XIV Legislatura - Dossier di documentazione
Autore: Servizio Studi - Dipartimento affari esteri
Titolo: Le prospettive di riforma dell’ONU - Il Rapporto del 'Panel' sulla sicurezza collettiva
Serie: Indagini conoscitive    Numero: 15
Data: 19/01/05
Abstract:    Nota introduttiva; schede analitiche sulle diverse sezioni del Rapporto; testo del Rapporto.
Descrittori:
DIFESA E SICUREZZA INTERNAZIONALE   ORGANIZZAZIONI INTERNAZIONALI
RELAZIONI INTERNAZIONALI     
Organi della Camera: III-Affari esteri e comunitari

 

Servizio studi

 

indagini conoscitive

Le prospettive di riforma dell’ONU

Il Rapporto del Panel sulla sicurezza collettiva

n. 15

 


xiv legislatura

19 gennaio 2005

 

Camera dei deputati


 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

SIWEB

 

 

 

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File: es0360

 


 

 

 

INDICE

NOTA INTRODUTTIVA  3

Parte I

Verso un nuovo consenso sulla sicurezza  7

§      I. Mondi differenti: 1945 e 2005  7

§      II. La questione della sicurezza collettiva globale  9

Parte II

La sicurezza collettiva e la sfida della prevenzione  15

§      III. Povertà, malattie infettive e degrado ambientale  15

§      IV.  Conflitti tra Stati o interni agli Stati21

§      V.  Armi nucleari, radiologiche, chimiche e biologiche  24

§      VI.  Terrorismo  27

§      VII.  Il crimine organizzato transnazionale  31

§      VIII.  Il ruolo delle sanzioni32

Parte III

La sicurezza collettiva e l’uso della forza  37

§      IX. Uso della forza: regole e linee guida  37

§      X Capacità di imposizione e di mantenimento della pace (peace enforcement e peacekeeping)44

§      XI La costruzione della pace dopo il conflitto  47

§      XII. Protezione dei civili48

Parte IV

Nazioni Unite più efficaci per il ventunesimo secolo  53

§      XIII. L’Assemblea generale  54

§      XIV Il Consiglio di sicurezza  54

§      XV. Una Commissione per il peacebuilding  62

§      XVI. Organizzazioni regionali62

§      XVII. Il Consiglio economico e sociale  64

§      XVIII. La Commissione sui diritti umani65

§      XIX. Il Segretariato  67

§      XX. La Carta delle Nazioni Unite  68

Documentazione

§      A more secure world: Our shared responsibility – Report of the Secretary-General’s High-level Panel on Threats, Challenger and Change  73

 

 

 

 


NOTA INTRODUTTIVA

 

Il Segretario generale delle Nazioni Unite - come aveva preannunciato nel corso della 58° Assemblea generale (settembre 2003) – il 3 novembre 2003 ha istituito un Gruppo di riflessione ad alto livello (High-level Panel), composto da 16 eminenti personalità e presieduto da Anand Panyarachun, ex primo ministro tailandese[1].

Il Panel aveva il compito di definire il contributo dell’azione collettiva al contrasto delle minacce globali contemporanee alla pace ed alla sicurezza. Il Panel doveva, in particolare, formulare raccomandazioni in merito ai cambiamenti necessari nella struttura e nella operatività dei principali organi delle Nazioni Unite, nonché, più in generale, formulare valutazioni e fornire indicazioni relative a tutte le tematiche e le istituzioni, incluse quelle economiche e sociali, che hanno un rapporto diretto con le minacce alla pace ed alla sicurezza.

Il Panel ha elaborato un Rapporto sull’attività svolta (A more secure world: our shared responsibility), che è stato trasmesso dal Segretario generale agli Stati membri con una Nota del 2 dicembre 2004. Il Rapporto contiene un’ampia disamina delle attuali minacce alla sicurezza collettiva e formula una serie di riflessioni e di proposte di riforma volte a rilanciare il ruolo delle Nazioni Unite. Il Segretario generale si è riservato di presentare un proprio rapporto agli Stati membri basato sui lavori del Panel nel marzo 2005. Entro il 2005, ed in particolare in occasione della prossima Assemblea generale, gli Stati membri dovrebbero affrontare il tema della riforma dell’Organizzazione.

Il presente dossier - redatto a supporto dell’indagine conoscitiva sulle prospettive di riforma dell’ONU in relazione all’evoluzione della situazione politica internazionale, in corso di svolgimento presso la Commissione affari esteri e comunitari della Camera dei deputati - contiene una sintesi dei contenuti del Rapporto presentato dal Panel e, per quanto riguarda le parti III e IV, - relative ai temi del ricorso all’uso della forza e della riforma degli organi delle Nazioni Unite e di particolare rilevanza sotto il profilo politico e giuridico - anche un approfondimento delle valutazioni e delle proposte contenute nel Rapporto.


Parte I

 


 

Verso un nuovo consenso sulla sicurezza

 

La prima parte del Rapporto ricostruisce le ragioni che portarono alla creazione delle Nazioni Unite nel 1945 e mette in luce i cambiamenti avvenuti nel corso degli ultimi sessanta anni, cambiamenti che rendono più che mai necessario affrontare insieme le minacce alla sicurezza collettiva, individuate in tutti quegli eventi che mettono a rischio la sopravvivenza e il benessere collettivo e che non conoscono confini geografici.

 

I. Mondi differenti: 1945 e 2005

L’ONU fu istituita innanzitutto per evitare che si ripetessero gli orrori della seconda guerra mondiale e delle guerre precedenti, con l’idea di creare un sistema di sicurezza collettivo impostato secondo i più tradizionali concetti militari.  L’esperimento ha funzionato per molti degli Stati traumatizzati da due guerre mondiali, sono stati evitati confitti tra le maggiori potenze e una pace stabile si è andata consolidando in Europa.

Le Nazioni Unite hanno contribuito alla formazione dei nuovi Stati usciti da un lungo periodo di colonizzazione  e, a sua volta, la decolonizzazione ha portato ad una trasformazione le Nazioni Unite, la cui Assemblea Generale è ora composta da membri fortemente diversi tra loro. La seconda metà del ventesimo secolo ha visto una lotta per la sopravvivenza di questi nuovi Stati e per il benessere dei suoi cittadini; negli ultimi 40 anni l’aspettativa di vita nei paesi  in via di sviluppo è aumentata di venti anni e, in alcuni di essi, il reddito pro capite è raddoppiato.

Ciononostante, la strada da percorrere è ancora lunga: più di un miliardo di persone non ha accesso all’acqua potabile, più di due miliardi vivono in situazioni sanitarie inadeguate e più di tre milioni di persone muoiono ogni anno per malattie collegate alla mancanza di acqua, 14 milioni di persone (tra le quali 6 milioni di bambini) muoiono ogni anno per la fame.

Circa 30 milioni di persone sono affette da AIDS/HIV in Africa e, se la tendenza non verrà rovesciata, alcuni Stati potrebbero presto trovarsi sull’orlo di una grave crisi a causa della decimazione delle classi produttive.

Le Nazioni Unite hanno contribuito a tenere sotto controllo la capacità distruttiva delle armi nucleari (la prima risoluzione adottata dall’Assemblea generale nel 1946 chiedeva il disarmo delle armi di distruzione di massa) la cui produzione è andata aumentando negli anni della guerra fredda. Nonostante la contrapposizione dei due blocchi abbia a lungo impedito al Consiglio di sicurezza di esercitare un ruolo decisivo nel mantenimento della pace internazionale, il mondo nella seconda metà del ventesimo secolo sarebbe stato di gran lunga maggiormente percorso da guerre e conflitti sanguinosi senza l’esistenza dell’ONU.

La fine della guerra fredda ha aperto nuove opportunità per la costruzione di una sicurezza collettiva con l’apporto determinante delle Nazioni Unite: nel 1990 il Consiglio di sicurezza ha autorizzato l’uso della forza contro l’Iraq per liberare il Kuwait e, in seguito, allargando l’interpretazione del concetto di minaccia all’ordine internazionale, ha autorizzato un intervento a fini umanitari in Somalia. Inoltre, l’ONU ha contribuito a porre fine a lunghi conflitti in atto nell’America centrale e nell’Africa meridionale.

Ma è stato presto chiaro che, sebbene le Nazioni Unite abbiano dato vita al concetto di “sicurezza umana”, esse non erano sufficientemente attrezzate per poterlo mettere in pratica: conflitti regionali di lunga durata quali quelli tra Israele e Palestina e in Kashmir sono rimasti senza soluzione, così come non hanno trovato risposte efficaci le pulizie etniche e il genocidio in Bosnia e in Rwanda.

In occasione degli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001, si è avuto prova di una possibile rinnovata idea di sicurezza collettiva, con l’approvazione all’unanimità della risoluzione 1368 che condannava gli attentanti e ha aperto la via ad un’azione militare, per legittima difesa, condotta dagli USA contro il regime afghano. Con la risoluzione 1373 (del 28 settembre 2001) il Consiglio di sicurezza ha obbligato gli Stati membri ad assumere azioni contro il terrorismo e, tre mesi più tardi, le Nazioni Unite hanno presieduto alla conclusione dell’Accordo di Bonn, che creava tra l’altro un governo provvisorio in Afghanistan. Le Nazioni Unite hanno sostenuto ed aiutato il governo provvisorio nel processo di pace e nella stesura della costituzione provvisoria. Lo spirito unitario inaugurato con gli attentati dell’11 settembre, però, si è andato fortemente incrinando a seguito della decisione americana di dichiarare guerra al regime iracheno di Saddam Hussein.

Il Rapporto evidenzia come gli attentati dell’11 settembre abbiano rivelato che gli Stati, così come le istituzioni preposte alla sicurezza collettiva, non fossero adeguati alla nuova natura delle minacce. La rivoluzione tecnologica che ha radicalmente modificato il mondo della comunicazione ha eliminato i confini e ha consentito una diffusione delle informazioni ad una velocità inconcepibile solo fino ad un paio di decenni fa. Questi cambiamenti hanno portato notevoli vantaggi ma hanno anche moltiplicato il potenziale di rischio, trasformando le tecnologie, pensate per facilitare la vita quotidiana, in strumenti di aggressione e consentendo a gruppi anche molto piccoli di persone di infliggere grandi danni. Questa premessa porta alla conclusione che oggi, più che nel passato, la minaccia rivolta ad uno solo è una minaccia per tutti.

 

II. La questione della sicurezza collettiva globale

A. Minacce senza frontiere

La globalizzazione economica comporta il fatto che un grave attentato compiuto in qualunque parte del mondo sviluppato possa avere gravi conseguenze per il benessere delle popolazioni del mondo in via di sviluppo. La Banca Mondiale ha calcolato che gli attentati dell’11 settembre abbiano aumentato di 10 milioni il numero dei poveri nel mondo e che il costo totale sull’economia mondiale ecceda gli 80 miliardi di dollari. Queste cifre verrebbero enormemente superate da un eventuale attacco terroristico nucleare.

Analogamente, la sicurezza dei Paesi più ricchi può dipendere dalla capacità dei Paesi più poveri di contenere gli effetti di gravi epidemie (vedi, di recente, il caso della SARS).

Il Rapporto evidenzia come le minacce alla sicurezza internazionale oggi aumentino il rischio di altre minacce: la proliferazione nucleare favorisce la disponibilità di materiali e tecnologie necessarie per la costruzione di armi nucleari e il traffico di tali elementi è favorito dall’inefficienza dei controlli delle frontiere verso i Paesi più deboli nei quali si annidano più facilmente i gruppi terroristici. E’ in questi Paesi infatti che diviene più facile il reclutamento, complici la povertà, l’assenza di democrazia e del rispetto dei diritti umani, l’intolleranza religiosa, nonché le guerre civili e i conflitti regionali. La presenza di tali fattori consente inoltre ai terroristi, ad esempio, il traffico di droghe, importante fonte per il loro finanziamento.

Il Rapporto evidenzia come la povertà, le malattie infettive, il degrado ambientale e la guerra, si alimentino l’un l’altro in una sorta di circolo vizioso e come la povertà e alcune malattie (AIDS e malaria) siano fortemente connesse con l’insorgere di guerre civili.

Il crimine organizzato transnazionale favorisce la maggior parte delle minacce alla pace e alla sicurezza internazionali: la corruzione, i traffici illeciti e il riciclaggio di denaro contribuiscono a mantenere gli Stati deboli, ad impedire la crescita economica e a minare la democrazia. Tali attività creano l’ambiente adatto all’insorgere di guerre civili e la prospettiva di gruppi organizzati criminali che forniscono armi nucleari, radiologiche, chimiche e biologiche ai terroristi è particolarmente preoccupante. L’aumento del commercio di droghe spiega parzialmente il rapido aumento della diffusione dell’AIDS, specialmente nell’Europa orientale e in alcune parti dell’Asia. Inoltre, le attività criminali interferiscono con le attività di peacebuilding e alimentano le guerre civili attraverso il commercio di merci utili nei conflitti e di armi di piccolo calibro.

 

B. I limiti dell’autoprotezione

Nessuno Stato, per quanto potente, può da solo garantirsi la protezione dalle nuove minacce e solo la cooperazione tra Stati può aumentare la sicurezza di ogni singolo Stato. E’ il caso, ad esempio, del terrorismo nucleare, che può essere stroncato solo attraverso la collaborazione fra Stati – forti e deboli – al fine di eliminare le scorte, di  proteggere al meglio i containers nei porti e di accordarsi su nuove regole per l’arricchimento dell’uranio. Analogamente, la cooperazione è necessaria per fermare il crimine organizzato attraverso la lotta al riciclaggio di denaro sporco, al traffico di droghe e di persone, e alla corruzione.

Tutti gli Stati hanno l’interesse a creare un nuovo sistema globale di difesa collettiva che impegnerà ciascuno di essi ad agire congiuntamente per fronteggiare l’ampio spettro delle attività terroristiche.

 

C. Sovranità e responsabilità

La moderna concezione di sovranità dello Stato comporta l’obbligo per lo Stato stesso di proteggere i propri cittadini (garantendo loro dignità, giustizia, e sicurezza) ed evitare di danneggiare i vicini. Poiché non è scontato che ogni Stato sia in grado di adempiere alle proprie responsabilità, la comunità internazionale deve assumersi una porzione di tali responsabilità, in accordo con la Carta delle Nazioni Unite e con la Dichiarazione Universale dei diritti dell’Uomo.

 

D. Elementi di un sistema di sicurezza collettiva credibile

Per essere credibile e sostenibile, un sistema di sicurezza collettiva deve essere efficiente, efficace ed equo. Sotto questi profili, il sistema multilaterale che conosciamo si è dimostrato utile, ma deve essere rafforzato per funzionare meglio, in tutti i modi spiegati di seguito nel Rapporto.

 

1.      Efficacia

Le istituzioni preposte alla sicurezza collettiva hanno dato grandi contributi al mantenimento della pace e della sicurezza internazionali, sia riducendo la domanda di armi nucleari, sia mediando nei conflitti tra Stati o nelle guerre civili. Tali contributi sono stati spesso criticati, sia da coloro che vorrebbero che le istituzioni collettive intervenissero in maniera più massiccia sia, al contrario, da coloro che vorrebbero limitare tali interventi.

Il Rapporto sottolinea che le istituzioni di sicurezza sono raramente efficaci se intervengono da sole. Le istituzioni multilaterali normalmente agiscono congiuntamente ad attori nazionali e regionali e, talvolta, insieme alle istituzioni della società civile e gli interventi sono tanto più efficaci quanto più gli sforzi sono comuni.

Il fallimento delle azioni collettive è frequentemente dovuto ad una mancanza di accordo, ad una discontinuità del monitoraggio e ad una debolezza che caratterizza  l’attuazione delle azioni stesse. L’allarme preventivo, inoltre, è efficace solo quando è seguito da un’azione tempestiva.

I settori nei quali le istituzioni di sicurezza collettiva hanno maggiormente fallito sono quelli relativi a massicce violazioni dei diritti umani e al genocidio. E’ una doppia sfida per le Nazioni Unite: da un lato, il concetto di Stato e di responsabilità internazionale per proteggere i civili dagli effetti della guerra e della violazione dei diritti umani deve tuttora superare la contraddizione tra l’inviolabilità della sovranità nazionale e il diritto di intervenire e, dall’altro, fermare i Governi che uccidono i propri cittadini richiede un notevole dispiego di capacità militari.

 

2.      Efficienza

Alcuni strumenti di sicurezza collettiva sono stati efficaci. Si tratta in particolare dell’azione dell’ AIEA (Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica) che è riuscita a concretizzare, tra l’altro, le disposizioni del Trattato di non proliferazione nucleare, e degli sforzi di mediazione del Segretario generale dell’ONU, volti a ridurre le tensioni internazionali.

Per contro, molti altri strumenti sono stati inefficaci: la gestione delle operazioni poste in essere a seguito di conflitti, ad esempio, sono state troppo spesso caratterizzate da cattivo coordinamento e sovrapposizione di programmi sia bilaterali che dell’ONU stessa, nonché da competizione tra agenzie.

Ma la maggiore fonte di inefficienza va rinvenuta nella mera mancanza di volontà nell’individuare serie e preventive azioni contro le forme estreme di violenza che, se non fermate, danno luogo a conflitti via via inarrestabili.

 

 

3.      Equità

La credibilità dei sistemi di sicurezza collettiva  dipende anche da quanto essi sono in grado di proteggere i propri membri, senza discriminazioni basate sui presunti beneficiari.

Il Rapporto confronta, ad esempio, la rapidità con la quale le Nazioni Unite hanno risposto agli attentati dell’11 settembre con l’intervento lacunoso in Rwanda, paese nel quale dall’aprile alla metà di luglio del 1994 si è verificato un numero di perdite paragonabile a tre 11 settembre ogni giorno e dal quale – dopo sole  due settimane – sono state ritirate le truppe dei peacekeepers. Ci è voluto in seguito circa un mese perché l’ONU riconoscesse che in Rwanda stava avvenendo un genocidio e, quando la nuova missione è stata inviata, esso era già al termine.

Il Rapporto registra analoga lentezza ed inefficienza nell’intervento nel Darfur.

 


Parte II

 


La sicurezza collettiva e la sfida della prevenzione

III. Povertà, malattie infettive e degrado ambientale

A. Le minacce da affrontare

A partire dal 1990, il numero di persone che vive in povertà è aumentato di 100 milioni e in almeno 54 paesi il reddito pro capite è diminuito. Ogni anno, circa 11 milioni di bambini muoiono a causa di malattie curabili e più di mezzo milione di donne muoiono durante la gravidanza o il parto. L’aumento della povertà è accompagnato da un aumento delle disuguaglianze globale e di reddito: in America Latina, ad esempio, il reddito delle famiglie del quinto più ricco è di 30 volte superiore a quello delle famiglie appartenenti al quinto più povero.

Quando poi la povertà si unisce a disuguaglianze etniche o regionali, i motivi che possono far scoppiare disordini civili si sommano. Il Rapporto cita, a tale proposito, il sommarsi della condizione di una popolazione giovanile in agitazione, con la povertà, l’urbanizzazione e la disoccupazione che spesso porta alla formazione di bande violente nelle grandi città.

Il Rapporto ricorda che il continente più colpito dalla povertà è l’Africa. Nell’Africa Subsahariana, in particolare, l’aspettativa di vita è scesa da 50 a 46 anni dal 1990 e la mortalità infantile è di un bambino ogni 10 (in alcuni Paesi addirittura 1 su 5, mentre nei Paesi sviluppati è di meno di 1 su 100). Mentre la malnutrizione è diminuita nel mondo in generale, in Africa è aumentata a partire dal 1990.

Negli ultimi tre decenni si è assistito all’insorgere di nuove malattie infettive, ad una recrudescenza di malattie precedentemente quasi sconfitte e ad una diffusa resistenza ad un numero sempre maggiore di antibiotici, con l’allarmante conseguenza di una forte diminuzione dello stato di salute sia a livello locale che globale. Viene citato ad esempio il caso della nuova diffusione della polio.

Anche la risposta internazionale al diffondersi dell’HIV/AIDS è stata sorprendentemente lenta e le risorse investite per affrontare tale problema, tuttora scarse. La più rilevante iniziativa a livello internazionale, il Global Programme on AIDS, è stato avviato solo nel 1987, sei anni dopo l’identificazione del primo caso e dopo che il virus aveva già infettato milioni di persone. Dopo altri nove anni, con un bilancio di 25 milioni di persone infettate, è stato varato il Joint United Nations Programme on HIV/AIDS (UNAIDS) per coordinare le varie agenzie dell’ONU che lavorano sull’AIDS. Dal 2000, quando per la prima volta il Consiglio di Sicurezza ha discusso il problema dell’AIDS e lo ha classificato come minaccia alla pace e alla sicurezza internazionali, le vittime imputabili a questa malattia in Africa  hanno superato quelle di tutte le guerre civili combattute negli anni 90. Inoltre, dal 2003, quando è stato creato il Fondo Globale per l’AIDS, la tubercolosi e la malaria, ci sono stati più di 11 milioni di orfani a causa dell’AIDS.

Il Rapporto manifesta il sospetto che, se l’AIDS avesse ridotto l’aspettativa di vita di 30 anni in Paesi non Africani, l’intervento sarebbe stato di gran lunga più tempestivo.

Anche i tentativi di stroncare altre malattie infettive letali rimangono vaghi. Nonostante la lotta alla tubercolosi progredisca, sia sotto il profilo dell’impegno politico che sotto quelli del finanziamento, dell’accesso alle cure e della ricerca, ogni anno nel mondo due milioni di persone muoiono di tale malattia. Il WHO (World Health Organization) ritiene che, se la tendenza rimarrà la stessa, da qui al 2020 verranno infettate 150 milioni di persone e 36 milioni moriranno.

La recente esperienza relativa alla SARS dimostra, secondo il Rapporto, che è possibile limitare il diffondersi di malattie infettive quando le istituzioni lavorano in stretta collaborazione. La rapida risposta del WHO e delle agenzie nazionali è riuscita a contenere la diffusione della SARS, risultato che nessuno Stato che avesse agito isolatamente sarebbe riuscito ad ottenere.

I dati attuali sulla sicurezza alimentare dimostrano una tendenza costante all’insicurezza con la possibilità di un peggioramento, specialmente nell’Africa Subsahariana. L’aumento della popolazione nei paesi in via di sviluppo e il parallelo aumento di consumi nel mondo industrializzato hanno creato un aumento della domanda di risorse che sono insufficienti. La diminuzione di suoli coltivabili, la scarsità di risorse idriche, l’abuso della pesca, la deforestazione e l’alterazione dell’ecosistema pongono sfide non troppo incoraggianti per uno sviluppo sostenibile. E’ stimato che la popolazione mondiale aumenterà dagli attuali 6.3 miliardi di individui fino a 8.9 nel 2050 e l’aumento interesserà soprattutto i paesi meno attrezzati per assorbirlo. Nutrire una popolazione in così rapido aumento sarebbe possibile solo se la produzione agricola aumentasse significativamente e in modo sostenibile.

Il degrado ambientale ha amplificato il potenziale distruttivo dei disastri naturali e, in alcuni casi, accelerato il loro verificarsi, come è dimostrato dal forte aumento di questi eventi negli ultimi 50 anni. Più di due miliardi di persone sono state colpite da disastri ambientali negli ultimi dieci anni e i costi economici hanno superato quelli dei quattro precedenti decenni.

Non esiste coerenza negli sforzi per la protezione ambientale a livello globale. La maggior parte dei tentativi di creare strutture di governance per affrontare il problema del degrado ambientale globale non sono rivolti verso i cambiamenti climatici, la deforestazione e la desertificazione. I trattati regionali e multilaterali sull’ambiente sono vanificati dall’applicazione inadeguata da parte degli Stati membri.

Le istituzioni internazionali e gli Stati non si sono organizzati per affrontare i problemi dello sviluppo in un modo coerente e integrato e continuano a trattare la povertà, le malattie infettive e il degrado ambientale come problemi separati. L’approccio settoriale è dimostrato anche dal fatto che, nei governi, i ministri delle finanze tendono a lavorare solo con le istituzioni finanziarie mondiali, i ministri dell’agricoltura solo con i food programmes e via dicendo.

Le strutture esistenti di governance economica e sociale a livello globale sono inadeguate ad affrontare le sfide attuali. Per affrontare le sfide dello sviluppo sostenibile gli Stati devono mediare tra differenti settori e questioni, fra i quali l’aiuto  estero, la tecnologia, il commercio, la stabilità finanziaria e le politiche di sviluppo. Affrontare tutti questi temi richiede un alto livello di attenzione e di leadership in quei paesi che hanno un vasto impatto economico. Attualmente non esistono forum ad alto livello che forniscano ai leader di quei paesi un luogo nel quale confrontarsi e prendere decisioni.

Il vantaggio delle Nazioni Unite nell’affrontare le minacce economiche e sociali sta nel fatto che esse possono formulare degli obiettivi comuni e possono riunire la comunità internazionale per ottenere il consenso su di essi. Il Vertice mondiale sullo sviluppo sostenibile di Johannesburg e la Conferenza mondiale sul finanziamento dello sviluppo di Monterrey hanno condotto ad una consapevolezza sul piano internazionale e alla stesura di programmi ambiziosi per alleviare la povertà, lavorare sulla sicurezza alimentare, sullo sviluppo delle economie e sulla protezione dell’ambiente in modo che le future generazioni ne possano beneficiare. La Dichiarazione del Millennio contiene un certo numero di obiettivi e capisaldi, avanzati ma realizzabili,  che vanno dal dimezzamento della povertà estrema e dalla protezione dell’ambiente fino al raggiungimento dell’uguaglianza di genere e all’inversione di tendenza della diffusione dell’AIDS entro il 2015.

Durante la Conferenza di Monterrey, i leader presenti si trovarono d’accordo nel dichiarare che sia i paesi donatori che quelli beneficiari degli aiuti hanno l’obbligo di realizzare lo sviluppo economico e sociale e che i primi responsabili  di tale azione sono i governi. Essi devono pertanto creare un ambiente che favorisca la crescita del settore privato e l’efficacia degli aiuti, attraverso corrette politiche economiche, la costruzione di istituzioni efficienti e l’investimento in servizi sociali sia pubblici che privati. In cambio di sostanziali miglioramenti nelle politiche e nelle istituzioni dei paesi in via di sviluppo, le nazioni donatrici hanno acconsentito a rinnovare i propri sforzi per ridurre la povertà, anche riducendo le barriere commerciali, aumentando l’assistenza allo sviluppo e prevedendo una riduzione del debito per i paesi più indebitati.

 

B. Affrontare la sfida della prevenzione

 

1.      Più risorse ed azioni

 

Come già ricordato, con l’adozione degli Obiettivi del Millennio, la comunità internazionale si è impegnata a ridurre drasticamente la povertà entro il 2015. Le valutazioni finora effettuate rilevano che, mentre alcune regioni del mondo sono sulla via di dimezzare il numero delle persone che vive con meno di 1 dollaro al giorno, altre regioni stanno invece regredendo. Riguardo la riduzione della mortalità infantile e l’incremento dell’istruzione primaria, gli impegni assunti non sono stati ancora portati a termine. Poco è stato fatto anche riguardo la questione dell’uguaglianza di genere, così come delineata negli Obiettivi del Millennio. Sebbene tutti i Paesi, sia ricchi che poveri, avessero preso l’impegno di agire concretamente per fronteggiare le minacce sociali ed economiche, il Rapporto registra che tali impegni non si sono tradotti in risorse e in azioni, e gli impegni a lungo termine sono insufficienti. Tutti gli Stati devono rinnovare il proprio impegno per realizzare gli obiettivi di sradicare la povertà, acquisire una crescita economica sostenuta e promuovere uno sviluppo sostenibile.  

Gli obiettivi del Millennio dovrebbero essere posti al centro delle strategie nazionali e internazionali per ridurre la povertà, secondo il Rapporto. Lo stanziamento di risorse destinate alla realizzazione degli Obiettivi del Millennio, drasticamente ridotte rispetto al previsto, dovrebbe essere rivisto e dovrebbero essere portati a compimento gli impegni per la realizzazione di politiche solide e di buona governance.  I Paesi donatori che forniscono contributi inferiori allo 0.7 per cento del PIL, destinato dalle Nazioni Unite all’ODA (Official Development Assistance) dovrebbero stabilire programmi per raggiungere tale percentuale.

Il Rapporto accoglie con favore la decisione dei Paesi contributori di discutere su come sviluppare un approccio innovativo al finanziamento dello sviluppo.

A Monterrey e a Johannesburg si è riconosciuto che le disuguaglianze  nel sistema commerciale mondiale sono un ostacolo alla riduzione della povertà. Il 70 per cento dei poveri del mondo vive di agricoltura e deve sopportare i duri costi dell’imposizione di barriere sull’importazione di prodotti agricoli e delle sovvenzioni all’esportazione da parte dei paesi sviluppati. Nella Dichiarazione di Doha (Vertice WTO del 2001) i firmatari si sono impegnati a porre le necessità e gli interessi dei paesi in via di sviluppo al centro dei nuovi negoziati sul commercio. I membri del WTO devono impegnarsi a concludere il round di Doha entro il 2006 al massimo.

Il Rapporto sottolinea che non bastano riforme e miglioramento delle opportunità commerciali per portare sensibili riduzioni della povertà in un congruo numero di paesi, nei quali ogni sforzo è minacciato da infrastrutture insufficienti, produzione agricola molto bassa, malattie endemiche e rovinosi livelli di debito estero. I Paesi che prestano denaro e le istituzioni finanziarie internazionali dovrebbero concedere ai Paesi più indebitati  una sostanziosa riduzione del debito, un programma di restituzione a lungo termine e delle migliori condizioni di accesso al mercato.

Nonostante l’impegno internazionale, la diffusione dell’AIDS è tuttora dilagante. In molti Paesi dell’Africa Subsahariana l’impatto dell’epidemia sta diventando più acuto e anche in Asia il numero degli infettati sta aumentando rapidamente. Nonostante gli stanziamenti per combattere l’AIDS siano aumentati da circa 250 milioni di dollari nel 1996 a circa 2.8 miliardi di dollari nel 2002, servono ancora più di 10 miliardi di dollari l’anno per stroncare l’epidemia.

L’esperienza in alcuni Paesi dimostra che, se adeguatamente finanziati e istituzionalizzati, gli sforzi per combattere l’AIDS hanno successo. Per contro, laddove i governi si sono rifiutati di riconoscere la gravità del problema, la situazione è peggiorata gravemente e gli sforzi internazionali sono stati ostacolati. I leader delle nazioni colpite devono impegnare risorse e collaborare con la società civile e il settore privato per controllare il diffondersi della malattia.

 

2. Nuove iniziative

 

Gli effetti a lungo termine sul governo e sulla stabilità dei paesi più fortemente colpiti dall’AIDS non sono ancora stati oggetto di ricerche approfondite.

Il Consiglio di sicurezza, in collaborazione con UNAIDS, dovrebbe tenere una seconda sessione speciale sull’AIDS come minaccia alla pace e alla sicurezza internazionali, per studiare gli effetti futuri sugli Stati e la società, effettuare ricerche sul problema ed elaborare una strategia di lungo termine per ridurre la minaccia.

L’assenza di sistemi sanitari pubblici funzionanti è il fattore primario di diffusione della malaria. Trattamenti parziali o insufficienti, dovuti a scarsità di risorse finanziarie, stanno causando lo sviluppo di forme modificate di tubercolosi, molto più difficili da curare. Inoltre, anche quando sono disponibili programmi anti HIV/AIDS, la mancanza o l’inadeguatezza di strutture sanitarie rendono inefficaci tali programmi, particolarmente nelle zone più povere dell’Africa Subsahariana. Il Rapporto suggerisce che i donatori internazionali, in collaborazione con le autorità nazionali di quei paesi e con le organizzazioni della società civile, intraprendano nuove iniziative per ricostruire i sistemi sanitari pubblici nazionali e locali intutto il mondo in via di sviluppo.

Tali iniziative dovrebbero essere fiancheggiate da altre rivolte a monitorare la diffusione delle malattie. I membri del World Health Assembly dovrebbero fornire maggiori risorse al Global Outbreak Alert and Response Network del WHO affinché venga migliorata la capacità di fronteggiare il potenziale insorgere di malattie.

Il Rapporto prefigura una cooperazione tra il WHO e il Consiglio  di sicurezza nel caso di insorgenza di nuove malattie contagiose o di diffusione intenzionale di agenti infettivi, per stabilire misure di quarantena (v. infra, sez. V).

Quanto al problema dei cambiamenti climatici, il Rapporto evidenzia la necessità che le economie moderne riducano la propria dipendenza dagli idrocarburi e progettino nuove strategie di sviluppo più compatibili con l’ambiente. Viene suggerito agli Stati membri di utilizzare fonti di energia a basso contenuto di carbone, fra cui il gas naturale, l’energia rinnovabile e l’energia nucleare; viene anche richiesto uno sforzo per lo sviluppo di tecnologie che producano un basso effetto serra. Il Rapporto ricorda che il Protocollo di Kyoto alla Convenzione Quadro sui cambiamenti climatici dell’ONU incoraggia l’utilizzo di fonti di energia rinnovabile, che possono gradualmente correggere l’eccessiva dipendenza da carburanti fossili. Pertanto, gli Stati dovrebbero incentivare l’ulteriore sviluppo delle fonti di energia rinnovabile e cominciare ad eliminare i contributi economici sull’uso e lo sviluppo di carburanti fossili.

Il Protocollo di Kyoto, entrato in vigore dopo la ratifica della Russia, non è in grado da solo di eliminare l’emissione di gas serra. Viene segnalato che alcuni paesi avanzati stanno raggiungendo gli obiettivi posti dal Protocollo, ma per ragioni diverse da quella di una politica ambientale (per una drastica riduzione dell’industrializzazione, ad esempio). Inoltre, viene ricordato che gli Stati Uniti, responsabili dell’emissione di circa un quarto delle emissioni di gas serra, rifiutano di ratificare il Protocollo e che i paesi in via di sviluppo, che emettono tutti insieme circa la metà dei gas serra (ma solo un decimo delle emissioni pro capite) si rifiutano di accettare vincoli circa l’emissione, percepiti come impedimenti alla crescita economica. I paesi più industrializzati, d’altro canto, sono più resistenti ad accettare costose riduzioni senza la partecipazione al processo dei paesi in via di sviluppo. Il Protocollo non contiene obbligazioni che vadano oltre il 2012. Il Rapporto chiede che gli Stati si impegnino nuovamente sul problema del riscaldamento del clima e comincino nuovi negoziati che producano una strategia di lungo periodo, che vada oltre il termine temporale fissato dal Protocollo di Kyoto.

Le Nazioni Unite e le istituzioni finanziarie internazionali devono anche assistere maggiormente gli Stati  più esposti a disastri naturali, gli effetti dei quali possono essere molto destabilizzanti, come è accaduto nel 2004 ad Haiti. L’Associazione Meteorologica Mondiale ha stimato che investimenti volti alla riduzione della vulnerabilità ai disastri naturali può ridurre sensibilmente il numero delle vittime di tali disastri. L’UNEP (United Nations Environment Programme), l’UNDP (United Nations Development Programme) e la Banca Mondiale dovrebbero lavorare in maniera più integrata – e in collaborazione con i governi e gli istituti di ricerca – per migliorare la valutazione della vulnerabilità e rafforzare la capacità di adattabilità dei governi dei paesi colpiti.

 

IV.  Conflitti tra Stati o interni agli Stati

A. La minaccia dei conflitti tra Stati

Il Rapporto rileva anzitutto che la minaccia di conflitti tra Stati rimane una possibilità concreta, a causa soprattutto di controversie non risolte a livello regionale (ad esempio nell’Asia meridionale e nordorientale, o nel Medio oriente). Se non si giunge a uno scontro aperto tra Stati di una stessa area, sovente tuttavia la rivalità tra di essi alimenta e acuisce conflitti interni a un singolo Stato, con un dispendio di risorse che va a detrimento del livello di vita delle popolazioni e delle loro possibilità di sviluppo.

La guerra e l’instabilità in Palestina e in Iraq, alimentando le correnti estremiste sia in Occidente che nel mondo islamico, hanno favorito i tentativi volti a promuovere l’idea di un inevitabile scontro religioso e culturale.

Per quanto concerne il ruolo delle Nazioni Unite, si rileva come a partire dalla fine della Guerra Fredda l’attività del Consiglio di Sicurezza abbia registrato un notevole incremento, riscontrabile sia nel numero delle risoluzioni approvate che in quello delle sanzioni irrogate: queste ultime, inoltre, hanno visto estendersi la gamma di finalità perseguite, dal ripristino della legalità internazionale nei rapporti tra Stati via via fino alla tutela dei diritti umani, al reinsediamento di governi democratici e al sostegno ai processi di pacificazione.

Il Rapporto formula un bilancio degli interventi sanzionatori, nel senso di un parziale successo, che è mancato tuttavia in assenza di una chiara strategia e della puntuale individuazione dei risultati da conseguire, ovvero nei casi in cui l’applicazione delle sanzioni non è stata sufficientemente convinta (e vengono qui in primo piano gli interessi strategici delle maggiori Potenze), o, infine, per il sopravvenire di gravi preoccupazioni sull’impatto umanitario delle sanzioni. Il Consiglio di Sicurezza, negli anni più recenti, ha in effetti mutato atteggiamento, nel senso di imporre provvedimenti settoriali mirati più direttamente ai protagonisti in negativo delle crisi interne e internazionali.

Nel complesso il Rapporto rileva comunque una crescente efficacia dell’ONU nella regolazione dei conflitti, sicché l’autorizzazione multilaterale all’uso della forza, ancorché problematica, non costituisce più un’eccezione, e si allarga l’aspettativa del ruolo centrale del Consiglio di Sicurezza in tale processo. In questo contesto, in merito alla vicenda dell’invasione del 2003 dell’Iraq da parte anglo-americana vengono riferite le diverse opinioni espresse in proposito, e si conclude osservando come la partecipazione dei governi  e l’attenzione dell’opinione in merito alla vicenda abbiano in ogni caso riaffermato non la mera rilevanza ma la centralità della Carta delle nazioni Unite.

 

B. La minaccia dei conflitti interni agli Stati

Il Rapporto rileva che gli interventi relativi ai conflitti interni hanno rappresentato il volto operativo dell’ONU nel campo della pace e della sicurezza internazionali dopo la fine della Guerra Fredda. Il numero di tali interventi è cresciuto notevolmente dal 1989, mentre parallelamente le guerre civili di varia natura sono diminuite costantemente dopo il 1992: ciononostante si riconosce che solo in un quarto dei casi l’intervento ha prodotto buoni risultati, e ancor meno sono state le situazioni in cui la Comunità internazionale ha investito risorse politiche e materiali adeguate. Lo scacco più grave subito dalle Nazioni Unite ha riguardato l’incapacità di impedire operazioni di pulizia etnica (ex Jugoslavia) o addirittura di genocidio (Ruanda), con l’unica eccezione del tempestivo intervento a Timor Est.

 

C. La sfida della prevenzione dei conflitti

1. Migliori cornici e regole internazionali

Una sfida fondamentale è individuata nella prevenzione dei conflitti, per la quale le Nazioni Unite devono produrre maggiori sforzi nello sviluppo di norme e standard internazionali capaci di controllare le principali fonti di tensione. Viene anzitutto richiamato, al proposito, il ruolo importante che al Consiglio di Sicurezza è riconosciuto dallo Statuto della Corte penale internazionale nel segnalare alla Corte specifici casi di gravi crimini internazionali rilevati nell’ambito delle attività del Consiglio volte a fronteggiare minacce alla pace e alla sicurezza. Si ricorda che l’attivazione del Consiglio di Sicurezza rimuove alcuni importanti limiti territoriali alla giurisdizione della Corte, accrescendone di molto l’operatività.

Altra questione essenziale è individuata nella necessità di tener conto della gestione delle risorse naturali come punto centrale per il recupero di condizioni di pace o la prevenzione dello scatenarsi di conflitti, rispettivamente nei Paesi in stato di guerra interna o a rischio di essa. Le Nazioni Unite dovrebbero mettere a punto norme per la gestione delle risorse – incluse quelle che interessano più Stati, come petrolio, gas, acqua – in collaborazione con le autorità nazionali, le Istituzioni finanziarie internazionali, le organizzazioni della società civile e il settore privato. Inoltre, sulla scorta di recenti esperienze di Organizzazioni regionali come quelle africane (Unione africana) e americane (Organizzazione degli Stati americani), sarebbe necessaria l’elaborazione di quadri regolatori volti alla tutela delle minoranze e alla difesa dei Governi democraticamente eletti.

Meno alla ribalta di altre questioni, ma non meno importante, è quella della limitazione nella diffusione delle armi leggere: esiste in proposito un Piano di azione dell’ONU, attorno al quale gli Stati membri dovrebbero portare a termine sollecitamente i negoziati per la messa a punto di strumenti vincolanti sulla tracciabilità dei trasferimenti di armi leggere, impegnandosi altresì a rendere possibile un accurato aggiornamento del Registro delle Nazioni Unite sugli armamenti convenzionali.

 

2. Migliore informazione ed analisi

I Dipartimenti delle Nazioni Unite competenti per la formulazione delle varie politiche dovrebbero interagire più attivamente con le fonti locali di informazione e gli enti esterni di ricerca.

 

3. La diplomazia e la mediazione preventive

Il punto centrale è qui individuato nel potenziamento, in termini di mezzi e soprattutto di obiettivi, del Dipartimento affari politici del Segretariato Generale, in vista della formazione di nuove figure di mediatori ONU, capaci di interagire con attori locali e Organizzazioni regionali o non governative impegnati nella risoluzione dei conflitti.

 

4. Dispiegamento preventivo di forze di peacekeeping

Strettamente collegato alla diplomazia preventiva, il dispiegamento preventivo ha avuto sinora il solo precedente – di successo – della Repubblica macedone. Nei Paesi che emergono da un conflitto, il ruolo di piccoli contingenti di peacekeepers può esercitare un’importante funzione preventiva mediante l’addestramento delle locali forze armate.

 

V.  Armi nucleari, radiologiche, chimiche e biologiche

A. La minaccia effettiva

1.  Armi nucleari

Il pericolo consiste nell’elusione degli obblighi posti in capo agli Stati parti del Trattato di non proliferazione nucleare, o addirittura nel crollo dell’intero sistema governato dal Trattato: un gran numero di Stati ha acquisito tecnologie nucleari civili di alto livello, che con relativa facilità potrebbero essere volte alla produzione di ordigni atomici.

Anche prescindendo dalla volontà degli Stati, la semplice esistenza nel mondo di grandi quantità di sostanze radioattive costituisce di per sé un grave rischio, in quanto gruppi terroristici potrebbero realizzare “piccoli” ordigni con materiale nucleare trafugato, la cui esplosione in aree densamente popolate sarebbe comunque catastrofica.

 

2.      Armi radiologiche

Nel caso delle armi radiologiche, l’uso di esse prospetta effetti molto meno gravi, ma proprio per questo è maggiore la possibilità che vi si faccia ricorso: se è giusto sensibilizzare le popolazioni sul carattere meno distruttivo della cosiddetta “bomba sporca”, cionondimeno non bisogna sottovalutare la scala di problemi posti dalla necessità di evacuare prima, e decontaminare poi le aree investite, né l’effetto di tali allarmi sui comportamenti dei singoli e le attività economiche.

 

3.      Armi chimiche e biologiche

Non più confortante è il panorama se si considerano le armi chimiche e biologiche: per entrambe le categorie, mentre i possibili effetti letali sugli esseri viventi non sono inferiori a quelli di un’esplosione nucleare; la disponibilità di sostanze e laboratori è assai più ampia. La distruzione degli arsenali chimici, prevista dalla Convenzione di Parigi del 1993, segna il passo: meno di un settimo delle armi chimiche dichiarate sono state finora distrutte, e il previsto completamento entro il 2012 appare sempre più una chimera.

 

B. La sfida della prevenzione

La prevenzione potrà risultare efficace solo se si porrà in essere una strategia multilaterale a più livelli.

 

1.      Migliori strategie per la riduzione della domanda

E’ ritenuto fondamentale il ruolo degli Stati in possesso di armamenti nucleari, cui spetta dare l’esempio verso ulteriori riduzioni dei loro arsenali, anzitutto ottemperando agli obblighi assunti ai sensi dell’articolo VI del Trattato di non proliferazione nucleare. Essi dovrebbero inoltre ribadire gli impegni già enunciati a non ricorrere all’uso di armi nucleari contro i Paesi che ne sono privi. In tal modo vi sarebbe un effetto di diminuzione nella percezione globale dell’importanza delle armi nucleari, e in questo contesto si richiedono agli Stati in possesso di armamenti nucleari ulteriori sforzi per ridurre il rischio di un conflitto nucleare accidentale, anche mediante una progressiva desensibilizzazione dei rispettivi schemi di allerta nucleare.

Il Rapporto conferisce valore all’eventuale impegno del Consiglio di Sicurezza a intraprendere un’azione collettiva in risposta a un attacco nucleare - o a una minaccia di attacco – portato contro uno Stato non in possesso di armi atomiche.

Per quanto concerne i Paesi che non hanno ratificato il Trattato di non proliferazione nucleare, essi dovrebbero almeno aderire al Trattato sulla messa al bando globale degli esperimenti nucleari, e sostenere i negoziati per un Trattato di riduzione dei materiali fissili, che potrebbe essere messo a punto in seno alla Conferenza delle Nazioni Unite per il disarmo.

Il Rapporto raccomanda che gli sforzi per raggiungere la pace in Medio Oriente e nell’Asia meridionale includano anche trattative per la creazione in loco di zone denuclearizzate, come quelle già stabilite America latina, nel Pacifico meridionale e nell’Asia sud-orientale.

Sul versante delle armi chimiche si raccomanda di accelerare l’attuazione della Convenzione di Parigi del 1993, rafforzandone anche i meccanismi di verifica.

Il problema dei controlli è ancora più importante con riferimento alla Convenzione del 1972 sull’interdizione delle armi biologiche e tossiniche, per la quale non si è raggiunto per lungo tempo alcun accordo su un meccanismo di verifica, screditando l’intero regime della Convenzione.

 

2. Migliori strategie di riduzione dell’offerta

Il Rapporto rileva che i più recenti ed efficaci standard di ispezione messi a punto dall’AIEA con il Model Additional Protocol hanno visto finora l’adesione di appena un terzo degli Stati Parti del Trattato di non proliferazione nucleare: si suggerisce al proposito che il Consiglio di Sicurezza si disponga ad agire in caso di gravi preoccupazioni sulla non osservanza, da parte di uno Stato, delle regole internazionali sulla sicurezza e non proliferazione. Viene inoltre sottolineata l’urgenza di iniziare e concludere al più presto negoziati per un accordo che metta l’AIEA in condizione di agire quale garante per la fornitura di materiali fissili a utenti nucleari civili, ponendosi in tal modo nella condizione privilegiata di conoscere tutte le richieste di uranio arricchito per scopi civili o di riprocessamento di combustibile nucleare esaurito. In attesa dell’adozione di tale accordo gli Stati dovrebbero aderire su base volontaria a una moratoria a tempo determinato della costruzione di nuovi impianti di arricchimento o riprocessamento, avendo in cambio la garanzia della fornitura regolare di materiale fissile. Tutti gli Stati vanno incoraggiati ad aderire alla Proliferation Security Iniziative, che raggruppa i Paesi desiderosi di combattere i traffici illegali di componenti per programmi nucleari.

Perentorio appare quanto suggerito dal Rapporto riguardo agli Stati che dovessero ritirare la loro partecipazione al Trattato di non proliferazione nucleare: in questo caso, fortemente sospetto, si dovrebbe indagare su eventuali violazioni del Trattato commesse quando ne erano ancora Parti, attraverso immediate verifiche, autorizzate se necessario dal Consiglio di sicurezza. Accertate le violazioni, l’AIEA dovrebbe sospendere ogni forma di assistenza precedentemente prestata.

Viene inoltre salutata con favore l’Iniziativa di riduzione della minaccia globale, che mira a limitare la disponibilità di sostanze nucleari con possibili usi distruttivi attraverso la riduzione dei depositi globali di uranio altamente arricchito e la trasformazione dei reattori che lo utilizzano in reattori non suscettibili di usi militari dell’atomo. L’Iniziativa dovrebbe completarsi in cinque anni, invece dei previsti dieci.

Infine, si raccomanda agli Stati Parti della Convenzione sulla messa al bando delle armi biologiche di negoziare un nuovo Protocollo sulla biosicurezza, al fine di operare una classificazione nuova e aggiornata degli agenti biologici pericolosi e creare regole vincolanti per le esportazioni di essi, evitando nel frattempo di commerciare in tali settori con Paesi non Parti della Convenzione.

 

3. Migliore capacità di applicazione delle regole

Il Consiglio di Sicurezza dovrebbe invitare i Direttori generali dell’AIEA e dell’OPCW (Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche) a riferire due volte l’anno sullo stato dei processi di messa in sicurezza e di verifica, e di ogni altra grave preoccupazione essi nutrano su un’imminente violazione dei rispettivi Trattati di riferimento. In merito, il Consiglio dovrebbe essere pronto a dispiegare risorse ispettive, servendosi, oltre che degli esperti dell’AIEA e dell’OPCW, dell’elenco di ispettori delle armi biologiche del Segretariato Generale.

 

4. Migliore difesa della salute pubblica

Diversamente che per le armi nucleari, per buona parte di quelle biologiche si è in possesso di efficaci strategie di contrasto degli effetti, quali vaccinazioni di massa, diagnosi precoce, messa in stato di quarantena e altri trattamenti. L’attuazione di tali strategie è però tuttora carente sul piano internazionale, e viene dunque raccomandato un più stretto raccordo tra il Consiglio di sicurezza e il Direttore Generale dell’OMS (Organizzazione mondiale della sanità), in vista di un possibile necessario lavoro comune per far fronte a improvvise epidemie, sia di matrice intenzionale che naturale.

 

VI.  Terrorismo

A. La minaccia attuale

Il terrorismo, che mina i valori cardine della Carta delle Nazioni Unite, si radica in contesti di povertà e disperazione, e/o nell’ambito di conflitti regionali e/o occupazioni straniere, approfittando della debolezza di alcuni Stati nell’applicazione della legge. I caratteri nuovi del fenomeno vedono il sorgere, con Al-Qaida – che potrebbe non essere l’unico e ultimo esempio – di una rete armata non statuale, capace di colpire a livello globale e con grande efficienza.

 

B. La sfida della prevenzione

1.  Una strategia globale

Il Rapporto riferisce di aver registrato reiterate preoccupazioni, nelle consultazioni a livello regionale, da parte di Governi e organizzazioni della società civile, sui possibili effetti negativi che la guerra contro il terrorismo incorso potrebbe avere proprio nei confronti di alcuni degli obiettivi dei terroristi, quali il rispetto dei diritti umani e lo stato di diritto. In tal modo si teme di allargare involontariamente la base di consenso per il terrorismo.

Viene pertanto suggerito un approccio più ampio, suscettibile di accrescere, negli Stati in cui il terrorismo è maggiormente radicato, non solo le capacità tecniche, ma la volontà di contrasto. La strategia include le misure coercitive e militari, ma va oltre, prendendo in considerazione le radici del fenomeno terroristico. In questo contesto il ruolo fondamentale è attribuito al Segretario Generale, che dovrebbe muoversi su più piani, anzitutto per scoraggiare le simpatie verso il terrorismo: si suggerisce quindi di dare impulso ai diritti sociali e politici e alla realizzazione dello stato di diritto e di riforme democratiche; di mettere fine alle situazioni di occupazione straniera, che suscitano risentimenti  e rancore; di impedire il crollo di intere entità statuali. Inoltre, si evidenzia l’importanza dell’istruzione e del dibattito pubblico per contrastare le visioni più estremistiche, come ha mostrato l’iniziativa dell’UNDP (Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo), che ha curato la redazione e la diffusione del Rapporto sullo sviluppo umano nei Paesi arabi, attorno al quale si è originata una discussione sulle questioni-chiave del progresso nella regione. Altro elemento decisivo della strategia antiterrorismo sta nello sviluppo di più efficaci strumenti per la cooperazione globale nel rispetto delle libertà e dei diritti umani fondamentali, e, in questa cornice, condivisione di informazioni di intelligence, controlli finanziari e sulle sostanze pericolose.

 


2.  Migliori strumenti contro il terrorismo

Nonostante l’esistenza di una serie di importanti previsioni contro il terrorismo in numerose Convenzioni ONU, troppi Stati non le applicano, perché non hanno ratificato le Convenzioni, ovvero per insufficienti capacità tecniche e carenza di norme adeguate nelle rispettive legislazioni. Ciò spiega ad esempio l’assoluta insufficienza del contrasto alle fonti di finanziamento del terrorismo.

Viene dunque affermata la necessità che gli Stati che non sono ancora Parti delle dodici Convenzioni antiterrorismo vi aderiscano, e di una più ampia adozione delle otto Raccomandazioni speciali e di altri standard rilevanti sui finanziamenti del terrorismo, formulati dalla task force dell’OCSE contro il riciclaggio.

Il Consiglio di Sicurezza si è impegnato fin dall’inizio degli anni novanta nel sostenere il contrasto degli Stati al terrorismo, emanando sanzioni che tra l’altro hanno colpito, anche prima dell’11 settembre 2001,  Al-Qaida e i Talebani. Dopo gli attacchi terroristici agli Stati Uniti, con la risoluzione 1373 del 2001 il Consiglio ha imposto drastiche misure a tutti gli Stati, istituendo altresì un Comitato contro il terrorismo. Sono sorti tuttavia problemi non indifferenti nella redazione dell’elenco delle persone e organizzazioni terroristiche, che non prevede possibilità adeguate di revisione, con possibili violazioni di diritti fondamentali delle persone e diminuita affidabilità dell’elenco stesso. Si suggerisce che il Comitato per le sanzioni contro Al-Qaida e i Talebani avvii la revisione e l’aggiornamento dell’elenco suddetto.

 

3.  Assistenza agli Stati nella lotta contro il terrorismo

Un primo punto importante nel supporto tecnico e normativo agli Stati dovrebbe vedere un’estensione dell’autorità della Direzione Esecutiva del Comitato contro il terrorismo (CTED) – istituita dalla Risoluzione del Consiglio di sicurezza n. 1535 del 2004 allo scopo di  rilanciare l’azione del Comitato – alla funzione di stanza di compensazione interstatuale per quanto riguarda le procedure di assistenza militare, di polizia e di controllo alla frontiera: in tal modo si potrebbero attenuare alcune potenziali frizioni connaturate all’assistenza quando essa viene prestata su esclusiva base bilaterale.

Inoltre, sarebbe necessario istituire un Fondo fiduciario, amministrato dalla CTED, per incrementare l’offerta di strumenti normativi, amministrativi e di polizia agli Stati che ne sono carenti.

Infine,contro i Paesi che non ottemperano per mera volontà politica ai loro obblighi nella lotta al terrorismo, il Consiglio di Sicurezza dovrebbe predisporre un calendario di sanzioni predeterminate.

 

4.      Definire il terrorismo       

Lo sviluppo di una strategia globale delle Nazioni Unite contro il terrorismo è stato ostacolato dall’incapacità degli Stati membri di concludere una Convenzione specifica contro di esso, che includa una sua precisa definizione: in fondo il nodo politico risulta essere proprio il disaccordo su tale definizione.

Mentre dopo il 1945 un crescente sistema di regole ha vincolato le decisioni belliche degli Stati e la condotta delle guerre, lo stesso non si è verificato per quanto concerne gli attori non statuali. La motivazione è più politica che tecnica: dal punto di vista legale, infatti, le Convenzioni antiterrorismo esistenti contengono una serie di norme complessivamente sufficienti a contrastare ogni forma di terrorismo, per non parlare del diritto internazionale generale, delle Convenzioni di Ginevra e dello Statuto della Corte penale internazionale. Tuttavia, è chiaro che la mancanza di accordo su una chiara e diffusa definizione del terrorismo toglie vigore legale e morale alla lotta contro di esso, e impedisce il formarsi di un nucleo attorno al quale organizzare un’adeguata cornice di regole comprensibili per un vasto pubblico.

Il Rapporto rigetta sostanzialmente la visione per la quale una definizione di terrorismo dovrebbe includere l’uso di forze armate contro i civili da parte degli Stati, in quanto, come sopra enunciato, il quadro normativo per tali casi è già assai sviluppato. Parimenti rifiutata è la visione per cui la definizione di terrorismo dovrebbe evitare di includere tra le fattispecie di esso la resistenza dei popoli occupati da truppe straniere, in quanto il punto centrale sta nell’inaccettabilità di attacchi e uccisioni di civili innocenti, che non hanno nulla a che vedere con l’occupazione straniera, e che devono ricevere una condanna univoca e generalizzata.

Il Rapporto sottolineare l’importanza cruciale del raggiungimento di una definizione per consensus di terrorismo in seno all’Assemblea Generale, la quale dovrebbe altresì affrettare la conclusione dei negoziati per una Convenzione globale contro il terrorismo.

La definizione di terrorismo dovrebbe includere il riconoscimento che l’uso della forza su larga scala da parte di uno Stato contro i civili costituisce crimine di guerra o crimine contro l’umanità. Si dovrebbe inoltre ribadire che gli atti contrari a disposizioni delle dodici Convenzioni antiterrorismo sono terroristici e sono crimini alla luce del diritto internazionale; e che il terrorismo in tempo di guerra è vietato dalle Convenzioni di Ginevra e relativi Protocolli.

Una traccia più precisa è fornita dal Rapporto quando raccomanda, nella definizione, di descrivere il terrorismo - in aggiunta alle fattispecie già previste nelle esistenti Convenzioni sui diversi aspetti sul terrorismo, dalle Convenzioni di Ginevra e dalla Risoluzione del Consiglio di sicurezza n. 1566 del 2004  - quale atto orientato a provocare la morte o gravi conseguenze fisiche a danno di civili o non combattenti, con il fine di intimidire la popolazione o forzare un Governo o un’Organizzazione internazionale ad agire in un certo modo, o ad astenersi dal farlo.

 

VII.  Il crimine organizzato transnazionale

A. La minaccia attuale

Il crimine organizzato transnazionale è definito come una minaccia agli Stati e alle società, capace di erodere la sicurezza, mettendo in crisi gli obblighi fondamentali degli Stati nell’assicurare la legalità e l’ordine. La lotta a questo tipo di criminalità è una tappa necessaria anche per la prevenzione o la risoluzione dei conflitti interni, la limitazione nella diffusione delle armi e il contrasto al terrorismo.

Viene individuato, quale aspetto principale e più lucroso del crimine organizzato transnazionale, il traffico di stupefacenti, i cui profitti superano in alcune aree del mondo il PIL di diversi Stati della regione, minandone l’autorità e le possibilità di sviluppo economico. Inoltre, vi sono prove sempre maggiori del legame tra il finanziamento dei gruppi terroristici e i traffici di droga, con particolare evidenza in Afghanistan. I tentativi di ridurre l’offerta di stupefacenti hanno registrato successi in alcuni Paesi, e sconfitte in altri, mentre scarsi sono stati i risultati delle strategie di riduzione della domanda nei Paesi industrializzati.

Oltre ai legami che gli enormi profitti del crimine organizzato transnazionale consentono di intrattenere con le élite politiche di molti Paesi; la forza delle organizzazioni criminali sta nel loro operare in reti collegate, più che in rigidi rapporti di subordinazione. A ciò fa purtroppo da contraltare lo scarso coordinamento tra gli Stati in materia di indagini e procedimenti penali.

 

B. La sfida della prevenzione

1.  Migliore quadro giuridico internazionale

Negli ultimi anni numerose Convenzioni internazionali hanno offerto gli strumenti per una lotta finalmente efficace: si tratta della Convenzione ONU del 2000 contro il crimine organizzato transnazionale e dei suoi tre Protocolli (concernenti rispettivamente la tratta di persone, i traffici clandestini di immigranti e la fabbricazione e il commercio illegali di armi da fuoco e loro componenti); nonché della Convenzione ONU del 2003 contro la corruzione. Tuttavia, nemmeno la metà degli Stati membri delle Nazioni Unite ha sinora firmato o ratificato tali strumenti, ovvero sostenuto la loro applicazione. E’ necessario invece che si generalizzi l’adesione e il supporto ad essi, sostenendo soprattutto l’Ufficio delle Nazioni Unite sugli stupefacenti e il crimine (UNODC).

Gli Stati membri dovrebbero inoltre creare un’Autorità centralizzata per il contrasto alle attività criminali transfrontaliere, che faciliti la cooperazione giudiziaria penale tra gli Stati. Non meno importante si prospetta la necessità che l’Assemblea Generale metta a punto una Convenzione contro il riciclaggio, che consenta di superare i limiti posti in molti Stati dal segreto bancario e dalla creazione di santuari finanziari.

 

2.      Migliore attività di sostegno agli Stati

Si auspica che l’ONU sia posta in condizione di assicurare adeguati finanziamenti, ai Paesi che ne abbisognano, per la realizzazione di un più diffuso stato di diritto, sulla scorta dei programmi di formazione e assistenza messi a punto dall’UNODC.

 

VIII.  Il ruolo delle sanzioni

L’ultima sezione della Parte 2 è dedicata a una valutazione dello strumento delle sanzioni, riprendendo in parte anche spunti emersi nelle sezioni sui conflitti armati e sul terrorismo.

Si sottolinea l’importanza delle sanzioni soprattutto con funzione preventiva, per il loro carattere di effettiva pressione, adattabile alle circostanze ma privo di contenuti bellici. Ancorché imperfetto, tale strumento può esercitare forte deterrenza, anche solo a livello simbolico.

Al Consiglio di Sicurezza spetta assicurare la piena applicazione delle sanzioni emanate, attraverso anzitutto la creazione di meccanismi di controllo autorevoli e di alto livello. l Comitati sanzioni del Consiglio di Sicurezza dovrebbero sviluppare linee-guida per gli Stati con riferimento all’attuazione di sanzioni e alla compilazione corretta e aggiornata di elenchi di persone o enti colpiti da sanzioni.

Un funzionario di livello superiore e adeguate risorse dovrebbero essere destinati dal Segretario Generale al supporto del Consiglio di Sicurezza nella messa a punto di sanzioni mirate e nel monitoraggio della loro applicazione. Maggiori risorse dovrebbero essere finalizzate a migliorare le capacità degli Stati nel processo di applicazione delle sanzioni, mentre il Consiglio di sicurezza deve considerare la possibilità di imporre “sanzioni secondarie” ai principali responsabili di un’eventuale mancata applicazione. I meccanismi amministrativi per l’attuazione delle sanzioni, su iniziativa del Segretario Generale, dovrebbero essere sottoposti ad appropriate revisioni contabili.

Infine, i Comitati sanzioni del Consiglio di sicurezza dovrebbero migliorare le procedure che prevedono eccezioni di carattere umanitario, e più in generale effettuare valutazioni di routine sull’impatto umanitario delle sanzioni nelle varie situazioni; nonché prevedere meccanismi di revisione degli elenchi di persone o enti sottoposti a sanzioni, per il caso di richieste motivate di cancellazione da essi.

 

 

 

 

 

 


Parte III

 


La sicurezza collettiva e l’uso della forza

 

La terza parte affronta un tema cruciale per il futuro dell’Organizzazione e del sistema di relazioni internazionali: il ricorso all’uso della forza per la tutela della sicurezza collettiva. Negli ultimi quindici anni, nell’ambito della Nazioni Unite, ed in particolare del Consiglio di sicurezza, si è registrato un ampio consenso nell’individuare le minacce alla pace ed alla sicurezza internazionale nonché, in linea di massima, nell’adottare misure non implicanti l’uso della forza. Diversità di opinioni rivelatesi non superabili  si sono invece manifestate quando si è trattato di decidere se ricorrere all’uso della forza militare su larga scala per  garantire l’attuazione dei deliberati del Consiglio di sicurezza.

Il Rapporto considera, anche in relazione a tale materia, pienamente adeguata la Carta delle Nazioni Unite nella sua attuale formulazione e ritiene si tratti solo di interpretarla ed applicarla in modo adeguato. La Carta, in altri termini, è di per sé in grado, secondo  il Panel, di fornire risposte efficaci anche alle attuali e per molti aspetti nuove minacce alla pace ed alla sicurezza internazionale.

 

IX. Uso della forza: regole e linee guida

Nel Rapporto si ricorda come la Carta riconosca che la forza può essere necessaria per prevenire e rimuovere minacce alla pace ovvero per contrastare atti di aggressione o altre rotture della pace. L’uso della forza militare è definito una componente vitale di ogni sistema di sicurezza collettiva efficiente e, al contempo, una delle questioni politiche maggiormente controverse.

Il mantenimento della pace e della sicurezza dipende dall’esistenza di un generale consenso circa i casi in cui l’uso della forza è sia legale che legittimo. Quando uno solo di questi requisiti risulta soddisfatto, l’ordine legale internazionale risulta indebolito e la sicurezza esposta ad un più alto rischio.

 

A. La questione della legalità

Viene sottolineato come la Carta (art. 2.4) contenga un generale divieto del ricorso all’uso della forza che conosce solo due eccezioni: la legittima difesa ex art. 51 della Carta; e le misure di carattere militare autorizzate dal Consiglio di sicurezza ai sensi del Capitolo VII della Carta in risposta ad una minaccia rottura della pace ovvero ad un atto di aggressione.

In sede di applicazione dei principi sanciti dalla Carta – ricorda il Panel - sono sorte particolari difficoltà in presenza dei seguenti casi:

1) quando uno Stato rivendica il diritto di agire preventivamente, per legittima difesa, in risposta ad una minaccia che non è imminente;

2) quando uno Stato appare rappresentare una minaccia esterna, attuale o potenziale, per altri Stati o popoli al di fuori dei suoi confini, ma vi è disaccordo nel Consiglio di sicurezza riguardo ai provvedimenti da assumere;

3) quando la minaccia è interna e riguarda in primo luogo la popolazione di un determinato Stato.

 

 

1.      Articolo  51 della Carta delle Nazioni Unite e legittima difesa

Al fine di fornire risposte a tali interrogativi postisi nella recente esperienza dell’Organizzazione, il Rapporto passa in esame le pertinenti disposizioni della Carta.

Riguardo all’esercizio del diritto alla legittima difesa (che non richiede alcun previo intervento del Consiglio di sicurezza - n.d.r.) si rammenta come, in accordo con una regola del diritto internazionale da tempo invalsa, un’azione militare può essere intrapresa anche quando l’attacco minacciato è soltanto imminente, nessun altro mezzo è in grado di sventarla e l’azione risulti proporzionata alla minaccia.

I problemi sorgono quando la minaccia non è imminente ma tuttavia si sostiene che essa è reale: per esempio l’acquisizione, con un supposto intento ostile, della capacità di produrre armi nucleari. Nel Rapporto non si contesta che in simili casi possa configurarsi il diritto di agire in anticipatory self-defence, ma si ritiene che simili questioni vadano sottoposte al Consiglio di sicurezza al quale spetterà autorizzare o meno un’azione militare. Se il Consiglio non riconoscesse la necessità di ricorrere alla forza, diverrebbero necessarie altre strategie di persuasione, negoziazione, deterrenza e contenimento, salva poi la possibilità di sottoporre nuovamente al Consiglio l’opzione militare. A riguardo si afferma chiaramente  come i rischi per l’ordine globale ed il principio del non intervento che deriverebbero dal riconoscimento della legalità di azioni preventive unilaterali risultino troppo elevati per essere assunti.

Il Panel si dichiara conseguentemente contrario ad una riscrittura o ad una reinterpretazione dell’art. 51 della Carta.

 

A riguardo va osservato come solo una parte minoritaria della dottrina riconosca la liceità, ai sensi dell’art. 51 della Carta, della legittima difesa preventiva a fronte di un attacco non in atto ma solo imminente (v. B. Conforti, Le Nazioni Unite, Cedam, 1996, p. 177 ss.). Secondo la prevalente dottrina, la legittima difesa può essere esercitata solo dopo che l’attacco armato si sia verificato. Le due interpretazioni qui considerate potrebbero risultare meno distanti qualora si interpreti in senso restrittivo l’aggettivo “imminente”, nel senso di ritenere che debbano essere state comunque avviate le attività militari preparatorie dell’attacco (ad esempio, uomini e mezzi schierati lungo i confini con un manifesto intento ostile) (cfr. N. Ronzitti, Introduzione al diritto internazionale, Giappichelli 2004, p. 316). Può essere interessante ricordare come, il manuale del Dipartimento della difesa degli Stati Uniti consideri lecito un “attacco iniziato sulla base dell’incontrovertibile evidenza che un attacco nemico è imminente” (v. A.M. Schlesinger, Jr, “War and the american presidency, Norton edition, p. 21). In altri termini, chiosa tale autore - asserendo che si tratta di un dato da tempo acquisito per l’amministrazione americana - un intervento militare preventivo è consentito solo dinanzi ad una diretta, immediata e specifica minaccia che deve essere immediatamente eliminata.

 Il Rapporto non fornisce particolari indicazioni atte a chiarire la nozione di “imminenza” dell’attacco. Il tema appare peraltro di notevole rilievo, in quanto l’esercizio del diritto di legittima difesa può essere autonomamente esercitato dagli Stati senza la necessità di un previo avallo del Consiglio di sicurezza.

 Il Rapporto esclude invece che siano riconducibili alla nozione di legittima difesa le azioni militari intraprese in assenza di una minaccia imminente a scopo meramente preventivo. Il Panel tuttavia, come si vedrà più diffusamente al paragrafo successivo, non nega in via di principio la liceità di simili interventi, ma richiede che siano autorizzati dal Consiglio di sicurezza.

Il Rapporto non chiarisce se l’attacco armato che consente di agire in legittima difesa debba provenire da uno Stato o possa provenire anche da un’entità non statale. Il problema si è concretamente posto in occasione degli attentati terroristici contro gli Stati Uniti dell’11 settembre 2001. La NATO ha, nell’immediatezza dell’evento, deciso che, qualora gli attentati fossero risultati concepiti ed organizzati al di fuori del territorio statunitense, dovevano essere considerati un attacco armato e determinare l’attivazione del vincolo di solidarietà disciplinato dall’articolo 5 del Trattato Nord-Atlantico (compiuta tale verifica, il Consiglio atlantico  ha successivamente attivato l’art. 5). Gli Stati Uniti hanno attaccato militarmente l’Afghanistan dichiarando di agire per legittima difesa. L’azione  degli Stati Uniti è stata sostanzialmente avallata dal Consiglio di sicurezza con le risoluzioni 1368 e 1373 del 2001 le quali, nel preambolo, fanno riferimento al diritto di legittima difesa individuale e collettiva (v. N. Ronzitti. op. ult. cit., p. 319).

 

 

2.      Capitolo VII della Carta delle Nazioni Unite e minacce esterne

Il Rapporto sottolinea come il Capitolo VII della Carta, in tutti i casi in cui uno Stato minacci altri Stati, popoli al di fuori dei propri confini o l’ordine internazionale in generale, sia formulato in termini sufficientemente ampi da consentire al Consiglio di sicurezza di approvare ogni sorta di azione coercitiva, compreso l’uso della forza militare, contro uno Stato, qualora ritenga che ciò sia necessario per mantenere o ristabilire la pace e la sicurezza internazionale. La minaccia può riguardare il presente, il futuro prossimo o il futuro remoto, può coinvolgere attori statali o non statali e può assumere la forma di un’azione o di un’omissione.

Le preoccupazioni espresse circa la legalità dell’uso preventivo della forza militare ai sensi dell’art. 51 della Carta non riguardano quindi il caso di azioni collettive autorizzate ai sensi del Capitolo VII. Il Panel condivide infatti la preoccupazione della comunità internazionale secondo la quale il combinato disposto di terrorismo, armi di distruzione di massa e Stati irresponsabili può giustificare l’uso della forza in via preventiva prima che una minaccia latente diventi imminente. Tali azioni possono sicuramente essere svolte ma solo per volontà del Consiglio di sicurezza.  Il Consiglio dovrà valutare se vi è una credibile evidenza della realtà della minaccia e se la risposta militare è la sola ragionevole nelle circostanze date.

 

Riguardo alla possibilità che alcuni Stati avvertano in ogni caso l’obbligo di fare quello che ritengono opportuno a difesa dei propri cittadini, il Rapporto sottolinea come, dopo la fine della guerra fredda, le aspettative in termini di legalità siano assai più elevate. Si riconosce tuttavia come il Consiglio non sia stato spesso all’altezza delle sue responsabilità, ma si osserva come la soluzione non possa essere quella di ridurre il Consiglio stesso all’impotenza ed alla irrilevanza. Occorre invece lavorare ad una riforma a partire dallo stesso Rapporto. L’obiettivo non deve essere quello di trovare alternative al Consiglio ma di fare in modo che il Consiglio lavori meglio di quanto attualmente non faccia.

 

Il ricorso alla anticipatory self defense  prima che una minaccia diventi imminente di cui parla il Rapporto ricorda molto da vicino la nuova e diversa concezione della legittima difesa preventiva (la c.d. guerra preventiva) teorizzata dall’amministrazione statunitense nella National security strategy del settembre 2002. In sintesi, secondo  tale dottrina vi è  il rischio che i gruppi terroristici e i c.d. rogue states si dotino di armi di distruzione di massa ed acquisiscano, grazie ad esse, la capacità di minacciare gli Stati Uniti ovvero di dissuaderli dal rispondere alle aggressioni contro gli Stati amici o alleati in regioni di interesse vitale. Occorre quindi giocare di anticipo rispetto ad una simile eventualità, intervenendo prima che la minaccia diventi imminente. Il Rapporto non nega la possibilità di ricorrere alla forza in simili circostanze, ma stabilisce la necessità di una previa autorizzazione del Consiglio di sicurezza. La necessità dell’intervento del Consiglio deriva dal fatto che la legittima difesa preventiva, in assenza della minaccia di un attacco armato, non può fondarsi sull’art. 51 della Carta, che disciplina un  autonomo diritto degli Stati, da esercitarsi in maniera individuale o collettiva, alla propria autodifesa. Qualora si manifestino i rischi ai quali si è accennato, il Consiglio può invece ritenere di trovarsi in presenza di una minaccia per la pace e la sicurezza internazionale ed autorizzare il ricorso all’uso della forza ai sensi del Capo VII della Carta. In mancanza di tale autorizzazione, secondo il principio di carattere generale relativo al divieto dell’uso della forza, il ricorso alla forza militare risulterebbe in contrasto con la Carta stessa.

 

 

3. Capitolo VII della Carta delle Nazioni Unite, minacce interne e responsabilità di proteggere

Il Rapporto affronta a questo punto il problema di come conciliare l’obiettivo della tutela dei diritti umani con il principio di non interferenza negli affari interni degli Stati. Il Panel ricorda il conflitto tra i sostenitori del diritto di intervento in caso di catastrofi per responsabilità umana e gli assertori dell’impossibilità per il Consiglio di sicurezza di intervenire in questioni che riguardano l’esercizio della sovranità statuale. Prendendo le mosse dalla Convenzione per la prevenzione e la sanzione del crimine di genocidio, nel Rapporto si afferma che il principio di non interferenza negli affari interni non può essere utilizzato per ammettere atti di genocidio né altre analoghe atrocità quali violazioni su larga scala del diritto umanitario  internazionale e pulizie etniche che possono essere ritenute una minaccia alla sicurezza internazionale e provocare l’intervento del Consiglio.

Vengono espressamente citati i casi della Somalia, della Bosnia Erzegovina, del Rwanda, del Kosovo e del Darfur che hanno determinato una crescente consapevolezza che se, da un lato, i Governi hanno una responsabilità primaria in materia di tutela dei propri cittadini, dall’altro, quando gli stessi Governi si dimostrano incapaci  o si rifiutano di operare in tal senso, una responsabilità in materia dovrebbe essere assunta dalla comunità internazionale.

Il Rapporto, pur riconoscendo come in passato il Consiglio abbia dimostrato una debole propensione ed una debole capacità ad agire in tal senso, appoggia la norma in via di affermazione secondo la quale vi è una responsabilità internazionale collettiva nel caso di genocidi e di altre uccisioni su larga scala del tipo di quelle prima menzionate, qualora i Governi sovrani si rivelino unable (incapaci) o unwilling (privi della volontà) di intervenire. Tale responsabilità fa capo al Consiglio di sicurezza, che può autorizzare interventi militari come ultima risorsa.

 

Sulla base delle disposizioni contenute nella Carta in materia di tutela dei diritti umani e di non interferenza negli affari interni degli Stati, risulterebbe quindi in via di affermazione una nuova norma di diritto internazionale che consente al Consiglio di sicurezza di intervenire a tutela dei diritti umani fondamentali anche quando diffuse e rilevanti violazioni di tali diritti avvengano nell’ambito di singoli Stati che non possano o non intendano porvi rimedio. Anche in questo caso, quindi, il Panel sostiene l’adeguatezza della Carta a far fronte alle nuove minacce alla sicurezza, sottolineando tuttavia come determinate vicende verificatesi a partire dagli anni ’90 abbiano indotto a fornire una nuova interpretazione della stessa Carta.

Affermando la necessità di una previa autorizzazione del Consiglio di sicurezza, il Panel smentisce implicitamente una diversa tesi che, nel caso di gravi violazioni dei diritti dell’uomo, prospetta un “dovere d’ingerenza umanitaria”, come dovere di uno Stato o di un gruppo di Stati di intervenire in territorio altrui senza il consenso dello Stato territoriale allo scopo di porre fine a tali violazioni. La tesi in questione, contestata dalla gran parte della dottrina, è stata tra l’altro avanzata in occasione delle operazioni di assistenza alle popolazioni curde e sciite in Iraq immediatamente dopo la fine della guerra del Golfo (1991) e in relazione alle azioni in favore di paesi come la Somalia ed il Ruanda (v. N. Ronzitti, Diritto internazionale dei conflitti armati, Giappichelli, 2001, p. 49 ss.)

 

B. La questione della legittimità

Il Rapporto approfondisce a questo punto il requisito della legittimità che - insieme a quello della legalità sulla quale si era sin qui soffermato – devono presentare le decisioni assunte nel quadro del sistema di sicurezza collettiva globale.  La legittimità è definita come la comune percezione che le decisioni in questione sono assunte sulla base di solide e provate ragioni, e per motivi condivisibili, sotto il profilo morale e legale.

Affinché le decisioni del Consiglio di sicurezza siano avvertite come giuste e condivisibili a livello internazionale, il Consiglio, nel decidere se autorizzare o meno il ricorso all’uso della forza, dovrà adottare e sistematicamente osservare un complesso di linee guida condivise, avendo come obiettivo non quello di verificare se la forza può essere utilizzata dal punto di vista legale ma se, come questione di coscienza e di senso comune, dovrebbe esserlo.

 

Le linee guida individuate nel Rapporto hanno lo scopo di favorire il conseguimento, nell’ambito del Consiglio di sicurezza, di un accordo in merito all’opportunità o meno di intraprendere azioni coercitive, al fine di massimizzare il consenso internazionale nei confronti delle determinazioni del Consiglio e di ridurre al minimo la possibilità che alcuni Stati membri decidano di scavalcare il Consiglio.

 

I criteri di legittimità individuati dal Rapporto sono i seguenti:

 

a)            Serietà della minaccia. Il danno minacciato alla sicurezza statuale o umana deve essere di un genere tale, nonché sufficientemente evidente e serio, da giustificare prima facie l’uso della forza militare. In caso di minacce interne, queste devono attenere al crimine di genocidio o ad altre uccisioni su vasta scala, pulizia etnica o serie violazioni del diritto internazionale umanitario;

b)            Obiettivo appropriato. Lo scopo primario dell’azione militare deve essere la neutralizzazione della minaccia in questione.

c)            Ultima risorsa. Deve essere prima verificata l’efficacia di ogni opzione  non militare volta ad affrontare la minaccia e devono esservi fondati motivi per ritenere che misure di natura non militare sarebbero votate all’insuccesso.

d)            Mezzi proporzionati. La scala, la durata e l’intensità dell’azione militare devono rappresentare il minimo necessario ad affrontare la minaccia in questione.

e)            Bilanciamento delle conseguenze. Deve esservi una ragionevole possibilità che l’azione militare affronti con successo la minaccia e che le conseguenze dell’azione non si rivelino facilmente peggiori delle conseguenze dell’inazione.

 

Le linee guida ora illustrate dovranno essere sviluppate in risoluzioni del Consiglio di sicurezza e dell’Assemblea generale.

 

Il Panel, come aveva già anticipato, oltre ad individuare delle linee guida a fini eminentemente pratici (si intende infatti orientare le decisioni del Consiglio al fine di incrementarne la coerenza e l’obiettività), stabilisce un altro importante principio. Il Consiglio deve preoccuparsi, oltre che della legalità, della legittimità dell’uso della forza. Quindi, l’intervento del Consiglio sembrerebbe necessario al fine di assicurare, non solo la legalità, ma anche la legittimità del ricorso alla forza. 

L’affermazione appare rilevante considerando come, in occasione dei recenti interventi della comunità internazionale in Kosovo e in Iraq, pur in assenza di una formale autorizzazione del Consiglio che ne avrebbe indiscutibilmente certificato la legalità, sia stata sostenuta la legittimità dell’uso della forza sulla base dei principi del diritto internazionale. In entrambi i casi, anche se con motivazioni e su basi in parte diverse, si è sostenuto che: l’esistenza di una minaccia alla pace ed alla sicurezza era stata accertata dal Consiglio; mezzi alternativi all’uso della forza erano stati utilizzati; i deliberati del Consiglio risultavano ripetutamente violati;  la minaccia persisteva e rischiava di produrre danni irreversibili; solo la minaccia del veto, o comunque l’incapacità del Consiglio di sicurezza di trarre le dovute conseguenze dalle proprie precedenti deliberazioni, impediva di avallare un intervento militare, determinando un’insostenibile fase di stallo.

La stessa dottrina strategica della NATO definita al vertice di Washington del 1999 sembra riflettere un analogo approccio al tema dell’uso della forza. Infatti, da un lato, si afferma che le attività implicanti l’uso della forza vanno, di regola, svolte nel quadro delle Nazioni Unite e si riconosce al  Consiglio di sicurezza un ruolo primario nella tutela della pace e della sicurezza; dall’altro,non si esclude la possibilità che l’Alleanza operi autonomamente, specialmente qualora le particolari modalità decisionali del Consiglio impedissero l’adozione di una delibera (v. E. Cannizzaro, “La nuova dottrina strategica della NATO e l’evoluzione della disciplina internazionale sull’uso della forza”,p. 47-48, in N. Ronzitti (a cura di), “Nato, conflitto in Kosovo e costituzione italiana”, Giuffré, 2000.).

 

X Capacità di imposizione e di mantenimento della pace (peace enforcement e peacekeeping)

Il Rapporto affronta anche il problema delle capacità militari necessarie allo svolgimento delle missioni di peace-enforcement e di peacekeeping. In tale contesto, vengono espresse alcune valutazioni circa la natura e la praticabilità delle missioni in questione.

Innanzitutto, pur riconoscendo che esistono delle differenze tra missioni di peacekeeping – sostenute dal consenso delle parti in conflitto e con il compito di implementare un accordo di pace o di monitorare il cessate il fuoco -, e le missioni di peace-enforcement - dove un robusto uso della forza è parte integrante della missione che è volta, ad esempio, a fronteggiare un’esplosione di violenza o a rispondere ad una violazione dei confini senza che i contendenti abbiano raggiunto un previo accordo -, il Rapporto tende tuttavia a valorizzare gli elementi comuni alle due tipologie ed a considerarle in modo unitario.

Si ritiene che entrambi i tipi di missione necessitino di una previa autorizzazione da parte del Consiglio di sicurezza, osservando come sia per il peacekeeping che per il peace-enforcing la normale prassi preveda il conferimento di un mandato ai sensi del Capitolo VII della Carta. A riguardo si osserva come anche le missioni di peacekeeping includano l’autorizzazione all’uso della forza quanto meno per legittima difesa e per la “difesa della missione”.

Ciò che viene giudicato necessario e decisivo in ogni dispiegamento di forze è l’attribuzione di un chiaro, appropriato e ben compreso mandato, in grado di essere applicato in tutte le diverse circostanze che potrebbero ragionevolmente verificarsi.

Il Panel osserva quindi come la domanda di personale per le missioni in questione rimanga più elevata dell’offerta e come in assenza di un aumento delle forze disponibili per le missioni di peacekeeping delle Nazioni Unite vi sia il rischio di replicare alcuni dei peggiori fallimenti registratisi negli anni ’90. Le ragioni strutturali di tale carente disponibilità sono identificate nella configurazione delle forze armate di molti paesi che risulta ancora commisurata alle esigenze della guerra fredda e nel fatto che ancora poche nazioni hanno sufficienti capacità di trasporto e logistiche.

Vengono in proposito sottolineate le peculiari responsabilità degli Stati sviluppati che dovrebbero fare di più per trasformare le attuali capacità in contingenti utilizzabili per le missioni di pace da mettere a disposizione delle Nazioni Unite. Si esprime a riguardo apprezzamento per la decisione dell’Unione europea di costituire forze di elevata prontezza operativa in grado di svolgere le missioni delle Nazioni Unite. Tutti gli Stati membri sono invitati a sostenere gli sforzi del Dipartimento per le operazioni di peacekeeping del Segretariato delle Nazioni Unite.

 

Il Rapporto fonda sia le missioni di peacekeeping che le missioni di peace enforcement sul Capitolo VII della Carta relativo alle misure di natura sanzionatoria da assumere in presenza di minacce alla pace, violazioni della pace e atti di aggressione. Per quanto riguarda il peacekeeping, tale conclusione non è pacifica in dottrina. Taluni infatti ritengono che vada ricondotto al Capitolo VI, relativo alla risoluzione pacifica delle controversie, altri lo collocano a cavallo tra il Capitoli VI e VII della Carta, altri ancora, tra cui lo stesso Segretario generale pro tempore delle Nazioni Unite (cfr. Agenda per la pace, Rapporto presentato dal Segretario generale al Consiglio di sicurezza nel 1993), sostengono che tali missioni si basano su regole non scritte condivise dalla generalità degli Stati (per una rassegna delle opinioni in materia v. B. Conforti, Le Nazioni Unite, op. cit. p. 200-201). Non mancano tuttavia coloro che condividono l’opinione espressa dal Panel, che sembra in particolare dipendere dal carattere mutevole delle missioni di peacekeeping e dalla comprovata possibilità che nel corso di esse si renda necessaria una escalation nell’uso della forza.

L’opinione potenzialmente più  densa di conseguenze contenuta in questa parte del Rapporto, che discende in una qualche misura da quella in precedenza esaminata e dalle ragioni che la giustificano, riguarda la necessità di una previa autorizzazione del Consiglio anche per le missioni di peacekeeping. L’affermazione è rilevante poiché una delle tradizionali cause di esclusione dell’illiceità dell’uso della forza nelle relazioni internazionali (art. 2, par. 4, della Carta) è costituita dal consenso dell’avente diritto, ossia del sovrano territoriale, che rappresenta anche  la condizione fondamentale  per poter definire tale una missione di peacekeeping (v. N. Ronzitti, Diritto internazionale dei conflitti armati, op. cit., p.76).

Qui e in altre parti del Rapporto, il Panel sembra tuttavia ritenere che il Consiglio possa limitarsi ad autorizzare l’uso della forza, avallando in tal modo una prassi affermatasi soprattutto a partire dagli anni ’90 (l’unico caso verificatosi in precedenza riguarda la guerra di Corea nel 1950) secondo la quale il Consiglio può autorizzare o raccomandare l’uso della forza (guerra del Golfo del 1991, crisi somala, crisi jugoslava) da parte di singoli Stati o di organizzazioni regionali, senza impegnarsi ad intraprendere direttamente un’azione coercitiva. Si ritiene in ogni caso che, affinché tale prassi possa essere ritenuta conforme alla Carta delle Nazioni Unite, il Consiglio debba esercitare un controllo sulla svolgimento delle missioni (v. B. Conforti, Le Nazioni Unite, op. cit. p. 204, che nota come il Consiglio assuma sempre più funzioni direttive anziché operative).

In altri casi, il Consiglio non si limita a rilasciare un’autorizzazione ma prevede che le missioni a tutela della pace e della sicurezza siano svolte da forze militari direttamente riconducibili alle Nazioni Unite. Spetta al Segretario generale il compito di costituire la forza, individuando a sua discrezione gli Stati che intendono concorrere su base volontaria a formare i contingenti militari. Per facilitare il compito del Segretario Generale, gli Stati membri, mediante gli Stand-by Arrangements (menzionati dal Rapporto) tengono a disposizione contingenti addestrati per compiti di peacekeeping, che restano sotto comando nazionale sino al trasferimento sotto comando delle Nazioni Unite per lo svolgimento di singole missioni. Una versione rafforzata di tale tipo di accordi è la Shirbrig (Standby Forces High Readiness Brigade) che comportano una stretta cooperazione tra ONU e Stati membri sin dalla destinazione di un contingente a prestare servizio nella Brigata. Il Panel invita gli Stati membri a rafforzare tali forme di collaborazione con le Nazioni Unite al fine di accrescerne le capacità militari.

Dopo le missioni ONU in Somalia (UNOSOM I e II, rispettivamente del 1992 e del 1993), si è andata affermando una “divisione del lavoro” tra missioni ONU e missioni autorizzate dall’ONU: le prime hanno avuto luogo quando si trattava di svolgere compiti di peacekeeping, le seconde quando oggetto della missione era il peace enforcement. Le ragioni di tale ripartizione dei compiti sono apparse dipendere dalla maggiore rilevanza politica nonché dalla maggiore complessità dal punto di vista militare delle missioni di imposizione della pace.

In realtà, nessuna delle due ipotesi considerate può ritenersi pienamente conforme al dettato della Carta. L’art. 42 è chiarissimo in proposito: “il Consiglio può con forze aeree, navali e terrestri, intraprendere ogni azione che sia necessaria per mantenere o ristabilire la pace e la sicurezza internazionale…”. Per consentire al Consiglio di operare, gli Stati membri devono mettere a disposizione del Consiglio stesso, a sua richiesta ed in conformità ad appositi accordi appositamente stipulati, le forze armate, l’assistenza e le facilitazioni necessarie (art. 43). Gli artt. 46 e 47 prevedono che i piani per l’impiego delle forze siano messi a punto dal Consiglio con l’ausilio di un Comitato di Stato Maggiore composto dai Capi di Stato maggiore dei membri permanenti.

Tali articoli, com’è noto, non hanno mai ricevuto attuazione e questo spiega le soluzioni alternative che sono state progressivamente individuate.

Appare tuttavia singolare che il Rapporto non prenda alcuna posizione in merito all’art. 43 e si limiti ad avallare le prassi esistenti. Il Panel poteva proporre l’abrogazione, l’attuazione o la modifica dell’art. 43 (e seguenti), che non viene invece preso in considerazione. Si vedrà oltre come il Panel proponga tuttavia l’abolizione del Comitato dei Capi di Stato Maggiore, suggerendo di sostituirlo con dei consiglieri militari. Si ricorda in proposito come nel Rapporto dell’allora Segretario generale dell’ONU, Boutros Ghali, denominato Un’Agenda per la pace e risalente al marzo 1993, fosse stato raccomandato al Consiglio di sicurezza di avviare i negoziati previsti dall’art. 43 della Carta. Tale sollecitazione non ha poi avuto seguito.

 

XI La costruzione della pace dopo il conflitto

A Il ruolo dei peacekeepers

Una specifica attenzione viene dedicata al post-conflict peacebuilding (costruzione della pace dopo un conflitto). Sulla scorta di esperienze negative quali quelle del Ruanda e della Sierra Leone negli anni ’90, si osserva come l’attività di peacekeeping sia destinata a fallire quando non si investono risorse sufficienti e non vengono poste in essere strategie adeguate al conseguimento degli obiettivi di pacificazione. In tali casi sono molto alti i rischi per i paesi interessati di essere di nuovo vittime della guerra civile. Si sottolinea tra l’altro la necessità che le forze di pace siano poste in grado di respingere attacchi armati e di resistere ai potenziali aggressori: in caso contrario, gli accordi di pace possono trasformarsi in un incentivo a commettere violazioni massicce dei diritti umani da parte delle forze interessate al loro fallimento. Altro aspetto che si ritiene opportuno sviluppare è la capacità di organizzare l’avvio delle componenti di polizia delle operazioni di pace, al fine di ripristinare la legalità e l’ordine nei paesi interessati. A tal fine si prospetta l’istituzione di corpi ristretti di ufficiali di polizia e manager (composti di 50-100 persone) per l’organizzazione delle componenti di polizia delle missioni di pace.

 

 

B. Il più ampio obiettivo della costruzione della pace (peacebuilding)

Altra fase estremamente delicata è quella che segue all’abbandono di un paese da parte dei peacekeepers. Il paese coinvolto non è infatti a quel punto più oggetto di un’attenzione continuativa da parte del Consiglio di sicurezza e né le Nazioni Unite, né la comunità internazionale nel suo complesso, né le istituzioni finanziarie internazionali risultano attrezzate per assistere i paesi impegnati a costruire la pace.

A riguardo si ritiene necessaria l’istituzione di un organismo intergovernativo specializzato nel peacebuilding(tema più diffusamente affrontato nella parte IV del Rapporto); nel costante monitoraggio dei paesi a rischio; nel coordinamento delle azioni dei donatori, delle agenzie, dei programmi e delle istituzioni finanziarie; nella mobilitazione delle risorse per una pace sostenibile.

Il coordinamento degli interventi e delle risorse assume un’importanza cruciale rispetto al più importante obiettivo delle missioni di peacekeeping: la smobilitazione dei combattenti, senza la quale la guerra civile non può dirsi conclusa. Un simile obiettivo non si realizza solo con programmi di disarmo e smobilitazione, ma anche necessariamente prevedendo risorse per la reintegrazione e la riabilitazione. Dovrebbe essere istituito un fondo permanente di almeno 250 milioni di dollari per il peacebuilding.

 

XII. Protezione dei civili

La protezione dei civili nel corso dei conflitti armati è considerata una prioritaria responsabilità dei belligeranti. Per assicurare il conseguimento di tale obiettivo il Rapporto raccomanda la sottoscrizione, la ratifica e l’attuazione, da parte degli Stati membri, di tutti i trattati relativi alla protezione dei civili quali la Convenzione sul genocidio, le Convenzioni di Ginevra, lo Statuto di Roma della Corte penale internazionale e tutte le convenzioni sui rifugiati.

Violazioni di particolari intensità dei diritti della popolazione civile si verificano in occasione della militarizzazione dei campi dei rifugiati. In tali casi il Consiglio di sicurezza, pur riconoscendo che la militarizzazione rappresenta una minaccia alla pace ed alla sicurezza, non ha sviluppato un’effettiva capacità o non ha mostrato la volontà di affrontare il problema. In proposito si auspica la piena attuazione della risoluzione 1265 del 1999 del Consiglio sulla protezione dei civili nei conflitti armati. Anche le raccomandazioni contenute nella risoluzione del Consiglio 1325 del 2000 riguardo all’uso della violenza sessuale nel corso dei conflitti meritano secondo il Panel di ricevere una piena applicazione.

Allo scopo di incrementare la capacità di tutela dei civili nel corso dei conflitti, il Panel supporta la proposta del Segretario generale relativa all’istituzione di una Direzione della sicurezza e riconosce un’elevata priorità all’attività di assistenza del Segretario generale nell’implementazione di un nuovo sistema di sicurezza nel 2005.

 


Parte IV

 


Nazioni Unite più efficaci per il ventunesimo secolo

 

La quarta parte del rapporto contiene un’analisi ed un insieme di proposte relative all’organizzazione delle Nazioni Unite. Nella sinossi posta all’inizio del capitolo si sottolinea come le istituzioni dell’ONU risulteranno forti ed autorevoli nella misura in cui gli Stati membri dedicheranno ad esse energie, risorse ed attenzione. In altre parti del Rapporto (v. la parte 3°), si sottolinea la debolezza degli strumenti di intervento a disposizione delle Nazioni Unite che inficiano l’efficacia dell’Organizzazione.

 

L’esito complessivo del processo di riforma – così appare sintetizzabile la posizione del Panel - dipende dall’effettiva volontà politica degli Stati membri di riconoscere alle Nazioni Unite un ruolo più autorevole nel panorama internazionale. Occorrerà in altri termini verificare se le Nazioni Unite saranno poste nelle condizioni di compiere dei reali passi in avanti o se si preferirà che esse continuino, magari con alcuni aggiustamenti, a svolgere le attuali, comunque significative, funzioni. L’ONU è attualmente innanzitutto una sorta di “agorà globale”, nella quale gli Stati ed i popoli del mondo si confrontano e discutono, anche vivacemente, facendo emergere le tensioni che agitano la comunità internazionale ma anche promuovendo il dialogo e la collaborazione in merito ad una serie di questioni di rilevanza e interesse planetario.

 Il Panel sembra chiedere agli Stati membri se intendano trasformare le Nazioni Unite, attraverso un processo graduale, in un’istituzione che, sia pure basata sulla volontà degli Stati, risulti in grado di svolgere un effettivo ruolo di coordinamento del sistema di sicurezza collettiva e di agire in maniera più efficace e diretta, intervenendo nelle situazioni di crisi e affrontando le grandi questioni planetarie (diritti umani, povertà, disarmo, ambiente), senza limitarsi a sancire la conformità al diritto internazionale e a tentare di condizionare le scelte degli Stati ed innanzitutto dei membri permanenti del Consiglio di sicurezza. Andrà pertanto verificato se gli Stati membri, ed in particolare quelli di maggior peso, sono realmente disponibili a far valere e contare la propria volontà nell’ambito dell’ONU, stabilendo le alleanze ed acquisendo i consensi necessari.

L’attuazione del Rapporto sembrerebbe destinata ad avere un significativo impatto amministrativo ed economico sulle Nazioni Unite. Il Rapporto contiene infatti una pluralità di proposte relative all’istituzione di nuovi organismi ed al potenziamento di quelli esistenti nonché alla previsione di risorse umane e finanziarie aggiuntive che andrebbero complessivamente valutate anche in termini di riflessi sul bilancio ordinario dell’Organizzazione.

 

XIII. L’Assemblea generale

Nel Rapporto viene innanzitutto evidenziata la rilevanza dell’Assemblea generale quale foro di discussione tra tutti gli Stati del mondo, in grado di generare consenso in merito alle soluzioni da adottare rispetto ai  grandi temi della politica internazionale. Gli Stati membri sono invitati ad utilizzare l’opportunità rappresentata dal Millennium Review Summit del 2005 per creare un nuovo consenso in merito alla definizione di un più vasto ed efficace sistema di sicurezza collettiva.

Sono tuttavia evidenziati gli attuali limiti di funzionamento dell’Assemblea generale, ove si affrontano spesso questioni marginali attraverso dibattiti ripetitivi, senza avere la capacità di concentrarsi sulle tematiche internazionali fondamentali. Gli Stati membri devono impegnarsi affinché l’Assemblea generale possa svolgere il ruolo di principale organo deliberativo dell’Organizzazione. Ciò richiede innanzitutto di rivedere le modalità di formazione dell’agenda di tale organo, che deve riflettere le sfide che la comunità internazionale si trova ad affrontare. Si ritiene inoltre che l’Assemblea generale debba individuare meccanismi in grado di coinvolgere in modo sistematico le organizzazioni della società civile nella propria attività.

 

XIV Il Consiglio di sicurezza

L’attenzione del Panel si è in particolare concentrata, com’era ampiamente prevedibile, sulla riforma del Consiglio di sicurezza, al quale spetta una primaria responsabilità in materia di mantenimento della pace e della sicurezza. Nel Rapporto si ricorda come il Consiglio sia un organo responsabile e non soltanto rappresentativo. Ai cinque membri permanenti è richiesto di farsi carico dei maggiori oneri nel promuovere la sicurezza globale. Viene ricordato come, ai sensi dell’art. 23 della Carta, la membership del Consiglio sia legata non solo a criteri di equilibrio geografico ma anche all’impegno per il mantenimento della pace e della sicurezza. Il contributo finanziario e militare di alcuni membri permanenti viene giudicato modesto in considerazione dello speciale status ad essi riconosciuto e si osserva come sovente anche i membri non permanenti non siano stati in grado di concorrere nella misura necessaria all’attività dell’Organizzazione.

Il Consiglio non ha sino ad oggi registrato i mutamenti intervenuti nello scenario internazionale. Le decisioni del Consiglio necessitano di essere implementate da risorse militari, finanziarie e politiche di Stati non rappresentati al suo interno. Le decisioni assunte ed i mandati conferiti sono risultati spesso carenti in termini di realismo, adeguatezza delle risorse e determinazione politica. Il Segretario generale si è frequentemente trovato a dover richiedere con insistenza di fornire il supporto necessario all’attuazione delle decisioni del Consiglio. A diminuire il sostegno nei confronti delle decisioni del Consiglio contribuisce la sua scarsa rappresentatività a fronte dell’elevato numero di membri dell’Organizzazione.

Tali circostanze sono all’origine dell’incapacità del Consiglio di agire con la necessaria efficacia e coerenza al verificarsi di genocidi ed altre atrocità. Ciò ha gravemente danneggiato la credibilità delle Nazioni Unite.

Il Rapporto considera cruciale per ogni ipotesi di riforma l’impegno a restituire effettività e credibilità all’azione del Consiglio. Premessa la necessità di un solido consenso sulla natura delle odierne minacce, sugli obblighi di un più ampio sistema di sicurezza collettiva, sulla necessità della prevenzione e sul “quando” e il “perché” il Consiglio deve autorizzare l’uso della forza, vengono elencati i principi che dovrebbero presiedere alla riforma del Consiglio:

a)               accrescere il coinvolgimento nel processo decisionale di coloro che contribuiscono maggiormente alle Nazioni Unite sotto il profilo finanziario, militare e diplomatico (contributi al bilancio, contributi volontari, contributi alle missioni di pace); anche sostanziali progressi dei paesi sviluppati verso l’obiettivo di destinare lo 0,7 % del Pil all’aiuto allo sviluppo dovrebbero ritenersi un importante criterio di contribuzione;

b)               coinvolgere nel processo decisionale i paesi più rappresentativi dell’ampia membership dell’Organizzazione, ed in particolare dei paesi in via di sviluppo;

c)               non indebolire l’efficacia del Consiglio di sicurezza;

d)               accrescere la natura democratica e responsabile (accountable) dell’organo.

 

Il Panel ritiene che tali principi possano essere soddisfatti da due distinte ipotesi di riforma, individuate nel Rapporto attraverso le lettere A e B. Entrambe prevedono la distribuzione dei seggi nell’ambito di quattro grandi aree regionali: Africa, Asia e Pacifico, Europa ed America.

 

La definizione di due distinte ipotesi è senza dubbio destinata a complicare il processo riformatore. In una prima fase, il Panel sembrava orientato ad includere nel rapporto la sola ipotesi B, che non prevede l’istituzione di nuovi seggi permanenti. Successivamente, in conseguenza della forte iniziativa politica assunta da Giappone, Germania, Brasile ed India in favore dell’istituzione di nuovi seggi permanenti, il Panel ha elaborato l’ipotesi A che, nonostante venga definita ispirata ai medesimi principi, ha implicazioni organizzative, funzionali e politiche sensibilmente diverse. Già nel corso dell’ultima Assemblea generale, è apparso evidente come la prospettiva di istituire nuovi seggi permanenti, seppur sostenuta da alcuni grandi paesi di notevole influenza, sia contrastata da un significativo numero di Stati e, in particolare, da quelli che temono di subire un ingiustificato declassamento rispetto ai probabili futuri membri permanenti che appartengono alla medesima area regionale.  Il Segretario Generale, destinatario del Rapporto, dovrà verosimilmente impegnarsi in un’attività di mediazione, nel tentativo di sottoporre un’unica proposta, ampiamente condivisa, alla prossima Assemblea generale. 

 

Si è ritenuto di non formulare proposte di riforma della composizione degli attuali gruppi regionali, precisando che alcuni membri del Panel, ed in particolare quelli dell’America latina, hanno espresso una preferenza per la conferma degli attuali gruppi regionali.

L’ipotesi A di riforma prevede la creazione di 6 nuovi seggi permanenti senza diritto di veto e di 3 nuovi seggi biennali non permanenti suddivisi tra le diverse aree regionali. Il nuovo Consiglio si comporrebbe di 24 membri, 11 permanenti (dei quali solo gli originari 5 con diritto di veto) e 13 non permanenti di durata biennale non rinnovabili. Ogni area regionale vanterebbe 6 rappresentanti così articolati:

 

a)      Africa, 2 seggi permanenti senza diritto di veto e 4 seggi non permanenti;

b)      Asia e Pacifico, 1 seggio permanente con diritto di veto, 2 seggi permanenti senza diritto di veto, 3 seggi non permanenti;

c)      Europa, 3 seggi permanenti con diritto di veto, 1 seggio permanente senza diritto di veto, 2 seggi non permanenti;

d)      Americhe, 1 seggio permanente con diritto di veto, 1 seggio permanente senza diritto di veto, 4 seggi non permanenti.

 

L’ipotesi A incrementa la categoria, estremamente controversa, dei membri permanenti (attualmente Stati Uniti, Russia, Cina, Gran Bretagna, Francia). Tale tipologia di membri risale alle origini dell’Organizzazione, quando si intese attribuire un ruolo preminente ai vincitori del secondo conflitto mondiale. Anche in considerazione dei vasti imperi coloniali, e delle connesse responsabilità, di alcuni di essi (Francia e Gran Bretagna), la rappresentatività dell’organo (a quel tempo i componenti dell’Organizzazione erano solo 50) si poteva ritenere comunque assicurata. Oggi l’ONU conta 191 membri e la rappresentatività del Consiglio è da tutti giudicata insufficiente.  Va peraltro ricordato come le modifiche della Carta, oltre a necessitare dell’approvazione della maggioranza dei due terzi dell’Assemblea generale, debbano essere ratificate dai due terzi dei paesi membri, tra cui necessariamente i 5 membri permanenti.

La proposta del Panel di istituire nuovi membri permanenti, sia pure privi del diritto di veto, appare contraddittoria a fronte delle motivate perplessità sollevate dallo stesso Panel nei confronti della categoria dei membri permanenti. Tale scelta risulta scarsamente coerente con i principi di rappresentatività, democraticità e di responsabilità ai quali il Panel ritiene di dover ispirare la riforma. I membri permanenti non devono superare alcun vaglio di carattere democratico e nessuno degli altri Stati membri ha la possibilità di far valere le loro responsabilità[2]. Verrebbe inoltre stabilmente introdotto un nuovo livello gerarchico riservato a determinati Stati, con l’effetto di irrigidire ulteriormente la struttura del Consiglio di sicurezza.

Un significato e conseguenze ben diverse avrebbe, secondo quanto proposto dal Parlamento europeo (v. la risoluzione 2003/2049(INI)), attribuire un seggio permanente, oltre che all’Unione europea, ad alcune aree regionali (Africa, Asia e America Latina).Anche l’Italia ha più volte dichiarato di perseguire l’obiettivo di attribuire un seggio all’Unione europea. A tali possibilità tuttavia il Rapporto non fa cenno ed anche la scelta di non ridisegnare le aree regionali mostra (v. sul punto quanto si dirà in seguito) come non sia stata considerata la possibilità di favorire l’elezione di Stati effettivamente rappresentativi di una determinata area regionale o addirittura la presenza di organizzazioni regionali nel Consiglio (la membership dell’ONU è attualmente riservata agli Stati).

 

L’ipotesi B prevede la creazione di 8 nuovi seggi non permanenti di durata quadriennale rinnovabili e di 1 seggio non permanente di durata biennale non rinnovabile. Come nell’ipotesi A,  il Consiglio risulterebbe composto di 24 membri  - 5 permanenti con diritto di veto, 8 di durata quadriennale rinnovabili, 11 di durata biennale non rinnovabili - ed ogni area regionale avrebbe 6 rappresentanti così articolati:

e)      Africa, 2 seggi di durata quadriennale e 4 seggi di durata biennale;

f)        Asia e Pacifico, 1 seggio permanenti con diritto di veto, 2 seggi di durata quadriennale, 3 seggi di durata biennale;

g)      Europa, 3 seggi permanenti con diritto di veto, 2 seggi di durata quadriennale, 1 seggio di durata biennale;

h)      Americhe, 1 seggio permanente con diritto di veto, 2 seggi di durata quadriennale,  3 seggi di durata biennale.

 

L’ipotesi B risulta per alcuni aspetti ispirata alla medesima logica delle proposte di riforma del Consiglio di sicurezza avanzate dall’Italia a partire dai primi anni ’90. L’Italia è sempre stata contraria all’estensione della categoria dei membri permanenti (cosa diversa sarebbe evidentemente l’attribuzione di un seggio alla UE) e sostiene invece da tempo l’opportunità di istituire nuovi seggi non permanenti di durata superiore agli attuali seggi non permanenti (di durata biennale). Lo scopo è quello di rendere maggiormente rappresentativo e più democratico il Consiglio attribuendo, in particolare, un riconoscimento a quei paesi che più contribuiscono, in termini di risorse finanziarie ed umane, all’attività dell’Organizzazione, ma senza svincolarli da una verifica di tipo elettorale. In questo modo, anche le medie potenze potrebbero essere adeguatamente rappresentate, a rotazione, nell’ambito del Consiglio.

 

A giudizio del Panel, in entrambe le ipotesi, al fine di incentivare gli Stati membri a contribuire maggiormente alla pace ed alla sicurezza, l’Assemblea generale, tenendo conto delle pratiche invalse di consultazione a livello regionale, dovrebbe procedere all’elezione dei membri del Consiglio dando la precedenza, per quanto riguarda i seggi permanenti o quadriennali, ai tre Stati che, nella propria area regionale, risultano essere fra i tre maggiori contributori al bilancio ordinario, fra i tre maggiori contributori volontari ovvero fra i tre maggiori contributori alle missioni di peacekeeping delle Nazioni Unite.

Il Panel ritiene inoltre che nel 2020 vi dovrebbe essere una revisione della composizione del Consiglio, ivi inclusa una revisione dei criteri di contribuzione dei membri permanenti e non permanenti.

 

 

In entrambe le ipotesi le diverse aree regionali sembrerebbero poter giocare un ruolo circa l’obiettivo di assicurare una maggiore rappresentatività del Consiglio. In realtà tale ruolo appare destinato a risultare piuttosto limitato in seguito alla rinuncia del Panel – peraltro non chiaramente motivata – a rivedere la composizione ed eventualmente il numero delle diverse aree regionali. Se infatti le aree regionali  fossero costituite sulla base di criteri tali da garantirne un apprezzabile grado di omogeneità politica, ciò potrebbe aprire la strada a significative riforme delle modalità di organizzazione e di funzionamento dell’organo (e dell’intera Organizzazione). Le attuali aree regionali – o almeno alcune di esse -  non appaiono in grado di affermare una propria identità sul piano internazionale e costituiscono in buona sostanza dei semplici comitati elettorali nell’ambito dei quali individuare i membri non permanenti del Consiglio. I limiti della soluzione proposta emergono soprattutto con riguardo ai paesi europei. L’Unione europea – impegnata a definire una politica estera e di sicurezza comune – si ritrova in compagnia di altri 22 paesi estranei ad essa nell’ambito dell’area regionale Europa. Favorire un’effettiva rappresentanza di aree regionali nell’ambito del Consiglio (una composizione più omogenea aprirebbe verosimilmente la strada all’introduzione di forme di raccordo e di coordinamento tra i componenti delle singole aree) renderebbe più democratico e responsabile nei confronti della vasta membership dell’Organizzazione il Consiglio stesso, in conformità ad uno dei principi di riforma indicati dal Panel. Tale scelta renderebbe tra l’altro più realistica la prospettiva di attribuire un seggio permanente all’Unione europea e ad altre realtà regionali che presentassero un sufficiente livello di integrazione.

Nonostante il Rapporto parli indistintamente di elezione sia dei membri permanenti che dei membri non permanenti di lunga durata, è evidente come il termine abbia un significato proprio solo se riferito ai membri non permanenti. Per i membri permanenti si tratta piuttosto di acquisire uno status, non revocabile se non attraverso una modifica della Carta. Non si comprende tra l’altro a quale vaglio potrebbero essere sottoposti gli attuali membri permanenti con diritto di veto, a cui il Panel mostra di voler confermare l’attuale posizione di privilegio nonostante il modesto contributo recato da alcuni di essi (Russia e Cina), sotto tutti i profili indicati dallo stesso Panel, all’attività delle Nazioni Unite. Al fine di attenuare le differenze tra le due categorie di membri nonché di rendere maggiormente uniforme l’applicazione dei criteri relativi al contributo fornito all’attività dell’Organizzazione, il Rapporto prospetta una nuova revisione della composizione del Consiglio nel 2020, che peraltro, dovendosi realizzare attraverso una nuova modifica della Carta, non risulterebbe affatto agevole. Sensibilmente diverso è il discorso per i membri non permanenti di durata quadriennale. La loro elezione e, in misura forse maggiore, un’eventuale rielezione, potrebbero in effetti risultare subordinate al rispetto di precisi impegni assunti nei confronti dell’Organizzazione.

Applicando i tre principali criteri preferenziali indicati dal Panel al fine di individuare, nell’ambito di ciascun area regionale, i tre maggiori contributori all’attività dell’Organizzazione (par. 254), l’Italia si classificherebbe nell’area europea:

a)    al 4° posto per quanto riguarda i contributi al bilancio ordinario, preceduta nell’ordine da Germania, Gran Bretagna e Francia (in termini assoluti l’Italia è il 6° contributore);

b)    al 2° posto, preceduta dalla sola Gran Bretagna (oltre che dagli Stati Uniti), per quanto riguarda le missioni per il mantenimento della pace autorizzate o svolte dalle Nazioni Unite. Se invece si considerassero esclusivamente queste ultime missioni, l’Italia risulterebbero al 45° posto assoluto, preceduta dai principali paesi europei (in particolare da Francia, Gran Bretagna, Germania, Polonia, Spagna). Il Rapporto parla prima di missioni di pace su mandato delle Nazioni Unite [par. 249, lett. a)], poi più precisamente di missioni di pace delle Nazioni Unite (par. 254). I massimi contributori alle missioni di peacekeeping dell’ONU sono tutti paesi in via di sviluppo ed il primo dei paesi europei nella relativa classifica, la Polonia, occupa il 20° posto. I paesi occidentali si impegnano invece in misura nettamente prevalente nelle missioni autorizzate dall’ONU che hanno di regola carattere di peace enforcing. L’esatta portata di tale criterio andrebbe in ogni caso chiarita;

c)    per quanto riguarda i contributi volontari;nel 2004 l’Italia ha corrisposto alle Nazioni Unite 151 milioni di euro, un importo piuttosto rilevante che dovrebbe essere tuttavia confrontato con quello erogato dagli altri principali paesi dell’area.

 

Il Panel osserva inoltre che, per quanto riguarda i paesi sviluppati, un importante criterio di contribuzione dovrebbe essere ritenuto l’aver compiuto sostanziali progressi verso il livello dello 0,7 % del PIL da destinare ai paesi in via di sviluppo concordato a livello internazionale [par. 249, lett. a)]. A tale riguardo va osservato come l’Italia, secondo dati OCSE, abbia destinato nel 2003 lo 0,17 % del PIL ai paesi in via di sviluppo e risulti al penultimo posto della relativa graduatoria seguita soltanto dagli Stati Uniti (0,15 del PIL).

 

Per quanto riguarda il diritto di veto, nel Rapporto si raccomanda di non avallare alcuna espansione dell’istituto, in merito al quale si esprime un giudizio problematico. Da un lato, si osserva che il veto ha la funzione di rassicurare i membri più potenti delle Nazioni Unite che i loro interessi verranno salvaguardati, dall’altro, si riconosce il carattere anacronistico del diritto di veto che appare inopportuno in un’era di crescente affermazione della democrazia. Non vi sono, in conclusione, secondo gli estensori del rapporto le condizioni per modificare il potere di veto degli attuali membri ma si raccomanda di limitarne l’esercizio alle materie in cui interessi vitali sono realmente coinvolti. Viene infine chiesto ai membri permanenti di astenersi dal ricorrere al veto nei casi di genocidio e di violazioni su larga scala dei diritti umani.

Al fine di favorire un esercizio maggiormente responsabile del diritto di veto,  si propone l’introduzione di un “voto indicativo” , attraverso il quale i membri del Consiglio possano rendere pubbliche le diverse posizioni relative ad una azione proposta. I voti espressi in questa forma non rivestirebbero un valore legale –un voto contrario non avrebbe quindi l’effetto di un veto - mentre un secondo voto formale su qualsiasi risoluzione avrebbe luogo secondo le normali procedure del Consiglio.

 

Dal Rapporto traspaiono le difficoltà incontrate dalle proposte di riforma del diritto di veto. L’unica chiara indicazione fornita dal Panel riguarda l’inopportunità di espandere tale diritto. Coerentemente, l’ipotesi A di riforma del Consiglio di sicurezza prevede come si è visto la creazione di nuovi membri permanenti privi del diritto di veto.  Le controindicazioni rispetto ad un’estensione del diritto di veto sono di tutta evidenza. Tuttavia, non si comprende quali considerazioni di merito e quali ragioni di principio siano idonee a giustificare l’esistenza di due categorie di membri permanenti che si differenzino esclusivamente in ordine alla titolarità o meno del potere di veto. Come motivare , ad esempio, la titolarità del diritto di veto da parte della Francia, della Gran Bretagna, della Russia e della Cina ma non da parte della Germania e del Giappone, quando è da presumere che il contributo di questi ultimi due paesi all’Organizzazione non risulterebbe nel complesso inferiore e in alcuni casi sicuramente superiore, nelle rispettive aree regionali,  a quello  dei paesi prima menzionati? Tra l’altro, a distanza di sessant’anni dalla fine della seconda guerra mondiale, in uno scenario internazionale radicalmente diverso, la categoria dei membri permanenti con diritto di veto in quanto vincitori del conflitto verrebbe implicitamente legittimata, sancendo l’intangibilità di uno status privilegiato che, nella sua attuale configurazione, merita sicuramente di essere riconsiderato.  

Anche per tale ragione, l’ipotesi B che, pur non intervenendo in merito, evita di alimentare la “anacronistica” categoria dei membri permanenti, appare preferibile. Tale ipotesi, infatti, anziché replicare parzialmente uno status così controverso, introduce la categoria dei membri non permanenti di lunga durata che, nel rispetto dei criteri di trasparenza, democraticità e rappresentatività, consente di valorizzare i paesi che contribuiscono in maniera più significativa alla pace ed alla sicurezza internazionale.

Va ricordato come siano state avanzate numerose proposte volte quanto meno a limitare l’esercizio del diritto di veto. Il Parlamento europeo, nella risoluzione 2003/2049(INI), dedicata alle relazioni tra l’Unione europea e le Nazioni Unite, ha proposto di prevedere che il veto debba essere posto da almeno due membri permanenti e possa essere utilizzata solo nei casi in cui il Consiglio si pronuncia in merito a minacce e violazioni della pace o ad atti di aggressione. Una ragione politicamente rilevante per affrontare il tema del diritto di veto è data dal fatto che il suo esercizio, anche a giudizio di alcuni membri permanenti, è suscettibile di paralizzare l’attività del Consiglio impedendogli di adottare le misure necessarie a garantire la pace e la sicurezza internazionale. Le stesse affermazioni del Panel relative alla potenziale idoneità del Consiglio ad affrontare le nuove minacce alla sicurezza ed alla pace, potrebbero risultare più convincenti qualora si avanzassero contestualmente ragionevoli proposte di riforma del diritto di veto.

 

Il Rapporto raccomanda di incorporare e formalizzare nelle regole di procedura del Consiglio i principi di trasparenza e di responsabilità che devono presiedere alle deliberazioni ed ai procedimenti decisionali. Si ritiene inoltre che il Consigliere militare del Segretario generale ed i membri del suo staff debbano offrire, se richiesto, consulenze di carattere tecnico-professionale in merito alle opzioni militari ai componenti del Consiglio (l’indicazione si connette alla proposta soppressione del Comitato di Stato Maggiore che verrà in seguito esaminata).

 

XV. Una Commissione per il peacebuilding

Il Rapporto manifesta in più parti la preoccupazione di rendere l’ONU in grado di assistere in maniera efficace  e continuativa gli Stati a rischio di dissoluzione  ed i paesi minacciati dalla guerra ovvero che attraversano una fase di transizione dalla guerra alla pace. L’obiettivo è quello di evitare crisi, guerre ovvero il ripetersi di situazioni di conflitto attraverso un intervento tempestivo della comunità internazionale di natura preventiva.

A tal fine viene proposta l’istituzione, da parte del Consiglio di sicurezza, di una Commissione per il peacebuilding con il compito di identificare i paesi che versano nelle situazioni critiche prima descritte, fornendo l’assistenza necessaria ad arrestare i processi involutivi in atto. La Commissione dovrebbe operare in collaborazione con i paesi interessati e coinvolgendo il Consiglio economico e sociale, il Fondo monetario internazionale, la Banca mondiale e i principali paesi donatori.

 

Ufficio per il sostegno del Peacebuilding

 

Nell’ambito del Segretariato andrebbe costituito un Ufficio per il sostegno del peacebuilding al fine di fornire un supporto adeguato all’attività della Commissione per il peacebuilding  e di assicurare al Segretario generale la capacità di gestire in maniera integrata le politiche e le strategie di peacebuilding

 

XVI. Organizzazioni regionali

Il Rapporto invita innanzitutto il Consiglio di sicurezza ad una più frequente applicazione Capitolo VIII della Carta che riconosce il ruolo degli accordi e delle organizzazioni regionali e autorizza il Consiglio ad utilizzarli per svolgere azioni coercitive sotto la sua direzione.

Il Rapporto ritiene che le Nazioni Unite debbano incoraggiare la creazione di organizzazioni regionali dedicate alla tutela della pace e della sicurezza  soprattutto nelle zone più vulnerabili del pianeta dove non esistono organismi preposti alla sicurezza collettiva.

Questo genere di organizzazioni deve in ogni caso operare nel quadro della Carta e per il perseguimento degli obiettivi dell’ONU. Ogni operazione a tutela della pace nella regione dovrà essere autorizzata dal Consiglio di sicurezza. La consultazione e la cooperazione tra le Nazioni Unite e le organizzazioni regionali vanno intensificate e formalizzate con appositi accordi. Le organizzazioni regionali che dispongono di capacità per la prevenzione dei conflitti e per il peacekeeping dovrebbero collocarle nel quadro del sistema di accordi  per il pronto impiego delle azioni Unite (Standby Arrangements System).

Per quanto riguarda l’Africa, si sostiene che i paesi donatori dovrebbero sostenere per un periodo di dieci anni l’acquisizione di capacità regionali e subregionali nel quadro strategico dell’Unione africana. Si propone infine di modificare le regole di bilancio relative al peacekeeping al fine di consentire alle Nazioni Unite di finanziare singole operazioni regionali autorizzate dal Consiglio di sicurezza.

Il rapporto considera inoltre positivamente le missioni fuori area della NATO (le c.d. missioni non articolo 5 ) purché siano autorizzate dal Consiglio di sicurezza e del loro svolgimento si risponda al Consiglio stesso. La NATO viene inoltre invitata ad impegnarsi nell’addestramento e nell’equipaggiamento degli Stati e delle organizzazioni regionali dotati di minori risorse.

 

Nel trattare il tema delle organizzazioni regionali, il Rapporto conferma l’impostazione adottata nella trattazione del peacekeeping e del peace enforcing. E’ sicuramente opportuno che le organizzazioni regionali svolgano missioni di peace enforcing e di peacekeeping ma queste devono essere autorizzate dal Consiglio di sicurezza. Nel Rapporto non si richiede invece che tali operazioni siano altresì dirette dal Consiglio (è questo un requisito richiesto dall’art. 53 della Carta). Del resto, se è ormai  invalsa la prassi – alla quale il Panel dimostra come si è visto di aderire -  secondo la quale il Consiglio può limitarsi ad autorizzare l’uso della forza, senza intervenire direttamente come richiederebbe l’art. 42 della Carta e senza riservarsi un ruolo di effettiva direzione delle operazioni[3] ma soltanto il controllo delle stesse, affidando ad uno Stato o a coalizioni di Stati membri il compito di agire, si comprende la tendenza a rafforzare il ruolo delle organizzazioni regionali rispetto alle quali la Carta consente espressamente al Consiglio di autorizzare l’uso della forza.

Il Rapporto chiede tuttavia che vengano intensificati i rapporti di collaborazione e di cooperazione tra ONU e organizzazioni regionali ed invita queste ultime a porre le proprie capacità di prevenzione dei conflitti e di peacekeeping a disposizione delle Nazioni Unite attraverso gli Standby Arrangements. In tal modo le organizzazioni regionali garantirebbero alle Nazioni Unite la disponibilità delle capacità necessarie ad intervenire nelle aree di crisi e verrebbero coinvolte in operazioni per il mantenimento della pace svolte direttamente alle Nazioni Unite. 

Con riferimento alla NATO, appare significativo l’espresso riconoscimento della legittimità delle attività fuori area. In tali casi tuttavia, oltre alla autorizzazione ad intervenire, il Panel afferma che la NATO deve ritenersi responsabile (accountable) nei confronti del Consiglio di sicurezza. Ciò sembrerebbe in particolare  implicare la necessità di riferire puntualmente al Consiglio in merito all’andamento delle operazioni in modo da assicurare al Consiglio stesso il pieno controllo della situazione e la possibilità assumere le determinazioni che ritenga opportune.

 

 

XVII. Il Consiglio economico e sociale

Il Rapporto inizia con l’evidenziare ciò che il Consiglio economico e sociale non può ambire ad essere: il centro decisionale mondiale in materia di commercio e finanze e il centro di direzione delle agenzie specializzate o delle istituzioni finanziarie internazionali.

Al fine di attribuire un nuovo ruolo al Consiglio economico e sociale, il Panel ritiene che vada valorizzata la capacità delle Nazioni Unite di trattare congiuntamente i temi della pace, della sicurezza e dello sviluppo ad un livello globale. Il Consiglio può essere una guida analitica e normativa in una fase in cui occorre approfondire le interconnessioni tra le molteplici minacce da fronteggiare.

Si ritiene in primo luogo che il Consiglio debba istituire un Comitato sugli aspetti sociali ed economici delle minacce alla sicurezza, al fine di esaminare le minacce di natura sociale ed economica ma anche gli aspetti sociali ed economici di fenomeni quali il terrorismo ed il crimine organizzato.

Il Consiglio può inoltre divenire l’ambito nel quale gli Stati verificano i loro impegni relativi al conseguimento degli obiettivi chiave in materia di sviluppo in modo aperto e trasparente.

In terzo luogo, il Consiglio potrebbe trasformarsi in un forum sulla cooperazione allo sviluppo focalizzando la propria agenda sui temi affrontati dalla Dichiarazione del Millennio.

Il lavoro del Consiglio in tale ambito, anche con riferimento alle interazioni con i principali organi, agenzie e programmi, potrebbe essere guidato da un Comitato esecutivo ristretto  composto da rappresentanti delle diverse aree regionali. L’incontro annuale tra il Consiglio e le istituzioni di Bretton Woods potrebbe essere utilizzato per incoraggiare azioni collettive a sostegno degli obiettivi di sviluppo del millennio (Millennium Development Goals).

Il Consiglio dovrebbe inoltre rappresentare un guida in materia di cooperazione allo sviluppo per gli organi di governo dei fondi, i programmi e le agenzie delle Nazioni Unite. Il Consiglio, infine, dovrebbe assicurare un forte sostegno al Segretario generale ed al Gruppo per lo sviluppo delle Nazioni Unite, al fine di rafforzare la coerenza dell’azione dell’Organizzazione a livello operativo ed il suo coordinamento con le istituzioni di Bretton  Woods e i donatori bilaterali.

 

 

Definire una politica coerente

Descritto in questi termini il ruolo del Consiglio economico sociale, il Rapporto osserva come sussista la necessità di un organismo che unisca i principali paesi sviluppati ed in via di sviluppo nell’affrontare le interconnessioni critiche tra il commercio, la finanza, l’ambiente, le malattie pandemiche e lo sviluppo economico e sociale.

Come modello di riferimento viene indicato il G8, che deve essere però rivisto al fine di includere i paesi in via di sviluppo. A tal fine potrebbe essere  elevato a livello di capi di Stato e di governo  il G20, il gruppo dei ministri finanziari, che attualmente include Stati rappresentativi dell’80% della popolazione mondiale e del 90% dell’attività economica globale e nel quale sono regolarmente presenti il Fondo monetario internazionale, la Banca mondiale, il WTO e l’Unione europea. Alle riunioni dovrebbero altresì intervenire il Segretario generale delle Nazioni Unite ed il presidente del Consiglio economico e sociale, al fine di assicurare un forte sostegno ai programmi ed alle iniziative dell’ONU.

 

Il Panel sembra orientato a circoscrivere il ruolo del Consiglio economico e sociale calibrandolo sui compiti fondamentali delle Nazioni Unite (la tutela della sicurezza e la cooperazione allo sviluppo). La riforma dovrebbe coinvolgere anche gli aspetti organizzativi ed operativi del Consiglio al fine di renderlo maggiormente efficiente ed incisivo. Sotto tale aspetto appare di particolare interesse la proposta di istituire organismi di dimensioni contenute adeguatamente rappresentativi ma in grado altresì di dare un effettivo impulso all’attività del Consiglio concentrandola su obiettivi specifici.

Per poter dare il giusto rilievo alle interdipendenze tra le politiche commerciali e finanziarie ed i temi dello sviluppo economico e sociale, il Panel ritiene che l’iniziativa debba essere invece assunta dagli Stati attraverso riunioni periodiche e strutturate  (il G 20 rivisitato), atte a coinvolgere tutti i principali attori internazionali, incluse le Nazioni Unite che, in quella sede, potranno far valere le proprie istanze.

 

XVIII. La Commissione sui diritti umani

La tutela dei diritti umani è definita una delle missioni centrali delle Nazioni Unite. Il Panel ritiene tuttavia che la capacità della Commissione sui diritti umani di svolgere il proprio ruolo sia stata indebolita da una perdita di credibilità e di professionalità. Ciò è dovuto alla condotta degli Stati che non si impegnano nella promozione e nella protezione dei diritti umani. Alcuni Stati vogliono entrare a far parte della Commissione non per rafforzare i diritti umani ma per proteggersi dalle critiche o per criticare altri paesi. Una riforma della Commissione è ritenuta necessaria al fine di rendere effettivamente funzionante il sistema di protezione dei diritti umani.

Il Rapporto condivide l’impegno del Segretario generale e dell’Alto commissario per i diritti umani finalizzato a garantire che la tutela dei  diritti umani diventi parte integrante dell’attività dell’Onu nonché a favorire lo sviluppo di istituzioni nazionali per la protezione dei diritti umani specialmente in quei paesi interessati da conflitti e impegnati nella lotta al terrorismo.

Il Rapporto osserva quindi come l’introduzione di criteri per entrare a far parte della Commissione avrebbe scarse possibilità di mutare le attuali dinamiche e propone piuttosto di estendere a tutti gli Stati la membership della Commissione, in quanto tutti devono ritenersi impegnati ai sensi della Carta alla promozione dei diritti umani.

Si suggerisce inoltre che, come avveniva nella prima metà della sua storia, la Commissione si articoli in delegazioni di Stati alla testa delle quali vi siano i membri con una notevole e comprovata esperienza in materia di tutela dei diritti umani. La Commissione dovrebbe essere inoltre sostenuta nel proprio lavori da un consiglio o da un panel di esperti indipendenti, di circa 15 persone (tre per area regionale), nominati per un periodo di tre anni rinnovabile per una sola volta. Le nomine verrebbero effettuate dalla Commissione su proposta del Segretario generale d’intesa con l’Alto commissario.

L’Alto commissario dovrebbe inoltre predisporre un rapporto annuale sulla tutela dei diritti umani in tutti i paesi che dovrebbe costituire la base per una discussione nell’ambito della Commissione. L’Alto commissario riferirebbe inoltre regolarmente sia  al Consiglio di sicurezza sia all’istituenda Commissione per il peacebuilding in ordine all’implementazione di tutte le disposizioni in materia di diritti umani  contenute nelle risoluzioni del Consiglio di sicurezza.

Il Panel ritiene che vadano attribuite maggiori risorse all’Ufficio dell’Alto commissario in considerazione della rilevanza dei suoi compiti e che, nel lungo termine, la Commissione vada trasformata in un Consiglio dei diritti umani, da affiancare al Consigli economico e sociale e al Consiglio di sicurezza, in grado di riflettere il peso attribuito ai diritti umani per la complessiva attività delle Nazioni Unite.

 

Il Panel dimostra di condividere le critiche da più parte rivolte negli ultimi tempi alla Commissione per i diritti umani e, più in generale, al sistema di tutela dei diritti umani delle Nazioni Unite, e tenta di individuare delle possibili soluzioni.  Le attuali modalità di costituzione e funzionamento della Commissione consentono agli Stati responsabili di palesi violazioni dei diritti umani, non solo di far parte della Commissione, ma di condizionarne sensibilmente l’operato. Della Commissione sono entrati a far parte Stati come Cuba, Sudan e Zimbabwe e la Libia ne ha assunto la presidenza.

Le proposte contenute nel Rapporto, delle quali sono chiare la ratio e la finalità, andrebbero tuttavia per alcuni aspetti meglio precisate. Da un lato, infatti, si propone di rendere la membership universale, manifestando scetticismo in ordine alla possibilità di stabilire criteri per l’elezione realmente cogenti, dall’altro, il Panel sembra voler attribuire un ruolo centrale ai capi delle delegazioni, restando tuttavia da stabilire le modalità di formazione delle singole delegazioni nonché i criteri per procedere alla nomina di capi delle delegazione che si siano effettivamente distinti nella tutela dei diritti umani (dei criteri di selezione, nonostante quanto poco prima sostenuto dal Rapporto, sembrerebbe quindi in ogni caso necessario stabilirli). Al fine di orientare i lavori della Commissione sulle effettive priorità in materia di diritti umani, il Panel suggerisce l’istituzione di un consiglio o panel di consiglieri indipendenti nonché un maggiore coinvolgimento del Segretario generale e, in particolare, dell’Alto commissario dei diritti umani. Gli apporti tecnici e istituzionali sono in tali casi evidentemente diretti a limitare la discrezionalità politica degli Stati impegnati a non far emergere le proprie responsabilità in materia di diritti umani.

 

 

XIX. Il Segretariato

Il Panel ritiene che un Segretariato forte sia una componente essenziale di un sistema di sicurezza collettiva efficiente.

 

A. Rafforzare il sostegno al Segretario Generale

Conseguentemente il Panel propone la creazione di un Vice Segretario generale responsabile per l’area della tutela della pace e della sicurezza, in aggiunta all’attuale Vice Segretario per l’area economica e sociale. Si osserva come l’enorme incremento dei compiti del Segretario generale in materia di pace e sicurezza richieda l’istituzione di tale figura.  Il Rapporto precisa che il nuovo Vice Segretario generale dovrà essere supportato da una struttura di dimensioni ridotte, composta da circa 15 persone competenti in materia di analisi strategica, pianificazione e coordinamento  ed in grado di elaborare gli input provenienti dai vari dipartimenti ed agenzie.

 

B. Un Segretariato competente e professionale

Per quanto riguarda il Segretariato generale,  si ritiene che esso debba essere posto nelle condizioni di svolgere al meglio i propri compiti con particolare riguardo alla prevenzione dei conflitti ed al peacekeeping, alla negoziazione ed alla implementazione degli accordi di pace, al peacebuilding. Al Segretario generale va assicurata la possibilità di gestire in modo flessibile il proprio staff, salva la responsabilità nei confronti dell’Assemblea. Le proposte formulate dal Segretario generale tra il 1997 ed il 2002 in materia di risorse umane andrebbero immediatamente attuate. Al fine di assicurare lo svolgimento delle nuove competenze previste dal Rapporto, il Segretario generale andrebbe immediatamente dotato di 60 nuove posizioni.

 

Si ribadisce anche in questa occasione come le Nazioni Unite non dispongano attualmente delle risorse umane e materiali necessarie a fronteggiare con efficienza i numerosi compiti loro affidati, ed in particolare la prevenzione dei conflitti, le operazioni per il mantenimento della pace e gli interventi per la costruzione della pace.

 

XX. La Carta delle Nazioni Unite

Nell’ultimo capitolo del Rapporto, il Panel propone, in aggiunta alla già illustrata modifica dell’art. 23 relativo al Consiglio di sicurezza, alcune limitate modifiche della Carta:

a)      l’eliminazione dei riferimenti agli Stati nemici contenuti negli articoli 53 e 107 in quanto storicamente datati;

b)      la soppressione dell’intero Capitolo XIII relativo al Consiglio di amministrazione fiduciaria, organismo che ha esaurito la propria funzione con la fine della fase della decolonizzazione;

c)      la soppressione dell’art. 47, relativo al Comitato di stato maggiore e di tutti i riferimenti a tale organismo contenuti in altri articoli della Carta (artt. 26, 45 e 46). Non si ritiene appropriato che tale organismo sia composto esclusivamente dai Capi di stato maggiore dei 5 membri permanenti del Consiglio di sicurezza. Per quanto riguarda le esigenze di consulenza militare del Consiglio di sicurezza – che la Carta prevede vengano svolte dal Comitato in questione – si rinvia alle indicazioni in materia di miglioramento della consulenza militare svolta a favore del Consiglio di sicurezza contenute nel paragrafo 258 del Rapporto (sembrerebbe peraltro più corretto il riferimento al paragrafo 259).

 

Il Panel è convinto che la Carta nel suo complesso continui a fornire valide basi legali e politiche per l’organizzazione della sicurezza collettiva e ponga il Consiglio di sicurezza nelle condizioni di rispondere alle vecchie e nuove minacce alla pace ed alla sicurezza internazionale in maniera tempestiva ed efficace. Tutti gli Stati membri, a giudizio del Panel, dovrebbero nuovamente dedicarsi a realizzare gli scopi ed i principi della Carta in modo risoluto, unendo alla volontà politica le risorse necessarie.

 

Il Rapporto dovrà necessariamente essere attuato a vari livelli[4]. Per alcuni aspetti (si pensi alle considerazioni in materia di minacce alla sicurezza e di ricorso all’uso della forza), esso potrebbe essere tradotto in documento politico relativo alla nuova dottrina strategica delle Nazioni Unite ad opera del Segretario generale (con l’approvazione del Consiglio e dell’Assemblea generale). L’accoglimento di talune indicazioni (la riforma del Consiglio di sicurezza), richiede l’approvazione di espresse modifiche della Carta con le procedure previste dalla Carta stessa. Per alcune proposte (si pensi al rafforzamento del Segretariato generale) sembrerebbe in ogni caso necessaria l’approvazione degli organi deliberativi delle Nazioni Uniti. Non mancano tuttavia le raccomandazioni che potrebbero essere recepite direttamente dal Segretario generale o dai singoli organi dell’Organizzazione (ad esempio l’istituzione di un Comitato sugli aspetti economici e sociali delle minacce alla sicurezza da parte del Comitato economico e sociale).

 


Documentazione

 


 

 

 

 

 



[1] Gli altri 15 componenti del Panel sono: Robert Badinter (Francia), membro del Senato francese ed ex Ministro della giustizia; Joao Clemente Baena Soares(Brasile), ex Segretario generale dell’Organizzazione degli Stati americani; Gro Harem Brundtland (Norvegia), ex Primo Ministro di Norvegia ed ex Direttore generale dell’Organizzazione mondiale della sanità; Mary Chinery Hesse (Ghana), Vicepresidente della Commissione nazionale del Ghana per la pianificazione dello sviluppo ed ex vice direttore generale dell’Organizzazione internazionale del lavoro; Gareth Evans (Australia), Presidente del Gruppo sulle crisi internazionali ed ex Ministro degli affari esteri; David Hannay (Regno Unito), ex rappresentante permanente del Regno Unito presso le Nazioni Unite  e inviato speciale del Regno Unito a Cipro; Enrique Iglesias (Uruguay), Presidente della Banca di sviluppo Inter-Americana; Amre Moussa (Egitto), Segretario generale della Lega degli Stati arabi; Satish Nambiar (India), ex Generale di Corpo d’Armata nell’esercito indiano e Comandante di UNPROFOR; Sadako Ogata (Giappone), ex Alto commissario per i rifugiati presso le Nazioni Unite; Yevgeny Primakov (Russia), ex Primo Ministro della Federazione russa; Qian Qichen (Cina), ex Vice primo Ministro e Ministro per gli affari esteri della Repubblica popolare cinese; Nafis Sadik (Pakistan), ex Direttore esecutivo del Fondo delle Nazioni Unite  per la popolazione; Salim Ahmed Salim (Tanzania), ex Segretario generale dell’Organizziazione dell’Unità africana; Brent Scowcroft (Stati Uniti), ex Generale di Corpo d’Armata dell’Aviazione statunitense e Consigliere USA per la sicurezza nazionale.

[2] Sul tema dei criteri di scelta e della responsabilità dei membri permanenti il Rapporto si sofferma nel seguito del presente paragrafo.

[3] Il Consiglio, quando ha autorizzato singole missioni, non è in grado di stabilire i singoli obiettivi militari e di indicare le modalità per conseguirli. Il Consiglio, invece, definisce in tali casi gli obiettivi di carattere generale ed i criteri che devono presiedere all’uso della forza.

[4] In tal senso si è espresso il Segretario generale delle Nazioni Unite nella Nota con la quale ha trasmesso il Rapporto all’Assemblea generale (v. United Nations, General Assembly, A/59/565).