X COMMISSIONE
ATTIVITÀ PRODUTTIVE, COMMERCIO E TURISMO

INDAGINE CONOSCITIVA


Seduta di mercoledì 16 gennaio 2002


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La seduta comincia alle 15,20.

(La Commissione approva il processo verbale della seduta precedente).

Sulla pubblicità dei lavori.

PRESIDENTE. Avverto che, se non vi sono obiezioni, la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso impianti audiovisivi a circuito chiuso.
(Così rimane stabilito).

Audizione di rappresentanti della Conferenza dei presidenti delle regioni e delle province autonome.

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sulla situazione e sulle prospettive del settore energetico, l'audizione di rappresentanti della Conferenza dei presidenti delle regioni e delle province autonome. Sono presenti il dottor Pietro Arduini, assessore alle finanze della regione Friuli-Venezia Giulia, il dottore Ugo Cavallera, assessore all'ambiente della regione Piemonte, il dottore Marco Gomboli, dirigente responsabile dell'ufficio energia della regione Toscana, la dottoressa Anna Maria Taselli, dirigente della regione Piemonte, l'ingegnere Mauro Berrettoni, dirigente dell'ufficio energia della regione Lazio, il dottore Giorgio De Rosa, direttore dell'ufficio di piano della regione Friuli-Venzia Giulia e il dottor Paolo Alessandrini, responsabile dei rapporti con il Parlamento della segreteria della Conferenza dei presidenti.
In rappresentanza della Conferenza dei presidenti delle regioni interverrà il dottor Cavallera, al quale do subito la parola.

UGO CAVALLERA, Assessore all'ambiente della regione Piemonte. Vi ringrazio per questa convocazione e per l'opportunità che ci avete dato, prima di tutto di consegnare un documento, redatto dal coordinamento degli assessori all'energia delle regioni italiane e delle province autonome, alla cui lettura rimando per approfondimenti maggiori. Chiedo scusa per l'assenza del collega Franci della regione toscana, che è il coordinatore degli assessori in materia di energia, ma è stato trattenuto da inderogabili ragioni in consiglio regionale.
Vi sono considerazioni che desideriamo svolgere sulle problematiche energetiche interessanti il nostro paese e, di conseguenza, ciascuna regione. Non si può non iniziare dalle situazioni riguardanti il settore elettrico, nel quale è in corso il processo di liberalizzazione conseguente al cosiddetto decreto Bersani ed anche in ossequio alle precise scelte politiche del paese e alle direttive dell'Unione europea.
Da parte delle regioni, soggetti che hanno sempre manifestato grande attenzione alla pianificazione dell'ambiente e del territorio, le problematiche energetiche si dovrebbero legare sempre di più e sempre meglio ad una programmazione di tipo complessivo, diretta a prevedere e garantire al sistema produttivo i necessari approvvigionamenti energetici ed al contempo a salvaguardare l'ambiente con scelte che riducano il più possibile l'impatto negativo. Nel documento abbiamo cercato di suddividere le problematiche relative ai tre comparti classici del campo elettrico: la produzione, il trasporto e la distribuzione dell'energia.


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Per quanto riguarda la creazione di un vero e proprio mercato non è sufficiente soltanto un provvedimento normativo, ma occorre una riorganizzazione complessiva. La liberalizzazione, sotto il profilo della produzione, determina che all'attenzione degli organi ministeriali e regionali (che concorrono alle istruttorie quando la potenza supera i 300 megawatt termici, al di sotto dei quali sono autonomi nelle decisioni) vi siano più di 120 richieste di insediamenti di nuove centrali di produzione termoelettrica. Nella mia regione abbiamo già avviato 12 o 13 procedure. Qualora le istanze dovessero essere tutte accolte, arriveremmo al raddoppio o alla triplicazione dell'attuale potenza installata, con una condizione abnorme. Tutto ciò è collegato alla strategia di liberalizzazione, per cui vi sono vari soggetti che ipoteticamente si presentano sul mercato della produzione e legittimamente chiedono di essere autorizzati all'installazione di nuovi impianti.
Vi sono carenze di fabbisogno che devono essere colmate, così come vi sono situazioni che, dal punto di vista del rendimento dell'impatto ambientale dell'attuale parco elettrico, ormai vetusto, richiedono una sostituzione. È noto che le tradizionali centrali termoelettriche raramente sono alimentate a metano con un rendimento del 30 per cento, mentre i nuovi impianti sono ipotizzati come centrali a ciclo combinato con un rendimento proprio del 53 per cento, e qualora dovessero essere abbinate anche a teleriscaldamento, il rendimento complessivo arriverebbe intorno al 70 per cento rispetto alla fonte primaria utilizzata. È una grossa opportunità dal punto di vista dell'efficienza energetica e dei costi dell'energia che deve essere garantita al sistema paese. È notorio che il costo odierno dell'energia utilizzata nella produzione risulta superiore in Italia rispetto ad altri paesi europei, nostri concorrenti. Inoltre dal punto vista ambientale aumentando il rendimento non può che verificarsi un miglioramento.
La proliferazione delle richieste ha imposto alle varie regioni di prendere alcune decisioni di orientamento per quanto riguarda la gestione delle istruttorie. Apro una parentesi precisando che le regioni, già da tempo, hanno adottato piani energetici - a volte piani energetici ambientali -, all'inizio improntati alle fonti rinnovabili, il campo d'azione primordiale - se così vogliamo dire - dell'ente regione e, dopo la legge Bassanini e la riorganizzazione dei compiti amministrativi, assumendo competenze concorrenti, per svolgere appieno il proprio compito. Essendo questa la fase del recepimento degli accordi di Kyoto - in proposito è stato presentato in bozza all'attenzione delle regioni da parte del Governo un provvedimento -, i rappresentanti delle regioni, in via autonoma, l'anno passato, si sono incontrati nella giornata mondiale dedicata all'ambiente, a Torino, sotto l'egida del presidente della Conferenza, Ghigo, ed hanno firmato l'impegno di redigere, entro il 2002, un piano energetico ambientale.
La necessità ora è di procedere nell'esame delle richieste di insediamento degli impianti di produzione di energia elettrica nel rispetto delle norme e delle valutazioni che devono essere effettuate, per inserire correttamente questi impianti nel tessuto locale. Mi riferisco alla rete elettrica a 380 mila volt, su cui bisogna riversare l'energia prodotta, ai metanodotti che devono alimentare primariamente l'impianto ed al territorio in cui devono inserirsi gli impianti, caratterizzati molte volte da esigenze di stabilimenti e di zone industriali. Gruppi imprenditoriali hanno presentato impianti di questo tipo, caratterizzati in buona parte anche da esigenze di autoproduzione o di autoproduzione e riversamento dell'energia prodotta sulla rete. Naturalmente, in qualche caso, trattandosi di grandi gruppi industriali, sono stati ipotizzati «vettoriamenti» tra il luogo di produzione e quelli di consumo. Per evitare l'assenza di criteri precisi sulla base dei quali decidere un approccio corretto e dare una risposta non discrezionale - si tratta di scelte di alta amministrazione che quindi richiederanno, alla fine, una valutazione complessiva da parte delle istituzioni - si è proposto al Ministero


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dell'ambiente e della tutela del territorio e a quello delle attività produttive un protocollo di intesa, sulla cui base stabilire una griglia per valutare le richieste. Pensiamo che questa intesa possa essere definita nell'ambito della Conferenza unificata, riguardando tali problematiche non soltanto le regioni, ma in buona parte dei casi le province, delegate ad esercitare funzioni in materia energetica ed ambientale, e soprattutto i comuni, poiché le problematiche che si aprono con i nuovi insediamenti sono molte.
Le regioni non intendono svolgere un ruolo semplicemente notarile, di soggetti che partecipano ad un'istruttoria, ma esercitare un'attività propulsiva; richiamando la nostra antica funzione di operare - limitatamente ma significativamente - nel campo dell'energia rinnovabile, abbiamo seguito le iniziative del Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio sotto questo profilo. Vi sono già obblighi di legge per cui i distributori dell'energia elettrica debbono acquisire il due per cento (con i famosi certificati verdi o quant'altro) dalle fonti rinnovabili e dalla carbon tax a molti altri finanziamenti provenienti dal ministero, vi sono stati interventi e programmi proseguiti in questi anni. Inizialmente, a livello promozionale era giustificato un intervento diretto del ministero, ma oggi, avuto riguardo all'assestamento di compiti e funzioni delle regioni e degli enti locali, sarebbe preferibile definire criteri, modalità e pacchetti di finanziamento sotto il profilo dell'energia rinnovabile e di finanziamenti anche per progetti sperimentali - come la diffusione del fotovoltaico - in sede centrale, riservando alla sede locale l'attuazione, a beneficio della tempestività della spesa e in ossequio ad un principio di sussidiarietà. Altra cosa è governare la questione delle centrali, trattandosi di impianti di grandi dimensioni, anche da 800 megawatt elettrici - il doppio circa di megawatt termici -, scelte quindi riguardanti una strategia complessiva del paese.
Per quanto riguarda il trasporto dell'energia, la rete di trasporto dell'energia elettrica è quella dell'ENEL. Oggi vi è una distinzione della funzione di governo affidata a GRTN, mentre la gestione è affidata a società dell'ENEL o a quant'altri siano proprietari di elettrodotti di alta tensione; vi sono anche problematiche legate alle interferenze di queste reti con i centri abitati o ad altre situazioni paesaggistiche, in cui sarebbe necessario effettuare interventi di risanamento. Le regioni hanno spinto il GRTN, lo stratega dello sviluppo della rete, sia internamente che a livello internazionale - non dimentichiamo la questione legata al mercato europeo dell'energia - ad occuparsi contemporaneamente dell'aspetto energetico e di quello ambientale. Vi sono già accordi precisi sottoscritti da regioni con il GRTN per fare la cosiddetta valutazione ambientale strategica di tutti i piani triennali di assestamento sulla rete, così da evitare, in un secondo momento, durante i progetti esecutivi, di trovare interferenze insormontabili e per puntare alla pulizia del territorio nel senso di una razionalizzazione della presenza degli elettrodotti. Poiché il processo di liberalizzazione è in corso, aumenta la responsabilità dell'ente territoriale, del decisore pubblico che deve, attraverso concessioni ed autorizzazioni, imporre anche determinati comportamenti.
Stessa attenzione da parte delle regioni viene posta per quanto riguarda il comparto gas. Il collega Arduino potrà fornire un eventuale intervento integrativo, così da delineare il quadro completo della situazione delle regioni.
Assicurata la liberalizzazione nel campo della produzione con scelte - mi auguro - giuste, dal punto di vista quantitativo e della localizzazione, assicurato un idoneo trasporto, cioè una rete nella quale tutti possono immettere o prelevare secondo le esigenze dei vari comparti produttivi e dei vari territori, evitando che l'energia possa diventare una strozzatura o un vincolo per eventuali politiche di sviluppo, rimane alla sede locale la problematica relativa alla distribuzione. In questo campo hanno già operato i comuni e le grandi municipalizzate, ma le regioni possono svolgere un ruolo maggiormente incisivo. I piani energetici ambientali regionali


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che saranno approvati entro l'anno - che invieremo rapidamente per conoscenza alla Commissione - saranno esaustivi di tutte le problematiche del campo energetico e ambientale, comprese le questioni legate all'inquinamento, alla situazione dei trasporti, alla qualità dell'aria, puntando su una modalità sostenibile e su un approccio maggiormente innovativo anche nel comparto degli impianti di riscaldamento. Ci auguriamo che questo comparto possa avere giovamento, grazie alle ipotesi di teleriscaldamento e cogenerazione, proprio dalla realizzazione di nuovi impianti cosiddetti a ciclo combinato.

PIETRO ARDUINI, Assessore alle finanze della regione Friuli-Venezia Giulia. Sono perfettamente in sintonia con quanto detto dal collega Cavallera. Vorrei soltanto aggiungere che la regione da me rappresentata, con le richieste di nuovi insediamenti, arriverebbe ad una produzione di energia pari a due volte il nostro fabbisogno.
La regione Friuli-Venezia Giulia ha anche redatto un documento, che consegnerò alla Commissione.

STEFANO SAGLIA. Ringrazio i rappresentanti della Conferenza dei presidenti delle regioni e delle province autonome che ci consentono di affrontare un aspetto piuttosto controverso nell'ambito della nostra indagine conoscitiva. Nelle audizioni precedenti, da parte di operatori di vario genere, vi sono state notevoli perplessità - che mi permetto di riprendere nelle mie considerazioni - sull'individuazione nella riforma costituzionale di una possibile legislazione concorrente in campo energetico. Non credo che sia il caso, oggi, di ipotizzare una rivendicazione di competenze; tuttavia da parte della Commissione vi è la necessità di comprendere, al di là dell'attuale impasse di interpretazione della riforma, quali siano i benefici effettivi che secondo le regioni potrebbero derivare da una potestà legislativa concorrente (quindi anche regionale). Dobbiamo capire quale effettiva applicazione della riforma debba essere realizzata. È difficile individuare una legislazione che non sia di ordine nazionale nel settore energetico, dove la dimensione con cui ci confrontiamo è sempre più di carattere europeo ed internazionale. Ci servono elementi di analisi per capire la ratio che ha ispirato questa decisione e come secondo le regioni possa essere esercitata per favorire gli obiettivi di liberalizzazione del mercato, di contenimento delle tariffe ed una gestione del sistema energetico maggiormente compatibile con il nostro sistema produttivo.
La seconda domanda è relativa all'impegno della costruzione dei piani energetici regionali, già previsti nelle leggi di attuazione delle direttive europee. Ad oggi, quante regioni sono già riuscite a produrre un documento di pianificazione regionale? Ho avuto modo di sfogliare il piano energetico del Piemonte, presentato l'anno passato nel corso di un convegno nazionale, ma non sono a conoscenza di altre iniziative che sicuramente saranno state effettuate.

ERMINIO ANGELO QUARTIANI. L'incontro con i rappresentanti della Conferenza permette di affermare nuovamente un punto importante di riferimento nella materia oggetto dell'indagine conoscitiva relativo al quadro cui deve tendere l'insieme dell'impianto e delle istituzioni sia a livello statale e regionale, sia locale, cioè il fatto che ci troviamo all'interno di un processo di liberalizzazione che non è lo sfondo del palcoscenico, ma il palcoscenico stesso e insieme l'obiettivo da raggiungere. Il problema è come l'insieme delle forze che operano nel mercato e dei responsabili a livello legislativo ed esecutivo, si rapportano al quadro ed all'obiettivo medesimo. La priorità non è tanto la ridefinizione o la riattribuzione di funzioni all'interno di un conflitto - che non si vuole assolutamente determinare -, ma il tentativo di costruire nuove condizioni per una collaborazione nell'ambito del settore energetico tra i diversi enti ai vari livelli.
Leggo nel documento consegnato alla Commissione da parte degli auditi un riferimento interessante alla cabina di regia,


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che deve essere attivata rapidamente. Dev'essere chiaro l'obiettivo, perché se la priorità dovesse diventare la questione della riattribuzione delle funzioni, il conflitto conseguente ingenererebbe, anche sul piano del mercato, un impatto negativo sugli stessi processi di liberalizzazione e del rapporto che intercorre tra il processo di liberalizzazione italiano e le altre nazioni.
Faccio un esempio relativo all'utilizzo delle fonti rinnovabili: trovo giusto che si richiedano maggiori incentivi, anche perché vi sono obiettivi europei definiti da raggiungere, direttive e disposizioni da osservare. Si tratta di individuare le risorse che mettiamo in campo, se esse devono derivare da impegni a livello centrale o se possono essere reperite anche a livello locale.
Per quanto riguarda i riferimenti al gestore della rete ed all'Autorità - contenuti nel suddetto documento - dobbiamo essere consapevoli del fatto che non si può in alcun modo rinunciare al ruolo del gestore della rete nazionale e dell'Autorità di regolazione. La tariffa non è una questione che si può disciplinare in relazione alle condizioni specifiche dei territori, ma ha una valenza nazionale, perché è il risultato di una serie di impegni complessivi; infatti quanto più diminuisce l'impatto sull'utenza - anche dal punto di vista dei prezzi - tanto più si va incontro ad un processo di liberalizzazione il cui obiettivo è sempre (e non può che rimanere questo) quello di avere al centro l'utente non solo civile, ma anche quella diretta alla produzione ed allo sviluppo complessivo dell'economia del paese.

LUIGI D'AGRÒ. Il nostro paese dimostra talvolta di avere nelle forme istituzionali difficoltà a trovare il vestito giusto per ogni occasione. Nei panni degli amministratori regionali si chiedono competenze, si rivendicano ruoli e si manifestano aspettative di un certo tipo per regolamentare il territorio; nella qualità di parlamentari si intende rivedere tutta la situazione, per sostenere che l'accentramento è l'unica valvola di salvezza per sistemare l'insieme in maniera uniforme.

PRESIDENTE. Lei che ha svolto ruoli sia a livello locale, sia parlamentare, può bene rappresentare una sintesi dei vari interessi in campo.

LUIGI D'AGRÒ. Anche lei, presidente, ha abbondantemente svolto tali funzioni a livelli di responsabilità ben più alti dei miei.
Il tratto che dobbiamo chiarire è se, in questo processo di liberalizzazione e privatizzazione del sistema energetico italiano, vi sia la possibilità di avere tutte le forme istituzionali che concorrono ad un unico obiettivo: quello di essere autosufficienti con costi energetici contenuti.
Non intendo entrare nel merito se sia giusto o meno demandare competenze alle regioni. Quando i rappresentanti di due regioni presenti in questa audizione sostengono che la propria regione è abbondantemente autosufficiente o meglio ancora esporta energia in altre parti del paese, se fossi amministratore regionale chiederei che la localizzazione di nuovi impianti avvenisse nella forma più corretta, tenendo presente il problema delle reti di trasmissione. Il fatto è che non vorremmo che da parte delle regioni il problema fosse visto soltanto ed esclusivamente sotto l'aspetto ambientale. Altrimenti i vestiti non sarebbero più portati nella maniera giusta: non deve verificarsi un arroccamento su posizioni che, pur rivestendo un ruolo, una competenza ed una valenza sul piano politico importantissima, rischiano di non arrivare a definire l'obiettivo importante della competizione e della competitività che il nostro paese deve svolgere anche nel mercato dell'energia nei confronti delle altre nazioni europee.

VALTER ZANETTA. L'intervento del dottor Cavallera ha espresso, nelle valutazioni sulle richieste giacenti da esaminare, un imbarazzo da parte delle regioni ad affrontare il problema relativo all'iter autorizzativo ed all'entità delle richieste stesse. L'assessore della regione Friuli-


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Venezia Giulia accennava al fatto che, nella propria realtà, è stata segnalata una richiesta doppia rispetto alla produzione e penso che questa sia la condizione anche di altre regioni. Il dibattito in Commissione deve portarci ad affrontare le tematiche già illustrate dai colleghi per capire se determinate responsabilità debbano tornare a livello nazionale. Durante l'iter di approvazione della legge obiettivo, alcuni di noi hanno chiesto che gli elettrodotti - e lo sblocco di talune situazioni relative - potessero essere contemplati all'interno della stessa legge obiettivo; il concetto che determinate opere ed impianti utili per una risposta alle esigenza energetica debbano trovare iter celeri, è un'esigenza (almeno per quanto riguarda gli aspetti energetici), condivisa da tutta la Commissione. Non abbiamo un approccio di contrapposizione, siamo disponibili ad accettare suggerimenti (come è stato manifestato dalla «calendarizzazione» delle audizioni), così da formulare proposte positive e varare il decreto «sblocca centrali». Se giungono suggerimenti in questo senso da parte delle regioni, sono bene accette.
Vorrei introdurre un tema relativo alla regione Piemonte, ma di rilevanza nazionale: il sito nazionale per il deposito delle scorie. Si tratta di una questione che riguarda tutti, anche la stessa tariffa elettrica. È necessario individuare un sito nazionale anche attraverso un provvedimento specifico (era stato suggerito di inserirlo nella stessa legge obiettivo). Il problema affrontato in Piemonte per i depositi delle scorie di Trino e di Saluggia ha trovato qualche indicazione. Sottolineo il tema in questo momento, perché la dismissione dal nucleare dovrà essere esaminata e in proposito chiedo al presidente di prendere in considerazione lo svolgimento di un'audizione con la SOGIN del Ministero dell'economia e delle finanze, che ha in carico tale funzione molto importante per le zone dove il problema esiste.

SERGIO GAMBINI. Ringrazio anch'io i rappresentanti della Conferenza, per il contributo portato alla nostra indagine conoscitiva. Abbiamo ormai un quadro piuttosto avanzato di conoscenza, che ci permette di sostenere che la situazione è abbastanza grave e preoccupante per ciò che riguarda la disponibilità di energia nel nostro paese. Possiamo considerare l'apertura del mercato e la liberalizzazione come un processo non ancora soddisfacente, ma che ha segnato alcuni passi significativi - in Italia anche più accelerati rispetto ad altri paesi europei, da cui deriva la richiesta di una maggiore armonizzazione di tali processi -; però per quanto riguarda gli aspetti di autonomia nella disponibilità di energia, il quadro nel nostro paese è preoccupante. Siamo, nell'ambito dei grandi paesi del continente, quello con la maggiore dipendenza e con la minore disponibilità di fonti autonome. Da ciò deriva l'insistenza della discussione con i rappresentanti delle regioni su questo punto: il grande tema è come riuscire nei prossimi anni e in tempi abbastanza rapidi - poiché la dipendenza appare più drammatica nel breve tempo, come è stato detto anche negli ultimi incontri - a costruire nuove centrali per raggiungere una maggiore autonomia.
Le difficoltà incontrate sono state spiegate anche dal ministro Marzano. Vorrei cercare di capire se le regioni ritengano necessario un preciso iter di natura legislativa o se reputino sufficiente sciogliere attraverso indirizzi e l'intervento della cabina di regia i problemi relativi alle attribuzioni che spettano allo Stato ed alle regioni, avendo come punto di riferimento questa difficile situazione. È importante sapere cosa pensano le regioni su questo aspetto perché fa parte delle indicazioni che dovranno essere acquisite nel documento conclusivo dell'indagine conoscitiva. Riassumendo, le regioni ritengono necessaria una legge-quadro oppure possono essere messi in campo altri strumenti?

PRESIDENTE. Nel ringraziare i colleghi intervenuti, invito gli assessori regionali a fornire i chiarimenti e le precisazioni richieste.


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UGO CAVALLERA, Assessore all'ambiente della regione Piemonte. Ringrazio anch'io gli onorevoli deputati intervenuti, perché ci consentono di svolgere alcune ulteriori considerazioni. La cabina di regia è stata proposta dal presidente della Conferenza delle regioni, perché, non tanto ai massimi livelli istituzionali, quanto al livello della burocrazia è stata riscontrata una volontà diretta non a comprendere il nuovo disegno derivante dalla Carta costituzionale rinnovata, ma ad intraprendere una strada di rivendicazionismo «spicciolo» sulla singola funzione, che avrebbe portato alla paralisi. Le regioni hanno la volontà e l'interesse a condividere la fase di attuazione del nuovo titolo V della Costituzione seguendo i percorsi ritenuti più utili agli interessi generali del paese. Non ne facciamo assolutamente una questione di «sindacalismo istituzionale», perché sappiamo che, quando si assume una responsabilità, bisogna essere in condizione di assolvere la funzione assegnata.
Devono esserci alcuni punti fermi - in primo luogo la Costituzione - perché non sarebbe utile rimettere in discussione tutto. La questione è la ricerca di coerenza nelle varie norme innovative varate. L'interpretazione estensiva del principio della tutela ambientale potrebbe portare al fatto che altre competenze in materia di governo del territorio non vengano più intese come competenza concorrente, bensì ascritte alla competenza esclusiva dello Stato. Penso che non sia così: ognuno deve fare il proprio mestiere. Vi sono direttive europee a cui improntare le nostre azioni. Auspichiamo che vi sia una legislazione nazionale che tracci indirizzi chiari, precisi e vincolanti per tutti ed un'azione di programmazione e pianificazione. Quando le regioni richiedono la cabina di regia è perché in quella sede, con la condivisione, è possibile evitare motivi di conflitto. Le regioni non hanno intenzione di risolvere le questioni attraverso il contenzioso. Voglio anche ribadire - come è stato precisato in varie occasioni dal presidente Ghigo - che la cabina di regia è un luogo fondamentale per tracciare in questa nuova fase un percorso. È utile per tutti completare i primi lavori al più presto, ipotizzando un testo normativo di carattere generale che raccordi il corpo normativo nel frattempo costruito anche a livello locale. Intendiamo la potestà legislativa concorrente nel vero senso del termine: fermi restando gli indirizzi che competono al livello di riferimento, la parte attuativa spetta alle regioni.
Nessuna regione a statuto ordinario ha energia da vendere. Ad esempio, il Piemonte, per una serie di questioni storiche, è carente per più del 50 per cento del proprio fabbisogno. Esisteva un compartimento ENEL di Torino che raggruppava Piemonte, Liguria e Valle d'Aosta; le centrali idroelettriche si trovavano in Piemonte e in Valle d'Aosta e quindi per gli approvvigionamenti di gasolio, di olio combustibile, furono costruite le centrali in Liguria. Oggi che ci dirigiamo verso l'autosufficienza regionale, il Piemonte è una realtà industrializzata che vede con seria preoccupazione la situazione. Occorre pensare immediatamente ad un approccio relativo ai nuovi insediamenti, in modo tale da valutare tutte le conseguenze ambientali, territoriali e sociali, anche grazie all'esperienza maturata in questi anni con la legge regionale sulla VIA (valutazione di impatto ambientale), che in molte regioni ha funzionato, consentendo di installare gli insediamenti. Quando vi è una valutazione di impatto ambientale di rilievo nazionale, entro 90 giorni usualmente la nostra giunta regionale, sentiti gli enti locali, risponde alla commissione nazionale VIA. In materia energetica non vi sono preoccupazioni poiché chi ha la capacità di decidere se insediare o meno un impianto è la suddetta commissione, cioè il Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio. Trattandosi di impianti superiori ai 150 MW elettrici - vale a dire 300 megawatt termici - i destini del nostro paese verranno decisi in quella sede. Quando, nel 1997, si discuteva il decreto legislativo n. 112 del 1998, eravamo favorevoli a che gli elettrodotti superiori ai 150 mila volt e le centrali termoelettriche superiori a 300 MW termici rimanessero di competenza dello Stato.


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Il problema, attualmente, è agire, aprire una fase in cui divenire fattivi; le norme ci sono, servono nuovi accordi. Quando abbiamo posto la questione al Ministero delle attività produttive ed al Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio su quali criteri usare per scegliere tra centoventi proposte di istituzione di centrali, la domanda non ha ricevuto risposta. Noi abbiamo concorso a costruire la risposta, formulando proposte, già discusse anche con il Ministero delle attività produttive, per arrivare a creare una griglia necessaria per la scelta, ad esempio selezionando il progetto di migliore qualità, che fornisce anche teleriscaldamento e quindi aumenta l'utilizzo dell'energia primaria o il progetto che si inserisce in grossi centri di industrializzazione, servendo con minori costi di trasporto il sistema produttivo. Questo è il nostro lavoro quotidiano: riceviamo tutti i giorni sollecitazioni da associazioni rappresentative di interessi diffusi in campo produttivo (l'unione industriali, la federazione regionale degli artigiani, la Confagricoltura ed altre) ed è necessario decidere. Noi vorremmo giungere ad una soluzione insieme allo Stato anche perché sarebbe giusto che i proponenti fossero avvisati prima di quali siano i criteri di scelta. Auspico pertanto che vi sia una fase di grande cooperazione con il Governo.
Per quanto riguarda il livello legislativo ho colto una grande attenzione alla necessità di trovare un giusto equilibrio tra le competenze dei vari livelli, nell'ambito del quadro normativo esistente. Le questioni relative al regolamento, che deve essere calibrato tenendo conto del titolo V della Costituzione, vengono affrontate per evitare conseguenze sugli atti amministrativi di autorizzazione (come i ricorsi al TAR da parte di soggetti locali). Se non si danno quadri normativi coerenti si rischia di dover ricominciare la procedura da capo.
Per quanto riguarda la ricostruzione post alluvionale del 1994 sono stati investiti, in pochi anni, 9 mila miliardi con progetti autorizzati anche dalla conferenza dei servizi.
Deve essere messa in risalto un'altra questione: abbiamo sospeso talune autorizzazioni, cui non è seguita la realizzazione dell'impianto. Per anni abbiamo discusso sulla necessità di realizzare in Val di Susa un nuovo elettrodotto con la Francia. Abbiamo ottenuto la valutazione di impatto ambientale positiva per questo nuovo progetto, ma non è stato realizzato nulla, perché non si sapeva chi fosse responsabile; oggi finalmente facciamo riferimento al GRTN. Allo stesso modo - come sa l'onorevole Zanetta - abbiamo autorizzato un metanodotto nuovo per potenziare l'approvvigionamento della pianura padana (passo san Giacomo Mortara) e stavamo per autorizzare un nuovo elettrodotto: non sarà fatto più nulla. Il problema però non è il freno posto dalle regioni, perché l'energia è un tema molto delicato e di grande sensibilità, che riguarda tutti, cominciando da chi è più vicino al territorio. Oggi che le centrali moderne di ciclo combinato consentono rendimenti alti e che le nuove normative europee - per fortuna - hanno imposto investimenti colossali per tutti i produttori ed installatori di impianti con emissioni contenute anche misurabili istantaneamente e con la possibilità di monitoraggi diretti da parte delle comunità locali, non si pongono problemi. Bisogna individuare i soggetti e le risorse per gli investimenti, atteso che vi sarà un vantaggio anche per la tariffa che, proprio perché si basa su impianti nuovi di più alto rendimento e nuova concezione, dovrebbe essere più contenuta.
Per quanto riguarda l'accenno fatto dall'onorevole Zanetta sul nucleare, al di là del dibattito relativo alla fuoriuscita dal nucleare, il problema della dismissione di vecchie centrali deve essere affrontato. Devo dare atto al ministro Bersani del lavoro svolto anche con l'appoggio delle regioni. L'intervento in materia di messa in sicurezza di questi siti nucleari in via di dismissione, non più attivi, è partito da un accordo tra Stato e regioni, dove è stata definita la procedura. Ricordo incontri al Ministero dell'industria con gli abitanti della zona intorno a Caorso, con gli stessi


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sindacati dei lavoratori e le rappresentanze di Trino Vercellese, che non volevano che fosse avviato un intervento di solidificazione dei rifiuti liquidi ad alta radioattività oppure di concentrazione di questi rifiuti all'interno di contenitori di acciaio ad alta resistenza. A livello nazionale, oggi, è stata costituita la SOGIN; quindi vi è un finanziamento assicurato, pluriennale, ma l'importante è che la questione sia avviata.
Per quanto concerne l'individuazione del sito nazionale, abbiamo la prospettiva di mettere in sicurezza i rifiuti radioattivi residui delle centrali dismesse entro pochi anni. Qualche difficoltà maggiore vi sarà a Saluggia, dove vi sono circa 200 metri cubi di rifiuti liquidi ad alta radioattività che durante la passata alluvione hanno destato molta preoccupazione. È una situazione di competenza dell'ENEA; nel frattempo, l'Autorità di bacino ha disposto la realizzazione di una grande arginatura.
Cito questi fatti per mettere in risalto che senza una cooperazione tra livello ministeriale e locale, quando si deve agire sul territorio non si raggiungono risultati in tempi brevi. In moltissime regioni la cooperazione è divenuta una norma e non è il caso di scardinare un equilibrio costituzionale raggiunto. Noi siamo pronti a tutte le valutazioni ed a tutti i confronti con le comunità locali ed a cooperare affinché si raggiunga questo scopo. Abbiamo solo chiesto come si possa dare una risposta seria che individui quali criteri utilizzare per scegliere fra le proposte ricevute, quante centrali sono necessarie, le dislochi sul territorio e le faccia entrare in funzione nell'arco di qualche anno.

PRESIDENTE. Ringrazio l'assessore Cavallera e gli altri ospiti intervenuti. Mi sembra che le sollecitazioni provenienti dai colleghi siano state raccolte.
Dichiaro conclusa l'audizione.

La seduta, sospesa alle 16,25, è ripresa alle 16,40.

Audizione di esperti del mondo accademico e della ricerca scientifica e tecnologica: professor Alberto Clô e professor Fabio Pistella.

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sulla situazione e sulle prospettive del settore energetico, l'audizione di esperti del mondo accademico e della ricerca scientifica e tecnologica: professor Alberto Clô e professor Fabio Pistella.
L'incontro di oggi è particolarmente importante considerata la rilevanza culturale ed accademica degli auditi per quanto riguarda il settore energetico. Siamo molto onorati della loro presenza e sono convinto che si tratterà di un'audizione essenziale per la nostra indagine conoscitiva.
Il professor Clô insegna presso l'Università di Bologna ed è stato ministro dell'industria, mentre il professor Pistella è stato direttore generale dell'ENEA ed attualmente insegna presso l'Università di Roma 3. Gli ospiti di questa sera, a differenza di altri auditi, sono oltre che esperti, osservatori terzi, ed hanno dedicato il proprio impegno professionale all'approfondimento dei temi oggetto dell'indagine conoscitiva senza rappresentare interessi specifici: possiamo affidarci alla loro scienza ed al loro contributo con grande libertà.
Do ora la parola al professor Clô, cui seguirà l'intervento del professor Pistella.

ALBERTO CLÔ, Professore in economia industriale presso l'Università di Bologna. Ringrazio il presidente e i membri della Commissione per l'invito rivoltomi. Non si tratta di un ringraziamento retorico, perché non soltanto mi avete offerto l'opportunità di dare il mio contributo all'indagine conoscitiva in corso, ma anche di rientrare, dopo sette anni, in quest'aula, dove ho passato una parte breve ma rilevante della mia vita, incentrata su due decisioni, che hanno avuto grande rilievo: l'approvazione della legge 14 novembre 1995, n. 481, che istituiva l'autorità di regolamentazione, e della direttiva elettrica.


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Senza indulgere a retorica, ritengo che l'indagine conoscitiva sia di grande rilevanza, tempestiva, opportuna ed indispensabile: tempestiva in quanto siamo alla vigilia di decisioni molto importanti, come l'avvio del negoziato per la fase due delle direttive europee, il cammino normativo per rispettare gli accordi sottoscritti a Kyoto, la privatizzazione di ENI ed ENEL e, non ultimo, la ridefinizione di poteri e ruoli tra Stato e territorio; opportuna perché - mi sembra di averlo letto anche in buona parte delle altre audizioni - uno dei suoi obiettivi è quello di fare il punto sui processi di riforma avviati negli ultimi anni (cioè se questi stiano dando gli esiti attesi e, in caso contrario, individuarne le cause e le soluzioni); è infine indispensabile per ridare alla politica il ruolo e la sede che dovrebbero competerle nell'ambito della materia energetica.
Nello scrivere queste riflessioni, mi sono appuntato un editoriale pubblicato sul The Economist - giornale che non può essere certamente accusato di interventismo o dirigismo - del 15 dicembre 2001, che iniziava con queste parole: «Se l'11 settembre ha realmente cambiato il mondo, una cosa su tutte ha cambiato: come l'occidente ed in particolare gli Stati Uniti dovrebbero considerare l'energia». Se ciò è vero per gli altri paesi - ed io lo ritengo vero -, a maggior ragione dovrebbe esserlo per l'Italia. La domanda che dobbiamo porci è come si rapporta il nostro paese a questo tema dopo l'11 settembre. Penso sia compito precipuo della politica tenere conto della dimensione polivalente della questione energetica, dei problemi che oggi e in prospettiva pone e delle possibili soluzioni con cui affrontarli.
Nel predisporre analisi al riguardo, vi è una questione di metodo che mi permetto di sottoporvi. Qualsiasi discorso di analisi, proposte e prospettive deve tenere conto di due fattori: da un lato, quali sono le condizioni specifiche del nostro paese, peraltro non paragonabili a qualsiasi altro paese (e condizioni specifiche non possono che richiedere soluzioni specifiche); dall'altro lato - questione pregiudiziale - bisogna rispondere a tre domande, rispetto alle quali essere poi coerenti nelle decisioni che si intraprenderanno. Possono sembrare domande retoriche, pleonastiche, ma non lo sono affatto, perché al fondo di molte posizioni odierne vi è implicita una risposta di un certo tipo. In primo luogo occorre domandarsi se l'energia è un bene non paragonabile ad altri e quindi se ha una strategicità ed essenzialità, che - ripeto - non consentono di assimilarla ad altri beni o servizi; in secondo luogo, se si ritenga che la scelta ineludibile ed inevitabile del mercato e della concorrenza sia sempre e comunque in grado di tenere conto di tali ragioni; in terzo luogo, per conseguenza logica rispetto alle risposte date alle prime due domande, se si ritengono necessarie adeguate e moderne politiche pubbliche - sottolineo sia adeguate sia moderne politiche pubbliche - anche in contesti orientati al mercato. Di tale necessità sono fermamente convinto, anche se - è inutile negarlo - il pensiero prevalente oggi (o, comunque, le scelte di fatto portate avanti) non danno una risposta di segno positivo. Su Il Sole 24 Ore vi è un interessante articolo, in cui si sostiene che l'energia non ha ragioni di carattere strategico, tali da richiedere una difesa sul piano nazionale, a riprova del fatto che la risposta a queste domande non è affatto scontata.
Resto convinto della necessità di fornire una risposta positiva alla terza domanda - se siano cioè necessarie adeguate e moderne politiche pubbliche - anche se sono consapevole di due fatti, che non contraddicono questo mio convincimento, ma lo rendono problematico. Il primo è la difficoltà a disegnare nuove politiche energetiche rivolte al sistema energetico nel suo assieme e nuove politiche industriali di supporto alle industrie energetiche; sono consapevole - ripeto - dell'estrema difficoltà di attuare tali politiche in concreto. Il secondo è la convinzione che tali politiche non possono avere - come un tempo - respiro di carattere nazionale, ma debbono necessariamente collocarsi in ambito europeo, anche se ciò non riduce affatto il costo degli aggiustamenti che si impongono.


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La difficoltà delle moderne politiche energetiche è dovuta al fatto che esse non dispongono più degli strumenti di un tempo - le imprese pubbliche, gli aiuti di Stato, i monopoli, la programmazione e quant'altro - e vanno completamente reinventare. È necessaria una politica energetica - lo dico come premessa per non essere accusato di dirigismo - che sappia rifuggire da tentazioni neodirigiste ed avvalersi di strumenti economici compatibili con il mercato, che la moderna regolazione mette oggi a disposizione. D'altra parte, se il primo atto dell'amministrazione Bush, nell'aprile scorso, fu di presentare al Congresso un nuovo piano energetico nazionale e se i primi atti dell'amministrazione di Tony Blair furono diretti a reimpostare la politica energetica - si tratta di due paesi in cui il ricorso al mercato è fuori discussione -, evidentemente vi è la possibilità di fare politiche industriali adeguate.
Senza andare negli Stati Uniti o in Inghilterra, è molto significativo il fatto che, negli ultimi anni in Europa, politiche industriali pragmatiche, assolutamente discrete, che non si esprimevano attraverso gli strumenti di un tempo, abbiano avuto come obiettivo unico quello di rafforzare l'industria nazionale. I modelli di riforma e di recepimento delle direttive relative sia al settore elettrico che a quello del gas sono molto diversi; penso, ad esempio, alla Germania, al Belgio o ad altri paesi, ma infatti emerge come obiettivo un unico comune denominatore: rafforzare le industrie nazionali. In quattro o cinque anni, è avvenuta una rivoluzione dei sistemi industriali ed energetici europei a seguito della liberalizzazione, nel senso però di una concentrazione ed un rafforzamento delle industrie nazionali in vista di una competizione che, inevitabilmente, sarebbe stata continentale e non nazionale. La fase due delle nuove direttive sarà quella di rendere ancor più rilevante il mercato continentale. Può apparire un paradosso, ma non lo è; come ha affermato un economista americano la concentrazione è il paradosso delle liberalizzazioni. Oggi la dimensione - insieme alla concentrazione - è diventata l'arma della competizione; nella prospettiva di un mercato unico europeo, verso cui irreversibilmente siamo diretti, la dimensione piccola è destinata inevitabilmente a soccombere.
Difendere le ragioni della politica non significa negare né le ragioni del mercato né quelle della concorrenza, ma, in primo luogo, ricondurre - riprendo l'accenno fatto all'inizio - alle sedi istituzionali proprie (Parlamento e Governo) scelte politiche che in questi anni sono mancate, sono state disattese, oppure sono state adottate da chi non ne aveva titolo. Faccio un esempio scevro da qualsiasi intenzione polemica, anzi esprimo simpatia e stima verso il lavoro svolto dall'Autorità per l'energia ed il gas. Eliminare la tariffa unica, deliberata in più leggi, o rivedere le tariffe sociali sono scelte assolutamente condivisibili sul piano della razionalità economica, ma - a mio avviso - attengono alla sfera della politica e non a quella dell'amministrazione. La legge 14 novembre 1995, n. 481, al riguardo, è molto precisa: l'Autorità ha una responsabilità di carattere amministrativo che non può non rimandare a linee di indirizzo politico. Queste, in parte, non sono intervenute e ciò ha portato l'Autorità (giocoforza perché doveva adottare le proprie deliberazioni) a svolgere un'azione suppletiva di ruoli che avrebbero dovuto spettare al Governo.
Riprendere il filo della politica energetica significa, in primo luogo, dare una definitiva chiarezza all'assetto istituzionale, in modo tale da stabilire chi sia demandato a fissare le regole del gioco, le linee di indirizzo politico, e chi a farle rispettare nella piena osservanza di quella separatezza della funzione politica da quella tecnico-amministrativa, che è l'aspetto più qualificante e più innovativo della legge n. 481, che continuo a considerare buona, anche se finora ha ricevuto solo una parziale applicazione.
Una nuova politica significa, in secondo luogo, rendere espliciti e sovraordinati rispetto ai soggetti decisori gli interessi generali che si vogliono perseguire e tutelare - sia a livello nazionale sia su scala


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locale - le linee di indirizzo politico con cui si intende farlo. L'individuazione degli interessi generali e delle linee di indirizzo politico non possono non partire dall'obiettiva analisi della situazione in cui ci troviamo, dalle condizioni davvero critiche del nostro sistema energetico. Se non sapremo fronteggiare, come paese, tali condizioni critiche la conclusione sarà preoccupante: il rischio è che l'energia costituisca nei prossimi anni un fattore di penalizzazione della nostra economia in termini di competitività, di crescita, di occupazione e, soprattutto, di squilibri territoriali. Oggi il Mezzogiorno sta soffrendo realmente di uno svantaggio infrastrutturale e l'energia costituisce, di fatto, un vincolo alla localizzazione di nuove attività produttive.
Facendo chiarezza su tali condizioni e sulle conseguenze che ne potrebbero derivare, è possibile conseguire quella consapevolezza e quel consenso generali necessari per il successo di ogni azione di risposta. Bisogna superare falsi miti e false illusioni: in primo luogo che problemi così complessi possano avere semplici soluzioni; in secondo luogo che il mercato e la concorrenza siano comunque e sempre la panacea di tutti i mali - pur avendo sostenuto che si tratta di scelte ineludibili - e in terzo luogo che l'interesse locale possa prevalere su quello generale, nell'illusione che alla fine non si paghi un costo, mentre il conto sarà molto più elevato.
Il punto da cui partire - è stato richiamato in più occasioni e lo richiamo anch'io perché ovvio, ma trascurato nelle sue implicazioni - è l'assoluta rigidità che deriva al nostro sistema energetico dal suo sempre più forte ancoraggio al petrolio ed al metano. È questo fattore che condiziona più di tutto la struttura dei nostri costi e prezzi energetici e che avvilisce la nostra competitività. Il balzo di tre volte dei prezzi del petrolio nel periodo 1998-2000 (da 10 ad oltre 30 dollari al barile) ha evidenziato che l'energia costituisce un fattore variabile primario nella dinamica economica di ogni paese, da noi più che altrove. Quell'aumento dei prezzi è costato al nostro sistema 60 lire in più per chilowattora, a fronte di una o due lire negli altri paesi. Non ci si può illudere che la concorrenza nel mercato sia in grado di per sé di riassorbire differenziali nei prezzi energetici che hanno raggiunto il rapporto di circa 3 a 1 rispetto a Germania, Austria e Belgio e circa 2 a 1 rispetto a Spagna e Gran Bretagna. Il differenziale è certamente dovuto a minore efficienza ed a più bassa concorrenza, ma se andiamo a verificare la struttura dei costi di un chilowattora, la voce dominante è la materia prima. Nel passato anno, un chilowattore prodotto dal petrolio - considerando il prezzo della materia prima - costava circa 110 lire, da gas circa 120 lire e dal carbone circa 40 lire.
Vi è una assoluta asimmetria tra l'Italia e il resto d'Europa: da noi il 70 per cento dei chilowattora deriva dal petrolio e metano, mentre nel resto d'Europa il 70 per cento deriva dal carbone e dal nucleare. Questo divario si potrà ridurre con una maggiore concorrenza, ma, se consideriamo analisi più attente, si stima che la concorrenza possa, nell'arco di cinque o sei anni, abbassare di circa 20 lire il costo del chilowattora, un vantaggio risibile rispetto all'aumento di 60 lire sopportato soltanto nello scorso anno. Né ci si illuda che gli attuali bassi prezzi del petrolio - siamo tornati sotto i 20 dollari al barile - rappresentino una situazione duratura. La riduzione dei prezzi è dovuta solamente alla recessione in atto per la caduta della domanda e, anzi, più forte è il calo dei prezzi odierno, più forte sarà il rimbalzo che avremo quando si uscirà dalla fase recessiva.
La causa prima di questo aumento dei prezzi, avvenuto due o tre anni fa, è stata la carenza di investimenti: non c'è capacità produttiva. Gli investimenti, con il calo dei prezzi, sono crollati, perciò quel problema lo ritroveremo, tra breve, ancor più esasperato. Negli anni a venire - è una previsione abbastanza facile, non una profezia - avremo nuovamente forti oscillazioni verso l'alto dei prezzi e forti tensioni sul mercato del petrolio, perché è previsto che la domanda aumenti in un solo decennio di 20 milioni di barili al giorno (un


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miliardo di tonnellate, pari al 50 per cento in più della produzione dell'Arabia Saudita); perché l'offerta nei paesi OCSE sta declinando (il mare del Nord ha ormai raggiunto il proprio apice produttivo) e infine perché il ruolo del Medio oriente diventerà sempre più cruciale, in quanto le riserve sono localizzate in quei paesi, dove non si fanno investimenti, non essendosi ancora create le condizioni politiche per un ritorno della tecnologia e degli investimenti da parte delle grandi imprese occidentali.
L'ancoraggio agli idrocarburi - questo è il secondo punto - porta ad una continua crescita la nostra dipendenza dall'estero. La stima è che, nel giro di pochi anni, si superi la soglia del 90 per cento dei nostri fabbisogni interni. La dipendenza è accentuata da impedimenti interni alla valorizzazione delle potenzialità minerarie, ma, a prescindere da ciò, dobbiamo analizzarla nel dettaglio. In primo luogo, sarà concentrata ad un ristrettissimo numero di paesi, appartenenti per lo più al mondo arabo; in secondo luogo, sarà sempre più obbligata nei flussi commerciali quanto più aumenteranno - come è inevitabile - le importazioni di metano, e quindi maggiore sarà la dipendenza obbligata da paese a paese, senza margini di flessibilità; infine, ci renderà sempre più esposti ai condizionamenti politici, che dovessero attraversare la scena mediorientale.
La previsione è che, nell'arco di dieci anni, la nostra economia si troverà a dipendere per il 70 per cento degli approvvigionamenti - e quindi per il 60 per cento del fabbisogno - da cinque paesi solamente: questo è il segno più forte della nostra strutturale debolezza, Né mi illudo che tali dati possano modificarsi; è comunque importante esserne consapevoli, perché significa che la nostra economia, la nostra sicurezza ed il nostro sviluppo dipenderanno da ciò che accadrà in cinque paesi extraeuropei. Gli accadimenti all'interno di questi paesi influenzeranno la nostra sicurezza ed il nostro sviluppo economico in misura maggiore del contesto europeo in cui siamo inseriti. Non ci si illuda che essere in Europa diminuisca l'importanza di questa dipendenza o attenui le nostre responsabilità, perché saremo chiamati dal resto d'Europa - come è avvenuto sul piano della stabilità economica - a comportamenti rigorosi che gli altri hanno avuto ed a cui noi ci siamo sottratti.
Quando parlo di politica energetica, questa sarà molto più che nel passato politica estera ed assumerà una valenza straordinaria nel condizionare i termini della nostra dipendenza. Bisogna favorire il ritorno di capitali occidentali in quei paesi e ciò richiede condizioni di collaborazione, di stabilità e di sviluppo interno a quelle aree. Successivamente, potrà essere il mercato a definire l'allocazione delle risorse, i prezzi ed altro, ma la condizione pregiudiziale affinché non si abbia scarsità di capacità produttive è che essa aumenti per effetto degli investimenti occidentali.
Queste sono le ragioni indiscutibili ed incontrovertibili della debolezza sul piano internazionale e non trovo allarmistico richiamare la vostra attenzione su ciò. Ad esse, negli ultimi anni, non a causa delle riforme ma per una combinazione di motivi, si sono aggiunte ragioni di debolezza interne al nostro sistema. Il fatto più rilevante è il crollo degli investimenti nel sistema energetico. È un paradosso, perché le liberalizzazioni avrebbero dovuto portare all'entrata di nuovi soggetti, all'aumento della propensione ad investire. La caduta degli investimenti sta interessando tutte le filiere energetiche ed ha implicazioni dirompenti, in primo luogo, sulla modernizzazione e sullo sviluppo delle infrastrutture, specie nel Mezzogiorno. Basta guardare i dati dell'istituto Tagliacarne e di altri sul gap di infrastrutturazione esistente tra il Mezzogiorno ed il resto del paese o quale sia il numero di interruzioni esistenti. È inconcepibile che in quelle aree non sia possibile dislocare nessun servizio della new economy, perché il livello di interruzione è elevato. Nel sud bisogna investire massicciamente nella infrastrutturazione energetica, altrimenti non potremo consentire quell'apertura del mercato e della concorrenza che tutti


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sostengono di volere, senza peraltro garantirne le condizioni operative. Inoltre, la mancanza di investimenti pone - ed è l'aspetto, a breve, più preoccupante - un problema di affidabilità e la necessità di continue cure delle forniture sia elettriche sia di gas.
Quest'ultimo punto, pur di importanza straordinaria, è - a mio avviso - sottovalutato. Sono mesi che il gestore della rete, l'organismo pubblico deputato a ciò, sta denunciando il rischio di una situazione di scarsità di potenza e di elettricità se non sarà superato il veto generalizzato agli investimenti. Non ho gli elementi per giudicare questa affermazione, ma sono a conoscenza del fatto che quello sia l'organismo deputato a verificare ciò e non posso, sulla base di elementi informativi, parziali rispetto ad un soggetto pubblico, non prestare attenzione a tali moniti. D'altra parte, la stessa Autorità di regolazione ha espresso - cito letteralmente - «forti preoccupazioni» circa gli effetti che il dimezzamento degli investimenti nella distribuzione potrebbe provocare «sulla continuità del servizio e più in generale sulla sicurezza e sull'efficacia del sistema elettrico nel suo insieme». Vi sono due organismi pubblici che da mesi - ripeto - stanno lanciando un allarme sui rischi che possono derivare dalla scarsità di investimenti.
Anche se non esistono soggetti similari, nel sistema metano sta avvenendo la stessa cosa con il rischio che la copertura della domanda può essere soddisfatta e che la concorrenza non sia introdotta. Le ragioni di questo rischio nel sistema metano sono, ancora una volta, la colpevole lentezza con cui procede il potenziamento delle infrastrutture di trasporto. Dobbiamo portare le importazioni di metano, nel giro di dieci anni - un periodo brevissimo, dati i tempi necessari agli investimenti - da 60 a circa 100 miliardi di metri cubi, con un incremento di circa 40 miliardi di metri cubi, che oggi non hanno possibilità di transito e non si ha la certezza che ciò diventi fattibile anche in un prossimo futuro.
Un altro elemento che suscita ragioni di preoccupazione è l'assenza di certezza nella regolazione sull'accesso alle reti. L'incertezza sui criteri di accesso alla rete impedisce di perfezionare sia i contratti di importazione sia l'avvio degli investimenti. Il rischio è che si creino deficit di offerta ed assenza di concorrenza. Il terzo punto - ne accenno appena - è la deroga alla regolamentazione da parte della politica che (così com'è avvenuto in Italia) si sta verificando a livello comunitario.
Il grande sviluppo del metano in Europa, dal dopoguerra ad oggi, si è basato su un accordo di fatto tra paesi produttori e consumatori rispetto alle modalità con cui il rischio di questi investimenti era ripartito. Gli accordi di lungo termine - cosiddetti take or pay - facevano sì che il rischio prezzi fosse sostenuto dai paesi produttori ed il rischio quantità dai paesi consumatori, dagli importatori. Oggi, le autorità comunitarie intendono modificare la regolamentazione, facendo venire meno questo accordo di base. Il rischio è che i paesi produttori non siano più disponibili ad impegnarsi in accordi in cui dovranno sostenere sia il rischio prezzi sia quello quantità, né a realizzare investimenti, come dovrebbe avvenire in un mercato che supera le incertezze di lungo periodo.
Questi motivati allarmi, sia sul versante dell'elettricità sia su quello del metano, non sembrano tuttavia essere presi sul serio: quasi che le cose stessero diversamente, quasi che il sistema potesse alla fine trovare comunque un suo equilibrio, quasi che altre fossero le priorità da affrontare. Ma il fatto che più mi preoccupa, come osservatore esterno, è la mancanza di chiarezza su chi siano i destinatari di questi moniti. A chi lancia questi avvertimenti il gestore? Chi è il soggetto ultimo destinatario e su chi incombe la responsabilità finale di porvi rimedio? Il rimedio ad una situazione di temuta scarsità che potrebbe verificarsi tra dieci anni deve essere adottato immediatamente, altrimenti l'inerzia degli investimenti è tale da rendere impossibile evitare quella situazione. Quindi, abbiamo riformato il sistema creando nuovi organismi pubblici e dando loro una precisa responsabilità; sappiamo dai loro allarmi che mancherà


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l'energia (e non abbiamo motivo per non dare fiducia a chi è stato chiamato dallo Stato a svolgere questa funzione), ma non prendiamo in considerazione tali moniti.
La questione irrisolta del passaggio dal monopolio alla concorrenza riguarda proprio la responsabilità del sistema. Non vi è più chi possa difendere il monopolio dalla concorrenza una volte per tutte. Ho dedicato un anno e mezzo della mia vita all'approvazione della legge n. 481 e ancora di più per la direttiva elettrica a dimostrazione del fatto che non sto mettendo in discussione ciò per tornare all'ancien regime, ma le riforme, se non ben costruite, possono condurre a disastri.
La questione irrisolta - ripeto - riguarda chi ha, oggi, la responsabilità del sistema. Trasferire compiti e responsabilità di gestione sistemica, che la legge affidava prima ad ENI ed ENEL, ad altri soggetti è la vera sfida delle riforme in atto, riassumibile in un non chiarito interrogativo: chi e come svolgerà le funzioni di guida e di coordinamento ineludibili in industrie altamente complesse come quelle dell'elettricità e del metano, dove l'inerzia degli investimenti porta necessariamente a dover decidere oggi per le situazioni che si creeranno tra dieci o vent'anni? A mio avviso la riforma elettrica ha fallito per l'estrema difficoltà incontrata, i lunghi ritardi, gli errori di percorso, le continue correzioni di rotta e la scarsa armonia decisionale degli attori coinvolti nel realizzare un modello organizzativo estremamente complesso e disomogeneo rispetto sia a quanto la direttiva proponeva sia ai modelli realizzati negli altri paesi.
Stanno emergendo con tutta evidenza - e personalmente non ne intravedo la soluzione - i limiti del difficile tentativo di conciliare un approccio programmatico alla francese (che fa perno sull'acquirente unico, che qualcuno vorrebbe già accantonato) con un approccio liberista alla tedesca, condito con un po' di «salsa» californiana. I risultati sono davvero deludenti, in primo luogo perché l'apertura del mercato non ha portato sinora alcun sostanziale beneficio collettivo, ma solo pochi benefici privati; in secondo luogo, con una struttura così rigida, i vantaggi sul mercato libero dei grandi clienti sono oggi pagati dai clienti che non sono liberi, cioè da parte delle famiglie e delle piccole imprese. Siamo all'assurdo che il mercato vincolato sta pagando con costi addizionali i benefici dei clienti liberi, perché la struttura dei costi è tale che se vi è un solo cliente che paga una lira in meno, un altro cliente pagherà una lira in più e la parte vincolata, cioè quella più debole perché priva di possibilità di scelta, sta pagando i benefici di altri. In terzo luogo, i frutti attesi della concorrenza richiederanno molti anni. Se esaminiamo una qualsiasi analisi condotta sul mercato italiano dalle grandi banche d'affari che assistono i nostri investitori ed osserviamo la curva dei prezzi - che, come ho già detto prima, stanno ad un rapporto di due a uno o tre ad uno con gli altri paesi europei - essa risulta sostanzialmente stabile, a prescindere dal petrolio, fino al 2005, poi inizia a scendere. Non ci si illuda che a breve termine la concorrenza possa portare ad una riduzione dei costi sul piano dell'efficienza e ad una riduzione dei prezzi. In quarto ed ultimo luogo, il sistema rischia di andare fuori controllo per assenza di regia e di coordinamento.
La scelta irreversibile del mercato non elimina l'esigenza di un forte coordinamento delle industrie energetiche, avendo a mente alcuni punti. Innanzitutto, ENI ed ENEL privatizzate saranno attori primari di questo sistema, ma non più protagonisti unici, dovendo perseguire l'interesse particolare del loro azionista e non più quello generale del paese; su altri pertanto graverà il compito di garantire che la sommatoria delle decisioni individuali corrisponda alle decisioni collettive. Inoltre, errate riforme possono provocare disastri, come dovrebbero avere insegnato le fallimentari esperienze della California, del Brasile, dell'Argentina e, da ultimo, il colossale fallimento della Enron. Tutti sono stati capaci di spiegarne - dopo - il motivo, nessuno di capirlo prima e per tempo. Questa è la differenza, in campo energetico: quando ci si accorge degli errori è già troppo tardi per porvi rimedio;


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questa è la priorità cui si deve porre mano ed a cui la politica - non altri - è chiamata a dare risposta prima che sia troppo tardi.

FABIO PISTELLA, Professore in economia applicata all'ingegneria presso l'Università di Roma 3. Vi ringrazio anch'io per avermi invitato, anche perché nelle precedenti occasioni avevo vincoli derivanti dalla posizione ufficiale ricoperta, mentre in questo caso ho la possibilità di esprimermi in veste di studioso e di esporre esattamente ciò che penso, senza vincoli e condizionamenti.
L'iniziativa mi sembra estremamente positiva e sull'utilità di questo incontro i motivi sono molti: ne esporrò soltanto due. Il primo è apparentemente difforme da quanto detto dal professor Clô, ma sostanzialmente in forte sintonia, se cioè vi sia bisogno di un intervento della politica in questo settore. Considero la domanda retorica e superflua, posto che il vero motivo del mio interesse verso tali iniziative è che ritengo indispensabile non lasciare determinate decisioni ai tecnici - lo dico proprio in veste di tecnico - ed agli operatori del settore, perché gli argomenti che richiedono una visione di carattere più generale sono moltissimi e molto convincenti. Il secondo motivo è che le decisioni devono essere adottate subito. Alcuni elementi da prendere in considerazione sono già stati esposti; ne aggiungerò altri che riguardano, in particolare, lo scenario internazionale, che non è migliore della situazione nazionale, soprattutto per quanto riguarda i risvolti ambientali della crisi energetica. Non mi chiedo se sia necessaria una politica energetica, ma soltanto come sia possibile guidare un sistema articolato, complesso, ad elevate dinamiche fortemente esogene, con prevedibilità fortemente contenute e con interconnessioni fortissime (quanto meno lo snodo sviluppo, energia, ambiente è inestricabile). Non si può realizzare una politica ambientale che non sia simultaneamente energetica e viceversa, né si possono prevedere linee di sviluppo industriale e socio-economico che non considerino i vincoli e le opportunità energetiche ed ambientali.
Vorrei esporre qualche considerazione preliminare di metodo. Da accademico, dovrei proporre un approccio canonico, come avviene ogni volta che si cerca di pianificare sistemi complessi; «asciugando» molto questo approccio, ho enucleato otto punti. Li enuncerò per poi concludere che non funzionano e che troppi piani energetici sono stati condotti in questo modo. Gli otto punti sono i seguenti: analisi della situazione in atto; previsione dell'evoluzione inerziale dello scenario (ovvero cosa accadrebbe se non intervenissimo); formulazione esplicita degli obiettivi; identificazione dei vincoli; ricognizione degli strumenti; individuazione delle azioni e assunzione di decisioni in merito; strutture per realizzare le azioni e, in ultimo, monitoraggio e riaggiustamento delle scelte. Se mettessimo in piedi un meccanismo simile, avremmo un bellissimo rapporto, ma non cambierebbe nulla.
Analizziamo ora quanto è successo. È stato enunciato un approccio canonico, ma in realtà è stato utilizzato un approccio che vorrei definire mediatico. In pratica, si è concentrata l'attenzione su temi «caldi» che andavano di moda, senza considerare se fossero più o meno importanti. Poiché, ad esempio, bisognava forzatamente discutere di biomasse, anche se queste riguardavano il 5 per cento della potenzialità energetica, si discuteva di biomasse, perché così aveva deciso il sistema mediatico. Altri temi riguardavano la ricognizione delle posizioni delle aspettative di soggetti rilevanti, nel senso che prima di assumere una posizione, si aspettava di capire come coloro che contano si orientassero; l'analisi degli spazi percorribili; l'enunciazione di desiderata più o meno ovvi, più o meno velleitari, ma comunque formulati in modo da «suonare» molto bene (espressione di uno sforzo teso a mostrare non manifestamente contraddittori un lungo elenco di desiderata); infine, l'assunzione di decisioni spot su aspetti marginali, ma con un buon impatto comunicazionale e quindi oblio fino al periodico ritorno di attualità del tema.


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Questo tipo di analisi sembrerebbe una cattiva interpretazione di malvizi nazionali. In realtà, se svolgessimo una rigorosa analisi dei piani energetici di molti paesi, in particolare europei, verificheremmo che altrove si verifica esattamente la stessa situazione e - quel che è peggio - ad un'analisi impietosa di questo tipo, non reggerebbe neanche il complesso dei documenti prodotti in sede comunitaria. L'espressione del tutto gergale che rende bene l'idea è il termine romanesco «embè?», che vuol dire «e allora?» (gli americani dicono so what?): 50 pagine di relazione, con una parte propositiva di 50 righe, non possono essere un prodotto accettabile per quel tipo di analisi.
Poiché considero un assunto e non un interrogativo la necessità di agire, diventa importante un'ipotesi di metodo che abbia la caratteristica di un approccio realistico. Innanzitutto, stemperare assolutamente la macchinosità e la rigidità inevitabile dell'approccio canonico. Molti accademici, miei colleghi, diranno che rinuncio al rigore del metodo del sistema programmatorio, ma quell'elenco di otto punti - che nella realtà sono quasi 16, poiché ognuno di essi si sdoppia - non funziona ed ha tempi di risposta più lunghi dei tempi di cambiamento del fenomeno che si intende gestire: semplificare è assolutamente irrinunciabile. Vanno salvati anche alcuni elementi che compongono l'approccio mediatico, prima deprecato. È vero che bisogna parlare di temi «caldi» per sfondare il muro della comunicazione, ma non bisogna parlare solo di quelli: si tratta di una differenza non marginale. Infatti, il sistema dei media se non trova un tema di moda, giudica negativamente il documento prodotto semplicemente perché in quell'assenza vede una carenza: paghiamo questo prezzo alla moda, senza limitarci a ciò. In un sistema basato sul consenso la ricognizione delle posizioni delle aspettative dei soggetti rilevanti è un passaggio assolutamente irrinunciabile.
Peraltro, l'aspetto più negativo dell'approccio mediatico è l'episodicità dell'assunzione di decisioni; si compiono danni inenarrabili su questo argomento. Ad esempio per quanto riguarda la questione degli investimenti, la tragedia della privatizzazione è relativa alla sua enunciazione aggressiva ed alla sua mancata realizzazione: si tratta di una miscela esplosiva. Nessun gestore di una grande azienda effettua investimenti nel momento in cui non è a conoscenza se verrà giudicato su un periodo di sei mesi, di un anno di bilancio o sui risultati di alcuni anni (qualora l'assetto permanga proiettato nel tempo). Nel dubbio infatti sceglie una politica di breve termine e gli investimenti - che costano adesso e rendono successivamente - non verranno realizzati, perché il gestore si aspetta un giudizio nel contesto politico a breve termine ed un giudizio degli investitori sul mercato che difficilmente sconterà, dal punto di vista degli analisti, i benefici potenziali effetti, che - ripeto - si manifesteranno successivamente. La logica infatti è di seguire l'andamento del titolo a breve termine: di fronte a tale dinamica la politica degli investimenti non funziona. Questa è la differenza dei due ruoli tra il gestore della struttura operativa ed il responsabile della politica.
Ho già detto qualcosa sullo snodo energia, sviluppo e ambiente, ma - su questo punto condivido completamente le considerazioni del professor Clô - non può essere ignorata la dimensione strategica dell'energia, intesa come fattore di politica internazionale. Le condizioni di conflittualità o semiconflittualità attuali non possono che enfatizzare la realtà di questa osservazione.
Non credo che sia questa la sede per dotte esibizioni di lucidi, tabelle e grafici, preferisco quindi richiamare la vostra attenzione su alcuni punti sintetici che - a mio avviso - meritano attenzione. I consumi energetici mondiali sono in crescita. Tutta le analisi sul fatto che, a breve, avremmo assistito ad una riduzione dei consumi per la dematerializzazione dell'economia, la ridefinizione dei modelli di sviluppo ed altro appartengono alle ipotesi sociologiche: non è così. Se si osservano le tabelle, i numeri dimostrano che il sistema è in crescita e ciò che mi interessa maggiormente


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sottolineare è che la crescita avviene prevalentemente nei cosiddetti paesi in via di sviluppo, in particolar modo in due di essi: in Cina e in India, che sommati hanno una popolazione non lontana dalla metà della popolazione mondiale e crescono al ritmo del 4 per cento l'anno. È facile prevedere gli effetti di questa dinamica tra vent'anni, una dinamica in accelerazione ed è anche evidente immaginare che possa proseguire, perché siamo in presenza di un effetto combinato di una crescita demografica e di una crescita dei consumi pro capite. Questi ultimi sono così bassi da immaginare che anche semplicemente un avvicinamento, ancora mantenendo forti distanze con i livelli di consumo pro capite dei paesi industrializzati, fa sì che in presenza - imprevedibile nell'arco di vent'anni - di uno stop della crescita demografica, il fenomeno dell'aumento dei consumi rimanga attivato conseguentemente alla inarrestabile aspirazione verso consumi pro capite più elevati.
Questa è la realtà dei fatti e mi sembra irresponsabile continuare a sperare che il nuovo modello di sviluppo cambi il sistema. Basta aver partecipato ad un meeting internazionale per capire che i soggetti coinvolti, cioè i governi e gli interessi dei paesi citati, non vogliono ascoltare questo tipo di discorso, che è escluso dal novero delle posizioni da loro considerate accettabili. Un esempio che mi ha molto colpito è quello, relativamente modesto, ma emblematico, dei gas utilizzati per la produzione del freddo e della loro incidenza sul buco dell'ozono. I rappresentanti dei paesi in via di sviluppo sostengono che i paesi occidentali, i quali hanno prodotto frigoriferi a basso costo negli anni cinquanta e sessanta, devono trovare anche per loro una soluzione analoga, altrimenti si disinteressano del buco dell'ozono: è con tutto ciò che bisogna fare i conti.
Peraltro, è ormai certo che entro 15 anni - basta osservare i grafici per vedere che tutti gli analisti lo prevedono - si avrà un sorpasso nei consumi di energia tra paesi sviluppati e paesi in via di sviluppo e 15 anni, sulla scala decisionale del settore energetico, sono un periodo di tempo brevissimo. Dinanzi a questi dati - basti pensare al protocollo di Kyoto, un falso problema non perfettamente compreso né dal sistema mediatico, né dal sistema decisionale politico - continuiamo a preoccuparci del dettaglio, di come sta crescendo la situazione per esempio in Italia. In realtà, la maggioranza dei nuovi impianti verranno realizzati in paesi come la Cina e l'India, che partono da livelli di efficienza molto più bassi e parlare di 25 per cento nella produzione di energia elettrica in quel tipo di paesi non è sbagliato. I nuovi impianti stanno nella fascia del 50 per cento e verranno realizzati in paesi come l'Italia, che pure ha un valore abbastanza basso - perché il proprio parco elettrico è vecchio -, in media intorno al 35 per cento. La semplice logica dei rendimenti marginali decrescenti suggerisce che se vi sono risorse da investire queste vadano investite dove rendono di più. Un passaggio da 25 a 40 costa molto, ma assai meno di un passaggio da 35 a 40 e rende anche di più. Gli impianti - ripeto - verranno realizzati in quei paesi, ma non va di moda parlarne.
Per quanto riguarda l'uso razionale di energia, l'Italia si è comportata e si sta comportando molto bene nel confronto internazionale. Il nostro paese ha un consumo pro capite basso nel confronto con gli altri paesi, come ad esempio gli Stati Uniti ed il meccanismo che prevede contenimenti in percentuale uguale per tutti - che nasce da contesti come quelli di Kyoto - mi fa venire in mente l'ipotesi che venga adottata la stessa dieta per una persona molto magra ed una molto grassa: lo trovo un comportamento insensato. Noi siamo un soggetto «molto magro» e, quindi, dobbiamo evitare di generare situazioni di non gestibilità, rispetto ad obiettivi enunciati per noi non percorribili.
Rispetto all'uso razionale dell'energia, due realtà ben distinte sono: la razionalizzazione dell'esistente all'interno di un modello di vita, di una logica di sviluppo e di un assetto sociale e l'aspirazione del tutto generica a modelli che, personalmente,


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considero pauperistici ed inaccettabili - si tratta di un giudizio personale - e che anche sul piano tecnico giudico difficilissimi da realizzare, perché forieri di scompensi clamorosi di natura politica e, sostanzialmente, non graditi, al di là di ciò che sostiene la grandissima maggioranza di cittadini. L'esempio è dato dalla casetta di legno, nel sistema americano, in cui si ricava l'acqua dal ricircolo degli scarti, dove i consumi energetici sono limitati e magari si scopre che vi sono gravissimi problemi di microinquinamento, perché non vi è il necessario ricambio d'aria, dove ogni caloria è recuperata anche se costa dieci volte il proprio valore di mercato. Al di là dell'esercizio intellettualistico, questo percorso non può portare a nulla, a meno che non si voglia avere un'economia di guerra ed un cambiamento sostanziale del livello sociale. Sono scelte che non possono essere date come sottintese ed automatiche, ma moltissimi rapporti - che poi finiscono sui giornali - creano nell'opinione pubblica la convinzione che tutto ciò sia facilmente realizzabile, in maniera indolore: è un'illusione pericolosissima.
Quali spazi di miglioramento vi sono in Italia rispetto al tema dell'usurabilità dell'energia? Ne individuo uno di qualche consistenza: un'ulteriore penetrazione di produzione di energia elettrica con sistemi tipo cicli combinati, alimentati a gas e in alcune circostanze con cogenerazione di energia e calore. Questi sono gli investimenti che devono essere realizzati in termini di produzione e questo è lo spazio che rimane per la nostra industria termoelettromeccanica, ammesso che riteniamo di aver conservato traccia del vecchio apparato industriale nazionale nel settore.
La disponibilità fisica delle fonti è un mito. Non vi è una questione di disponibilità fisica delle fonti: per i prossimi 50 o 100 anni i combustibili fossili sono sufficienti; non occupiamoci più della continua proiezione sulla durata delle riserve accertate. Queste ultime, per definizione, durano cinquant'anni, perciò non vale la pena di investire in ricerche geominerarie dirette a scoprire nuove risorse: lo sforzo non sarebbe compensato dal mercato ed è facile prevedere che vi saranno sempre risorse per cinquant'anni su scala globale. La distribuzione è un problema molto serio, ma non la disponibilità fisica delle fonti. Il problema è la disponibilità geopolitica e strategica, su cui vi è una rimozione, un oblio da difesa di rilevanza freudiana e credo sia dovere degli esperti segnalare alla politica che questo tipo di rimozione è assolutamente pericoloso.
Altra questione vera, oltre alla disponibilità geopolitica, sono le condizioni economiche di disponibilità. Una serie di modelli proposti sono da etichettare come brioches di Maria Antonietta. Si può fare tutto, basta avere presente i costi: se si sostiene che l'elevato prezzo del pane si risolve mangiando brioches, bisogna valutare i costi. Il problema è relativo alla disponibilità a condizioni economiche accettabili che traducono la disponibilità fisica del bene considerato.
Per quanto riguarda l'impatto ambientale, vi sono due questioni da tenere assolutamente distinte: l'impatto ambientale localizzato e quello globale. Relativamente al primo, per quanto riguarda SOx, NOx, particolati ed altro, in paesi come l'Italia è corretta l'affermazione che l'impatto di produzione di energia è mediamente irrilevante rispetto all'impatto del sistema trasporti in sede urbana. I problemi di impatto ambientale localizzato si pongono sostanzialmente in sede urbana e connessi con l'attuale sistema di trasporti. Rispetto a questa situazione che genera allarme e blocchi, migliorare l'addendo molto più piccolo, cioè quello del sistema energetico, non rappresenta un'ottimale destinazione di risorse. Sull'impatto ambientale globale, ho già accennato a quello che può essere un efficace intervento nei paesi in via di sviluppo ed eviterò di ripetermi.
Una delle differenze tra me ed il professore Clô, è che lui è un economista che aggiunge la tecnica, mentre io sono l'ingegnere tecnologo ed aggiungo l'economia, e permettetemi di dire che respingo, in dottrina, un qualunque giudizio di merito


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sulle materie fonti. Se la domanda è se sono favorevole o contrario al carbone, rispondo che la domanda è mal posta per due motivi: in primo luogo occorre precisare di quale carbone si tratta. È noto infatti che il carbone sudafricano - quasi carbonio puro - ed il carbone del Sulcis - zolfo con tracce di carbone - non possono essere trattati allo stesso modo, ma devono avere una risposta diversificata a seconda della natura merceologica del prodotto ed è ancora più importante sapere con quali tecnologie dev'essere usato il carbone. Se fosse usato nel braciere, qualunque tipo provocherebbe ossido di carbonio, ma in questo caso sarebbe utilizzato male. Non possiamo trattare alla stessa stregua impianti a carbone non qualificati, senza una adeguata logistica, e impianti con la gassificazione ed una serie di processi che rendono l'impatto ambientale del carbone confrontabile con quello di altre fonti. Ogni giudizio dev'essere espresso sull'accoppiata materia fonte e tecnologia con cui utilizzarla.
Un altro esempio molto importante, in Italia, è la produzione di energia da rifiuti. Siamo il paese, secondo un rapporto numerico, di 80 - 20, mentre tutti gli altri hanno un rapporto esattamente inverso, di 20 - 80. Intendo dire che tutti gli altri paesi portano a discarica il 20 per cento dei rifiuti e l'Italia l'80 per cento, da cui poi deriva la vergognosa vicenda dell'emergenza in Campania, dove sono stati necessari i treni vigilati dalla polizia che hanno trasportato in Germania i rifiuti campani da bruciare. Non riesco a capire la posizione tecnica che considera una meraviglia recuperare il contenuto di materia seconda presente nei rifiuti: è sbagliato e tale recupero deve essere residuale. Non vedo come si possa condividere questa affermazione in un paese che - peraltro - produce sia l'energia sia la materia dagli idrocarburi che importa. Reputo molto più efficiente e molto più economico limitare le importazioni di idrocarburi piuttosto che non contenerne l'importazione per produrre plastica, perché così si recupera la plastica. A Brescia è stato costruito un meraviglioso impianto con soddisfazione di tutti ed anche con un benefico effetto di riscaldamento, perché è un tipo di impianto in cogenerazione che distribuisce e utilizza anche l'acqua calda. Ma le parole sono pietre: quell'impianto si chiama termoutilizzatore delle materie prime seconde e viene considerato positivamente; un altro, denominato inceneritore, è giudicato negativamente.
Si tratta di un tema molto delicato e raccomando l'attenzione forte del sistema decisionale politico all'informazione ed alla comunicazione, perché se non si presidia questo aspetto è come non avere i fanti in prima linea: i rapporti con l'opinione pubblica e con i sistemi di comunicazione sono la prima linea. Ciò è talmente vero che oggi non è possibile installare un impianto eolico ritenendo che deturpa il paesaggio, fa rumore, gli uccelli ci vanno a sbattere, disturba le trasmissioni televisive: questo è quanto sostengono gli esponenti di comunità locali. Evidentemente non abbiamo saputo comunicare, perché è dimostrabile che tutte queste presunte difficoltà non sono giustificate.
Mi sono divertito a leggere le rassegne stampa, in occasione del blocco del traffico in alcune città italiane stabilito in questo weekend, in merito alla benzina verde, ai motori diesel, ai motorini. C'è chi ha vinto le elezioni perché circolava in motorino, mentre oggi si scopre che è un mezzo inquinante, come io avevo già detto presso la Commissione ambiente alcuni anni prima, ma allora era considerato positivamente, tanto da inventare il motorino blu (una specie di motorino di servizio per identificare chi era ambientalmente attento). Altrettanto è avvenuto per il benzene, rispetto al quale mi chiedo cosa accadrà quando entrerà in vigore la nuova normativa comunitaria e quale sarà, il prossimo anno, il motivo per cui fermeremo il traffico. Lo stesso discorso vale per le polveri e così via.
In tutti questi casi i messaggi sono contraddittori, generano illusioni e confusione nell'opinione pubblica: una persona normale non riesce a formarsi un'idea


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chiara e precisa, così non crede più a quanto viene comunicato. Questa situazione continua anche grazie alle imprecisioni terminologiche. Ad esempio, l'idrogeno non è una materia fonte energetica: non esistono miniere di idrogeno. Si tratta di un vettore energetico, come l'energia elettrica, cioè un modo per trasportare l'energia da un punto ad un altro e deve essere prodotto dal metano (e quindi il concetto di idrocarburo come elemento di partenza permane), bruciandolo. Il CH4 produce CO2 e H2O: l'anidride carbonica è sicuramente presente nell'attuale sistema di produzione dell'idrogeno. L'unico beneficio che intravedo è che essa viene prodotta in maniera concentrata, là dove è situata la fabbrica dell'idrogeno, che ha come sottoprodotto la CO2. Se fossimo in presenza di un sistema di segregazione, cioè di immagazzinamento dell'anidride carbonica (per esempio in pozzi sotterranei), tutto ciò avrebbe un senso rispetto all'emissione della CO2 dal tubo di scappamento. Però, se veramente potessimo effettuare la segregazione dell'anidride carbonica - cosa purtroppo impossibile - sarebbe preferibile utilizzarla nelle centrali termoelettriche. La questione relativa all'idrogeno non mi pare comprensibile a meno che questo interessi soltanto e proprio perché al momento non è raggiungibile. Se fosse perseguibile come una soluzione vicina e sostitutiva di combustibili liquidi, il suo vero concorrente sarebbe il metano (ricordo quando, nella pianura padana, vi erano mezzi di trasporto con bombolette di metano).
Dal punto di vista ambientale, come ho già detto, sarebbe la stessa cosa e in più vi sarebbe disponibilità; infatti, il metano bruciato nella città non genera prodotti diversi, in termini di inquinamento, da quelli prodotti della combustione dell'idrogeno. Però del metano non si parla (forse proprio perché sarebbe possibile utilizzarlo), ignorando che la penetrazione dell'idrogeno comporterebbe, se volessimo veramente ricavarne un beneficio, passaggi tecnologici non banali: una produzione di energia elettrica in forma diversa dalla combustione di fossili o attraverso idrolisi dal nucleare. Si tratta infatti di una fonte primaria di elettricità, ma questo deve essere detto chiaramente, perché in tale caso sarebbe preferibile usare direttamente l'energia elettrica prodotta dal nucleare con un motore elettrico. Oppure si immagina veramente di poter avere dalle fonti rinnovabili una intensità e densità energetica tale da produrre idrogeno su grande scala: se è così, a me i conti non tornano.
Ho l'impressione che, come nel caso della fusione nucleare, per i reattori a sicurezza assoluta e per tutta una serie di soluzioni fantasmagoriche il loro vero valore sia la lontananza dall'effettiva ed immediata applicazione. Si è tutti più tranquilli, perché si sta elaborando un progetto bellissimo e nel frattempo si va avanti con una situazione inquinante, senza ricorrere ad una ipotesi intermedia, che avrebbe il vantaggio di funzionare immediatamente e comunque di essere un progresso rispetto allo stato attuale.
Credo necessario fare chiarezza e quindi pretendere precisione semantica, esplicitando tutte le condizioni che giustificherebbero certe proposte. Ho partecipato, pochi giorni fa, ad un convegno che aveva per tema: «Biodiesel: illusione o realtà». È emerso con estrema chiarezza che se si intendesse sostituire il 5 per cento dei carburanti utilizzati nell'autotrazione, sarebbe necessario il totale della superficie agraria italiana (questo è stato affermato dagli agronomi, non dagli ingegneri). Ciò perché, tra l'altro, vi è un processo di consumo di idrocarburi per generare il biodiesel oppure bisogna utilizzare lo stesso biodiesel. Il fattore cosiddetto di moltiplicazione è 1,33, cioè è necessario generare 1,33 litri di gasolio per poterne utilizzare 0,33. Inoltre, non è vero che si possono utilizzare terreni marginali, perché in quel caso si avrebbero soltanto due scelte: abbassare il rendimento (e allora non si avrebbe più il fattore di moltiplicazione pari a 1,33), oppure trasformarli in terreni assistiti con ulteriore lavorazione meccanica, colture e fertilizzazioni. Per quanto riguarda il biodiesel, molti contadini hanno ottenuto le sovvenzioni


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dall'Unione europea, seminando girasoli. Questi sono cresciuti in maniera stentata, nessuno li ha coltivati, raccolti, ma la sovvenzione è valsa l'impresa della semina e quel poco di biodiesel prodotto è stato ottenuto dagli oli di semi provenienti da paesi non europei. Tutto ciò ha prodotto 30 chilotonnellate. I consumi italiani sono sull'ordine di 190 megatonnellate. Con un grandissimo sforzo si può arrivare a produrre 100 chilotonnellate, quantità tale da far sì che non sia più necessario soffermarsi sul biodiesel.
Per quanto riguarda la ricognizione degli strumenti, cosa potrebbe fare il potere pubblico per inventare una politica diversa? Lascio da parte il ruolo dello Stato come operatore diretto e gestore di soggetti, sia perché è un tema trattato molto bene dal professor Clô, sia perché - permettetemi una battuta - l'Italia senza ENI sarebbe stata diversa e peggiore; tra l'altro, anche senza l'ENEL avremmo avuto un paese meno buono. Comunque, come strumento di politica strategica internazionale, l'ENI ha un peso superiore a qualsiasi altra struttura in Italia, come avviene anche in altri paesi. I rapporti dei bacini mediorientale, asiatico ed asiatico balcanico sono rapporti energetici di politica internazionale, a pari livello, tanto è vero che nella gerarchia delle persone che contano, in un dato paese petrolifero, il rappresentante dell'ENI viene prima di quelli istituzionali. Permettetemi un linguaggio non del tutto consono a questo contesto, ma ho l'interesse di trasferirvi velocemente la convinzione che a «rompere» una macchina di grande rilievo si fa presto, ma le conseguenze potrebbero essere dolorose; in proposito, considero molto istruttiva la vicenda Edison.
Per quanto riguarda il sistema comunitario, ogni paese adotta una propria linea rispetto alle direttive elettriche. La Francia ha deciso di non privatizzare, di non liberalizzare. Non credo sia una cosa positiva trasformare il nostro sistema pubblico, con tutti i propri difetti, in appendice di un monopolio di un altro paese, anch'esso pubblico, regalandolo all'Edf. È necessario parlare con estrema chiarezza, perché qualcuno finge di non considerare ciò un problema. Non è vero che oggi esiste una politica comunitaria realizzata in maniera equilibrata nei diversi paesi: non è vero! Ciascun paese si comporta in maniera autonoma e chi ha sistemi diversi dalla nostra accelerata pseudo apertura ha grossi vantaggi.
Dico una cosa sgradevole: premesso che non credo che domani possa verificarsi, in Italia, un episodio simile alla mancanza di potenza registratasi in California, vi invito a considerare che se ciò è avvenuto in California (che è lo Stato guida degli Stati Uniti d'America) il rischio per noi non è nullo e lo stesso dicasi per il caso Enron. Chi liquida come non applicabile al nostro contesto quel tipo di esempio negativo dà un giudizio - a mio avviso - affrettato.
La politica fiscale è il vero incisivo ed importante strumento da utilizzare in un sistema che abbia deciso di accantonare la presenza pubblica attraverso gli operatori. Non viene sufficientemente detto quale sia il peso della politica fiscale nella gestione della questione energetica: ebbene, è enorme. Intanto che discutiamo di esenzione fiscale sul biodiesel (la mia opinione è che sia estremamente marginale), è stata introdotta la carbon tax, la cui entità ed il cui impatto - ecco una situazione mediaticamente interessante - sono minimi rispetto al gettito del prelievo fiscale sulla benzina (punti percentuali risibili); nessuno parla del prelievo fiscale sulla benzina, mentre tutti intervengono sulla carbon tax.
Interpretando il passato si può sostenere che la politica energetica in termini fiscali sia stata attuata con due grandi azioni. Il motivo per cui l'Italia è un paese «parsimonioso» è dovuto al fatto che l'energia è costata sempre cara e ciò ha indotto comportamenti virtuosi. È stata una scelta e la politica deve dichiarare se deve essere mantenuta con una opportuna curva di raccordo. Però bisogna parlarne, in luogo di fare discorsi sul CO2 e sul biodiesel.
L'altro elemento di politica energetica effettuato attraverso una misura fiscale è il differenziale di prelievo tra i prodotti


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petroliferi liquidi ed il gas naturale. Esso, insieme alla metanizzazione, in particolare quella del Mezzogiorno, è stato lo strumento dell'unica rilevante diversificazione realizzata in campo energetico in Italia. Credo sia stata una scelta saggia realizzare la metanizzazione, soprattutto quella del Mezzogiorno, intervento che è stato attuato anche attraverso lo strumento fiscale. Questo fa giustizia del concetto comunitario di gestione della politica energetica, perché la cosiddetta armonizzazione dei prelievi fiscali sulle materie fonti energetiche non esiste, non è allo studio, né all'ordine del giorno. Prima o poi sarà necessario affrontare la questione, che si porrà quando arriveranno i tristi momenti ipotizzati dal professore Clô.
Mi soffermo su un'ultima considerazione in materia di investimenti: sviluppare le risorse nazionali, come in val d'Agri o nel mare Adriatico (due importanti esempi da accompagnare con precise determinazioni) e infrastrutturare il territorio. Un esempio molto concreto riguarda le previsioni dell'articolo 15 del disegno di legge atto Camera n. 2031: sono scelte che il paese apprezzerà e la ferita aperta è rappresentata dalla mancata realizzazione di terminali di rigassificazione; una strategia di contenimento dei costi futuri del gas metano è ridurre la rigidità punto per punto, cui accennava precedentemente il professore Clô. È importante diversificare: perciò ho usato l'espressione di una variante del 70 per cento di energia elettrica. In tutti i paesi d'Europa, nonché negli Stati Uniti, il 70 per cento di energia elettrica è prodotta dalla somma carbone più nucleare, passando dalla Francia, che produce il 70 per cento di nucleare, alla Danimarca - che viene considerato un paese «verde» - che produce il 70 per cento di carbone, fino alla Germania con quote simmetriche di 35 per cento di nucleare ed altrettanto di carbone.
Questa è la vera anomalia italiana, da cui nasce l'impatto dell'aumento di 60 lire, anziché di 2 lire sul chilowattora, dal raddoppio del prezzo del petrolio, molto importante per noi nella produzione di energia elettrica. Dobbiamo scegliere se accettare l'escursione di 60 lire (in tal caso non ha senso parlare, fra dieci anni, dell'aumento derivante dell'efficienza conseguente alla privatizzazione, da cui possiamo trarre il vantaggio di circa 10 lire), oppure se rifiutare un aumento così consistente ed essere favorevoli all'introduzione del carbone con nuove tecnologie. Allora - diciamolo con chiarezza - è perdente anche l'attenzione posta sui vantaggi conseguenti alla privatizzazione.
Non credo sia il caso di abbandonare (è stato scritto sui giornali che questo era l'intendimento di qualcuno) il grande esperimento dell'Autorità per l'energia elettrica ed il gas, ma è anzi necessario che altri svolgano compiti oggi impropriamente affidati all'Autorità per colmare un vuoto. Il problema è piuttosto di confini e non tanto di confini tra l'Antitrust e l'Autorità per l'energia elettrica ed il gas, ma di un ritorno ad un sistema di Governo e Parlamento che identifichi una serie di scelte non tariffarie di carattere generale, che non possono essere di competenza di una struttura sostanzialmente amministrativa, quale l'Autorità per l'energia.
In ultimo, per quanto riguarda l'informazione e la comunicazione, nessuna politica energetica può essere perseguita in maniera efficace se non vi è una presenza pubblica di garanzia, di trasparenza del sistema dell'informazione. Se qualcuno vuole sapere cosa succede nel mondo, si collega con Internet e può visionare il meraviglioso documento annuale International energy outlook 2001, a firma di Energy information administration: il governo federale si assume la responsabilità dei dati pubblicati, senza la ridda delle voci, delle interpretazioni, delle incertezze e così via.
Non è possibile perseguire nessuna linea se non si presta attenzione a questo aspetto risolutivo, perché quando si va a dialogare con i sindaci, i parroci, i maestri, i farmacisti ed i comitati di genitori si deve disporre di una documentazione certa, altrimenti si rimane vittime di presunti esperti, di santoni, di sentito dire e di leggende metropolitane; allora la razionalità scompare e la politica viene schiacciata


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tra le esigenze di sviluppo e di consenso: solo l'informazione può cercare di rendere queste due istanze gestibili.
Vi ringrazio per l'attenzione e chiedo scusa dei toni non del tutto formali del mio intervento.

PRESIDENTE. Abbiamo ascoltato due relazioni molto importanti, che sono a disposizione della Commissione.

STEFANO SAGLIA. Le relazioni sono state molto esaustive e giustamente provocatorie, per cui sarà necessario del tempo per assorbirle. Vorrei fare due domande telegrafiche: la prima è relativa alla dichiarata necessità di investimenti nella rete; chi ha analizzato le Genco, perché si è posto il problema di doverle acquisire, si è reso conto che anche in quel tipo di società vi sono interventi strutturali notevoli da intraprendere, a dimostrazione del fatto che la nostra rete necessita di molti investimenti. Quanto, in particolare nel settore dell'elettricità, la diversificazione dal core business dell'ENEL, quindi la concezione di multiutility di individuare altri canali di investimento, ha pesato sulla mancanza di investimenti? Tutto ciò ha causato mancanza di investimenti nella rete oppure doveva esserci una iniezione di risorse da parte dello Stato più forte?
La seconda domanda è la seguente: cosa pensate dell'introduzione immediata della borsa elettrica, stante l'attuale stagnazione del processo di liberalizzazione? Nelle precedenti sedute abbiamo audito operatori significativi che premono affinché si costituisca al più presto la borsa elettrica. Personalmente reputo che prima di costituirla sarebbe necessaria una pluralità di operatori, oggi inesistente.

ERMINIO ANGELO QUARTIANI. Intervengo brevemente per sottolineare che le relazioni proposte sollecitano una lettura non acritica dei processi di liberalizzazione e degli obiettivi posti dalla riforma. È un invito che non può esaurirsi nel formulare alcune domande che rischierebbero di riproporre, in piccolo, questioni abbondantemente affrontate, che esaminano in termini critici quanto è stato realizzato e proposto e ciò che è ancora necessario realizzare.
Il contributo dei nostri ospiti è tale che non dovrebbe esaurirsi in questa sede.

PRESIDENTE. Il contributo dei professori Clô e Pistella sarà senz'altro utile anche ai fini della predisposizione del documento conclusivo da parte della Commissione.

ALBERTO CLÔ, Professore in economia industriale presso l'Università di Bologna. Per quanto riguarda la prima domanda, non esprimo giudizi sull'operato dell'ENEL, che da quando ha avuto piena autonomia gestionale si è mossa nell'ambito di vincoli entro cui le era consentito operare ed ha cercato di rispondere al proprio scopo, cioè creare valore. Non mi rivolgo a chi ha posto la domanda, ma non ci si dovrebbe compiacere del fatto che l'ENEL ha avviato la privatizzazione e implicitamente pretendere che l'ENI abbia il ruolo che doveva avere precedentemente. Quello della quota detenuta dallo Stato è un falso problema; abbiamo cambiato le cose, nel senso che prima i sistemi gas e metano facevano perno su due soggetti, a cui era demandata tutta la responsabilità: il sistema elettrico faceva perno sull'ENEL, il sistema gas sulla SNAM. L'attuale scelta liberalizzatrice ha liberato questi soggetti dalla responsabilità di corrispondere ad interessi generali. La critica di fondo che faccio alla riforma adottata è che essa sia suggestiva sul piano intellettuale accademico, ma presenti un tasso di pragmatismo quasi nullo. Oggi, il sistema è fuori controllo perché nessuno sa chi deve fare cosa: la frammentazione delle responsabilità ha condotto all'irresponsabilità generale. L'ENEL ha fatto ciò che le era consentito in un contesto in cui non era più soggetto monopolista. Quando l'Autorità afferma che i minori investimenti nella distribuzione provocano determinati rischi, la domanda riguarda chi sia il soggetto a cui essa si rivolge. In questo caso, è stata persino operata la separazione tra proprietà e gestione, secondo


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lo schema di «salsa» californiana che ricordavo all'inizio. Molti difetti di questa riforma sono riconducibili non tanto alla politica, ma ai tecnici consiglieri.
Per quanto riguarda la seconda domanda, penso che le riforme vadano giudicate in base agli esiti e la liberalizzazione aveva la presunzione - nei modi in cui è stata effettuata - di migliorare l'efficienza, ridurre i costi ed i prezzi. Ciò non è avvenuto, né accadrà nei prossimi anni: prendiamone atto. Era una riforma molto complessa dal punto di vista istituzionale (il gestore, l'acquirente unico, la borsa e così via) e in questo momento ci troviamo a metà del guado con un sistema che non si sa cosa sia. È necessario fare il punto della situazione e decidere se, al momento, l'assetto sia ancora valido rispetto agli obiettivi attesi o meno. La borsa di per sé è certamente utile perché rende efficienti i mercati e dà trasparenza ai prezzi.
Il professor Pistella ha chiuso il suo intervento parlando dell'informazione. Negli ultimi anni l'informazione, che rappresenta il parametro di efficienza dei mercati, è crollata: oggi non si sa nulla di quanto accade nel settore. ENI ed ENEL, in quanto enti pubblici, avevano un determinato obbligo, mentre al momento, in quanto competitori sul mercato, non pubblicano più nulla per non dare informazioni ai concorrenti. Ci troviamo in una situazione in cui non si hanno informazioni, riducendo la possibilità di scelta dei consumatori - mi riferisco ai clienti liberi -, in cui, al di là dell'assetto strutturale, la confusione dell'assetto istituzionale è un elemento di rischio, perché crea incertezza nel sistema e in tale stato di incertezza nessuno decide nulla.
Questo è il motivo che ha determinato la nostra sconfitta, ancora prima di incominciare, nella competizione con gli altri. La direttiva risale formalmente al dicembre 1996, ma la riunione politica sulla proposta della presidenza italiana è del 7 maggio. Il giorno successivo, negli altri paesi europei già erano noti gli intendimenti dei rispettivi governi e ciò ha consentito alle imprese di muoversi con una celerità incredibile. Fornisco un dato: nel 1990 la società Preussan electra produceva 40 miliardi di chilowattore ed era ottava in Europa: oggi ne produce 300. Quando si parla di pluralismo, si tratta di una semplificazione, perché l'apertura dei mercati ha fatto crescere le imprese: le grandi sono diventate grandissime, mentre le piccole sono sparite.
Il problema che metto sul tavolo è il seguente: quali speranze ha l'ENEL con una dimensione di uno a tre o di uno a quattro rispetto ai grandi competitori? In Italia, ci siamo preoccupati di porre dei massimali, cosa che all'estero non è accaduta. In Germania vi erano sette grandi imprese ed una miriade di piccole imprese: oggi vi sono tre colossi che operano in tutti i settori energetici, con una mobilità incredibile nell'assumere decisioni. La concentrazione è il tratto unico di tutti i sistemi europei (la Spagna ha due imprese, l'Olanda ne ha due, il Belgio una, la Germania tre) e la piccola dimensione è perdente: questo è il problema reale con cui dobbiamo confrontarci, avendo presente che non possiamo tornare indietro.
La fase due delle direttive stabilirà le regole del gioco nella seconda fase di competizione. Sarà interessante capire se il mercato rilevante sarà quello nazionale o quello europeo e quindi se la quota di mercato dovrà essere calcolata a livello nazionale od europeo. La riforma deve favorire il consumatore e quindi la situazione sarà stabilita attraverso la competizione, ma se si tratta di difendere i competitori stabilendo prezzi più alti ai consumatori, la giudico negativamente: la politica concorrenziale deve andare a beneficio - ripeto - dei consumatori.

FABIO PISTELLA, Professore in economia applicata all'ingegneria presso l'Università di Roma 3. Vorrei essere molto pragmatico nella mia risposta. Non credo che i problemi sulla qualità del servizio elettrico nel meridione siano riconducibili ad una distrazione o ad una cattiva volontà dell'operatore principale, l'ENEL. Sono investimenti programmati da lungo tempo e in gran parte bloccati da dettagli


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di carattere procedurale. Il cosiddetto decreto sblocca centrali è, da questo punto di vista, emblematico. Vi è un braccio di ferro su un dato di sostanza: la via rimane quella di prima o meno? Di questo bisogna parlare. Qual è il percorso affinché si possa fare un elettrodotto? Da molto tempo è tutto fermo a Santa Eufemia, uno snodo particolare per l'interconnessione in un comprensorio abbastanza ampio del sud. Se fossi l'amministratore dell'ENEL, non riuscendo a risolvere questo snodo, sentirei il dovere, qualora l'azionista Ministero dell'economia e delle finanze mi chiedesse di creare valore, di svilupparlo in altro modo. Non sono peraltro state prese decisioni di cancellazione di investimenti programmati. Vi è lo strano meccanismo nella logica tariffaria di considerare gli investimenti reputati necessari una benevola concessione dell'opportunità di certi investimenti. Non vedo nella struttura tariffaria decisa dall'Autorità un elemento di stimolo affinché ciò avvenga; forse vi è un rovesciamento di forze necessarie.
Reputo la borsa l'attico della costruzione e se ho problemi con le fondamenta dell'edificio non prendo nemmeno in considerazione l'attico. Non credo che siamo maturi, data la non completa realizzazione del sistema previsto dal cosiddetto decreto Bersani, per dare comunque applicazione al dispositivo della borsa, soltanto perché è nell'elenco e quindi deve essere fatto: in assenza di necessarie precondizioni, sarebbe inadeguata.
Non vorrei aver dato l'impressione con ciò che io suggerisca la rimessa in discussione di tutta l'impalcatura del decreto Bersani. Credo che vi siano tre o quattro dettagli che devono essere riesaminati e discussi, una sorta di lavoro di manutenzione straordinaria e non un intervento di demolizione e sostituzione.

PRESIDENTE. Ringraziamo in maniera veramente sentita i professori Clô e Pistella per gli interessanti elementi forniti, augurandoci che possano essere un utile contributo alla riconsiderazione della politica energetica complessiva del nostro paese.
Dichiaro conclusa l'audizione.

La seduta termina alle 18,20.