 4, prevede inoltre, in materia di costi di prevenzione e riparazione, che non sono a carico dell'operatore i costi delle azioni di prevenzione o di riparazione, se egli può provare che il danno ambientale o la minaccia imminente di tale danno sia stato causato da un terzo e si sia verificato nonostante l'esistenza di opportune misure di sicurezza; ovvero sia conseguenza dell'osservanza di un ordine o istruzione obbligatori impartiti da una autorità pubblica; ovvero qualora sia dimostrabile che il danno è stato causato da un'emissione o un evento espressamente autorizzati; ovvero da un'emissione o da un'attività o qualsiasi altro modo di utilizzazione di un prodotto nel corso di un'attività, che l'operatore dimostri non essere state considerate probabile causa di danno ambientale. In tali casi gli Stati membri adottano le misure appropriate per consentire all'operatore di recuperare i costi sostenuti.
Riguardo poi all'applicazione della direttiva stessa nel tempo, l'art. 17 stabilisce che le disposizioni in essa contenute non si applicheranno:
§ al danno causato da una emissione, un evento o un incidente verificatosi prima del 30 aprile 2007;
§ al danno verificatosi dopo la medesima data, se derivante da una specifica attività posta in essere e terminata prima di detta data;
§ al danno in relazione al quale sono passati più di 30 anni dall'emissione, evento o incidente che l’ha causato.
Un punto particolarmente delicato è quello del tipo di responsabilità (oggettiva o meno) individuata dalle norme comunitarie. In proposito, il 20° considerando della stessa direttiva dispone che “Non si dovrebbe chiedere ad un operatore di sostenere i costi di misure di prevenzione o riparazione adottate conformemente alla presente direttiva in situazioni in cui il danno in questione o la minaccia imminente di esso derivano da eventi indipendenti dalla volontà dell'operatore. Gli Stati membri possono consentire che gli operatori, di cui non è accertato il dolo o la colpa, non debbano sostenere il costo di misure di riparazione in situazioni in cui il danno in questione deriva da emissioni o eventi espressamente autorizzati o la cui natura dannosa non era nota al momento del loro verificarsi”.
Il legislatore comunitario non ha optato pertanto per un sistema basato sulla responsabilità oggettiva, ma piuttosto per un sistema articolato.
Si considerino – in proposito - l’8° e il 9° considerando della direttiva, dove si distinguono due possibili origini del danno ambientale:
§ Le attività professionali che presentano un rischio per la salute umana o l’ambiente (individuate con riferimento a specifiche normative comunitarie);
§ Le attività professionali che non sono già direttamente o indirettamente contemplate nella normativa comunitaria come comportanti un rischio reale o potenziale per la salute umana o l'ambiente.
Per questo secondo genere di attività professionali, “l'operatore sarebbe responsabile ai sensi della presente direttiva, soltanto quando vi sia il dolo o la colpa di detto operatore”
Coerentemente con questa differenziazione, l’art. 3, par. 1 della direttiva distingue due ipotesi separate e – per le attività non espressamente elencate nell’Allegato III – circoscrive il proprio ambito di applicazione alle sole ipotesi di dolo e colpa dell’operatore.
Infine, è utile riportare una serie di riferimenti – introdotti nella normativa comunitaria – a quello che può definirsi un principio generale di ragionevolezza nella disciplina del risarcimento del danno ambientale.
Nel 1° considerando: “la prevenzione e la riparazione, nella misura del possibile, del danno ambientale”. Nel 3° considerando: “riparazione del danno ambientale a costi ragionevoli per la società”, con il richiamo allo stesso “principio di proporzionalità” (art. 5 del Trattato). Nel 6° considerando : “Si dovrebbe tuttavia tener conto di situazioni specifiche in cui la legislazione comunitaria o la legislazione nazionale equivalente consentono deroghe al livello di protezione stabilito per l’ambiente”. Anche all’Allegato II, il punto 1.3.3chiarisce che “l'autorità competente può decidere di non intraprendere ulteriori misure di riparazione qualora … i costi delle misure di riparazione da adottare per raggiungere le condizioni originarie o un livello simile siano sproporzionati rispetto ai vantaggi ambientali ricercati”.
Tuttavia, tali riferimenti non escludono che gli Stati membri adottino normative più severe, come esplicitato nel 29° considerando, ove si chiarisce che la direttiva stessa “non preclude agli Stati membri di mantenere o emanare norme più severe in materia di prevenzione e riparazione del danno ambientale” (parallelamente, dispone in tal senso l’art. 16 della direttiva).
Interessante, infine, il 27° considerando: “Gli Stati membri dovrebbero adottare misure per incoraggiare gli operatori a munirsi di una copertura assicurativa appropriata o di altre forme di garanzia finanziaria e per favorire lo sviluppo di strumenti e mercati di copertura finanziaria onde fornire un'efficace copertura degli obblighi finanziari derivanti dalla presente direttiva”.
La legge delega in materia di danno ambientale
Occorre preliminarmente ricordare che la legge di delega (n. 308 del 2004) reca – in materia di “tutela risarcitoria contro i danni all’ambiente” (quinto punto dell’elencazione di cui al comma 1 dell’articolo 1) – criteri non particolarmente definiti e sostanzialmente riassumibili, ai sensi della lettera e) del comma 9 dello stesso articolo[159], in un elenco di quattro voci:
§ adeguamento delle procedure di irrogazione e delle sanzioni;
§ revisione delle procedure relative agli obblighi di ripristino
§ definizione delle modalità di quantificazione del danno
§ introduzione di meccanismi premiali per i soggetti che adottino comportamenti ambientalmente virtuosi o che effettuino investimenti per il miglioramento della qualità dell’ambiente.
Le finalità di questa revisione dovrebbero essere quelle di una (maggiore) effettività delle sanzioni e di una (maggiore) efficacia delle prescrizioni delle autorità competenti e del risarcimento del danno.
Altri elementi specifici, in materia di tutela risarcitoria per danno ambientale - non si rinvengono nella legge di delega.
Lo schema di decreto (Parte VI in materia di danno ambientale)
I diciannove articoli dello schema di decreto compresi nella Parte VI (299-318) hanno la finalità di:
§ riprendere molte delle disposizioni della direttiva (ma non tutte, come si vedrà più avanti);
§ definire norme procedurali (azioni, ricorsi, procedura risarcitoria);
§ abrogare le norme intervenute in materia di danno ambientale a partire dal 1986 (riassunte nella prima parte di questa scheda).
In primo luogo si fa presente che è riscontrabile una parziale sovrapposizione di norme (indicata poi nel dettaglio nel commento agli articoli) fra disposizioni inserite nel Titolo III della Parte VI (artt. 311-318) e alcuni commi dell’articolo unico del DDL finanziaria per l’anno 2006 (AC 6177-A), all’esame dell’Assemblea della Camera (in particolare, i commi 313-316 e 318-319).
Venendo ai contenuti dello schema di decreto, occorre preliminarmente sottolineare che questo (come – del resto - la direttiva) non considera il cd “danno tradizionale”. Cioè, il danno a cose e persone e le relative azioni a tutela di tutti i soggetti interessati, sono fuori dall’ambito di questa normativa (come lo sono rispetto alle norme comunitarie della direttiva 2004/35/CE[160]).Si vedano – in proposito – gli artt 308, comma 7, e 313, comma 7, ultimo periodo.
Quanto ai (numerosi) elementi di raffronto e di novità rispetto alla normativa oggi vigente, essi si possono sintetizzare sotto alcuni temi:
Lo schema di decreto sembrerebbe optare per un sistema basato sulla responsabilità per dolo o colpa (art. 311, comma 2)[161], mentre nel sistema italiano si veniva affermando (soprattutto a seguito dell’entrata in vigore dell’art. 17 del decreto legislativo n. 22 del 1997) un sistema basato sulla responsabilità oggettiva.
Occorre chiarire che anche la direttiva è modellata su un sistema di responsabilità per dolo o colpa per le attività non pericolose, mentre per un numero definito di attività “pericolose”, la responsabilità è oggettiva.
Non sembra invece esservi traccia – nello schema di decreto – della distinzione operata molto nettamente dalla direttiva fra le attività da cui può derivare il danno ambientale.
Infatti, secondo lo schema normativo della direttiva, si distinguono due tipi di “attività professionali”
Si considerino – in proposito - l’8° e il 9° considerando della direttiva dove si distinguono due possibili origini del danno ambientale:
§ le attività professionali che presentano un rischio per la salute umana o l’ambiente (individuate con riferimento a specifiche normative comunitarie);
§ le attività professionali che non sono già direttamente o indirettamente contemplate nella normativa comunitaria come comportanti un rischio reale o potenziale per la salute umana o l'ambiente.
Per questo secondo genere di attività professionali, “l'operatore sarebbe responsabile ai sensi della presente direttiva, soltanto quando vi sia il dolo o la colpa di detto operatore”
Coerentemente con questa differenziazione, l’art. 3, par. 1 della direttiva distingue due ipotesi separate e – per le attività non espressamente elencate nell’Allegato III – circoscrive il proprio ambito di applicazione alle sole ipotesi di dolo e colpa dell’operatore.
Nello schema di decreto italiano, invece, non si disciplinano queste fattispecie, lasciando – apparentemente - indeterminato il problema della responsabilità oggettiva ovvero della responsabilità per dolo o colpa.
In realtà, come illustrato più avanti (vedi commento all’art. 308) il modello di responsabilità adottato nello schema di decreto è quello per dolo o colpa.
Come si è già riportato nella parte introduttiva, nel sistema vigente (art. 18, comma 3, della legge n. 349), l'azione di risarcimento del danno ambientale, anche se esercitata in sede penale, è promossa dallo Stato, nonché dagli enti territoriali sui quali incidano i beni oggetto del fatto lesivo. Ai sensi del comma 5 dello stesso art. 18, inoltre, le associazioni ambientali (di cui all'articolo 13 della legge 8 luglio 1986, n. 349) possono intervenire nei giudizi per danno ambientale. Si deve poi ricordare che, con la legge n. 265 del 1999, è stata introdotta la possibilità per le associazioni di protezione ambientale di proporre le azioni risarcitorie di competenza del giudice ordinario che spettino al comune e alla provincia, conseguenti a danno ambientale. L'eventuale risarcimento è liquidato in favore dell'ente sostituito e le spese processuali sono liquidate in favore o a carico dell'associazione[162].
Il sistema previsto dallo schema di decreto è invece diverso per due motivi:
§ in quanto riserva alla sola amministrazione centrale la facoltà di agire,
§ in quanto tale azione non avviene in via giudiziaria, ma amministrativa, attraverso una ordinanza-ingiunzione.
Lo schema prevede che i soggetti diversi dal Ministro dell’ambiente non possano agire in giudizio, ma – in merito ad ogni caso di danno ambientale o di minaccia imminente di danno - possano:
§ presentare denunce o osservazioni al Ministro dell’ambiente
§ chiedere l’intervento statale
I soggetti legittimati a questo genere di azione sono:
§ regioni, province autonome ed enti locali
§ persone fisiche o giuridiche che:
a) sono o potrebbero essere colpite dal danno
b) vantano un interesse legittimante (fra queste il comma 2 riconosce anche le associazioni ambientali riconosciute).
Infine, il comma 5 dell’art. 306 disciplina una attività di partecipazione dei soggetti interessati. Anche qui si rileva la analogia con le disposizioni comunitarie (comma 4 dell’articolo 7 della direttiva).
In sostanza, il Ministro dell’ambiente è tenuto a richiedere a tali parti di presentare le proprie osservazioni e a “tenerle in considerazione”.
Anche in relazione al ruolo dei soggetti eventualmente interessati all’azione di risarcimento del danno ambientale (ma diversi dall’autorità competente) si riscontra tuttavia come lo schema di decreto operi sostanzialmente un ricalco del sistema previsto dalla direttiva. In particolare, si evidenzia un parallelismo fra l’art. 12 della direttiva e l’art. 309 dello schema di decreto.
Si possono citare il 25° e il 26° considerando della direttiva, dove si afferma – rispettivamente - che “Le persone che sono state o che possono essere pregiudicate da un danno ambientale dovrebbero essere legittimate a chiedere all'autorità competente di agire. La protezione dell'ambiente è tuttavia un interesse diffuso, per il quale i singoli non sempre agiscono o sono in grado di agire. Si dovrebbe quindi dare l'opportunità a organizzazioni non governative che promuovono la protezione dell'ambiente di contribuire in maniera adeguata all'efficace attuazione della presente direttiva” e che “Le persone fisiche o giuridiche interessate dovrebbero essere legittimate ad avviare procedure di revisione delle decisioni, degli atti o delle omissioni dell'autorità competente”.
Nel testo dell’articolato si rileva una volontà di accentrare le competenze – rispetto alla normativa vigente - all’interno dell’amministrazione statale.
Infatti, sin dall’art. 299, ma poi in modo più chiaro in tutto il Titolo III, è al Ministro dell’ambiente che vengono attribuite le funzioni più incisive in materia di azione risarcitoria.
Si ricorda ancora una volta che – ai sensi dell’art. 18, comma 3, della legge n. 349 del 1986, attualmente vigente - l'azione di risarcimento del danno ambientale, anche se esercitata in sede penale, è promossa dallo Stato, “nonché dagli enti territoriali sui quali incidano i beni oggetto del fatto lesivo”
Il Titolo III introduce una disciplina del risarcimento del danno ambientale fortemente innovativa rispetto al diritto (nazionale) vigente. Tale disciplina è basata su uno schema che prevede - in via alternativa, o anche in via ulteriore rispetto alla costituzione di parte civile nel processo penale da parte del Ministro dell’Ambiente - l’emanazione di un’ordinanza-ingiunzione, cioè di un atto amministrativo per il risarcimento del danno.
Nelle sue linee generali, la disciplina prevede la doppia ipotesi del risarcimento in forma specifica o per equivalente patrimoniale. La scelta fra le due forme non rientra fra le facoltà del Ministro. Infatti la procedura è attivata da un’ordinanza del Ministro dell’ambiente con la quale si ingiunge al responsabile il risarcimento in forma specifica, attraverso il ripristino della situazione ambientale preesistente; solo ove tale forma di risarcimento non sia possibile, con la medesima o successiva ordinanza lo stesso Ministro ingiunge il pagamento di una somma pari al valore economico del danno accertato.
Rispetto alla normativa oggi vigente, si riscontrano – in proposito - un elemento di continuità ed uno di forte discontinuità.
Il primo è rappresentato dallo schema ripristino dello stato dei luoghi / ipotesi (subordinata) del risarcimento per equivalente. Infatti, l’art. 18 della legge n. 349 dedica due regole specifiche al complesso problema della quantificazione del risarcimento: una norma che impone al giudice di disporre il ripristino dello stato dei luoghi nei casi in cui ciò sia possibile (comma 8); una disposizione che prevede, nel caso in cui non si possa procedere ad una precisa quantificazione del danno, una serie di criteri per pervenire alla sua valutazione equitativa: la gravità della colpa individuale, il costo necessario per il ripristino e il profitto economico conseguito dal trasgressore (comma 6).
L’elemento di discontinuità è invece dato dalla titolarità della quantificazione, che è – nella nuova normativa – il Ministro dell’ambiente, laddove – nella normativa vigente (art. 18) tale funzione è affidata all’organo giudiziario.
Anche in questo caso si evidenzia una consonanza con la direttiva che, al 24° considerando, dispone che “Si dovrebbero conferire alle autorità competenti compiti specifici che implicano appropriata discrezionalità amministrativa, ossia il dovere di valutare l'entità del danno e di determinare le misure di riparazione da prendere”.
Art. 299
(Competenze ministeriali)
In particolare, l’art. 299 definisce le competenze ministeriali, in materia, attribuendo all’amministrazione centrale la responsabilità primaria della “tutela, prevenzione e riparazione dei danni all’ambiente”.
Nel testo dell’articolo si richiama – con due differenti ma convergenti formulazioni – il principio di cooperazione fra Stato, regioni, enti locali e altri enti pubblici “ritenuti idonei”. Rimane tuttavia evidente – sin da questo primo articolo - una volontà del legislatore di accentrare le competenze – rispetto alla normativa vigente - all’interno dell’amministrazione statale.
Si ricorda infatti che – ai sensi dell’art. 18, comma 3, della legge n. 349 del 1986, l'azione di risarcimento del danno ambientale, anche se esercitata in sede penale, è promossa dallo Stato, nonché dagli enti territoriali sui quali incidano i beni oggetto del fatto lesivo.
In proposito potrebbe rilevarsi una certa divergenza rispetto al criterio generale di delega indicato all’articolo 1, comma 8, lettera m) della legge di delega che richiedeva, fra l’altro: “la riaffermazione del ruolo delle regioni, ai sensi dell'articolo 117 della Costituzione, nell'attuazione dei princìpi e criteri direttivi ispirati anche alla interconnessione delle normative di settore”.
Art. 300
(Danno ambientale)
L’art. 300, comma 1,introduce una novità nella normativa italiana, in quanto reca una definizione di danno ambientale, ricalcata – anche se non testualmente - su quella contenuta nella direttiva (art. 2, paragrafi 1, 2 e 3)[163].
Per danno ambientale deve – in primo luogo – intendersi un deterioramento:
§ significativo e misurabile,
§ di una risorsa o di una utilità da questa assicurata,
§ provocato direttamente, o anche indirettamente.
Rispetto alla definizione comunitaria (art. 2 della direttiva), l’unico elemento significativo di differenziazione è rintracciabile nel termine (più ampio) di “utilità”, in luogo di quello di “servizio” (adoperato dalla direttiva).
Il comma 2 specifica poi cosa debba in particolare intendersi per danno ambientale, fornendo una serie di riferimenti alle normative di tutela:
§ delle specie
§ degli habitat
§ delle acque interne
§ delle acque costiere e di quelle ricomprese nel mare territoriale
§ del terreno
§ dell’atmosfera
Per quanto riguarda le specie e gli habitat , si fa riferimento ad una serie di norme (corrispondenti a quelle elencate al paragrafo 3 dell’art. 2 della direttiva (pertanto si riscontra una corrispondenza fra lo schema di decreto e la direttiva).
Anche per quanto riguarda le acque lo schema di decreto corrisponde alla direttiva, in quanto il campo di applicazione richiamato è lo stesso della direttiva 2000/60/CE (su cui, vedi infra, commento all’art. 302).
Lo stesso può rilevarsi in merito alla definizione di danni al terreno, mentre la norma italiana inserisce una voce - non presente nella direttiva europea - relativa ai danni all’atmosfera.
Non sembra invece esservi traccia – nello schema di decreto – della distinzione operata molto nettamente dalla direttiva fra le attività da cui può derivare il danno ambientale. Infatti, secondo lo schema normativo della direttiva, si distinguono due tipi di “attività professionali”
Si considerino – in proposito - l’8° e il 9° considerando della direttiva dove si distinguono due possibili origini del danno ambientale:
§ le attività professionali che presentano un rischio per la salute umana o l’ambiente (individuate con riferimento a specifiche normative comunitarie);
§ le attività professionali che non sono già direttamente o indirettamente contemplate nella normativa comunitaria come comportanti un rischio reale o potenziale per la salute umana o l'ambiente.
Per questo secondo genere di attività professionali, “l'operatore sarebbe responsabile ai sensi della presente direttiva, soltanto quando vi sia il dolo o la colpa di detto operatore”
Coerentemente con questa differenziazione, l’art. 3, par. 1 della direttiva distingue due ipotesi separate e – per le attività non espressamente elencate nell’Allegato III – circoscrive il proprio ambito di applicazione alle sole ipotesi di dolo e colpa dell’operatore.
Nello schema di decreto italiano, invece, non si disciplinano queste fattispecie, lasciando – apparentemente - indeterminato il problema della responsabilità oggettiva ovvero della responsabilità per dolo o colpa.
In realtà, come illustrato più avanti (vedi commento all’art. 308) il modello di responsabilità adottato nello schema di decreto è quello per dolo o colpa. Sembrerebbe, pertanto, venir meno quel principio di responsabilità oggettiva che era stato introdotto dall’art. 17 del decreto legislativo n. 22 del 1997.
Art. 301
(Attuazione del principio di precauzione)
L’articolo reca disposizioni in merito all’attuazione del principio comunitario di precauzione, di cui all’art. 174, par. 2, del Trattato dell’UE.
Si ricorda che l’art. 174, par. 2 del Trattato che istituisce la Comunità europea , in vigore dal 1° febbraio 2003, prevede che “La politica della Comunità in materia ambientale mira a un elevato livello di tutela, tenendo conto della diversità delle situazioni nelle varie regioni della Comunità. Essa è fondata sui principi della precauzione e dell'azione preventiva, sul principio della correzione, in via prioritaria alla fonte, dei danni causati all'ambiente, nonché sul principio « chi inquina paga».
In tale contesto, le misure di armonizzazione rispondenti ad esigenze di protezione dell'ambiente comportano, nei casi opportuni, una clausola di salvaguardia che autorizza gli Stati membri a prendere, per motivi ambientali di natura non economica, misure provvisorie soggette ad una procedura comunitaria di controllo”.
In particolare, si specifica il principio generale che anche pericoli potenziali per la salute e per l’ambiente devono trovare un alto livello di protezione, anche in assenza di certezza scientifica in ordine alla effettività del rischio (comma 1).
Il comma 2 circoscrive in qualche modo la portata del principio enunciato al comma 1, disponendo che il rischio deve comunque essere suscettibile di una valutazione scientifica obiettiva.
Il comma 3 fa obbligo all’operatore interessato (per le definizioni, vedi il successivo art. 302) di informare immediatamente l’autorità pubblica al sorgere di tale rischio.
Si osserva che tali disposizioni non vanno confuse con quelle recate dall’art. 304 dello stesso schema di decreto (anch’esse ispirate allo stesso principio di precauzione), in quanto nelle fattispecie previste in quell’articolo il danno – anche se ancora non reale – rappresenta comunque una “minaccia imminente”, mentre nell’articolo in commento l’elemento dell’imminenza del danno può anche essere assente, essendo sufficiente la sussistenza di un semplice “rischio anche solo potenziale per la salute umana e per l’ambiente”.
Le autorità competente a ricevere la comunicazione di cui al comma 3 sono le stesse che verranno successivamente indicate agli artt. 304 e 305, e cioè:
§ il Sindaco del comune
§ la Provincia
§ la regione o provincia autonoma
§ il Prefetto
A quest’ultimo spetta – entro le successive 24 ore – informare il Ministro dell’ambiente.
Ai sensi del comma 4, il Ministro dell’ambiente ha facoltà di adottare qualsiasi misura di prevenzione (vedi infra, artt. 302 per le definizioni e art. 304 per la disciplina delle attività di prevenzione).
Tuttavia la norma precisa che le misure adottate dal Ministro devono soddisfare cinque requisiti:
§ proporzionalità
§ equità (nel senso di non discriminazione fra soggetti diversi)
§ coerenza con misure adottate in situazioni analoghe
§ equilibrio fra vantaggi ed oneri
§ idoneità ad essere aggiornate alla luce di nuovi risultati scientifici
I principi indicati sono ricavati dalla Comunicazione della Commissione del 2 febbraio 2000 sul ricorso al principio di precauzione che rappresenta il più importante atto comunitario emanato al fine di proporre orientamenti comuni per l'applicazione del principio di precauzione, evitando – al tempo stesso - che il principio di precauzione venga utilizzato come pretesto per azioni protezionistiche.
Si ricorda che, secondo la citata Comunicazione, tre principi specifici dovrebbero sottendere il ricorso al principio di precauzione:
· l'attuazione del principio dovrebbe fondarsi su una valutazione scientifica la più completa possibile. Detta valutazione dovrebbe, nella misura del possibile, determinare in ogni istante il grado d'incertezza scientifica;
· qualsiasi decisione di agire o di non agire in virtù del principio di precauzione dovrebbe essere preceduta da una valutazione del rischio e delle conseguenze potenziali dell'assenza di azione;
· non appena i risultati dalla valutazione scientifica e/o della valutazione del rischio sono disponibili, tutte le parti in causa dovrebbero avere la possibilità di partecipare allo studio delle varie azioni prevedibili nella maggiore trasparenza possibile.
La Comunicazione chiarisce, inoltre, che - oltre a questi principi specifici - i principi generali di una buona gestione dei rischi restano applicabili allorché il principio di precauzione viene invocato. Si tratta dei cinque seguenti principi:
· la proporzionalità tra le misure prese e il livello di protezione ricercato;
· la non discriminazione nell'applicazione delle misure;
· la coerenza delle misure con quelle già prese in situazioni analoghe o che fanno uso di approcci analoghi;
· l'esame dei vantaggi e degli oneri risultanti dall'azione o dall'assenza di azione;
· il riesame delle misure alla luce dell'evoluzione scientifica.
Il comma 5 dà facoltà al Ministro dell’ambiente di finanziare programmi di ricerca e attività volte a promuovere l’informazione del pubblico in merito agli effetti negativi di prodotti e processi, oltre che la certificazione ambientale.
Si osserva che tale articolo potrebbe trovare più adeguata collocazione all’interno del Titolo II, recante le norme in materia di “prevenzione e ripristino ambientale”.
Art. 302
(Definizioni)
L’articolo riprende testualmente le definizioni recate dalla direttiva (art. 2, paragrafo 4), partendo dalla definizione di stato di conservazione favorevole
§ di una specie (comma 1)
§ di un habitat (comma 2).
Il comma 3 chiarisce che per acque devono intendersi tutte le acque a cui si applica la parte III dello schema di decreto.
Si riscontra una differenza con l’art. 2, paragrafo 5 della direttiva, ove si precisa – invece - che per acque devono intendersi “tutte le acque cui si applica la direttiva 2000/60/CE”.
Ai fini di un raffronto fra le due definizioni, si ricorda che l’articolo 54, comma 1, lettera b), dello schema di decreto definisce - con il termine “acque” - le acque meteoriche, le acque superficiali e quelle sotterranee. Pertanto tale definizione – non comprendendo le acque costiere e di transizione[164] appare insufficiente a coprire l’intero ambito a cui fa riferimento la direttiva. Si ricorda, infatti che la direttiva 2000/60/CE, all’articolo 1 dichiara che scopo della direttiva stessa è “istituire un quadro per la protezione delle acque superficiali interne, delle acque di transizione, delle acque costiere e sotterranee”.
C’è tuttavia da osservare che le acque costiere e di transizione rimangono comunque entro l’oggetto della parte III dello schema di decreto (vedi l’art. 73, comma 1, ove si specifica che la tutela dall’inquinamento deve riguardare tutte le acque superficiali, marine e sotterranee). Inoltre, si ricorda che l’art. 300 (vedi supra) aveva comunque compreso nell’ambito di applicazione di questa parte dello schema di decreto sia le acque interne, sia le acque costiere (vedi, rispettivamente, lettere b) e c) del comma 2).
Il comma 4 definisce la figura dell’operatore riproducendo quasi testualmenteil paragrafo 6 dell’art. 2 della direttiva.
La differenza riscontrata riguarda il fatto che il testo italiano sembrerebbe proporre una nozione più restrittiva dell’operatore, laddove lo definisce come il soggetto che esercita o controlla un’attività professionale avente rilevanza ambientale. Tale ultima specificazione non è invece presente nella direttiva.
Tuttavia, resta una differenza di fondo dalla disciplina comunitaria, laddove le norme italiane non distinguono fra la figura dell’operatore di “attività pericolose” per il quale varrebbe un principio di responsabilità oggettiva, e l’operatore di “attività non pericolose” dove la responsabilità sarebbe ristretta alle ipotesi di dolo o colpa. Conseguenza di tale mancata distinzione è che nel sistema italiana il sistema di responsabilità oggettiva appare più esteso che nel diritto comunitario (vedi infra, commento al Titolo II).
Il comma 5 definisce l’espressione di attività professionale,riproducendo testualmenteil paragrafo 7 dell’art. 2 della direttiva;
Il comma 6 definisce il termine di emissione,riproducendo testualmenteil paragrafo 8 dell’art. 2 della direttiva;
Il comma 7 definisce la minaccia imminente di danno, riproducendo testualmenteil paragrafo 9 dell’art. 2 della direttiva;
Il comma 8 definisce le misure di prevenzione, riproducendo testualmenteil paragrafo 10 dell’art. 2 della direttiva;
Il comma 9 definisce il ripristino in modo parzialmente difforme dal paragrafo 15 dell’art. 2 della direttiva: in primo luogo la norma italiana sembra più esigente nel far coincidere il ripristino (per quanto riguarda il terreno e l’atmosfera) con l’eliminazione di qualsiasi rischio di effetti nocivi. La direttiva invece richiede l’eliminazione di qualsiasi rischio “significativo”. Inoltre, nella norma italiana è aggiunto un intero periodo al comma 9 in cui si richiede che il ripristino comprenda – in ogni caso – la riqualificazione del sito (che viene peraltro definita, ricalcando la definizione di “misure di riparazione” recata dal paragrafo 11, dell’art. 2 della direttiva).
Il comma 10 definisce la nozione di risorse naturali, riproducendo testualmenteil paragrafo 12 dell’art. 2 della direttiva;
Il comma 11 definisce i servizi, riproducendo testualmenteil paragrafo 13 dell’art. 2 della direttiva.
Si osserva, tuttavia, che il testo italiano non è – sotto questo profilo – del tutto congruente al suo interno, in quanto in un caso adopera l’espressione “utilità”, peraltro non definita (art. 300, comma 1), mentre in altri casi quella di “servizi” (art. 302, commi 9 e 12 e art. 305, comma 1, lettera a) e comma 2, lettera b).Le due espressioni sembrano invece avere valore equivalente.
Il comma 12 definisce le condizioni originarie, riproducendo testualmenteil paragrafo 14 dell’art. 2 della direttiva;
Il comma 13 definisce i costi, riproducendo testualmenteil paragrafo 16 dell’art. 2 della direttiva.
Art. 303
(Esclusioni)
L’articolo riproduce quasi testualmente l’art. 4 della direttiva, recante le “eccezioni”, aggiungendo sostanzialmente due casi di esclusione non previsti dall’art. 4 (rispettivamente, lettera g) e lettera i) dello schema) riguardanti:
§ il danno in relazione al quale siano trascorsi più di trenta anni dall’evento che lo ha causato;
§ le situazioni di inquinamento nelle quali sia in corso un intervento di bonifica.
Da segnalare anche la disposizione di cui alla lettera f), che esclude dall’ambito di applicazione dello schema di decreto tutte le ipotesi in cui il danno sia stato causato da un evento verificatosi prima dell’entrata in vigore del decreto legislativo.
Si segnala – in proposito – che, mentre l’esclusione dall’ambito di applicazione delle due fattispecie sub g) e f) è comunque riconducibile a disposizioni della direttiva di uguale tenore (recate dall’art. 17), l’ipotesi di esclusione – invece – prevista dalla lettera i), relativa alle situazioni in cui sia in corso un intervento di bonifica, non è contemplata dalla stessa direttiva.
Le altre ipotesi di esclusione previste dalla direttiva (e riprodotte nell’articolo 303) sono riportate nel seguente elenco:
§ atti di conflitto armato, ostilità, guerra civile o insurrezione;
§ attività aventi come scopo principale la difesa nazionale o la sicurezza internazionale, e attività aventi come unico scopo la protezione dalle calamità naturali.
§ fenomeni naturali di carattere eccezionale, inevitabile e incontrollabile;
§ danno ambientale o minaccia imminente di tale danno a seguito di un incidente per il quale la responsabilità o l'indennizzo rientrano nell'ambito d'applicazione di una delle convenzioni internazionali elencate nell'allegato IV della direttiva[165];
§ rischi nucleari e danno ambientale o minaccia imminente di tale danno causati da attività disciplinate dal trattato che istituisce la Comunità europea dell'energia atomica o causati da un incidente o un'attività per i quali la responsabilità o l'indennizzo rientra nel campo di applicazione di uno degli strumenti internazionali elencati nell'allegato V della stessa direttiva[166];
La direttiva (e l’articolo 303 dello schema di decreto, al comma 1, lettera h) chiarisce, inoltre, che il danno ambientale o la minaccia imminente di tale danno causati da inquinamento di carattere diffuso possono rientrare nell’ambito di applicazione della normativa in oggetto unicamente quando sia possibile accertare un nesso causale tra il danno e le attività di singoli operatori.
Infine, la direttiva (art. 4, par. 3) e – parallelamente – lo schema di decreto (art. 303, comma 1, lettera c), chiariscono che le norme in oggetto non pregiudicano il diritto dell'operatore di limitare la propria responsabilità conformemente alla legislazione nazionale che da esecuzione alla convenzione sulla limitazione della responsabilità per crediti marittimi (LLMC) del 1976 o alla convenzione di Strasburgo sulla limitazione della responsabilità nella navigazione interna (CLNI) del 1988.
A quest’ultimo proposito, si osserva che la direttiva (ma non lo schema di decreto) precisa che le due convenzioni richiamate devono essere considerate congiuntamente ai futuri emendamenti alle medesime.
Nel Titolo II sembra essere delineato un sistema di responsabilità “specifica” (in capo cioè ad un operatore[167], come indicato sia dall’art. 304 che dall’art. 305) di carattere oggettivo, pur rimanendo fermo che – ai sensi del comma 5 dell’art. 308 – l’operatore può essere liberato dall’onere derivante dalle azione di prevenzione e ripristino qualora egli dimostri che il danno o la minaccia sono stati causati da un terzo.
Sembrerebbe opportuno coordinare le norme recate dal Titolo II con quelle recate dall’art. 311, che delineano invece un tipo di responsabilità generica (non limitata cioè ai soli “operatori”, ma estesa a “chiunque”), ma limitata alle ipotesi di dolo o colpa.
Art. 304
(Azione di prevenzione)
L’art. 304 introduce norme attuative dell’art. 5 della direttiva 2004/35/CE sulla cd “azione di prevenzione”. Tali norme rappresentano – rispetto all’ordinamento italiano vigente – un elemento di novità, in quanto chiariscono e ampliano l’ambito di applicazione di disposizioni che erano contenute nell’art. 17 del decreto n. 22 del 1997[168].
Si ricorda, infatti, che l’art. 17, comma 2, del “decreto Ronchi” già prevede che chiunque cagioni, anche in maniera accidentale, il superamento dei limiti di accettabilità di contaminazione di determinate risorse ambientali, ovvero determini un pericolo concreto ed attuale di superamento dei limiti medesimi, sia tenuto a procedere a proprie spese agli interventi di messa in sicurezza, di bonifica e di ripristino ambientale delle aree inquinate e degli impianti dai quali deriva il pericolo di inquinamento. Lo stesso articolo prevede poi una serie di obblighi di comunicazione a carico dei soggetti interessati.
Si ricorda che l’inserimento di tali disposizioni all’interno di quello che rappresenta una sorta di “testo unico sui rifiuti”, non ne limita il campo di applicazione alle sole ipotesi di contaminazione da rifiuti. La disciplina dettata dall’articolo 17 ha infatti carattere generale e si estende fino a comprendere la contaminazione dei suoli, delle acque superficiali e delle acque sotterranee (lettera a) del comma 1 dello stesso art. 17).
Secondo lo stesso schema già tracciato dall’art. 17, l’operatore che cagiona (“anche in materia accidentale”, esplicita l’art. 17)[169] una situazione di pericolo o minaccia di danno è tenuto a due obblighi:
1. adottare a proprie spese le misure di prevenzione e messa in sicurezza;
2. denunciare la situazione di pericolo all’autorità pubblica.
Se questi sono gli elementi di continuità rispetto alla normativa vigente, appare tuttavia utile richiamare in modo più ravvicinato gli elementi di novità.
A parte la ipotizzabile[170] differenza fra i due concetti di “pericolo concreto e attuale” (art. 17 del decreto Ronchi) e “minaccia imminente” (art. 5 della direttiva 2004/35/CE), rispetto alle norme vigenti, le principali novità sembrano consistere in:
§ una più chiara distinzione fra i casi di inquinamento effettivo e quelli di minaccia imminente (soggetti, questi ultimi, a una specifica disciplina, recata dall’articolo in esame dello schema (e, parallelamente, dall’art. 5 della direttiva). L’art. 17, infatti, è principalmente finalizzato a dettare una disciplina sulla bonifica e il ripristino ambientale e le norme relative alle situazioni di pericolo (e quindi le azioni da svolgere al fine di prevenire il danno) vi hanno una parte secondaria e incidentale;
§ la subordinazione del secondo obbligo (denuncia alle autorità pubbliche) alla sola ipotesi di “persistenza” della minaccia, anche successivamente all’adozione delle necessarie misure di prevenzione e messa in sicurezza (nell’articolo 17, invece, i due obblighi sono definiti secondo un perfetto parallelismo);
§ una riduzione dei termini entro i quali la situazione di minaccia o pericolo va denunciata alle autorità pubbliche: “senza indugio”[171], nello schema di decreto, “entro 48 ore” secondo l’art. 17 del decreto legislativo n. 22 del 1997;
§ l’introduzione di una sanzione amministrativa per la mancata denuncia della situazione di minaccia imminente, proporzionale al ritardo della denuncia stessa e delle contemporanee azioni di prevenzione e messa in sicurezza (non meno di 2000 euro e non più di 5000 euro per ogni giorno di ritardo).
Quanto agli aspetti procedurali, i soggetti pubblici da informare sono – secondo le nuove norme recate dall’articolo in esame:
§ il Sindaco
§ la Provincia
§ la regione o provincia autonoma
§ il Prefetto
Quest’ultimo, entro le successive ventiquattro ore informa il Ministro dell’ambiente.
Questa parte procedurale della disciplina – imperniata sull’amministrazione centrale - è invece del tutto nuova rispetto alle norme vigenti.
Ai sensi dei commi 3 e 4, il Ministro dell’ambiente può richiedere informazioni ulteriori, direttamente all’operatore, ordinare che questi adottti specifiche misure, ovvero adottare direttamente misure appropriate di prevenzione. Inoltre, in caso di inottemperanza da parte dell’operatore tenuto agli intereventi, il Ministro può agire in via sostitutiva, con diritto di rivalsa.
Si osserva che la norma sul diritto di rivalsa si articola ulteriormente specificando che tale diritto è esercitabile solo qualora sia individuato entro cinque anni dal pagamento delle spese il soggetto responsabile o corresponsabile delle spese di cui si è fatta carico l’amministrazione (vedi analoga disposizione al successivo art. 305).
Tale normativa sul diritto di rivalsa non è presente – in questa forma - nella direttiva comunitaria. Tuttavia è opportuno confrontare l’articolo 10 della direttiva, ai sensi del quale l'autorità competente è legittimata ad avviare, nei confronti di un operatore o, se del caso, del terzo che ha causato il danno o la minaccia imminente di danno, i procedimenti per il recupero dei costi entro cinque anni dalla data in cui tali misure sono state portate a termine o in cui è stato identificato l'operatore responsabile o il terzo responsabile, “a seconda di quale data sia posteriore”. Pertanto può ipotizzarsi che all’eventuale indicazione di un termine più lungo da parte del legislatore nazionale sarebbe opponibile la incompatibilità con il diritto comunitario.
Art. 305
(Ripristino ambientale)
L’art. 305 disciplina invece, distintamente (e in parallelismo rispetto all’art. 6 della direttiva) il ripristino ambientale, cioè le azioni da effettuare una volta che il danno si sia effettivamente verificato.
Anche in questo caso non sono riscontrabili significativi discostamenti rispetto alla disciplina comunitaria, tranne che in merito alle disposizioni sul diritto di rivalsa nell’ipotesi di intervento di ripristino sostitutivo da parte del Ministro dell’ambiente (comma 3).
Lo schema della disciplina sarebbe pertanto il seguente:
Al momento del verificarsi del danno (si presume, nell’immediatezza) l’operatore ha – questa volta – un triplo obbligo:
§ comunicazione alle stesse autorità di cui all’articolo precedente;
§ adozione di iniziative adeguate per la gestione e il controllo dei fattori di danno;
§ adozione delle misure di ripristino (definite al successivo art. 307).
Le disposizioni del comma 2 prevedono poi (come nell’ipotesi di azione di prevenzione di cui al precedente articolo) che il Ministro dell’ambiente possa richiedere informazioni ulteriori, direttamente all’operatore, ordinare che questi adottti specifiche misure, ovvero adottare direttamente misure appropriate di prevenzione. Inoltre (comma 3), in caso di inottemperanza da parte dell’operatore tenuto agli intereventi, il Ministro può agire in via sostitutiva, con diritto di rivalsa.
Art. 306
(Determinazione delle misure per il ripristino ambientale)
Come si è detto nella parte introduttiva, rispetto alla normativa statale vigente (almeno di rango legislativo), appaiono invece innovative le disposizioni recate dall’art. 306, dedicate ad una definizione delle azioni di ripristino (“misure di riparazione”, nella terminologia adottata dalla direttiva).
L’operatore ha l’onere di individuare le misure per il ripristino e di presentarle al Ministro dell’ambiente per l’approvazione.
Si osserva che in questo caso (diversamente dai precedenti artt. 4 e 5) l’autorità competente è il solo Ministro dell’ambiente.
La norma italiana introduce, inoltre, il termine di trenta giorni per la presentazione di tale atto da parte dell’operatore.
Sia le norme dello schema di decreto, che quelle della direttiva fanno invece rinvio ad un apposito allegato per la scelta delle misure più adeguate e la determinazione delle stesse (allegato 3 della parte VI dello schema).
I contenuti di questo allegato – del tutto conforme all’Allegato II della direttiva 2004/35/CE – sono di carattere generale e “di principio”, piuttosto che tecnici e possono essere brevemente riassunti nel modo seguente:
§ Articolazione delle misure in 3 differenti tipologie, ognuna delle quali viene definita (riparazione “primaria”, “complementare” e “compensativa”)e per le quali viene stabilito un ordine di priorità e delle condizioni generali di applicabilità.
§ Definizione delle finalità e degli obiettivi di ciascuna delle tipologie di riparazione.
§ Definizione delle modalità di scelta delle tre opzioni.
Infine, specifiche previsioni sono dedicate alla riparazione del danno al terreno.
Si osserva che l’amministrazione pubblica (e quindi – nello schema di decreto – il Ministro dell’ambiente) rimane comunque competente a decidere quali siano le misure di ripristino da adottare (comma 2), secondo le prescrizioni dell’Allegato suddetto, ma comunque perseguendo prioritariamente l’obiettivo del completo ripristino ambientale.
Lo stesso comma 2 prevede che sia facoltà della stessa amministrazione valutare l’opportunità di effettuare gli interventi di ripristino sulla base di un accordo con l’operatore interessato, nel rispetto della procedura di cui all’art. 11 della legge n. 241 del 1990.
L’art. 11 della legge n. 241 (norma di carattere generale applicabile a tutti i procedimenti amministrativi) prevede che - in accoglimento di osservazioni e proposte presentate dai soggetti interessati - l'amministrazione procedente può concludere, senza pregiudizio dei diritti dei terzi, e in ogni caso nel perseguimento del pubblico interesse, accordi con gli interessati al fine di determinare il contenuto discrezionale del provvedimento finale ovvero in sostituzione di questo. Si ricorda che - a garanzia dell'imparzialità e del buon andamento dell'azione amministrativa - la norma stessa precisa (al comma 4 bis) che in tutti i casi in cui una pubblica amministrazione conclude accordi ai sensi dell’art. 11, la stipulazione dell'accordo è preceduta da una determinazione dell'organo che sarebbe competente per l'adozione del provvedimento
La direttiva comunitaria converge nel prevedere che gli interventi siano effettuati “se necessario, in cooperazione con l’operatore interessato”.
I commi 3 e 4 dello schema di decretosostanzialmente riproducono il contenuto del comma 3 dell’art. 7 della direttiva, disciplinando l’ipotesi di pluralità di casi di danno ambientale. Sostanzialmente, l’autorità pubblica ha facoltà – in tali casi – di stabilire delle priorità, tenendo in considerazione i seguenti parametri:
§ rischi per la salute umana (a tali ipotesi va comunque data priorità secondo la norma italiana, mentre nella norma europea questo è solo uno dei parametri);
§ natura, entità e gravità del danno;
§ possibilità di ripristino naturale. Per “ripristino naturale” si intende (ai sensi del punto 2. dell’allegato 3 della Parte VI dello schema) “un’opzione senza interventi umani diretti nel processo di ripristino”[172].
Infine, il comma 5 disciplina una attività di partecipazione dei soggetti interessati. Anche qui si rileva la analogia con le disposizioni comunitarie (comma 4 dell’articolo 7 della direttiva).
In sostanza, il Ministro dell’ambiente è tenuto a richiedere a tali parti di presentare le proprie osservazioni e a “tenerle in considerazione”. La norma italiana aggiunge – rispetto a quella comunitaria – l’apposizione del termine di dieci giorni (entro cui i soggetti interessati dovranno presentare le osservazioni).
Art. 307
(Notificazione delle misure preventive e di ripristino)
L’articolo 307 introduce un obbligo generale di motivazione e di comunicazione al soggetto interessato di tutte le decisioni amministrative che impongono misure sia di precauzione e prevenzione, sia di ripristino. Tale norma deve pertanto intendersi estesa sia all’ambito normativo dell’articolo 304 che a quello dell’art. 305.
Si ricorda che tale obbligo è previsto anche dall’articolo 11, paragrafo 4, della direttiva, ma anche – nel nostro ordinamento – rappresenta un principio generale, affermato dall’art. 2 della legge n. 241 del 1990.
Art. 308
(Costi dell’attività di prevenzione e ripristino)
L’articolo 308 riproduce in parte i contenuti dell’articolo 8 della direttiva, in parte introduce invece disposizioni non presenti nelle norme comunitarie.
Lo schema generale delle norme di cui all’articolo 308 può riassumersi nei seguenti cinque principi:
1. l’operatore è il soggetto tenuto a sostenere i costi delle iniziative prese dall’autorità pubblica (statale) – tanto a scopo di prevenzione quanto a scopo di ripristino - ai sensi delle norme in esame (comma 1: principio affermato con formulazione quasi identica nella direttiva);
2. l’amministrazione (Ministro dell’ambiente) recupera le spese sostenute dallo Stato (comma 2: principio affermato anche nella direttiva, sia pure con alcune differenze di formulazione);
3. l’amministrazione non recupera la totalità dei costi in due ipotesi:
a. qualora la spesa necessaria sia maggiore all’importo recuperabile
b. qualora l’operatore non possa essere individuato
(comma 4, corrispondente al secondo periodo del paragrafo 2 dell’art. 8 della direttiva);
4. si prevedono alcune specifiche ipotesi di esclusione dell’operatore dalla copertura di determinati costi (commi 5 e 6 dello schema di decreto: anche in questo caso non si ha perfetta rispondenza con le disposizioni recate dalla direttiva);
5. si definiscono i criteri relativi alla quantificazione del risarcimento per equivalente (comma 3: la norma non trova riscontro nell’articolo 8 della direttiva);
Più in dettaglio (relativamente al punto 2. della precedente elencazione), si può osservare che il paragrafo 2 dell’art. 8 della direttiva dispone che l’autorità competente “recupera, tra l’altro attraverso garanzie reali o altre adeguate garanzie, dall’operatore che ha causato il danno o l’imminente minaccia di danno i costi da essa sostenuta”. Parallelamente, al comma 2 dello schema di decreto si prevede che il Ministro dell’ambiente recuperi dall’operatore che ha causato il danno o la minaccia di danno – anche attraverso garanzie reali o fideiussioni bancarie a prima richiesta – le spese sostenute dallo Stato.
La disposizione precisa che in caso di fideiussione bancaria a prima richiesta debba essere escluso il beneficio della preventiva escussione.
Si ricorda – in proposito - che, ai sensi dell’art. 1944 c.c.,”Il fideiussore è obbligato in solido col debitore principale al pagamento del debito.
Le parti però possono convenire che il fideiussore non sia tenuto a pagare prima dell'escussione del debitore principale. In tal caso, il fideiussore, che sia convenuto dal creditore e intenda valersi del beneficio dell'escussione, deve indicare i beni del debitore principale da sottoporre ad esecuzione.
Salvo patto contrario, il fideiussore è tenuto ad anticipare le spese necessarie”.
Relativamente al punto 4. dell’elenco sopra riportato (commi 5 e 6 dello schema di decreto), si osserva che la direttiva distingue due situazioni: quella in cui l’operatore deve comunque essere escluso dai costi (paragrafo 3 dell’articolo 8)[173] e quella in cui gli stati membri possono disporre un’esclusione dell’operatore dai costi (paragrafo 4 dello stesso articolo 8).
Lo schema di decreto, invece, dispone direttamente l’esclusione anche relativamente a ulteriori ipotesi. Si tratta – in particolare – della disciplina del comportamento non doloso o colposo dell’operatore, con danno causato da emissione o evento espressamente consentiti da un’autorizzazione o intervenuti nel corso di attività non considerata probabile causa di danno ambientale, secondo lo stato delle conoscenze esistenti al momento del verificarsi del danno.
Si osserva che il testo dello schema di decreto limita tuttavia la portata di tale esclusione (probabilmente per un refuso, in quanto la volontà retrostante sembrerebbe piuttosto quella di utilizzare a pieno la facoltà offerta dalla norma comunitaria) al solo “intervento preventivo”, sembrando quindi non ricomprendere gli interventi di ripristino.
Il comma 3 dello schema di decreto, invece, reca disposizioni che non sono riconducibili a nessuna disposizione del corrispondente articolo della direttiva e che appaiono anche estranee al contenuto proprio dell’articolo 308, in quanto riferite alla quantificazione del risarcimento per equivalente, che è materia trattata nel successivo Titolo III, e in particolare all’art. 311.
Si rileva pertanto l’opportunità di espungere il comma 3 dall’articolo 308 e riportarne il contenuto all’interno di un comma aggiuntivo dopo il comma 2 dell’articolo 311.
Infine, in merito al comma 7 dell’articolo 308, esso sembra avere lo scopo (a cui già si è fatto cenno nelle parti introduttive della presente scheda) di delimitare l’ambito di applicazione dello schema di decreto (analogamente a quanto accade nella direttiva), specificando che questo non comprende il cd “danno tradizionale”. Si tratta di una disposizione che si limita a chiarire che il danno a cose e persone è fuori dall’ambito di questa normativa (come lo è rispetto alle norme comunitarie della direttiva 2004/35/CE[174]). Sul punto, vedi anche l’art. 313, comma 7, ultimo periodo che fa comunque salvo il diritto dei soggetti danneggiati, nella salute o nella proprietà, di agire in giudizio nei confronti dello stesso soggetto responsabile.
Art. 309
(Richiesta di intervento statale)
L’articolo 309 affronta il tema - di grande rilievo sul piano sociale – della legittimazione ad intervenire o ad agire da parte di soggetti diversi dal Ministro dell’ambiente.
Come si è già riportato nella parte introduttiva, nel sistema vigente (art. 18, comma 3, della legge n. 349), l'azione di risarcimento del danno ambientale, anche se esercitata in sede penale, è promossa dallo Stato, nonché dagli enti territoriali sui quali incidano i beni oggetto del fatto lesivo. Ai sensi del comma 5 dello stesso art. 18, inoltre, le associazioni ambientali (di cui all'articolo 13 della legge 8 luglio 1986, n. 349), inoltre, possono intervenire nei giudizi per danno ambientale. Si deve poi ricordare che, con la legge n. 265 del 1999, è stata introdotta la possibilità per le associazioni di protezione ambientale di proporre le azioni risarcitorie di competenza del giudice ordinario che spettino al comune e alla provincia, conseguenti a danno ambientale. L'eventuale risarcimento è liquidato in favore dell'ente sostituito e le spese processuali sono liquidate in favore o a carico dell'associazione[175].
Il sistema previsto dallo schema di decreto è invece diverso in quanto prevede che i soggetti diversi dal Ministro dell’ambiente non possano agire in giudizio, ma – in merito ad ogni caso di danno ambientale o di minaccia imminente di danno - possano:
§ presentare denunce o osservazioni al Ministro dell’ambiente
§ chiedere l’intervento statale
I soggetti legittimati a questo genere di azione sono:
§ regioni, province autonome ed enti locali
§ persone fisiche o giuridiche che:
c) sono o potrebbero essere colpite dal danno
d) vantano un interesse legittimante (fra queste il comma 2 riconosce anche le associazioni ambientali riconosciute).
Il Ministro – tranne che nei casi di urgenza estrema (comma 4), è tenuto a valutare tali denunce e richieste di intervento e ad informare i soggetti che le hanno promosse in merito alle iniziative assunte (comma 3).
Dato questo cambiamento significativo rispetto alla normativa vigente, si segnala l’opportunità di un coordinamento normativo con l’articolo 9, comma 3, del decreto legislativo n. 267 del 2000, che – come si è detto - stabilisce che: “Le associazioni di protezione ambientale di cui all'articolo 13 della legge 8 luglio 1986, n. 349, possono proporre le azioni risarcitorie di competenza del giudice ordinario che spettino al comune e alla provincia, conseguenti a danno ambientale. L'eventuale risarcimento è liquidato in favore dell'ente sostituito e le spese processuali sono liquidate in favore o a carico dell'associazione”.
Analoga osservazione può farsi in merito al coordinamento normativo fra le disposizioni recate dall’articolo 309 e quelle recate dall’art. 17, comma 46, della legge 15 maggio 1997, n. 127, che stabilisce che: “Le associazioni di protezione ambientale a carattere nazionale, individuate dal decreto 20 febbraio 1987 del Ministro dell'ambiente, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 48 del 27 febbraio 1987, come modificato dal decreto 17 febbraio 1995 del Ministro dell'ambiente, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 98 del 28 aprile 1995, possono, nei casi previsti dall'articolo 18 della legge 8 luglio 1986, n. 349, impugnare davanti al giudice amministrativo gli atti di competenza delle regioni, delle province e dei comuni”.
Art. 310
(Ricorsi)
L’articolo 310 legittima i soggetti indicati nel comma 1 del precedente articolo 309, vale a dire le regioni, le province autonome, gli enti locali, anche associati, nonché le persone fisiche e giuridiche, ad agire, secondo i principi generali, per l’annullamento degli atti e provvedimenti adottati in violazione delle disposizioni di cui alla parte VI del decreto, nonché per il risarcimento del danno subito a causa del ritardo nell’attivazione, da parte del Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio, delle misure di precauzione, di prevenzione o di contenimento del danno ambientale.
Tale norma ha la finalità di recepire l’art. 13 della direttiva europea sul danno ambientale.
Si rileva in proposito che la direttiva reca però una nozione più estensiva di tale diritto ad agire da parte di altri soggetti interessati, in quanto tali soggetti sono legittimati “ad avviare procedimenti dinanzi a un tribunale, o qualsiasi altro organo pubblico indipendente e imparziale, ai fini del riesame della legittimità della procedura e del merito delle decisioni, degli atti o delle omissioni dell'autorità competente ai sensi della presente direttiva”.
Appare evidente che l’ipotesi delle omissioni da parte dell’autorità competente non viene invece contemplata dalla norma italiana, laddove una sua esplicitazione all’interno del comma 1 servirebbe anche a chiarire la portata normativa del comma successivo.
Si osserva, invece, che la direttiva comunitaria non prevede l’ipotesi della richiesta di risarcimento del danno subito a causa del ritardo nell’attivazione da parte del Ministro delle misure di prevenzione, precauzione o contenimento.
Va ricordato che, in sede di giurisdizione esclusiva, il giudice amministrativo conosce non soltanto degli interessi legittimi ma anche dei diritti soggettivi, rimanendo esclusa, in ordine a questi ultimi, la normale competenza dei giudici ordinari.
Mentre alcuni dei casi di giurisdizione esclusiva hanno origini remote, alla estensione, nella maggior parte dei casi elencati nell’articolo 29 del Testo unico 26 giugno 1924, n. 1054 - Testo unico C.d.S - (richiamato dall’articolo 7 della legge 1034/71, legge T.A.R.), il legislatore si risolse essenzialmente nell’intento di superare le gravi difficoltà determinate dal complesso intreccio di diritti ed interessi che solitamente ricorre nelle materie stesse.
Successivamente, diverse leggi (a cominciare dall’articolo 5 della legge T.A.R.) hanno ampliato l’area della giurisdizione esclusiva di competenza del giudice amministrativo. A titolo esemplificativo va ricordato che tutta la materia dei pubblici servizi, dell’urbanistica e dell’edilizia è stata devoluta alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo ad opera degli articoli 33 e e34 del D.lgs 80/98.
Tra l’altro è proprio l’articolo 35 del D.lgs 80/98 a stabilire che il giudice amministrativo, nelle nuove materie attribuite alla sua competenza esclusiva elencate nei due articoli precedenti, dispone, anche attraverso la reintegrazione specifica, il risarcimento del danno ingiusto.
Attraverso un intervento sull’articolo 7, comma 3, della legge 1034/71, la legge 21 luglio 2000, n. 205, che ha riformato la giustizia amministrativa, ha introdotto una disposizione analoga riferita alla competenza generale di legittimità, ampliando così la gamma di sentenze che possono essere emanate dal giudice amministrativo.
Il comma 2 dell’articolo in esame prevede che il ricorso al giudice amministrativo può essere preceduto da un’opposizione depositata od inviata tramite raccomandata al Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio, entro trenta giorni dalla notificazione, comunicazione o piena conoscenza dell’atto.
Nel caso di inerzia del Ministro viene sancita la proponibilità di un’analoga opposizione entro il medesimo termine di trenta giorni decorrente dalla scadenza del trentesimo giorno successivo all’effettuato deposito dell’opposizione presso il Ministero.
In riferimento a tale ultima ipotesi va rilevato che dal dettato normativo non appare chiaro se l’inerzia del Ministro sia da riferire alla pronuncia sull’opposizione o, più in generale, sia da riferire alla mancata adozione di un atto dovuto, qualificandosi in tal senso l’opposizione precedentemente presentata come una sorta di “messa in mora” dalla quale far decorrere il termine per la presentazione del ricorso amministrativo.
Il modello a cui sembrano riferirsi le disposizioni del comma 2, è quello dei ricorsi amministrativi (ricorso gerarchico e ricorso in opposizione), di cui agli articoli 1 e 7 del D.P.R. 24 novembre 1971, n. 1199 (Semplificazione dei procedimenti in materia di ricorsi amministrativi).
La previsione di tali ricorsi, essendo l’esperimento degli stessi “facoltativo”, non incide sul diritto alla tutela giurisdizionale nei confronti della pubblica amministrazione, di cui agli articoli 24 e 113 della Costituzione.
Il comma 3 dell’articolo prevede infatti che, qualora sia stata presentata l’opposizione, il ricorso al giudice amministrativo è proponibile nel termine di sessanta giorni decorrente dal ricevimento della decisione di rigetto dell’opposizione o dal trentunesimo giorno successivo alla presentazione dell’opposizione se il Ministro non si sia pronunciato.
Il rimedio de quo pertanto, rappresenta, come ogni ricorso amministrativo, un “mezzo giustiziale” di cui il singolo può servirsi nel tentativo di trovare una soluzione alla controversia nell’ambito della stessa amministrazione, senza far ricorso alla tutela giurisdizionale, con risparmio di tempi e di costi.
Viene inoltre espressamente fatta salva (comma 4) la facoltà dell’interessato di proporre ricorso straordinario al Presidente della Repubblica (cfr. artt. 8 e ss. del D.P.R. 1199/71, cit.), nell’ordinario termine di centoventi giorni dalla notificazione, comunicazione o piena conoscenza dell’atto o provvedimento che si ritenga illegittimo o lesivo.
Molto sinteticamente va ricordato che con il ricorso straordinario al capo dello Stato, qualemezzo alternativo al ricorso giurisdizionale, possono farsi valere soltanto motivi di legittimità, e che per lo stesso è stabilita una particolare procedura (artt. 10 e ss. D.P.R. 1199/71), che, oltre a far salvi i diritti dei controinteressati ad ottenere una pronuncia giurisdizionale, contempla l’espressione di un parere da parte del Consiglio di Stato.
Art. 311
(Azione risarcitoria in forma specifica e per equivalente patrimoniale)
Il Titolo III introduce una disciplina del risarcimento del danno ambientale fortemente innovativa rispetto al diritto (nazionale) vigente. Tale disciplina è basata su uno schema che prevede - in via alternativa, o anche in via ulteriore rispetto alla costituzione di parte civile nel processo penale da parte del Ministro dell’Ambiente[176] - l’emanazione di un’ordinanza-ingiunzione, cioè di un atto amministrativo per il risarcimento del danno.
Nelle sue linee generali, la disciplina prevede la doppia ipotesi del risarcimento in forma specifica o per equivalente patrimoniale. La scelta fra le due forme non rientra fra le facoltà del Ministro. Infatti la procedura è attivata da un’ordinanza del Ministro dell’ambiente con la quale si ingiunge al responsabile il risarcimento in forma specifica, attraverso il ripristino della situazione ambientale preesistente; solo ove tale forma di risarcimento non sia possibile, con la medesima o successiva ordinanza lo stesso Ministro ingiunge il pagamento di una somma pari al valore economico del danno accertato.
Preliminarmente si ricorda che già il codice civile (art. 2058) prevede espressamente – in via generale - che il danneggiato possa richiedere la reintegrazione in forma specifica, ma che tale richiesta sia ammissibile solo “qualora sia in tutto o in parte possibile”.
Inoltre, il secondo comma dell’art. 2058 specifica che “il giudice può disporre che il risarcimento avvenga solo per equivalente, se la reintegrazione in forma specifica risulta eccessivamente onerosa per il debitore”
Quanto al raffronto con la normativa oggi vigente, si riscontrano un elemento di continuità ed uno di forte discontinuità.
Il primo è rappresentato dallo schema ripristino dello stato dei luoghi / ipotesi (subordinata) del risarcimento per equivalente. Infatti, l’art. 18 della legge n. 349 dedica due regole specifiche al complesso problema della quantificazione del risarcimento: una norma che impone al giudice di disporre il ripristino dello stato dei luoghi nei casi in cui ciò sia possibile (comma 8); una disposizione che prevede, nel caso in cui non si possa procedere ad una precisa quantificazione del danno, una serie di criteri per pervenire alla sua valutazione equitativa: la gravità della colpa individuale, il costo necessario per il ripristino e il profitto economico conseguito dal trasgressore (comma 6).
L’elemento di discontinuità è invece dato dalla titolarità della quantificazione, che è – nella nuova normativa – il Ministro dell’ambiente, laddove – nella normativa vigente (art. 18) tale funzione è affidata all’organo giudiziario.
Si ricorda poi, ai fini di una lettura delle norme in esame, che occorre considerare che norme in gran parte sovrapposte a quelle contenute in questo Titolo sono inserite nel DDL finanziaria (AC 6177-A), e in particolare ai commi 313-316 e 318-319.
Il comma 1 dispone che l’azione del Ministro dell’ambiente attraverso ordinanza-ingiunzione è alternativa all’azione di risarcimento del danno.
Il comma 2 definisce i termini della responsabilità del soggetto passivo dell’azione amministrativa: tale responsabilità deve essere collegabile a dolo o colpa (fatto illecito, comportamento omissivo, violazione di legge o regolamento o provvedimento amministrativo, negligenza o imperizia)
Si osserva che – come già segnalato in precedenza - lo schema di decreto non distingue le fattispecie in cui il danno deriva da attività pericolose da quelle in cui il danno deriva da attività non pericolose. Tale distinzione è invece chiaramente operata dall’art. 3, par. 1, della direttiva e da tale distinzione derivano – come si è detto nella parte introduttiva - conseguenze dirette sul regime di responsabilità (responsabilità oggettiva per le attività pericolose e responsabilità per dolo o colpa per le altre attività).
Si osserva comunque che le norme di cui al comma 2 dell’art. 311 (che delineano un tipo di responsabilità generica, ma limitata al dolo o alla colpa) andrebbero coordinate con quelle recate dal Titolo II, che delineano un tipo di responsabilità specifico (cioè circoscritto agli “operatori”), ma oggettiva.
Art. 312
(Istruttoria per l’emanazione dell’ordinanza ministeriale)
L’articolo 312 disciplina i diversi passaggi ed aspetti dell’istruttoria per l’emanazione dell’ordinanza esecutiva con cui il Ministro dell’ambiente, accertato un fatto commissivo od omissivo che abbia causato un danno ambientale, ingiunge ai trasgressori il ripristino della situazione ambientale antecedente e ingiunge il pagamento della somma di cui al successivo articolo 313.
Vengono in primo luogo (comma1) richiamate le disposizioni di cui all’articolo 7 della legge 7 agosto 1990, n. 241, in tema di comunicazione dell’avvio del procedimento.
L’articolo 7 citato stabilisce che ove non sussistano ragioni di impedimento derivanti da particolari esigenze di celerità del procedimento, l'avvio del procedimento stesso è comunicato, con le modalità previste dall'articolo 8, ai soggetti nei confronti dei quali il provvedimento finale è destinato a produrre effetti diretti ed a quelli che per legge debbono intervenirvi. Ove parimenti non sussistano le ragioni di impedimento predette, qualora da un provvedimento possa derivare un pregiudizio a soggetti individuati o facilmente individuabili, diversi dai suoi diretti destinatari, l'amministrazione è tenuta a fornire loro, con le stesse modalità, notizia dell'inizio del procedimento.
Nelle ipotesi di cui al comma 1 resta salva la facoltà dell'amministrazione di adottare, anche prima della effettuazione delle comunicazioni di cui al medesimo comma 1, provvedimenti cautelari.
Per l’accertamento dei fatti, l’individuazione dei trasgressori, l’attuazione delle misure a tutela dell’ambiente e il risarcimento dei danni il Ministro può delegare il Prefetto competente per territorio ed avvalersi, anche mediante apposite convenzioni, della collaborazione delle Avvocature distrettuali dello Stato, del Corpo forestale dello Stato, dell’Arma dei carabinieri, della Polizia di Stato, della Guardia di Finanza e di altri soggetti pubblici con adeguata competenza (comma 2).
Per l’accertamento e la quantificazione del danno il Ministro potrà disporre una apposita consulenza tecnica svolta dagli uffici ministeriali o da liberi professionisti (comma 3).
I commi 4, 5 e 6 disciplinano l’accesso di propri incaricati nel sito interessato dal fatto dannoso, prevedendo, conformemente ai principi generali (artt. 244 e ss. c.p.p.), l’autorizzazione dell’autorità giudiziaria per l’accesso a luoghi di abitazione o di svolgimento di attività professionali, o per lo svolgimento di ispezioni o perquisizioni.
Di ogni accesso deve essere redatto un processo verbale completo sottoscritto dall’interessato o dal suo rappresentante oppure corredato dell’indicazione del motivo della mancata sottoscrizione (comma 7).
Vengono infine posti dei limiti al possibile sequestro dei documenti e delle scritture (comma 8).
Art. 313
(Ordinanza)
L’articolo 313 articola il nuovo quadro normativo imperniato sull’ordinanza-ingiunzione “immediatamente esecutiva”, emanata dal Ministro dell’ambiente.
Tale ordinanza non è a contenuto discrezionale, in quanto deve comunque ingiungere ai trasgressori il ripristino della situazione ambientale antecedente:il risarcimento per equivalente patrimoniale costituisce solo ipotesi subordinata e sottoposta a definite condizioni (vedi infra). Con la stessa ordinanza (ai sensi dell’ultimo periodo del comma 1) il Ministro ingiunge inoltre il pagamento di una somma pari al 10 per cento del danno accertato.
Si osserva che la norma non chiarisce a quale titolo tale somma debba essere pagata dal trasgressore.
Il comma 2 reca importanti chiarificazioni in merito al soggetto tenuto al pagamento, che non è solo il responsabile del fatto dannoso, ma – in solido - anche:
§ il soggetto nel cui effettivo interesse il comportamento fonte del danno è stato tenuto;
§ il soggetto che ne abbia obiettivamente tratto vantaggio
Si osserva che tali articolazioni in merito al soggetto passivo dell’ordinanza-ingiunzione sono venute meno nella nuova versione del comma 313 del DDL finanziaria.
Il comma 3 indica l’ipotesi subordinata del risarcimento del danno per equivalente patrimoniale quando il danno non sia risarcibile in forma specifica.
Si osserva che le norme in commento si limitano a indicare che tale seconda forma di risarcimento si ha “quando il danno non sia risarcibile in forma specifica”.
Il testo del comma 313 del DDL finanziaria dispone invece che il Ministro dell’ambiente potrà emettere l’ordinanza che ingiunge il pagamento ove si verifichi una delle seguenti ipotesi:
a) qualora il soggetto responsabile non provveda al ripristino nel termine indicato nella prima ordinanza (ordinanza di ripristino);
b) qualora il ripristino risulti in tutto o in parte impossibile;
c) qualora il ripristino risulti eccessivamente oneroso.
A tale proposito, la disposizione fa riferimento all’art. 2058 c.c. Si ricorda – in proposito – che ai sensi della norma del codice citata, in via generale, il danneggiato può richiedere la reintegrazione in forma specifica, ma tale richiesta è ammissibile solo “qualora sia in tutto o in parte possibile”. Inoltre, il secondo comma dell’art. 2058 specifica che “il giudice può disporre che il risarcimento avvenga solo per equivalente, se la reintegrazione in forma specifica risulta eccessivamente onerosa per il debitore”.
Il comma 4 reca disposizioni procedurali relative a:
§ la comunicazione dell’avvio dell’istruttoria, per la quale non sono definiti termini, ma che si intendono comunque compresi entro il termine generale di decadenza dell’azione (vedi infra)
§ l’emanazione dell’ordinanza: per la quale è previsto un termine di centottanta giorni decorrenti dall’emanazione della comunicazione di avvio dell’istruttoria;
§ il termine generale di decadenza dell’azione del Ministro che è di due anni dalla notizia del fatto, salvo quando sia già in corso il ripristino ambientale da parte del responsabile del danno. In tal caso il termine generale di decadenza decorre dalla data in cui si è verificata la sospensione ingiustificata dell’intervento di ripristino oppure dalla data di completamento di tali interventi che però siano accertati come inadeguati dal Ministro dell’ambiente con apposito atto.
Il comma 5 prende in considerazione l’ipotesi che altri trasgressori alla disciplina ambientale (oltre a coloro nei cui confronti è adottata l’ordinanza) siano individuati successivamente. In tal caso - se il diritto al risarcimento del danno non è prescritto - il Ministro, entro 5 anni dal giorno dell’avvenuto illecito, può adottare ulteriori provvedimenti nei loro confronti. Tuttavia, quando l’illecito ambientale non costituisca illecito amministrativo bensì integri una fattispecie di reato per il quale sia stabilito un termine di prescrizione più lungo, questo si applica anche all'azione civile di risarcimento; se il reato è, però, estinto per causa diversa dalla prescrizione o è intervenuta penale sentenza irrevocabile, il diritto al risarcimento del danno si prescrive comunque in 5 anni, decorrenti dalla data di estinzione del reato o da quella in cui la sentenza è divenuta irrevocabile (art. 2947 c.c.).
Il comma 6 precisa che, in caso di trasgressori-dipendenti pubblici, il Ministro anziché adottare l’ordinanza ingiunzione per il risarcimento patrimoniale per equivalente (cfr. comma 3) dovrà trasmettere il relativo rapporto alla Procura regionale presso la sezione giurisdizionale della Corte dei conti territorialmente competente.
La norma sembra investire direttamente la Corte dei Conti della competenza per quanto riguarda il danno ambientale provocato da dipendenti ed amministratori pubblici (art. 18/DPR 3/1957); non sembra, invece, possibile un riferimento alla competenza per l’azione di rivalsa ex art. 22 DPR 3/1957 in quanto non si tratta di danno subìto da privati (in tal caso, infatti, l’azione della P.A. è susseguente al risarcimento da parte della stessa amministrazione).
Al comma 7 sono introdotte disposizioni relative alla possibilità di un’azione concorrente in capo all’operatore. L’azione concorrente a cui tale disposizione fa riferimento non sembra essere quella del soggetto privato eventualmente danneggiato (infatti si specifica di seguito che resta fermo – in ogni caso - il diritto di tutti i soggetti danneggiati di agire nei confronti del responsabile con gli strumenti ordinari della giustizia civile e penale), ma piuttosto quella promossa da altra amministrazione pubblica. In tal caso, è escluso che si verifichi un aggravio di costi per l’operatore chiamato a rispondere dei danni. In sostanza, la norma sembra ribadire il carattere unificante, e riassuntivo dell’insieme degli interessi pubblici coinvolti, rivestito dall’azione promossa dal Ministro dell’ambiente.
Si osserva che disposizioni di identico contenuto sono rinvenibili al comma 313 del DDL finanziaria (AC 6177-A).
Art. 314
(Contenuto dell’ordinanza)
Il comma 1 specifica gli elementi che debbono necessariamente essere contenuti nell’ordinanza ministeriale di ingiunzione (fatto contestato, elementi qualificanti per l’individuazione e quantificazione del danno, fonti di prova).
Ai sensi del comma 2,l‘ordinanza fissa, poi, un termine (tra 2 mesi e 2 anni) per il ripristino ad opera del trasgressore dei luoghi oggetto della violazione e precisa i parametri di quantificazione del danno stesso.
La norma specifica che la fissazione del termine può avvenire anche in concordato con il trasgressore e rinvia, in proposito, all’art. 11 della legge n. 241 del 1990, norma di carattere generale che prevede che - in accoglimento di osservazioni e proposte presentate dai soggetti interessati - l'amministrazione procedente può concludere, senza pregiudizio dei diritti dei terzi, e in ogni caso nel perseguimento del pubblico interesse, accordi con gli interessati al fine di determinare il contenuto discrezionale del provvedimento finale ovvero in sostituzione di questo. Si ricorda che - a garanzia dell'imparzialità e del buon andamento dell'azione amministrativa - la norma stessa precisa (al comma 4 bis) che in tutti i casi in cui una pubblica amministrazione conclude accordi ai sensi dell’art. 11, la stipulazione dell'accordo è preceduta da una determinazione dell'organo che sarebbe competente per l'adozione del provvedimento.
Il comma 3 prevede che ove non sia “motivatamente possibile” l’esatta quantificazione del danno per equivalente patrimoniale, si presume – fino a prova contraria – di ammontare “non inferiore al triplo della somma corrispondente alla sanzione pecuniaria amministrativa, oppure alla sanzione penale, in concreto applicata”. La disposizione specifica poi che la pena detentiva – ai fini della quantificazione del danno – si calcola nella misura di quattrocento euro per ciascun giorno di pena detentiva.
Si ricorda che norme sulla valutazione in via equitativa, “anche con riguardo al profitto conseguito dal trasgressore in conseguenza del suo comportamento lesivo dell’ambiente” erano presenti nel comma 314 del DDL finanziaria (AC 1677), prima dell’esame in sede referente. Nella nuova formulazione del testo, come licenziato dalla Commissione Bilancio, tali disposizioni sono state soppresse.
Si ricorda che – secondo la normativa vigente (art. 18, comma 6 della legge n. 349 del 1986) nel caso in cui non possa procedere ad una precisa quantificazione del danno, il giudice ne determina l’ammontare in via equitativa tenendo conto dei seguenti criteri:
la gravità della colpa individuale;
il costo necessario per il ripristino;
il profitto economico conseguito dal trasgressore.
Obblighi di trasmissione al Ministero dell’ambiente di copia della sentenza di condanna penale o di applicazione della pena su richiesta ex art. 444 c.p.p. (cd. patteggiamento), sono stabiliti dal comma 4 (entro 5 g. dalla pubblicazione); analoghi obblighi di comunicazione al Ministero, ai fini dell’azione risarcitoria, riguardano le Regioni e gli altri enti locali in relazione alle sanzioni da esse irrogate (comma 5). Le ordinanze di richiesta di azione di prevenzione del danno (art. 304, comma 3) e quelle di ripristino o di risarcimento (art. 313) debbono indicare i mezzi di impugnazione ed i relativi termini (comma 6).
Art. 315
(Effetti dell’ordinanza sull’azione giudiziaria)
Il comma 1 dispone che il Ministro dell’ambiente che abbia adottato l’ordinanza non può proporre, né procedere ulteriormente nel giudizio per il risarcimento del danno ambientale, mentre resta comunque salva la possibilità dell’intervento in qualità di persona offesa dal reato nel giudizio penale.
Si ricorda che al comma 315 del DDL finanziaria per il 2006 è stata inserita una disposizione che esclude l’applicazione della nuova disciplina basata sull’ordinanza-ingiunzione del Ministro dell’ambiente alle procedure in corso, e che risulteranno ancora non concluse alla data del 28 febbraio 2006. La norma della finanziaria – nel definire un periodo transitorio – deve essere letta in connessione con il presente articolo in quanto volta ad evitare il sovrapporsi di discipline diverse.
Art. 316
(Ricorso avverso l’ordinanza)
All’articolo 316, si dispone in merito al diritto di ricorso avverso l’ordinanza-ingiunzione. Le norme recate dallo schema di decreto fissano in 60 gg. il termine per il ricorso al TAR competente per territorio avverso l’ordinanza di ripristino o di risarcimento per equivalente. Prima dell’azione in giudizio, il trasgressore può ricorrere in opposizione presso il Ministero dell’ambiente entro 30 gg. dalla comunicazione, notifica o piena conoscenza dell’atto ovvero proporre ricorso al Presidente della Repubblica entro 120 giorni decorrenti dagli stessi termini.
Si ricorda che disposizioni analoghe – con indicazione degli stessi termini per il ricorso - sono recate dal comma 316 del DDL finanziaria per l’anno 2006 (AC 6177-A).
Art. 317
(Riscossione dei crediti e fondo di rotazione)
Il comma 1 prevede che per la riscossione delle somme si applicano le disposizioni di cui al decreto legislativo n. 112 del 1999[177].
Si segnala che tale disposizione è stata inserita nel comma 314 del DDL finanziaria (AC 6177-A), in corso di esame.
Ai commi 2, 3 e 4 si inseriscono disposizioni di favore nei confronti del soggetto passivo che si trovi in condizioni economiche disagiate, al quale è consentito di pagare la somma dovuta in rate mensili (comunque di valore non inferiore a euro cinquemila ciascuna, e comunque non superiori al numero di venti). Il mancato adempimento di una sola rata comporta comunque l’obbligo di estinguere il rimanente debito in unica soluzione. Mentre in ogni momento è facoltà del soggetto passivo estinguere con un unico pagamento.
Il comma 5 (vedi comma 318 del DDL finanziaria) prevede che le somme derivanti dalla riscossione dei crediti, ivi comprese quelle derivanti dall’escussione di fidejussioni a favore dello Stato, assunte a garanzia del risarcimento, sono versate all’entrata del bilancio dello Stato, per essere riassegnate, con decreto del Ministro dell’economia e delle finanze, ad un fondo rotativo, istituito nello stato di previsione del Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio.
Il fondo così istituito è destinato a quattro finalità:
§ interventi urgenti (perimetrazione, caratterizzazione e messa in sicurezza[178]) con priorità nelle aree per le quali ha avuto luogo il risarcimento;
§ interventi di bonifica nelle aree per le quali ha avuto luogo il risarcimento;
§ interventi di bonifica nelle aree previste dal programma nazionale di bonifica (si ricorda che tali aree sono state individuate dal D.M. 18 settembre 2001, n. 468)
§ attività di ricerca nel settore delle riduzioni dei gas ad effetto serra.
Il comma 6 (vedi comma 319 del DDL finanziaria) rinvia a un successivo decreto ministeriale (di concerto fra il Ministro dell’ambiente e il Ministro dell’economia) per la disciplina delle modalità di funzionamento del fondo.
Si ricorda i commi 5 e 6 riproducono il contenuto dei commi 9-bis e 9-ter dell’articolo 18 della legge n. 349 del 1986[179], che aveva già istituito un fondo (nel quale confluivano le somme riscosse a titolo di risarcimento del danno ambientale liquidate allo Stato) con le stesse finalità qui previste. Il fondo rotativo introdotto con la legge n. 388 del 2000 è stato successivamente disciplinato dal DM 14 ottobre 2003 (vedi infra).
Non trova invece applicazione in questo articolo (ma a tale proposito si fa solo rinvio a un successivo DM. Vedi infra, commento all’art. 318, comma 3) l’art. 14, paragrafo 1, della direttiva che aveva previsto che gli Stati membri adottassero misure “per incoraggiare lo sviluppo, da parte di operatori economici e finanziari appropriati, di strumenti e mercati di garanzia finanziaria, compresi meccanismi finanziari in caso di insolvenza, per consentire agli operatori di usare garanzie finanziarie per assolvere alle responsabilità ad essi incombenti ai sensi della presente direttiva”.
Il fondo rotativo non sembra infatti perseguire le suddette finalità.
Art. 318
(Norme transitorie e finali)
Il comma 1 specifica che – nelle more dell’adozione del decreto di cui all’articolo precedente, continua ad applicarsi il decreto del Ministro dell’ambiente 14 ottobre 2003. Si ricorda che il DM citato reca Disciplina sulle modalità di funzionamento ed accesso al fondo di rotazione istituito ai sensi del comma 9-bis dell'art. 18 della legge 8 luglio 1986, n. 349
Il comma 2 abroga l’art. 18 della legge n. 349 del 1986.
Il comma 3 rinvia a un successivo decreto ministeriale per l’attuazione delle disposizioni di cui all’art. 14 della direttiva, relative alla creazione di sistemi di garanzia finanziaria che consentano agli operatori di far fronte alle spese in caso di responsabilità per danno ambientale.
Al comma 4 si disciplinano le ipotesi di danno ambientale esteso ad una pluralità di Stati membri. Il comma rappresenta un ricalco dell’art. 15 della direttiva 2004/35/CE, dedicato alla cooperazione fra gli Stati membri nell’ipotesi di danni transfrontalieri.
[1] Nella quale la condizione richiesta dal sesto comma dell’art. 117 Cost. sembrerebbe soddisfatta (per quanto le note sentenze della Corte costituzionale n. 407 del 2002, 536 del 2002, 222 del 2003 e 214 del 2005 abbiano fornito una serie di chiarimenti in merito a tale esclusività).
[2] E su cui i principali riferimenti di giurisprudenza costituzionale – successivamente all’entrata in vigore del nuovo Titolo V - sono le sentenze n. 307 del 2003, 362 del 2003 e 196 del 2004.
[3]Art. 6 della legge n. 349 del 1986, DPCM n. 377 del 1988 e DPCM 27 dicembre 1988.
[4] DPR 12 aprile 1996, in seguito modificato ed integrato dal DPCM 3 settembre 1999 e dal DPCM 1 settembre 2000.
[5] Artt. 14-14-quater della legge n. 241 del 1990, da ultimo modificati ed integrati dagli artt. 8-12 della legge n. 15 del 2005.
[6] Artt. 16 e segg. della legge n. 109 del 1994.
[7] Artt. 23-27-bis della legge n. 112 del 1998 e DPR n. 447 del 1998.
[8] Per la VIA è richiesta, invece, la predisposizione del SIA.
[9] Piani di settore a carattere nazionale.
[10] Vedi anche – per la VIA statale - l’art. 37, comma 5.
[11] DPCM 10 agosto 1988, n. 377 “Regolamentazione delle pronunce di compatibilità ambientale di cui all'art. 6 della legge 8 luglio 1986, n. 349, recante istituzione del Ministero dell'ambiente e norme in materia di danno ambientale” e DPCM 27 dicembre 1988 “Norme tecniche per la redazione degli studi di impatto ambientale e la formulazione del giudizio di compatibilità di cui all'art. 6, legge 8 luglio 1986, n. 349, adottate ai sensi dell'art. 3 del D.P.C.M. 10 agosto 1988, n. 377”.
[12] Per l’individuazione delle leggi regionali si rinvia all’art. 22 dello schema di decreto in esame.
[13] Ad eccezione dell’ultima previsione recata dalla lettera f) relativa all’accorpamento, in un unico provvedimento di autorizzazione, delle diverse autorizzazioni ambientali, nel caso di impianti non rientranti nel campo di applicazione della direttiva 96/61/CE del Consiglio, ma sottoposti a più di un'autorizzazione ambientale settoriale.
[14] La distinzione tra la nozione di “pubblico” e di “pubblico interessato” (ossia l’insieme dei soggetti direttamente lesi dalla realizzazione del progetto sottoposto a VIA) è stata introdotta, in attuazione della Convenzione di Aarhus del 1998, dalla direttiva 2003/35/CE.
[15] Basti pensare, per citare solo alcuni casi, alle dighe, la cui VIA è richiesta ai sensi dell’art. 2 della legge n. 9 del 1991, oppure agli interventi per Roma capitale, i cui progetti esecutivi devono essere corredati da VIA, ai sensi dell’art. 4, comma 1, della legge n. 396 del 1990 o, ancora, agli interventi per la realizzazione del sistema idroviario padano-veneto soggetti a VIA, ai sensi dell’art. 4, comma 6, della legge n. 380 del 1990.
[16] “Disposizioni integrative al D.P.C.M. 10 agosto 1988, n. 377 (2), in materia di disciplina delle pronunce di compatibilità ambientale, di cui alla legge 8 luglio 1986, n. 349, art. 6 “..
[17] “Regolamento recante disciplina dei procedimenti relativi alla autorizzazione alla costruzione e all'esercizio di impianti di produzione di energia elettrica che utilizzano fonti convenzionali, a norma dell'articolo 20, comma 8, della L. 15 marzo 1997, n. 59”.
[18] Il DPCM 27 dicembre 1988 prevede, per tutte le categorie di opere di cui all’ art. 1 del DPCM n. 377 del 1988, che la domanda di pronuncia sulla compatibilità ambientale presentata dal Committente, debba contenere lo SIA articolato secondo tre quadri di riferimento:
- programmatico: fornisce gli elementi conoscitivi sulle relazioni tra l'opera progettata e gli atti di pianificazione e programmazione territoriale e settoriale;
- progettuale: descrive il progetto e le soluzioni adottate a seguito degli studi effettuati, nonché l'inquadramento nel territorio, inteso come sito e come area vasta interessati;
- ambientale: sviluppato secondo criteri descrittivi, analitici e previsionali. Considera le componenti naturalistiche ed antropiche interessate (atmosfera, ambiente idrico, suolo e sottosuolo, vegetazione, flora e fauna, ecosistemi, rumore e vibrazioni, radiazioni ionizzanti e non ionizzanti, salute pubblica, paesaggio), le interazioni tra queste ed il sistema ambientale preso nella sua globalità.
[19]Si ricorda che il comma 5 dell’art. 18 della legge n. 67 del 1988 relativo alla composizione della Commissione VIA e è stato recentemente sostituito dall’art. 2 del decreto legge 14 novembre 2003, n. 315, convertito, con modificazioni dalla legge 16 gennaio 2004, n. 5.
[20] “Regolamentazione delle pronunce di compatibilità ambientale di cui all'art. 6 della legge 8 luglio 1986, n. 349 (2), recante istituzione del Ministero dell'ambiente e norme in materia di danno ambientale “.
[21] Decreto legge 7 febbraio 2002, n. 7, convertito con modificazioni dalla legge 9 aprile 2002, n. 55; decreto legge 18 febbraio 2003, n. 25, convertito con modificazioni dalla legge 17 aprile 2003, n. 83; legge 23 agosto 2004, n. 239 e decreto legislativo 27 dicembre 2004, n. 330.
[22] Artt. 14-14 quater della legge 7 agosto 1990, n. 241, da ultimo modificati ed integrati dagli artt. 9-14 della legge 24 novembre 2000, n. 340 e dagli artt. 8-12 della legge 11 febbraio 2005, n. 15.
[23] Artt. 16 e seguenti della legge 11 febbraio 1994, n. 109 e successive modifiche.
[24] Convertito, con modificazioni dalla legge 16 gennaio 2004, n. 5.
[25] Ai sensi dell’art. 30, per i progetti sottoposti a VIA è facoltà del proponente, prima dell'avvio del procedimento di VIA, richiedere alla competente direzione del MATT un parere in merito alle informazioni che devono essere contenute nello SIA (fase di scoping).
[26] Si segnala che al fine di approfondire la portata ed il significato della normativa vigente, l’Apat ha predisposto un rapporto tecnico recante “Dispositivi legislativi internazionali, comunitari e nazionali in materia di VIA. Quadro legislativo internazionale, comunitario e nazionale aggiornato al mese di giugno 2005” ed una raccolta della produzione giurisprudenziale più significativa. I due documenti sono disponibili nel sito internet dell’Apat al seguente indirizzo:
http://www.apat.gov.it/site/_files/RT_VIAnazionale_giugno2005.pdf e http://www.apat.gov.it/site/_files/VIAgiurisprudenzafinale.pdf
[27] L’art. 8, comma 2, dispone quindi che il proponente, contestualmente alla presentazione della domanda, debba a proprio carico (e in base alle misure di pubblicità minime definite dalle regioni e dalle province autonome di Trento e di Bolzano) provvedere al deposito, presso gli appositi uffici, del progetto dell’opera, dello studio d’impatto ambientale e della sintesi non tecnica (nonché, qualora occorresse la procedura di screening, di una copia di quanto a tal fine comunicato all’autorità competente) ed alla diffusione di un annuncio su un quotidiano provinciale o regionale (secondo quelle stesse indicazioni previste dalla Circolare del Ministero dell’ambiente 11 agosto 1989 in merito alla VIA statale). Alle regioni e alle province autonome è inoltre consentito di individuare ulteriori appropriate forme di pubblicità e di promuovere modalità semplificate per i progetti di dimensioni ridotte o di durata limitata realizzati da artigiani o da piccole imprese, nonché per le richieste di verifica di cui all’art. 10 (commi 3 e 4).
[28] Oltre all’anzidetto scopo principale di adeguamento alla normativa comunitaria, il DPCM 3 settembre 1999:
- ha attuato gli artt. 34 e 35 del D.lgs n. 112 del 1998 (che prevedono il trasferimento alle Regioni della competenza a compiere la VIA sui progetti di ricerca e di coltivazione di minerali solidi, idrocarburi e risorse geotermiche su terraferma);
- ha aggiornato le precedenti definizioni di talune tipologie di progetti in materia di rifiuti alle nuove classificazioni dettate dal D.lgs n. 22 del 1997 (attraverso la modifica delle originarie lettere da i) a o) dell’allegato A del DPR 12 aprile 1996 e quelle da r) a u) del punto 7 dell’allegato B. Va segnalata, peraltro, l’esclusione dalla procedura di VIA degli impianti di recupero sottoposti alle procedure semplificate di cui agli artt. 31 e 33 del D.lgs n. 22).
[29] L’art. 1 del DPCM 1 settembre 2000 ha infatti inserito nel punto 2 («Industria energetica ed estrattiva») dell’allegato B del DPR 12 aprile 1996 la lettera g) relativa alle «attività di ricerca di idrocarburi liquidi e gassosi in terraferma» che, aggiungendosi a quanto già previsto dalla lettera t) dell’allegato A relativamente alle attività di coltivazione degli idrocarburi e delle risorse geotermiche sulla in terraferma, ha in tal modo dato piena attuazione agli artt. 34 e 35 del D.lgs n. 112 del 1998.
[30] I dati sono stati tratti da un rapporto tecnico predisposto dall’APAT “La VIA a livello regionale. Quadro di riferimento normativo” (aggiornato al mese di marzo 2005) e da una analisi comparata del contenuto delle leggi regionali e provinciali sempre a cura dell’APAT (aggiornata al mese di novembre 2001), in cui sono analizzate le tipologie di opere previste nei singoli dispositivi legislativi. Il testo dei due documenti è disponibile nei seguenti siti internet: http://www.apat.gov.it/site/_files/Sviluppo_Sostenibile/VIARegionale_marzo2005.pdf e
[31] Decreto legge 7 febbraio 2002, n. 7, convertito con modificazioni dalla legge 9 aprile 2002, n. 55; decreto legge 18 febbraio 2003, n. 25, convertito con modificazioni dalla legge 17 aprile 2003, n. 83; legge 23 agosto 2004, n. 239 e decreto legislativo 27 dicembre 2004, n. 330.
[32] In questi casi gli Stati membri, ai sensi dello stesso art. 2, par. 3: a) esaminano se sia opportuna un'altra forma di valutazione; b) mettono a disposizione del pubblico coinvolto le informazioni raccolte con le altre forme di valutazione di cui alla lettera a), le informazioni relative alla decisione di esenzione e le ragioni per cui è stata concessa; c) informano la Commissione, prima del rilascio dell'autorizzazione, dei motivi che giustificano l'esenzione accordata e le forniscono le informazioni che mettono eventualmente a disposizione dei propri cittadini.
[33] Nella procedura di infrazione la Commissione ha rilevato:
a) che i due impianti erano stati autorizzati senza procedere alla VIA, ma anche senza rispettare le prescrizioni di cui all’articolo 2, comma 3, della direttiva comunitaria. Tali prescrizioni sono comunque obbligatorie ogni qual volta un singolo progetto, per motivi eccezionali, sia esentato dalla procedura di VIA;
b) un secondo rilievo riguardava però la stessa normativa italiana, ed in particolare l’articolo 1, comma 8, del D.P.R. 12 aprile 1996, ai sensi del quale “sono esclusi dalla procedura gli interventi disposti in via d'urgenza, ai sensi delle norme vigenti, sia per salvaguardare l'incolumità delle persone da un pericolo imminente, sia in seguito a calamità per le quali sia stato dichiarato lo stato d'emergenza ai sensi dell'art. 5 della legge 24 febbraio 1992, n. 225”. A parere della Commissione europea, invece, la direttiva sulla VIA non ammette che situazioni di emergenza o di pericolo giustifichino l’esenzione di singoli progetti dall’applicazione delle disposizioni in materia di VIA. Gli unici casi di esenzione ammessi sono infatti quelli definiti dall’articolo 1, par. 4 e 5 , della direttiva, mentre lo stato di emergenza non è incluso tra tali eccezioni.
[34] L’allegato V riproduce il contenuto dell’allegato C richiamato dal DPR 12 aprile 1996.
[35] Procedura 2003/2049
[36] Ai sensi dell’articolo 5, comma 2, della direttiva 85/337/CEE, gli Stati membri prendono le misure necessarie affinché le autorità competenti, se il committente lo richiede prima di presentare una domanda di autorizzazione, diano il loro parere sulle informazioni che il committente stesso deve fornire a norma del paragrafo 1. Prima di dare il loro parere le autorità competenti consultano il committente e le autorità. Il fatto che le autorità in questione abbiano dato il loro parere non osta a che richiedano successivamente al committente ulteriori informazioni.
[37] La domanda deve comunque descrivere: a) l'impianto, il tipo e la portata delle sue attività; b) le materie prime e ausiliarie, le sostanze e l'energia usate o prodotte dall'impianto; c) le fonti di emissione dell'impianto; d) lo stato del sito di ubicazione dell'impianto; e) il tipo e l'entità delle emissioni dell'impianto in ogni settore ambientale, nonché un'identificazione degli effetti significativi delle emissioni sull'ambiente; f) la tecnologia utilizzata e le altre tecniche in uso per prevenire le emissioni dall'impianto oppure per ridurle; g) le misure di prevenzione e di recupero dei rifiuti prodotti dall'impianto; h) le misure previste per controllare le emissioni nell'ambiente; i) le eventuali principali alternative prese in esame dal gestore, in forma sommaria; j) le altre misure previste per ottemperare ai principi di cui all'art. 3.
[38] Per «impatto transfrontaliero» deve intendersi ogni impatto, e non esclusivamente un impatto di natura mondiale, derivante, entro i limiti di una zona che dipende dalla giurisdizione di una Parte, da una attività prevista la cui origine fisica sia situata in tutto o in parte nella zona dipendente dalla giurisdizione di un'altra Parte.
[39] Si ricorda che tale ultima possibilità è contemplata anche all’art. 6, comma 9, della legge n. 349 del 1986.
[40] Si ricorda che, ai sensi dell’art. 1, comma 2, del decreto legge 7 febbraio 2002, n. 7, convertito con modificazioni dalla legge 9 aprile 2002, n. 55, ai soli fini del rilascio della VIA, per la costruzione e l’esercizio degli impianti di energia elettrica di potenza superiore a 300 Mw termici, si applicano le disposizioni relative alla VIA statale e, fino all’emanazione dello specifico decreto legislativo (n. 59 del 2005), tale autorizzazione integra e sostituisce, ad ogni effetto, singole autorizzazioni ambientali di competenza delle Amministrazioni interessate e degli enti pubblici territoriali. Inoltre, l’esito positivo della VIA costituisce parte integrante e condizione necessaria del procedimento autorizzatorio. L’istruttoria si conclude, quindi, una volta acquisita la VIA, in ogni caso entro il termine di 180 gg. dalla data di presentazione della richiesta, comprensiva del progetto preliminare e del SIA.
[41] Par. 5 dell’art. 7 della direttiva 85/337/CEE: “Le modalità dettagliate per l'attuazione del presente articolo possono essere stabilite dagli Stati membri interessati e sono tali da consentire al pubblico interessato nel territorio dello Stato membro coinvolto di partecipare in maniera efficace alle procedure decisionali in materia ambientale di cui all'articolo 2, paragrafo 2, per il progetto”.
[42] Il recepimento da parte degli Stati membri, previsto entro il 21 luglio 2004, era stato dapprima anticipato dallo Stato italiano al 26 marzo 2003 con la legge 1 marzo 2002 n. 39 (comunitaria 2001), e poi successivamente posticipato al 31 dicembre 2003 dall’art. 13-nonies del decreto legge 25 ottobre 2002, n. 236, ed infine al 30 ottobre 2004.
[43] In riferimento a quanto esposto, la Commissione europea ha pubblicato la seguente comunicazione IP/05/897 di seguito riportata: Bruxelles, 11 luglio 2005 “Valutazione strategica ambientale: la Commissione procede nei confronti di dodici Stati membri”. La Commissione europea ha inviato un ultimo avvertimento scritto (ultima fase prima del deferimento alla Corte di giustizia delle Comunità europee) a dodici Stati membri per non avere recepito nella normativa nazionale un atto legislativo dell'UE concernente la valutazione dell’impatto ambientale di un’ampia gamma di piani e programmi, tra cui i piani concernenti la pianificazione territoriale, la costruzione di strade e la gestione dei rifiuti. Le normative nazionali dovevano entrare in vigore entro il 21 luglio 2004. Gli Stati membri interessati sono l’Austria, il Belgio, Cipro, la Grecia, l’Italia, la Spagna, la Finlandia (unicamente la provincia di Åland), l’Italia, Lussemburgo, Malta, i Paesi Bassi, il Portogallo e la Slovacchia. La normativa comunitaria in questione – nota come la direttiva di “valutazione ambientale strategica” – mira a garantire che i responsabili politici nazionali valutino gli effetti sull’ambiente di piani e programmi prima di approvarli. In questo modo contribuisce ad una migliore gestione delle risorse naturali limitate e riduce la possibilità di danni ambientali. Le misure prese rientrano in una serie di decisioni adottate contro vari Stati membri per infrazioni in materia ambientale che la Commissione sta rendendo note”.
[44] L'applicazione della VAS avviene per tutti "i piani e i programmi che possono avere effetti significativi sull'ambiente e che sono elaborati per i settori agricolo, forestale, della pesca, energetico, industriale, dei trasporti, della gestione dei rifiuti e delle acque, delle telecomunicazioni, turistico, della pianificazione territoriale o della destinazione dei suoli, e che definiscono il quadro di riferimento per l'applicazione dei progetti elencati negli allegati I e II della direttiva 85/337/CEE, o per i quali, in considerazione dei possibili effetti sui siti, si ritiene necessaria una valutazione ai sensi degli art. 6 e 7 della direttiva 92/43/CEE" (art. 3.2). Inoltre, all'art. 3 (par. 3, 4, 5) gli Stati membri possono determinare altre tipologie di piani o programmi che possono avere effetti significativi sull'ambiente. L'art. 3.8 definisce anche gli ambiti di non applicazione.
[45] Il testo delle linee guida è stato pubblicato integralmente nel sito del Ministero dell’ambiente http://www.minambiente.it/Sito/settori_azione/via/vas/vas_riferimenti_normativi.asp
[46] L’Apat ha svolto, a questo proposito, una analisi di confronto regionale di detti atti normativi, attraverso specifici parametri di confronto, al fine di individuare gli elementi comuni e le discordanze nelle modalità di attuazione della direttiva comunitaria in assenza di un decreto nazionale. I dati, aggiornati al mese di settembre 2005, sono rinvenibili al sito internet http://www.apat.gov.it/site/_files/quadroRifLegislativo_VAS.pdf
[47] Le regioni indicate dal documento dell’Apat, sono: Veneto (legge regionale 23 aprile 2004, n. 11, art. 4), Friuli Venezia Giulia (legge regionale 6 maggio 2005, n. 11 e DGR 1961 del 3 agosto 2005) , Lazio (DGR 21 novembre 2002, n. 1516), Abruzzo (DGR 7 novembre 2003, n. 967), Campania (DGR 12 marzo 2004, n. 421) e Sicilia (Decreto Assessorato del territorio e ambiente 7 Luglio 2004 e 24 gennaio 2005).
[48] Per l’individuazione delle regioni con le relative leggi, si veda, in questo caso, la tabella n. 3 del documento citato dell’APAT
[49] Per l’individuazione delle regioni con le relative leggi, si veda, in questo caso, la tabella n. 2 del documento citato dell’APAT
[50] Pubblicato sulla G. U. serie speciale Corte Costituzionale del 10 agosto 2005.
[51] La modifica introdotta dall’art. 77, comma 2, della legge n. 289 del 2002, riducendo la citata soglia da 100 miliardi di lire (pari a 51.645.689,91 euro) a soli 5 milioni di euro avrebbe conseguentemente ampliato il numero di progetti per i quali era previsto il versamento dello 0,5 per mille del valore delle opere da realizzare.
[52] Vedi sentenza n. 85 del 1990. Ma vedi anche la sentenza n. 97 del 1992.
[54] Tale articolo dello schema di decreto in esame disciplina gli scarichi di acque reflue urbane in corpi idrici ricadenti in aree sensibili.
[55] La rubrica di questo articolo registra un'espressione finale "alla desertificazione", che non è presente nella rubrica dell'art. 20 D.lgs. n. 1999.
[56] Ossia lo spandimento di concimi chimici, fertilizzanti o pesticidi, salvo che l’impiego di tali sostanze sia effettuato sulla base delle indicazioni di uno specifico piano di utilizzazione che tenga conto della natura dei suoli, delle colture compatibili, delle tecniche agronomiche impiegate e della vulnerabilità delle risorse idriche.
[57] In attuazione di questa disposizione è stato emanato il D.M. 12 giugno 2003, n. 185, recante "Regolamento recante norme tecniche per il riutilizzo delle acque reflue in attuazione dell'articolo 26, comma 2, del D.lgs. 11 maggio 1999, n. 152".
[58] La norma vigente usa l'espressione "scaricano".
[59] Recante "Criteri, metodologie e norme tecniche generali di cui all'art. 2, lettere b), d) ed e), della L. 10 maggio 1976, n. 319, recante norme per la tutela delle acque dall'inquinamento"
[60] La normativa vigente assimila alle acque reflue domestiche le acque reflue provenienti da imprese dedite ad allevamento di bestiame che dispongono di almeno un ettaro di terreno agricolo funzionalmente connesso con le attività di allevamento e di coltivazione del fondo, per ogni 340 chilogrammi di azoto presente negli effluenti di allevamento prodotti in un anno da computare secondo le modalità di calcolo stabilite alla tabella 6 dell'allegato 5 del D.lgs. 1.
[61] Recante "Determinazione delle attività istruttorie per il rilascio dell'autorizzazione allo scarico in mare dei materiali derivanti da attività di prospezione, ricerca e coltivazione di giacimenti idrocarburi liquidi e gassosi".
[62] Il comma 1 dell'art. 34 del D.lgs. n. 152 prevede che le disposizioni relative agli scarichi di sostanze pericolose si applicano agli stabilimenti nei quali si svolgono attività che comportano la produzione, la trasformazione o l'utilizzazione delle sostanze di cui alle tabelle 3/A e 5 dell'allegato 5 e nei cui scarichi sia accertata la presenza di tali sostanze in quantità o concentrazioni superiori ai limiti di rilevabilità delle metodiche di rilevamento in essere all'entrata in vigore del presente decreto o degli aggiornamenti messi a punto ai sensi del punto 4 dell'allegato 5.
[63] Vedi articolo 173 dello schema di decreto in commento.
[64] Più precisamente l’art. 159, comma 1, prevede che il Comitato assuma la denominazione di Autorità di vigilanza sulle risorse idriche e sui rifiuti, in cui confluisce anche l’Osservatorio nazionale sui rifiuti. L’art. 207, comma 2, dispone quindi che l’Autorità, “oltre alle attribuzioni individuate dal presente articolo, subentra in tutte le altre competenze già assegnate dall’articolo 26 del decreto legislativo 5 febbraio 1997, n. 22 all’Osservatorio nazionale sui rifiuti, il quale continua ad operare sino all’entrata in vigore del regolamento” che, ai sensi del comma 4 dell’articolo 159 del presente decreto, dovrà disciplinare l’organizzazione e il funzionamento, anche contabile, dell’Autorità stessa. Per tale regolamento, ai sensi del citato comma 4, è prevista l’adozione con delibera del Consiglio dell’Autorità e l’emanazione con DPCM ai sensi dell’art. 17, comma 3, della legge n. 400/1988.
[65] Federambiente, ANCI, Legacoop, Regioni.
[66] Legacoop, audizione del 13 dicembre 2005.
[67] Per ulteriori approfondimenti si rinvia al sito internet dell’Autorità regionale dell’Emilia Romagna per la vigilanza dei servizi idrici e di gestione dei rifiuti urbani all’indirizzo http://www.ermesambiente.it/autoridrsu/index.htm.
[68] Recante "Norme concernenti l'attività di acquacoltura"
[69] Recante "Norme per il riassetto organizzativo e funzionale della difesa del suolo"
[70] Legge 24 dicembre 2003, n. 350, Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2004).
[71] Il comma 15-bis recita: “Nel caso in cui le disposizioni previste per i singoli settori non stabiliscano un congruo periodo di transizione, ai fini dell'attuazione delle disposizioni previste nel presente articolo, le concessioni rilasciate con procedure diverse dall'evidenza pubblica cessano comunque entro e non oltre la data del 31 dicembre 2006, senza necessità di apposita deliberazione dell'ente affidante. Sono escluse dalla cessazione le concessioni affidate a società a capitale misto pubblico privato nelle quali il socio privato sia stato scelto mediante procedure ad evidenza pubblica che abbiano dato garanzia di rispetto delle norme interne e comunitarie in materia di concorrenza, nonché quelle affidate a società a capitale interamente pubblico a condizione che gli enti pubblici titolari del capitale sociale esercitino sulla società un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi e che la società realizzi la parte più importante della propria attività con l'ente o gli enti pubblici che la controllano. Sono altresì escluse dalla cessazione le concessioni affidate alla data del 1º ottobre 2003 a società già quotate in borsa e a quelle da esse direttamente partecipate a tale data a condizione che siano concessionarie esclusive del servizio, nonché a società originariamente a capitale interamente pubblico che entro la stessa data abbiano provveduto a collocare sul mercato quote di capitale attraverso procedure ad evidenza pubblica, ma, in entrambe le ipotesi indicate, le concessioni cessano comunque allo spirare del termine equivalente a quello della durata media delle concessioni aggiudicate nello stesso settore a seguito di procedure di evidenza pubblica, salva la possibilità di determinare caso per caso la cessazione in una data successiva qualora la stessa risulti proporzionata ai tempi di recupero di particolari investimenti effettuati da parte del gestore”.
[72] Il disegno di legge AS 4064 è stato approvato dal Senato e trasmesso alla Camera (in data 5 agosto 1999) che lo ha esaminato in sede referente (VIII Commissione), dall’ottobre 1999 all’ottobre 2000.
[73] L’esempio più significativo è probabilmente offerto dalla regione Veneto (legge n. 3 del 2000, come modificata dalla legge n. 22 del 2004), dove alla gestione dei rifiuti urbani e assimilati i comuni provvedono attraverso l’Autorità d’ambito. La consultazione fra gli enti locali avviene attraverso la “Conferenza d’ambito”.
Ma, vedi anche l’esperienza della Liguria (legge n. 18 del 1999, modificata dalla legge n. 8 del 2002).
[74] Si ricorda che il “decreto Ronchi” – ai primi tre commi dell’articolo 23 – prevede che “1. Salvo diversa disposizione stabilita con legge regionale, gli ambiti territoriali ottimali per la gestione dei rifiuti urbani sono le Province. In tali ambiti territoriali ottimali le Province assicurano una gestione unitaria dei rifiuti urbani e predispongono piani di gestione dei rifiuti, sentiti i Comuni, in applicazione degli indirizzi e delle prescrizioni del presente decreto.
2. Per esigenze tecniche o di efficienza nella gestione dei rifiuti urbani, le Province possono autorizzare gestioni anche a livello subprovinciale purché, anche in tali ambiti territoriali sia superata la frammentazione della gestione.
3. I comuni di ciascun àmbito territoriale ottimale di cui al comma 1, entro il termine perentorio di sei mesi dalla delimitazione dell'àmbito medesimo, organizzano la gestione dei rifiuti urbani secondo criteri di efficienza, di efficacia e di economicità”.
Tuttavia tali norme non hanno trovato applicazione su tutto il territorio nazionale, in quanto non tutte le regioni hanno organizzato il servizio sulla base di ambiti territoriali ottimali.
[75] La cui formazione è anche incoraggiata dal comma 8 dell’art. 113.
[76] Gli articoli 221, 223 e 224 riproduco l’impianto normativo recato dagli articoli 38, 40 e 41 del decreto Ronchi in materia di consorzi per i rifiuti di imballaggi. Gli articoli 233 e 234 fanno lo stesso con gli articoli 47 e 48 del decreto Ronchi relativi al Consorzio nazionale di raccolta e trattamento degli oli e dei grassi vegetali ed animali esausti e al Consorzio per il riciclaggio dei rifiuti di beni in polietilene. Gli articoli 235 e 236 riproducono in buona parte, rispettivamente, l’art. 9-quinquies del D.L. n. 397 del 1988 con cui è stato istituito il Consorzio obbligatorio batterie al piombo esauste e rifiuti piombosi e l’art. 11 (Consorzio obbligatorio degli oli usati) del decreto legislativo 27 gennaio 1992, n. 95
[77] Per ulteriori approfondimenti si vedano pag. 2 e 10 di F. Rolle, I consorzi obbligatori per il riciclaggio dei rifiuti, in Ambiente, consulenza e pratica per l’impresa n. 12/2002.
[78] Per i consorzi previsti dal decreto Ronchi tale assenza di finalità di lucro non è sempre esplicitata, per questo motivo lo schema di decreto in esame provvede, invece, a specificarla chiaramente.
[79] I consorzi cd. di filiera non hanno natura prettamente obbligatoria, tuttavia spesso in dottrina si evidenzia che “ciò non toglie che la loro disciplina e i loro statuti siano per molti versi simili a quelli degli altri consorzi in esame, anche in virtù della loro diretta derivazione dai consorzi per il riciclaggio dei contenitori per liquidi previsti dal previgente D.L. n. 397/1988 (art. 9-quater) ed aventi carattere obbligatorio” (F. Rolle, I consorzi obbligatori per il riciclaggio dei rifiuti, in Ambiente, consulenza e pratica per l’impresa n. 12/2002).
[80] Tali D.M. sono stati pubblicati nella G.U. 12 agosto 1998 – S.O. n. 136.
[81] L’art. 54 del D.lgs. n. 22/97 prevede, tra l’altro, per i produttori e gli utilizzatori che non adempiono all'obbligo di partecipazione, una sanzione pari a sei volte le somme dovute per l'adesione al CONAI, fatto comunque salvo l'obbligo di corrispondere i contributi pregressi.
[82] Ai sensi dell’art. 35 del decreto Ronchi, per produttori si intendono “i fornitori di materiali di imballaggio, i fabbricanti, i trasformatori e gli importatori di imballaggi vuoti e di materiali di imballaggio” (comma 1, lettera q), mentre per utilizzatori “i commercianti, i distributori, gli addetti al riempimento, gli utenti di imballaggi e gli importatori di imballaggi pieni” (comma 1, lettera r). Tali definizioni rimangono invariate nell’art. 218 del presente decreto.
[83] Si tratta principalmente di oli usati dei motori, dei sistemi di trasmissione, degli oli per macchinari, turbine, comandi idraulici e quelli contenuti nei filtri usati.
[84] Si tratta dell’acido contenuto nelle batterie dei veicoli, che rappresentano la parte preponderante della raccolta COBAT.
[85] Si tratta tipicamente dell'olio usato per la frittura da ristoranti, pasticcerie, mense e industrie alimentari.
[86] Nel caso del POLIECO ciò ha portato il legislatore a differire i termini per l’adesione al consorzio e per l’applicazione delle sanzioni.
[87] www.agcm.it/agcm_ita/DSAP/DSAP_IC.NSF/0/f893f8bc57ffb0d2c1256fe1003bce01?OpenDocument
[88] P. Ficco e M. Santoloci, Il futuro della legislazione ambientale nelle previsioni del Ministero dell’ambiente. Alcune riflessioni sullo schema di D.lgs. sui rifiuti, in http://www.reteambiente.it/ra/normativa/rifiuti/8495_Legge308_04_comm.htm
[89] P. Ficco e M. Santoloci.
[90] Audizione del 14 dicembre 2005 innanzi alle Commissioni riunite di Camera (VIII) e Senato (13a).
[91] Si ricorda che le definizioni di produttori e utilizzatori recate dall’art. 218, comma 1, lettere r) ed s), riproducono esattamente quelle previste dalle lettere q) ed r) dell’art. 35, comma 1, del decreto Ronchi.
[92] Consultabile all’indirizzo internet http://www.conai.org/hpmdoc.asp?IdDoc=558
[93] Si ricorda che l’accordo di programma quadro tra ANCI e CONAI stipulato in data 8 luglio 1999 per la raccolta ed il recupero dei rifiuti di imballaggio, in attuazione delle previsioni dell’art. 41, comma 3, del decreto Ronchi, è stato recentemente sostituito da un nuovo accordo, siglato in data 14 dicembre 2004, valido fino al 2008 e comprensivo di appositi allegati tecnici per filiera di materiale, sottoscritti dai relativi consorzi (acciaio, alluminio, carta, legno e plastica, con esclusione del vetro), che su tale base organizzano le proprie attività. Secondo il Programma generale di prevenzione e gestione degli imballaggi e dei rifiuti di imballaggio per l’anno 2003 (pagina 5) del CONAI “Le convenzioni stipulate con i Comuni, nel quadro dell’accordo ANCI-CONAI, coprono ormai oltre i due terzi della popolazione nazionale ed hanno prodotto una crescita del 116% dei rifiuti recuperati, provenienti dalla raccolta pubblica”.
[94] La Commissione Europea ha fondato nel 1996, nell’ambito del Programma Ambiente e Clima, una azione concertata sull’analisi di rischio dei siti contaminati (CARACAS 1996-1998) coordinata dalla Umweltbundesamt (Agenzia per l’Ambiente) Tedesca. Tra i risultati principali di CARACAS vi è stata la pubblicazione di due volumi. Il primo (Ferguson et al. 1998) tratta le basi scientifiche dell’analisi di rischio. Il secondo (Ferguson & Kasamas 1999) fornisce una revisione autorevole e dettagliata degli aspetti normativi ed operativi nei 16 paesi Europei che hanno contribuito al programma CARACAS: Austria, Belgio, Danimarca, Finlandia, Francia, Germania, Grecia, Irlanda, Italia, Paesi Bassi, Norvegia, Portogallo, Regno Unito, Spagna, Svezia, Svizzera.
Si rinvia, in proposito, all’articolo F.F.Quercia, L’analisi di rischio dei siti contaminati: normative ed iniziative in 16 paesi europei, in: CD allegato al dossier del Servizio Studi della Camera dei deputati La bonifica dei siti inquinati (febbraio 2003)
[95] Tale criterio viene comunemente indicato come “analisi assoluta di rischio”, per distinguerlo da quello denominato “analisi relativa di rischio”, che viene utilizzato non tanto per la valutazione del suolo, quanto per la definizione di una lista di priorità all’interno di una serie di siti che richiedono un intervento di bonifica.
[96] L’analisi assoluta di rischio come strumento di gestione dei siti contaminati risale alla fine degli anni ’80 quando, nell’ambito dei programmi “Superfund”, l’U.S. EPA propose un primo tentativo di standardizzazione. In seguito numerosi organismi internazionali (ASTM, CONCAWE, UNICHIM) hanno proposto procedure standard, che si sono diffuse in numerosi Paesi.
[97] Tali documenti, riuniti sotto l’unico titolo "Criteri metodologici per l'applicazione dell'analisi assoluta di rischio ai siti contaminati e alle discariche" è consultabile sul sito internet dell’APAT all’indirizzo http://www.apat.gov.it/site/it-IT/APAT/Pubblicazioni/Altra_Documentazione.html.
[98] Si noti che l’art. 268 non esaurisce il novero delle definizioni previste dal decreto. P. es. per i grandi impianti di combustione l’Allegato II, Parte I, paragrafo 1, riproduce diverse definizioni recate dalla direttiva 2001/80/CE.
[99] Nel caso degli impianti termici una parte della normativa non viene considerata ai fini del processo di riorganizzazione previsto dalla delega e quindi rimane vigente. A tale normativa, come accade ad es. per il DPR n. 412/1993, viene comunque richiamata per esigenze di coordinamento.
[100] Si tratta, ai sensi dell’art. 282, degli impianti termici civili aventi potenza termica nominale superiore alle pertinenti soglie stabilite dall’art. 269, comma 14, nonché degli impianti termici civili che utilizzano carbone da vapore, coke metallurgico, coke da gas, antracite, prodotti antracitosi o miscele di antracite e prodotti antracitosi, aventi potenza termica nominale superiore a 3 MW.
[101] Dizione utilizzata nel DPR 25 luglio 1991.
[102] Si veda in proposito sia il DPCM 21 luglio 1989 (punti 3 e 4) sia il DPR 25 luglio 1991 (art. 3).
[103] Si veda in proposito il DPCM 21 luglio 1989 (punto 2).
[104] Cfr. Allegato 1, punto 23), del DPR 25 luglio 1991.
[105] A titolo di esempio si veda la sentenza n. 9361 del 28 febbraio 2003 della Corte di cassazione - Sez. III Penale.
[106] Fonte: sito internet http://www.1sportello.net/servizi/emis_inquin.html dello Sportello Unico per le attività produttive presso la Camera di commercio di Milano.
[107] Nota del 28 novembre 2005.
[108] Nel caso invece le dimensioni siano rilevanti, la normativa vigente prevede l’applicazione del DM n. 44/2004 in materia di COV.
[109] Si riporta la massima della sentenza: “In materia di inquinamento atmosferico, l'attività di verniciatura di autoveicoli è disciplinata dal DPR 24 maggio 1988 n. 203, in quanto non rientra né tra le attività a ridotto inquinamento atmosferico previste dal punto 19 del DPCM 21 luglio 1989 né tra le attività i cui impianti provocano inquinamento atmosferico poco significativo, previste dal punto 25 dello stesso DPCM, come modificato dal DPR 25 luglio 1991, che estendendo l'ambito di applicabilità del citato DPR n. 203 agli impianti di imprese artigiane e di servizi ha introdotto tali categorie, per le quali vengono introdotte procedure diversificate rispetto al disposto del DPR n. 203 del 1988”.
[110] Si fa notare che la lettera d) riproduce il dettato dell’art. 12, comma 8, del D.lgs. n. 387/2003, mentre la lettera i) riproduce il contenuto del punto 3) del DPCM 21 luglio 1989. Un’altra esclusione si trova poi al comma 16 che ripropone, nella sostanza, il punto 4) del citato DPCM 21 luglio 1989.
[111] Si segnala che quanto alle formule di correzione e alle altre disposizioni tecniche riportate nei commi 11, 12 e 13, che esse riproducono esattamente i commi 2, 3 e 5 dell’art. 3 del DM 12 luglio 1990.
[112] Tale affermazione non è del tutto vera. Si può senz’altro dire che in linea di massima nell’allegato I sono indicati limiti relativi alle emissioni convogliate, tuttavia nel comma 6 dell’art. 271 si fa rinvio all’Allegato I anche con riferimento alle emissioni diffuse.
[113] La lettera a) affida la competenza alle regioni per la formulazione di “piani di rilevamento, prevenzione, conservazione e risanamento del proprio territorio, nel rispetto dei valori limite di qualità dell'aria”.
[114] Si ricorda, inoltre, che l’art. 281, comma 10, in presenza di particolari situazioni di rischio sanitario o di zone che richiedano una particolare tutela ambientale, prevede che per le regioni e le province autonome vi sia la possibilità di stabilire, con provvedimento generale, previa intesa con il Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e con il Ministro della salute, per quanto di competenza, valori limite di emissione e prescrizioni, anche inerenti le condizioni di costruzione o di esercizio degli impianti, più severi di quelli fissati dagli allegati al presente titolo, purché ciò risulti necessario al conseguimento dei valori limite e dei valori bersaglio di qualità dell’aria”.
[115] Si ricorda che tali impianti sono (ai sensi dell’art. 268, lettera i) del comma 1) quelli che, alla data del 1° luglio 1988 (entrata in vigore del DPR n. 203/1988), erano in esercizio o costruiti in tutte le loro parti o autorizzati ai sensi della normativa previgente.
[116] Si tratta degli impianti di combustione, ubicati all'interno di impianti di smaltimento dei rifiuti, alimentati da gas di discarica, gas residuati dai processi di depurazione e biogas, di potenza termica nominale non superiore a 3 MW, se l’attività di recupero è soggetta alle procedure autorizzative semplificate previste dalla parte quarta del presente decreto e tali procedure sono state espletate.
[117] Si ricorda che tali impianti sono (ai sensi dell’art. 268, lettera j) del comma 1) quelli che non ricadono nella definizione di cui alla lettera i) e che, alla data di entrata in vigore della parte quinta del presente decreto, sono autorizzati ai sensi del DPR 24 maggio 1988, n. 203, purché in funzione o messi in funzione entro i successivi ventiquattro mesi.
[118] Nota consegnata all’VIII Commissione (Ambiente).
[119] Si ricorda, infatti, che l’Allegato I riproduce i parametri fissati dal DM 12 luglio 1990.
[120] Si ricorda in proposito che il citato DM 8 maggio 1989 ha consentito di recepire nell’ordinamento nazionale la direttiva 88/609/CEE di cui la citata direttiva 2001/80/CE costituisce un aggiornamento.
[121] Nota consegnata all’VIII Commissione (Ambiente).
[122] A titolo di esempio le definizioni riportate all’inizio della Parte I dell’Allegato III sono tratte dall’art. 2 del DM n. 44/2004, così come le altre disposizioni della Parte I provengono dagli artt. 3, 4 e 5 del medesimo DM.
[123] Tali disposizioni vengono integrate con quelle pertinenti recate dal DM n. 76 del 1999 e dall’art. 4 della legge n. 413 del 1997.
[124] Si vedano, in particolare, l’art. 10 e gli artt. 24 e 25 del citato DPR n. 203.
[125] Si rinvia in proposito alla tabella esposta nell’introduzione al commento relativo alla parte quinta in esame.
[126] Un esempio si trova all’articolo 273, comma 4, che fa salvi fino al 1° gennaio 2008 i limiti di emissione stabiliti per i grandi impianti di combustione dal DM 12 luglio ’90.
[127] Tale commissione è stata istituita con il DM 19 novembre 2002, mentre i relativi membri sono stati nominati con il successivo DM 15 aprile 2003. Si rammenta altresì che con il DM 31 gennaio 2005 sono state emanate le linee guida per l'individuazione e l'utilizzazione delle migliori tecniche disponibili relative a diversi settori di attività.
[128] Nota consegnata all’VIII Commissione (Ambiente).
[129] Ai sensi dell’art. 2, comma 1, lettera i) del medesimo decreto n. 59 l’autorità competente è “il Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio per tutti gli impianti esistenti e nuovi di competenza statale indicati nell'allegato V o, per gli altri impianti, l'autorità individuata, tenendo conto dell'esigenza di definire un unico procedimento per il rilascio dell'autorizzazione integrata ambientale, dalla regione o dalla provincia autonoma”.
[130] Nota del 28 novembre 2005.
[131] Recante “Disciplina delle caratteristiche merceologiche dei combustibili aventi rilevanza ai fini dell'inquinamento atmosferico, nonché delle caratteristiche tecnologiche degli impianti di combustione”. Si ricorda che l’art. 297 prevede l’abrogazione di tale decreto, le cui norme vengono trasposte nel titolo III.
[132] 860 Kcal/h equivalgono a 1 KW.
[133] In realtà questo controllo viene previsto solamente a regime (la norma prevede infatti che decorra dal termine di 180 giorni dall’entrata in vigore del presente decreto).
[134] Tale disposizione riproduce il dettato dell’art. 6, comma 3, del DPCM 8 marzo 2002.
[135] Per un’analisi comparativa dettagliata degli articoli in commento e delle corrispondenti disposizioni recate dalle norme vigenti si rinvia alla tabella esposta nell’introduzione al commento relativo alla parte quinta in esame.
[136] Si rinvia in proposito alla tabella esposta nell’introduzione al commento relativo alla parte quinta in esame.
[137] Si ricorda in proposito che il citato DM 8 maggio 1989 ha consentito di recepire nell’ordinamento nazionale la direttiva 88/609/CEE di cui la citata direttiva 2001/80/CE costituisce un aggiornamento.
[138] A titolo di esempio le definizioni riportate all’inizio della Parte I dell’Allegato III sono tratte dall’art. 2 del DM n. 44/2004, così come le altre disposizioni della Parte I provengono dagli artt. 3, 4 e 5 del medesimo DM.
[139] Tali disposizioni vengono integrate con quelle pertinenti recate dal DM n. 76 del 1999 e dall’art. 4 della legge n. 413 del 1997.
[140] Ulteriori commenti sulle disposizioni di tale allegato si trovano nel commento dell’art. 282.
[141] Ai sensi del primo comma dell’art. 844 c.c. “il proprietario di un fondo non può impedire le immissioni di fumo o di calore, le esalazioni, i rumori, gli scuotimenti e simili propagazioni derivanti dal fondo del vicino, se non superano la normale tollerabilità, avuto anche riguardo alla condizione dei luoghi”. Il secondo comma specifica la regola generale contenuta nel primo prevedendo che "nell'applicare questa norma l'autorità giudiziaria deve contemperare le esigenze della produzione con le ragioni della proprietà. Può tener conto della priorità di un determinato uso”. La giurisprudenza in materia ha assunto – nell’ultimo trentennio – un carattere fortemente evolutivo.
[142] L'art. 2043 cod. civ. rappresenta invece la norma generale sul risarcimento del danno da fatto illecito. Tale norma è in vario modo coniugabile con l'art. 844 cod. civ.
[143] E’ utile ricordare che il concetto di danno ambientale non era comunque del tutto sconosciuto al nostro sistema giuridico al tempo dell’entrata in vigore della legge istitutiva del Ministero dell’Ambiente: sin dagli anni ’70 il giudice contabile aveva ricondotto il danno ambientale alla nozione di danno erariale, con conseguente competenza decisoria della Corte dei Conti stessa.
[144] Quali proprietà e salute.
[145] Ai sensi del successivo comma 3 dello stesso articolo, l’azione per il risarcimento del danno , anche se esercitata in sede penale, è promossa dallo Stato e dagli enti territoriali sui quali incidono i beni oggetto del fatto lesivo, mentre la risarcibilità del danno è riconosciuta solo a favore dello Stato.
Si deve ricordare, in proposito, che – con modifica alla legge n. 142 del 1990 – la legge n. 265 del 1999 ha introdotto una importante novità in materia di legittimazione ad agire, stabilendo che le associazioni di protezione ambientale (di cui all'articolo 13 della legge 8 luglio 1986, n. 349) possono proporre le azioni risarcitorie di competenza del giudice ordinario che spettino al comune e alla provincia, conseguenti a danno ambientale. L'eventuale risarcimento è liquidato in favore dell'ente sostituito e le spese processuali sono liquidate in favore o a carico dell'associazione.
Le norme appena citate sono ora comprese nell’art. 9 del TU delle leggi sull’ordinamento degli enti locali, di cui al decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267.
[146] Ai sensi del comma 7, “ nei casi di concorso nello stesso evento di danno, ciascuno risponde nei limiti della più propria responsabilità individuale”.
[147] Il comma 6 stabilisce, inoltre, che il giudice, ove non sia possibile una precisa quantificazione del danno, ne determina l'ammontare in via equitativa, tenendo comunque conto della gravità della colpa individuale, del costo necessario per il ripristino e del profitto conseguito dal trasgressore in conseguenza del suo comportamento lesivo dei beni ambientali.
[148] In particolare, legge Regione Toscana n. 29 del 12 maggio 1993 e LEGGE REGIONE Emilia Romagna n. 29 del 12 luglio 1994.
[149] 2 marzo 1997.
[150] E’ questa l’ipotesi – ad esempio – di utilizzo di aree industriali dismesse per destinazioni residenziali o di servizi. E' sufficiente considerare le dimensioni dei fenomeni di riconversione industriale avviati nell'ultimo trentennio e il connesso, crescente rilievo assunto (in campo urbanistico) dalle tematiche relative al recupero delle aree industriali dismesse per valutare l'incisività e le implicazioni economiche delle norme in esame.
[151] Anche laddove (USA) è consentito al soggetto attivo di intraprendere in prima istanza un’azione contro il proprietario incolpevole, a questi è concesso comunque di provare che l’inquinamento è dovuto a fatto estraneo alla propria attività e quindi sottrarsi agli obblighi di bonifica.
[152] Ma tutta la procedura prevista dall’articolo 17 – e quindi dal DM attuativo, il n. 471 del 1999 – si basa sulla attribuzione di poteri amministrativi al Comune e alla Regione.
[153] Rispettivamente, il decreto legislativo 8 novembre 1997, n. 289 e la legge 9 dicembre 1998, n. 426.
[154] In particolare:
§ la notifica entro 48 ore al comune, alla provincia ed alla Regione territorialmente competenti, nonché agli organi di controllo sanitario e ambientale, della situazione di inquinamento ovvero del pericolo concreto ed attuale di inquinamento (articolo 17, comma 2, lettera a);
§ la comunicazione, entro le 48 ore successive alla notifica di cui alla lettera a), al comune, alla provincia ed alla Regione, degli interventi di messa in sicurezza adottati per non aggravare la situazione di inquinamento o di pericolo di inquinamento (articolo 17, comma 2, lettera b);
§ la presentazione al comune e alla Regione del progetto di bonifica, entro 30 giorni dall'evento che ha determinato l'inquinamento ovvero dalla individuazione della situazione di pericolo (articolo 17, comma 2, lettera c).
[155] In tal senso si è espressa la sentenza Cass. Pen. Sez. III, 28 aprile 2000 (pubblicata il 7 giugno 2000, n. 1783).
[156] “ogni intervento di rimozione della fonte inquinante e di quanto dalla stessa contaminato fino al raggiungimento dei valori limite conformi all'utilizzo previsto dell'area”.
[157] “ogni intervento per il contenimento o isolamento definitivo della fonte inquinante rispetto alle matrici ambientali circostanti”.
[158] Si ricorda che l’art. citato dispone che: “Chiunque cagiona danno ad altri nello svolgimento di una attività pericolosa, per sua natura o per la natura dei mezzi adoperati, è tenuto al risarcimento, se non prova di avere adottato tutte le misure idonee a evitare il danno”.
[159] “e) conseguire l'effettività delle sanzioni amministrative per danno ambientale mediante l'adeguamento delle procedure di irrogazione e delle sanzioni medesime; rivedere le procedure relative agli obblighi di ripristino, al fine di garantire l'efficacia delle prescrizioni delle autorità competenti e il risarcimento del danno; definire le modalità di quantificazione del danno; prevedere, oltre a sanzioni a carico dei soggetti che danneggiano l'ambiente, anche meccanismi premiali per coloro che assumono comportamenti ed effettuano investimenti per il miglioramento della qualità dell’ambiente sul territorio nazionale”.
[160] Vedi art. 3, par. 3.
[161] Anche se – come si chiarisce più avanti nel commento all’art. 311 – agli articoli 304 e 305, sembra invece riaffacciarsi un principio di responsabilità oggettiva (almeno per l’”operatore”, senza peraltro specificare se con tale termine debba intendersi colui che svolge attività pericolosa o meno).
[162] Le norme appena citate sono ora comprese nell’art. 9 del TU delle leggi sull’ordinamento degli enti locali, di cui al decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267.
[163] Il resto dell’art. 2 è trasfuso nell’articolo 302 (Definizioni).
[164] Per acque di transizione debbono intendersi, ai sensi della direttiva 2000/60/CE “i corpi idrici superficiali in prossimità della foce di un fiume, che sono parzialmente di natura salina a causa della loro vicinanza alle acque costiere, ma sostanzialmente influenzati dai flussi di acqua dolce”.
[165] Si tratta delle seguenti convenzioni e accordi internazionali:
§ Convenzione internazionale del 27 novembre 1992 sulla responsabilità civile per i danni derivanti da inquinamento da idrocarburi;
§ Convenzione internazionale del 27 novembre 1992 istitutiva di un Fondo internazionale per l'indennizzo dei danni derivanti da inquinamento da idrocarburi;
§ Convenzione internazionale del 23 marzo 2001 sulla responsabilità civile per i danni derivanti dall'inquinamento determinato dal carburante delle navi;
§ Convenzione internazionale del 3 maggio 1996 sulla responsabilità e l'indennizzo per i danni causati dal trasporto via mare di sostanze nocive e potenzialmente pericolose;
§ Convenzione del 10 ottobre 1989 sulla responsabilità civile per i danni causati durante il trasporto di materiali pericolosi su strada, ferrovia o battello di navigazione interna.
[166] Si tratta delle seguenti convenzioni e accordi internazionali:
§ Convenzione di Parigi del 29 luglio 1960 sulla responsabilità civile nel campo dell'energia nucleare e convenzione complementare di Bruxelles del 31 gennaio 1963;
§ Convenzione di Vienna del 21 maggio 1963 sulla responsabilità civile in materia di danni nucleari;
§ Convenzione di Vienna del 12 settembre 1997 sull'indennizzo complementare per danno nucleare;
§ Protocollo congiunto del 21 settembre 1988 relativo all'applicazione della convenzione di Vienna e della convenzione di Parigi;
§ Convenzione di Bruxelles del 17 dicembre 1971 relativa alla responsabilità civile derivante dal trasporto marittimo di sostanze nucleari.
[167] Come si è detto, la definizione di “operatore” è all’art. 302, comma 4.
[168] Si ricorda che l’art. 17 del decreto Ronchi viene comunque abrogato dal presente schema di decreto legislativo e le disposizioni in materia di bonifica sono comprese nella Parte IV (a cui si fa rinvio).
[169]Tale esplicitazione non è presente nell’art. 304, ma in via interpretativa potrebbe anche ritenersi implicita.
[170]Ma comunque difficile da argomentare.
[171] Alla luce della disciplina sanzionatoria, che annette valore decisivo al momento in cui la denuncia è fatta (vedi infra), è da ritenersi che l’espressione debba intendersi nel senso della immediatezza e quindi che debba esserci corrispondenza tra il momento in cui l’operatore interessato viene a conoscenza della situazione di minaccia e quello in cui deve avviare la procedura di autodenuncia.
[172] Analogamente, il punto 2., ultimo periodo, dell’Allegato II della direttiva.
[173] Si tratta, in particolare delle ipotesi in cui l’operatore possa dimostrare che il danno – o la minaccia imminente di danno:
§ è stato causato da un terzo e si è verificato nonostante l’esistenza di opportune misure di sicurezza. La norma italiana aggiunge, infine, la locuzione “astrattamente idonee”.
§ è conseguenza dell’osservanza di un ordine o di un’istruzione impartiti da una autorità pubblica. Le norme – sia comunitarie che statali – aggiungono tuttavia che questo ordine o istruzione non deve essere fra quelli impartiti a seguito di una emissione o di un danno ambientale causati dall’operatore.
[174] Vedi art. 3, par. 3.
[175] Le norme appena citate sono ora comprese nell’art. 9 del TU delle leggi sull’ordinamento degli enti locali, di cui al decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267.
[176] Vedi il successivo art. 315, dove si chiarisce che l’azione amministrativa aperta dall’ordinanza-ingiunzione inibisce al Ministro dell’ambiente la promozione o la prosecuzione dell’azione dinanzi al giudice ordinario per il risarcimento del danno, mentre fa salva la possibilità di intervento in qualità di persona offesa dal reato nel giudizio penale.
[177] Il decreto legislativo n. 112 del 1999 ha riordinato il servizio nazionale della riscossione, in attuazione della delega prevista dalla legge 28 settembre 1998, n. 337.
[178] Tali operazioni sono definite normativamente dal DM 471 del 1999.
[179] Inseriti dall’art. 114 della legge n. 388 del 2000.