Resoconto stenografico
INDAGINE CONOSCITIVA
La seduta comincia alle 15,30.
(La Commissione approva il processo verbale della seduta precedente).
PRESIDENTE. Avverto che, se non vi sono obiezioni, la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso impianti audiovisivi a circuito chiuso.
(Così rimane stabilito).
PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sulle iniziative comunitarie per rafforzare la competitività del sistema produttivo europeo, anche alla luce dei crescenti rapporti commerciali tra Europa e Asia, l'audizione del viceministro delle attività produttive, Adolfo Urso.
Dopo l'audizione del ministro Buttiglione, la Commissione intende affrontare oggi le tematiche più strettamente attinenti al commercio con le aree asiatiche, in una fase particolarmente delicata, soprattutto in considerazione del processo di privatizzazioni che sta coinvolgendo non solo la Cina ma anche altri paesi come l'India, l'Indonesia e la Thailandia.
Si tratta di un fase relativa non solo alle attività industriali ma anche a quelle del settore del credito, delle assicurazioni e degli aeroporti, che spinge il PIL tendenziale, secondo gli ultimi dati, al 6,5 per cento in Thailandia (sebbene in questo paese il saldo commerciale sia diventato negativo nel mese di dicembre, per la prima volta, dopo diciassette mesi, a causa di un'impennata di cui si sono rese protagoniste le importazioni, il cui dato supera di gran lunga il pur veloce tasso di crescita delle esportazioni, pari al + 31,2 per cento), al 9,9 per cento in Cina, all'8,4 per cento in India e al 5,1 per cento in Malaysia, solo per citare i principali incrementi.
Su questi fronti si muove, quindi, il commercio dell'Unione europea e, in questo ambito, in particolare, il trading estero dell'Italia. Ricordo soltanto che, da ultimo, la tecnologia italiana sta dando una grande dimostrazione delle proprie potenzialità, in quelle aree; in Cina è in corso una sempre più intensa collaborazione sul versante della ricerca scientifica e tecnologica, con l'osservatorio cosmico italo-cinese.
Prima di dare la parola al viceministro Urso - che so essere stato di recente impegnato in una missione in Bulgaria, dove una delegazione della Commissione si recherà la prossima settimana - aggiungo ancora solo qualche ulteriore considerazione sulle potenzialità che offre il mercato cinese.
Ricordo, infatti, che dal 2005 le società estere potranno gestire la catena di import, lavorazione e distribuzione di merci, aprendo il commercio agli stranieri e interrompendo così il monopolio delle società cinesi sul commercio con l'estero. Alla prima licenza già concessa ad una società di Hong Kong ne seguiranno altre che potranno interessare, in particolar modo, anche le nostre imprese.
Aggiungo, peraltro, che le recenti decisioni assunte dalla Cina in riferimento ai tagli del coke, il combustibile per gli altoforni, hanno già avuto ripercussioni sul settore dell'acciaio a livello nazionale con la chiusura dell'altoforno di Genova e il ricorso alla cassa integrazione guadagni. Due facce della stessa medaglia, dunque, che sicuramente meritano una riflessione.
Do la parola al viceministro Urso, che ringrazio ancora una volta per la sua partecipazione.
ADOLFO URSO, Viceministro delle attività produttive. Sono io a dover ringraziare la Commissione e il suo presidente per avermi invitato, oggi, in occasione di questa audizione su una tematica di prioritario interesse, essendo certamente i rapporti commerciali - ed economici più in generale - tra Europa e Asia la frontiera dell'economia del nostro paese e mondiale.
Gli ultimi dati dell'economia asiatica trainata dalla crescita cinese, ma anche di altri paesi estremamente significativi (pensiamo, per esempio, al Vietnam), è sicuramente il fronte principale su cui si devono confrontare le nostre imprese.
Nell'ambito di questa competizione globale che si va realizzando, mi accingo ad analizzare lo schema che, a mio avviso, è più pertinente: quello di un mondo che comincia ad avere un sistema di norme condivise. Sottolineo per tutti che, fra poche settimane, precisamente il 15 aprile, ricorre il decennale dell'Organizzazione per il commercio mondiale, cui oggi aderiscono 148 paesi.
Per tentare di difendere e se possibile di rafforzare la competitività del sistema Italia, nel quadro di questo mondo che va progressivamente globalizzandosi, il nostro primo impegno è stato quello di estendere le regole al maggior numero possibile di paesi asiatici. Abbiamo centrato l'obiettivo dell'ingresso nel WTO, dal giugno 2001 ad oggi, della Cina, della Cambogia, del Nepal. La Cina, in particolare, vi aderì a novembre, durante l'inizio del Doha round, mentre la Cambogia e il Nepal vi hanno aderito solo più recentemente, in occasione dell'ultimo vertice a Cancun; si tratta di due paesi in fondo al scala dello sviluppo, che decidono di darsi delle norme in sintonia, nello spirito e nell'ambito delle regole del WTO.
Puntiamo, inoltre, ad un ingresso di numerosi paesi asiatici. Vorrei sottolineare che, di qui a poco, verosimilmente entreranno a far parte del WTO anche paesi come l'Azerbaijan, il Bhutan, il Kazakhstan, il Laos, il Libano, ovviamente, la Federazione Russa - che è Europa ma, in grande misura, è anche Asia (pensiamo solo a che cosa significhi il continente siberiano, laddove vi sono le maggiori riserve di materie prime del mondo) - l'Arabia Saudita, il Tajikistan, l'Uzbekistan, il Vietnam, lo Yemen, la Siria, i Territori palestinesi, la Libia, l'Iran e l'Iraq al momento della piena democratizzazione. Vi è un fenomeno, quindi, di espansione delle regole del WTO a questi paesi che, nel chiedere l'adesione, ovviamente, devono via via accettarne lo spirito e le regole.
La condivisione di regole internazionali in ambito WTO ci consente di competere in una cornice comune orientata alla liberalizzazione e, al contempo, al rispetto di norme certe, sia per i commerci (ex GATT), sia per gli investimenti e i servizi (GATS), sia per la proprietà intellettuale (TRIPS).
A differenza di 15 anni fa, quando nell'ambito di un mondo bipolare ogni continente era, a sua volta, suddiviso in due poli, con due economie e due tipologie di alleanze, talvolta anche militari, che si contrapponevano, il mondo che le nostre imprese devono affrontare, piaccia o non piaccia, tende ad avere regole condivise e un organo, il WTO, che tende a farle rispettare (un organo, peraltro, che ha dimostrato la sua efficacia, anche di recente, se pensiamo alla sentenza emessa poche ore fa che dà soddisfazione all'Unione europea nel quadro della controversia commerciale con gli Stati Uniti).
Come voi sapete, però, all'interno di queste regole, sì può operare per migliorarle. L'agenda di Doha, che abbiamo fissato insieme nel novembre del 2001 nel Qatar, ha una tempistica di tre anni e una
serie di obiettivi che noi riteniamo soddisfacenti per le ambizioni e le necessità del sistema produttivo italiano.
Per quanto riguarda i tempi - tre anni -, penso che la Commissione stessa sia consapevole che difficilmente potranno essere rispettati. Peraltro, anche i precedenti round negoziali sono durati molto più a lungo dei cinque o otto anni prefissati. Questo round dovrebbe terminare il 31 dicembre 2004, ma valutazioni realistiche inducono ad affermare che potrà concludersi, verosimilmente, nella prima parte del prossimo anno. Noi ce lo auguriamo e in questo senso stiamo lavorando, tramite la Commissione, quindi tramite l'Unione europea.
L'importanza dei round è nota a tutti perché attraverso essi, attraverso l'agenda che abbiamo sottoscritto, si redigono le regole internazionali. Per esempio, per i settori tessile, delle calzature e dell'abbigliamento e, comunque, per i settori industriali in genere, l'importante obiettivo del round è quello di una facilitazione dell'accesso ai mercati e della riduzione dei picchi tariffari. Come sapete, la proposta europea è di ridurre questi picchi al di sotto del tetto del 15 per cento. Molti paesi asiatici non hanno accesso ai mercati e molti mercati asiatici presentano barriere tariffarie e non tariffarie estremamente elevate per le imprese europee. Evidentemente, una conclusione positiva del round per quanto riguarda l'accesso ai mercati, la rimozione degli ostacoli non tariffari e la riduzione dei picchi tariffari aprirebbe quei mercati ad una competizione leale da parte delle imprese europee.
La seconda questione attiene alla violazione del sistema di norme condivise per adottare difese commerciali. Molto spesso si pensa all'Asia come ad un continente in cui non vi siano regole o nel quale si pratichino forme di concorrenza sleale e, frequentemente, di vera e propria contraffazione, soprattutto a danno di paesi come l'Italia che, più degli altri, ne subisce le conseguenze. Voglio ricordare, infatti, che attualmente l'Italia è la principale vittima della contraffazione e che i principali responsabili sono paesi come la Cina e la Corea del Sud. Anche in Italia, peraltro, da sempre si praticano forme di contraffazione che, tuttavia, non sono paragonabili a quelle praticate nel continente asiatico, per il semplice fatto che si tratta di contraffazione interna, non destinata alla esportazione. In altri termini, noi non esportiamo merce contraffatta; semmai, le nostre imprese subiscono la contraffazione da parte di imprese, sempre italiane, che operano nel mercato nero e che hanno come fine il mercato interno. Nel caso asiatico, si assiste per la prima volta a forme di contraffazione su base industriale a fini esportativi, competitive sullo scenario mondiale. Per questa ragione, oggi l'Italia è la principale vittima delle contraffazioni e nel mondo asiatico esistono produzioni su larga scala di prodotti contraffatti.
Tuttavia, altrettanto e, forse, più importante è la competizione sleale che si realizza nel sistema dell'economia mondiale. Le regole per potersi difendere commercialmente sono quelle imposte dal WTO, questa importante cornice proprio nei confronti della crescente competizione asiatica.
Molto spesso, nel dibattito nazionale ci si è domandato se, per difendersi dalla concorrenza cinese, fosse utile imporre dazi alla Cina. Innanzitutto, bisogna ricordare a chi lo ha proposto che, secondo il dettato dell'articolo 133 del trattato di Maastricht, la politica commerciale dell'Unione europea è materia di stretta competenza comunitaria. Ciò significa che qualsiasi norma in tale ambito deve essere adottata a livello comunitario, secondo le procedure previste nel citato articolo e nei diversi rilevanti regolamenti. Nessuno di noi può presentare un disegno di legge in questo Parlamento per elevare i dazi doganali nazionali; tanto meno può farlo il Governo con la propria attività. Le norme di difesa commerciale (dazi doganali, dazi anti-dumping, dazi antisovvenzione, contingenti quantitativi e contingenti tariffari) debbono essere decise, quindi, a Bruxelles e sono valide per tutto il territorio dell'Unione, tra breve per tutti i 25 Stati membri.
L'appartenenza dell'Unione europea e dei suoi Stati membri all'Organizzazione mondiale del commercio impone il rispetto dei diversi accordi - nel caso di merci si tratta del GATT - conclusi nell'ambito dell'organizzazione. Per quanto riguarda i dazi doganali, la quasi totalità di quelli che le Comunità europee applicano nei confronti delle merci importate dagli altri paesi membri del WTO, tra i quali la Cina, è vincolata in sede internazionale. Nessun aumento è possibile, quindi, se non mediante il ricorso all'articolo 28 del GATT che, in tal caso, prevede la necessità di corrispondere compensazioni al paese o ai paesi che risultano penalizzati dall'eventuale aumento. In altri termini, possono essere stabiliti, in sede comunitaria, aumenti di dazi su un prodotto ma, nel contempo, si devono corrispondere compensazioni al paese che ne è colpito: si devono ridurre i dazi su un altro prodotto o in un altro settore. Giova ricordare che i dazi si applicano, in ogni caso, erga omnes, cioè a tutti i paesi del WTO.
Per quanto riguarda gli altri tipi di dazi sopra citati - i dazi di salvaguardia - questi possono essere applicati solo al termine di indagini che verifichino l'esistenza di dumping o sovvenzioni e, contemporaneamente, di un danno all'industria comunitaria. Quindi, si possono imporre dazi a tutela del proprio mercato, nell'ambito della Organizzazione mondiale del commercio, ma ad alcune condizioni.
Per quanto riguarda i contingenti quantitativi - cioè le quote - questi possono essere applicati - sempre erga omnes - nel caso di significativi incrementi delle importazioni di singoli prodotti che causino danno grave alla produzione comunitaria. Nel caso della Cina è prevista una clausola di salvaguardia speciale dovuta, appunto, all'accordo concluso all'interno del WTO, al momento della sua adesione.
Esaminando proprio le misure che esistono e possono essere attivate nei confronti della Cina, ricordo che sono in vigore, attualmente, dazi anti-dumping. Quando le imprese cinesi violano la leale concorrenza internazionale esportando nella Comunità prodotti a prezzi artificiosamente bassi, a causa di pratiche di dumping o grazie a sussidi di Stato illeciti, l'Unione europea può introdurre dazi anti-dumping per ripristinare la leale concorrenza sul mercato. Sono in vigore, attualmente, nell'Unione dazi del genere su 61 prodotti nei riguardi del resto del mondo. I prodotti cinesi soggetti a misure di difesa commerciale comunitarie, tra provvisorie e definitive, sono 33 (il dato è aggiornato al 24 febbraio 2004; consegnerei alla Commissione la documentazione relativa). Ad essi devono essere aggiunti i mandarini canditi. Voglio sottolineare che appena in 9 casi si tratta di prodotti finiti: tra essi figurano i televisori a colori, le lampade fosforescenti, le lampadine e gli accendini, con ricarica o meno. Sono prodotti comuni. Tuttavia, lo ripeto, appena 9 su 33 sono prodotti finiti mentre, nella gran parte dei casi, si tratta di semilavorati o materie prime. È possibile immaginare come, molto spesso, le nostre imprese si rivolgano a noi affinché domandiamo all'Unione europea la rimozione dei dazi di salvaguardia sui prodotti cinesi. Il motivo è che tali prodotti servono alla produzione italiana e, se risultano più costosi anche in virtù dei dazi di salvaguardia in vigore, il prodotto finale dell'impresa italiana aumento di costo e, quindi, esce fuori mercato.
Quanto al dazio sui mandarini canditi, esso deve essere applicato, de jure, erga omnes, cioè a tutti i paesi, ma, de facto, lo è soltanto nei confronti della Cina. Su questo caso si è aperta una discussione molto chiara. Sono state le imprese spagnole a ricorrere in sede europea, ritenendo che vi sia stata una invasione anomala di prodotti delle imprese cinesi che hanno fatto entrare in crisi le imprese localizzate, in gran parte, in Spagna. La Commissione ha preferito adottare una misura di tutela erga omnes e non soltanto nei confronti della Cina, ancorché sia rivolta, di fatto, nei confronti di quest'ultima. Altrimenti, avremmo potuto riscontrare una reazione estremamente dura di parte cinese, che non ritiene sufficiente questa documentazione.
Voglio sottolineare come si debba essere molto attenti nell'imposizione di queste misure, per evitare di incorrere nel rischio - come avviene frequentemente agli Stati Uniti - di imporre misure che successivamente siano condannate in sede di WTO perché illecite e perseguite sul piano delle ritorsioni commerciali. Il caso tipico è quello della imposizione di dazi sull'importazione dell'acciaio. Gli Stati Uniti adottarono tale misura nella convinzione che ci fosse una invasione anomala di prodotti responsabile di avere fatto entrare in crisi le imprese siderurgiche americane. L'Unione europea, la Cina e altri paesi hanno presentato ricorso e il WTO non ha accolto le motivazioni degli Stati Uniti, condannandoli ad una penale estremamente elevata, nella misura di due miliardi di dollari all'anno. L'Unione non ha applicato questa penale perché, nel frattempo, gli Stati Uniti hanno rimosso i dazi considerati illeciti dal WTO.
In modo specifico quali margini di manovra abbiamo a seguito del trattato di accessione al WTO della Cina? L'accordo di accessione della Cina al WTO prevede l'adozione di due importanti strumenti (il primo per tutti i prodotti tranne i tessili e il secondo solo per i tessili) ad hoc nei riguardi della Cina medesima. La grande differenza è che, diversamente dalle salvaguardie tradizionali che sono erga omnes (e cioè che terminano con aumenti tariffari nei riguardi di tutti i Paesi, come ad esempio nell'acciaio da parte degli USA), esse si applicano solamente nei riguardi della Cina e quindi sono uno strumento «chirurgico» come i dazi anti-dumping.
Il primo strumento è la Clausola di salvaguardia speciale per tutti i prodotti tranne i tessili. Per rendere il processo di globalizzazione dell'economia graduale e meno traumatico, il protocollo di accesso al WTO ratificato dalla Cina prevede un periodo di 12 anni (a partire dal novembre 2001) durante il quale i paesi membri del WTO possono, nel corso del processo di liberalizzazione verso i prodotti cinesi, adottare misure di salvaguardia transitorie per difendere specifici settori dell'economia che possano entrare in grave crisi a seguito dell'improvvisa apertura alla concorrenza cinese. Questo riguarda soltanto l'accordo speciale realizzato in occasione dell'adesione della Cina al WTO.
Il Consiglio dell'Unione europea ha così approvato il 28 gennaio 2003 lo strumento di salvaguardia verso la Cina (Regolamento n. 427 del 2003), il cosiddetto TPSSM (Transitional Product-Specific Safeguard Mechanism). Tale strumento consente di difendere le imprese comunitarie attraverso l'introduzione di dazi di salvaguardia e quote qualora il mercato UE sia in crisi o a rischio di grave crisi a causa dell'incremento di importazioni dalla Cina di prodotti simili o direttamente competitivi con i nostri, oppure qualora il mercato dell'Unione europea sia perturbato o a rischio di grave perturbazione a causa della diversione dei commerci di un determinato prodotto dovuta alle misure di salvaguardia adottate da altri paesi o dalla Cina stessa. È questo il caso, ad esempio, dell'acciaio: abbiamo adottato misure di salvaguardia europea a protezione del nostro mercato per evitare che prodotti dell'acciaio che avrebbero dovuto dirigersi negli USA giungessero in Europa.
Tale strumento, particolarmente sofisticato, possiede dei requisiti di applicazione meno severi dello strumento anti-dumping; inoltre la Commissione europea assume un'ampia autonomia sia nel processo decisionale che nell'applicazione della misure sia provvisorie che definitive.
A causa della sua complessità normativa questo strumento è stato elaborato a livello legislativo da pochissimi paesi, e solo i partner commerciali che possono reggere al peso «deterrente» della diplomazia cinese riusciranno ad utilizzarlo concretamente. Al momento infatti è in piedi solo una indagine indiana e una europea (contro i mandarini cinesi). Gli USA, tra i più attivi nella fase iniziale, potrebbero avviare nelle prossime settimane un dossier contro la Cina nel settore tessile.
L'industria comunitaria nel prossimo futuro avrà la piena possibilità di rendere tale strumento pienamente operativo, qualora, naturalmente, ne sia provata la necessità.
Al momento si sta avviando l'indagine, su istanza italiana, sulle calzature.
Esaminiamo ora il secondo strumento, la Clausola di salvaguardia speciale per i prodotti tessili. Tra i requisiti e le condizioni dell'adesione della Cina al WTO vi è anche una clausola di salvaguardia specifica, valida fino al 31 dicembre 2008, concernente le importazioni dalla Cina verso un paese membro del WTO di prodotti tessili e capi di abbigliamento disciplinati dall'Accordo sui Tessili e l'Abbigliamento (ATA). Se le importazioni nella Comunità di prodotti tessili e capi di abbigliamento originari dalla Cina rischiano di pregiudicare l'andamento stabile degli scambi di questi prodotti, a causa di distorsioni di mercato, la Commissione, su richiesta di uno Stato membro o di propria iniziativa, avvia consultazioni con la Cina, al fine di risolvere o prevenire tali distorsioni. Voglio sottolineare che la politica del nostro Paese e dell'Unione europea è di evitare di giungere a misure di salvaguardia o di ritorsione nei confronti di qualunque paese (USA o Cina che sia). Noi naturalmente ci tuteliamo e auspichiamo che questi paesi rivedano se necessario la loro legislazione senza inasprire le controversie o addirittura ingenerare guerre commerciali, che andrebbero a danno di tutti, certamente al nostro.
Se nel periodo di consultazione di 90 giorni le parti non raggiungono una soluzione soddisfacente, la Commissione ha il diritto di istituire un limite quantitativo per la categoria o le categorie oggetto di consultazioni. Il limite quantitativo è fissato sulla base del livello al quale la Cina ha sospeso le spedizioni, alla data di ricezione della richiesta di consultazioni da parte della Comunità. I limiti quantitativi restano in vigore fino al 31 dicembre dell'anno in cui è stata richiesta la consultazione o, se alla fine dell'anno mancano tre mesi o meno, per un periodo di 12 mesi dalla data di richiesta delle consultazioni.
Al momento non ci sono indagini avviate. A tal proposito ricordo che sul caso del coke (rispondo così alle osservazioni del presidente) ci siamo attivati; uno dei problemi delle nostre imprese, infatti, con cui sempre più in futuro ci si dovrà misurare è il reperimento delle materie prime. Le materie prime sono diventate - e tanto più lo saranno in futuro - le risorse che scarseggiano nel pianeta. Ciò è dovuto anche alla crescita imponente di alcune aree sottosviluppate, tra di esse anzitutto la Cina ma non solo. Tra breve altri paesi entreranno in maniera preponderante nell'economia mondiale. Basti rilevare che secondo una recente indagine su quello che accadrà da qui al 2020, si prospetta che saranno 10 i grandi paesi dell'economia nel 2020. Nella classifica di questi 10 paesi ai primi posti saranno quattro grandi paesi oggi considerati in via di sviluppo o in via di transizione: certamente la Cina e poi l'India, la Russia e il Brasile. Tra questi dieci paesi che al 2020 saranno i grandi dell'economia resterà sicuramente l'Italia, ancorché all'ultimo posto.
La crescita di questi paesi è imponente; pensiamo alla Cina che registra un tasso medio di incremento del PIL del 7,5 per cento negli ultimi 22 anni. Solo lo scorso anno, in concomitanza con l'insorgere della Sars, la Cina ha fatto registrare un incremento del PIL pari al 9,2 per cento. Nei primi tre mesi dell'anno il ritmo di crescita era di oltre il 10 per cento; poi in aprile sono scoppiati i primi casi di Sars e la crescita si è bloccata, attestandosi su una media del 9,2 per cento. Per l'anno in corso alcuni prevedono una crescita del prodotto interno lordo cinese del 7,5 per cento, altri dell'11. Attenzione, sto parlando di medie annuali; se negli ultimi 22 anni vi è stata una crescita media annuale del 7,5 per cento significa che, ovviamente, siamo di fronte ad una crescita esponenziale enorme. Certo stiamo parlando di medie, il che vuol dire che vi sono province o città della Cina che da 22 anni registrano una crescita del prodotto interno lordo del 14 o 15 per cento all'anno e altre aree dove la crescita si attesta sull'1 o 2 per cento. In alcune aree della costa ad esempio, la crescita del PIL è del 15, 16 o anche 20 per cento l'anno.
Oggi in Cina circa 125 milioni di persone percepiscono un reddito pro capite superiore ai 20 mila dollari l'anno, superiore cioè al reddito pro capite italiano: un mercato di ricchi superiore o pari al mercato europeo! Sicuramente ciò desta preoccupazione per lo sviluppo della competitività cinese, che preme sui nostri settori produttivi e al contempo riserva grandi opportunità di crescita per il futuro. Alcuni nostri settori sono più esposti perché l'Italia più di altri paesi industrializzati presenta settori produttivi dove per prima incide la crescita di paesi in via di sviluppo. Se noi sovrapponiamo alcuni nostri comparti produttivi con i rispettivi cinesi notiamo che per molti aspetti presentano caratteristiche identiche; molto più di quanto possa avvenire per settori produttivi tedeschi e francesi o americani nei confronti dei paesi in via di sviluppo.
Ad esempio fortunatamente abbiamo ancora un'intera filiera produttiva nel settore tessile, siamo l'unico paese industriale avanzato con queste caratteristiche. Abbiamo 800 mila occupati nel settore tessile e dell'abbigliamento a fronte dei 200 mila della Francia, il secondo paese. È chiaro che i problemi di un impatto sull'occupazione in questo settore li avvertiamo noi per primi, non li avvertono invece gli altri paesi europei, se non marginalmente la Francia, perché non dispongono più di una filiera industriale tessile. Possiamo preservare questo comparto, e io credo lo si possa fare, solo se internazionalizziamo le nostre imprese e nel contempo ne innalziamo il livello tecnologico e della qualità della produzione. L'unica strada per poter competere in un scenario industriale di questo tipo è di incrementare il livello tecnologico delle imprese attraverso investimenti sostanziali in formazione, in ricerca, in innovazione tecnologica. Si deve aumentare le capacità di internazionalizzazione del nostro sistema, sia per la proiezione delle nostre produzioni all'estero, sia per l'internazionalizzazione del capitale azionario, innalzando al contempo il livello qualitativo dei prodotti.
Nel mondo, peraltro, si va realizzando non soltanto questa cornice multilaterale di cui vi ho parlato determinata dal WTO (organismo nel quale, oggi, incidiamo molto più che in passato e lo dimostra anche l'agenda di Doha che è congeniale allo sviluppo dei settori produttivi italiani) ma anche una cornice di macroaree economiche, di cui sottolineo l'importanza per la competitività globale del sistema paese.
Se guardiamo soltanto all'Asia - il rapporto, in definitiva, è fra Europa e Asia -, in quest'ultima, oggi, sono presenti quattro macroaree economiche. L'Asia non è più costituita da singoli paesi, bensì da macroaree economiche verso cui l'Unione europea si relaziona attraverso un rapporto bilaterale estremamente importante.
Immaginiamo un mondo multipolare, per aree macroeconomiche, omogenee sempre più al loro interno, che dialogano anche attraverso trattati bilaterali. Pensiamo al NAFTA e all'importanza di quest'ultima associazione per l'economia messicana o canadese; pensiamo al Mercosur e, ancora, all'area economica realizzata nell'Africa del sud su iniziativa del Sudafrica, l'unico paese dell'Africa subsahariana che, non a caso, riesce ad avere un incremento del prodotto interno lordo significativo.
Tra le quattro aree macroeconomiche che si stanno formando in Asia vi è, innanzitutto, il Consiglio di cooperazione del Golfo, che comprende Bahrain, Kuwait, Oman, Qatar ed Emirati arabi uniti, attorno al moltiplicatore off shore di Dubai.
Quest'area è estremamente importante per le nostre imprese. Ricordo che, nel corso del prossimo anno, dovremmo sottoscrivere il trattato di libero scambio tra l'Unione europea e il Consiglio di cooperazione economica del Golfo in modo che i nostri prodotti, già molto presenti in quel mercato, che costituisce una piattaforma importantissima, comprendente anche buona parte dell'India occidentale (un mercato con un miliardo e mezzo di persone) possano giungere in quell'area a dazi zero: pensiamo a che cosa ciò significherà
per noi! È importante, quindi, che le imprese lo sappiano, in modo da attrezzarsi in tempo utile.
Il Consiglio di cooperazione del Golfo è una delle aree più importanti, soprattutto, per la proiezione del made in Italy, anche perché comprende paesi che hanno un reddito pro capite elevatissimo, in cui il made in Italy è considerato un prodotto di eccellenza (peraltro, di molti di quei paesi, siamo primi partner commerciali).
La seconda area - parliamo sempre dell'Asia - che si sta realizzando è costituita dalla Comunità di Stati indipendenti, intorno alla Federazione russa.
Molti di questi paesi - di queste nazioni che fanno parte della Comunità di Stati indipendenti - appartengono all'Asia. Tra queste vi sono: l'Azerbaijan, l'Armenia, la Bielorussia, il Kazakstan, il Kyrgyzistan, la Moldova, la Federazione russa, il Tajikistan, l'Uzbekistan e l'Ucraina.
Molte imprese italiane stanno migrando verso alcuni di questi paesi. Pensiamo a quanto sta accadendo in Moldova e in Ucraina. Le imprese italiane si stanno, in qualche misura, «orientando verso oriente», sia per quanto riguarda la crescita dei loro commerci, sia per quanto riguarda gli investimenti.
Si tratta di un fenomeno che, inevitabilmente, si accrescerà nei prossimi anni - noi ci auguriamo che ciò accada - anche se, in una prima fase della globalizzazione, ci si era diretti nei paesi più vicini all'Italia. Pensiamo, per esempio, a Timisoara, la provincia della Romania più vicina culturalmente a Treviso (perché per secoli è appartenuta allo stesso impero austroungarico). Essa è a sole tre ore da Treviso ma è vicina a questa città anche culturalmente. Per questo motivo, le nostre imprese hanno avuto più facilità ad insediarsi a Timisoara piuttosto che in altre aree della Romania, che non facevano parte dell'impero austroungarico.
Questa migrazione, tuttavia, sta giungendo oggi anche in Moldova e in Ucraina e, a mio avviso, quest'ultimo sarà il paese più importante per l'insediamento delle nostre imprese nei prossimi anni al di là della frontiera dell'Unione europea.
La Comunità di Stati indipendenti ha sue regole interne. È un mercato interno, è un'area all'interno della quale le merci possono esse prodotte e scambiate liberamente (possono essere, per esempio, prodotte merci in Ucraina ed esportate in Russia, oppure prodotte in Siberia ed esportate in Tagikistan, praticamente senza dazi o con dazi estremamente bassi).
È importante capire questo perché oggi il mondo non è unipolare, bensì multipolare, quindi, anche nei rapporti commerciali, vi sono accordi bilaterali che possono arrecare vantaggio o svantaggio alle imprese del nostro paese ed essere o meno presenti all'interno delle singole aree geoeconomiche che si realizzano.
Sempre per quanto riguarda l'Asia, dal punto di vista della competitività con l'Europa, estremamente importante è la realizzazione del SAARC (South Asian Association for Regional Cooperation), che comprende Bangladesh, Bhutan, India, Maldive, Nepal, Pakistan e Sri Lanka. Ovviamente, il più importante di questi paesi è l'India ma tutta l'area, in futuro, è destinata a crescere nel complesso perché parte da basi estremamente basse.
Si tratta di un'area nella quale la competitività delle nostre imprese potrebbe esser messa seriamente a rischio. In essa vi è un mercato interno estremamente importante - quello indiano - che, per il momento, è ostico ai nostri prodotti, anche per le altissime barriere, tariffarie e non, che vengono poste all'ingresso delle nostre produzioni (nel settore tessile, le tariffe d'ingresso in India sono pari all'80 per cento ed oltre).
La quarta area è quella dell'ASEAN (Association of Southcoast Asian Nations), che comprende Indonesia, Malaysia, Filippine, Singapore, Thailandia, Brunei, Vietnam, Laos, Myanmar e Cambogia, all'ombra della crescita vertiginosa del colosso cinese che, infatti, intende aderire all'ASEAN.
Con ciascuna di queste aree, ad eccezione della Comunità degli Stati indipendenti (verso la quale mantiene rapporti bilaterali con i singoli membri), l'Unione
europea mantiene un dialogo costante con forum specifici e iniziative di liberalizzazione su base bilaterale.
Gli obiettivi sono principalmente nel campo della trade facilitation, ovvero la rimozione di barriere non tariffarie e ostacoli doganali, ma anche nell'individuazione di comuni interessi nell'ambito del negoziato globale WTO (basti pensare alle indicazioni geografiche).
In ogni accordo che stipuliamo (pensiamo all'accordo fra Unione europea e Cile, che è stato sottoscritto lo scorso anno o anche a quelli che saranno sottoscritti nei prossimi anni con il Consiglio di cooperazione del Golfo o con il Mercosur) la politica dell'Unione europea, su cui abbiamo insistito e ottenuto soddisfazione, è quella di chiedere sempre il riconoscimento bilaterale delle cosiddette indicazioni geografiche quale elemento prioritario negli accordi bilaterali tra l'Unione europea e gli altri Stati e tra la prima e le macroaree economiche commerciali come quelle che vi ho citato, che riguardano, appunto, l'Asia. Per questo motivo, la decisione presa dalla Commissione l'altro giorno in merito alle indicazioni geografiche di alcune tipologie di vini italiani, è apparsa schizofrenica, contraddittoria, illogica rispetto alla politica europea.
Nello specifico, il processo più avanzato è quello fra Unione europea e ASEAN, essendo quest'ultima la principale area del nostro interesse.
Durante la recente riunione tra Unione europea e ASEAN, tenutasi a Giacarta, in Indonesia, lo scorso 20 gennaio, il Commissario Pascal Lamy, informato sulla volontà di alcuni paesi asiatici come Cina, India o Giappone di consorziarsi in aree di libero scambio, ha indicato la propria valutazione positiva, rilevando che 1'Unione europea avrebbe desiderio di condividere le proprie esperienze con l'ASEAN, iniziando da quelle relative all'attuale processo di allargamento della Comunità. Lamy ed i ministri ASEAN hanno anche discusso misure finalizzate alla realizzazione del Transregional EU-ASEAN Trade Initiative (TREATI) per espandere i flussi di commercio ed investimenti tra le due regioni. Si è preso atto di una roadmap e di un'agenda per il 2004 finalizzati alla realizzazione del TREATI, i quali includono, quali settori prioritari, la facilitazione del commercio, la promotion, gli investimenti, le barriere tecniche, le misure sanitarie e fitosanitarie, dogane e turismo. Inoltre, hanno evidenziato positivi progressi degli schemi di cooperazione tra Unione europea e ASEM, già esistenti, in materia di sostegno all'integrazione regionale, di standard, qualità e accertamento di conformità, nonché in materia di proprietà intellettuale. Tali programmi verranno ora coordinati tramite il citato TREATI.
In tema WTO, Unione europea e ASEM ritengono fondamentale una pronta ripartenza dell'agenda di Doha, specialmente attraverso una rapida adozione di modalità nelle materie chiave, in modo che il 2004 possa essere un anno importante. Proprio l'altro giorno, si è finalmente raggiunto l'accordo sui nuovi organi e sui nuovi negoziatori. Questo potrebbe essere un buon segnale per la ripartenza dei negoziati. Inoltre, vi è grande sostegno da entrambe le parti per una rapida accessione al WTO di Vietnam e Laos (ricordo che l'Italia fornisce assistenza tecnica e finanziaria al Vietnam per l'adesione al WTO).
Nel 2002, l'Unione europea è stata il secondo più grande mercato di esportazione dell'ASEAN e terza più grande fonte di importazioni, dietro a Giappone e Stati Uniti. L'export dell'Unione europea nell'ASEAN è stato pari a circa 40 miliardi di euro, mentre le importazioni verso l'Unione europea dall'ASEAN sono state circa 62 miliardi di euro.
Poco fa ho accennato - mi ero dimenticato di approfondire le tematiche inerenti al coke - alle materie prime come risorse energetiche prioritarie per l'economia occidentale e alla loro scarsezza. Su queste tematiche, una commissione tecnica incaricata dalla Commissione, dietro nostra sollecitazione, si è già recata a Pechino per invitare il Governo cinese a tenere conto delle esigenze dell'industria europea. Infatti, la riduzione arbitraria
delle licenze per l'esportazione delle quantità esportate potrebbero essere in contrasto con le regole del WTO. A tal fine, ovviamente, abbiamo sollecitato la Commissione europea a sottoporre questo problema al governo cinese. Mi recherò personalmente in Cina, alla fine del mese di marzo, per aprire l'anno speciale d'Italia in Cina (vi riferirò in proposito alla conclusione del mio intervento). In quella sede, secondo l'accordo definito con il governo cinese, discuteremo anche di queste potenzialità, con l'auspicio che lo stesso tenga conto delle necessità del sistema industriale europeo e corrisponda a queste necessità, anche per quanto riguarda l'esportazione del coke, soprattutto alla luce delle regole del WTO, in base alle quali non possono essere improvvisamente ridotte le esportazioni di una materia prima e le licenze, al fine di ostacolare il libero commercio.
Quanto all'ASEM, esso consiste in un meeting che si svolge ogni anno (quest'anno si è svolto a Dalien e lo abbiamo presieduto in qualità di presidenti di turno dell'Unione europea). È un processo informale di dialogo e di cooperazione tra gli Stati membri dell'Unione europea e la Commissione europea, da una parte, e dieci paesi asiatici (Brunei, Cina, Indonesia, Giappone, Corea, Malaysia, Filippine, Singapore, Thailandia e Vietnam), dall'altra. Il dialogo di ASEM riguarda questioni politiche, economiche e culturali - infatti, la sua attività è organizzata in tre pilastri - con l'obiettivo di fortificare le relazioni tra le due regioni, in uno spirito di rispetto reciproco e di associazione di pari livello. Il pilastro economico dell'ASEM tratta con particolare enfasi le problematiche della rimozione di barriere commerciali e dei flussi di investimento. Questo lavoro è portato avanti, in particolare, attraverso un dialogo sui temi del WTO.
La realizzazione di un Piano dell'azione della facilitazione commerciale (TFAP) ha indicato come poter ridurre o rimuovere le barriere non tariffarie tra le due regioni. Fin dal 2001, i partner hanno realizzato rapporti annuali sui progressi raggiunti nella rimozione di tali ostacoli.
La realizzazione di un Piano di azione per la promozione degli investimenti (IPAP) ha indicato come promuovere i flussi di investimento nei due sensi tra Asia ed Europa. Anche in questo caso, i paesi ASEM hanno realizzato rapporti annuali sui progressi evidenziati, contenenti indicazioni per rendere più efficace l'attrazione di investimenti diretti esteri.
Per rendere più efficace e concreto il dialogo sui temi economici, ASEM 4, tenutosi a Copenaghen nel settembre 2002, ha deciso di costituire una task force con il compito di studiare il modo di migliorare le relazioni economiche tra Asia e Europa. La task force (di cui fa parte l'onorevole Gianni De Michelis) riferirà alla prossima riunione ministeriale ASEM, che si svolgerà a Rotterdam nel corso del 2004.
L'ultima riunione ministeriale, invece, si è tenuta in luglio a Dalien, una città costiera della Cina. Riferisco ai colleghi parlamentari l'esperienza che ho vissuto in quella occasione, in qualità di Presidente di turno dell'Unione europea. Mi sono trovato in una città di otto milioni di abitanti che presenta un livello tecnologico sicuramente superiore a gran parte delle nostre realtà industriali. Basti ricordare che, pur essendo solo una delle tante città della Cina, vi si trovano 18 università e 300 centri di ricerca. Ovviamente, il numero di abitanti è elevato ma parliamo, lo ripeto, di ben 18 università e di 300 centri di ricerca. Pur essendo una città importante per i cinesi, personalmente non la conoscevo e credo che quasi nessun italiano sappia della sua esistenza. È situata sulla costa, in prossimità della Corea del Sud. Si tratta di un centro tradizionalmente industriale, che ha attraversato anche una crisi ed è rivolto, oggi, interamente alla innovazione tecnologica. È una città avveniristica anche per la sua conformazione urbanistica. Non a caso, il nuovo ministro del commercio estero cinese, nominato una settimana fa, è stato sindaco di Dalien e, successivamente, governatore della provincia di Dalien. In quella sede l'ho conosciuto e abbiamo sviluppato un rapporto amicale molto importante.
Fortunatamente, egli è un grande amico dell'Italia, avendo anche pagato per questa amicizia. In ogni caso - come ho ricordato - questa città rappresenta soltanto una delle tante realtà cinesi.
Per quanto riguarda i rapporti con il SAARC - una realtà costituitasi nel sud est asiatico, attorno all'India - essi sono sviluppati attraverso le visite annuali di una ministerial troika e attraverso meeting annuali, con forum apertisi ne1 periodo 1994-1999. Nel 1996, la Commissione europea ha firmato un memorandum di intesa con il SAARC, offrendo assistenza tecnica soprattutto per superare le difficoltà politiche interne agli Stati membri. Sono paesi che presentano sviluppi estremamente diversi: si pensi alla Cambogia, all'India e all'Indonesia. Due risultati sono stati conseguiti: l'inclusione del SAARC nel sistema delle preferenze generalizzate (GSP), con la clausola cumulativa della regole d'origine, e una missione esplorativa per lanciare un programma di assistenza tecnica nell'integrazione fra membri. Inoltre, esiste un accordo di cooperazione fra l'Unione europea e il Consiglio di cooperazione del Golfo, firmato nel 1988. Sulla base del mandato del Consiglio del 2001, la Commissione sta negoziando un accordo di libero scambio che riguarderà beni, servizi, appalti pubblici, proprietà intellettuale e così via. L'accordo potrebbe essere firmato dopo che il Consiglio di cooperazione del Golfo avrà realizzato una unione doganale al suo interno. Secondo gli auspici, la firma dell'accordo istitutivo di un'area di libero scambio potrà avvenire il 1o gennaio 2005.
Questo è il quadro delle relazioni commerciali multilaterali tra l'Unione europea e le singole macroregioni economiche della Asia. Ovviamente, questo serve anche a far capire quali siano i livelli di intervento nella governance mondiale, nel cambiamento delle regole e nelle facilitazioni al commercio e agli investimenti. Inoltre, bisogna pensare a iniziative concrete per riacquistare competitività. Abbiamo sviluppato tali iniziative su vari livelli, soprattutto sui tre livelli della governance. Il primo è quello degli organismi multilaterali; il secondo è quello dell'Unione europea (del resto, la politica commerciale è di esclusiva competenza dell'Unione); il terzo livello, comunque, rimane quello degli Stati nazionali e, in alcuni casi, si può intervenire.
Ci siamo occupati, soprattutto, della tutela del diritto di proprietà intellettuale. Noi siamo convinti che l'Italia possa competere nel mondo se riuscirà a far realizzare, nelle sedi multilaterali - WTO e non solo -, nell'ambito dell'Unione europea, nell'ambito delle legislazioni nazionali e degli accordi bilaterali una tutela del diritto di proprietà intellettuale largamente inteso, in cui, ad esempio, sia compresa la indicazione geografica. Le indicazioni geografiche sono l'ultima frontiera, o la nuova frontiera, del diritto di proprietà intellettuale. Non a caso, il capitolo delle indicazioni geografiche è contenuto all'interno dei TRIPS, relativi al diritto di proprietà intellettuale, e non all'interno del capitolo agricoltura. Infatti, si tratta di un diritto di proprietà intellettuale non del singolo - ad esempio, lo scienziato che depositi un brevetto o l'imprenditore che depositi un marchio - ma di una collettività, che si è realizzato storicamente: l'indicazione geografica è lo sviluppo storico avvenuto all'interno di una comunità specifica (si pensi al parmigiano reggiano all'interno della comunità dell'Emilia-Romagna). Siffatto diritto collettivo alla proprietà intellettuale è stato riconosciuto, per la prima volta, a Doha, nell'agenda negoziale. Questo ha aperto una nuova frontiera, quella del riconoscimento delle indicazioni geografiche, appunto. Ma anche questa è tutela del diritto di proprietà intellettuale.
Nell'ambito di tale problematica è molto importante quanto si è fatto e quanto si vorrà fare nell'Unione europea. Credo che una particolare efficacia possano avere le nuove norme che stiamo approvando in Italia e nell'Unione in merito alla cosiddetta marchiatura d'origine. Vorrei sottolineare l'iniziativa intrapresa, mediante la legge finanziaria, con l'istituzione del marchio made in Italy, che sarà regolamentato nelle prossime settimane. Il regolamento, come previsto dalla legge
finanziaria, stabilirà i requisiti che debbono essere posseduti dalle imprese autorizzate ad apporre facoltativamente questo marchio sui loro prodotti, ove lo ritengano utile. Le imprese che non potranno farlo, perché prive dei requisiti, saranno perseguite come contraffattori ove lo appongano. Voglio ricordare come in Italia non vi sia una normativa che identifichi il made in Italy e la marchiatura d'origine. Con questa norma, contenuta nella legge finanziaria, cui seguiranno i regolamenti attuativi, ormai in fase di definitiva elaborazione, sarà possibile definire che cos'è il made in Italy, quali imprese potranno attribuire ai loro prodotti questo marchio e quali non potranno farlo. Tuttavia, il marchio sarà facoltativo, come dicevo, perché non è possibile in uno Stato membro dell'Unione europea approvare una legislazione nazionale sull'obbligatorietà della stampigliatura relativa al paese d'origine.
I paesi europei in cui vigevano normative simili sono stati condannati all'inizio degli anni Ottanta dalla Corte di giustizia europea; in modo particolare si fa riferimento alla sentenza della Corte di giustizia europea del 1983 nei confronti della Gran Bretagna che si era dotata di una normativa in tal senso. Ovviamente la logica di allora considerava prioritario (a mio avviso oggi non è più così ma è difficile far passare questa teoria in Europa) l'interesse a rimuovere ogni ostacolo alla costituzione del mercato interno; quegli ostacoli ora non esistono più e personalmente ritengo che quella sentenza sia superata dai fatti per cui oggi potrebbe svilupparsi una normativa in tal senso. Questa ovviamente è una analisi che va trasferita in sede europea; noi lo abbiamo fatto nel corso della riunione del Consiglio dei ministri del commercio estero dell'Unione europea, lo scorso 2 dicembre, ma non vi è grande convergenza al riguardo. Per evitare di incorrere in infrazioni la nostra norma sarà facoltativa ma normata per legge.
L'Unione europea può invece introdurre l'obbligo della marchiatura. L'ho personalmente proposto durante la prima riunione dei ministri del commercio con l'estero nel semestre di presidenza italiana, tenutasi a Palermo il 6 luglio 2003. Abbiamo proposto che la Commissione europea realizzi una regolamentazione comunitaria che disponga l'obbligo della stampigliatura del made in su tutti i prodotti importati (eventualmente collegata ad analogo obbligo per i prodotti europei). Inizialmente soltanto la Grecia era favorevole a questa ipotesi e il 19 dicembre, su sollecitazione italiana, la Commissione ha presentato al Comitato 133 di Bruxelles tre ipotesi sulle possibili soluzioni in oggetto.
Riteniamo che entro il mese di marzo la Commissione sarà in grado di presentarci una proposta formale per realizzare un regolamento attuativo, immediatamente vincolante per tutti i 25 paesi europei. Verosimilmente la proposta formale non potrà che essere di mediazione e contemplare - me lo auguro - l'obbligo della stampigliatura del made in su tutti i prodotti importati nell'Unione europea lasciando la facoltà alle imprese europee e agli Stati nazionali di rendere facoltativo il marchio nazionale ma non l'obbligo della propria stampigliatura. Alcuni paesi europei, soprattutto del nord Europa, si oppongono ad una normativa in tal senso e quindi dobbiamo raggiunge una maggioranza in Europa che ci permetta di conseguire questo obiettivo.
Per comprendere l'importanza della tematica basta rilevare, sempre in riferimento al caso cinese, che, se un imprenditore cinese realizza una poltrona in Cina e la esporta negli Stati Uniti, in base alla legislazione americana - risalente agli anni Trenta - ha l'obbligo di stampigliare su ogni prodotto il simbolo made in China. Se lo stesso prodotto viene esportato in Italia, Germania, Francia, nell'Unione europea questo obbligo non vige; infatti i produttori non vi scrivono made in China. Per noi è questo un elemento estremamente importante per contrastare la concorrenza sleale e la contraffazione nel mercato dell'Unione europea allargata, che comunque rappresenta il 70 per cento del nostro mercato.
Altro elemento importante in sede di Unione europea è il regolamento n. 1383 del 2003 del Consiglio, emanato il 22 luglio (sotto presidenza italiana). Esso prevede la possibilità di distruggere (senza risarcimento) o di mettere fuori dei circuiti internazionali merci di importazione che violano i diritti di proprietà intellettuale. Inoltre ne vieta l'ingresso nel territorio doganale, l'immissione in libera pratica, la riesportazione e il collocamento in depositi o zone franche e prevede l'impiego di soluzioni concordate, ma purché finalizzate ad eliminare l'interesse economico della contraffazione. La normativa è attivabile ad istanza di parte: il titolare del diritto di proprietà intellettuale (marchio, brevetto, ma anche denominazione d'origine o indicazione geografica) identifica e denuncia alle autorità doganali le merci contraffatte (con marchio identico o non distinguibile) o usurpative (copie). Anche la non corretta utilizzazione del marchio CE (quando è utilizzato, ad esempio, ingannevolmente quale acronimo di China Export) dovrebbe rientrare in questa previsione in quanto trae in inganno i consumatori. Il regolamento andrà in vigore il 1o luglio 2004; da quella data il marchio CE che fosse apposto esclusivamente per trarre in inganno il consumatore sarebbe considerato come una contraffazione e quindi chiunque potrebbe chiedere il sequestro di merce contraffatta con tale marchio.
Devo aggiungere, a tal proposito, che abbiamo inserito nella finanziaria 2004 una serie di norme sulla indicazione fallace. Dal 1o gennaio di quest'anno, è reato in Italia apporre indicazioni fallaci che inducano in errore i consumatori su merci prodotte fuori dall'Italia, lasciando intendere che siano realizzate nel nostro paese. Ad esempio è vietato apporre sulle merci un logo tricolore, piuttosto che l'immagine del Colosseo, al fine di ingannare i consumatori su merci di importazione.
Sempre in tema di competizione cinese dal 1o aprile di quest'anno si avvierà un progetto speciale in Cina (realizzato grazie ai fondi straordinari contenuti nella legge finanziaria) per raccogliere questa sfida e possibilmente vincerla nel reciproco interesse. Tale progetto affronta tre livelli del processo di internazionalizzazione: il flusso di persone (estremamente importante), di capitali e dei prodotti.
Per quanto riguarda il flusso di persone, parliamo innanzitutto ma non solo dell'attrazione di turisti cinesi in Italia. Come saprete nello scorso mese di ottobre il presidente di turno dell'Unione europea, Silvio Berlusconi, ha firmato un trattato sui flussi turistici generalizzati tra Unione Europea e Cina. Il trattato entrerà in vigore dal 1o maggio di quest'anno e prevede in sostanza la possibilità di flussi turistici di gruppo cinesi nell'Unione europea. Secondo statistiche cinesi è prevedibile che da qui al 2010, cioè in sei anni, circa 100 milioni di cinesi si recheranno all'estero per turismo; il 70 per cento dei quali avrebbe come prima meta auspicata l'Italia, meglio ancora Venezia. Non a caso in sede di realizzazione di questo accordo abbiamo predisposto il progetto di cui sopra per essere i primi a fare il nostro ingresso in quel mercato turistico e attrarre turisti cinesi in Italia. Il progetto a tal fine prevede l'apertura di linee dirette tra l'Italia e la Cina; oggi non esistono linee dirette governate da compagnie italiane. La prima tra Venezia e Shanghai si inaugurerà a giugno e sarà realizzata da una compagnia privata italiana, la seconda, tra Milano e Shangai, mi auguro sia realizzata ad ottobre dall'Alitalia.
Il secondo livello di questo progetto riguarda il flusso di capitali, cioè l'incremento degli investimenti italiani in Cina e l'incremento di investimenti cinesi in Italia. Viviamo un problema di competitività con la Cina perché produciamo troppo poco in quel paese. Altre nazioni europee hanno investito molto di più nel continente cinese, dove sono presenti in larga misura con impianti produttivi. Si pensi semplicemente alle imprese tedesche, statunitensi, nipponiche e francesi. La Cina attualmente è, dopo il Giappone, il secondo paese al mondo per riserve valutarie in dollari ed ha intenzione di investire quest'immensa risorsa valutaria in Europa in base ad una decisione assunta dal
Comitato centrale del Partito comunista cinese. Per questo motivo nel mese di aprile si realizzerà in Italia, a Venezia, un seminario sugli investimenti Italia-Cina che vedrà partecipi Governo, le istituzioni in genere, agenzie di sviluppo e rappresentanti del sistema territoriale. Saranno presenti in quell'occasione 100 tra i più grandi imprenditori cinesi che hanno manifestato interesse a investire in Italia.
Il terzo livello del progetto riguarda la promozione del prodotto italiano in Cina. A tal fine abbiamo previsto, insieme alle regioni e alle categorie produttive, oltre 300 eventi di natura culturale, scientifica, sportiva, tecnologica e ovviamente commerciale. Si tratta di grandi eventi che sottolineeranno l'eccellenza del made in Italy, le sue potenzialità e le sue opportunità nel grande mercato cinese, con il quale dobbiamo confrontarci ben conoscendone le potenzialità ma consci delle opportunità del nostro sistema economico.
Sono disponibile ad ascoltare le vostre domande, critiche e suggerimenti perché sono convinto che un proficuo confronto tra Governo e Parlamento possa contribuire a realizzare una politica commerciale che consenta alle nostre imprese di acquistare competitività soprattutto nei confronti del continente asiatico, che finalmente torna ad essere all'attenzione dell'economia mondiale.
Vorrei ricordare un ultimo dato che è poi un dato storico. Il nostro paese, il Mediterraneo e l'Europa sono cresciuti per millenni soltanto guardando ad Oriente: fino all'anno 1492 non esisteva l'Occidente, bensì le colonne d'Ercole. Fu così fino a quando un navigatore, un italiano, Cristoforo Colombo, nel tentativo di scoprire la via più breve per le Indie e, quindi, per l'Oriente, scoprì l'Occidente.
Da quel momento, l'Europa guardò soltanto ad Occidente, diresse là le sue migrazioni e, per così dire, crebbe nel segno dell'Occidente, dimenticando e inaridendo le vie d'Oriente. Per questa ragione, soprattutto, l'Oriente si è chiuso in se stesso (ciò vale per l'Oriente più lontano, la Cina, ma anche per quello più vicino, cioè il mondo isalamico che, fino a quell'anno, era un mondo che cresceva in termini scientifici, tecnologici e sociali, anzi, era faro di progresso e di modernità). Da allora, quel mondo si è chiuso in se stesso perché l'Europa si è rivolta solo ed esclusivamente ad Occidente per popolare e crescere ad Ovest.
Ritengo che sia arrivato il momento di tornare a crescere ad Oriente. Questa è la nostra scommessa: riprendere la via d'Oriente, la via storica che, per millenni, ha accresciuto le nostre attività imprenditoriali, commerciali, culturali, sociali ed economiche.
PRESIDENTE. Ringrazio il viceministro Urso per la sua ricca ed articolata relazione, che certamente ha fornito un contributo importante ai lavori della Commissione, nonché parecchi spunti su cui riflettere.
Approfondire tematiche così importanti e complesse per la vita del nostro paese e dell'Unione europea significa approfondire problemi che riguardano milioni di cittadini. La Commissione apprezza, quindi, la disponibilità del Governo e del viceministro in questo senso. Ancora una volta, il confronto tra Governo e Parlamento è, sotto questo aspetto, estremamente positivo.
Do ora la parola ai deputati che desiderano intervenire, cominciando dal collega Airaghi, al quale - lo ricordo - si deve l'originaria iniziativa dello svolgimento di questa indagine conoscitiva.
MARCO AIRAGHI. Ringrazio il viceministro Urso per averci fornito una panoramica veramente interessante e dettagliata della situazione (anche perché egli può farlo da un punto di vista assolutamente privilegiato essendo il titolare della delega che maggiormente è interessata da questa problematica). Egli ha svolto una relazione veramente completa, di cui lo ringrazio anche per il suo taglio positivo, sebbene i dati di fatto e numerici che sono riportati appaiano assolutamente impressionanti.
In particolare, ammetto che sono stato colpito dal dato relativo alla città cinese
visitata di recente dal ministro che, forse per mia ignoranza, non avevo mai sentito nominare. Nonostante ciò, essa appare una città senza eguali in Europa per dimensioni e con uno stato di avanzamento tecnologico e di sviluppo tale da mettere in crisi le nostre convinzioni - perlomeno le mie - su un continente (poiché la Cina da sola può essere considerata tale) che, fino ad oggi, nonostante la crescita vorticosa, avevamo considerato - forse per non vedere tutta la potenza che avevamo di fronte - come una nazione tendenzialmente arretrata, con un notevole gap sul piano tecnologico, rispetto all'Europa e all'Italia.
Questo è un convincimento di cui dobbiamo rapidamente disfarci; altrimenti, rischiamo di affrontare in modo inadeguato una problematica che, invece, richiede modalità assolutamente professionali e massima attenzione.
Ora, indipendentemente dal fatto che sarebbe bello poter aprire un dibattito più ampio su quanto riferito dal ministro, mi limiterò ad una breve domanda. Sono contento del fatto che - come ci è stato detto - qualsiasi barriera o scelta commerciale è di competenza completa della Comunità europea (altrimenti, ci porremo al di fuori del trattato comunitario), perché ritengo che l'unica dimensione per poter affrontare un problema posto da nazioni ed economie di simili dimensioni sia quella comunitaria (un livello che, fondamentalmente, nasce proprio per questo scopo e per questo deve quindi venire utilizzato).
La stessa Europa nel suo complesso, dovendo scontrarsi e confrontarsi con la Cina - o, più in generale, con i paesi asiatici -, giustamente deve ritenere che questa sia anche un grandissimo mercato. Il dato riferito dal ministro e relativo ai 125 milioni di cinesi che vantano più di 20 mila dollari di reddito pro capite è sicuramente tipico di un mercato straordinario, non solo per l'Italia ma per l'intera Europa. Diventa però difficile, per il nostro paese, competere con un mercato che, se pur interessante, vede i suoi produttori giocare con regole che non sono sempre le nostre.
Mi riferisco, in particolare, salvo essere smentito dal vorticoso progresso cinese di questi ultimi mesi, al fatto che siamo di fronte ad una nazione dove, perlomeno secondo quanto è a nostra conoscenza, non risulta che siano ancora radicate le conquiste del nostro continente riguardo alle condizioni di lavoro: penso alla disciplina in materia di orario di lavoro, condizioni dei lavoratori, età lavorativa, alla diffusione del lavoro nero e, soprattutto, al fatto che non c'è la stessa sensibilità rispetto all'esigenza di stabilire strettissimi requisiti a difesa dell'ambiente e dell'ecologia.
Appare del tutto chiaro che, in mancanza di regole condivise, i costi di produzione diventano non comparabili; quindi, mi sembra difficile, pur difendendo e tenendo alta la nostra tecnologia, la nostra immagine, la proprietà intellettuale, la nostra inventiva, potere andare in questo mercato con serie possibilità di successo rispetto ad aziende locali che, avendo regole diverse, possono anche scontare costi diversi (più bassi).
Mi chiedo, allora, se il WTO preveda regole sulle modalità di produzione delle aziende o se sia assolutamente escluso dalle competenze di questo organismo un tale tipo di regolamentazione.
Inoltre, laddove ciò non sia previsto, il WTO potrebbe accettare su richiesta della Comunità europea di vincolare perlomeno le importazioni nella nostra Comunità da parte dei paesi che producono non rispettando quelle regole che sono per noi fondamentali poiché frutto della nostra cultura secolare europea (e alle quali, ovviamente, non vogliamo rinunciare)?
MONICA STEFANIA BALDI. Ringrazio anch'io il viceministro per l'ottima relazione ma principalmente perché, durante il semestre italiano di Presidenza dell'Unione, l'Italia è riuscita ad attuare alcune azioni che hanno permesso di riflettere non solo sul made in Italy, ma anche sul made in Europe.
Ringrazio il viceministro perché ha concentrato l'attenzione su una delle questioni che veramente, in questo momento, preoccupano molto le imprese italiane.
Provengo dalla Toscana ed ho avuto molti colloqui con rappresentanti del settore tessile e di case di moda. Posso affermare che la preoccupazione è grande. Da un lato, per quanto riguarda il made in Italy le imprese richiedono sanzioni più gravose per la realizzazione di marchi contraffatti e per il mancato rispetto delle regole. D'altro lato, gli imprenditori vorrebbero un made in Italy più forte, attraverso il quale garantire che il prodotto è realizzato in Italia, soprattutto quando si utilizzino semilavorati prodotti in paesi extracomunitari.
Sappiamo che gran parte delle imprese lavorano con paesi, alcuni dei quali presto entreranno a far parte dell'Unione europea, in cui il mercato del lavoro funziona in modo diverso. Il collega Airaghi ricordava, giustamente, che il costo del lavoro, in taluni mercati e soprattutto in Cina, è più basso perché non esistono norme analoghe alle nostre, sia in materia ambientale sia in materia lavoristica.
Più volte, gli imprenditori mi hanno chiesto per quale ragione non si parli di marchio di qualità. Come lei affermava, signor viceministro, il marchio di qualità si riferisce a quel valore aggiunto intellettuale che lei ha definito, giustamente, tutela del diritto collettivo di proprietà intellettuale. In questo caso, l'Unione europea può emettere un marchio europeo. Come si può ottenere, invece, una tutela del marchio italiano senza incorrere nelle condanne della Corte di giustizia europea? Mantenendo le regole relative alla competitività, allo sviluppo e alla crescita, come si può arrivare a tutelare un marchio che garantisca che un prodotto presenta determinati requisiti e comunque, anche se realizzato con semilavorati importati dall'estero, è fabbricato in Italia?
Anche riguardo al mondo del lavoro queste imprese sono preoccupate. Infatti, vi sarà una tendenza alla chiusura di tale mercato perché, se il mercato funzionerà in questi termini, cioè se le imprese si limiteranno a commercializzare il prodotto, la situazione sarà ben diversa.
Un'altra grande questione attiene al mercato cinese. Alcune imprese sostengono che la Cina non rispetterà le regole dell'Organizzazione mondiale del commercio. È vero che esistono norme precise e che l'import e l'export non devono essere ostacolati, nel rispetto delle regole del libero commercio e del libero mercato. Tuttavia, vi è una grande preoccupazione nei confronti della Cina. In precedenza, si è detto che non dobbiamo inasprire i rapporti dell'Italia e dell'Europa con la Cina e il mondo asiatico. Su questo tema, ci può dire qualche cosa di più?
Infine, vorrei maggiori chiarimenti in relazione al tema, da lei appena accennato, del made in Italy. Infatti, sarebbe interessante capire che cosa significhi questo marchio in termini di requisiti del prodotto, quando questo è realizzato con l'impiego di semilavorati provenienti da paesi extracomunitari. Vuol dire che i prodotti sono realizzati per intero all'estero e che, ad esempio, per quanto riguarda un vestito, apponendo un bottone in Italia si può applicare il marchio made in Italy? È molto importante capire questo.
ANDREA DI TEODORO. Anch'io voglio unirmi al ringraziamento nei confronti del viceministro Urso, poiché la relazione è stata oltremodo concreta, interessante e non formale. Sicuramente, questo è già un dato positivo. In parte, sono stato preceduto dai colleghi che sono intervenuti prima di me nel chiedere al viceministro di focalizzare la sua attenzione sul problema del marchio di qualità inteso come strumento di difesa della competitività dei nostri prodotti. Lei si è riferito al made in Italy e al significativo impegno dalla Presidenza di turno italiana volto ad ottenere l'imposizione dell'obbligo di stampigliatura del marchio made in a tutti i prodotti circolanti all'interno dei paesi dell'Unione. Inoltre, si è concentrato sul marchio di denominazione d'origine, con l'indicazione di provenienza geografica del prodotto.
Io pongo un problema relativo al marchio di qualità inteso come qualità intrinseca del prodotto. In altri termini, in alcune filiere produttive come quella del legno e dell'arredamento - che il viceministro Urso conosce molto bene, avendo svolto un intervento all'assemblea di Federlegno, pochi mesi fa - vi è l'idea che si possano usare marchi con i quali sia garantita la qualità dei materiali usati nella produzione. Ad esempio, si può garantire che un determinato prodotto sia realizzato con vero legno e non con materiali che abbiano semplicemente l'apparenza del legno, come i pannelli di truciolato rivestiti di una impiallacciatura che abbia l'apparenza del ciliegio o del noce. So che una parte rilevante di questo comparto ha intrapreso una iniziativa, proponendo al vostro ministero proprio l'istituzione di un marchio «vero legno». So anche che il ministero si è attivato presso la Commissione europea ai fini dell'introduzione dell'obbligo di predisporre una scheda per tutti i prodotti del comparto in cui sia discriminata la vendita di prodotti di vero legno rispetto alla vendita di prodotti realizzati con materiali simili, consentendosi così al consumatore di scegliere a ragion veduta.
Insomma, bisognerebbe puntare su marchi che, a prescindere dal fatto che si tratti di made in Italy, garantiscano l'uso, comunque, di prodotti di alta qualità. Ovviamente, le nostre imprese puntano su produzioni di eccellenza, laddove in Cina si fabbricano mobili che imitano la qualità intrinseca del vero regno e, in realtà, presentano caratteristiche scadenti o comunque di pregio non paragonabile a quello dei mobili realizzati nei nostri distretti di eccellenza, in Veneto, in Brianza o in altri.
Perciò, in sintesi, bisognerebbe affiancare al marchio di denominazione di origine anche un marchio di qualità fondato sulla qualità della produzione e sulla qualità del prodotto, a prescindere dal luogo di produzione. Credo che questo potrebbe essere un secondo binario, a livello comunitario, sul quale insistere.
PRESIDENTE. Intervengo brevemente, non volendo sottrarre troppo tempo. Tuttavia, ho una preoccupazione. Ho avuto occasione di apprezzare la qualità di un prodotto realizzato in Cina, molto simile a una produzione tipica del nostro paese, e ho constatato che, forse, la qualità di quello cinese era superiore rispetto a quella di beni che, da secoli, fabbrichiamo in Italia. Questa preoccupazione è riferita a quanto da lei affermato, onorevole Di Teodoro. Naturalmente, non voglio interferire nelle competenze del viceministro Urso.
NICOLA CRISCI. Ringrazio il ministro per l'ottima relazione e per le informazioni che ci ha fornito.
È del tutto evidente che nel commercio internazionale la presenza di economie dinamiche anche diverse dalle nostre, come quelle orientali e, in particolare, come quella cinese, pone problemi nuovi rispetto sia alla nostra organizzazione produttiva sia alla stessa cultura produttiva del nostro paese e degli Stati europei. Si tratta di problemi, tra l'altro, legati ad una indubbiamente minore tutela e ad un sistema di diritti meno forti e meno ampi di quelli esistenti nei paesi occidentali. Lo affermo perché mi sembra improbabile che si possa competere con paesi nei quali il livello salariale è molto più basso del nostro, nei quali le tutele per i lavoratori sono bassissime o a volte inesistenti e le norme ambientali sono lontane da quelle che il mondo della produzione è tenuto a rispettare nel nostro paese, in Europa e nei paesi occidentali, in genere.
A me pare sia necessario guardare più avanti rispetto alle variabili che solitamente accompagnano l'agire degli imprenditori e le propensioni dei consumatori. Sappiamo che abitualmente le variabili economiche che determinano le scelte dei consumatori sono la qualità del prodotto e il costo; credo allora che l'introduzione di una valutazione su una sorta di qualità sociale introdurrebbe elementi nuovi, sempre più presenti e sempre più caratterizzanti le scelte dei consumatori (anche in un segmento di mercato del tutto nuovo
con caratteristiche particolari nelle economie più ricche) e creerebbe nuovi fattori di competizione tra le imprese.
Ritengo sia importante prestare attenzione oltre che alla necessità di tutelare la qualità e di prediligere l'innovazione e la ricerca per migliorare la natura e la diversità prodotto, anche alla valorizzazione della responsabilità sociale dell'impresa, che di fatto introduce un nuovo fattore di competizione.
Sono convinto che se nel ricco Occidente vi fosse un prodotto recante un marchio di qualità sociale che attesta che durante tutto il suo ciclo produttivo sono stati rispettati i fondamentali diritti dell'uomo e le norme ambientali e che non si è fatto ricorso al lavoro infantile, questo avrebbe una maggiore capacità di competizione rispetto ad altri prodotti sia pur meno costosi. Vi è sicuramente una nuova sensibilità del consumatore rispetto a tali beni.
Evidenzio ora un elemento minore che credo sia comunque oggetto di dibattito e rappresenti un nuovo fattore economico nella scelta dei prodotti. È pensabile che l'Unione europea si doti di un marchio etico, utilizzato soltanto dalle imprese il cui ciclo produttivo risponda a determinati criteri o principi quali il rispetto dei fondamentali diritti dell'uomo, le norme ambientali e il non ricorso al lavoro infantile? Sarebbe, a mio avviso, un elemento di garanzia: grazie a quel marchio il consumatore saprebbe di scegliere un prodotto con determinate qualità. Credo, pertanto, che oltre ad un marchio di qualità tout court, l'introduzione di un marchio di qualità sociale o comunque un marchio etico ci consentirebbe di tutelare meglio i nostri prodotti, di svolgere un'opera di rilevante sensibilizzazione nel campo sociale e di migliorare la qualità probabilmente non solo dei prodotti ma soprattutto della vita di chi li produce, anche in quei paesi nei quali queste norme non vengono rispettate.
PRESIDENTE. Desidero anch'io porre al nostro ospite una domanda, uno spunto di riflessione forse un po' provocatorio. Naturalmente il viceministro Urso sa benissimo - non svelo un segreto - che la mia parte politica, proprio per la situazione in cui versano le nostre aziende (soprattutto nel comparto produttivo manifatturiero), sostiene la necessità di intraprendere una linea protezionistica con dazi ad hoc per determinati settori, naturalmente a fronte di situazioni quali quelle già ricordate come la concorrenza sleale legata all'utilizzo di lavoro minorile, a salari molto bassi, al mancato rispetto dei diritti dei lavoratori e della tutela ambiente; elementi già evidenziati e che il ministro Urso sicuramente conosce bene.
È stato citato poc'anzi il settore produttivo tessile ed i suoi circa 800 mila addetti. Nella mia zona, l'area del bergamasco, sono decine di migliaia le persone impegnate in questo comparto e vi sono aziende che versano in condizioni di crisi e chiedono interventi specifici da parte del Governo italiano e dell'Unione europea.
Accanto ad una crisi del sistema produttivo vi è anche una crisi nel sistema di approvvigionamento. Si pensi al caso del cotone il cui prezzo all'ingrosso è cresciuto di circa il 60 per cento a causa dei grossi acquisti fatti dalle grandi industrie cinesi. Questo ha sostanzialmente bloccato il mercato e la poca materia prima rimasta ha avuto un incremento notevole di prezzo, tutto a scapito di chi, operando sul prodotto finito, vuole restare competitivo sul mercato mondiale.
In tema di dazi e di applicazione di regolamenti già in vigore all'interno dell'Unione europea la mia parte politica ha avanzato alcune proposte. Voglio comunque sottoporle una provocazione. Se non si può applicare una politica protezionistica basata su dazi ad hoc, si potrebbe pensare allora ad una soluzione completamente opposta e cioè all'abrogazione completa dei dazi demandando tutto al libero mercato (è la soluzione avanzata da rappresentanti dei paesi sudamericani al vertice Cancun dove abbiamo apprezzato il lavoro del vice ministro Urso)? Potrebbe essere questa l'alternativa o comunque serve una via mediata?
Do ora la parola al viceministro per la replica.
ADOLFO URSO, Viceministro delle attività produttive. Mi scuso per la brevità delle mie risposte ma una riunione del CIPE mi costringe a ridurre la durata del mio intervento. Le osservazioni svolte dai colleghi sono molto interessanti e riguardano alcuni nodi focali, tematiche commerciali e sociali di notevole impatto.
Gli standard sociali lavorativi, ad oggi, non sono ricompresi tra gli obiettivi e le regole del WTO. Su questo argomento è fallito il vertice di Seattle (vi insistevano l'Unione europea e, in quella sede, anche gli Stati Uniti); sempre su questo argomento rischiava di fallire il vertice di Doha, che è giunto a conclusione quando l'Unione europea ha sostanzialmente rinunciato ad insistere su questa tematica, alla quale si oppongono in maniera molto forte e decisa soprattutto alcuni fra i paesi in via di sviluppo. Nell'agenda di Doha non vi sono significativi riferimenti agli standard sociali lavorativi, bensì un generico cenno all'Organizzazione internazionale del lavoro e all'impegno che essa debba avere in questo campo. Vi è qualcosa di più in merito alla connessione tra commercio e ambiente, laddove invece era prevista l'istituzione di un gruppo di lavoro apposito sulle relazioni tra commercio e ambiente, ancorché in maniera insufficiente rispetto alle aspettative e ai contenuti della piattaforma europea.
Anche su questa tematica vi è stata una fortissima opposizione, e uno dei motivi del fallimento reale del vertice di Cancun è che su queste tematiche i paesi in via di sviluppo non vogliono convergere. Infatti l'Unione europea, nell'ultimo documento approvato nel tentativo di far ripartire i lavori di Cancun, ha dovuto porre questa tematica tra quelle flessibili a cui è disponibile a rinunciare in parte. Questo per la fortissima opposizione dei paesi in via di sviluppo, che ormai sono i terzi dell'Organizzazione mondiale del commercio.
Durante il semestre di presidenza italiana, gli Stati membri dell'Unione europea hanno però approvato un documento - grazie anche al contributo del nostro paese - che è stato poi recepito anche dalla Commissione europea. Tale documento considera gli standard sociali lavorativi e la questione ambientale come elementi prioritari di qualunque piattaforma europea. L'Europa cioè non intende rinunciare ad inserire queste tematiche - che hanno una forte connessione con il commercio - tra i suoi obiettivi, ancorché cosciente che vi è una forte opposizione da parte dei paesi in via di sviluppo. Tali paesi, infatti, ritengono che queste tematiche non rappresentino altro che una forma surrettizia di protezionismo detto «protezionismo verde» o «protezionismo sociale».
Per quanto riguarda il sistema di preferenze generalizzate, almeno per il momento, si può fare qualcosa di più. L'Unione europea ha, infatti, intenzione di portare queste tematiche all'attenzione del WTO poiché quest'ultimo è l'unico strumento multilaterale davvero efficace nel punire coloro che non rispettano le regole. Non altrimenti riescono a fare l'OIL o le Nazioni Unite attraverso le sue agenzie ambientali. Il WTO, infatti, è l'unico organismo internazionale che ha capacità di punire chiunque, anche lo Stato più forte, come ad esempio gli Stati Uniti d'America. È per questo motivo quindi che l'Unione europea tende ad allargare le competenze del WTO; questo organismo, a differenza degli altri, può contare infatti su un meccanismo decisionale e punitivo efficace.
Di queste tematiche dovrebbe occuparsi l'Organizzazione internazionale del lavoro applicando le penali a quei paesi che vi hanno aderito ma non rispettano le regole come, ad esempio, la Cina.
Per quanto riguarda il marchio sociale bisogna fare una differenziazione tra quest'ultimo ed il marchio di qualità. Il Governo ritiene che una soluzione a breve termine e soddisfacente potrebbe essere rappresentata dalla marchiatura d'origine. In realtà, infatti, che cos'è un marchio sociale per noi europei? Il marchio sociale corrisponde alla produzione realizzata all'interno dei vincoli che l'Unione europea si è data. Tale produzione, sicuramente, è
realizzata da imprese che rispettano norme ambientali, sociali e standard qualitativi. Quindi, potrebbe risultare più efficace introdurre un obbligo di stampigliatura del marchio del paese di origine - che di fatto è un marchio sociale - su ogni prodotto finale. Il consumatore sensibile a queste tematiche è il consumatore europeo che si trova più in alto degli altri sulla scala dei diritti sociali e delle tematiche ambientali. Se il consumatore europeo fosse in grado di stabilire se un prodotto viene realizzato all'interno dell'Unione europea oppure in un altro Stato che, ad esempio, non rispetta le regole sul lavoro minorile, di fatto in questo caso si potrebbe parlare di marchio sociale.
Il marchio made in Italy automaticamente diverrebbe un marchio sociale per il consumatore europeo. Quindi, a noi sembra che la strada da seguire è quella rappresentata dall'obbligatoria stampigliatura su ogni prodotto finale del marchio del paese di origine. Tale strada è la più semplice, la meno costosa e quella più facilmente identificabile per il consumatore europeo, anche per quanto riguarda il marchio sociale. Ciò non toglie che, ovviamente, il Governo è favorevole a che le imprese, i distretti o le associazioni di categoria, nella loro responsabilità sociale, realizzino marchi sociali. In ogni caso, il Governo crede che la strada da intraprendere - perché efficace, tempestiva e immediata - sia quella della marchiatura d'origine che, di fatto, contraddistingue un marchio sociale e che, tra l'altro, non può essere confutata in sede di WTO. Nessuno infatti ci può opporre che attraverso la marchiatura d'origine abbiamo violato le regole del WTO perché, tra l'altro, essa è prevista negli Stati Uniti come in Cina.
Per quanto riguarda il marchio di qualità, esso già esiste in Italia e in Europa. Abbiamo già un marchio di serie A e non penso sia il caso di crearne un altro anche perché non sappiamo a quali criteri dovrebbe attenersi. Il marchio made in Italy è di per sè un marchio di qualità; se invece intraprendessimo la strada - come qualcuno ha suggerito - di crearne uno diverso con il simbolo di Leonardo da Vinci o con qualsiasi altro simbolo non faremmo altro che svalutarlo. Comunque, se intendessimo realizzare un marchio di qualità sarebbero necessarie immense risorse finanziarie. Peraltro, la legge finanziaria ci permette di poter seguire l'una e l'altra strada. Il Governo, infatti, si accinge ad istituire il marchio made in Italy che già è un marchio di qualità e poi, successivamente - con una task force che si intende creare attraverso la collaborazione delle associazioni di categoria - giungere anche, eventualmente, all'istituzione di un marchio di qualità. In ogni caso, per fare questo è necessario anche un approfondimento da portare avanti assieme alle associazioni di categoria; ciò, per evitare che attraverso un marchio di qualità si finiscano per favorire alcune produzioni a scapito di altre.
Comunque, per quanto riguarda il marchio made in Italy non saranno previsti i cosiddetti perfezionamenti passivi, nel senso che se qualcuno importa del materiale in Italia e poi si limita ad aggiungervi dei semplici bottoni il made in Italy non sarà configurabile; anzi, coloro che lo faranno arbitrariamente potranno essere perseguiti penalmente come contraffattori.
Per quanto riguarda il settore tessile, l'Italia, a livello europeo, ha contribuito all'adozione di un documento che ha preso in considerazione non solo l'ipotesi della marchiatura di origine ma anche quella della tracciabilità. Pertanto, stiamo lavorando sul settore tessile perché crediamo che sia quello più esposto e quello in cui, peraltro, vi sono delle conseguenze anche per il consumatore, per esempio, per la sua salute. Infatti, la tracciabilità può aiutare il consumatore ad identificare meglio il prodotto e a tutelarsi rispetto a prodotti contraffatti che recano delle indicazioni erronee. Inoltre, essa può tutelare meglio il lavoro italiano.
Infine, per quanto riguarda il protezionismo, devo dire che non sono un protezionista, anche perché ritengo che il protezionismo sia controproducente per il nostro paese. Non apro una discussione su questa tematica, ma un paese come il nostro, che è trasformatore di materie
prime, ha tutto l'interesse ad un mondo senza barriere e senza dazi doganali, perché altrimenti pagheremmo un prezzo più alto per le materie prime che importiamo e un costo maggiore per la penetrazione commerciale in altri mercati, poiché dovremmo pagare i dazi per l'esportazione.
Comunque, essendo l'Italia un paese trasformatore ed esportatore, per logica comune sarebbe semmai quello più interessato all'apertura degli altri mercati. Infatti, la nostra proposta e quella europea mira all'accesso ai mercati con condizioni di reciprocità. Oggi l'Unione europea ha tariffe di ingresso estremamente basse sui prodotti industriali, le più basse del mondo, mentre gli altri paesi hanno tutelato la produzione industriale con protezioni molto alte.
Nella piattaforma negoziale di Doha è prescritto l'abbattimento dei picchi tariffari altrui al di sotto del 15 per cento, secondo l'Unione europea. Noi non abbiamo tariffe al di sopra del 15 per cento sui prodotti industriali; però devo dire sommessamente che vogliamo l'abbattimento delle tariffe industriali altrui e non abbiamo tariffe industriali elevate perché dalla sua nascita l'Unione europea ha privilegiato la protezione del settore agricolo. Per questo, a differenza di altri paesi, abbiamo protezioni molto elevate nel settore agricolo e, di conseguenza, molto basse nel settore industriale. Per esempio, se volessimo aumentare i dazi, lo potremmo fare con l'accordo bilaterale con l'Unione europea sulla protezione di un settore industriale, ma dovremmo compensarli riducendoli in altri settori. Se volessimo aumentare i dazi sul settore delle calzature, dovremmo dire dove li compensiamo nell'interesse dell'altro paese, e ci potrebbero chiedere di ridurre i dazi o di aumentare le quote in alcuni settori agricoli.
Quindi, bisogna essere consapevoli che abbiamo questa scarsa protezione del campo industriale perché abbiamo preteso un'alta protezione del settore agricolo per motivi sociali, che io condivido, perché è un settore che ha degli impatti ambientali e sociali estremamente importanti, come è facile comprendere: basta guardare al fatto che in Italia vi sono 8 mila comuni, la maggior parte dei quali piccoli, collinari o di montagna. Però, sono d'accordo sul fatto che possiamo e dobbiamo lavorare sulle reciproche garanzie e sulla reciproca apertura e pretendere che gli altri mercati industriali si aprano affinché le nostre imprese possano competere anche con quelle degli altri paesi. Si può lavorare indubbiamente anche sull'aumento degli standard sociali lavorativi degli altri paesi, per esempio attraverso il sistema di preferenza generalizzata, che è un sistema non punitivo ma premiale per coloro che si comportano bene. Su questa strada si può fare molto di più di quanto fino ad oggi è stato fatto dall'Unione europea.
Ritengo che vi saranno altre occasioni di confronto e vi ringrazio per questa occasione che mi è stata data.
PRESIDENTE. Ringrazio il ministro Urso per la sua replica. Ritengo che quanto egli ha detto poc'anzi e quanto ha riferito nell'intervento introduttivo tornerà sicuramente utile per la stesura della relazione conclusiva della nostra indagine conoscitiva. Dichiaro conclusa l'audizione.
La seduta termina alle 17,15.