X COMMISSIONE
ATTIVITÀ PRODUTTIVE, COMMERCIO E TURISMO

INDAGINE CONOSCITIVA


Seduta di mercoledì 13 febbraio 2002


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La seduta comincia alle 15.05.

Sulla pubblicità dei lavori.

PRESIDENTE. Avverto che, se non vi sono obiezioni, la pubblicità dei lavori sarà assicurata anche mediante l'attivazione dell'impianto audiovisivo a circuito chiuso.
(Così rimane stabilito).

Audizione di rappresentanti di Federchimica.

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sulla chimica in Italia, l'audizione di rappresentanti di Federchimica. Sono presenti il cavaliere del lavoro, dottor Giorgio Squinzi, presidente di Federchimica, il dottor Claudio Benedetti, direttore generale, il dottor Narciso Salvo, direttore centrale rapporti istituzionali, il dottor Vittorio Maglia, direttore centrale studi ed analisi economiche, e la dottoressa Benedetta Sica, della direzione centrale rapporti istituzionali.
Ricordo che con l'attuale audizione ha inizio l'indagine conoscitiva sull'industria chimica, che mira ad acquisire elementi di informazione e conoscenza che consentano di rispondere ad alcuni fondamentali quesiti rispetto al futuro di questo settore, in particolare quale sia il grado di competitività dell'industria chimica nel nostro paese e quali siano i fattori che lo influenzano e possano in prospettiva accrescerlo.
Ringrazio i rappresentanti di Federchimica della loro presenza e li invito a consegnare alla Commissione la documentazione in loro possesso. Do ora la parola al presidente Squinzi.

GIORGIO SQUINZI, Presidente di Federchimica. Vorrei, in primo luogo, rappresentare il quadro della chimica in Italia, che, anche in seguito alle informazioni che circolano sulla stampa, non è chiaro.
La chimica italiana è, ancora oggi, di assoluta preminenza tra i settori produttivi nazionali. Rappresenta circa 200 mila addetti (cifra che sale considerevolmente considerando anche i lavoratori dell'indotto), con un fatturato che nel 2000 ha superato i 50 miliardi di euro. Tra i vari comparti produttivi, si caratterizza per essere un settore in cui l'attività di ricerca, di sviluppo ed innovazione è più spinta, perché svolta non soltanto nelle imprese di punta.
La chimica può essere definita come il turbo nel motore del made in Italy, perché la capacità nazionale di competere sul mercato globale è spesso legata alla capacità innovativa di tale comparto. Ad esempio, nel settore dei grandi stilisti vi è un contenuto preciso di innovazioni portate dalla chimica nei tessuti o, in quello dei grandi pellettieri, nelle pelli.
La chimica italiana, negli ultimi 15 anni, ha attraversato una fase di trasformazione che ha condotto ad un deciso ridimensionamento dei grandi attori chimici nazionali (in modo particolare l'Enichem è ad un livello molto più ridotto rispetto a dieci anni fa) e, come compensazione, ad una crescita delle piccole e medie imprese. Oltre il 50 per cento della produzione chimica italiana proviene, oggi, dalle piccole e medie aziende con focus specialistici nei vari settori e con una propensione all'esportazione molto elevata.


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Infatti, se il deficit complessivo della bilancia commerciale chimica italiana, essenzialmente determinato dalla chimica di base, è abbastanza pesante - pari ad una cifra di circa otto miliardi di euro - , non dobbiamo dimenticare la presenza di un export molto elevato (oltre 24 miliardi di euro) determinato dalla chimica delle specialità e delle formulazioni, che rappresenta un fattore importante di competitività del sistema. Sottolineo inoltre la notevole crescita della quota di esportazione, più di 20 punti percentuali negli ultimi dieci anni.
Il deficit - come ho già detto - si concentra nella chimica di base (le materie prime di origine petrolchimica o i loro derivati immediati), mentre per quanto riguarda i prodotti della chimica di trasformazione abbiamo saldi attivi. Tra questi settori ricordo quello delle vernici, la cosmetica (con un saldo attivo di circa un miliardo di euro), la detergenza e la farmaceutica. In modo particolare, la chimica italiana è leader mondiale nel settore delle materie prime farmaceutiche, dove abbiamo un'esportazione pari all'80 per cento del fatturato. Vorrei sottolineare che esistono anche nicchie specifiche in cui aziende chimiche italiane hanno posizioni di leadership mondiale. Ricordo, ad esempio, il gruppo Bracco nella diagnostica, Lamberti nel settore degli additivi, l'ACS Dobfar nei materiali intermedi per la chimica farmaceutica e l'azienda Mapei, da me rappresentata nel settore degli adesivi per l'edilizia. All'interno di una struttura diversa da quella degli altri grandi paesi europei - in particolare Germania e Francia -, nella chimica italiana di trasformazione esistono aziende che rappresentano punte di eccellenza.
La chimica di base rimane un settore critico. Se consideriamo che l'importo complessivo di 8 miliardi di euro del deficit di settore - cui ho già accennato - è pari al valore di due milioni di tonnellate circa di etilene (la materia prima petrolchimica poi trasformata in materie plastiche o in altre materie prime di base), cioè tre volte la produzione di un sito come Porto Marghera, possiamo capire quali difficoltà incontrano le nostre aziende per programmare, localizzare ed ottenere le autorizzazioni necessarie ad investimenti di questo tipo.
Siamo tutti al corrente del disimpegno in atto da parte del capitale italiano - in particolare del gruppo ENI - nel settore della chimica di base. Questa situazione può essere giustificata in due modi: in primo luogo, inserendola in una logica storica, dati i ritardi accumulati per l'impossibilità di realizzare interventi di razionalizzazione e di attualizzazione del settore e, in secondo luogo, ricordando il cambiamento del panorama mondiale della chimica. Grandi gruppi internazionali, quali i tedeschi Höchst, Basf e Bayer, stanno abbandonando l'attività petrolchimica di base per concentrarsi su quella a più alto valore aggiunto, e nel mercato globale stanno avanzando rispetto agli investitori legati alle materie prime, come petrolio e gas naturale. La difficile situazione italiana deve essere considerata all'interno del contesto globale. Personalmente ritengo che non sia importante tanto la nazionalità del capitale quanto quella del prodotto, e sono perciò favorevole all'ingresso di investitori esteri, se esistono, determinati a finanziare ed a potenziare le nostre risorse scientifiche (attività di ricerca, di progettazione e di commercializzazione dei prodotti), dato che l'azionista pubblico italiano, l'ENI, ha fatto una scelta di disimpegno in questo settore.
Per le proprie caratteristiche di attività industriale complessa, la chimica ha bisogno di competitività di sistema, e mi riferisco al complesso delle normative, all'efficienza della pubblica amministrazione, alle infrastrutture, al costo dell'energia ed agli investimenti sulla formazione. Il nostro paese si è dotato da circa quattro anni, in seno al Ministero delle attività produttive, di un osservatorio per il settore chimico, che ha operato con molta determinazione effettuando analisi e proponendo soluzioni. Si tratta di uno strumento funzionale non tanto ad una


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politica industriale e dirigistica, quanto ad una promozione territoriale nel paese ed all'estero per attirare nuovi investimenti, coordinando il lavoro delle istituzioni centrali e locali. Attraverso di esso, il Ministero delle attività produttive può lavorare per la difesa degli interessi industriali, per lo sviluppo dell'occupazione e per coinvolgere altri ministeri, anche se ciò non è avvenuto con la necessaria ampiezza. Mi riferisco, in modo particolare, al settore dell'ambiente, della ricerca, della salute, della formazione ed ai problemi relativi ai trasporti.
Per migliorare la competitività dell'industria chimica italiana riteniamo necessari determinati interventi. In primo luogo, occorre incrementare gli accordi di programma, coinvolgendo maggiormente le organizzazioni delle imprese e le parti sociali in generale. Un'altra questione molto importante - anche, e non solo, per il settore della chimica - riguarda le bonifiche. A tale proposito, abbiamo già sottolineato in tutte le sedi possibili, in modo particolare presso la Commissione ambiente della Camera dei deputati, la necessità di affrontare con urgenza questo problema con un approccio diverso da quanto è avvenuto sino ad ora, trasformando lo strumento della valutazione di rischio in modo più flessibile rispetto all'approccio tabellare (che considera sullo stesso piano i distributori di benzina e i grandi siti chimici o petrolchimici), operando una distinzione tra le contaminazioni verificatesi prima dell'entrata in vigore della legge sulle bonifiche e quelle successive, effettuando un trattamento differenziato tra siti dismessi e quelli in cui è ancora in essere la produzione, attivando la messa in sicurezza con piani di monitoraggio a lungo termine e valorizzando gli accordi volontari a livello di imprese ed aree industriali (a cui ho già fatto cenno).
La Federchimica, da oltre dieci anni, ha lanciato in Italia il progetto internazionale responsible care, avviato in Canada ed estesosi nella maggior parte dei paesi industrializzati, per avere un approccio responsabile nella nostra attività nei confronti dell'ambiente e dell'uomo. Stiamo spingendo da tempo le nostre aziende sulla strada della certificazione ambientale ISO 14001 e della registrazione EMAS. Mentre abbiamo avuto un ottimo successo con le certificazioni di qualità ISO 9001 ed ambientale 14001, le registrazioni EMAS di siti chimici sono ancora limitate a qualche decina, perché le aziende non ne vedono l'utilità. Se, come in altri paesi industrializzati come la Germania, vi fosse una minore onerosità dell'iter burocratico ed una semplificazione dei percorsi autorizzativi, la spinta per le aziende sarebbe maggiore. Riteniamo importante, quindi, il riconoscimento concreto degli impegni volontari attraverso la semplificazione delle procedure per le aziende impegnate in certificazioni ambientali volontarie.
Un altro punto importante è sicuramente il recepimento non peggiorativo, sia nei tempi sia nella qualità, della normativa comunitaria; per fare solo un esempio tra tanti, potrei ricordare il caso della direttiva 98/44, relativa alla protezione giuridica delle invenzioni biotecnologiche, che incontra in Italia serie difficoltà di recepimento.
Data la struttura della industria chimica italiana, un aspetto molto importante è costituito, poi, dal sostegno alle piccole e medie imprese attraverso forme semplificate di accesso alle agevolazioni e agli incentivi previsti.
A tutto ciò, naturalmente, deve accompagnarsi una semplificazione ed un accorpamento delle procedure assolutamente indispensabili per gli operatori del settore. Non chiediamo, però, normative «più leggere» o «sconti autorizzativi»; chiediamo, piuttosto, la velocizzazione e la semplificazione delle procedure per rendere certe, applicabili e amministrativamente fattibili le norme che già esistono. Queste ultime, in altri termini, devono essere percepite in modo chiaro da tutti, e in specie dalle imprese e dagli stakeholder.
Anche altri fattori incidono sulla competitività delle imprese chimiche italiane; uno è, senz'altro, il problema del costo e della disponibilità di energia. Il nostro è


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sicuramente un settore ad alto utilizzo di energia, cosiddetto energivoro: le imprese debbono potere avere accesso all'energia a costi competitivi nel contesto europeo; inoltre, devono - attraverso un'opera di semplificazione di tutti i meccanismi di acquisto all'estero, sia di energia basata sul gas sia di energia elettrica - poter contare (evenienza non frequente) su quantità adeguate di energia. La nostra associazione - anche sulla base del contributo che ha recato all'indagine conoscitiva sulla situazione e sulle prospettive del settore dell'energia, avviata proprio dalla X Commissione - auspica si possa addivenire all'introduzione di modifiche legislative importanti, specie per quanto riguarda l'approvazione di una legge quadro sul GPL.
È chiaro che, per il settore chimico, si pone anche la questione dell'efficienza delle infrastrutture per i trasporti, specie quelli su gomma, così prevalenti nel sistema italiano. Al riguardo, dobbiamo, purtroppo, prendere atto della circostanza che, con il trasporto su strada, non si riesce ad assicurare livelli di sicurezza elevati. Se, ad esempio, prendiamo in esame lo scambio di sostanze chimiche tra l'Italia e la Francia, i quantitativi trasportati su ferrovia dalla Francia verso l'Italia sono pari ad otto volte quelli analoghi - vale a dire sempre su ferro - dall'Italia verso la Francia. Quindi, la situazione richiede un intervento incisivo; ci auguriamo, pertanto, che dall'avvenuta approvazione della legge n. 443 del 2001, la cosiddetta legge obiettivo - nonché dall'approvazione del disegno di legge collegato in materia di infrastrutture e trasporti, di cui è ancora in corso l'esame in questo ramo del Parlamento - possa veramente venire una spinta a provvedere in detta direzione.
Un'altra questione cruciale concerne il tema dell'innovazione, della ricerca e del raccordo con le università; in tale ambito - che, evidentemente, riguarda da vicino l'essenza del nostro modello produttivo - un miglioramento è atteso dalla realizzazione del brevetto europeo generale, un brevetto unico che sia valido per tutto il territorio dell'Unione europea. Si deve evitare che i pochi processi innovativi e competitivi possano essere ostacolati da una normativa obsoleta quale, per esempio, quella di cui alla legge n. 349 del 1991. Quest'ultima, continuando a produrre i suoi effetti, non permette alle imprese italiane operanti nel settore delle materie prime farmaceutiche di produrre per l'esportazione verso i paesi in cui la copertura brevettuale sia scaduta: ciò indurrà le imprese italiane a delocalizzarsi all'estero per potere competere meglio sul mercato globale. Personalmente, dunque, ritengo sia fondamentale, per la competitività della chimica italiana, sostenere fortemente l'impegno nella ricerca e nello sviluppo; aggiungo che il processo va favorito anche attraverso incentivi finalizzati ad incrementare la collaborazione tra ricerca industriale e ricerca universitaria. Per quanto riguarda le università italiane, il paese può ancora contare su punte di eccellenza; basterebbe citare il professor Natta che, per la chimica (esattamente, per i suoi studi sulla sintesi stereospecifica del propilene), ha ricevuto, nel 1963, il premio Nobel insieme a Karl Ziegler.
Nel panorama italiano, la grande chimica - scomparsi (o, comunque, detenendo un'importanza assai minore rispetto al passato) i grandi attori italiani - è rappresentata dalle multinazionali, che coprono oltre il 25 per cento dell'intero settore chimico del paese. Oltre il 50 per cento del settore è, invece, coperto da piccole e medie imprese molto competitive e molto efficienti sul mercato globale.
Da chimico - sono laureato in chimica industriale - credo fortemente che il paese non possa fare a meno della chimica, settore che rappresenta il turbo del made in Italy. Come imprenditore, ho sempre cercare di esercitare la mia intrapresa coerentemente a tali miei convincimenti. Resto a disposizione della Commissione per eventuali domande e chiarimenti.

PRESIDENTE. La ringrazio molto, presidente, per la sua esposizione.


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Do la parola ai colleghi che desiderano intervenire per porre quesiti.

LUIGI GASTALDI. Desidero, anzitutto, ringraziare il dottor Squinzi e Federchimica per la partecipazione all'audizione odierna. La Commissione ha avuto modo, in occasione di un'audizione informale, di ascoltare quali siano gli intendimenti strategici dell'ENI; oggi, da parte del presidente di Federchimica, riceviamo la conferma del disimpegno dei grandi gruppi dalla chimica di base. Qualche dato positivo viene, però, sia dalla presenza di imprese straniere che producono in Italia sia, soprattutto, dall'intervenuto passaggio delle imprese italiane dalla chimica di base alla diversificazione dell'indirizzo produttivo verso altri importanti comparti del settore.
Il nostro maggiore interesse afferisce al grado di competitività della chimica italiana e alla sua capacità di innovazione; al riguardo, ho seguito con attenzione quanto detto dal presidente e ho dato anche una scorsa alla nota che egli ha lasciato all'attenzione della Commissione.
Si è accennato ad una serie di difficoltà che il settore incontra: chiaramente, il costo dell'energia ha un impatto rilevante, ma si è accennato anche alla mancanza di adeguate infrastrutture, alla pressione fiscale, all'inefficienza della burocrazia nonché, infine, alla mancanza della necessaria flessibilità sul lavoro. Desidererei, al riguardo, che tali questioni fossero meglio approfondite.

LUIGI D'AGRÒ. Ringrazio anch'io il presidente di Federchimica per i dati che ha voluto portare alla nostra attenzione in occasione della odierna audizione. Il 40 per cento della produzione chimica, in Italia, è realizzata da impianti di imprese straniere...

GIORGIO SQUINZI, Presidente di Federchimica. Un po' meno, tra il 25 ed il 30 per cento. Oggi la percentuale non è del 40 per cento perché Enichem, attualmente, risulta ancora tutta italiana. Alla fine del processo di dismissione, la cifra sarà sicuramente quella da lei indicata.

LUIGI D'AGRÒ. Quale significato ha per gli altri paesi europei questo 40 per cento che viene prodotto, di fatto, da imprese straniere in Italia? Molte volte, infatti, la delocalizzazione della produzione chimica viene considerata in una logica di salvaguardia del proprio ambiente; anche da noi - nell'immaginario collettivo, ma a lungo anche nella considerazione della politica - l'industria chimica è stata considerata una presenza in un settore, per così dire, alquanto ingombrante.
Lei, presidente, ha fatto riferimento all'importanza del sistema paese per la competitività dell'industria chimica italiana. Quando asserisce che la chimica italiana è, di fatto, il turbo del made in Italy, fa un'affermazione che in questa sede incontra il consenso di tutte le componenti in considerazione dell'esigenza che la struttura imprenditoriale del paese - così diversa, per la tipologia dei prodotti made in Italy, da tutte le altre - abbia la possibilità di essere concorrenziale sul mercato globale, il che non è assolutamente facile. Lei sostiene, comunque, che il settore sarebbe, di per se stesso, competitivo mentre, invece, il sistema paese non lo sarebbe altrettanto. Insomma, il ritardo della chimica italiana sarebbe determinato più da fattori esogeni che da fattori endogeni al settore.
Lei faceva riferimento all'esigenza di una legge quadro sul GPL; al riguardo, circa il costo dell'energia, sarebbe opportuno puntualizzare meglio alcuni aspetti, anche in relazione all'indagine conoscitiva che sulla materia è in corso presso questa Commissione. Ricordo, a tale proposito, l'articolo stralciato dal testo del collegato alla legge finanziaria in materia di concorrenza in considerazione della circostanza che qualsiasi intervento sul sistema energetico italiano dovrebbe essere operato, da parte del Governo e del Parlamento, solo al termine dell'indagine.


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Lei ha fatto anche riferimento alle materie prime farmaceutiche, in particolare ai principi attivi farmaceutici; sarebbe opportuno, al riguardo, qualche chiarimento, perché abbiamo assistito, di fatto, ad uno scontro tra opposti interessi: quelli interpretati da Federchimica, da una parte, e quelli interpretati da Farmindustria, dall'altra. Il disegno di legge in materia di iniziativa privata e sviluppo della concorrenza, che l'Assemblea di Montecitorio ha approvato in prima lettura oggi pare sia stato al centro di molteplici preoccupazioni nel corso dell'iter che lo ha portato in aula, preoccupazioni delle quali, peraltro, ci siamo fatti carico, ponendo correttamente l'attenzione sul rischio di una copertura brevettuale esorbitante rispetto alla media europea. Ciò, infatti, ci metterebbe nelle condizioni di non poter essere concorrenziali o, peggio ancora, di non poter vendere, di fatto, i nostri prodotti all'estero per due anni; addirittura, poiché molte imprese italiane delocalizzerebbero le loro attività, ne conseguirebbe anche una considerevole perdita di posti di lavoro nel settore.
Da tale punto di vista, ci interesserebbe sapere se le modifiche da voi suggerite potrebbero avere anche una ricaduta notevole sul costo dei farmaci, in quanto ciò costituirebbe per il paese un fatto estremamente positivo.

RUGGERO RUGGERI. Ringrazio in modo particolare il presidente di Federchimica, anche perché è un vero sportivo, essendosi egli dedicato ad uno sport cui sono particolarmente affezionato, cioè il ciclismo!
Vorrei focalizzare alcune domande sulle piccole e medie imprese, che mi pare abbiano un ruolo quasi strategico all'interno del sistema chimico italiano. In base a quanto da lei riferito e a quanto adesso ho potuto sommariamente leggere, le piccole e medie imprese sono importanti per il paese ma incontrano diversi problemi: uno di essi sarebbe costituito da una legislazione adatta più alle grandi imprese e meno alle piccole. Le chiederei, pertanto, di volere fornire alla Commissione una serie di suggerimenti per eventuali modifiche legislative a favore delle piccole imprese.
Nel campo della chimica di trasformazione - non mi riferisco, quindi, alla chimica di base - operano soprattutto le piccole imprese: la dimensione piccola, in tale ambito, è già ottimale oppure la piccola può diventare grande? Le domando, perciò, se le imprese nate piccole debbano rimanere tali - forse perché così, causa la loro flessibilità, hanno più competitività - o se non sia auspicabile una loro evoluzione verso la dimensione grande.
Gli Stati Uniti seguono una politica governativa di parziale attenzione ai problemi ambientali: mi riferisco, evidentemente, al mancato recepimento delle indicazioni contenute negli accordi di Kyoto. Per il nostro settore, secondo lei, tutto ciò da parte dell'industria americana - o di quelle che, comunque, hanno meno vincoli ambientali rispetto alle nostre - potrebbe costituire un dumping ambientale?
Nella relazione che ha consegnato alla Commissione si affronta anche l'importante tema della presenza delle imprese estere in Italia: si accenna, ad un certo punto, ad elementi di giudizio che, con riferimento a tale problematica, emergerebbero dalle ricerche svolte. Le chiedo, al riguardo, se sia possibile acquisire la documentazione di tali ricerche per approfondire meglio il tema.

ERMINIO ANGELO QUARTIANI. Presidente, le rivolgo alcune brevi domande, la prima riguardante la questione dei siti inquinati; ovviamente, non mi riferisco solo alle aree dismesse, ma anche a quelle che, ancora attive, occupano, per le loro produzioni, parte del territorio.
Come ritiene, la vostra associazione, che si possa dare attuazione ai programmi di risanamento in una condizione in cui alla scarsità dei finanziamenti si aggiunge quella sorta di gioco irresponsabile allo «scaricabarile» tra i diversi soggetti che dovrebbero intervenire? Ho avuto modo di


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partecipare ad alcuni appuntamenti in cui avete presentato il vostro programma di responsible care: ovviamente, il riferimento agli impegni volontari è un fattore positivo, che depone a favore dell'impegno che l'industria chimica in Italia vuole ed è in grado di mettere in campo. Tuttavia, in assenza di riconoscimenti reali e di un'iniziativa istituzionale compiuta, probabilmente non si otterranno quei risultati che richiederebbero, invece, una collaborazione ampia con la produzione di adeguate sinergie.
La seconda domanda riguarda i costi dell'energia. Come ha già detto il presidente Squinzi, la chimica è un settore «energivoro» e l'accelerazione dei processi di liberalizzazione nel campo della produzione di energia potrà fornire una risposta alle piccole aziende, che rappresentano una parte importantissima di questo comparto. Le aziende di media dimensione hanno altri problemi riguardanti soprattutto l'accesso diretto alle fonti di approvvigionamento, anche nel mercato internazionale ed europeo.
Sarebbe interessante capire la vostra posizione, avendo già avuto modo di conoscere l'atteggiamento di chiusura dei rappresentanti dell'ENI circa la possibilità di utilizzare reti di trasporto per l'accesso diretto. Vi sono politiche aziendali di grandi soggetti che ostano, in questo campo, al raggiungimento di un accesso più diretto, da parte di aziende o consorzi, al mercato della fonte primaria, per sopperire alla necessità dell'abbattimento dei costi dell'energia e garantire così una maggiore competitività al sistema.

PRESIDENTE. Abbiamo svolto un'audizione informale con i rappresentanti dell'ENI, che hanno ribadito quanto contenuto nel vostro documento in ordine alla loro volontà di uscire da questo settore, non più considerato strategico. A parte le soluzioni che saranno adottate da questa società in merito alla scelta degli interlocutori e delle modalità di vendita, sarebbe possibile trovare gruppi ed acquirenti potenziali, salvaguardando così «l'italianità» del settore, se in luogo di una cessione complessiva del settore chimico dell'ENI si giungesse ad una sua suddivisione (posto che, trovandoci in un mercato libero, vi è spazio e ruolo anche per le imprese straniere), o è necessario subire una presenza a fini prevalentemente commerciali, come dalla lettura dei giornali appariva la trattativa riguardante la cessione ad un gruppo arabo? Una diversa impostazione potrebbe meglio favorire un rilancio del settore nel suo complesso, creando le condizioni per una ulteriore capacità di produzione di ricchezza nel paese.
Do la parola al presidente Squinzi per la replica.

GIORGIO SQUINZI, Presidente di Federchimica. Il tema della flessibilità del lavoro posto dall'onorevole Gastaldi è molto importante. Colgo l'occasione per informare che questa mattina, verso le tre, è stato firmato il nuovo contratto nazionale di lavoro dell'industria chimica senza che vi siano stati scioperi e con la presenza compatta delle tre confederazioni sindacali a testimonianza...

PRESIDENTE. Avete fatto meglio del Governo.

GIORGIO SQUINZI, Presidente di Federchimica. Per il momento sì, a testimonianza di un clima delle relazioni industriali tra i più avanzati in Italia. Nel passato le parti sociali (sia le confederazioni unitarie sia le associazioni imprenditoriali) erano viste come coloro che compivano fughe in avanti. Io stesso firmai un precedente contratto, nel 1998, esposto alle polemiche ed ebbi severe reprimende da parte dei dirigenti di Confindustria, salvo poi ottenere un riconoscimento successivo e tardivo del fatto che si trattava del miglior contratto sottoscritto in quegli anni in Italia, perché introduceva un concetto di flessibilità molto avanzato, con il recupero dello straordinario nel conto ore e la possibilità di organizzare (tenendo presente la struttura delle piccole e medie imprese, con cicli di lavoro fortemente


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stagionali) turni lavorativi da quattro a sei giorni, da 24 a 48 ore, senza aggravi per le aziende, semplicemente utilizzando il monte ore straordinari con la distribuzione lungo tutto l'anno.
Il contratto firmato questa notte (a conferma di questo clima di relazioni industriali in un momento molto difficile, all'inizio di un anno che tutti considerano non brillante) si caratterizza per un costo del lavoro decisamente contenuto, per il recupero dell'inflazione distribuito sull'arco di tre anni, per la reintroduzione della festività del 2 giugno recuperata in termini di riduzioni di orario (a riconoscimento dell'importanza della festa nazionale, come ha giustamente sottolineato con vigore il Presidente Ciampi), per la particolare attenzione alla formazione continua, svolta nelle imprese del settore in via sperimentale nell'ultimo biennio ed ora istituzionalizzata.
Le associazioni firmatarie del contratto, Federchimica e Farmindustria, danno atto al sindacato di avere mantenuto un atteggiamento estremamente responsabile che lo ha condotto ad accettare condizioni di miglior favore per alcuni settori produttivi, in modo particolare per le fibre e la ceramica, che si trovano in condizioni di particolare disagio. Negli ultimi quattro anni, ciò è stato attuato attraverso l'istituzione a livello contrattuale di un fondo previdenziale sanitario integrativo. Questa è una decisione assunta e formalizzata, anche se non sappiamo ancora se potrà essere effettivamente realizzata in seguito alla regionalizzazione dell'assistenza sanitaria.
Ciò rivela l'esistenza, nel nostro settore, sia della flessibilità del lavoro sia, in generale, di relazioni industriali estremamente avanzate; peraltro, proprio siffatte condizioni hanno permesso, in modo particolare ad Enichem, di effettuare un down sizing importante in questi ultimi dieci anni senza affrontare forti tensioni sociali. Sicuramente, dunque, dal mio punto di vista e per quanto riguarda il settore della chimica, il clima delle relazioni industriali, nel nostro paese, è quanto di meglio si possa avere.
Si può fare chimica senza intaccare l'ambiente: la conferma, quest'anno, viene, nell'ambito del programma responsible care, dall'ultimo rapporto ambientale annuale, cui hanno partecipato le maggiori aziende aderenti a responsible care, un campione di 400 siti produttivi. Di detti siti - tra l'altro, i maggiori nel mondo - si sono così potuti registrare, oltre a tutta una serie di altre informazioni, i dati delle emissioni inquinanti nell'aria e nell'acqua, nonché i dati degli infortuni. Si è così dimostrato che, in questi dieci anni, in Italia le emissioni in acqua sono diminuite di oltre il 50 per cento, quelle in aria di circa il 90 per cento ed il tasso di infortuni dell'industria chimica - sia che si guardi agli infortuni sia che si considerino le malattie professionali - è il più basso in assoluto tra i vari comparti produttivi del nostro paese. Quindi, andrebbe una volta per tutte sfatato il «mito» - costruito anche da trasmissioni televisive quali, ad esempio, quelle condotte da Santoro - secondo il quale la chimica inquinerebbe e ucciderebbe; infatti, ciò non è più vero e non sarà vero neanche per il futuro. Quindi, si può programmare la crescita del nostro settore industriale in Italia senza avere timori di tale tipo.
Il sistema paese è sicuramente importante per la competitività del sistema; al riguardo, potrei portare ad esempio anche la mia esperienza personale di imprenditore. Il mio gruppo, oggi, opera con 36 siti produttivi, di cui sette in Italia e 29 all'estero; il nostro sito principale - il sito bandiera del gruppo - si trova a Robbiano di Mediglia, un paese alle porte di Milano, dove, dal 1974 al 1988, abbiamo stipulato tre convenzioni con il comune per successivi ampliamenti del sito medesimo, senza alcun problema, senza alcun tipo di incidente. Abbiamo poi atteso, dal 1988 al 1999, l'autorizzazione per la stipula di una convenzione per un ulteriore ampliamento; quindi, undici anni per programmare un ampliamento di un sito produttivo,


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tra l'altro un sito modello, certificato ISO 14.000, registrato EMAS e provvisto di certificazione OHSS 18.000, quella sulla sicurezza dei lavoratori. Ciò è quanto succede in Italia.
Tenga presente che in questi undici anni il gruppo Mapei, in tutto il mondo, ha costruito, senza mettere nel novero i diversi siti acquisiti, undici diversi stabilimenti con tempi di attesa per le autorizzazioni che non hanno mai superato i centoventi giorni: questa è, appunto, la differenza. Mapei come, del resto, in generale, la piccola e media industria chimica italiana, non riesce a programmare in tempi ragionevoli il proprio sviluppo ed i propri investimenti perché non vi è alcuna certezza sui tempi autorizzativi.
Siamo stati, come Federchimica, i massimi sostenitori della riforma Bassanini, perché ritenevamo fosse una delle partite su cui si giocava lo sviluppo civile ed industriale del paese. Dobbiamo constatare, però, che lo sportello unico è rimasto sulla carta, anche se, a tale proposito, ricordo che il ministro Bassanini, poco più di un anno fa, mi portò a visitare lo sportello unico di Mantova. Egli voleva, peraltro, convincermi che in Italia erano migliaia gli esempi di sportelli unici funzionanti; a Mantova, invero, funziona, le nostre imprese lo hanno confermato. Sempre a Mantova, tra l'altro, opera l'impresa di un mio vicepresidente, Aldo Fumagalli, il quale mi ha confermato sia l'esistenza e la funzionalità dello sportello unico sia la velocità nei percorsi autorizzativi. Sono, però, casi unici mentre, per potere essere competitivi, avremmo bisogno di avere 5.000 sportelli unici nei comuni italiani.
Ricordo benissimo un investimento programmato da Bayer in Italia e poi, invece, dirottato in Francia perché, dopo tre anni, la società ancora non riusciva ad avere tutte le autorizzazioni. Bisognerebbe evitare per il futuro il ripetersi di tali situazioni, purtroppo frequenti in passato.

PRESIDENTE. Si è riferito al caso di Ostiglia.

GIORGIO SQUINZI, Presidente di Federchimica. È informatissimo!

NARCISO SALVO, Direttore centrale rapporti istituzionali Federchimica. Una fonte energetica sicuramente interessante, sotto il profilo del rispetto ambientale, è il GPL, settore normato da oltre sessant'anni. Proprio in vista dello sviluppo, si sta puntando oggi sull'utilizzo di tale gas; attualmente, dati i recenti problemi ambientali dovuti ai problemi di autotrazione, alcune regioni - come, ad esempio, la Lombardia - stanno investendo in forme alternative di autotrazione, puntando su GPL e metano. Sicuramente, con lo sviluppo del GPL si renderà necessario dare una nuova cornice giuridica complessiva al settore. L'idea, che è del Ministero delle attività produttive, è da noi sostenuta e condivisa; ritenevamo, anzi, potesse trovare spazio nel disegno di legge collegato alla finanziaria esaminato da questa stessa Commissione. Correttamente, forse, il Governo vuole provvedere con un apposito disegno di legge in materia energetica.
Per il GPL, è interesse del nostro settore che si addivenga alla fissazione di criteri base in tempi abbastanza veloci, in modo, poi, da attuare, con un regolamento delegato, una risistemazione della materia.

GIORGIO SQUINZI, Presidente di Federchimica. Circa le materie prime farmaceutiche, è chiaro che, in questo momento, stiamo apparentemente in rotta di collisione con Farmindustria; dico apparentemente, perché non più tardi di ieri sera ho visto il presidente di Farmindustria, Giampietro Leoni - tra l'altro, un carissimo amico - con il quale ho passato tutta la serata e parte della notte. Federchimica e Farmindustria sviluppano assieme il sistema di relazioni industriali cui accennavo prima, che, lo ribadisco, è sicuramente il più avanzato in Italia. Certo, vi sono, all'interno di Farmindustria, alcune componenti che hanno adottato un certo tipo di comportamenti e di visioni ma, a mio avviso, non possiamo pretendere che in Italia si allunghi la durata della protezione


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brevettuale quando in tutti gli altri paesi del mondo la tendenza è opposta. Quantomeno, dobbiamo mettere in conto che le aziende leader del comparto degli intermedi per la chimica farmaceutica - che hanno clienti in tutto il mondo e che esportano per un valore di seimila miliardi di lire all'anno - delocalizzino le loro attività in quei paesi dove non vi è tale prolungamento delle coperture brevettali. A me sembra che la battaglia di Farmindustria - l'ho detto anche a Giampietro Leoni, che peraltro condivide la mia opinione - esprime una visione di retroguardia, non più attuale; bisogna che, pragmaticamente, anche Farmindustria ne prenda atto.

CLAUDIO BENEDETTI, Direttore generale Federchimica. Riguardo alla legge 19 ottobre 1991, n. 349, riguardante il CCP (certificato complementare di protezione), sottolineo che, in Italia, l'allungamento della durata della protezione brevettuale a 18 anni rispetto ad una media estera di 5 anni è assurdo ed iniquo, perché tutti i produttori esteri (tedeschi, francesi, cinesi ed indiani) produrrebbero queste sostanze senza alcun divieto né limitazione, mentre quelli nazionali non potrebbero farlo. Le aziende farmaceutiche detentrici del brevetto non avrebbero alcun rischio, perché in Italia non si può produrre né possono esservi importazioni parallele. Perciò produttori esteri sostituirebbero quelli italiani e ciò recherebbe grave danno riguardando circa trecento molecole (indubbiamente le più interessanti). Farmindustria si rende conto che, se non fossero gli italiani a produrre per l'estero, vi sarebbero altri a farlo, con una perdita secca per il nostro paese.

GIORGIO SQUINZI, Presidente Federchimica. A completamento del quadro descritto - è necessario essere obiettivi - non riteniamo che la liberalizzazione porti vantaggi sul costo dei farmaci in Italia.
Relativamente ai quesiti posti dall'onorevole Ruggeri, abbiamo già toccato il punto delle piccole e medie imprese. Personalmente, più che leggi da modificare ritengo che vi siano percorsi normativo-autorizzativi da semplificare e modificare. Ripeto, non chiediamo sconti, ma semplificazioni per rendere più rapidi i processi burocratici e ciò vale per le piccole, le medie e le grandi imprese. Altrimenti le grandi multinazionali dirotteranno gli investimenti in altre parti. In Italia il clima industriale è positivo e molti gruppi lo sentono in maniera precisa. Voglio citare un caso che ritengo estremamente positivo: l'acquisizione, ancora in corso, da parte di Solvay (un gruppo chimico presente in Italia da oltre 100 anni) di Ausimont, in seguito al disimpegno dell'azionista Montedison dal settore della chimica, a dimostrazione che all'estero credono nella qualità delle risorse umane del settore chimico.
Se creiamo un contesto positivo di percorsi facilitati e accelerati per le autorizzazioni agli ampiamenti, incentiviamo la crescita delle piccole imprese, ma dobbiamo incidere sui nodi descritti prima, che essenzialmente sono due: la complicazione del sistema normativo burocratico e l'inadeguatezza delle infrastrutture. Da imprenditore ho una visione semplicistica: non ritengo si tratti di un problema di relazioni industriali, né fiscale (perché, per esperienza personale, sono a conoscenza del fatto che pago più tasse in Germania che nel nostro paese). Nel mercato globale esistono le opportunità per stimolare la crescita delle piccole imprese e dobbiamo facilitare questa possibilità; per usare un termine ciclistico, è necessario «tirargli la volata».
Il mancato recepimento da parte degli Stati Uniti degli accordi di Kyoto potrebbe essere globalmente considerato come una sorta di dumping ambientale, però reputo più grave la minaccia proveniente da altri paesi. La competitività del sistema europeo (e italiano) è minata, più che dal mancato recepimento degli accordi di Kyoto, dal Libro bianco sulle sostanze chimiche, attualmente in preparazione presso il Parlamento europeo, che prevede una nuova autorizzazione per l'uso delle sostanze


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chimiche principali prodotte in quantità superiore ad una tonnellata. Ciò comporterà costi enormi, perché sarà necessario rifare tutti i dossier di autorizzazione per circa trentamila sostanze. Le stime fatte non sono univoche, ma può essere ragionevolmente presa in considerazione una cifra non inferiore ai dieci miliardi di euro, a cui si aggiungono i problemi relativi alla ripartizione di tali costi. Tutto ciò negli Stati Uniti non esiste e questo sarebbe veramente un vantaggio competitivo per il sistema americano.
Non dobbiamo dimenticare, inoltre, che vi sono paesi in condizioni peggiori degli Stati Uniti, dove anche le grandi multinazionali europee della chimica stanno decentrando le proprie produzioni, che sono i competitori più diretti. Mi riferisco all'India, alla Cina ed in generale all'estremo oriente. L'accordo di Kyoto è importante, ma non lo reputo un fattore decisivo. Il Libro bianco sulle sostanze chimiche può sbilanciare molto di più il rapporto di competitività tra Europa e Stati Uniti.
Relativamente alle ricerche svolte, il giudizio è favorevole. Sono presenti nel sito di Federchimica.

VITTORIO MAGLIA, Direttore centrale studi ed analisi economiche. Possiamo inviarle come richesto. Si tratta di ricerche nostre e di ricerche svolte all'esterno.

GIORGIO SQUINZI, Presidente Federchimica. La questione dei siti inquinati, posta dall'onorevole Quartiani, è sicuramente molto delicata. Come ho già detto nella mia relazione introduttiva, bisogna in primo luogo decidere le procedure e fare le necessarie distinzioni per evitare, come accade ora, l'assimilazione di tutte le situazioni agli impianti più complicati.
Per quanto riguarda la questione della provenienza dei finanziamenti, è necessario prima decidere cosa fare nei siti inquinati, perché in alcuni casi si pretende di «scorticare» il terreno e ritrattarlo tutto: è irrealistico ed inattuabile, se non a costi astronomici. Innanzitutto dobbiamo assumere un approccio concreto e valutare quali siano le soluzioni alle situazioni di rischio reale, in cui ad esempio vi è un percolamento di sostanze pericolose nell'acqua o immissioni nell'ambiente, che devono essere immediatamente aggredite e sistemate. Laddove vi sono siti dismessi con rischi «dormienti», è possibile adottare procedure diverse e sistemi di messa in sicurezza meno costosi.
Va rivisitato tutto il tema bonifiche: parlare di costi, altrimenti, non è facile. Certo, suscitano maggiore scalpore determinante situazioni legate ai grandi impianti petrolchimici; Porto Marghera è un caso classico. Andrebbe, anzitutto, compiuto un investimento conoscitivo nella ricerca per dimensionare esattamente l'entità di tali pericoli. Ad esempio, sui rifiuti depositati di Porto Marghera proprio il mio gruppo ha effettuato una ricerca, insieme con il comune di Venezia e con tutti gli enti interessati: abbiamo, addirittura, alcuni brevetti innovativi che ci permettono di utilizzare tali rifiuti - che sono stati depositati in alcune delle isolette della laguna - come sostanze pozzolaniche per migliorare la qualità dei calcestruzzi. Addirittura, come il sindaco Costa sa, si potrebbero vendere i rifiuti accumulati sulle isole come additivo per il calcestruzzo per migliorarne la qualità; quindi, vi deve essere un approccio a tutto campo.
Eventuali investimenti pubblici dovrebbero andare in questa direzione, al fine di conoscere le situazioni e trovare soluzioni innovative. Spesso, purtroppo, chi ha inquinato è «sparito», o non è più attivo o è uscito dal settore chimico: non è, quindi, semplice andare ad individuare, a distanza di anni o di decenni, le responsabilità. Però va bloccato, innanzitutto, chi continua ad inquinare oggi: per farlo gli strumenti non mancano. Ritengo che anche le cifre allarmistiche messe in circolazione dalla stampa e dai media siano spesso, molto sovrastimate: comunque, laddove si può, si deve far pagare chi ha delle responsabilità. Tale è la posizione - chiara, netta e precisa - di Federchimica.


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È ovvio che i costi energetici in Italia sono tra più alti del mondo e i più alti d'Europa; ciò costituisce una limitazione per un settore «energivoro» come il nostro. Personalmente, anche se qualche cosa sta cambiando, non ritengo giuste le posizioni di ENEL ed ENI, i due attori principali del settore. Basandomi ancora, concretamente, su esperienze che ho vissuto, devo dire che è vero che noi, come il gruppo Mapei - e come il gruppo Vinavil, che fa parte di Mapei -, abbiamo in questo momento raggiunto, per il 2002, una riduzione, nei costi dell'energia elettrica, nell'ordine del 10 o 12 per cento, aderendo a consorzi o cambiando il fornitore. Però il 10-12 per cento non è sufficiente, perché il costo dell'energia elettrica in Italia è, mediamente, del 30, 35 e finanche del 40 per cento superiore a quello degli altri paesi che competono con noi. Abbiamo bisogno di competitività perché il nostro paese, tra i sette maggiori paesi industrializzati al mondo, è l'unico ad avere un deficit commerciale per la chimica. Ciò significa che esistono condizionamenti che frenano lo sviluppo del settore. Tra l'altro, non abbiamo ancora registrato alcun segnale di riduzione dei costi per quanto riguarda il gas; speriamo si ottenga qualche miglioramento nel prossimo futuro, ma quanto si è fatto è molto modesto e assolutamente insufficiente a restituire competitività in generale al sistema produttivo chimico (e non solo chimico, come voi bene sapete).
Circa la domanda se vi siano acquirenti italiani per le dismissioni di Enichem, risponderò ancora raccontando un episodio che ho vissuto. Sono stato eletto presidente di Federchimica nel 1997 e, appena eletto, mi fu subito suggerito di incontrare i «grandi» della chimica italiana: all'epoca, Bernabè, presidente dell'ENI, e Bondi, presidente di Montedison. Con l'entusiasmo del chimico - ero da poco dentro i meccanismi di Federchimica - mi sono recato da Bernabè e da Bondi. Bernabè mi raccomandò di non farmi illusioni sulla chimica, perché l'ENI stesso voleva uscirne. La decisione, perciò, viene da lontano; peraltro, avevo anche sperimentato tale situazione quando, nell'ambito delle privatizzazioni di Enichem, avevo acquisito le attività riguardanti gli acetati di polivinile, alias vinavil (con i due stabilimenti di Villa d'Orsola e di Ravenna). All'epoca, fui l'unico acquirente italiano di attività di Enichem; altre attività bellissime, come quelle degli addittivi, furono vendute a Great Lakes, Borregard, Alcantara. Erano altri bellissimi pezzi della chimica italiana venduti, purtroppo, tutti ad investitori stranieri.
Ero andato anche da Bondi, che mi aveva parlato per due ore dell'energia e dei distretti industriali insieme al professor Fortis, uno dei massimi esperti di distretti industriali. Mi avevano parlato di tutto tranne che di chimica e, quindi, dopo questi due contatti, mi sono posto dei problemi comprendendo che i «grandi» non credevano più nella chimica, forse anche per il modo in cui si erano svolte tutta una serie di vicende, dal caso Enimont in poi. Oggi i grandi investitori italiani comprano Telecom, comprano le assicurazioni, comprano attività di energia, però non comprano la chimica; non vedo un commitment dei grandi investitori italiani nell'investire nella chimica. Però, onestamente, non giudico tutto ciò in maniera estremamente negativa. Vi potranno essere degli investitori specifici, di nicchia, con dei focus particolari, che continueranno ad investire e che cresceranno nella chimica italiana.
Oggi, in questa situazione generale, ritengo sia importante non tanto avere investitori italiani che utilizzino il loro capitale per fare «più grande» la chimica italiana, quanto salvaguardare il cervello della chimica italiana, ovvero fare in modo che il cervello di determinate attività rimanga nel nostro paese. Assicuro che ancora oggi esistono punte di eccellenza - ad esempio, il polo chimico Donigliani di Novara - che sono competitive a livello mondiale; penso anche a Ferrara per il polipropilene e per le materie plastiche. Sicuramente l'importante non è tanto la nazionalità dell'azionista quanto la nazionalità


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del prodotto, e il prodotto lo fanno i ricercatori nei laboratori, gli ingegneri che progettano gli impianti e quanti dirigono tali strutture.

PRESIDENTE. Ringrazio il presidente di Federchimica, dottor Giorgio Squinzi, nonché il direttore generale ed i collaboratori che li hanno accompagnati. È stata una conversazione molto utile. Vi ringrazio anche per i documenti che avete lasciato all'attenzione della Commissione, sia per quelli relativi al tema oggetto di questa indagine sia per quelli concernenti la materia esaminata con l'indagine sull'energia, in occasione della quale è mancata la possibilità di una specifica audizione di Federchimica. Oggi, anche se solo in parte, abbiamo colmato tale lacuna.
Dichiaro conclusa l'audizione.

La seduta termina alle 16.20.