COMMISSIONE VII
CULTURA, SCIENZA E ISTRUZIONE

Resoconto stenografico

INDAGINE CONOSCITIVA


Seduta di marted́ 27 aprile 2004


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PRESIDENZA DEL PRESIDENTE
FERDINANDO ADORNATO

La seduta comincia alle 10,05.

(La Commissione approva il processo verbale della seduta precedente).

Sulla pubblicità dei lavori.

PRESIDENTE. Avverto che, se non vi sono obiezioni, la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso impianti audiovisivi a circuito chiuso.
(Così rimane stabilito).

Audizione di Victor Uckmar, ex presidente della Covisoc, Salvatore Pescatore, ex presidente della Covisoc, e Giovanni Palazzi, presidente della società Stageup.

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sul calcio professionistico, l'audizione di Victor Uckmar, ex presidente della Covisoc, Salvatore Pescatore, ex presidente della Covisoc, e Giovanni Palazzi, presidente della società Stageup.
La Commissione, con questa indagine conoscitiva, intende comprendere le radici del malessere, ormai evidente agli occhi di tutti, del settore calcistico, nonché acquisire indicazioni per eventuali interventi del legislatore su questa materia.
Do la parola ai nostri ospiti.

VICTOR UCKMAR, ex presidente della Covisoc. Vorrei innanzitutto far presente che i limiti della mia esposizione sono dovuti al fatto che è in corso un'inchiesta giudiziaria relativa al periodo nel quale sono stato presidente della Covisoc e che, quindi, dall'ottobre del 2001, quanto è a mia conoscenza proviene solamente dalla stampa.

PRESIDENTE. Professor Uckmar, la Commissione ha interesse a conoscere, data la sua esperienza, solo la sua opinione ed eventuali suggerimenti in merito alla situazione di malessere del settore calcistico.

VICTOR UCKMAR, ex presidente della Covisoc. Ringraziando anzitutto la Commissione per questa occasione, tengo a precisare che parlo non come politico o come frequentatore di stadi e di società di calcio, ma come modesto giurista, quale sono.
Mi sono fatto un quadro della situazione ed ho riscontrato nella realtà tre livelli di responsabilità: a livello delle società di calcio - mi riferisco agli amministratori -, a livello del governo del calcio e, infine, a livello dei governi nazionali.
Per quanto riguarda le società, gli amministratori, trattandosi di società di capitali, dovevano osservare regole dettate principalmente dal codice, cioè, in primo luogo, le regole della diligenza e della prudenza. Essi, invece, non sono stati prudenti negli investimenti effettuati e non tutti, ma una buona parte di essi hanno fatto il passo più lungo della gamba. Ciò è avvenuto forse anche perché, come in altri settori, si era entrati in un clima di new economy e si era pervasi da una speranza, più che da una previsione, di ottenere per il futuro notevoli flussi finanziari conseguenti, in modo particolare, agli introiti televisivi. Le aspettative, però, non


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si sono realizzate, giacché i ricavi provenienti dallo spettacolo hanno coperto solo il 30 per cento circa dei costi ed era indispensabile coprire la parte restante in altro modo.
Avevo già manifestato questa preoccupazione quando, circa un anno prima della quotazione della società Lazio, sono stato interpellato dalla Consob sulla quotazione in borsa delle squadre di calcio. Ironicamente dissi che sarei stato felice che tutte le squadre fossero quotate in borsa; la quotazione, infatti, presuppone la certificazione del bilancio. Passando poi dall'ironia alla realtà, suggerii di porre su un prospetto a lettere cubitali titoli non raccomandabili alle vedove e agli orfani, anche perché le nostre società di calcio svolgono soltanto attività di spettacolo sportivo, a differenza di quelle inglesi o americane, come ad esempio il Chelsea, che ha anche attività commerciali che permettono di riequilibrare i conti.
Gli amministratori invece, sospinti non tanto dal profitto - dall'attività del calcio, direttamente, non se ne recava - quanto dall'ambizione che la squadra e la città primeggiassero, miravano soprattutto a creare rapporti ad alto livello; ad esempio, il presidente di una squadra poteva avere contatti con persone autorevoli. Si verificavano violazioni delle norme del codice civile con casi di falso in bilancio (fattispecie che non destava più preoccupazione).
Vengo al secondo livello di responsabilità: il governo del calcio. A tale riguardo, ritengo che la colpa maggiore sia stata dovuta al lassismo, denunciato già da tempo; non appena si adottò la struttura giuridica della società di capitali, alcuni sostennero che si sarebbe dovuto ormai fare riferimento alle regole del codice civile, così evitando che la materia fosse ancora astretta ai vincoli costringenti della vecchia intelaiatura normativa. Dunque, si cominciò ad abolire l'obbligo della certificazione del bilancio e si passò, poi, a cancellare un'altra disposizione a mio avviso importante, come risulta dagli effetti prodottisi.

GIOVANNI LOLLI. Scusi, professore, a quali anni ci riferiamo?

VICTOR UCKMAR, ex presidente della Covisoc. Al periodo precedente il 1996. Testé mi riferivo al venir meno della norma che prevedeva la necessità dell'autorizzazione della Covisoc per l'indebitamento con le banche. A quel tempo, i poteri della Covisoc erano abbastanza stringenti; si trattava di una struttura lasciata dal professor Cataldo, con partecipazione di autorevoli giuristi (ricordo in particolare, all'epoca, Carbonetti). Ebbene, ho piacere di dichiarare che la Covisoc, tranne quel periodo in cui sono stato presidente, ha sempre deciso all'unanimità. La Covisoc aveva, appunto, poteri abbastanza stringenti: doveva autorizzare le operazioni straordinarie; aveva un potere di indagine abbastanza stringente; imponeva l'osservanza delle regole adottate dalla Federazione calcio (il famoso parametro uno a tre).
Al riguardo, però, cominciò un certo lassismo: si iniziò a derogare a norme stringenti e, poiché ciò non bastava, approfittando della necessità di porre mano alla normativa a seguito della famosa sentenza Bosman, con la legge n. 586 del 18 novembre 1996, all'articolo 12, si previde che «al solo scopo di garantire il regolare svolgimento dei campionati sportivi, le società di cui all'articolo 10 sono sottoposte, al fine di verificarne l'equilibrio finanziario, ai controlli e ai conseguenti provvedimenti stabiliti dalle federazioni sportive». Quindi, anziché essere, come in precedenza, un vero e proprio controllo di gestione, il controllo fu limitato all'equilibrio finanziario; espressione, quest'ultima, assai vaga, che non consentiva neppure di svolgere un'indagine approfondita del bilancio.
Ricordo una discussione sull'indicazione al plurale recata dalla legge, che parla di svolgimento dei campionati sportivi; noi assumevamo che, con il plurale, la disposizione, proiettandosi in avanti, fosse riferita non solo alla situazione del momento. Tale nostra tesi fu disattesa; cominciò una vera e propria bagarre, attese


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le regole vigenti (contenute in regolamenti) per l'ammissione alla fascia A ovvero a quella B - se sono rispettati certi parametri, si può accedere alla fascia A, che consente alle società maggiore libertà di acquisto; nella fascia B si applicano, invece, delle limitazioni - e, soprattutto, per l'ammissione al campionato successivo. La bagarre sorgeva particolarmente nei mesi di marzo, aprile e maggio, quando si intravedeva lo stato della società. Frequentemente, talune modificazioni della normativa intervenivano in corso di campionato; chi era più forte riusciva a fare prevalere le proprie tesi. Ricordo che intervenne addirittura una disposizione - si tratta di un aspetto che solitamente non viene osservato - secondo la quale, qualora il capitale non fosse adeguato al cosiddetto equilibrio finanziario, sarebbe stata sufficiente una delibera della società di aumento del capitale: soltanto la delibera; non, anche, il versamento. Il capitale doveva essere versato entro il 31 dicembre; vi furono casi in cui, atteso che la parte incrementale non era stata versata e la Covisoc aveva espresso l'opinione che la società non dovesse essere ammessa al campionato successivo, la regola fu modificata ed il termine del 31 dicembre fu spostato al 31 marzo.
Si ebbe quindi un notevole lassismo, tanto che, ad un certo punto, si sostenne la necessità di un intervento; al riguardo, furono stabiliti tre punti, peraltro anche verbalizzati. Le regole si sarebbero dovute porre all'inizio del campionato. Non doveva essere consentita la cosiddetta fattorizzazione che, invece, era stata ammessa sino ad allora; infatti, poiché potevano allora contare su contratti pluriennali, specialmente con le televisioni, con una previsione di gettito triennale, le società si recavano in banca e scontavano l'ammontare, spendendo poi tutte le risorse nel corso del solo primo anno. Si introduceva, dunque, la proibizione di tale prassi. Si prevedeva, inoltre, l'opportunità che le regole sui contratti di ingaggio dei calciatori stranieri fossero le stesse stabilite per i giocatori italiani; gli acquisti di giocatori stranieri, infatti, sfuggivano ad ogni controllo.

PRESIDENTE. Mi scusi, presidente Uckmar, ma queste erano tutte norme della Federazione?

VICTOR UCKMAR, ex presidente della Covisoc. Certo. La ragione era soprattutto quella di far sì che il campionato avesse inizio e che non si interrompesse. Noi avevamo suggerito che si indicassero i tempi; quelli finali del mese di luglio erano inadeguati. Quando una squadra non era ammessa al campionato secondo tali dati, aveva la possibilità di rimediare ma poteva farlo con proposte o documenti che dovevano essere suggeriti e depositati il 26 o il 27 luglio. Poteva capitare, poi, che vi fosse una domenica di mezzo; ciononostante, entro il 30 dello stesso mese bisognava stabilire il calendario. Ebbene, era estremamente difficile, in tali casi, effettuare dei controlli; si è stati fortunati in alcune occasioni, tuttavia mi rendo conto che forse saranno sfuggite talune irregolarità.
Il terzo livello di responsabilità è rappresentato dai Governi; il Governo precedente, con questa disposizione, ha, per così dire, detronizzato la Covisoc, lasciando una situazione a briglie sciolte. È vero, infatti, che eventualmente vi è l'intervento della magistratura, ma i tempi della stessa sono assai lunghi mentre, in questo caso, i provvedimenti devono essere immediati, in corso di campionato. Quindi, avere «detronizzato» la Covisoc ha determinato, a mio avviso, una situazione senza controllo; per giunta, per quanto riguarda i bilanci, con la modifica delle norme che ha determinato la riduzione delle ipotesi di reato per falso in bilancio non vi era neppure più, per così dire, lo spauracchio del codice penale.
Credo si debba anche criticare - di ciò mi sono reso conto quando ormai non esercitavo più le funzioni di presidente della Commissione - il primo dei cosiddetti provvedimenti salva-calcio; è inutile, al riguardo, che vi ricordi che esso introduceva


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la possibilità di spalmare su più anni, anziché sul solo anno in cui si erano verificate, le perdite connesse alla svalutazione del parco giocatori. Si è trattato quindi di pannicelli caldi che non potevano salvare il calcio, come neppure avrebbe potuto salvare il calcio il provvedimento il cui iter si è interrotto per volontà del Governo.
Mi rendo conto che la rilevanza del calcio sul piano emotivo è grande. Come giurista posso dire che siamo in un libero mercato e che anche le società di calcio, che sono società di capitali, devono seguire le regole del mercato. Quando non ci sono i mezzi e non si riesce con nuovi apporti di capitale a concludere dei concordati con i creditori, la via è quella del fallimento. Si dice che a ciò seguirebbe la rivoluzione del paese. Ma Firenze, città assai emotiva e pronta ad andare in piazza, mi sembra che abbia superato la Germania. Ha lasciato andare il titolo, che così può essere venduto ad altre società.
Negli Stati Uniti, di fronte ad un dissesto nel basket, è stato sospeso il campionato per un anno. Credo che quello italiano non sia un popolo dal quale attendersi delle insurrezioni perché alcune squadre falliscono. È un modo di ringiovanire e di reintrodurre lo sport più che lo spettacolo. Oggi prevale lo spettacolo e si sono impoverite le squadre che non hanno raggiunto certi risultati, quelle che non hanno i mezzi adeguati, anche come struttura, perché certe società appartengono a holding e quindi la perdita subita nell'attività sportiva o di spettacolo sportivo viene assorbita dal gruppo. Ciò non può accadere quando la proprietà appartiene ad una persona fisica o ad una società che non fa parte di una costellazione.

SALVATORE PESCATORE, ex presidente della Covisoc. Condivido molto di ciò che ha affermato il professor Uckmar. Mi permetto soltanto una iniziale puntualizzazione, senza nulla togliere alla stessa felice espressione del professor Uckmar: la Covisoc è stata detronizzata. Ciò è vero, ma francamente individuo in questa detronizzazione più un effetto che non una causa.
Nel periodo che il professor Uckmar ha richiamato - siamo agli inizi degli anni novanta, anche se egli ha fatto riferimento più puntualmente alla metà degli anni novanta - si sono verificati in sequenza tre grandi avvenimenti.

PRESIDENTE. In quali anni lei è stato presidente?

SALVATORE PESCATORE, ex presidente della Covisoc. Dal novembre 2001 al novembre 2003. I tre grandi avvenimenti sono i seguenti: la sentenza Bosman, che ha veramente modificato in modo radicale la circolazione dei giocatori nel mercato europeo; l'attribuzione di finalità speculative alle società calcistiche e quindi l'identificazione con le altre società commerciali disciplinate dalle leggi comuni e, innanzitutto, dal codice civile; l'esplosione del calcio come prodotto televisivo. In quel caso ci sono state sicuramente delle valutazioni errate in prospettiva, perché si confidava da parte delle società che il calcio, come prodotto televisivo, desse dei risultati di gran lunga superiori a quelli che poi effettivamente ha prodotto. Come attenuante assolutamente parziale ha concorso la pirateria, ma questa non è una giustificazione della infelice previsione.
Con l'inizio degli anni novanta - e questa situazione si è protratta fino alla seconda metà degli anni novanta - nel mondo del calcio non solo nazionale si sono creati filoni di euforia e si è pensato che non ci fosse più limite a niente. È stato il periodo in cui gli ingaggi hanno raggiunto livelli assolutamente inconcepibili, che oggi si dimostrano clamorosamente sbagliati, e che allora sembravano quasi in linea con le esigenze del mercato, perché l'uomo quale prodotto innanzitutto calcistico e per di più televisivo, se faceva audience - come si dice con un formula molto abusata -, giustificava quel tipo di ingaggio.
In quel momento il sistema - poi mi permetterò di specificare in quale delle sue componenti - ha ritenuto che quei


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controlli, assolutamente efficaci e stringenti - come li ha richiamati giustamente il professor Uckmar, sottolineandone l'idoneità -, non servissero più. Era tra l'altro il momento in cui a livello mondiale «globalizzato» - ancora una volta con una formula infelice - si era in una prospettiva di deregulation: le regole erano nemiche dell'operatività e quindi, abolendo le regole, si consentiva al sistema di essere più vitale e di poter svolgere ed esplicare le attività senza nessun condizionamento. Di qui la conseguenza della detronizzazione della Cosivoc.
Avevo posto al presidente Carraro la condizione di poter scegliere i componenti della Commissione e di non essere condizionato nelle scelte. Devo dare atto al presidente Carraro di avermi consentito di scegliere i componenti della Commissione e in due anni ho ricevuto una sola richiesta, in occasione dell'ultimo Consiglio federale al quale ho partecipato (normalmente la segnalazione viene fatta non dico per vie clandestine, ma senza notorietà e risonanza), di rivedere la posizione dell'Aquila. Era il 31 luglio 2003. Con me c'era il collega Fornabaio e ho detto al presidente federale e a tutti i presenti che avremmo riesaminato in due la posizione dell'Aquila, ma non eravamo in versione collegiale. Ho anticipato che tante, scrupolose e rigorose erano state le nostre verifiche, per cui era pressoché impossibile che cambiassimo opinione. Con l'aiuto della segreteria tecnica ci siamo di nuovo appartati e abbiamo riesaminato la questione. La conclusione è stata quella di confermare la decisione sull'Aquila, che non meritava l'iscrizione.
Non mi permetto di dire che i fatti ci abbiano dato ragione, perché L'Aquila sta continuando regolarmente il suo campionato, senza grandissimi risultati sportivi e con notevolissime difficoltà. Nell'ambito del Consiglio federale abbiamo detto che L'Aquila non andava iscritta. È stata l'unica richiesta, perché in due anni non ne ho ricevuta nessun'altra.
Appena ci siamo insediati ci siamo resi conto che quel sistema di regole era assolutamente inidoneo perché - come ha ricordato il professor Uckmar - il parametro decisivo relativo al rapporto ricavi/indebitamenti, il mitico r/i, rendeva soltanto conto del profilo finanziario della gestione, come tale assolutamente inidoneo.
Abbiamo varato, lavorando per la verità con doveroso e sentito impegno per un mese, una proposta che conteneva le nuove regole alla metà del dicembre 2001 e l'abbiamo presentata all'allora commissario Petrucci. Giustamente il commissario Petrucci ci ha detto che ci sarebbero state le elezioni federali dopo quindici giorni e il dottor Carraro è stato eletto presidente della Federazione il 28 dicembre 2001.
Il 3 gennaio abbiamo presentato al presidente Carraro le nostre regole. Ancora una volta do atto al presidente Carraro del suo impegno. Non che io faccia l'elegia di Carraro, perché adesso è troppo facile nominarlo. Carraro è stato un presidente che, con riguardo alla Covisoc, ha recepito tutto ciò che avevamo chiesto. Sennonché non era facile far accettare alle società tali regole. Infatti, il vero problema del calcio italiano è la potenza delle società a fronte della fragilità della Federazione. Questa è la vera storia del calcio italiano. Carraro è stato un magnifico presidente della Lega, ha rafforzato in modo lucidissimo il potere di quella che con formula abusata e felice si chiama la «confindustria» del calcio e l'istituzione che garantisce il sistema, nel momento in cui la Lega aumentava il proprio potere, simmetricamente lo perdeva. Carraro, con molta onestà intellettuale, divenuto presidente della Federazione, ha iniziato a riequilibrare questo elemento. Non è stata un'operazione semplice. Le nostre regole erano pronte nel mese di gennaio 2002 e il Consiglio federale le ha approvate nel marzo 2003!
Abbiamo modificato in misura radicale tutto - sottolineo tutto - il sistema delle regole, inserendo parametri nuovi, oggi applicati da altri, e me ne compiaccio, anche se in misura superiore a quella da noi proposta. Abbiamo individuato un parametro che renda conto non soltanto del profilo finanziario ma anche di quello


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economico patrimoniale. Rivendico alla nostra Commissione la formula del rapporto tra patrimonio netto ed attivo patrimoniale. Inoltre, abbiamo chiesto ed ottenuto (ma è stato necessario il dialogo con le società e la Lega) che le sanzioni fossero adeguate.
Quando il mio amico professor Uckmar ha lasciato la Covisoc e noi ci siamo insediati, le società rimanevano assolutamente indifferenti alla sanzione, limitata alla sospensione del contributo federale, una sanzione più che irrisoria. Abbiamo registrato un indice di reazione alle comunicazioni che chiedevamo alla Federazione di inviare alle società oscillante tra il 10 ed il 18 per cento. Quando abbiamo lasciato per spontanee dimissioni (e non soltanto, essendo io stato indagato dalla procura della Repubblica di Roma e partendo da un'ottocentesca e forse superata mentalità secondo la quale quando esiste un incidente di percorso nella propria attività è doveroso andarsene, nonostante le richieste affettuose ed amichevoli da parte degli organi federali di rimanere in carica) l'indice percentuale di risposta è passato dal 10-15 per cento, in taluni casi 20, al 65-70 per cento.
Ci siamo battuti ed abbiamo ottenuto, anche se oggi è stata cancellata, la sanzione della penalizzazione in classifica. La cultura italiana (perdonatemi l'abusata formula «la cultura») porta a dire che il risultato del campo, qualsiasi cosa avvenga, non debba essere cambiato, perché parte di un patrimonio di agonismo che la comunità non è disponibile a veder modificato. Nonostante ciò, abbiamo inserito tra le sanzioni che le società non coerenti con le nuove regole «pagassero» un punto in classifica e subissero anche la non iscrizione al campionato. Abbiamo costruito tutto ciò inserendo un nuovo parametro a fianco di quello che meritava rispetto e permanenza ma che era insufficiente (parlo del finanziario e mi riferisco quindi a quello economico-patrimoniale) con un monitoraggio permanente fatto anche di previsioni.
Il sistema tradizionale, vissuto dal professor Uckmar, che egli giustamente rendeva oggetto di censura, era un sistema che, con formula «ortopedica», ho affermato essere viziato da torcicollo, cioè guardava sempre indietro. Si era iscritti al campionato assumendo a riferimento i dati di un anno prima. Oggi, in una settimana, si modificano le situazioni. Abbiamo, quindi, proposto regole che tenessero le società permanentemente sotto controllo, con attività di monitoraggio, per evitare che rientrassero nel parametro soltanto nella fase finale. La tecnica, infatti, era proprio di allinearsi nella fase finale, come quando sulle autostrade si rallenta perché si vede il lampeggiatore della polizia.
Vi erano due grandi limiti del sistema delle regole, o meglio del sistema come espressione di un ordinamento. Il professor Uckmar ne ha fatto cenno con la signorilità che lo caratterizza e penso che vada ulteriormente sottolineato: i comunicati ufficiali, in sigla CU. I comunicati ufficiali sono un complesso di disposizioni varate dalla Federazione e riguardanti indistintamente tutta l'area di operatività e che, per quanto concerne la Covisoc e quindi la verifica in ordine all'idoneità delle squadre per l'iscrizione al campionato, in funzione dell'andamento della stagione portano a modificare il parametro 3 a 1, ricavi-indebitamento. In sostanza avviene che con avvisatori, assolutamente palesi e puntuali, ci si rende conto che il parametro 3 a 1 non regge in quanto determinerebbe la mancata iscrizione al campionato di molte squadre e lo si modifica riportandolo a livelli di rapporto più accettabili. In questo modo, le squadre sono iscritte.
Nonostante questo vistosissimo limite, sono estremamente rare le situazioni in cui le società iscritte non abbiano concluso il campionato. Abbiamo chiesto alla Federazione, innanzitutto al presidente Carraro che ci ha dato udienza, che i comunicati ufficiali rimanessero, non competendo a noi sindacarli sulle altre aree di decisione, ma che fosse esclusa la mobilità del parametro. Poco prima del recepimento delle nostre proposte (ripeto, marzo


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2003) si è stabilito che i comunicati ufficiali non avrebbero più reso mobile il rapporto ricavi-indebitamento.
Un altro neo, cui ha fatto cenno il professor Uckmar, è relativo alla «mitica» stanza di compensazione, una micidiale distorsione del sistema. Anche in questo caso vi era una ragione: fino a quando erano in condizioni di tenere, le società facevano bene a servirsi della stanza di compensazione. Quando, per utilizzare una formula abusata, si è passati da un periodo di vacche grasse ad uno di vacche magre, la stanza di compensazione è diventata uno strumento più alterato. Lo scambio giocatori compravendite, ed in particolare il pagamento dei debiti, era gestito sotto la regia seria della Lega, ma con modalità tali che determinavano alterazioni. Anche in questo caso abbiamo chiesto, senza però esserci riusciti (anche se devo dare atto che vi era la disponibilità), che fosse eliminata la stanza di compensazione.
In conclusione, il sistema vuole cambiare. Si tratta di compiere una scelta. Il professor Uckmar lo ha detto: oggi la situazione è gravissima e potrebbe essere ricondotta allo schema delle situazioni concorsuali. La gamma della concorsualità parte dall'amministrazione controllata fino ad arrivare alla traumatica situazione fallimentare. Si tratta, ripeto, di compiere una scelta. Se si vuole salvare il calcio con un sistema graduale bisogna accompagnarlo. Ciò significa far sì che anche le norme riguardanti non solo l'attività calcistica, ma tutte le società commerciali siano adeguate ad esaltare l'indipendenza.
Oggi in Parlamento si sta discutendo un provvedimento relativo al risparmio che passa giustamente sotto l'etichetta di «norme Parmalat». Nonostante le modifiche conseguenti al cosiddetto provvedimento Draghi, un magnifico testo legislativo, sono avvenuti fatti gravi sui mercati. Nonostante la riforma del diritto societario, entrata da poco in vigore, continuano a verificarsi fatti gravi. Il sistema calcistico ha maggiore necessità di essere tenuto sotto controllo, ma le prime modifiche devono essere apportate fuori del sistema calcistico e successivamente debbono essere mirate su di esso, garantendo innanzitutto l'indipendenza. La Covisoc, nella quale il professor Uckmar ed io (lui con ben altro impegno per qualità e quantità) abbiamo veramente creduto, deve essere resa un organismo terzo, assolutamente indipendente dalla Federazione. L'indipendenza non è un tema che riguarda soltanto il calcio ma è un tema generale, in quanto primo ingrediente per assicurare l'efficacia dei controlli.

GIOVANNI PALAZZI, Presidente della società Stageup. L'approccio che avrò al tema del calcio professionistico sarà divergente dall'aspetto giuridico che ha caratterizzato gli interventi precedenti. Sono un analista nell'ambito di strategie di imprese e, in quanto tale, cercherò di riportare il ragionamento su cosa sia avvenuto da un punto di vista dei modelli di business nel calcio e sui modelli di business che potrebbero essere adottati in futuro affinché non si ripetano le situazioni che stiamo affrontando, rifacendomi anche alle esperienze internazionali.
Intendo riagganciarmi a due fattori importanti affrontati da chi mi ha preceduto. Il concetto di mercato, richiamato dal professor Uckmar, non deve essere limitato al calcio. Il calcio compete nell'ambito di un mercato più ampio, quello dello sport italiano. Se parliamo di sport di vertice possiamo prendere in considerazione tutti gli eventi che ne fanno parte. La sensazione del tramite mediatico ci porta a pensare che il calcio sia monopolista dello sport spettacolo, ma non è così. Le ricerche fatte dalla nostra società insieme alla Taylor Nelson dimostrano che il calcio è leader con 28 milioni di interessati, ma il campionato di basket di serie A ne ha più di 8 milioni, quello di pallavolo maschile quasi 7 e quello femminile 5 e mezzo.
Complessivamente, al netto delle duplicazioni, questi tre campionati, che hanno una pressione comunicazionale, un periodo di svolgimento esattamente uguale a quello del calcio, sommano più di 13 milioni di interessati, quindi il 50 per


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cento del totale utilizzato dal calcio. Questo prescindendo da grandissimi altri sport come il ciclismo, l'atletica leggera e quant'altro.
Se pensate solamente ad un rapporto che è di circa 1 a 2 nell'interesse, ad esso corrisponde una sperequazione, in termini di spazi mediati, che è tutt'altro che 1 a 2, ma potrebbe essere di 1 a 100. Ciò significa che il sistema sportivo è un sistema in cui il calcio compete, in cui il calcio è certamente leader, ma non è monopolista; quindi, azioni che vanno sul calcio sono azioni che, per il sistema dell'interdipendenza sportiva, si riflettono su tutti gli altri eventi e su tutte le altre discipline.
Da questo punto di vista mi sembra importante ricordare l'esperienza della pallacanestro, il cui campionato è l'unico ad avere regole dettate dalla legge n. 91 del 1981. Non entro nei dettagli delle regole giuridiche; ricordo solamente che, posto che esistono sistemi che riguardano soprattutto la flessibilità della manodopera - quindi la flessibilità della manodopera giocatori - che è molto più ampia nella pallacanestro, nell'anno 2002-2003 l'incidenza nel calcio di serie A del personale giocatori era del 72 per cento, nella pallacanestro del 58 per cento.
Questo significa che possono esistere sistemi di regole che permettano la calmierazione di questi costi. Bisogna anche dire che lo scorso anno la Federazione pallacanestro - o meglio, più la Lega che la Federazione, ma nel sistema bipolare esistente nello sport di vertice questa è una cosa abbastanza normale - non ha accettato allargature e smagliature del sistema di regole e ciò ha portato, ad esempio, la Virtus pallacanestro - che l'equivalente della nostra Juventus - ad una uscita dal campionato di serie A. In quel caso la decisione venne presa dall'assemblea dei proprietari della Lega basket; quindi, ci fu il tentativo di far rispettare le regole.
A questo punto mi riaggancio al secondo importante tema. Per sopravvivere bene il sistema dello sport, soprattutto all'interno di un campionato, ha necessità di portare avanti non il brand, non la forza del sistema club, ma quella dei campionati. Qui mi riallaccio alla considerazione già espressa dal professor Pescatore sulla forza dei club contrapposta alla forza della Federazione. In tutto il mondo i sistemi di business che funzionano sono sistemi nei quali il vero prodotto da vendere, il vero servizio da vendere, a livello di sport di vertice, è il sistema campionato, non è il sistema delle squadre.
Voglio citare alcuni dati solo per fare alcune riflessioni ad alta voce. Utilizzerò due bench mark: il primo è europeo ed è la Premier League, quindi il campionato di vertice inglese, e l'altro è la NBA (National Basketball Association) cioè il campionato professionistico statunitense di pallacanestro; due esempi che vengono considerati best case, quindi casi di eccellenza per il sistema europeo e per il sistema internazionale.
La Premier League ha un sistema di business che è molto meno sperequato se andiamo in termini imprenditoriali sul cosiddetto business to business, cioè i ricavi provengono soprattutto da una infinità di consumatori finali del prodotto calcio e scarsamente dai grandi contratti di sponsor, diritti televisivi e quant'altro. Riporto un dato: nel sistema italiano gli incassi da gare nel 1997-1998 erano il 34 per cento del totale, nel 2002-2003 sono diventati il 16 per cento, mentre complessivamente il sistema sponsor più diritti televisivi è passato dal 48 per cento al 67 per cento.
Se consideriamo invece l'Inghilterra - è una elaborazione relativa al 2001-2002 - i ricavi da partite, quindi di tutto il sistema partite (perché «partite» non significa, in un'ottica di servizio allargato all'intrattenimento, solamente far vedere una partita - come avviene nei nostri stadi, in posti scomodi, dove andare solo a prendere un caffè diventa un problema - ma significa andare in luoghi che rappresentano una forma di intrattenimento per l'intera famiglia, in cui vengono erogati servizi alle imprese e alle persone e sistemi di catering, di ristorazione e intrattenimento di vario tipo) rappresentano il 31


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per cento dei ricavi, mentre in Italia - come ho già detto - sono solo il 16 per cento. Ciò significa che spostandosi verso un sistema business più consumer, cioè andando verso una vendita alle persone finali, diminuiamo enormemente il rischio del sistema. Oggi il sistema del calcio è molto simile a quello dei grandi media e delle agenzie di pubblicità e risente, anche nel breve periodo, di situazioni congiunturali che possono portare - vista la concentrazione del fatturato, un solo contratto o due contratti rappresentano il 50 per cento del fatturato e oltre - a un disequilibrio dei conti; invece, se frazioniamo questo tipo di discorso su un certo numero di consumatori, la statistica ci aiuta dimostrandoci che diminuiamo enormemente questo rischio.
Il problema vero è che il calcio ha registrato un incremento enorme del giro d'affari nel 2001-2003; rispetto al 1996-1997 ha avuto un raddoppio del volume dei ricavi. Quindi in pochissimi anni c'è stato un enorme aumento del volume dei ricavi derivante dal contributo dei diritti in pay. Queste somme, per la semplicità anche organizzativa con cui entravano (pochi contratti gestiti da poche persone) hanno prodotto una grande enfasi non sul problema di come gestire al meglio attività di intrattenimento legate al sistema calcio, ma sul solo problema di cercare di conseguire più risultati, perché i risultati portavano più utili.
Ora cosa succede? Si registra una contrazione di tutti i principali scenari, ed in particolare quello del diritto televisivo, e quindi non vi sono più le risorse per questa diversificazione. Occorre dunque intervenire, anche passando attraverso situazioni come quella della Virtus Bologna, perché ritengo che da questo punto di vista - soprattutto per società che in ben tre casi sono rappresentate in borsa - non si possa prescindere dalle norme del codice civile, individuando, come già è stato fatto a metà degli anni '90 in Inghilterra, un sistema di norme che favorisca la ricapitalizzazione delle società o il suo finanziamento, con l'obiettivo non di rinforzare le squadre ma di rinforzare patrimonialmente il sistema e soprattutto di fare in modo che questo si doti di managerialità a supporto di quelle esistenti, non tanto e non solo in termini di top management quanto di middle management, quindi di persone in grado di sviluppare attività di marketing di un certo tipo e attività orientate al mercato.
Altro punto molto importante attiene alla gestione del brand del campionato. L'obiettivo vero di tutto il sistema deve essere la valorizzazione del campionato ed il portare nuovi ricavi all'intero sistema. Al riguardo, ricordo che la Premier league, contrariamente a quanto avviene nel nostro paese, contratta i diritti televisivi in forma unitaria ed ha un sistema di mutualità molto più aggressivo del nostro, dove ben la metà delle risorse portate vengono divise in parti uguali, il 25 per cento in relazione ai risultati agonistici ed il 25 per cento in relazione alla veicolazione televisiva dei singoli club.
Altro tema rilevante è quello dell'internazionalizzazione della marca. Il campionato italiano è considerato a tutti gli effetti, insieme alla Premier league, il campionato più affascinante del mondo. Ora, il fatto che i club gestiscano in maniera individualistica le proprie strategie porta ad una internazionalizzazione delle marche di singoli club, ma non del prodotto italiano, inteso come campionato, che, invece, potrebbe avere grossi spazi di collocazione. Tra l'altro, questa può essere un'operazione che dura abbastanza poco; ad esempio, la Champions league, che fino a pochi anni fa non esisteva, è un'operazione di marketing sportivo molto felice gestita dalla UEFA ed ha portato in poco tempo, con una politica piuttosto aggressiva, all'affermazione di una nuova marca conosciuta ormai in tutto il mondo.
Per quanto attiene alla gestione dei costi, ritengo che essa debba necessariamente passare attraverso un salary cap, tema questo che è stato affrontato dai commissioner di tutte le principali leghe internazionali. Da questo punto di vista, occorre tener conto che il sistema italiano è un sistema integrato in un'ottica europea ed è quindi molto difficile per i nostri club


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attenersi alle regole italiane per poi confrontarsi, a livello europeo, con altri tipi di regole.
Ricordo, però, che esistono sistemi di salary cap definiti soft, come, ad esempio, quello della NBA, che permette una serie di eccezioni tutte finalizzate comunque al mantenimento di un equilibrio finanziario. Come già detto dal professor Pescatore, l'ottica a livello internazionale deve riferirsi non a quanto avvenuto l'anno prima, ma a quanto avverrà negli anni futuri. Nella NBA viene utilizzato un parametro, il basket ball related income, che è la previsione, fatta a luglio, di tutte le entrate della Lega derivanti da qualsiasi sistema sulla cui base viene definita la percentuale che può essere spesa per la contrattualizzazione dei giocatori, la quale viene divisa in parti uguali tra le ventinove società.
So che, in questo momento, si sta lavorando nell'ambito della Federazione calcio, come è già stato fatto nella pallacanestro, in termini di quantità di salari da erogare ai giocatori in funzione dei ricavi previsti per la singola società. Al riguardo, ritengo, pur non avendo ancora letto con attenzione le norme, che debbano essere tenuti in seria considerazione più parametri, come anzitutto la perdita derivante dagli anni precedenti spesso riportata a nuovo dai club. Una società che, da anni, sta perdendo grosse cifre, non può continuare a spendere percentuali come il 60 per cento dei propri ricavi.
Riportando l'attenzione sul sistema nel suo complesso, ritengo sia giusto che nel campionato di serie A si definisca una quantità complessiva di denaro da destinare ai giocatori. Il sistema focalizzato sui soli club tende a distogliere l'attenzione dal tema più importante, ossia l'esigenza di far rifiorire il calcio attraverso una grande ristrutturazione organizzativa che porti al suo centro il campionato.

PRESIDENTE. Passiamo ora alle domande dei colleghi commissari.

GIOVANNI LOLLI. Ringraziando i nostri interlocutori per la notevole mole di idee e proposte sulle quali la Commissione potrà lavorare, vorrei porre loro alcune domande. L'analisi compiuta è stata chiarissima; mi riferisco in particolare al richiamo ai tre fattori svolto dal professor Pescatore, ai quali ne aggiungerei un quarto essenziale, quello cui faceva riferimento il professor Palazzi, cioè lo squilibrio delle risorse avvenuto negli ultimi anni, mentre le regole rimanevano immutate.
L'intenzione della Commissione non è di fare processi a qualcuno, ma di studiare quali nuove regole possano riportare il sistema in equilibrio. Vorrei quindi conoscere quali siano le ragioni per le quali la Federazione, di fronte ai problemi oggettivi da voi citati (Bosman, trasformazione in SpA, diritti televisivi), abbia emesso regole così poco stringenti ed abbia prodotto quella deregulation. Perché escludere dalle vostre competenze, con un atto della Federazione, la possibilità di svolgere controlli bancari? Perché obbligarsi a valutare semplicemente l'esercizio dell'anno in un modo così stringente e togliere la possibilità di indagare sul debito erariale delle società?
Il professor Pescatore ha dato una risposta a queste domande quanto ha fatto riferimento allo strapotere delle società calcistiche, cosa che non è avvenuta nel basket dove le società hanno tenuto un comportamento più rigoroso, senza un intervento della Federazione, che, tra l'altro, ha anche altre componenti.
Non è mia intenzione cercare colpe, ma, siccome dobbiamo fare proposte di riorganizzazione per evitare che torni a succedere quanto accaduto, occorre comprendere cosa bisogna modificare e quali poteri rafforzare per compensare lo strapotere delle società. Era obbligatorio agire in quel modo oppure è stata una vostra scelta? In tal caso, vedremo come impedire scelte di questo genere.
La seconda domanda attiene alle nuove regole, che ci sono state illustrate dai vostri successori. Se le conoscete, ritenete che siano adeguate per impedire che succeda di nuovo quanto è accaduto? Ad esempio, secondo voi, è una misura sufficiente per svolgere un controllo efficace


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la semestrale di verifica sul patrimonio attivo patrimoniale col parametro di 0,10?
Circa le sanzioni, davvero ritenete siano efficaci? È del tutto evidente che la sanzione cui lei ha fatto riferimento non tanto è leggera; piuttosto, non esiste proprio. Infatti, i contributi federali, da due anni, non vengono più versati alle società di serie A e di serie B. Quindi, si tratta di una previsione inutile.
Lei, professor Pescatore, sa come questa sede sia una tribuna e quanto la stampa segua i nostri lavori; quindi, ha l'opportunità di illustrare il suo punto di vista. Lei, forse, nell'esposizione potrà essere condizionato da taluni vincoli che l'astringono in ragione delle indagini giudiziarie; ma sarebbe un'opportunità se lei ritenesse di poter fornire una spiegazione della situazione. Noi vogliamo essere assicurati circa il fatto che non succeda nuovamente quanto accaduto quest'estate; tra i tanti episodi, mi riferisco ad uno in particolare. Siamo arrivati al punto in cui alle società è stato consentito di utilizzare fideiussioni fasulle. Mi spiace ma non trovo altro termine per definire la vicenda; d'altro lato, sono stati utilizzati termini anche più pesanti, in particolare per i rapporti intercorsi tra la società della Roma e la SBC, una società con un capitale sociale ridicolo e con un amministratore delegato che dichiara ai giornali che, tra l'altro, non è abilitato né autorizzato a fare quel tipo di fideiussioni. L'aspetto più grave è stato che l'amministratore delegato della Roma ha dichiarato alla stampa che, essendoci un disavanzo di circa 47 milioni di euro, aveva provveduto a risolvere il problema con un piano che prevedeva una fideiussione di 30 milioni di euro rilasciata da Capitalia, mentre per i rimanenti 17 milioni di euro la società avrebbe provveduto con proprie sottoscrizioni. L'amministratore delegato della Roma dichiara che sarebbe stata la Covisoc a suggerire di non coprire il rimanente deficit di 17 milioni con la sottoscrizione di capitale; piuttosto, ad avviso della Covisoc, 10 milioni si sarebbero dovuti trovare tramite la sottoscrizione di capitale e, per gli altri, sarebbe stata preferibile una fideiussione. Addirittura, riferisce che sarebbe stata la Covisoc a suggerire e indicare questo soggetto.
Poiché è una vicenda molto sgradevole, se lei ritiene - e se può -, utilizzi anche questa occasione per spiegare come sono andate le vicende. Perché non avete fatto quanto dichiara di avere fatto l'attuale direzione e presidenza della Covisoc? Perché non vi siete dati la semplice regola di accettare solo fideiussioni di istituti primari? Una tale scelta non sarebbe dipesa né dallo Stato né dal Governo e, a mio avviso, neppure dalla Federazione: sarebbe stata, piuttosto, una vostra decisione, che potevate prendere se è vero quanto riferito dal vostro successore, ovvero che l'attuale consiglio di amministrazione della Covisoc questa decisione l'ha presa e la sta attuando. Le fideiussioni si accettano, ma solo di istituti primari, bancari o assicurativi che siano, e non di SBC o di altre strane società.
Capisco che non avevate strumenti sufficienti; ma è emersa una voragine: 1.000 miliardi di vecchie lire di debiti solo con l'erario; 500 miliardi solo con gli enti previdenziali; centinaia di miliardi di debito nei confronti di calciatori, di altre società, e via dicendo. I parametri erano insufficienti; ma come mai? A suo giudizio, sono, invece, sufficienti le attuali norme? Avere introdotto il criterio dell'attivo patrimoniale è, di per sé, una misura sufficiente a garantire che non succeda nuovamente un'evenienza quale quella da poco verificatasi?
Da ultimo, sono d'accordo con quanto da lei dichiarato - e ritengo l'aspetto di decisiva importanza - circa l'indipendenza della Covisoc; tuttavia, le chiedo come tale indipendenza si possa garantire. Ad esempio, da chi potrebbe essere nominata? Se, al riguardo, ha qualche suggerimento da darci, per cortesia lo manifesti; in tal senso, mi rivolgo anche al professor Uckmar. Noi, infatti, come legislatori potremmo intervenire in tale ambito.
Mi rivolgo, infine, al professor Palazzi, al quale, anzitutto, chiederei di voler lasciare a disposizione della Commissione il


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materiale di documentazione cui ha fatto riferimento; materiale che senz'altro la Commissione gradirebbe acquisire.

GIOVANNI PALAZZI, Presidente della società Stageup. Certamente.

GIOVANNI LOLLI. Se possibile, le chiederei altresì di farci pervenire una sua proposta per quanto riguarda l'applicazione in Italia del salary cap, istituto che anch'io ritengo molto interessante e che andrebbe introdotto nelle forme moderne da lei riferite.
Noi, come legislatori, possiamo normare la materia; al riguardo, lei ci ha spiegato un aspetto essenziale. Se vogliamo modernizzare il settore, dobbiamo fare in modo che i ricavi si differenzino e non siano più solo quelli derivanti dai diritti televisivi; dovrebbero provenire da una attività commerciale più ampia. Ma, per esempio, sarebbe possibile, nel nostro paese, realizzare il merchandising oppure l'archivio di tutte le immagini delle singole società che in Inghilterra o altrove rappresentano un patrimonio tanto ricco? Quali normative si potrebbero varare a protezione di questi strumenti al fine di mettere le società nelle giuste condizioni? Le chiedo, dunque, se a suo giudizio possiamo intraprendere qualche iniziativa legislativa o amministrativa per aiutare il calcio nella direzione da lei indicataci.

PRESIDENTE. Do ora la parola agli auditi per le repliche.

VICTOR UCKMAR, ex presidente della Covisoc. Questo lassismo si spiega con l'interesse a che il campionato cominci e non si interrompa; mi ricordo ancora Nizzola, Petrucci, Carraro preoccupati da tali evenienze. Pensate alla bagarre di questa estate; l'interesse fondamentale degli organi di Governo, a mio avviso, era quello a che il campionato iniziasse e non si interrompesse in quanto, altrimenti, sarebbe sorto un caso di rilievo nazionale.
Per quanto riguarda poi le nuove disposizioni, personalmente, dall'ottobre 2001, sono estraneo a tali vicende normative. Ho sentito quanto, al riguardo, ha poc'anzi riferito l'amico professor Pescatore, di cui conosco la saggezza ed il rigore nel farle applicare. Forse siamo distanti dagli altri paesi, ma in essi non è lo Stato ad interessarsi delle regole del calcio o del basket: vi sono i club che si danno delle regole al loro interno. Dunque, parliamo del libero mercato ma poi, appena si verifica qualche crisi, se non interviene lo Stato, non sappiamo come salvarci.
Nell'ambito del calcio, vi sono persone di altissimo livello, sia come imprenditori, sia come giuristi; tanto per citarne uno, penso a Franzo Grande Stevens, che attualmente è il presidente della Juventus, ma penso anche ad imprenditori come Garrone. Li vedo, però, soffocati, o forse impegnati in vicende personali che assorbono il loro tempo. Ribadisco, ad ogni modo, di non potere riferire nulla di commento alle nuove regole.

SALVATORE PESCATORE, ex presidente della Covisoc. Signor presidente, l'onorevole Lolli mi ha rivolto una serie di domande a raffica; a tale riguardo, devo, in premessa, fare una considerazione. Poi, fin dove mi è consentito di rispondere, ho veramente piacere di farlo. Il limite è segnato - lo richiamavo poc'anzi - dal mio ruolo di indagato; ho reso alla procura della Repubblica di Roma tutte le informazioni quando sono stato sentito sia come persona informata sui fatti nello scorso mese di agosto sia, poi, da indagato, in due momenti successivi.
In questa sede parlamentare, mi permetto solo una puntualizzazione e, se mi crederete, mi farà immenso piacere mentre, diversamente, mi lascerete «freddissimo». Ebbene, non uno dei componenti della Covisoc (cinque in tutto, ma uno era pressoché permanentemente assente) ha indicato ad alcuna società del sistema calcistico italiano (dalla serie A alla C2) le soluzioni possibili; ciò risulta anche dalle dichiarazioni - e l'onorevole Lolli coglie perfettamente lo spirito di questa risposta - rese (le richiamava lo stesso onorevole Lolli) da alcuni dirigenti della Roma con


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riguardo alle cosiddette fideiussioni false (che, peraltro, false lo erano veramente).
Passo alla domanda che reputo, rispetto alle mie possibilità...

PRESIDENTE. Non abbiamo motivo per non crederle.

SALVATORE PESCATORE, ex presidente della Covisoc. È una mia formula retorica.

PRESIDENTE. Lei non è indagato da noi!

SALVATORE PESCATORE, ex presidente della Covisoc. Se mi consentite, lo dico con la massima umiltà, questa posizione non mi cambia niente. Vi prego di non prenderla come supponenza, tutt'altro.
Se l'onorevole Lolli lo consente, vorrei andare in digressione per dare un minimo di ordine alle risposte, nei limiti in cui posso riferire certi aspetti. Non ho vincoli derivanti dal segreto istruttorio, perché sono indagato e potrei parlare senza alcuna limitazione. Per rispetto nei confronti della magistratura e degli altri indagati, tuttavia, preferisco attenermi all'essenziale.
Tento di dare una risposta alla domanda che reputo più importante, quella sull'indipendenza. L'indipendenza è tutto, è il presupposto che, come tale, deve precedere ma anche permanere per tutta la fase in cui le regole trovano applicazione. Mi permetto di sottolineare, richiamando la vostra attenzione, il problema dell'indipendenza, che è un tema sofferto da quando esistono controlli. Io, che ho una laurea in diritto commerciale, materia che insegno all'università, vi dico che uno dei maestri di diritto commerciale, Cesare Vivante, poco meno di un secolo fa con contestazioni fermissime parlava dell'indipendenza dei collegi sindacali. I collegi sindacali sono entrati nel mirino della censura, perché sono stati accusati di non essere indipendenti e - usando una formula calcistica - di soffrire di sudditanza psicologica nei confronti della società che li nomina.
Con la legge n. 216 del 1974, istitutiva della Consob, la prospettiva delle società di revisione, la garanzia del sistema, in realtà abbiamo rimpianto i collegi sindacali. Quando si parla di indipendenza, si tratta di compiere una scelta seria, lucida e addirittura asettica. O si decide che le autorità, formate da tre persone, scelte tra il meglio dell'aristocrazia del paese dal punto di vista dell'onestà intellettuale, designano, in funzione delle diverse aree, i controllori, oppure il limite del controllo ci sarà sempre e l'indipendenza rimarrà una chimera.
Poi, per carità, ognuno con la propria coscienza e la propria professionalità farà meglio il suo dovere, ma se vogliamo il massimo dell'indipendenza dobbiamo immaginare - e mi dispiace, perché si affolla ulteriormente la realtà delle authority - che ci siano autorità indipendenti non formate con il criterio dell'attribuzione e del bilancino in funzione dei partiti. Tali autorità indicano, per ognuna delle aree, i controllori da scegliere, separando completamente le prerogative proprietarie con la designazione dei controllori, che devono innanzitutto controllare coloro che agiscono ed operano per la proprietà, cioè i manager. Sono scelte di campo. Nel sistema calcistico se si fanno queste scelte con riguardo a situazioni extracalcistiche, bisogna essere coerenti per coglierne i riflessi.
Il mio suggerimento è quello di immaginare criteri più rigorosi, selettivi e asettici nella scelta dei controllori. Altri non ne conosco, perché è inevitabile nella natura umana che si crei un rapporto tra la proprietà che sceglie il controllore e l'attività che svolge il controllore stesso. Certamente ci sono fior di componenti di collegi sindacali ed anche fior di revisori che fanno il proprio dovere, ma c'è una tendenza che va estirpata in radice, altrimenti il fenomeno non viene affrontato con le doverose e necessarie misure.
Altre modifiche andrebbero proposte per quanto riguarda la legge fallimentare e questo è il momento opportuno.
Esiste un problema nel sistema calcistico, quello del titolo sportivo. Il titolo sportivo costituisce un problema immenso, perché, con un'impostazione nobile e addirittura ottocentesca, non può avere una


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valutazione patrimoniale. Lo capisco: storicamente nasce con le attività di ginnastica ed è giusto che sia così, perché c'è tutta la nobiltà dello sport addirittura in versione classica, se non lirica. Però siamo nel 2004: la gente si è messa in mutande nello spazio e, tutto sommato, forse qualcosa andrebbe rivisto.
Anche in questo caso si potrebbe prendere come punto di riferimento le regole in materia di disciplina dei beni immateriali. Il titolo sportivo, infatti, è una certificazione dell'idoneità delle squadre a svolgere la propria attività. Se si riesce a compiere un passo avanti e ci sono anche le premesse in termini di sensibilità, effettivamente si potrebbe migliorare il sistema. Questa potrebbe essere l'occasione per consentire la circolazione del titolo sportivo insieme all'azienda calcistica. Sarebbe un pericolo separare il titolo dall'azienda calcistica, perché dal punto di vista dell'organizzazione ciò costituirebbe un errore colossale.
Per quanto riguarda le fideiussioni false, mi devo censurare ma, fin dove mi è consentito per le ragioni che vi ho esposto, cercherò di rispondere. Onorevole presidente, onorevole Lolli, se mi è consentito, con la deferenza che vi porto: datevi una mossa! Non è pensabile - come ha detto in più di un'occasione il professor Uckmar - che la Covisoc e la Federazione, come dissi in un periodo non sospetto, vivano di luce riflessa, grazie alle informazioni fornite da altre autorità, come la Banca d'Italia.
Ricevuta la documentazione entro le ore 19, termine perentorio, passa una nottata e l'indomani mattina, anche con la vocazione a svegliarsi all'alba, si fanno delle verifiche che possono cominciare alle 9 e che si devono concludere entro le 13. Come vengono svolte queste verifiche? Sono effettuate con una telefonata degli uffici di segreteria tecnica alla Banca d'Italia, con la quale si chiede, usando una formula di gergo collaudata da decenni, se la società che rilascia la fideiussione sia una «107» (l'articolo del testo unico). Se viene risposto di sì, è tutto a posto. Questa è la verifica.
L'insolvenza era una «107». Il piccolo particolare è che dal mese di febbraio 2003 questa società si era autolimitata e non rilasciava più fideiussioni. Mi chiedo, con un'invocazione alla Vergine: se la Banca d'Italia lo sapeva, perché tale informazione non è stata data, dal momento che è stata resa per iscritto cinque giorni dopo, quando sono state chieste le informazioni a conferma di ciò che era stato detto il 29 mattina?
Onorevole presidente, onorevole Lolli, cercate di capire meglio il ruolo delle autorità garanti. Lo dico con il massimo rispetto per la Banca d'Italia. La Covisoc non ha poteri - come ha detto il professor Uckmar, che sulla Covisoc ha scritto pagine di storia - e vive di luce riflessa. In tre ore (perché la riunione della Covisoc era alle ore 15) viene fornita un'informazione nella più assoluta buona fede - mi auguro e sono portato a pensarlo - circa la validità della procedura, mentre cinque giorni dopo si viene a sapere che quella società si era cancellata e i bollettini della Banca d'Italia letti sui Internet erano datati il febbraio precedente...

GIOVANNI LOLLI. Questo sistema è ancora vigente?

SALVATORE PESCATORE, ex presidente della Covisoc. Sì, è attuale. Stiamo parlando della pubblicità in termini di informazione. Non è pensabile che galantuomini - mi consenta la supponenza - finiscano sotto indagine perché vengono fuorviati. I dati erano riferiti al febbraio precedente. Questo fatto riguarda la massima autorità, la Banca d'Italia.
Tutti debbono essere posti sullo stesso piano. Il settore calcistico non è diseredato, perché movimenta gli interessi di 55 milioni di persone e tre sole sono indifferenti. Allora tutti si attengano alle regole, anche l'ultimo degli organismi di controllo; non si infilino in un labirinto di deviazioni informative. Io scandisco fatti, minuti e momenti. Lo dico anche a ricordo di chi ci ha rimesso la vita. Parlo del segretario della Covisoc, il signor Turchetti,


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e non mi permetto di aggiungere altro.
Inoltre, la regola della fideiussione assicurativa senza nessun riferimento, come normalmente si usa nella contrattualistica, di primaria società, non c'è. Già questo elemento non consentiva nessun tipo di selezione tra primaria, secondaria e terziaria. La fideiussione assicurativa è la più infingarda ed ascrivo a mia responsabilità - se non peccassi di modestia dovrei dire merito - di non averla voluta, in quanto essa funziona meno della fideiussione personale. Infatti l'assicuratore gestisce l'indennizzo come un sinistro, con tutte le asfissie derivanti, per cui spesso si risponde che la comunicazione non è avvenuta al momento giusto o che è necessario verificare il ruolo di assicurato. Mi sono assunto la responsabilità, avendo una laurea in giurisprudenza e non certo nella mia qualità di professore universitario, di affermare che le fideiussioni assicurative, salvo non venissero da primarie, fossero bandite e sostituite con fideiussioni personali.
In molte occasioni mi è stato rimproverato di non aver capito che la fideiussione fosse falsa. Vorrei capire sulla base di cosa avremmo potuto capirlo quando sono state compiute le verifiche su Internet. È stato detto che fosse semplice, essendo sufficiente confrontare le firme. Noi avevamo una sola firma: quella falsa. Con cosa avremmo potuto effettuare il confronto? L'analisi richiestaci era quella. I giuristi della commissione, il professor Cariello ed io, abbiamo voluto evitare che fossero assunti (come può confermare l'amico Uckmar) impegni giuridicamente invalidi. Nel sistema calcistico avviene che siano rilasciate fideiussioni nulle e come tali improduttive di effetti. Abbiamo quindi letto attentamente la fideiussione con la tranquillità che essa non fosse nulla.

PRESIDENTE. La ringrazio molto, professor Pescatore. Nel dare la parola al professor Palazzi per la sua replica, lo invito ad essere sintetico, trovandoci in ritardo sui tempi previsti.

GIOVANNI PALAZZI, Presidente della società Stageup. Rispondo brevemente sulla produzione televisiva. In generale, nei sistemi che funzionano, il gestore sportivo tende a produrre anche i propri contenuti, quindi ad autoprodurre non tanto e non solo le gare ma quelli denominati highlights, cioè la ricostruzione delle migliori azioni di una giornata o di un periodo. Ciò permetterà di avere maggior controllo dei sistemi informativi.
Molti club hanno avuto in esame sistemi di autoproduzione che leghe minori di altre discipline già utilizzano. Non ho idea dello stadio di sviluppo di tali progetti. Sono a conoscenza del fatto che anche la lega dovrebbe averli avuti in visione. Il problema che sorge è quello della soggettività del diritto in relazione alle riprese televisive. Vi può essere un mandato da parte delle società per la gestione del diritto televisivo ed anche per la produzione televisiva. Ciò permetterebbe la creazione di una base dati, immagini di un certo tipo, che potrebbe essere sfruttata in maniera particolarmente interessante, anche tenendo conto del fatto che il futuro del sistema televisivo non risiede tanto nella TV generalista o nella pay TV, ma nella personalizzazione del sistema televisivo, nella televisione digitale, interattiva ed ancora di più nel sistema wireless nella prospettiva dei prossimi sette anni circa. Gestire le immagini secondo un determinato standard può portare importanti ricavi. Anche in questo caso è necessario però capire quale sia la volontà dei privati, dei club.

PRESIDENTE. Ringrazio gli auditi per la loro disponibilità e per gli interessanti interventi.
Dichiaro conclusa l'audizione.

Audizione di Pietro Calabrese, direttore della Gazzetta dello sport, Giancarlo Padovan, direttore di Tuttosport, e Alessandro Vocalelli, direttore del Corriere dello Sport-Stadio, e di Marco Liguori e Salvatore Napolitano, pubblicisti.

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sul


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calcio professionistico, l'audizione di Pietro Calabrese, direttore della Gazzetta dello sport, Giancarlo Padovan, direttore di Tuttosport, e Alessandro Vocalelli, direttore del Corriere dello Sport-Stadio, e di Marco Liguori e Salvatore Napolitano, pubblicisti.
Nel porgere il benvenuto ai nostri ospiti, ricordo loro le ragioni che hanno condotto all'avvio dell'indagine conoscitiva: in primo luogo capire, coinvolgendo gli esperti protagonisti del mondo del calcio, le radici del malessere del settore, ed in secondo luogo avere consigli e valutazioni in ordine agli interventi normativi da effettuare. Non si tratta di processare il mondo del calcio, ma al contrario di ricevere suggerimenti per comprendere se, al di là delle logiche dell'emergenza, il Parlamento possa indicare agli organi del governo sportivo gli interventi di loro competenza.
Do ora la parola agli auditi per il loro intervento iniziale.

PIETRO CALABRESE, Direttore della Gazzetta dello sport. Sarò meno utile dei miei colleghi, Vocalelli e Padovan, in quanto sono da due anni direttore della Gazzetta dello sport e, come sa bene il presidente della Commissione, non provengo dal mondo sportivo, a differenza dei miei colleghi che ne conoscono ben più profondamente i problemi. Ho il vantaggio rispetto a loro di essere una sorta di Candide precipitato con tutte le mie idee nel mondo del calcio e sono rimasto terrorizzato da quanto ho visto.
Si tratta di un sistema che per ogni euro che guadagna ne spende uno e venti centesimi. Una situazione di questo genere avrebbe condotto qualsiasi famiglia in mano agli strozzini, provocando dopo dieci anni il suicidio collettivo del capofamiglia e degli altri membri della famiglia. Invece il calcio prosegue, grazie anche ad una legislazione del tutto insufficiente, dribblando il problema fondamentale, il fatto che non si possa gestire la maggior parte delle società di calcio in queste condizioni economiche. Tutto ciò è aggravato da una follia collettiva che, dopo l'arrivo della pay TV, ha coinvolto tutti i presidenti ed i proprietari delle squadre di calcio, per cui si è pensato che i diritti televisivi fossero una sorta di greppia a cui tutti potevano attingere e risolvere i problemi.
La maggior parte delle squadre di calcio di serie A e B non dovrebbero disputare il campionato. I vertici della Covisoc, precedentemente auditi, sono secondo me pienamente corresponsabili di quanto avviene. È vero che le maglie della legge sono costruite, come in tanti altri casi nel nostro paese, in maniera che i buchi siano abbastanza larghi, però penso che un funzionario responsabile, quando si accorge che sta dando l'avallo all'esercizio di una società che non è in grado economicamente e patrimonialmente di assicurare uno stipendio ogni tre mesi ai propri dipendenti, dovrebbe dimettersi.
In questi giorni siamo tutti presi dalla partita Milan-Roma, ma quando questa giostra finirà, alla 34a giornata, comincerà l'estate più calda del calcio italiano, molto superiore a quella dell'anno scorso e di due anni fa; la gente infatti continua a pensare che i problemi siano risolti, avendo avuto alcune squadre italiane il permesso di giocare le Coppe europee. Ma ci sono alcune squadre tecnicamente fallite, e cito per tutte il Napoli, sesta squadra italiana come bacino di utenza, e quindi sarebbe impensabile che una squadra di questo genere possa fallire; ma è tecnicamente fallita. Ci sono proprietari di squadre - cito per tutti Gaucci - che continuano ad ingarbugliare la situazione e dovrebbero essere mandati in galera; ci sono squadre che non hanno nessuna possibilità, se si seguono le logiche di mercato, di iscriversi al campionato. Invece io sono pronto a scommettere con voi che - tranne forse un caso o due - si iscriveranno tutte, e fra un anno saremo allo stesso punto di oggi con «rose» troppo grandi, stipendi troppo alti, procuratori che guadagnano sottobanco cifre sbalorditive, calciatori non di serie A che guadagnano dieci anni dello stipendio di un parlamentare e cinque anni di quello di


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un presidente di una Commissione del Parlamento (non sto parlando di Totti e Del Piero ma di calciatori di serie B); quindi, è un sistema completamente impazzito.
Ritengo che il Parlamento e il Governo abbiano pertanto un compito non solo difficile ma direi prioritario; infatti, intervenire in una situazione di questo genere non vuol dire fare come hanno fatto alcuni politici questa estate che, siccome nelle loro circoscrizioni le squadre rischiavano di andare in serie C, hanno mobilitato le masse e si sono scoperti tifosi, ma vuol dire non permettere che un sistema di questo genere continui ancora ad andare avanti, perché significherebbe essere corresponsabili di quello che può accadere.
Per quanto riguarda, invece, la cosiddetta violenza negli stadi e fuori, anche su questo credo che voi abbiate una grande responsabilità, perché non è concepibile che 20 giorni dopo la morte di un tifoso napoletano di 21 anni ad Avellino, tutti coloro che erano stati indicati come corresponsabili di quegli incidenti siano usciti, chi di galera chi dagli arresti domiciliari. E ancora, non è possibile che non ci si accorga che, in una città come Roma, ogni giorno ci sono due o tre radio romane, assolutamente sconosciute da tutti - non c'è bisogno di fare indagini conoscitive, basta chiamare tre taxi e farsi indicare i nomi delle radio romane - in cui si incita alla violenza e di cui tutti siamo succubi, compresi i direttori dei giornali.
In proposito basta pensare a ciò che è capitato a La Porta, capo del palinsesto notturno della RAI, il quale - non abituato, ovviamente, a questo genere di cose - ha ricevuto una domanda da parte di una di queste emittenti e, per aver fatto un po' di ironia su Totti, è stato praticamente indicato come un obiettivo da abbattere, tanto che è stato costretto a fare una marcia indietro spaventosa, perché si era preoccupato.
Permettere, quindi, che queste radio continuino a diffondere false notizie, veleni, bugie, ipocrisie e poi lamentarsi che avvengano gli incidenti dentro e fuori dagli stadi è inconcepibile. Penso che il Parlamento su queste cose debba intervenire e legiferare e che non si debba ritenere che va bene lo stesso poiché siamo andati avanti per tanti anni e continueremo ad andare avanti.

GIANCARLO PADOVAN, Direttore di Tuttosport. Cercherò di integrare le osservazioni del direttore Calabrese e di andare a compendio di alcuni fatti che sono incontrovertibili come li ha già annunciati nella loro interezza e completezza.
Prima di tutto vorrei fare una premessa: quando parliamo di calcio, e in genere quando parliamo di sport, cosa intendiamo? C'è lo sport professionistico, di base, giovanile e dilettantistico; sono, infatti, cose diverse su cui bisogna fare una divisione netta e che implicano, ovviamente, interventi differenziati, perché il problema economico riguarda lo sport professionistico, ma riguarda assai di più, forse, lo sport dilettantistico, quello giovanile e di base (dico sport in generale, ma in questo caso deve intendersi nell'accezione calcio).
Prima di tutto è necessario operare questa grande divisione perché gli strumenti di legge con cui intervenire sono completamente diversi, ovviamente; però, il problema è lo stesso ed è, prima di tutto, di ordine economico. Il problema è lo stesso perché un bacino - quello del calcio dilettantistico di base e giovanile - è l'alimento dello sport professionistico; infatti, senza l'uno non può esserci l'altro ed è su questo, quindi, che bisogna prima di tutto intervenire - a mio giudizio - se vogliamo inquadrare il problema nella sua complessità, altrimenti andremmo a riparare il tetto di una casa senza sapere che le fondamenta sono già minate.
In secondo luogo, l'organizzazione della struttura sportiva è importante e non dobbiamo trascurarla; oggi parliamo di calcio, e quindi di Federcalcio, e poi di CONI come ente che coordina tutte le


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attività delle federazioni sportive; il calcio, però, non è solo quello, ci sono infatti molti enti che producono calcio nella direzione che avevo prima indicato, cioè giovanile e di base. Ci sono enti di promozione di vario genere, dall'ASI all'UISP e altre, tutte sigle che poi corrispondono ad attività o politiche o ideologiche che, comunque, raccolgono migliaia o forse milioni di persone.
Quindi la parola calcio non vuol dire solo serie A, serie B o serie C, perché quando usiamo questi termini indichiamo un sistema preciso, quello professionistico, ed è su questo che voi probabilmente ci chiedete di intervenire; credo, però, di fare cosa gradita - magari già sarà agli atti - lasciando uno studio del Centro studi e ricerche del settore tecnico della Federcalcio sulla struttura dei campionati e dei settori giovanili, intitolato Come difendere una risorsa nazionale. È uno studio che faceva da testo per un corso per direttori sportivi, ma ritengo che contenga delle nozioni estremamente utili per capire cos'è il sistema professionistico italiano rapportato a quelli delle altre nazioni.
Credo che «spigolando» nella realtà contigue si possano attingere degli esempi utili; per esempio, da questo emerge che la struttura italiana è ovviamente - dico «ovviamente» perché anche questo spiega le ragioni della crisi - quella più pesante.
Nel nostro paese ci sono 132 club professionistici, dei quali ben il 39 per cento cambieranno divisione al termine della stagione e il cambio di divisione, ossia la retrocessione, è uno dei primi passi della crisi economica.
Il documento del Centro studi di Coverciano ci dice che la precarietà in cui vivono le società costringe i tecnici a cercare i risultati nel breve periodo, svantaggiando lo sviluppo di un gioco spettacolare. Infatti, la struttura esistente non favorisce la spettacolarità perché obbliga i tecnici ad ottenere il prima possibile le vittorie, in assenza delle quali si determina la loro sostituzione. È evidente che ciò porta lavoro ai tecnici disoccupati, ma non risponde certo alla bellezza del gioco e, soprattutto, sfavorisce l'inserimento dei giovani calciatori.
Occorre riflettere sul punto di connessione principale tra l'attività professionistica e l'attività di base, ossia quella del calcio dilettantistico e giovanile. I settori giovanili non sono solo quelli delle società professionistiche ma anche quelli di società dilettantistiche che, a loro volta, sono l'alimento per i settori giovanili delle prime. La mancanza di un campionato riserve e l'impossibilità di schierare squadre «B» nei campionati non permette ai ventenni, usciti dal campionato primavera, che è l'ultima categoria consentita dalle società professionistiche, di godere di una palestra agonistica vera e propria. In Spagna, ad esempio, esiste il campionato riserve: il Barcellona o il Real Madrid hanno una squadra che partecipa alla serie B, senza possibilità di accedere alla serie A.
Tornando al sistema italiano, al primo anno da professionisti, le matricole provenienti dal settore giovanile si scontrano spesso con situazioni di alta difficoltà. È vero che questo costituisce un setaccio perché si affermino in genere i più bravi, ma - mi chiedo - perché non allargare questa possibilità? Tanti bravi giocatori si perdono per colpa di questo sistema che, prima di tutto, penalizza economicamente le società.
La maggioranza dei giocatori, pur esordendo in campionati di serie minore, non riesce a ritagliarsi lo spazio dovuto e, nel corso degli anni, si vede costretto a scendere di categoria o a finire nel calcio dilettantistico. Quindi, si intende il calcio dilettantistico non come un trampolino di lancio ma come riserva o luogo di svernamento.
Ne consegue una situazione molto preoccupante, dove i tre quarti dei giovani, usciti dalle squadre primavera, non riescono a mantenere un contratto da professionista nei cinque anni successivi. Questo sistema provoca la fabbrica delle illusioni e determina l'impossibilità di fare i professionisti a qualsiasi livello e, soprattutto, la disaffezione, in quanto quelli che


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sarebbero fruitori del calcio, dopo esperienze del genere, rimanendo profondamente delusi, spesso si allontanano da questo mondo. Dai dati del Centro studi di Coverciano emerge che, dei 500 mila giovani, fra gli 8 e i 16 anni, che ogni anno giocano a calcio, in più di 30 mila squadre e in oltre 7 mila società, solo lo 0,6 per cento arriva al professionismo e, addirittura, solo lo 0,2 per cento alle serie A o B.
Vorrei infine accennare alla questione relativa alla classe dirigente sportiva, facendovi riflettere sul fatto che, nel nostro paese, essa non esiste. Si svolgono corsi per gli allenatori o per i direttori sportivi di società professionistiche, ma non per i dirigenti, i direttori sportivi e i mediatori di conflitti (figure che mediano tra la società e le sue strutture ed i genitori, parte importantissima nel rapporto educativo allo sport per i giovani) e, finché questi non esisteranno, non avremo mai una classe dirigente che sia all'altezza della situazione.
I corsi per direttori sportivi di società professionistiche, in genere, sanano situazioni pregresse e vi partecipano coloro che, più o meno abusivamente e senza averne titolo, già esercitano questa professione. Sottolineo inoltre che non c'è alcuna attenzione da parte delle strutture del calcio e, naturalmente, anche del CONI, verso la formazione di dirigenti.
Non credo che il volontariato che, senza dubbio, è qualcosa di straordinario che fa vivere il calcio dilettantistico e di base e che, talvolta, produce anche buoni esempi che si affermano a livello professionistico, possa essere la palestra formativa, essendovi nel dilettantismo volontà che devono essere educate e raffinate.
A mio avviso, quindi, l'assenza di centri di formazione dei dirigenti è una delle ragioni principali della crisi e della carenza di ricambio della dirigenza stessa. Al vertice della Federcalcio e delle sue strutture periferiche, come al vertice della Lega, ci sono sempre i soliti nomi proprio perché non c'è ricambio; ma, finché non vi sarà, accanto all'esperienza, la nascita di una cultura formativa, questo ricambio non avverrà mai.

ALESSANDRO VOCALELLI, Direttore del Corriere dello Sport-Stadio. Ritengo che i problemi del settore calcistico siano iniziati quando si è puntato eccessivamente sul business e sullo spettacolo e dello sport è rimasto molto poco. Anche il totocalcio, che dovrebbe sovvenzionare il sistema italiano, ha finito per pagarne in maniera pesante le conseguenze.
Il business è cominciato nel momento in cui, venendo meno l'appeal per la grande partita - in quanto gli appuntamenti, quelli delle partite più importanti, venivano, per così dire, spalmati - si è cominciato a giocare di meno al totocalcio. Naturalmente, vi sono state altre componenti quali il superenalotto e quant'altro; resta fermo, però, che si sono eliminati i risultati di tali partite dal gioco del totocalcio e si è resa sempre meno possibile la sorpresa della schedina del totocalcio vincente. Infatti, se oggi verifichiamo la situazione, il gap e la forbice tra le grandi e le piccole squadre è talmente forte che i risultati sono quasi scontati; ad un certo punto, si è assistito a migliaia di vincitori a cifre bassissime. La conseguenza è stata che al totocalcio non ha giocato più nessuno; ciò, sempre in nome del business.
Il business, sempre a causa della televisione - che è diventata un po' il motore di tutto -, ha condizionato i palinsesti, gli orari e quant'altro. Peraltro, devo riconoscere che mi ha fatto molto piacere - anche se, egoisticamente, rende più, per i giornali, da un punto di vista editoriale, la partita disputata di sera anziché di pomeriggio - la circostanza che, dopo tutta la polemica intervenuta sulla partita Lazio-Roma e sull'opportunità di giocare la partita nel pomeriggio, non sia stata concessa l'autorizzazione per giocare l'incontro Milan-Roma di sera. Ciò, infatti, vuol dire che, per una volta, sulle esigenze televisive ha prevalso la sicurezza.
Però i flussi economici che sono arrivati attraverso i diritti televisivi hanno sconvolto il sistema; hanno danneggiato il totocalcio, spalmando gli appuntamenti, e le società, costringendole a comprare giocatori che fossero anche attori e che fossero sempre più numerosi. Ad un certo


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punto, si è manifestata la tendenza ad ingaggiare comunque nuovi giocatori purché fossero di altre società. Non aveva importanza che fossero indispensabili per la propria squadra: era importante toglierli alla concorrenza; quindi, le rose sono diventate spaventosamente ampie. Ieri se ne è parlato in un convegno. Peraltro, il Corriere dello sport ha mostrato alcuni dati in base ai quali il numero dei giocatori, negli ultimi dieci, quindici anni, a fronte di impegni sempre più gravosi, si sarebbe quadruplicato. Il moltiplicarsi degli impegni, infatti, ha indotto ad aumentare il numero dei giocatori, per cui il costo del lavoro ha finito per essere decisamente superiore alle prospettive di ricavo. E ciò, già di per sé, rappresenta bene la situazione e come ad essa siano riconducibili le questioni di cui discutiamo. Tanto più che nel calcio si è manifestata la tendenza a remunerazioni esorbitanti anche per le prestazioni di giocatori non proprio fuoriclasse; tendenza che non è di altri sport di squadra e che certo non è degli sport individuali. Le grandi stelle del golf, del tennis o di altri sport (ma anche le grandi stelle del basket americano) hanno un ingaggio diverso da tutti gli altri. Nel calcio italiano, improvvisamente, l'effetto traino dei grandi giocatori ha portato anche il calciatore destinato a divenire il ventiquattresimo della rosa (e a finire quindi in tribuna o in panchina) a guadagnare cifre iperboliche, fuori mercato. Ciò, chiaramente, ha fatto saltare tutti gli equilibri in nome del business; le stesse plusvalenze sono un effetto del business.
Abbiamo dimenticato i cosiddetti vivai e, quindi, i giovani, dando sempre più spazio agli stranieri. Personalmente, non ho nulla contro i giocatori stranieri; la ricerca dello straniero, però, è improvvisamente diventata molto più facile che non la costruzione del calciatore in casa. A mio avviso, non è vero che il mercato abbia determinato il problema del calcio italiano; il mercato, infatti, è stato spesso molto forte. Il problema, però, è che ad un certo punto il mercato, seguito da tutti i nostri capitali, si è spostato all'estero. Fino a quando il mercato era interno, le risorse rimanevano, comunque, nel nostro sistema del calcio; qualcuno, per una legge assolutamente naturale, doveva beneficiarne. Quindi, si può osservare come il business e, comunque, ad un certo punto, le regole - che non erano più regole - abbiano finito per far saltare un po' l'equilibrio.
A mio avviso, ha ragione Giancarlo Padovan nel senso che nel calcio italiano manca un ricambio generazionale a livello di dirigenti; a livello di dirigenti non di società di calcio, ma istituzionali. Al riguardo, non so se sia un caso oppure una necessità oppure, ancora, una qualità; però, trovo curioso che per quarant'anni il calcio sia stato amministrato in tal modo. Attualmente, ad esempio, è amministrato da un presidente della Federazione che, con continuità, negli anni passati, è stato presidente della Lega e presidente della Federazione (peraltro, devo riconoscere che si tratta di un grandissimo dirigente), da un presidente della Lega che è stato per trent'anni nel calcio e da un vicepresidente di Lega che è stato presidente della Federazione e presidente della Lega. Sono dunque le solite tre o quattro persone, che, però, hanno girato le poltrone; può essere che siano talmente più bravi di tutti che sia giusto così. Credo però che tra le qualità di un grande dirigente vi debba essere anche quella di far crescere una classe dirigente giovane, qualcuno che possa comunque creare un fermento di idee. Al riguardo, mi sembra che nel calcio italiano ci si sia un po' fermati.

PRESIDENTE. Terminato l'intervento dei valentissimi direttori di tre dei giornali più letti dagli italiani, anche da noi parlamentari, do la parola agli autori di un libro che si occupa della materia. Proprio a causa dello studio da loro condotto, la Commissione ha ritenuto di convocarli in questa occasione; si tratta del dottor Napolitano e del dottor Liguori.

SALVATORE NAPOLITANO, Pubblicista. Desidero anzitutto presentarmi; sono Salvatore Napolitano e, insieme a Marco Liguori, da più di un anno e mezzo


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abbiamo cominciato ad occuparci del calcio da un punto di vista economico-finanziario. Non siamo giornalisti sportivi; anzi, non sempre abbiamo potuto capire le regole del calcio (rigori, fuori gioco, e quant'altro). Abbiamo, poi, riassunto quanto avevamo fatto in un libro.
Abbiamo assistito alla cronaca di uno sfascio; la vicenda rappresenta il quadro di uno sfascio economico e di uno sfascio anche di regole non rispettate. Lo sfascio economico si vede dai numeri; pertanto, prendiamo in considerazione i bilanci al 30 giugno 2003 delle principali società. Soprattutto, esaminiamo il risultato operativo, che attiene specificamente alla produzione dello spettacolo calcistico. La Juventus, la società i cui conti sono migliori di quelli di tutte le altre, ha perso circa 44 milioni di euro; il Milan ne ha persi circa 54; l'Inter, 74...

GIOVANNI LOLLI. Scusi, ma anche con il provvedimento cosiddetto spalma-debiti?

SALVATORE NAPOLITANO, Pubblicista. No, sto parlando ancora di risultato operativo; quindi, prima dei risultati della gestione straordinaria e delle plusvalenze cosiddette fittizie (che fittizie, peraltro, lo sono davvero). La Lazio ha perso 131 milioni di euro e la Roma 98. Poi intervengono le gestioni straordinarie e, quindi, le plusvalenze fittizie e, con tale intervento, il rosso di bilancio si attutisce. La Juventus passa addirittura in utile di 2 milioni, con una plusvalenza immobiliare; il 30 giugno 2003, vende il 27 per cento di una sua controllata, che si chiama Campi di Vinovo, alle Costruzioni generali Gilardi SpA. Ottiene una plusvalenza di 32 milioni e mezzo di euro; se, dunque, il 27,2 per cento vale 37 milioni di euro venduti, la valutazione di questa società è pari a poco più di 130 milioni di euro. La Campi di Vinovo ha ottenuto un utile di 4 mila euro, al 30 giugno 2003, per un rapporto prezzo-utile che fa più o meno 78 mila. Al riguardo, ricordo che in borsa, quando il rapporto prezzo-utile è 13, quella è la media storica; chiarisco tale aspetto solo per dare un'idea di come vengano fatti i prezzi e di come si raggiungano, poi, i risultati finali. Mi riferisco alla Juventus perché tutti dicono che è la società che ha i conti a posto: invero, li ha soltanto meno critici delle altre.
Non sono neanche d'accordo circa la ricostruzione secondo la quale i diritti televisivi sarebbero diminuiti; l'anno scorso, Juventus e Milan, che sono le due maggiori società, hanno battuto il record assoluto del fatturato; nessuna società aveva mai raggiunto tali cifre. La Juventus è arrivata a 218 milioni di euro; il Milan a 203; ma, nonostante il record assoluto del fatturato, questi sono i conti.
Per quanto riguarda il capitolo relativo alle plusvalenze fittizie, i dirigenti del calcio sono venuti in Parlamento un anno fa con il cappello in mano chiedendo la famosa legge salva-calcio, spalma-perdite o spalma-ammortamenti. Si trattava della legge n. 27 del 21 febbraio 2003. Essi avevano promesso maggior rigore nei conti e avevano assicurato che non avrebbero più fatto artifici di bilancio. Al 30 giugno 2003 il Milan ha ceduto all'Inter quattro giocatori, i cui nomi sono Brunelli, Deinite, Giordano e Toma, mentre l'Inter ha ceduto al Milan altri quattro giocatori, i cui nomi sono Ferraro, Livi, Ticli e Varaldi. Ciascuno di essi è stato valutato tre milioni e mezzo di euro. Credo che i direttori dei giornali, che sono valentissimi conoscitori del calcio, non conoscano nessuno di questi otto giocatori. Tutto è iscritto nel bilancio, verificato e certificato dalle società di certificazione. Quindi, non c'è rigore, non c'è moralizzazione, non c'è nulla.
Faccio due esempi per chiarire il rapporto esistente tra le società di calcio, la legge e le regole. Si è discusso negli anni passati dell'IRAP, che è una tassa molto nota. L'Agenzia delle entrate ha ritenute che si dovesse procedere a tassazione IRAP sulle plusvalenze derivanti dalla vendita dei calciatori. La Lega calcio è intervenuta con una sua nota interpretativa, asserendo che non dovesse essere così. Nessuna delle società ha pagato l'IRAP sulle plusvalenze derivanti dalla vendita


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dei calciatori. Quindi, le società hanno scelto l'allora interpretazione della Lega calcio e non quella dell'Agenzia delle entrate, che magari conta un po' di più in questo campo.
Il secondo esempio riguarda l'anno passato e, in particolare, l'applicazione della legge n. 27 del 2003, che - come tutti sapete - viola la quarta direttiva CE, il codice civile e i principi contabili nazionali e internazionali. Essa è stata applicata anche in modo furbesco perché l'OIC, l'organismo italiano di contabilità, aveva stabilito le modalità di applicazione di tale legge. La Lega calcio ha emanato un documento, chiamato Raccomandazione contabile, indicando a sua volta come doveva essere applicata questa legge. Come dice la Lazio nel suo bilancio di esercizio, l'applicazione secondo le norme dettate dalla Lega calcio ha procurato una minore perdita sul bilancio della Lazio pari a 54 milioni di euro. Non sono cifre da poco: 54 milioni di euro corrispondono a 100 miliardi di lire. È un'applicazione furbesca, perché la legge consente di iscrivere l'ammontare della svalutazione nel primo bilancio da approvare successivamente alla data di entrata in vigore della legge. La legge è entrata in vigore il 21 febbraio e il primo bilancio si chiudeva il 30 giugno. Quindi, il 30 giugno una società calcola il valore del patrimonio calciatori secondo l'ammortamento dell'anno, si accorge che c'è la svalutazione, svaluta e questo minor valore lo ripartisce in dieci anni. Invece, le società di calcio, in base a ciò che ha detto la Lega calcio, calcolano il valore al 30 giugno 2002 ed è in base a questo parametro che svalutano. Però, la svalutazione è effettuata a febbraio, cioè dopo le assemblee di bilancio che si svolgono a novembre. In quel mese, infatti, avrebbero dovuto accorgersi di questa svalutazione, solo che non c'era la legge e hanno fatto finta che quei valori fossero quelli veri.
Ma non stiamo parlando di briciole. L'Inter ha svalutato il patrimonio calciatori di 319 milioni di euro, ossia, partendo da un patrimonio di 360 milioni di euro, improvvisamente è sceso di 319 milioni di euro. È qualcosa di inaudito. Si tratta di una svalutazione del 90 per cento. Neanche l'indice tecnologico Nasdaq è riuscito a crollare del 90 per cento in due settimane; ci ha messo due anni e mezzo. In questa pessima classifica, dietro l'Inter ci sono il Milan, che ha svalutato per 242 milioni di euro, la Lazio per 212 e la Roma per 133. Sono le maggiori squadre. Quindi, il sistema del calcio italiano attualmente è il seguente: se hai un azionista di riferimento forte alle spalle, che ripiana le perdite, perché tanto più o meno sono tutti in perdita, reggi.
Qualche anno fa c'erano le sette sorelle. Quante ne sono rimaste? Probabilmente solo tre. Infatti, la Fiorentina si è dispersa nei mari della C2 e adesso si trova in serie B. La Lazio si trova nella situazione che tutti conoscono, una situazione gravissima, perché, essendo quotata in borsa, come abbiamo letto proprio ieri, ci sono delle radio romane che inciteranno i tifosi a sottoscrivere un aumento di capitale, non si sa sulla base di quale presupposto. La Roma si è salvata probabilmente perché il presidente Sensi ha impegnato metà del suo patrimonio personale, ossia il 49 per cento di Italpetroli venduto a Capitalia. Per quanto riguarda il Parma, c'è stata la catastrofe della Parmalat. Restano Juventus, Milan e Inter. Per quanto riguarda il Napoli - come ha detto giustamente prima il direttore Calabrese - non si capisce come mai non abbia ancora portato i libri contabili in tribunale. Comunque, le sue cifre sono spaventose. Questa è la situazione per quanto riguarda la violazione delle regole.
Rispetto ai rapporti dei dirigenti, il presidente Franco Carraro ha una duplice veste, perché è anche un banchiere d'affari ed è il numero uno di una banca che si chiama MCC e che appartiene al gruppo Capitalia. Tale gruppo è socio della Lazio e l'ha salvata per tutto l'anno passato, garantendo gli stipendi, l'aumento di sottoscrizione e la sottoscrizione dell'aumento di capitale del luglio scorso. Attualmente il gruppo detiene all'incirca il 30 per cento della Roma, visto che ha il 49 per cento della compagnia Italpetroli, che ha il 95 per cento della Roma 2000 Srl,


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che ha il 65 per cento della Roma; quindi, facendo le proporzioni, Capitalia detiene circa il 30 per cento della Roma.
Capitalia ha anche il 99,5 per cento delle azioni del Perugia in pegno. E non solo: all'interno del gruppo di Capitalia i soci, per esempio, sono Massimo Moratti, che è entrato nel patto di sindacato di Capitalia, la regione Sicilia e Calisto Tanzi, che era consigliere di amministrazione fino al dicembre scorso. Vi è quindi un intreccio di interessi mostruoso. In MCC il 3 per cento appartiene alla Fininvest, quindi all'azionista di riferimento del Milan, e un altro 3 per cento a Telecom Italia, quindi al gruppo di Tronchetti Provera, che è sponsor e azionista dell'Inter. Lo ripeto, questi sono intrecci mostruosi, tanto è vero che nel nostro libro, con una battuta, abbiamo detto: per evitare incidenti recatevi alla sede di Capitalia, mettete un bel tavolo di Subbuteo e giocate così il campionato, perché tanto, più o meno, gli attori sono tutti lì.
Come ultima questione, vorrei parlare delle regole per l'iscrizione al campionato. L'anno scorso il Consiglio federale si vantò di avere introdotto regole rigidissime in cambio della legge spalma-perdite e dichiarò che sarebbe stato rigidissimo nell'applicazione. Inventarono così un nuovo parametro: patrimonio netto diviso attivo patrimoniale, che non doveva essere inferiore a 0,50. La squadra che aveva il miglior rapporto era la Juventus, con 0,21, meno della metà di quanto richiesto. Pertanto, in base a quel criterio, nessuna squadra avrebbe potuto iscriversi al campionato. Fu deciso che quei parametri non sarebbero stati rispettati perché troppo rigidi. Quest'anno li hanno leggermente ammorbiditi e hanno detto che il parametro non dovrà essere inferiore a 0,10. Su tutti i testi di economia aziendale risulta che un'azienda che abbia questo parametro inferiore a 0,33 si trova in una situazione di dissesto finanziario. Ora, i dirigenti del calcio sostengono che le regole e i parametri sono rigidi anche se il parametro non è inferiore a 0,10, ossia una condizione di dissesto tripla rispetto a quella certificata da tutti i libri.

MARCO LIGUORI, Pubblicista. Vorrei fare solo un'aggiunta. Prima si parlava degli impianti e degli stadi. All'estero essi sono di proprietà dei club, soprattutto in Inghilterra e in Spagna, mentre in Italia sono di proprietà comunale. A Torino c'è stato il grazioso regalo dello stadio delle Alpi, che è stato dato in cogestione con diritto di superficie, con la possibilità di edificare all'interno e all'esterno dello stadio stesso per 54 mila metri quadrati, dal comune di Torino alla Juventus tramite una convenzione.
Il problema è la determinazione del prezzo. La delibera è stata approvata con una maggioranza bipartisan, quindi dalla maggioranza dell'Ulivo e dall'opposizione della Casa delle libertà, con il voto contrario solo di Rifondazione comunista. Il prezzo è stato fissato a 25 milioni complessivi per 99 anni. Trattandosi di 54 mila metri quadrati, il prezzo al metro quadrato è stato di 4,68 euro. A Torino se si intende installare un banco di fiori o per il commercio di libri usati si spendono 76,65 euro. Quindi si è concesso il patrimonio comunale ad un prezzo estremamente basso ad una società, la Juventus, che si afferma essere privata. La situazione non cambia per le altre società che stanno avendo più o meno la stessa idea. Le istituzioni dovrebbero sensibilizzarsi sulla concessione delle proprie strutture a società private.

PRESIDENTE. Si tratta di un esempio già citato nel corso di precedenti audizioni.
Do ora la parola ai colleghi per le eventuali domande che intendano porre.

ANTONIO RUSCONI. Sono particolarmente soddisfatto dell'audizione odierna perché finalmente ho sentito una denuncia precisa, già letta peraltro sui vostri giornali, che non si riferisce ad un destino cinico e baro che si accanisce con il calcio italiano, affermando anche cose antipatiche perché nel nostro Paese si finisce per essere antipatici dicendo cose responsabili.
Il sistema non funziona. Prendo ad esempio una società tra le meno citate, che


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spero non me ne voglia dato che è la seconda volta che la cito. Nel 2003 la Sampdoria ha avuto entrate per 13 milioni di euro con un monte ingaggi pari a 25 milioni. Se ciò avviene non solo tra le società più affermate, l'idea che ne discende è che il sistema non funzioni. Il problema è capire quale sia la nostra responsabilità di politici per non proseguire la geremiade di lamentele sulla situazione che non va bene. In gran parte dei paesi europei le leghe delle squadre professioniste si danno regole interne molto più serie.
Credo non sia più rinviabile, ma la rivolgo a voi come domanda, l'introduzione del salary cap in Italia con un massimo del 60 per cento di costo degli ingaggi rispetto alle entrate, sul modello della NBA americana. Il problema non sono solo gli ingaggi dei campioni, dato che gli ingaggi dei giocatori medi sono decisamente incomprensibili. Se finalmente si introdurranno regole serie, nel prossimo calcio mercato si dovrà sostenere che alcune società dovranno esclusivamente vendere giacché non potranno acquistare giocatori.
Una domanda posta, anche da altri colleghi, che ha incontrato l'ostinata opposizione delle associazioni calciatori è se i calciatori, che si servono di procuratori con un ruolo decisivo, determinante e ben pagato, possano essere considerati, come si chiede da parte delle società, veri e propri lavoratori autonomi, quindi non più con un contratto di tipo subordinato che oltre ad essere maggiormente oneroso è sicuramente più vincolante.
Ritengo che lo Stato non debba più prevedere ulteriori sanatorie. Ne abbiamo avute tre in un anno, il cosiddetto decreto spalma-debiti, l'eliminazione dell'IVA sui diritti televisivi della Champions League e la rateizzazione dei contributi versati all'INAIL nell'ultima legge finanziaria. I diritti televisivi in Italia sono considerati un diritto soggettivo delle società, mentre nei maggiori paesi europei si tratta di un diritto oggettivo, che investe quindi tutte le altre società. Ciò permette di non avere una divaricazione così ampia tra squadre di primato e squadre che partecipano al campionato dei secondi.
Sono dell'opinione, ma vorrei da voi un parere, che 92 società professionistiche, tra il campionato di C1 e quello di C2, siano troppe. Sono di Lecco e ricordo quanto avvenuto due anni fa, ma è sufficiente pensare al Monza o al Foggia per aver presente una serie C che non regge più. Penso sia necessario introdurre l'obbligo, che le federazioni della serie C non hanno accettato, dell'impiego almeno in serie C1 e C2 di giovani italiani. Escludo un'intenzione xenofoba, ma se non prevediamo un obbligo serio, almeno nei campionati professionistici minori, di una sperimentazione dei giovani italiani in misura considerevole, andremo incontro a quelle illusioni cui prima si accennava.
La gestione degli stadi, anche per il problema della violenza, andrebbe affidata direttamente alle società, come avviene in Inghilterra.
Reputo una vergogna (purtroppo non è stato accolto un emendamento che l'onorevole Lolli ricorderà bene) la attuale multiproprietà delle società, perché nel campionato potrebbe avvenire - anche se non sembra più possibile - lo spareggio per rimanere in serie A tra la quartultima, il Perugia, di proprietà di Gaucci, e la sesta della serie B, il Catania, anch'esso di proprietà di Gaucci, e ci troveremmo davvero dinanzi ad una farsa.

PRESIDENTE. Se non si presentassero in campo la partita non si giocherebbe.

ANTONIO RUSCONI. In quella partita si presenterebbero comunque.
Dobbiamo domandarci se il campionato interregionale sia dilettantistico, dato che la media degli stipendi è doppia di quella degli insegnanti. Ho firmato, subito dopo l'onorevole Lolli, l'emendamento che ha portato all'attuale formulazione dell'articolo 90 della legge finanziaria 2003, però quando consideriamo 82 mila società dilettantistiche dobbiamo dire che vi sono campionati, come l'interregionale, che sono una sorta di subcampionati professionistici.


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Ci vuole chiarezza sul lavoro in nero. Nessuno di questi atleti va a lavorare e normalmente, se si è dilettanti, si lavora.
Infine, si è parlato di una classe dirigente non all'altezza e del calcio come la maggiore industria nel paese. Questi sono i due dati. Non so quale scuola abbia frequentato il direttore sportivo del Chievo (che, se non ricordo male, era un oscuro centravanti del Milan della stella, cioè Sartori) ma vorrei fargli i complimenti perché ha dimostrato che si può comprare e vendere bene. Il Chievo non naviga in acque sontuose, ma almeno non abbiamo assistito ad operazioni di cosiddetti grandi manager che hanno condotto altre società alla rovina.

GIOVANNA BIANCHI CLERICI. In primo luogo permettetemi di fare gli scongiuri, in quanto accanita tifosa del Milan, avendo spesso sentito parlare della partita con la Roma.
Mi interessa particolarmente il discorso sulla violenza negli stadi. Quando abbiamo approvato il decreto-legge relativo al problema, vi era una situazione di notevole spaccatura nel Parlamento: non abbiamo assistito alla normale contrapposizione tra maggioranza ed opposizione, ma vi era un atteggiamento trasversale contro il decreto, che continuo a ritenere valido e necessario, pur nella consapevolezza che si sarebbe introdotto nell'ordinamento un principio che avrebbe potuto essere lesivo dei diritti costituzionali del cittadino. Ritengo però che non si potesse fare altro per fronteggiare quanto avviene quotidianamente, da anni. È stato anche decisamente rifiutato dalle tifoserie. A volte vado allo stadio Olimpico ed assisto a proteste con striscioni capovolti. È fondamentale il ruolo dei giornali e della televisione, anche perché spesso i vostri giornali sono gli unici letti dagli adolescenti.
Se il Senato approverà, come mi auguro, in questi giorni la cosiddetta legge Gasparri sul sistema radiotelevisivo, nell'articolo sulla tutela dei minori nel rapporto con i mezzi radiotelevisivi vi è anche un comma riservato alla responsabilità delle trasmissioni sportive radiotelevisive. Alcune trasmissioni sono estremamente gradevoli, con partecipanti dichiaratamente di parte ma che esprimono le opinioni con leggerezza e senso dell'umorismo, mentre altre trasmissioni lasciano molti dubbi.
Il problema dei giovani, che voi avete toccato, è davvero fondamentale. In proposito, vorrei conoscere la vostra opinione sul fenomeno dei giovani calciatori, soprattutto extracomunitari di alcuni paesi africani, che vengono portati qui dalle società di calcio e se sono bravi restano, altrimenti sono rispediti a casa loro, con poca considerazione per la loro giovane personalità.
La domanda sul limite riguardante i calciatori extracomunitari è già stata posta dal collega Rusconi, quindi aspettiamo la vostra risposta.
Vorrei invece chiedervi se non pensiate che esista comunque una responsabilità anche delle grandi squadre di calcio quando sponsorizzano piccole società nei vari comuni - questo è un fenomeno molto diffuso al nord - senza preoccuparsi delle conseguenze. Conosco, infatti, molti ragazzini che, mandati a giocare a calcio all'età di 6-7 anni, si ritrovano a 14-16 con le ginocchia rovinate e non possono più praticare sport neanche a livello amatoriale o dilettantistico. Su questo fenomeno le responsabilità sono certamente dei genitori, ma forse ne sono in parte responsabili anche i dirigenti di queste squadre.
L'ultima domanda che vorrei porvi riguarda la serie C. Qui in Commissione è venuto il presidente della Lega professionisti di quella serie, il quale ha affermato che la situazione economica della serie da lui rappresentata è profondamente diversa, che la serie C si è data delle regole - per esempio, le fideiussioni devono essere solo bancarie - portandoci l'esempio del Monza, che è fallito qualche settimana fa, come pure il Foggia. Vi chiedo, quindi, se corrisponda al vero ciò che ci è stato riferito.

GIOVANNI LOLLI. Il professor Calabrese ci ha rivolto un invito a muoverci, a


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legiferare. Vorrei estendere anche a voi questo invito, nel senso che abbiamo deliberato questa indagine conoscitiva e stiamo cercando di renderla proficua - tra l'altro in un rapporto politico privo di contrapposizioni di parte - perché ci siamo resi conto che il Parlamento (o meglio, sia il Parlamento sia i governi, anche prima dell'attuale legislatura) da molto tempo ha continuato a legiferare sempre in modo emergenziale, pensando di limitare qualche effetto senza mai andare alle cause. In questa occasione, invece, avremo la possibilità di produrre un documento, spero unitario, che, pur non essendo una legge, è comunque un testo impegnativo che fissa indirizzi per legiferare e che, eventualmente, si rivolge alle autorità sportive, che possono decidere di adeguarsi. Non è tassativo, ma è politicamente molto impegnativo e può diventarlo ancora di più se vi è il necessario interessamento da parte vostra.
Tutte le personalità che abbiamo ascoltato finora hanno avuto, secondo me, un atteggiamento un po' strano perché hanno tutte affermato che il sistema non funziona avanzando anche proposte molto interessanti di riforma del sistema; ognuno di loro, tuttavia, ha dichiarato che, per quanto riguarda il suo settore specifico, tutto va bene. Ho notato dunque un certo atteggiamento di difesa della propria casta, della propria categoria, ma questo non mi sembra giusto poiché questo non è un tribunale, trattandosi di un'indagine conoscitiva finalizzata all'eventuale introduzione di norme volte a dare al sistema regole, controlli e sanzioni più moderni ed efficaci.
Ritenete o no - come mi sembra stia emergendo in queste prime audizioni - che occorre intervenire sul sistema dei diritti televisivi per dirigersi verso diritti televisivi gestiti collettivamente come avviene in sostanza in tutti gli altri paesi europei?
Ci si propone di intervenire sui bilanci delle società stabilendo che le rose siano limitate a 25 giocatori, che ci sia un salary cap, cioè un monte salari proporzionato ai ricavi delle singole società, secondo un parametro che non può essere sforato; oppure, come ha detto poc'anzi l'onorevole Rusconi - la questione è controversa, intendiamoci - il superamento della legge n. 91 sullo stato giuridico dei calciatori. È chiaro che lo strumento dei controlli non ha funzionato, mentre la nuova direzione intrapresa dalla Covisoc ci dice che tutto sommato le cose vanno bene. È così? Lo chiedo in particolare a voi, perché loro continuano a dire che il rapporto patrimonio/attivo patrimoniale di 0,10 deve essere inteso come attivo. Mi sembra che loro lo interpretino al contrario di come è stato fatto qui poco fa, e quindi pregherei i nostri ospiti di chiarirci questo punto che mi sembra essenziale.
Un altro aspetto è quello della patrimonializzazione delle società, che ci è stata descritta come un esempio non brillantissimo. Però in altri paesi la proprietà degli stadi in capo alle società ha indotto alcune attività virtuose; per esempio, in Inghilterra la violenza è stata estromessa dagli stadi, certamente anche grazie all'aggravamento delle pene, ma soprattutto quando, essendo le società proprietarie degli stadi, e ricadendo su di esse il carico finanziario dell'ordine pubblico, la violenza è scomparsa dagli spalti e si è trasferita al di fuori. Vi sembra un argomento da approfondire o no?
Vi sono poi altri argomenti su cui inviterei i nostri ospiti ad esprimere un parere. Nella prima audizione di oggi, per esempio, ci è stata detta una cosa abbastanza impressionante, e cioè che il nostro sistema si regge, per quanto riguarda i ricavi delle società, quasi esclusivamente sul business to business, cioè la vendita dei prodotti televisivi, in chiaro o criptati che siano. Questo sistema rappresenta, infatti, il 70-80 per cento dei ricavi, quando in Gran Bretagna i ricavi derivanti da questa voce sono minori, mentre ve ne sono altri basati sul consumo. Credo allora che la proprietà delle immagini in Italia debba essere maggiormente tutelata con legge; credo sia abbastanza particolare, infatti, che nel nostro paese queste attività commerciali siano fatte gestire, in alcune città,


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come è noto, addirittura dalle tifoserie, mentre invece potrebbero rappresentare un patrimonio attivo delle società.
Infine, sul discorso relativo ai vivai, ritengo che il problema esista e vada affrontato complessivamente, ma non sono molto d'accordo sul fatto che si risolva solo ponendo un tetto. Sull'ipotesi di limitare la rosa a 25 giocatori partendo dalle serie minori, vi ricordo che il presidente della Lega professionisti di serie C ci ha informato del fatto che Federazione non lo ha permesso. A tale proposito, il modello francese è molto interessante: in Francia, i diritti televisivi sono tassati per una quota limitata con una tassa di scopo e questi soldi, investiti, vengono dati alle società che hanno una attività di vivaio.
Riguardo al dilettantismo, vi informo che pochi giorni fa la Camera ha approvato una disposizione, grazie alla quale si potrà finalmente dare attuazione al regolamento che permetterà di applicare le norme.

PRESIDENTE. Il provvedimento è ora all'esame del Senato.

GIOVANNI LOLLI. In relazione a quanto avete detto riguardo ad una certa staticità delle autorità, indicando un possibile terreno di conflitti di interessi, vi ricordo che questo non è un tribunale e non vuole assolutamente esserlo, ma, stante l'esigenza di capire quali norme si rendano necessarie, vorrei conoscere la vostra opinione su eventuali regole che possano ovviare ad un altro grande conflitto di interessi, quello che attiene al mondo dei procuratori. Come ci è stato riferito dal presidente dell'associazione - ed è agli atti della Commissione - in Italia essi hanno un enorme peso di intermediazione ed un numero di addetti davvero sproporzionato rispetto al resto dell'Europa. Inoltre, non mi sembra efficace la regola indicata dalla Federazione per eliminare il conflitto di interessi che li riguarda.

PRESIDENTE. Do la parola ai nostri ospiti per le repliche, invitandoli a contenere i loro interventi data la ristrettezza dei tempi a nostra disposizione.

PIETRO CALABRESE, Direttore della Gazzetta dello sport. Cercherò di rispondere brevemente ma più compiutamente possibile alle numerose domande che ci sono state poste.
Innanzitutto, circa l'attenzione verso ulteriori sanatorie, vi ricordo che venerdì si riunirà il Consiglio federale per discutere del «lodo Petrucci». Come voi saprete, esso implica che il fallimento di qualsiasi squadra di calcio non è analogo a quello delle altre società, in quanto queste conservano il titolo ed il nome, e, per di più, non è neanche detto che passino alle serie successive. Già due estati fa la Gazzetta, con riferimento al primo decreto che abbiamo chiamato «spalma vergogna», ha intitolato la prima pagina «Il papocchio» e trovo che questo sia un ulteriore papocchio.
È inammissibile che società come Napoli, Bari, Palermo, Genova, Verona e Firenze non militino nella serie massima. Già quest'anno la serie B, come bacino di utenza, è superiore alla serie A, il che è un controsenso; per esempio, il Chievo Verona che, per le sue ottime e lodevoli prestazioni, si trova in serie A, ha un bacino di utenza molto minore delle squadre sopra citate.
Ritengo che le sanatorie continueranno ad esserci, altrimenti il sistema salterebbe. Occorre riflettere sul fatto che non ha senso che la Fiorentina venga promossa dalla serie C alla serie B per meriti di cultura e non perché capolista della serie C. Il signor Gaucci l'estate scorsa ha infestato il sistema del calcio italiano. Abbiamo la serie B con 24 squadre e quest'anno avremo la serie A con 20 squadre. È un disastro.
Non concordo affatto sull'esigenza di ridurre le rose dei giocatori, le quali, invece, secondo me dovrebbero aumentare. Le squadre, infatti, devono disputare 19 partite nel girone d'andata e 19 in quello di ritorno, oltre a tutte le competizioni europee, le amichevoli e le partite della nazionale.


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Credo che l'esempio della NBA sia straordinario e lo adotterei già dall'anno prossimo. Sono però convinto che già i miei colleghi qui presenti, che nascono giornalisti sportivi e che quindi sono meno cinici di me, non lo accetterebbero mai. Tale sistema prevede 16 squadre di 16 città che giocano sempre il campionato maggiore e che non retrocedono. La torta dei diritti televisivi viene divisa in parti uguali, con un premi proporzionati per le squadre che si classificano per prime. Non si compie quindi il dramma della retrocessione che, come ricordato in precedenza, implica introiti minori di circa il 40 per cento. Trovo che sia una follia; sarebbe come se, all'improvviso, l'amministratore delegato della Rizzoli mi dimezzasse lo stipendio perché il giornale è andato in serie B. Il sistema della NBA, secondo il quale si sceglierebbero 16 squadre in base ai criteri che si ritenessero più opportuni (bacino di utenza, garanzia di assicurazioni maggiori e di non violenza negli stadi), calmerebbe gli animi non prevedendo l'incubo della retrocessione.
A chi, come Giancarlo Padovan, amando un certo tipo di calcio, questo sistema non convince, perché, alla fine del campionato, è come se le partite non si disputassero, ricordo che in America è un sistema adottato da molto tempo e che dall'ultima indagine del nostro giornale è emerso che, dopo il calcio, lo sport più amato dai nostri lettori più giovani (la fascia che va dai 12 ai 20 anni), che sono 3.700.000 al giorno, è proprio l'NBA.
Infine, vorrei accennare alla responsabilità delle trasmissioni sportive radiotelevisive. Qui tutti, soprattutto noi che le frequentiamo, abbiamo le nostre colpe e non solo la Covisoc (tra l'altro, mi dispiace di non essere parlamentare di questa Commissione, perché avrei voluto assistere alla loro audizione per sentire le incredibili ragioni per le quali la società si discolpa da responsabilità). Vi invito, un giorno qualunque, ad ascoltare una di quelle trasmissioni radiofoniche romane che incitano davvero alla violenza. Non avete idea di quello che si può sentire. Vocalelli, quando fa uscire il suo giornale - io sono più fortunato in quanto, pur essendo insultato allo stadio con gli striscioni, non vivo a Roma - deve riflettere bene su quanto pubblica. I miei giornalisti romani non sono liberi di scrivere tutto quello che vogliono, come lo sono i loro colleghi da altre parti. Mi chiedo quindi perché la polizia o la magistratura non compiano un monitoraggio di queste radio (si tratta peraltro di tre o quattro) e perché non ne dispongano la chiusura.
Non so se voi potete intervenire; tuttavia, vi invito a farlo. Si tratta di contrastare chi infonde la volgarità e, ciò che è più grave, la menzogna e l'ipocrisia nelle menti della gente. In base a tali premesse, mai un rigore o un fuori gioco appaiono assegnati giustamente; mai un articolo di un qualsiasi giornalista può apparire onesto; mai un arbitro che non sia corrotto; qualunque sia la decisione presa da Galliani, che mai avrebbe dovuto essere presidente della Lega, essa non può essere quella giusta. Ebbene, per il principio della probabilità, non è possibile che ciò avvenga; però queste radio, mentre noi stiamo parlando, continuano a dichiarare che, siccome non vi sarà Collina nell'incontro Milan-Roma, sicuramente la Roma sarà destinata a perdere la partita. È chiaro che, se poi la Roma perderà quella partita, ciò verrà sostenuto; ma può un guardalinee, nello spazio di due secondi, o di un secondo, vedere trenta centimetri di terreno? È facile immaginare cosa succederebbe se la Roma perdesse la partita a Milano sulla base di una decisione dubbia. Ma tutto ciò è inaccettabile; però, quelle radio continuano a condursi in tal modo.
Sui giovani calciatori extracomunitari, il professor Giancarlo Padovan potrebbe scrivere un libro; nessuno di voi, invece, ha parlato della questione del doping. Si tratta di un problema gravissimo, non per le squadre importanti (non interessa tanto i giocatori professionisti) quanto invece per i giovani al di sotto dei 16 anni. Infatti, stiamo inculcando loro la mentalità che o si vince o, come dicono a Roma, si è dei «fregnoni». Non voglio ricordare de Coubertin; tuttavia, si va affermando il concetto che si conti solo se si è il più forte,


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il più veloce, il più atletico, il più bravo, colui che, alla fine, porta a casa il risultato. La farmacia si è sostituita a quanto, quando noi giocavamo a calcio, era rappresentato dallo zucchero sciolto nell'acqua calda. Invece, ora, vi è la farmacia. A mio avviso, il Parlamento si deve interessare di tale problema e deve intervenire soprattutto a livello dilettantistico e giovanile, perché è in questo ambito che, per così dire, comincia il cancro nella testa dei ragazzi. Poi, quando sono professionisti, è un altro discorso.
Si può intervenire sul sistema dei diritti televisivi seguendo il modello NBA; è inutile aggiungere altro a tale riguardo.
Intervenire nei bilanci delle società sarebbe auspicabile; magari il Parlamento stabilisse delle regole!
Quanto al merchandising, si tratta di un problema assai grave in quanto determina una grande parte della violenza negli stadi. Le società di calcio, soprattutto quelle romane, hanno affidato agli ultras - che non sono tifosi, ma delinquenti - tutto o quasi tutto il merchandising che riguarda le loro squadre, più la vendita dei biglietti allo stadio ed i viaggi in treno o in pullman (quando si gioca fuori). Hanno creato dei piccoli mostri e ora non li possono più fermare. Uno dei titolari di queste radio, che ha il suo spazio principe la mattina, è stato incriminato per avere accoltellato e ucciso una persona; ebbene, costui si permette, naturalmente, di dire che Padovan, Vocalelli e Calabrese sono dei mentitori, dei bugiardi, e via dicendo.
A me, come ai colleghi oggi presenti, arrivano e-mail che ogni tanto rivelo; l'ultima che mi è arrivata - mi spiace non averla portata con me - mi comunica: tanto prima o poi ti prendiamo e ti tagliamo la gola. Naturalmente, ignoro quale mio commento abbia eccitato gli animi di costoro; tuttavia, anche a tale proposito sarebbe necessario intervenire. Quando il giornalista della Gazzetta dello sport, due anni fa - io ero appena arrivato -, è stato picchiato dagli ultras (non certo dai tifosi) della Lazio (i giocatori erano in ritiro in Trentino), quel gruppo di ultras era andato sul posto anche grazie al figlio di Cragnotti, che aveva pagato non solo il viaggio ma anche l'albergo. Loro, ad un certo punto, hanno preso questo giornalista della Gazzetta dello sport, Maurizio Nicita, e l'hanno picchiato procurandogli dei danni ad un orecchio. L'ho dovuto trasferire a Napoli, dove ora vive e fa il capo della redazione dell'edizione di quella città; a Roma, infatti, non poteva più lavorare.
In una trasmissione del Maurizio Costanzo Show sono stati invitati sul palcoscenico come divi i due caporioni ultras della Lazio; io ho chiarito il mio pensiero sull'argomento. Peraltro, ho poi detto a Costanzo che era un pazzo. Da allora, chiunque di voi vada a vedere una partita della Lazio troverà un grande striscione di circa 60 metri dove alcune domeniche è scritto: «Calabrese 'pezzo di merda' » e altre domeniche (tra l'altro, anche domenica scorsa, a Milano nella partita con l'Inter): «Calabrese, indagato 149 volte, e ancora fa il moralista». In effetti, nei quattro anni in cui ho diretto Il Messaggero, ne avrò avute finanche di più di denunce e querele per diffamazione. Però qualcuno di loro si è recato in tribunale, ha controllato il registro delle querele, si è preso la briga di numerarle e ha agito in questo modo. Questo è il tifo in questa città; quindi, quando si parla di violenza, a mio avviso non si sa bene di cosa si stia parlando.
Il problema della violenza negli stadi si può certamente risolvere anche con lo stadio affidato alle società perché lo gestiscano con tutti i posti numerati e la polizia interna da esse pagata. Ma è inutile fare ciò se poi, come ho riferito dianzi, cinque o sette persone, arrestate dopo la morte di un ragazzo di vent'anni, trascorsi venti giorni, sono di nuovo per strada, libere come me e come voi. Quindi, in conclusione, rispondo alla sua domanda chiarendo perché vi chieda di intervenire; è infatti vero che il mondo del calcio, per molti anni, si è retto da solo, autofinanziandosi con il totocalcio e dandosi delle regole che funzionavano, però ciò ora non basta più. Non è possibile che i dirigenti siano sempre gli stessi; non è possibile che


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il mio amico Adriano Galliani, verso il quale nutro una simpatia umana profondissima e che sento settimanalmente, tre volte la settimana, sia responsabile del Milan e sia responsabile della Lega e, altresì, degli stipendi pagati agli arbitri.
Dal legislatore dovrebbe venire un intervento mirato a far fare un passo indietro, per una volta, al mondo dello sport attraverso il varo di un pacchetto di regole che affrontino tutti i punti di vista: conflitti di interessi, responsabilità dei dirigenti a livello federale, del CONI e di quant'altro, violenza negli stadi, repressione della stessa, sistema radiotelevisivo, incitamento alla violenza, merchandising, e via dicendo. Si vari una normativa; non è difficile! Non occorre neppure apprestare disposizioni specifiche, in quanto potrebbe essere sufficiente studiare le legislazioni dei paesi confinanti e copiarle, come si faceva a scuola! Copiatela, approvatela e, quindi, ridate tutte le libertà del mondo al calcio, comprese naturalmente - ma qui loro sono più bravi di me - le vergogne societarie dei bilanci.

GIANCARLO PADOVAN, Direttore di Tuttosport. Mi ha fatto molto piacere che il professor Calabrese abbia fatto emergere situazioni che, un po' per pudore, io non avevo riferito; anch'io, infatti, sono stato alquanto scosso dalle minacce che mi sono giunte. Se al collega vogliono tagliare la gola, a me vogliono spezzare tutte e due le braccia. Mi hanno avvertito che la sentenza doveva essere eseguita, se ricordo bene, il 17 ottobre; ma poi, di fatto, non è stata eseguita, per fortuna. Tuttavia devo dire che tali vicende scuotono e facciamo male a trascurarle. Avverto spesso la pesantezza di queste minacce che, come è capitato al collega Calabrese, mi raggiungono attraverso lettere, e-mail o strumenti analoghi.
Quanto al salary cap, quanto testè riferito è giusto, ma credo voi sappiate - per lo meno dovreste saperlo - che dalla Lega è stato approvato un progetto di salary cap. È stato sicuramente studiato da esponenti del Lecce calcio, in particolare dal presidente Enrico Semeraro e dal direttore sportivo Corvino.
Questa bozza, approvata dalla Lega, non è mai stata approvata dalla Federcalcio. Quindi, c'è già uno studio che differisce rispetto a quello dell'NBA americano, che tratta la materia del salary cap. Basta riesumarlo e confrontarlo.
Per quanto riguarda la serie D, si tratta del campionato con maggiore limpidezza. Credo che voi abbiate già sentito il presidente Punghellini. Però, a questo proposito, io parlavo di dilettanti come status. Non si può chiedere ad una persona di fare un lavoro, altrimenti non gioca. Per quanto ne so io, la maggior parte dei giocatori di serie D studiano o hanno lavori part-time.
Inoltre, esiste una regola che non hanno gli altri campionati professionisti (la serie C ce l'aveva, ma le è stato imposto di eliminarla): otto giocatori, di cui quattro debbono essere in campo, devono essere nati tra il 1980 e il 1984. Perlomeno, la serie D ha questa regola. Poi, che girino delle cifre considerevoli è vero, ma è altrettanto vero che la presenza di otto giovani giocatori libera il campo dal cimitero degli elefanti, che è costituito dai vecchi giocatori di serie A o B che andavano a giocare, terminata la loro carriera, in D e venivano pagati in nero circa 100 milioni di lire. Ciò non può più accadere, perché servono otto giovani di quell'età, altrimenti la squadra perde la partita.
Per quanto riguarda gli extracomunitari, il nostro giornale se ne è occupato con due inchieste ed io so che la magistratura è intervenuta in questo senso, soprattutto il procuratore Guariniello. Ci sono state anche le prime condanne a proposito di un traffico di australiani. Naturalmente si tratta di persone che arrivano in Italia senza i requisiti, ma che vengono condotte in Italia e sfruttate.
Le leggi e i regolamenti ci sono, basta applicarli. Non si possono fare finzioni, ossia fingere che queste persone abbiano parenti in Italia che non esistono. Questo, tuttavia, è un problema di vigilanza. Ci


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sono commissioni apposite, soprattutto nel settore giovanile e scolastico, e c'è stata una denuncia del vicepresidente della Federcalcio, Mazzini, che è stato promotore di questa indagine. Mi sembra che dopo una prima fase di confusione, oggi ci sia una certa sensibilità sociale e culturale sul problema. Ciò è tanto più vero dal momento che tali fatti non si sono più riproposti. Ci sono, invece, casi di integrazione, ma si tratta di casi felici.
Rispetto alle norme sulla violenza, so che avete approvato una legge, che, se non mi sbaglio, è la cosiddetta legge sulla «flagranza differita». In tutta onestà, ritengo che non ci sia bisogno di leggi speciali per regolare la vita all'interno degli stadi. Ritengo, invece, che basti applicare le leggi che ci sono. Se i divieti di andare allo stadio per alcuni soggetti ci sono, essi debbono essere attuati. Invece, sappiamo con certezza che, anziché recarsi in questura per firmare, tali soggetti vanno allo stadio. Non credo che ci sia bisogno di altre leggi.

PRESIDENTE. Mi scusi, lo sapete con certezza nel senso che lo avete scritto sul giornale?

GIANCARLO PADOVAN, Direttore di Tuttosport. Sappiamo con certezza che alcuni autori di reati...

PRESIDENTE. È una notizia oppure è una supposizione?

PIETRO CALABRESE, Direttore della Gazzetta dello Sport. È molto semplice: firmano alle 14,50 e alle 14,55 si trovano alla partita.

PRESIDENTE. Ecco perché le partite iniziano in ritardo!

GIANCARLO PADOVAN, Direttore di Tuttosport. Spesso sono gli autori stessi degli incidenti per i quali non dovrebbero entrare allo stadio.

PRESIDENTE. La mia domanda era se sono notizie conosciute e se nomi e cognomi sono usciti a mezzo stampa.

GIANCARLO PADOVAN, Direttore di Tuttosport. Sì, sono anche ricostruibili.

GIOVANNI LOLLI. Sono stati riarrestati...

GIANCARLO PADOVAN, Direttore di Tuttosport. No, non c'è l'arresto. Come voi sapete, non è così facile arrestare una persona. Qui si ha semplicemente la reiterazione del reato in momenti diversi. Anche la legge che avete approvato non ha costituito un deterrente.

PRESIDENTE. Statisticamente c'è stata una diminuzione dei casi, anche se non so se ciò è dipeso dalla legge.

GIOVANNI LOLLI. Una diminuzione dei reati?

PRESIDENTE. Una diminuzione degli episodi di violenza.

PIETRO CALABRESE, Direttore della Gazzetta dello Sport. Tutte le questure d'Italia hanno l'elenco - basta che lo chiediate - di coloro che perturbano l'ordine pubblico negli stadi. Ci vuole molto a mettere cinque telecamere e filmarli quando alzano manifesti e lanciano oggetti e arrestarli?

PRESIDENTE. No, assolutamente no.

GIOVANNI LOLLI. Allora perché non li arrestano?

GIANCARLO PADOVAN, Direttore di Tuttosport. Gli episodi saranno pure diminuiti, ma dopo quel fatto, ossia l'approvazione susseguente agli incidenti avvenuti nella partita Torino-Milan, c'è stato il caso di Avellino. A Roma, invece, il reato è stato più sfuggente, perché si è trattato della diffusione di una notizia falsa, ma non di avere perpetrato, almeno sulla sospensione della partita, una violenza. Quindi, in quel caso è più difficile l'applicazione della legge.
Però, l'episodio di Avellino sarà pure un caso, ma è macroscopico, non solo


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perché è morta una persona, ma per ciò che è successo in campo. Anche lì la deterrenza non ha funzionato. Poi, per carità, ci sono le statistiche...

PRESIDENTE. Sì, è vero, deterrenza non vuol dire scomparsa del crimine.

ALESSANDRO VOCALELLI, Direttore del Corriere dello Sport-Stadio. È giusto che Calabrese parli dell'esempio dell'NBA, però credo che bisognerebbe recepire dall'NBA alcune regole riguardanti i livelli di competitività delle squadre, che permettano una concorrenzialità.

PRESIDENTE. Anche in quel caso, a lungo andare, sono sempre le stesse...

ALESSANDRO VOCALELLI, Direttore del Corriere dello Sport-Stadio. Sì, però funziona, ad esempio, la regola che chi vince il campionato compra l'ultima scelta. Cioè non c'è un monopolio del mercato come esiste adesso in Italia. Bisogna che ci diciamo anche queste cose. I colleghi ricordavano che esistevano sette sorelle. Ora sono diventate tre, quindi mi chiederei se è solo un caso. Io non credo che sia solo un caso che quattro delle squadre che stanno peggio dal punto di vista economico sono quelle che hanno provato a fare concorrenza alle prime tre. Evidentemente si sono rotte l'osso del collo per cercare di stare al passo.

GIOVANNI LOLLI. Senza fare il caso dell'NBA, in Inghilterra il rapporto finanziario tra la prima e l'ultima società è di uno a tre. In Italia è di uno a undici. Non serve, quindi, neanche fare riferimento all'NBA.

ALESSANDRO VOCALELLI, Direttore del Corriere dello Sport-Stadio. I diritti televisivi hanno in Italia una sproporzione molto maggiore che negli altri paesi. Anche la situazione del mercato in Italia è particolare. In altri paesi chi non vince ha diritto a comprare giocatori, mentre da noi chi vince compra tutto. A ciò si aggiunge la modalità di sottrarre giocatori al mercato ed alle platee dei tifosi tenendoli come ultime riserve.

PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE
DOMENICO VOLPINI

ALESSANDRO VOCALELLI, Direttore del Corriere dello Sport-Stadio. Avete detto tutto sulla questione degli stadi. Aggiungo soltanto che se, parlando del fenomeno calcio, ci soffermiamo sui doveri degli «scalmanati», mi sento di spendere due parole sui diritti dei tifosi «normali», che sono la stragrande maggioranza. Ho dei dubbi sul fatto che gli stadi odierni siano sufficientemente sicuri ed accoglienti. La civiltà di un paese si misura sul modo in cui argina i fenomeni di violenza ma anche su come si permette lo svolgimento della vita civile all'interno di uno stadio.
Per quanto riguarda gli arbitri, sono tra coloro che sostengono la necessità della designazione di Collina per la partita Milan-Roma, perché sono significative le storture del sistema cui ha accennato il direttore Calabrese con conflitti di interesse tra cariche e con controllori soggetti ai controllati.
Per concludere, si parla molto di regole nuove mentre penso che le regole già esistano e sarebbe sufficiente applicarle. Infine, anche nel mondo dello sport (probabilmente si tratta più di «poesia» che di una proposta concreta) sarebbe necessario giungere a rapporti e relazioni diversi, perché il calcio è diventato un terreno di scontri dialettici troppo forti.

SALVATORE NAPOLITANO, Pubblicista. Per quanto riguarda i diritti televisivi, l'onorevole Lolli mi ha tolto, diciamo così, le parole di bocca. Se non intendiamo prendere a modello il sistema americano, come sarebbe anche giusto, almeno ispiriamoci al sistema inglese.
Per quanto riguarda la multiproprietà, intendevo soltanto far notare una cosa. Le azioni del Perugia sono in mano alla Kilpeck Overseas Corporation e quelle del


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Catania alla Audette Holdings Corporation, quindi stanno in «paradisi fiscali». È giusto vietare le multiproprietà, ma bisognerebbe anche riuscire a controllarle. Per quanto riguarda la Sampdoria citata dall'onorevole Rusconi, l'azionista di maggioranza è la Weissberg, una società lussemburghese, il 50 per cento della quale è in mano ad una fiduciaria della Banca lombarda, con sede sempre in Lussemburgo. L'amministratore della società Weissberg è la Manacor S.A., che si trova sempre in Lussemburgo. Inoltre, anche il Napoli ha gli azionisti di maggioranza in Lussemburgo.

GIOVANNI LOLLI. Possiamo dire che il più bel campionato del mondo si svolge in Lussemburgo...

SALVATORE NAPOLITANO, Pubblicista. Per quanto riguarda il tetto agli stipendi, non abbiamo ricette. Il tetto può essere realizzato; dipende se l'obiettivo sia una competizione in cui le squadre che possano vincere non siano sempre le stesse. Se ciò è quanto si desidera, bisognerebbe trovare un modo per slegare le squadre dal portafoglio dell'azionista di maggioranza. La Lazio e la Roma hanno vinto, ma a prezzi disastrosi. La Fiorentina ed il Parma non sono neanche riuscite a vincere. La situazione è molto più grave per la Lazio, perché finché il presidente dell'Inter, Moratti, intende mettere personalmente 90 milioni di euro di ricapitalizzazione annui ed il presidente Berlusconi la propria quota, si tratta di soldi loro. Come faranno però i 70.000 piccoli azionisti della Lazio, ai quali la scorsa estate era stato detto che la squadra era salva ed ai quali, sei mesi dopo, sono stati chiesti 120 milioni di euro, oltre ai 110 dell'anno prima? Bisogna cercare di mettere regole, ma queste dipendono dall'obiettivo proposto.
Per quanto riguarda i bilanci, non sono necessarie altre regole essendo già sufficienti quelle esistenti. Vi è il codice civile, e chi non lo rispetta deve fallire. È sbagliato, come è accaduto l'anno scorso, approvare la «famosissima» legge n. 27 che ha violato le norme del codice civile. Lo sanno i parlamentari ed anche i dirigenti del calcio, ma si è sostenuto che nel frattempo si poteva applicare la legge e svalutare fino a quando il commissario Bolkestein non dicesse che la norma non deve essere applicata e poi si vedrà...
In relazione alla serie C, siamo partiti dal cuore del sistema e non vi siamo ancora arrivati. Non sappiamo dire nulla sulle affermazioni del presidente Macalli.
Per quanto riguarda la Covisoc, che sarebbe a posto, sarebbe utile chiedere, ma penso sia cambiato il presidente...

GIOVANNI LOLLI. Abbiamo audito sia il presidente nuovo sia il vecchio.

SALVATORE NAPOLITANO, Pubblicista. Proprio quando la Fiorentina è stata cancellata per 22 milioni di euro, la Covisoc accettava 267 milioni di euro di fideiussioni fatte in favore della Lazio da parte di Cirio Holding, Cirio Finanziaria e dal portafoglio personale del dottor Cragnotti e che fosse iscritto al bilancio della Lazio un credito verso l'erario di 17 milioni di euro sul presupposto che fosse successivamente approvato il piano di ristrutturazione ideato dal presidente Cragnotti stesso, che avrebbe diviso la società in quattro sub holding, piano che per essere approvato avrebbe avuto bisogno del cambiamento di due articoli delle norme federali. Il codice civile parla di un principio di prudenza, secondo il quale non si possono iscrivere crediti che non siano certi. La Covisoc ha iscritto persino un credito presunto.
Il 15 luglio l'aumento del capitale della Lazio realizzato da Cirio Holding arriva sui conti della società in tempo per farli esaminare dalla Covisoc e «ripartire» immediatamente verso il punto di provenienza. Poi la Covisoc dice che non vi sono problemi.


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MARCO LIGUORI, Pubblicista. È tutto scritto nei verbali del collegio sindacale della Lazio.

SALVATORE NAPOLITANO, Pubblicista. Non abbiamo inventato nulla.
Considerare i calciatori lavoratori autonomi sarebbe possibile per le serie A e la B, ma vi sono anche calciatori di serie C1 e C2 che non guadagnano abbastanza o addirittura nulla, date le difficoltà a cascata che si ripercuotono sulle società inferiori. Dubito che questa figura professionale possa essere inquadrata come lavoratore autonomo. Certamente, se prendiamo in considerazione Totti, questo giocatore è ormai una multinazionale, come tutti i fuoriclasse.
Per quanto riguarda la domanda sul rapporto tra patrimonio ed attivo patrimoniale, il patrimonio netto diviso l'attivo patrimoniale non deve essere inferiore a 0,10. Poiché dal punto di vista della contabilità l'attivo è uguale al passivo più il capitale netto, se quest'ultimo vale il 10 per cento dell'attivo vuol dire che i debiti sono il 90 per cento. Tutti i testi di economia aziendale sostengono che se una società ha il 33 per cento di rapporto si trova in situazione di squilibrio finanziario.

PIETRO CALABRESE, Direttore della Gazzetta dello sport. Ma la Covisoc sostiene che la norma è stringente.

GIOVANNI LOLLI. Anzi, che va tutto bene.

SALVATORE NAPOLITANO, Pubblicista. Hanno anche detto che sono molto più dure rispetto alle licenze UEFA.
In relazione alla proprietà degli stadi, come diceva il direttore Padovan, se manca la cultura dei dirigenti si può cercare di fare qualsiasi cosa, ma spenderanno tutti i soldi che incassano. Nel 1996 hanno richiesto al Parlamento di realizzare società a fini di lucro per non impedire i guadagni, affermando che il calcio fosse un prodotto venduto male e che sarebbe stata aperta la strada al guadagno di forti utili se fosse cambiato lo status giuridico.
Hanno varato solo il calendario delle prime dieci giornate per costringere il Governo dell'Ulivo appoggiato da Rifondazione comunista e ci sono riusciti. Il Governo di centrosinistra ha, secondo me, sbagliato a cedere al diktat, ma in Italia appena si muove il calcio chiunque cede, sempre. Anche il Parlamento ha ceduto lo scorso anno approvando la legge n. 27. Per fortuna non è passato l'orrido decreto cosiddetto spalma Irpef. Non ho quindi alcuna fiducia. Vi saranno più incassi provenienti dal merchandising ma saranno diretti a comprare un nuovo talento, ad esempio, a quaranta milioni di euro.
Anche con il flusso di diritti televisivi, le risorse sono state completamente spese. Nel 1980 si incassavano due miliardi di vecchie lire dai diritti televisivi e nel 2000 siamo giunti a mille miliardi. Non vi è settore dell'economia italiana che in questi venti anni abbia conosciuto un'espansione così travolgente. La crisi non è del prodotto che non si vende, ma del prodotto che non si sa gestire. Se si vuole essere aziendalisti, avendo chiesto le società per azioni a fini di lucro dovrebbero dimettersi e non prendere sei milioni di euro lordi per dieci mesi di stipendio, come il signor Baraldi che ha detto di aver salvato la Lazio mentre le ha fatto perdere 122 milioni di euro, a fronte di una perdita dell'anno precedente di 103.
Per quanto riguarda i procuratori, la GEA controlla di fatto il mercato. Il presidente della GEA è Alessandro Moggi, figlio del direttore generale della Juventus, Luciano Moggi. Fino all'anno scorso gli azionisti della GEA erano la signorina Chiara Geronzi, figlia di Cesare Geronzi, numero uno di Capitalia, la signora Francesca Tanzi, figlia di Calisto Tanzi, Andrea Cragnotti e così via. Da qualche mese l'azionariato è cambiato, c'era una fiduciaria che si chiamava Roma Fides che adesso non c'è più.
Due senatori leghisti hanno presentato un'interpellanza parlamentare nella quale


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chiedevano se dietro questa società si nascondesse il figlio del presidente federale Franco Carraro, cioè Luigi; l'interpellanza è stata reiterata, ma ora Roma Fides non esiste più. Uno dei nuovi azionisti della GEA si chiama Giuseppe De Mita ed è contemporaneamente il direttore generale della Lazio, oltre che socio della GEA dal maggio dell'anno scorso; inoltre, c'è un tale Oreste Luciani che abbiamo scoperto essere socio, insieme a Francesca Tanzi, di una piccola società di viaggi che si chiama Chiori, mentre la Tanzi non c'è più.

PRESIDENTE. Ringrazio i nostri ospiti ed i colleghi intervenuti. Dichiaro conclusa l'audizione.

La seduta termina alle 13,10.