Resoconto stenografico
INDAGINE CONOSCITIVA
La seduta comincia alle 11,05.
(La Commissione approva il processo verbale della seduta precedente).
PRESIDENTE. Avverto che, se non vi sono obiezioni, la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso impianti audiovisivi a circuito chiuso.
(Così rimane stabilito).
PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sul calcio professionistico, l'audizione di rappresentanti dell'Associazione italiana calciatori (AIC). È presente il vicepresidente dell'Associazione, avvocato Leonardo Grosso, che ringrazio per aver accolto l'invito della Commissione.
Come loro sanno, l'indagine conoscitiva in corso è stata pensata in tempi non sospetti, prima che si verificassero accadimenti così tempestosi come quelli recentemente occorsi; a fronte di ciò, il senso delle previste audizioni rimane quello di ricevere suggerimenti utili dal mondo calcistico, per capire in quale modo il Parlamento - nell'esercizio della funzione legislativa - possa intervenire non solo per risolvere i problemi di più stretta attualità ma anche per tutelare la salute del calcio, e tentare di sanare il malessere attuale del settore.
Do la parola all'avvocato Grosso.
LEONARDO GROSSO, Vicepresidente dell'Associazione italiana calciatori (AIC). Cercherò di essere sintetico; in ogni caso, qualora la Commissione lo ritenesse opportuno, sarà mia cura far pervenire ai relativi uffici tutto il materiale utile allo svolgimento di questa indagine conoscitiva.
Venendo al mio intervento, in primo luogo farò cenno ad alcuni dati numerici che occorrerebbe considerare con mente sgombra da pregiudizi di sorta. Ritengo siano due i dati di estremo rilievo: i guadagni dei calciatori e l'effettiva incidenza di queste spese sugli assetti dei bilanci societari. I dati richiamati si riferiscono al periodo 2002-2003: a questa data, i famosi «miliardari», cioè quelli che guadagnano al lordo - e non al netto (è bene sfatare una diffusa «leggenda metropolitana») - un miliardo e oltre di lire sono in tutto 338 su 3.825 calciatori tesserati. Occorre, peraltro, precisare che, del numero complessivo, circa 400 rappresentano i ragazzi della «primavera». È possibile quindi affermare che, in totale, i giocatori «veri», quelli impiegati effettivamente nelle squadre delle varie serie, si attestino intorno ai 3.400 circa.
PRESIDENTE. Mi scusi, ma di quali serie parla, A, B o C?
LEONARDO GROSSO, Vicepresidente dell'Associazione italiana calciatori (AIC). A, B, C1 e C2. Rispetto quindi all'ammontare complessivo dei calciatori professionisti, soltanto il 10 per cento guadagna intorno al miliardo di vecchie lire lorde. In rapporto,
inoltre, alla quota complessiva di giocatori appena richiamata, il 63 per cento guadagna fino a 100 milioni di vecchie lire; il 12-13 per cento ne guadagna tra 100 e 200; il 15,5 per cento si colloca tra 200 e 1000 milioni. Un altro dato a mio parere risulta molto rilevante: analizzando i bilanci delle società (rispetto a cui si nota una certa differenza tra la serie A e la C2), fatti 100 i costi, i calciatori tesserati incidono tra il 60 e 65 per cento della spesa, mentre gli altri costi rappresentano un valore compreso tra il 35 e il 40 per cento.
GIOVANNI LOLLI. Compresi ingaggi e ammortamenti?
LEONARDO GROSSO, Vicepresidente dell'Associazione italiana calciatori (AIC). I compensi ai tesserati e gli oneri accessori si collocano da un lato, e i diversi costi della produzione dall'altro.
Questo è il fenomeno vero e non mediatico. Alla luce di ciò, la richiesta avanzata dal presidente Adornato mi pare estremamente impegnativa. Vorrei, innanzitutto, anteporre una breve premessa: l'AIC ritiene che certamente una parte delle società - non tutte, però - stia spendendo oltre le effettive disponibilità finanziarie; questo è fuori di ogni dubbio, sebbene il quadro non risulti semplificabile alla luce dell'esistenza di numerose differenze tra una società e l'altra.
Da parte nostra, abbiamo già adottato una serie di iniziative per cercare di deflazionare il fenomeno in atto: ad esempio, stiamo trattando il rinnovo dell'accordo collettivo e abbiamo accettato il principio della flessibilità, la cui introduzione nel settore calcistico non sembra priva di pesanti ripercussioni. Se accettarne pienamente l'applicazione potrà, ad esempio, significare che la stagione prossima, date certe condizioni, una squadra si collocherà in serie B piuttosto che in A, guadagnando il 20, il 30, il 40 per cento in meno, chiaramente ciò non sarà privo di effetti sulle relative vicende societarie.
Peraltro, nella giornata di domani e successivamente in quella di venerdì, sono previste due riunioni, la prima con i rappresentanti delle squadre di serie C e la seconda con quelli di A e B, per discutere di questo. Sempre rimanendo in tema, provvederò a indicare, da un lato, una serie di costanti, cioè di occorrenze che si verificano nel calcio costantemente, e dall'altro ciò che ha cambiato le carte negli ultimi dieci anni.
Da sempre le società di calcio sono funzionali rispetto al «gruppo», nel senso che chi riveste il ruolo di presidente di una società calcistica nove volte su dieci lo fa perché detiene un interesse globale, quindi è quasi fisiologico che entro certi limiti - non è evidentemente il caso di qualche follia verificatasi di recente - l'azionista di riferimento, di maggioranza, nutra un certo interesse a ripianare una quota parte dei debiti contratti. Di ciò dobbiamo tener conto, altrimenti non possiamo capire le motivazioni che spingono ad esercitare il ruolo di presidente di una società calcistica, attesa la sostanziale impossibilità che una società di questo tipo guadagni.
Inoltre, altro profilo del fenomeno - che sfugge a molti eppure riveste un ruolo estremamente rilevante - è che una società di calcio non sarà mai interamente dell'azionista; l'azionista potrà essere unico per un certo periodo di tempo, ma quando le perdite diverranno eccessive, la piazza costringerà quell'azionista a cedere. La conseguenza di ciò in primo luogo è che nessun programma sarà a lungo termine e l'obiettivo del presidente, o dell'azionista che dir si voglia, sarà quello di fissare singole tappe a breve scadenza. In secondo luogo, le società, per principio, sono sottocapitalizzate, poiché proprio l'incertezza sulla continuità nella proprietà societaria costituisce un disincentivo a liberare risorse finanziarie a favore della società medesima (che invece una corretta managerialità imporrebbe). L'immediata conseguenza è la tendenza, nel caso delle società sottocapitalizzate, a scaricare i debiti accumulati sui nuovi arrivati.
Esiste poi un altro aspetto assai importante, di estremo rilievo per l'attività parlamentare e anche per l'interesse dello Stato in generale. Quelle richiamate, da un
lato, sono società di capitale vere e proprie, sono private, non usano denaro pubblico e operano sul mercato in teoria come i produttori di burro. In realtà, questo non è del tutto esatto: in effetti, si tratta di circa 130 società che hanno intessuto una serie di rapporti fittissimi tra di loro. Se, ad esempio, una società saltasse metà campionato, per connessione l'intero campionato verrebbe falsato da questa vicenda, determinando, pertanto, uno squilibrio complessivo. Inoltre, quando una società è in condizioni tali da non poter più onorare i debiti contratti, data la sussistenza di un meccanismo di debiti-crediti incrociato, a cascata si verificheranno delle conseguenze gravi su quello che potrebbe essere definito l'intero «consorzio». Non è un caso che il legislatore del 1981, con la legge sul professionismo sportivo, aveva previsto dei controlli particolarmente pregnanti; sapete tutti, purtroppo, che alcuni anni fa quei controlli sono stati invece fortemente indeboliti. Nessuno intende sposare una dottrina dirigista, ma non si può lasciare questo mondo semplicemente a sé, come avviene attualmente.
L'ultimo aspetto tipico del fenomeno esaminato è che necessariamente esso produce dei perdenti. La totalità degli attori, invece, ragiona, spende e si muove come se fosse destinata automaticamente a restare in serie A, quando, all'opposto, la realtà dimostra che un certo numero di squadre di questa serie è destinato fisiologicamente a retrocedere. Si tratta di una realtà fondamentale che, unitamente ad problema che vorrei toccare tra breve su quanto accaduto negli ultimi dieci anni, costituisce, forse, la ragione vera del dissesto.
Tralascio altre vicende scarsamente rilevanti, sulle quali potrò comunque - a vostra richiesta - trasmettere ulteriore documentazione, per soffermarmi su quanto ha mutato le regole di un gioco protratto per decenni.
La prima questione è il mutamento della tipologia delle entrate del calcio. A differenza di quanto avveniva in precedenza, ci sono oggi grandi società le cui entrate provengono per il 15 per cento dal botteghino - eppure gli stadi spesso sono abbastanza pieni -, per il 50 per cento dai diritti televisivi e per il resto dal business legato al mondo del calcio (quindi sponsor, partner, merchandising).
Un cambiamento così profondo è dovuto soprattutto ai diritti televisivi criptati, quelli che danno più ricavi, i quali, come sapete tutti, in Italia, a differenza di quanto avviene in Francia o in Inghilterra, sono individuali; vi ricordo che, nella famosa Premier league inglese, da tutti invocata - a parte il fatto che incassa molto di più della nostra - una quota parte dei diritti viene divisa in parti eguali fra tutte le squadre, una quota parte per bacino d'utenza ed una quota parte per risultati.
Un altro fatto grave, accaduto sotto gli occhi di tutti, è, purtroppo, il crollo dei giochi di sorte, come il Totocalcio, che andavano a favore della collettività.
Inoltre, per assurdo, arrivo a dire che la ristrutturazione delle coppe europee, indubbiamente positiva, avendo portato molti più denari alle società che ad esse partecipano, ha avuto però effetti negativi: a differenza di quanto avveniva in precedenza, attualmente partecipare alla Champions league o alla coppa UEFA rende molto ma molto di più e, di conseguenza, chi non vi partecipa ha incassi enormemente inferiori.
Oggi, secondo le stime delle società di calcio, vi sono differenze grandissime dovute al raggiungimento o meno di un obiettivo; ad esempio, in serie B si guadagna il 40 per cento di meno rispetto alla serie A, ma si pensi soprattutto al fatto che se si arriva quarti in serie A si possono disputare i preliminari di Champions league, superati i quali si può arrivare naturalmente a vincere la competizione, guadagnando così decine di miliardi, mentre tale possibilità è preclusa se si arriva quinti, con un solo punto in meno (la coppa UEFA, infatti, rende poco). Ciò, inoltre, porta le società di calcio ad intervenire sul mercato di gennaio e la perdita sarà gravosa se non otterranno l'obiettivo che intendevano raggiungere.
La modifica della legge n. 91 del 1981 ha ridotto i controlli da parte della Federazione e, per entrare nel vivo del problema emerso in questi giorni, fin dal 2000 tutti versavano le ritenute IRPEF, ma dopo la depenalizzazione si è trovato più conveniente, invece di pagare un sacco di soldi alle banche, usare lo Stato come tesoriere.
Il calcio ha sempre pensato che la panacea di tutti i mali fosse il mercato, cioè la compravendita dei giocatori, cosa che non condivido, anche se ritengo che abbia senz'altro esercitato una funzione di redistribuzione dalle grandi alle piccole società.
Nel corso degli anni, il sistema ha sempre cambiato le carte in modo da poter comprare e vendere, ma gli è costato sempre di più. Si pensi al cosiddetto indennizzo a fine rapporto. Per esempio, il giocatore Baggio aveva un indennizzo di 5 miliardi e, se sul mercato ne valeva 10, alla fine del contratto era libero di andare dove voleva. Allora, le società - lo dico con certezza avendo fatto parte per anni di una commissione che effettuava questi conteggi - hanno ritenuto più opportuno pagare di più i giocatori, in modo che il loro valore di mercato fosse inferiore al valore che risultava dall'indennizzo.
Grazie alla sentenza Bosman, poi, alla fine del contratto il giocatore è in teoria libero di andare dove vuole (si pensi al giocatore Davids). A quel punto, le società hanno continuato a prolungare i contratti. Tutto ciò ha trovato un brusco stop due anni fa, quando è cominciata a mancare la liquidità e le squadre che si tenevano questi giocatori, prorogandone i contratti, non riuscivano poi a venderli, creando, tra l'altro, anche un eccessivo ampliamento delle rose.
Riguardo alle acquisizioni di calciatori stranieri, sia extracomunitari che non, la realtà è che negli anni il saldo fra entrate e uscite è passivo nell'ordine di alcune centinaia di miliardi. Nel dicembre 1996, con la sentenza Bosman, c'erano in Italia 60-70 professionisti stranieri, mentre adesso ne abbiamo circa 700-800. Quello degli stranieri è un problema grave, in quanto un sistema che soffre e che non ha risorse non può continuare a finanziare gli altri paesi. Da più parti si sostiene che l'acquisto di calciatori stranieri abbia innalzato il tasso tecnico ed accresciuto quello spettacolare, ma ciò non è affatto vero e lo sa bene chi è sul serio competente di calcio.
Quanto ho illustrato rappresenta, secondo noi, le costanti e gli accadimenti che hanno spostato, in questi ultimi anni, i termini della questione. Immagino che vorreste anche conoscere la nostra opinione sul modo in cui risolvere il problema. Riteniamo che si debbano operare due interventi, uno mirato a ridimensionare i costi, l'altro sulle risorse.
Sul ridimensionamento dei costi, crediamo che tutti i discorsi sul salary cap o sulle rose delle squadre vadano bene solo per i giornali. Circa la riduzione delle rose, vi pongo una domanda: su una rosa di 30 giocatori, che devono diventare 25, secondo voi, chi si lascia a casa? Ovviamente, gli ultimi cinque, che dal punto vista economico non significano nulla. Per quanto riguarda il salary cap, bisogna essere realistici e concreti perché occorre considerare i contratti, anche pluriennali, ancora validi. Inoltre, se applicassimo immediatamente tale regola, le società dovrebbero rinunciare a centinaia di giocatori e, in questo modo, il valore patrimoniale crollerebbe. Abbiamo aumentato le partite di champions, della serie A, della serie B e riduciamo le rose: evidentemente, sussistono una serie di contraddizioni.
Vorrei ricordare che il salary cap viene usato solo negli Stati Uniti e, comunque, se in Italia si stabilisse un tetto dei salari, qualcuno si inventerebbe un altro modo per farlo, ad esempio cedendo il diritto di immagine o usando altri metodi leciti. Su questo discorso incidono i contratti pluriennali e, poi, occorrerebbe che una tale situazione fosse possibile a monte e non a valle. Tuttavia nel calcio, una realtà in cui non si conoscono i futuri incassi e gli esiti dei preliminari di Champions league o del campionato, le società e i controllori dovrebbero indicare la percentuale all'inizio
dell'anno: si tratta di sistemi di difficile applicazione e, probabilmente, di scarsa efficacia.
A nostro avviso, occorre intervenire in un altro modo. La riduzione dei salari - alla quale, in tanti casi, è opportuno procedere - si ottiene in due modi essenziali. In primo luogo, con la correttezza dei pagamenti: l'idea dell'UEFA è, a regime, di pagare sistematicamente tutti gli stipendi, le ritenute previdenziali e fiscali alla loro scadenza.
GIOVANNI LOLLI. Cioè applicare le leggi!
LEONARDO GROSSO, Vicepresidente dell'Associazione italiana calciatori (AIC). In secondo luogo, poiché in teoria si potrebbe essere in regola con i pagamenti ma fortemente indebitati verso qualcuno, è necessario verificare - tecnicamente non è semplice, ma qualche strumento esiste - che la società sia capitalizzata e che non si faccia prestare 10 miliardi solo perché deve iscriversi al campionato.
Questi principi richiedono altri tre passaggi: bisogna fissare le regole, controllare e applicare delle vere sanzioni. Vorrei ricordare che abbiamo passato un'estate pazzesca perché la cosiddetta clausola compromissoria, una legge fondamentale dello sport, essendo priva di sanzioni, ha fatto in modo che tutti si rivolgessero ai TAR. Quindi, tutto lo sconquasso è legato al fatto che era in vigore una norma senza una sanzione e la decisione di ieri di aggiungere quella della retrocessione va proprio in questa logica. Dopodiché, bisogna fermarsi ed essere realisti perché, se applicassimo queste regole domattina, andremmo tutti a casa.
Occorrerebbe predisporre ed attuare un piano triennale, fissando questi tre passaggi: se si attuasse tutto ciò, non servirebbe né il salary cap né altro. Per esempio, una società potrebbe vendere un bravissimo centravanti per essere in regola ma, secondo noi, questa è solo una parte del problema perché sussiste la questione delle risorse. Intanto, il sistema introita molto di più di quanto non abbia fatto in passato ed inoltre perde sempre di più perché, purtroppo, le risorse sono mal distribuite a causa soprattutto del problema dei diritti televisivi. Se analizzassimo i bilanci delle prime due società della serie A e della decima, si evidenzierebbe che il bilancio di quest'ultima è inferiore di sei o sette volte, tanto che anche dal punto vista della competizione alcune squadre difficilmente perdono.
Sussiste, quindi, il problema doloroso delle risorse perché chi le possiede non vuole assolutamente cederle; comunque, occorre prendere dei provvedimenti, innanzitutto sulla centralizzazione dei diritti televisivi e sulla loro ridistribuzione, anche se tutto ciò vale all'interno di un campionato e, quindi, bisogna concedere degli spazi. Prima la schedina era una cosa sacra, ma ora non si sa mai quando si gioca: tutto ciò ha influito pesantemente sulle entrate delle piccole società perché per avere maggiori entrate televisive con la TV criptata si sono ridotte tutte le altre. Probabilmente, si dovrebbero inventare interventi diversi, lasciando spazi di visibilità: per esempio, la serie B giocata di sabato permette una trasmissione televisiva il sabato sera.
Su tali questioni bisogna meditare, anche se in questo ambito le società si mostrano ancor più restie che sulle regole. Tuttavia, non si può gestire un fenomeno nel quale c'è chi guadagna 1.000 e chi 5, sapendo che con un posto più in alto o più in basso in classifica si è in paradiso o all'inferno: tutto ciò provoca i disastri evidenziati.
PRESIDENTE. Do ora la parola ai colleghi che intendano porre domande o formulare richieste di chiarimento.
Per parte mia, chiedo all'avvocato Grosso se egli ritenga che il tipo di rapporto giuridico debba rimanere quello del lavoratore subordinato o possa cambiare.
GIOVANNI LOLLI. Le sue considerazioni generali sono preziose e le condivido; ma, poiché lei sostiene che bisogna riformare il sistema, vorrei farle alcune domande su ciò che potete fare voi in tale
senso. Attraverso il decreto Melandri abbiamo concesso anche a voi la possibilità di partecipare. Comunque, al di là delle sue parole, mi sembra che nella Federazione abbiate sempre votato tranquillamente tutte le decisioni che sono state prese, anche se avete uno strumento democratico per far sentire maggiormente la vostra voce. Anch'io credo che sia difficile introdurre un tetto salariale, però, viste le percentuali e considerato che in altri paesi funziona, mi domando perché siate così timidi e resistenti a tale idea, stabilendo, ad esempio, una quota non superiore al 60 per cento dell'intera partita.
Tutto ciò mi sembra ragionevole, come pure la riduzione delle rose, che non risolve certamente i problemi ma, se non altro, concede alle società meno possibilità di fare plusvalenze fittizie sui calciatori. Chiaramente, queste eventuali misure andrebbero applicate con un certo décalage perché, ovviamente, esistono dei contratti in corso.
Lei ha accennato al problema dei vivai e dei calciatori stranieri, ma non si tratta solo di regolare gli stranieri. Infatti, il presidente della Lega professionisti di serie C nel corso della precedente audizione ha detto che vi siete opposti all'idea di fissare un certo numero di calciatori, almeno per quanto riguarda la serie C, nelle rose per favorire i vivai. Le ricordo che l'età media dei calciatori di serie A, B e C è di 29 anni. Tra l'altro, in questo modo si agevolerebbe l'utilizzo di un certo numero di giovani.
Le chiedo inoltre di fornirci, se possibile, alcuni chiarimenti riguardo ai dilettanti. Lei ci ha parlato dei 3.800 professionisti. Il Parlamento ha emanato una norma con la quale abbiamo dato la possibilità di utilizzare il compenso sportivo fino a 7.500 euro detassati. Mi risulta che anche nel dilettantismo vi sia un vero e proprio semiprofessionismo poco indagato.
Infine, la invito a fornirci qualche dato sul costo dell'intermediazione. Quanto vengono pagati i procuratori?
ANTONIO RUSCONI. Mi sembra opportuno sottolineare come siano stati denunciati i problemi, perché finora ogni rappresentante ascoltato dalla Commissione ha difeso il suo pezzetto di verità invece di fornire al Parlamento indicazioni su come intervenire per impedire che il sistema crolli. Questo è il vero problema.
Innanzitutto, perchè le rose sono così ampie e il numero dei calciatori è così alto? Perché in Italia ci sono più società professionistiche rispetto agli altri paesi. Siamo in grado di sopportare, soprattutto in serie C1 e C2, un numero di società professionistiche così grande?
In secondo luogo, in Spagna e in Inghilterra le squadre di vertice sono molto limitate. Ciò comporta una minore ambizione e quindi il salary cap, che magari in altri paesi non è necessario, in Italia invece lo è, così come è divenuta necessaria la riduzione dei contratti dopo la sentenza Bosman. Di fatto questo elemento ha agevolato i calciatori e porta a prolungare i contratti per non perdere i giocatori - come ammetteva lei stesso - e quindi a garantire contratti miliardari. Penso all'ultima annata di Batistuta, per esempio, dove il vero problema tra Roma e Inter era chi pagava l'ingaggio per quanto era stato garantito il giocatore.
Sono d'accordo sulla distribuzione dei diritti televisivi, ma se non adottiamo il taglio dei salari e delle rose e non puntiamo a diminuire l'acquisto di stranieri mediocri e, quindi, soprattutto per la serie C, a invogliare e incentivare le società ad immettere giovani italiani, avremo delle situazioni - meno citate perché meno pericolose - come quella della Sampdoria, che nel 2003 ha registrato ricavi per 13 milioni di euro e ingaggi per 25 milioni.
Se questo è il sistema, ognuno deve fare qualcosa per evitare il crollo. Lei ha fatto una difesa splendida della sua categoria, ma in questo modo vanno tutti a casa.
LEONARDO GROSSO, Vicepresidente dell'Associazione italiana calciatori (AIC). Avevo un'ambizione diversa. Mi dispiace di aver dato questa impressione.
GIOVANNA BIANCHI CLERICI. Condivido la vostra posizione per quanto riguarda gli stranieri. Potrebbe tuttavia essere più preciso al riguardo? Fino a che punto sareste disposti ad accettare regole più severe rispetto a quelle attuali? Le chiedo inoltre un particolare riferimento al fenomeno dei bambini che vengono portati in Italia.
MASSIMO CIALENTE. Rispetto ai dati europei riguardanti i guadagni dei calciatori, vorrei conoscere il numero dei professionisti e l'ammontare lordo degli stipendi. Vi risulta un possibile sistema di pagamenti in nero, che secondo alcuni potrebbe costituire uno dei maggiori problemi delle società minori?
In secondo luogo, quali sono i costi per il campionato dei dilettanti? Infine, quali controlli vengono effettuati sui vivai e soprattutto sull'incetta di ragazzini da parte di alcuni gruppi?
PAOLO SANTULLI. Considerati i costi, come mai tutti i calciatori non riescono ormai a rappresentarsi da soli, ma hanno bisogno della mediazione degli agenti?
PRESIDENTE. Avvocato Grosso, le do la parola affinché possa rispondere alle tante domande che le sono state poste.
LEONARDO GROSSO, Vicepresidente dell'Associazione italiana calciatori (AIC). Per quanto riguarda la questione del lavoratore autonomo o subordinato, si tratta di una delle più grandi stupidaggini che continuo a sentire. Il calciatore è un lavoratore subordinato in tutto il mondo. Di fatto è subordinato davvero, perché gli dicono ciò che deve fare non solo quando lavora, ma anche quando non lavora, quando sta a casa. Essendo avvocato, posso dire che non c'è dubbio che si tratti di un lavoratore subordinato.
Tuttavia, risulta che il lavoratore autonomo costerebbe meno alle società. Questa è una sciocchezza siderale, perché il lavoratore autonomo paga esattamente le stesse tasse di quello subordinato, anzi, essendo semmai un collaboratore continuato e continuativo, subisce la medesima ritenuta fiscale.
Non lo avete chiesto, ma ve lo dico ugualmente: il calciatore deposita i contratti al lordo. Ognuno quando stipula un contratto vuole capire quanti soldi gli restano in tasca. Se si pattuiscono 100 mila euro, si intendono lordi, e su di essi si subisce la ritenuta previdenziale per la pensione e per il trattamento di fine rapporto, esattamente come accade per un impiegato qualunque, cioè nei limiti di circa 150-160 milioni di lire. Su ciò che avanza si paga l'IRPEF. Se il calciatore fosse un lavoratore autonomo, non so se varrebbe il limite dei 150-160 milioni, ma sostanzialmente sarebbe la stessa cosa. Da questo punto di vista, obiettivamente non cambierebbe nulla.
PRESIDENTE. Quindi volete che si mantenga questo sistema?
LEONARDO GROSSO, Vicepresidente dell'Associazione italiana calciatori (AIC). Non c'è dubbio. Per quale motivo le società vogliono che il calciatore diventi un lavoratore autonomo? Perché potrebbero imporgli tutti quei vincoli, quali il divieto di concorrenza, che vengono imposti alle star della televisione. Non c'entra niente con il fatto che il sistema spende di più.
Per quanto riguarda il voto, per anni abbiamo perseguito l'obiettivo di essere rappresentati nel consiglio federale perché riteniamo che bisogna cercare di incidere in quell'ambito. Sapete benissimo che costituiamo una minoranza. Per principio, infatti, siamo sempre tagliati fuori dalle decisioni.
Rispetto al discorso sulle norme per l'iscrizione ai campionati oppure sui controlli sulle società, ciò che abbiamo detto questa mattina era già stato evidenziato durante i lavori della commissione che doveva predisporre le norme e nel consiglio federale, tant'è che abbiamo votato contro.
GIOVANNI LOLLI. Mi scusi, ma io leggo i verbali e scopro che le decisioni
sono sempre adottate all'unanimità. Forse sono male informato, oppure non si comunica esattamente ciò che succede.
LEONARDO GROSSO, Vicepresidente dell'Associazione italiana calciatori (AIC). Nell'ultimo consiglio federale che ha approvato le norme sull'iscrizione ai campionati, abbiamo votato contro perché ritenevamo che la logica da seguire fosse un'altra, ossia quella che vi ho appena riferito: riduciamo i costi, con tutta la gradualità necessaria, stringendo le regole.
Per quanto riguarda la riduzione delle rose e il tetto ai salari, questo settore è davvero difficilmente regolabile. Se vengono poste regole di questo tipo, si individua il modo per aggirarle.
La regola principale è un'altra: devi aver pagato quando è il momento e devi dimostrarmi una capitalizzazione corretta. A quel punto, se arriva un pazzo che di tasca sua mi dà 100 miliardi, per me va benissimo. Questi sono i veri interventi. Sugli altri, c'è sempre il modo per aggirarli.
Sui dilettanti, svolgerò una breve riflessione. Il settore dilettantistico sconta a nostro parere un problema di fondo, rappresentato dall'esistenza di una fascia - interposta tra questa categoria e i professionisti di serie C, e in passato denominata «semi-professionismo» - dai profili non ben definiti: corrisponde approssimativamente al livello interregionale. Per quanto ci riguarda, a partire dalle possibilità offerteci dalla legislazione statale, e in base ad una specifica previsione per il settore, ci siamo mossi anche per affrontare questo problema. Ad esempio, ci siamo profusi nell'impegno di garantire lo svincolo dei giocatori dilettanti (vorrei ricordare che solo in Italia un dilettante - parlo di un giocatore di terza categoria - è vincolato a vita): abbiamo quindi introdotto la norma che pone un limite (25 anni di età) al vincolo esistente sul giocatore; probabilmente in questa direzione andranno compiuti ulteriori passi. Abbiamo inoltre imposto che i giocatori di tutte le società del campionato nazionale dilettanti - il quale, per questa categoria, rappresenta la competizione di fascia più alta - siano garantiti da un accordo depositato (e ciò vale anche per la serie A e B del calcio femminile e per la serie A e B del calcio a cinque). Poiché, però, l'abitudine consolidata va in altra direzione, occorrerà impegnarsi seriamente per modificare lo stato attuale del sistema.
Quanto alle intermediazioni, debbo ripetere ciò che ho affermato in precedenza. Il 60 per cento del costo sopportato dalle società copre le spese per i tesserati e per i giocatori, mentre la quota restante è riferita ad altre voci di spesa: mercato, intermediazioni, strutture. Per quale motivo - mi è stato domandato - si fa ricorso alla figura professionale dell'intermediario? Osservando una partita del campionato primavera, registriamo la presenza di un numero altissimo di procuratori, che in realtà svolgono un ruolo analogo a quello esercitato dagli agenti immobiliari. Attualmente i procuratori rappresentano una realtà consistente, peraltro non priva di risvolti positivi. Quanto alle motivazioni della loro attività, ho ragione di ritenere che si sia diffuso il convincimento dell'impossibilità per un giocatore di riuscire a piazzarsi sul mercato in assenza di un procuratore: a mio avviso è un ragionamento - almeno in parte - fondato. Infatti, a fronte di un 5-10 per cento di giocatori che tutti vorrebbero acquistare, vi è un 90 per cento rappresentato dai «fungibili», ovvero da quei giocatori intercambiabili l'uno con l'altro: probabilmente, in assenza di spinte da parte di altri, in questo momento particolare della storia calcistica sarebbe difficile riuscire a collocare sul mercato calciatori di questo tipo. Ritengo tuttavia che tale fenomeno vada controllato (e capisco che obiettivamente non è facile riuscirci).
PRESIDENTE. Mi consenta, avvocato, i procuratori non sembrerebbero più adatti ad una tipologia di lavoro autonomo piuttosto che subordinato?
LEONARDO GROSSO, Vicepresidente dell'Associazione italiana calciatori (AIC). Il vero problema del calciatore è trovare un
ingaggio. Chiaramente il problema non riguarda Totti: si riferisce a quella percentuale più consistente di cui ho appena parlato, specialmente in un mondo che ha più giocatori di quanti effettivamente siano necessari. Continuo a ricordare che negli ultimi anni sono venuti a giocare in Italia circa 500-600 calciatori stranieri. Il compito essenziale del procuratore è trovare un impiego a quei giocatori che ho definito, senza intenzione offensiva, «fungibili». Quindi non mi sembra che il problema riguardi la tipologia del rapporto di lavoro.
PRESIDENTE. Sono una sorta di agenzia di collocamento...
LEONARDO GROSSO, Vicepresidente dell'Associazione italiana calciatori (AIC). Sì, in un certo senso. E si tratta di un mondo fortemente competitivo, nel quale i procuratori agiscono in forte concorrenza l'uno con l'altro.
MASSIMO CIALENTE. Forse sarebbe opportuno creare un'unica grande agenzia...
LEONARDO GROSSO, Vicepresidente dell'Associazione italiana calciatori (AIC). Il problema è certamente complesso.
Per quanto riguarda i vivai, ci vantiamo di essere quelli che - non appena entrati nel consiglio federale - hanno chiesto di creare uno specifico gruppo di lavoro dedicato ai settori giovanili. È notevole il nostro impegno su questo fronte, sebbene esistano problemi enormi legati anche alle disponibilità finanziarie. Per esempio, i rappresentanti della serie C sostengono di voler valorizzare al massimo questo segmento di attività. E tuttavia da parte nostra verifichiamo che le squadre di serie C non sono in grado di garantire la creazione di vivai di qualità: non lo sono per assenza di risorse finanziarie.
I nostri riscontri sono precisissimi: i campionati «allievi» nazionali e i campionati «giovanissimi» nazionali (fino a 16 anni) non sono obbligatori per le società di serie C. Di conseguenza, fra il 30 e il 60 per cento di tali società non disputano quei campionati. Ciò significa che molte società di serie C non hanno giovani nei loro vivai. D'altra parte i pochi club di serie C che iscrivono una propria squadra ai campionati allievi e giovanissimi finiscono per collocarsi sempre in fondo alla classifica. Inoltre, come si può rilevare dall'esame delle liste dei giocatori convocati per gli incontri di serie C, quasi nessun club di quel campionato annovera giocatori tra i 15, i 16 e i 19 anni.
Se poi si osserva la provenienza dei giocatori che militano nella nazionale under 20, si noterà che circa la metà dei convocati proviene dalla serie C, mentre nella nazionale under 21 nessuno fa parte di squadre di quella serie. E in realtà anche i ragazzi dell'under 20 fanno parte dei club di serie A e B: rappresentano infatti i giovani delle società di serie A e B i quali - una volta concluso il loro percorso nella squadra primavera - vengono ceduti in prestito (oppure in comproprietà) alle società di serie C per fare esperienza.
Dunque la serie C, che ha una missione importante, dovrebbe essere aiutata; anche perché di fatto in quel campionato è rappresentata tutta la provincia del nostro paese.
Le stesse considerazioni che ho esposto in relazione alla serie C valgono per la componente meridionale degli atleti: i dati sulle convocazioni nelle nazionali giovanili mostrano che i giocatori provengono approssimativamente per un terzo dal nord, per un terzo dal centro e per un terzo dal sud. Però i convocati del sud in realtà militano nei club del nord; e ciò avviene già da giovanissimi, dall'età di 14 anni. È un fenomeno gravissimo, anche perché - nonostante tutta la buona volontà delle società calcistiche che li accolgono - questi giovanissimi restano abbandonati a se stessi proprio nell'età formativa, all'epoca in cui dovrebbero frequentare le scuole superiori. Tutti abbiamo dei figli e sappiamo che cosa può accadere a quell'età.
Poiché le società di serie C - per i motivi ai quali ho accennato - non riescono a mantenere al proprio interno un
settore giovanile, finiscono paradossalmente per prelevare bravi giocatori di 19-20 anni dalle squadre di serie A e B. In passato esisteva un istituto chiamato «premio di valorizzazione»: la società che cedeva un proprio atleta (uscito dalla «primavera» e ritenuto valido), per farlo giocare in una squadra di serie C, offriva in cambio una somma di denaro. Successivamente, quando il sistema è stato regolamentato da disposizioni più severe, il meccanismo si è invertito: poiché le società di serie C dovevano avere un certo numero di giocatori giovani, le squadre di provenienza del calciatore hanno cominciato a chiedere soldi per la cessione.
In definitiva, non credo che il problema vada affrontato a partire dal risultato finale: occorre intervenire all'origine. Le società di serie C devono poter usufruire di tecnici, di strutture e di mezzi che oggi mancano. Questa è la nostra visione del problema.
Si è detto che in Italia sarebbe presente un numero di società professionistiche superiore rispetto agli altri paesi. Ebbene, faccio osservare che paesi come l'Olanda o il Belgio sono grandi come il Piemonte o la Lombardia e hanno 35, 40 società di professionisti. Si obietta che la realtà inglese annovera soltanto 90 società: ma ci dimentichiamo che nel Regno Unito oltre all'Inghilterra ci sono la Scozia, il Galles e l'Irlanda. Insieme, queste regioni hanno molte più società professionistiche di quanto pensiamo. Ci dimentichiamo che, in Spagna, non li chiamano professionisti, ma hanno 4 serie come da noi. Quindi, non è questo il problema ed oltretutto stiamo ben attenti, perché la serie C ha risorse davvero modeste. Il nostro livello è alto come in altri paesi, soprattutto l'Inghilterra e la Spagna.
PRESIDENTE. Ringraziando l'avvocato Grosso per la sua partecipazione, dichiaro conclusa l'audizione.
PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sul calcio professionistico, l'audizione di rappresentanti dell'Associazione italiana allenatori di calcio (AIAC).
Ringrazio per la partecipazione il presidente Azeglio Vicini, figura cara a tutti gli sportivi italiani, il vicepresidente Dino Dolci, il vicepresidente Romano Galgani ed il segretario Giuliano Ragonesi.
La Commissione, con questa indagine conoscitiva, intende comprendere le radici del malessere, ormai evidente agli occhi di tutti, che investe il settore calcistico, cercando anche indicazioni per eventuali interventi del legislatore su questa materia. Do ora la parola al presidente Azeglio Vicini.
AZEGLIO VICINI, Presidente dell'Associazione italiana allenatori di calcio (AIAC). La nostra associazione, unica in Italia, è nata nel 1968 - ricordo anche che, tra i suoi fondatori, c'erano personaggi importanti all'epoca, come il dottor Fulvio Bernardini - ed ha sempre avuto lo scopo di difendere e di promuovere il calcio, cercando di far rispettare le regole.
Gli allenatori in Italia sono circa 50 mila, dei quali 48 mila sono dilettanti e circa 2 mila professionisti. Ovviamente il numero delle squadre è inferiore e per molti di essi, soprattutto per i professionisti, i posti dove per legge è previsto il loro tesseramento sarebbero meno di 300. Comunque, attraverso i licenziamenti ed i conseguenti subentri, si riesce a collocare un migliaio di allenatori all'anno, anche se il 50 per cento degli stessi rimane sempre senza occupazione.
Si diventa allenatori frequentando i corsi indetti dal settore tecnico della Federcalcio, identici a quelli delle altre federazioni dell'UEFA: il primo corso è quello degli allenatori dilettanti, poi si passa agli allenatori professionisti di seconda categoria ed infine si diventa allenatori professionisti di prima categoria.
Nel consiglio direttivo della nostra associazione, oltre ai due vicepresidenti ed al segretario qui presenti, vi sono sei allenatori professionisti (Lippi, Bolchi, Cagni, Nicoletti ed Ulivieri) e cinque allenatori dilettanti (oltre a Galgani, Marchesi, che
rappresenta il Lazio, Anselmo, che rappresenta il Piemonte, Coppari per le Marche, Micheli per la Calabria e Burlin per il Veneto).
Ricordo che la nostra associazione è di tipo assolutamente volontaristico ed infatti nessuno di noi percepisce emolumenti di qualsiasi genere.
Passando ora all'argomento oggetto dell'indagine della Commissione, voglio innanzitutto precisare che il nostro giudizio è assolutamente positivo circa la strutturazione dell'organizzazione delle attività calcistiche (in particolare, il meccanismo promozione/retrocessione). Ciò che ha certamente inciso sotto l'aspetto finanziario è stato il frazionamento delle competizioni, soprattutto quelle ad alto livello, che ha anche provocato la diminuzione dell'interesse della collettività per i concorsi ed i giochi di sorte.
Riteniamo che il problema del nostro calcio non sia di carattere tecnico, ma economico e finanziario ed avvertiamo, inoltre, da alcuni anni la forte sensazione che si siano allentate le attenzioni sulle regole, che consideriamo indispensabili e che quindi devono essere quanto prima definitivamente approvate.
Tra gli aspetti negativi degli indebitamenti vi è certamente quello che nasce da quando i proventi televisivi, da aggiungere agli incassi e ai contributi degli sponsor, non sono più gestiti dalla Federazione e, più o meno, distribuiti equamente, come attualmente fa l'UEFA con le proprie coppe. Ciò ha provocato un danno evidente, per cui risulta necessario l'intervento da parte di un'autorità che ripristini la situazione originaria.
Indubbiamente, poi, hanno inciso anche gli errori dei dirigenti delle società calcistiche, ma, a nostro avviso, saranno certamente stati compiuti in buona fede nell'obiettivo di potenziare la propria squadra; è logico però che si finisce nei guai se si spende più di quanto si guadagna, anche se, forse, la situazione sarebbe ora diversa se i controlli fossero stati maggiori.
Non so se le società per azioni con fini di lucro abbiano ridotto il potere di intervento e di controllo della FIGC ma, se così fosse, il Governo potrebbe intervenire. Crediamo che il rispetto delle regole non parta soltanto dagli aspetti economici ma nasca anche dai problemi sorti in questi anni, cioè dalle fidejussioni false, dal doping e dai passaporti falsi. Nel nostro movimento si è avuta la sensazione che maggiori sono quelli che commettono reati e più è difficile intervenire, anche se vi sono delle buone leggi.
Quando si è scoperta la vicenda dei due o tre passaporti falsi - non si tratta di un reato relativo al calcio, in quanto permetteva il tesseramento di giocatori stranieri che, altrimenti, non avrebbero potuto giocare, ma riguarda anche le leggi dello Stato - inizialmente si parlava di provvedimenti e di squalifiche pesantissime, ma, successivamente, i passaporti sono diventati 15 o 20 e, coinvolgendo altre società, la questione è stata un attimo occultata.
AURELIO GIRONDA VERALDI. Noi della CAF siamo stati puniti per avere dato delle pene molto gravi ai calciatori, poi qualcuno ha trovato un modo illecito per rimediare.
AZEGLIO VICINI, Presidente dell'Associazione italiana allenatori di calcio (AIAC). Come tutta l'opinione pubblica, siamo contrari al doping e riteniamo che la lotta a tale fenomeno - prima i controlli non si facevano, ma poi sono ripresi - sia un problema importantissimo anche del calcio professionistico. Infatti, se ne parla poco ma ogni tanto qualche caso si riscontra: l'anomalia è che pagano solo i calciatori e mai le società. Signor presidente, crediamo che sia impossibile che un professionista, che vive tutti i giorni negli stadi e viene controllato da medici e massaggiatori, possa doparsi all'insaputa della società. Agli inizi degli anni '60 veniva punita anche la società e la ripetizione di alcune partite, come Bologna-Inter, avvenne proprio in seguito ai fatti relativi al Bologna. Se ci fosse la certezza della colpa, bisognerebbe punire anche la società e con due punti di penalizzazione credo che tali fenomeni cesserebbero immediatamente:
forse, a volte, bisognerebbe avere la forza di prendere certi provvedimenti.
Il fenomeno della violenza è un argomento importantissimo per il nostro movimento. Pur avendo dei canali privilegiati per il parcheggio e l'ingresso, la sera ho delle remore nell'assistere ad una partita: quindi, si tratta di un problema reale e ne abbiamo avuto un esempio qualche giorno fa. Voi chiedete quali misure alternative si possano adottare oltre a quelle dell'ordine pubblico. Crediamo che le misure di controllo negli stadi siano abbastanza accurate e che sia difficile procedere ad un ulteriore inasprimento di queste norme. Ciò che avviene all'interno degli stadi deve essere, in gran parte, responsabilità della società, anche perché oggi, grazie agli strumenti televisivi, si riesce a controllare e ad individuare gli autori delle violenze. Invece, ciò che avviene fuori dallo stadio, e soprattutto di notte, riguarda l'ordine pubblico istituzionale e, comunque, rientra in un compito difficilissimo perché è veramente arduo porre rimedio alle devastazioni compiute di notte da decine di ragazzi.
Crediamo che siano due le strade da intraprendere per favorire il rilancio del calcio giovanile e, quindi, ottenere anche un risparmio economico. L'Associazione nazionale calciatori, così come gli allenatori, è contraria alla riduzione delle rose perché in una società di 20 o 25 giocatori possono essere sufficienti due o tre allenatori, ma con 35 giocatori sono necessari il doppio. Tuttavia, riconosciamo che con 25 giocatori un giovane di valore, prima o poi, può trovare uno spazio, mentre è molto più difficile con 30 giocatori. Oltretutto, la possibilità che questi giovani siano a contatto con la prima squadra costringerebbe, di fatto, tutte le società a strutturare un settore giovanile più adeguato, scegliendo i più bravi, allenandoli e migliorandoli, senza acquistare il giocatore già formato. Ovviamente, anche la riduzione dei calciatori non italiani, a mio parere già in atto, darebbe ulteriori spazi. I calciatori stranieri hanno certamente dato molto al nostro calcio in termini di spettacolo e di interesse, ma ne sono arrivati tantissimi, soprattutto nelle nostre serie inferiori. Il Perugia, l'Empoli e il Chievo giocano in serie A con metà dei giocatori scelti nei dilettanti e, quindi, le squadre di calcio dovrebbero avere una struttura che consenta loro di allargare le conoscenze.
Per il calcio dilettantistico l'ideale sarebbe che la domenica giocassero le squadre dalla serie C2 ai dilettanti e il sabato quelle della serie A: tutto ciò è difficilmente attuabile ma, chiaramente, la televisione influisce negativamente sulla presenza nei campi minori. Gli spettatori sono altresì diminuiti perché, rispetto a qualche decina di anni fa, le società dilettantistiche sono aumentate enormemente. Ora anche una frazione di 500 abitanti ha un suo campo e un ristretto numero di appassionati: naturalmente, sono da ammirare quei piccoli dirigenti che con i soldi del loro stipendio comprano le maglie e trovano qualche sponsor locale. Comunque, il calcio dilettantistico mi sembra sano.
Signor presidente, aiutare il calcio vuol dire far rispettare le regole tecniche ed economiche perché, dopo, interviene l'abuso. Tali regole vanno fatte rispettare perché quando entrano a far parte del nostro movimento sono accettate da tutti, anche se poi qualcuno cerca di eluderle. Accettare le trasgressioni vuol dire, in realtà, incoraggiare coloro che operano bene. Infatti, sulla questione dell'IRPEF bisogna stare attenti a concedere gli aiuti, perché le numerose società che sono in regola ed hanno operato bene in futuro potrebbero farlo anch'esse.
Signor presidente, ci dicono che per la Federazione - della quale facciamo parte da circa due anni e mezzo grazie al decreto Melandri - sia difficile controllare le società di calcio in quanto Spa e gli imprenditori che vogliano investire e fare debiti perché pensano di vincere il campionato, di fare più incassi e di avere più contributi. Non sappiamo e non siamo al corrente di tutto ciò ma, se il «male» fosse veramente nelle società per azioni con fine di lucro, un altro Governo potrebbe
emanare un'altra legge per annullare quella approvata in questo senso dal precedente esecutivo.
In sostanza, per quanto riguarda la cattiva amministrazione di alcune società, secondo noi probabilmente solo i presidenti di queste squadre sono in buona fede, perché i calciatori e gli allenatori, che guadagnano tanto, troppo, guadagnerebbero molto anche con il 20-30-40 per cento in meno. I contratti, però, sono stipulati liberamente. Anzi, da quando sono intervenuti i procuratori in difesa dei calciatori, il potere contrattuale dei calciatori è aumentato in quanto prima questi ragazzi, per ignoranza, perché giovani o perché sensibili all'attaccamento alla maglia, erano disposti anche ad accettare altre cifre. Invece, i procuratori sono dei professionisti che si fanno il solo scrupolo di difendere al meglio il proprio associato.
Quindi, se d'autorità viene emanata una norma che obbliga a non spendere globalmente più di un tanto, ci si può anche stare. Ieri sera al vertice di Milano c'era chi diceva che se determinate società hanno i mezzi per comprare i giocatori migliori, li si deve pagare di più della concorrenza italiana e straniera.
Uno dei motivi delle difficoltà che noi avvertiamo nell'ambito del consiglio federale è rappresentato dalle leghe. Non dico che esse siano troppo libere di fare ciò che vogliono, però poi non si può scaricare la colpa sul governo federale. Qualche volta è difficile anche per le stesse leghe. Ad esempio, la lega di Milano è spaccata in due. Il presidente della medesima, se nove società sono in regola e nove no, non può stare da entrambe le parti; la Federazione deve assumere una decisione, così da togliere dai guai anche il presidente della Lega. Vi chiediamo, quindi, di aiutarci affinché la Federazione possa decidere in merito ai diritti televisivi. È stato un errore eliminare la mutualità, che va ripristinata.
Per quanto riguarda il mancato pagamento dell'IRPEF, chi deve vigilare? Lo devo sapere per capire come dobbiamo comportarci nell'ambito del consiglio federale, perché ci sono delle proposte da votare. Devono controllare le aziende, qualche istituto, la Lega, la FIGC o il fisco? Se alcune società non hanno pagato per cinque anni l'IRPEF, è possibile che il fisco non c'entri niente in questa questione? Credo che se non pagassi le tasse, il fisco mi individuerebbe prima di cinque anni: mi sembra normale e giusto. Questo elemento deve essere chiarito anche per i dibattiti televisivi, che altrimenti creano solo confusione.
La proposta del presidente del CONI Petrucci prevede che chi non è in grado di iscriversi ai campionati comunque fallisce, ma mentre in passato veniva cancellato (a partire dalla vicenda della Fiorentina questo meccanismo è già stato cambiato) ora potrebbe ricominciare dalla stessa serie di appartenenza. Noi siamo stati i primi a dire che questo ci sembrava assolutamente ingiusto e la Federazione ha fatto propria la nostra posizione. Non era giusto che una squadra dovesse ricominciare dai dilettanti, tanto è vero che quando si verificò il caso della Fiorentina (che disputò il campionato di serie A, fu retrocessa in serie B e poi iscritta al campionato di C2), la nostra associazione nell'ambito del consiglio federale era favorevole ad un ripescaggio in serie C1, anche se forse ciò fu fatto senza troppa spinta.
È stato detto che in tal modo si puniscono le tifoserie. Ma le tifoserie qualche volta sono anche complici del mal fatto, perché quando esercitano pressioni, con delle sommosse, ad una società o ad un presidente affinché potenzi la squadra, hanno le loro responsabilità.
La nostra proposta è dunque la seguente: una squadra che conclude il campionato di serie A e fallisce, dovrà ricominciare dalla serie B se c'è chi è disposto a rilevarla (e se più di un soggetto è disposto a rilevarla bisogna stabilire i criteri). Tale meccanismo ci sembra più equo e anche positivo per coloro che hanno operato bene e che altrimenti sarebbero anch'essi indotti ad evadere le tasse.
Speriamo che non si parli nemmeno di titoli sportivi più o meno importanti per rispettare le grandi città. Non vedo che
differenza faccia se si tratti di Roma, Milano, Cosenza, Cesena o Trieste. Mi sembra una scappatoia quella di voler tutelare il titolo sportivo. Anche l'opinione pubblica e i mass media devono sapere con certezza cosa sta succedendo. La tifoseria adesso sa che, se una sua squadra alla fine dell'anno non è in grado di fare fronte a quanto doveva, fallisce ma può ricominciare dalla serie inferiore a quella dalla quale proveniva.
Negli ultimi quindici anni sono fallite 59 società, corrispondenti a 25 capoluoghi di provincia (Trieste, Firenze, Bologna, Catania, Palermo, Messina, e così via) e non è successo niente. Aggiungo che nella storia del nostro calcio, dal dopoguerra in poi, senza andare troppo lontano, sono andate in serie B tutte le squadre che militano in Italia, tranne la Juventus e l'Inter. Anche il Milan è retrocesso in serie B due volte, di cui una per illecito sportivo. Non sono mai successe rivoluzioni. Lo diciamo con franchezza: il fatto della rivoluzione o delle sommosse ci sembra un ricatto forte, pesante e inaccettabile, perché vuol dire indurre qualcuno a sposare quella causa. Speriamo che il Governo adotti delle regole e che queste siano applicate con fermezza.
Si deve porre un rimedio velocemente. Vedo che il Governo e il Parlamento si stanno occupando della materia, ma se non si riuscisse a riordinare il settore si dovrebbe istituire il Ministero dello sport, come avviene nella maggior parte del mondo, compresa la Francia. Esso si dovrebbe occupare non tanto della formazione della Nazionale, quanto di risolvere i problemi tecnici. Noi speriamo che non ce ne sia bisogno.
L'opinione pubblica vuole dei segnali di serietà. Lo capiscono anche i tifosi delle società: i sondaggi che vengono effettuati saranno anche improvvisati, però ci dicono che il 90-95 per cento della popolazione la pensa in una certa maniera. Non credo che il dato sia molto lontano dal vero.
PRESIDENTE. La ringrazio per il suo intervento e do la parola ai colleghi che desiderano porre domande.
PAOLO SANTULLI. Nel ringraziare il presidente Vicini per essere stato chiarissimo nella sua esposizione, colgo occasione per formulare alcune domande. Innanzitutto, è stato introdotto un argomento molto interessante, relativo alle responsabilità imputabili non solo ai calciatori ma anche alle società nelle vicende di doping. Voi che rappresentate gli allenatori, ovvero coloro che maggiormente si trovano a contatto con gli atleti e sono messi oggettivamente in condizione di verificare le prestazioni degli stessi, avete la possibilità di comprendere se l'azione e la capacità del giocatore siano frutto del normale allenamento e del talento sportivo oppure anche di alterazioni farmacologiche?
A questa domanda se ne collega un'altra conseguente: non ritenete che l'uso attualmente diffuso del doping sia anche legato allo stress cui gli atleti sono sottoposti, proprio perché a certi livelli si riscontra una forte necessità di garantire prestazioni massimizzate e continue? Dobbiamo, infatti, osservare come la spettacolarizzazione della competizione sportiva spinga a protrarre ed intensificare le prestazioni stesse (attualmente condizionate dall'esistenza di vari diritti, dalle sponsorizzazioni e da altri vincoli che determinano lo stato complessivo di un sistema), provocando il logoramento degli atleti. Nonostante ciò, si tratta di un fenomeno che potrebbe però essere ancora ridimensionato, sempre che si riuscisse ad affermare il principio di uno sport «più umano».
Venendo alle ultime questioni, ritiene l'Associazione allenatori che il sistema acquisterebbe maggiore trasparenza ed efficienza qualora intervenissero soggetti terzi alla Federazione a gestire la giustizia sportiva e le varie commissioni di controllo presenti nel calcio? Infine, esiste o meno una sudditanza psicologica nei confronti dei grandi club di cui si è sempre tanto parlato?
GIOVANNA BIANCHI CLERICI. Una delle proposte avanzate in questi giorni per far fronte alla grave situazione in cui versa la maggior parte delle società di
calcio prevede l'introduzione del tetto di ingaggio dei giocatori: in particolare, si parla molto delle misure adottate nel sistema americano, la cosiddetta « tassa sul lusso», per cui - superato un certo tetto nei pagamenti stipendiali da parte delle società - , si prevede che, per ogni dollaro corrisposto ad un giocatore, un altro dovrà essere suddiviso tra le altre società professionistiche. Giudicate voi realistica questa ipotesi? Inoltre - mi sia scusata la provocazione - ritenete sia plausibile un'autolimitazione degli ingaggi degli allenatori?
AURELIO GIRONDA VERALDI. Vorrei complimentarmi con l'allenatore Azeglio Vicini, come professionista e nella sua veste di presidente dell'associazione che rappresenta, per averci fornito utili e preziose indicazioni. A proposito del problema dell'esercizio di un controllo sul sistema, lei ha sottolineato che le regole già sussistono. Ritengo, però, necessario aggiungere che occorre anche assicurarne il rispetto.
Quanto alla giustizia sportiva, qual è la vostra opinione sulla sua gestione? Precedentemente, nel suo intervento, lei, presidente, ha fatto riferimento ad una questione molto importante, riguardo ai passaporti falsi. In proposito, vorrei svolgere una breve osservazione: come sa, è intervenuta una punizione severa nei confronti di certi calciatori che appartenevano a grandi società, proprio relativamente a tale irregolarità; successivamente, però, si è trovato il sistema per neutralizzare gli effetti di una sentenza passata in giudicato, estromettendo - con provvedimento immediato - i componenti della Corte d'appello federale responsabili del precedente atto. Ritengo che questa sia una vicenda di rilievo su cui riflettere.
GIOVANNI LOLLI. Apprezziamo la relazione del presidente, su cui avremo modo di riflettere leggendo il resoconto stenografico della seduta odierna. Per quanto mi riguarda, vi ritrovo suggerimenti e osservazioni pertinenti e sensate, sicuramente utili allo svolgimento della nostra indagine. Tuttavia, rilevo che su un determinato profilo lei abbia assunto un atteggiamento un poco remissivo, mentre è diverso il parere che mi sento di esprimere. Poco fa, lei ha sostanzialmente sostenuto il principio per cui se esiste un presidente di una società di calcio in grado di erogare maggiori risorse per la propria squadra, forse è giusto che lo faccia. Rispetto a questa posizione, debbo esprimere tutta la mia contrarietà. Questi sistemi, dove funzionano - ci sono realtà in cui i meccanismi funzionano in maniera radicale, come negli Stati Uniti d'America, ed altre in cui i risultati sono ugualmente soddisfacenti, come si verifica in Inghilterra -, sono fondati su un principio basilare, secondo il quale è necessario evitare in qualsiasi modo la formazione di posizioni dominanti sul piano finanziario, così forti da stravolgere l'intero sistema.
La collega Bianchi Clerici le accennava precedentemente che negli Stati Uniti d'America, nel caso NBA, si prevede non solo una equa ripartizione di tutti diritti televisivi, ma addirittura che qualora un presidente intenda superare il tetto di spesa per pagamenti stipendiali, costui sia costretto a versare - per tutto quanto oltrepassi il tetto stabilito preventivamente - una quota, soggetta ad una successiva ridistribuzione fra tutte le società sportive. Le ragioni di tale previsione debbono rintracciarsi nella volontà di impedire che il campionato, la gara divengano competizioni riservate a poche società.
Da parte mia, rifiuto alla radice questo tipo di filosofia, di cui non ritengo lei responsabile ma che tuttavia lei stesso ci ha riferito in questa sede, per cui ad essere avvantaggiato continui a rimanere il club con maggiori capacità di investimento. Occorre piuttosto introdurre una serie di regole che assicurino vincoli adeguati all'interno del sistema. Le chiedo la sua opinione in proposito, aggiungendo una sola considerazione: mi sembra che questi signori si comportino come chi sega il ramo dell'albero su cui è seduto. Quando il campionato italiano sarà definitivamente in mano solo a due o tre società in grado di vincerlo, il calcio si
venderà meno bene alle televisioni, perdendo ogni appeal. È pertanto interesse persino finanziario, oltre che sportivo, dell'intero sistema introdurre quei tetti necessari a ristabilire gli equilibri del settore calcistico.
PRESIDENTE. Non essendovi altri interventi, do la parola al presidente Vicini per la replica.
AZEGLIO VICINI, Presidente dell'Associazione italiana allenatori di calcio (AIAC). In primo luogo, vengo immediatamente al problema della sudditanza psicologica cui si è fatto cenno in merito a possibili condizionamenti sull'esercizio dell'arbitraggio. Quella dell'arbitro è una professione specifica ma, al di là dell'aspetto professionale, è chiaro che l'ambizione di chi riveste questo ruolo - come avviene per un calciatore oppure per un uomo politico -, è arrivare al più alto livello possibile. Ovviamente, quando si tratta di giocare a Milano, Roma, Torino, cioè nei grandi club calcistici, pare istintivo e naturale per l'arbitro avere un occhio di riguardo. Ma vorrei ulteriormente sottolineare che questo atteggiamento vale in tutti gli ambiti e per tutti i casi: dai grandi personaggi politici ai grandi club, che suscitano ammirazione e rispetto, nei confronti dei quali una sudditanza istintiva - sempre in buona fede, ovviamente, - può risultare concepibile. Questo, del resto, avviene anche nel caso degli organi di informazione; è sufficiente prestare attenzione a qualche servizio televisivo, ad una trasmissione specificamente dedicata al mondo del calcio, per ravvisare la presenza di uno schieramento di campo, che spesso supera la pura tifoseria.
Quanto al doping, nelle nostre assemblee, dove presenziano tutti gli allenatori, sostengo sempre il principio che non possiamo, nell'esercizio della nostra professione, rimanere estranei a certe vicende: l'allenatore è responsabile di tutto ciò che avviene, ed il medico è un collaboratore dell'allenatore stesso; pertanto, ricordo sempre ai colleghi la necessità di continuare a vigilare affinché non vi siano disfunzioni. È possibile che un medico prescriva l'assunzione da parte del giocatore di alcune sostanze considerate lecite, ma lo faccia ad un dosaggio talmente elevato, per potenziare la prestazione del calciatore, da superare il livello della liceità. È ovvio che gli allenatori tengano alla salute e al futuro dei propri giocatori e che si debbano interessare di quanto avviene. Se un allenatore fosse responsabile, cioè venisse a conoscenza di un caso di doping relativo ad un proprio giocatore, e non intervenisse, sarebbe giusto adottare provvedimenti anche nei suoi confronti, per non aver denunciato alla FIGC quanto di irregolare a lui noto.
Aggiungo poi un'altra considerazione. Se una società non è a conoscenza dell'assunzione da parte di un suo giocatore di sostanze vietate - anche se mi risulta impossibile crederlo -, quando egli, risultato positivo, viene squalificato, la prima cosa da fare in base ai regolamenti sarebbe quella di decurtare il suo stipendio. Non ci risulta però che sia mai accaduto ai giocatori squalificati per doping. Non credo poi che il numero eccessivo di competizioni possa incentivare l'assunzione di sostanze vietate. Bisogna considerare, infatti, che le gare sono aumentate, così come sono aumentate le rose, e che le sostituzioni consentono ad una squadra di affrontare più partite. Inoltre, esistono anche prodotti legittimi, come gli integratori, che aiutano il recupero e amplificano la potenza dei giocatori.
Sono un po' perplesso riguardo all'eventualità che soggetti terzi alla Federazione gestiscano la giustizia sportiva, perché credo che di calcio si debba occupare chi è veramente dentro alle sue vicende.
Circa la questione relativa al tetto degli stipendi, ritengo che tale decisione sia possibile, solo però se applicata in Europa e in tutto il mondo. Gli imprenditori che gestiscono società con i loro patrimoni, oltre che con gli incassi dei botteghini, i proventi degli sponsor e i contributi televisivi, dicono che nessuna legge al mondo potrà vietare di acquistare un giocatore forte e di livello internazionale. Si pensi
che negli USA è vigente una regola che consente all'ultima squadra in classifica di acquistare il più bravo degli atleti messi in vendita, in modo da riequilibrare il campionato.
FABIO FATUZZO. Ritengo che il problema dell'imprenditore ricco, che paga uno stipendio immenso e stratosferico ad un giocatore, non possa essere limitato alla sola responsabilità dell'imprenditore, perché il contratto con il giocatore è pluriennale ed impegna anche la società per il futuro. Accade infatti che le squadre che hanno giocatori sotto contratto non riescono a trovare acquirenti. Allora, a questo punto, il tetto risulta necessario, perché non coinvolge solo per un anno l'imprenditore mecenate, ma anche la squadra per gli anni successivi. Ritengo quindi che o si ritorna al sistema precedente, per cui la squadra è proprietaria di una persona fisica, di cui si assume in proprio la responsabilità, o il tetto risulta indispensabile.
AZEGLIO VICINI, Presidente dell'Associazione italiana allenatori di calcio (AIAC). Sono d'accordo con lei; ho solo detto che le norme vigenti consentono ad un imprenditore di rispondere in proprio. Vi ricordo poi che i contratti pluriennali sono nati in seguito all'abolizione del vincolo e sono volti proprio a tutelare le società proprietarie del cartellino del giocatore; infatti se un giocatore, legato ad una società con un contratto quinquennale, vuole cambiare società prima della scadenza del contratto, non se ne può andare via liberamente, e la società che lo acquista dovrà pagare venti, trenta miliardi, ossia il prezzo del cartellino - vincolo che sarà più o meno elevato anche a seconda della durata del contratto - ripristinando in tal modo il vincolo. Detti contratti sono peraltro ratificati dalla Lega soltanto per quanto riguarda le serie A e B, non la serie C, che mi pare li ratifichi per un anno.
PRESIDENTE. Ringraziando il presidente Vicini e gli altri rappresentanti dell'Associazione italiana allenatori di calcio per la loro partecipazione e per le indicazioni che ci hanno fornito, dichiaro conclusa l'audizione.
PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sul calcio professionistico, l'audizione di rappresentanti dell'Associazione italiana agenti calciatori e società (Assoagenti).
Sono presenti il presidente e il vicepresidente dell'Associazione italiana agenti calciatori e società, l'avvocato Oberto Petricca e il dottor Paolo Conti, che ringrazio per aver accolto il nostro invito.
Lo scopo delle nostre audizioni è acquisire gli elementi di conoscenza necessari per porre in essere interventi organici nel settore. Vorremmo quindi conoscere la vostra analisi e le vostre proposte rispetto al malessere presente nel mondo del calcio. Vi do pertanto la parola.
OBERTO PETRICCA, Presidente dell'Associazione italiana agenti calciatori e società (Assoagenti). La nostra associazione si è costituita fra il 1989 e il 1990, in concomitanza con la prima approvazione di un regolamento per procuratori sportivi presso la Federcalcio, la quale ha ritenuto di istituzionalizzate questa figura che, di fatto, operava sul mercato senza un'effettiva regolamentazione. Fino a quel momento e dopo l'approvazione della legge n. 91 del 1981 non esisteva, infatti, la figura professionale dei cosiddetti procuratori o agenti di calciatori come ora sono denominati.
Questo percorso istituzionale è cominciato con l'approvazione di un elenco speciale, una sorta di albo interno alla Federazione, che qualificava questa figura professionale. All'inizio i precursori di queste attività sono stati per lo più avvocati e persone che gravitavano già nell'ambiente del calcio. Nel 1990-1991 si istituì l'albo degli agenti e dei procuratori sportivi,
si stabilì un esame di accesso all'attività professionale e cominciò il nostro percorso di inserimento nell'istituzione federale. Non siamo tesserati ma una sorta di paratesserati, cioè di professionisti al servizio delle società e dei calciatori che debbono, comunque, rispettare le norme federali: quindi, siamo una figura di supporto. Tutto ciò comporta dei problemi sulla regolamentazione della nostra attività perché, non essendo tesserati e strettamente inseriti nell'ordinamento federale, rimaniamo più vicini ad un'attività libero-professionale che alle tematiche di tutti i tesserati (allenatori, direttori sportivi e altre figure professionali).
Il nostro percorso è quindi cominciato nel 1990; nel 1993 abbiamo avuto dei regolamenti emendati, nel 1998 un importante regolamento, mentre l'ultimo è stato approvato dalla Federcalcio l'8 novembre 2001. In questo momento la nostra figura sta radicalmente mutando perché, in recepimento del regolamento FIFA - che è generale e che detta le regole per tutti i regolamenti delle federazioni -, il procuratore sportivo, da una sorta di assistente sindacale del calciatore, diventa un agente in grado di assistere sia i calciatori sia le società di calcio in un rapporto di totale trasparenza.
La nostra associazione ha dato un grosso contributo ai mutamenti dei regolamenti ed è composta per la maggior parte di ex calciatori, i quali hanno una grande capacità di rapportarsi ai problemi pratici, una grande conoscenza ed una grande esperienza, come il vicepresidente qui presente, che negli anni '70 è stato uno stimato portiere della Roma. Inoltre, fa parte del nostro ambiente anche un nuovo fronte di avvocati e di commercialisti. Tale assetto ha permesso alla nostra associazione di acquistare un ruolo centrale nel sistema. Tutte le figure professionali - arbitri, direttori sportivi e presidenti - devono tutelare un loro lavoro specifico, ma noi siamo la categoria più vicina ai calciatori, con i quali abbiamo rapporti professionali e, spesso, confidenziali. A volte, soccorriamo i presidenti quando, ad esempio, hanno delle rose in esubero o compiono degli errori di mercato e ci chiedono di ottimizzare la gestione della loro società attraverso operazioni di mercato.
Di conseguenza, finiamo per avere, di fatto, un ruolo centrale e una grande conoscenza dell'ambiente, che proviene dalla nostra presenza sul campo nel corso degli anni; però, non siamo ancora inseriti nel Consiglio federale, nei consigli di Lega e in nessun altro tipo di organismo istituzionale che ci consenta di esprimere il nostro parere in merito alle questioni più eclatanti e più importanti del nostro calcio. Facciamo ciò attraverso un'opera dell'associazione, che spesso si confronta con l'opinione pubblica e con i mass media. Però, non abbiamo un punto di riferimento istituzionale al quale presentare ufficialmente le nostre proposte.
Ieri gli stati generali del calcio si sono riuniti a Milano e non hanno tenuto conto del fatto che noi dovremo convincere i calciatori, come abbiamo fatto negli ultimi tre anni, ad accettare riduzioni di ingaggio, spalmature e sostituzione di pagamenti in denaro con obbligazioni o azioni delle società. Dobbiamo convincere i calciatori ad accettare la flessibilità futura. Tutte queste idee sono nate, fra l'altro, dalla nostra collaborazione con l'Associazione italiana calciatori. Quindi, in questa sede ossequiosamente rivendichiamo il diritto ad essere rappresentati, perché effettivamente la centralità del nostro ruolo sta crescendo.
Ad esempio, il cosiddetto piano Baraldi è stato elaborato in una bozza iniziale dal nostro associato Beppe Bonetto, che è uno dei pionieri della nostra attività. Successivamente, Baraldi ha ripreso questo tipo di discorso, che insieme agli altri agenti è stato portato avanti. In quel momento gli agenti hanno avuto un ruolo di grande responsabilità al fine di far accettare questo piano.
Questo non è l'unico esempio del fatto che abbiamo già attuato una campagna di riduzione degli ingaggi e un criterio di flessibilità contrattuale sia per il presente che per il futuro. Ci sono tantissimi esempi. In ogni situazione in cui si verificava
un'emergenza della società, siamo stati pronti ad intervenire per convincere i nostri assistiti a dare delle soluzioni possibili.
Riteniamo che non sia il momento di difendere interessi corporativi: i calciatori arroccati da una parte e gli agenti dall'altra, la Federazione ferma su certe posizioni incongruenti, l'Associazione italiana calciatori sul problema degli extracomunitari. Bisogna fare tutti quanti un sacrificio per superare queste posizioni corporative, perché quando entra in crisi il sistema nella sua interezza, tutte le categorie sono colpite. Quindi, riteniamo che la salvezza e la sopravvivenza del sistema costituiscano ormai una priorità assoluta anche per la nostra categoria, perché essa non è più una categoria come lo era all'inizio, con il ruolo di assistere il calciatore e di ottimizzare al massimo, attraverso atteggiamenti pseudosindacali, lo stipendio del calciatore stesso. Ora si tratta di valutare il rischio di fallimenti futuri o di defaillance delle società.
In questa situazione, non possiamo più pensare che tutto sia rimasto come prima. Se i sacrifici sono necessari, andranno sicuramente compiuti anche dalla nostra associazione. Siamo favorevoli ad un piano che preveda il graduale superamento di questa grande crisi.
Rispetto all'analisi della crisi, c'è stato un periodo di grande mistificazione. Scusate se adopero questo termine. All'inizio sembrava che i calciatori avessero spremuto le società con una sorta di violenza psicologica o materiale e che quindi fossero gli unici artefici di questa crisi. Abbiamo dimostrato, attraverso una serie di dati statistici e storici, che sono stati i dirigenti stessi e la mancanza di sistemi di controllo a determinare questa situazione; non è stato l'incremento degli ingaggi, anche se essi pesano in modo notevole sui bilanci delle società. È quindi inutile tornare su discorsi che abbiamo già fatto per molto tempo e con i quali non intendo annoiarvi.
Qualche anno fa, quando il calciatore trattava un ingaggio e stipulava un contratto biennale o triennale, non si poteva pretendere che chiedesse al presidente di mostrargli il bilancio per capire se l'ingaggio potesse essere pagato. Spesso era il presidente che, sottoposto alla pressione dei tifosi, raccomandava all'agente e al calciatore di concludere per forza quella trattativa, perché la sua non chiusura e il mancato arrivo di quel calciatore su quella determinata piazza avrebbero comportato disastri, disagi e proteste.
Spesso ci siamo trovati quindi ad affrontare trattative in una situazione di imbarazzo, perché la nostra figura nasce proprio per ottimizzare una carriera così breve come quella dei calciatori. Infatti, è vero che essi guadagnano molto, ma vi sono tanti ragazzi che guadagnano al minimo dello stipendio (ossia 2.500 euro al mese), come De Rossi o Albertini all'inizio della carriera. Gattuso addirittura era scappato in Inghilterra perché non gli avevano neanche fatto il contratto. Abbiamo centinaia e centinaia di questi casi in cui i calciatori al minimo di stipendio danno un contributo notevolissimo per un lungo periodo di tempo, come per esempio Ventola agli inizi quando giocava nel Bari. Difficilmente coloro che provengono dai settori giovanili stipulano un contratto importante prima dei 23-24 anni. In quella fascia percepiscono stipendi veramente ridotti, che rasentano la base minima sindacale.
Pertanto, non è vero che tutti i calciatori guadagnano moltissimo. In un mio articolo apparso sul Corriere dello Sport, «Siamo pronti a rateizzare gli ingaggi» (mi riferisco a quelli pregressi, che sono dei diritti acquisiti - non lo dimentichiamo), volevo dire che stiamo rinunciando a diritti acquisiti per andare incontro al sistema. Se ci fosse rigidità da parte nostra e dei calciatori, si dovrebbe dire che quei contratti non vanno toccati. Invece, anche su questo aspetto stiamo dimostrando la massima disponibilità.
La Commissione dovrebbe comprendere come sia stato difficile questo passaggio dalla funzione di consulenti dei calciatori a quella volta a ristabilire un centro di responsabilità per ottenere un sistema sano. Consideriamo che il calciatore
ha una carriera brevissima, che comincia a guadagnare intorno ai 22-23 anni e finisce a 30-31; ebbene, all'inizio il nostro compito era quello di ottimizzare al massimo questa breve carriera lavorativa, che è anche molto complessa. A volte i calciatori sono fortunati e finiscono tra i primi dieci, andando in nazionale. Altre volte sono meno fortunati e navigano tra la serie B e la serie C. In quei casi, dobbiamo gestire rapporti diversi rispetto a quelli dei calciatori più importanti.
Abbiamo anche dovuto compiere uno sforzo per far comprendere il nostro atteggiamento responsabile. A un certo punto, abbiamo parlato con i nostri assistiti facendo loro capire che i tempi erano cambiati e che quindi, rispetto ad un contratto biennale per una certa somma di denaro, era preferibile diminuirla e prevedere un contratto con incentivi, in caso di promozione, e accettare una flessibilità, oppure compiere una spalmatura dei debiti pregressi attraverso un accordo con le società e progressivamente arrivare ad un sistema che andasse incontro a queste problematiche.
Purtroppo, la fase esecutiva del piano della Lazio è decollata in ritardo. Calciatori come quelli del Parma sono preoccupati perché quando vanno in campo non conoscono il loro futuro. Però, tutto sommato, la nostra categoria sta spingendo i giocatori verso la massima responsabilità ed essi a loro volta stanno dando prova di responsabilità, perché in una situazione di grande emergenza stanno rispondendo effettivamente con grande impegno.
PRESIDENTE. Ringrazio il presidente Petricca per il suo intervento. Do quindi la parola agli onorevoli colleghi per eventuali domande.
GIOVANNI LOLLI. Prescindendo da quanto si è detto a proposito degli stipendi dei calciatori, ovvero che molti di essi percepirebbero una retribuzione al minimo sindacale - circostanza che non ci impietosisce particolarmente, considerato che allo stesso livello si colloca tutto il popolo italiano -, le vorrei porre qualche domanda più stringente. In questi anni, nel mondo del calcio, è circolata una massa di denaro considerevole: quante risorse intercetta la vostra intermediazione? Inoltre, il vostro mestiere esiste anche in altri paesi? In quali dimensioni? E come funziona? Ha lo stesso tipo di impatto?
La vostra appare un'attività piuttosto rilevante, come lei ha sostenuto e in base a ciò che desumiamo dai vari canali di informazione: partendo da tale assunto, sarebbe opportuno un chiarimento da parte vostra riguardo ai meccanismi di controllo esistenti per garantirne il corretto esercizio. In proposito, so che esiste una commissione specificamente preposta allo svolgimento di un'attività di monitoraggio nel settore in cui operate; domando, pertanto, al presidente Petricca se l'associazione da lui rappresentata si reputi soddisfatta del lavoro da questa svolto.
Esprimo poi alcuni rilievi inerenti a due aspetti che - da osservatore esterno - mi hanno lasciato perplesso. Innanzitutto, esiste un abusivismo mostruoso nella vostra professione e chiedo se, dinanzi a questo problema, si riesca ad intervenire o meno. Inoltre, sono frequenti i casi di conflitto di interessi e di posizioni dominanti, correlati alla presenza di una struttura di origini molto «domestiche»: in che modo agite rispetto a tale problema?
A proposito delle vostre iniziative, sono a conoscenza di un intervento che mi ha lasciato strabiliato. Mi riferisco alla vicenda della GEA, nella quale il conflitto di interessi è evidentissimo: basti pensare che questa società possiede 22 giocatori della Juventus e un ruolo determinante in essa è svolto dal figlio del general manager di quel club. Inoltre, mi risulta che la GEA possieda una percentuale elevatissima di giocatori divenuti ormai a tutti gli effetti di «proprietà» - mi sia consentita questa espressione - di Capitalia, considerando che ai vertici della GEA si trova anche la figlia del dottor Geronzi.
Voi capite che in questo caso è del tutto evidente l'esistenza di una posizione di dominanza e di conflitto di interessi. In merito, qual è il vostro atteggiamento? So
che la vicenda è stata esaminata dalla commissione di controllo, la quale ha ritenuto la situazione perfettamente regolare. Addirittura la Federazione - mi confermi se questo corrisponda a verità - avrebbe stabilito la possibilità di far fronte al conflitto di interessi rispettando una determinata procedura, ovvero a patto che il giocatore dichiari di essere al corrente della presenza - all'interno della società - del figlio del general manager del noto club, prendendo atto degli assetti societari della GEA, con ciò ponendo fine ad eventuali complicazioni. Lei capisce che la questione si fa particolarmente complessa.
È in gioco una quantità consistente di risorse finanziarie, il sistema deve essere interamente riformato ed occorre pertanto intervenire in modo profondo ed incisivo. Alla luce di ciò, ci attendiamo da parte sua e dell'associazione che rappresenta qualche rassicurazione o, perlomeno, una proposta relativa alle varie possibilità di intervento.
GIOVANNA BIANCHI CLERICI. Ritengo importante conoscere più approfonditamente gli aspetti e le peculiarità della vostra professione. Innanzitutto, quanti siete, visto che ci avete detto di essere iscritti ad un albo professionale? Inoltre, che tipo di contratto regola il rapporto tra voi e i calciatori? Si tratta di un rapporto di consulenza? A mio parere, poi, occorrerebbe anche qualche chiarimento ulteriore rispetto alle questioni su cui si è precedentemente soffermato il collega Lolli. Infine, oltre alle questioni strettamente connesse a ingaggi e stipendi, vi occupate anche di altri problemi, comunque inerenti all'esercizio della professione dei calciatori, ovvero l'ingresso degli stranieri, il problema dei vivai dei giovani calciatori, il doping? Svolgete una funzione in materia, oppure vi limitate semplicemente a curare l'aspetto economico dell'ingaggio?
AURELIO GIRONDA VERALDI. Vorrei semplicemente svolgere un'osservazione che poi si traduce in un quesito. Avete detto di non aver potuto controllare i bilanci; vorrei ulteriori chiarimenti in proposito. Quando si stipula un contratto con una società di calcio, voi rappresentate il calciatore al fine di tutelare al meglio gli interessi del medesimo. Avete implicitamente affermato che questa situazione si è creata perché le società interessate hanno profuso miliardi di cui non potevano disporre.
OBERTO PETRICCA, Presidente dell'Associazione italiana agenti calciatori e società (Assoagenti). Non ho parlato di miliardi, ho parlato, forse, di risorse superiori a quelle disponibili.
AURELIO GIRONDA VERALDI. È un eufemismo quello che lei ha adottato. Ma è così in sostanza. Perchè non potevate e non dovevate controllare i bilanci? Avete, quindi, aggiunto di essere riusciti a convincere i giocatori, nell'ambito di questo rapporto quasi confidenziale, a cedere alle richieste avanzate dalle società per risolvere i problemi. Cioè vi siete accorti, adesso, che questo eccessivo diluvio di denaro ha già inciso sulle sorti societarie. Alla luce del contesto attuale, per convincere costoro che hanno stipulato - o stanno per farlo - contratti triennali, quadriennali, di decine di miliardi, avete detto che restituirete anche le vostre provvigioni?
PRESIDENTE. Vorrei porre io un'ultima domanda al dottor Petricca. La presenza di agenti o procuratori non fa pensare ad una maggiore corrispondenza della figura del calciatore a quella di un lavoratore autonomo dello spettacolo piuttosto che al lavoratore dipendente?
Do nuovamente la parola al dottor Petricca per le risposte.
OBERTO PETRICCA, Presidente dell'Associazione italiana agenti calciatori e società (Assoagenti). Le domande sono state moltissime, ma tenterò di rispondere a ciascuna di esse. Vengo innanzitutto alla questione dei compensi percepiti: in termini percentuali, secondo il vecchio regolamento, la quota annua spettante si attestava
tra lo 0,50 ed il 5 per cento del compenso lordo riconosciuto al calciatore.
GIOVANNI LOLLI. Ma adesso il quadro è cambiato.
OBERTO PETRICCA, Presidente dell'Associazione italiana agenti calciatori e società (Assoagenti). In seguito ad una procedura di infrazione avviata dall'autorità di controllo, che aveva richiesto alla Federazione - e quindi alla nostra commissione - di eliminare il tetto precedentemente previsto, in quanto non compatibile con i principi della libera concorrenza (così come deve essere eliminato il tetto dei 20 o dei 40 giocatori assistibili che avevamo proposto alle origini), il quadro si è parzialmente modificato.
GIOVANNI LOLLI. Ci può dire attualmente a quanto ammonta la percentuale da voi percepita?
OBERTO PETRICCA, Presidente dell'Associazione italiana agenti calciatori e società (Assoagenti). Gravita tra l'1 ed il 5 per cento, per cui è rimasta sostanzialmente invariata, salvo che per operazioni sull'estero, allorché vi sia un'attività molto particolare per la quale si può richiedere un valore superiore. Del resto, la nostra attività è volta a perseguire l'interesse collettivo della categoria, ma il comportamento dei singoli - dal punto di vista non della politica associativa, ma della propria gestione professionale e patrimoniale - rimane riservato. I dati che noi non possediamo risultano invece conservati presso la nostra commissione, che rappresenta, come dicevo precedentemente, il nostro organo di controllo. Diversamente, la struttura che rappresento è una libera associazione, la quale si occupa unicamente dello sviluppo e della crescita professionale dei nostri iscritti. L'organo di vigilanza, per risponderle precisamente, è denominato «commissione agenti di calciatori», istituita presso la Federazione italiana gioco calcio. Abbiamo l'obbligo di depositare tutti i nostri contratti tra calciatori e società entro 20 giorni dalla stipula presso questa struttura. Qualora si riscontrassero irregolarità, è possibile che i contratti non vengano ratificati. La stessa commissione detiene una funzione di vigilanza sulla nostra attività ed un potere disciplinare.
PAOLO SANTULLI. Se un calciatore si sposta da una società all'altra a cadenza annuale, il procuratore percepisce ogni volta le medesime percentuali di cui lei ci ha parlato?
OBERTO PETRICCA, Presidente dell'Associazione italiana agenti calciatori e società (Assoagenti). Senza voler entrare nel dettaglio tecnico, posso risponderle che all'atto della stipula di nuovi contratti il procuratore percepisce un ulteriore compenso - in base alle percentuali già stabilite con il calciatore rappresentato - solo se il nuovo contratto risulterà più elevato rispetto al precedente: in tal caso, il procuratore avrà diritto esclusivamente alla differenza fra il maggiore compenso derivante dal nuovo contratto e quanto già percepito in occasione del precedente contratto. Alla stipula del contratto, si stabilisce la percentuale dell'onorario e, entro quattro mesi, il calciatore dovrebbe corrispondere il compenso - cosa che è sempre difficile da recuperare - dopo di che termina il rapporto. Se, però, in seguito, il contratto si trasforma con la stessa società e viene migliorato, o se il calciatore è soggetto a più passaggi in altre società e, grazie all'intervento dell'agente, lo stipendio si raddoppia, bisognerà calcolare solo la differenza con il compenso precedente, ma l'agente non riprenderà certo la percentuale sull'intero. Dal punto di vista deontologico, questo è un principio basilare.
Circa la domanda posta dall'onorevole Bianchi Clerici riguardo all'iscrizione all'albo, dovremmo essere intorno alle 430-440 unità, anche se questo dato è soggetto ad oscillazione che dipende dagli esami che si svolgono, dalle iscrizioni o eventuali sospensioni. Dati più precisi li potrete ottenere dalla commissione agente che è l'organo di controllo. Per essere iscritti
all'albo, è necessario superare una prova abilitante presso la Federazione italiana gioco calcio, dettata quasi interamente dalle regole della FIFA. Di essa, quindici domande concernono i rapporti internazionali e le tematiche dell'organizzazione della FIFA e cinque sono poste dalla Federazione italiana o da quelle europee. L'esame viene espletato due volte l'anno, in una data unica in tutto il mondo.
In merito alla situazione in altri paesi, posso dire, ad esempio, che in Giappone, dove prevalentemente lavoro, questo esame è stato espletato per la prima volta quest'anno. Vi ricordo poi che in Francia o in Germania il numero dei candidati è di gran lunga inferiore rispetto all'Italia, dove per ogni sessione di esame le domande sono in media circa 500.
Sul discorso relativo all'abusivismo, abbiamo chiesto un incontro con il generale Pappa, capo dell'ufficio indagine. Aspettiamo da molto tempo questa occasione. Devo dire che siamo buoni interlocutori della Federcalcio quando occorre mettere a disposizione le nostre professionalità, ma non quando abbiamo necessità di ottenere vantaggi non dico economici, ma quanto meno volti al riconoscimento del nostro ruolo. Abbiamo comunque già fatto presente che la situazione di abusivismo è esasperante. Spesso presso famiglie che vivono in zone disagiate si presentano agenti abusivi fingendosi procuratori e promettendo di tutto. Nell'ambito del programma sociale della nostra associazione, abbiamo anche proposto l'apertura di uno sportello verde per la consulenza alle famiglie.
Rilevo inoltre che la problematica maggiore legata all'abusivismo è dovuta al fatto che il soggetto abusivo, non essendo un tesserato, ogni volta che lo si interroga si rifiuta di rispondere alla Federazione ed è difficilmente perseguibile, commettendo non un reato penale ma solo un'infrazione di carattere interno all'ordinamento.
PRESIDENTE. Comunque, il millantato credito è un reato.
OBERTO PETRICCA, Presidente dell'Associazione italiana agenti calciatori e società (Assoagenti). Il problema vero è che non riusciamo a fare un salto di qualità contro l'abusivismo. In realtà, ci sarebbero sanzioni sia per i calciatori sia per i dirigenti che hanno trattato con l'abusivo. Vi sono addirittura alti dirigenti che, da anni, si servono dell'opera degli abusivi. Risulta sempre più necessaria un'opera di prevenzione in modo da fare sapere che si viene squalificati se si tratta con gli abusivi; il regolamento infatti prevede l'inibizione di declassamento della società in termini di penalizzazione.
GIOVANNI LOLLI. Dovrebbe essere la Federazione a far rispettare il regolamento e lei ci dice che finora questo non è mai successo.
OBERTO PETRICCA, Presidente dell'Associazione italiana agenti calciatori e società (Assoagenti). Finora sono state avviate indagini ed è stato sanzionato con ammenda qualche giocatore, ma mai nessun dirigente.
In relazione al fenomeno della GEA, faccio presente che è stata un'innovazione rispetto ad un modo molto individuale di svolgere la nostra attività. Si sono azionate sinergie che hanno attivato una struttura grande, tuttavia ad allarmare gli operatori non è stata la grandezza della struttura ma è stata soprattutto la presenza delle persone al suo interno, tutte importanti. È stata quindi svolta una verifica da parte della commissione, di cui fa parte anche Paolo Conti, il vicepresidente della nostra associazione. A suo tempo, quando si era al momento del passaggio di consegne fra Petrucci e Carraro, abbiamo chiesto di introdurre nel regolamento una norma che vietasse l'espletamento dell'attività di agente nel caso in cui nella società vi fosse la presenza di dirigenti legati da vincoli di parentela. Proprio su tale questione abbiamo avuto una discussione molto dura con la Federazione, con la quale in genere abbiamo un rapporto costruttivo, che spesso diviene conflittuale su alcuni argomenti.
La norma era chiara, perché l'agente non può assistere i calciatori nel caso in
cui all'interno della società di riferimento vi siano tecnici o dirigenti che abbiano rapporti di parentela fino al primo, al secondo grado e via dicendo. Tuttavia, non mi sembra che la Federazione abbia sollevato un'obiezione di opportunità, ma abbiamo dibattuto per giorni su un'eccezione di legittimità perché nessuna federazione internazionale aveva una norma di questo tipo. Tutti quelli che hanno sostenuto che in Inghilterra vigesse questa disposizione sono stati imprecisi, tant'è vero che oggi al Manchester sorge il problema dell'intervento del maggiore azionista contro Fergusson, cioè il direttore generale, perché il figlio di quest'ultimo svolge un'attività prevalente all'interno della società. Questo tipo di intervento dell'azionista conferma che manca la norma di riferimento perché, altrimenti, sarebbe stato semplicemente deferito.
GIOVANNI LOLLI. Se la norma non esiste in un altro paese, questo cosa vuol dire?
PRESIDENTE. L'intervento dell'onorevole Lolli era contro la Federcalcio, perché dice che vi hanno risposto in modo incongruo: se una norma manca in un altro paese non è un buon motivo perché non ci sia nel nostro.
OBERTO PETRICCA, Presidente dell'Associazione italiana agenti calciatori e società (Assoagenti). Questo è un altro discorso, ma se a livello europeo avessimo avuto il supporto di qualche federazione, il discorso sarebbe stato diverso. La questione dell'incompatibilità di parentela è stata affrontata da un punto di vista legale e la Federazione ci faceva notare che nell'ordinamento generale le figure di incompatibilità sono tutte legate a funzioni pubbliche: quella del magistrato rispetto al parente che svolge attività di avvocato, quella del membro di commissione nell'ambito di concorsi pubblici rispetto ad un candidato e quella del notaio che non può assicurare contratti se siano coinvolti parenti.
PRESIDENTE. È certamente più complicato nel settore privato.
OBERTO PETRICCA, Presidente dell'Associazione italiana agenti calciatori e società (Assoagenti). Allora, non c'è un riferimento ad un'incompatibilità a livello privato perché è il massimo azionista che dovrebbe intervenire. Tuttavia, essendo qualificate come società private a scopo di lucro, questo intervento è difficile da attuare perché, ripeto, non siamo tesserati ma professionisti di supporto. Ad esempio, è possibile impedire a Merloni di trattare, magari con il figlio, l'acquisto di computer perché ne ha bisogno nella propria azienda?
GIOVANNI LOLLI. Però la Federazione è un ente di diritto pubblico!
OBERTO PETRICCA, Presidente dell'Associazione italiana agenti calciatori e società (Assoagenti). In Federazione sussiste l'interesse alla tutela delle competizioni e, quindi, si dice che questo fatto disturba il loro regolare svolgimento oppure, se ci riferiamo a norme generali, che non è possibile mettere dei paletti.
PRESIDENTE. Può rispondere alla mia domanda, cioè se i calciatori così tutelati non somiglino più a gente dello spettacolo che a lavoratori subordinati?
OBERTO PETRICCA, Presidente dell'Associazione italiana agenti calciatori e società (Assoagenti). Ritengo di no. La struttura del rapporto non si può inventare o cambiare, perché fa parte di centinaia di anni dottrina e di giurisprudenza. Ad esempio, se compro un giornale stipulo un contratto di compravendita e se prendo dei soldi in prestito firmo un contratto di mutuo. Un giocatore è inserito strutturalmente nell'azienda, rispetta l'alimentazione consigliata, lo schema tattico del gioco, è obbligato a presentarsi in orari fissi: tutto ciò lo riconduce a livello dottrinale in quel tipo di rapporto.
PRESIDENTE. Anche un attore deve andare in scena ad una certa ora e fare delle prove in determinati periodi dell'anno.
OBERTO PETRICCA, Presidente dell'Associazione italiana agenti calciatori e società (Assoagenti). Il discorso è diverso perché in quel caso non esiste una subordinazione vera e propria, che è caratterizzata da determinati requisiti: il rapporto gerarchico, l'inserimento strutturale nell'impresa, la retribuzione pressoché fissa. Quindi, tutti gli indizi vanno verso la subordinazione e giuridicamente questo mi sembra difficilmente superabile. Inoltre, se privassimo i calciatori del rapporto di subordinazione, in questa crisi essi rischierebbero, soprattutto nelle squadre inferiori e nel sud, di non avere più la tutela della stabilità del rapporto e della reintegrazione. Di tale cambiamento potrebbero soffrire i calciatori più deboli e non quelli più famosi (noi ci preoccupiamo molto anche dei calciatori che a trent'anni guadagnano 100 milioni e il prossimo anno termineranno la loro carriera senza avere avuto la possibilità di studiare, essendo partiti da casa a quindici anni).
PAOLO CONTI, Vicepresidente dell'Associazione italiana agenti calciatori e società (Assoagenti). Vorrei precisare che l'attività di agente di calciatori deriva da un regolamento FIFA che detta principi di carattere generale, dai quali discendono le stesure dei regolamenti nazionali. Ad esempio, il regolamento FIFA permette ad un agente di assistere un ragazzo di 14 anni, di percepire il 90 per cento del suo compenso e di essere perfettamente in regola. Da qui deriva la difficoltà di stilare un regolamento che tenga conto di questi principi inderogabili e delle necessità degli agenti. Quindi, onorevole Lolli, si può intervenire presso la FIFA per modificare questi principi di carattere generale, perché da qui discende gran parte dei difetti del nostro regolamento.
GIOVANNI LOLLI. Potete lasciarci o farci pervenire una serie di richieste?
OBERTO PETRICCA, Presidente dell'Associazione italiana agenti calciatori e società (Assoagenti). Ho già dei regolamenti, ma vorrei predisporre un fascicolo ad hoc.
PAOLO CONTI, Vicepresidente dell'Associazione italiana agenti calciatori e società (Assoagenti). Sono anche membro della commissione di cui si è parlato adesso e, pur essendo essa orientata a seguire un principio di legalità, gran parte della sua difficoltà deriva dal fatto che il regolamento è lacunoso e non permette di intervenire perché, poi, ci sarebbero opposizioni di carattere legale e giuridico. Quindi, nei vizi di questi regolamenti trovano spazio sia gli abusivi sia diversi modi di procedere.
Un altro difetto del sistema risiede nel fatto che le normative nazionali sono differenti. Per esempio, i trasferimenti in Italia e in Europa generalmente avvengono attraverso la cessione del contratto, mentre in area sudamericana ed in altri pochi paesi si può acquistare il cartellino e rivenderlo a qualunque cifra. In Sudamerica molti agenti acquistano il cartellino del giocatore quattordicenne pagandolo una certa cifra e poi lo rivendono alla quotazione stabilita dal mercato.
Queste anomalie e disparità creano i disagi che sono sotto gli occhi di tutti. Il sistema calcio non è assolutamente in crisi ed il problema interessa solo poche società. Credo che, mai come adesso, tale sistema sia invece in grande espansione - i 25 eventi televisivi più importanti sono 25 partite di calcio - ed abbia l'enorme attenzione dei media; inoltre, il suo indotto porta 4.200 miliardi di euro ogni anno. Ritengo che le crisi delle società siano di carattere individuale e dettate soprattutto dall'inosservanza delle norme che, come agenti, vorremmo fossero più stringenti, più chiare e applicate senza discrezionalità.
OBERTO PETRICCA, Presidente dell'Associazione italiana agenti calciatori e società (Assoagenti). Comunque, presidente, siamo favorevoli ad una restrizione della possibilità di spesa da parte delle società
perché, in un clima di rinnovata trasparenza, non vorremmo l'incursione degli agenti stranieri che non rispettano le regole e spesso hanno compiuto operazioni con grandi società. Abbiamo, perlomeno, un'istituzione di riferimento. La nostra è la prima associazione a livello mondiale per numero e qualità di agenti. Quindi per noi qualsiasi soluzione, anche facendo sacrifici e trasmettendoli ai calciatori, costituisce una strada da percorrere. Infatti, vogliamo la sopravvivenza del sistema e non stiamo troppo a guardare gli interessi corporativi.
PRESIDENTE. Vi ringrazio per il vostro intervento. Dichiaro conclusa l'audizione.
PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sul calcio professionistico, l'audizione di rappresentanti dell'Associazione italiana arbitri (AIA).
Do la parola al signor Tullio Lanese, presidente dell'Associazione italiana arbitri, ringraziandolo per la sua presenza ed invitandolo ad esprimere le valutazioni dell'associazione in merito alla crisi che investe il settore e a segnalare eventuali ipotesi di intervento di carattere legislativo.
TULLIO LANESE, Presidente dell'Associazione italiana arbitri (AIA). Per quanto riguarda la complessità del problema calcio, come associazione siamo fuori dai sistemi di gestione delle società. Noi ci interessiamo soltanto dell'organizzazione delle gare, con riferimento alle prestazioni arbitrali e all'individuazione degli arbitri, che interessano 632 mila gare annue in tutto il territorio nazionale. Quasi tutti pensano solamente agli incontri di serie A e B, che in realtà sono una minoranza. Invece il nostro tipo di servizio viene svolto a livello periferico in modo molto massiccio, perché tra settori giovanili, lega dilettanti, e così via, le gare sono migliaia.
Faccio parte anche del consiglio federale da tre anni, perché prima l'Associazione italiana arbitri, non essendo un'associazione che aveva responsabili diretti, era nominata dalla Federazione. Dal novembre 2000 abbiamo un'organizzazione autonoma, nel senso che i presidenti sezionali sono eletti e, a loro volta, eleggono il presidente dell'associazione. In questi tre anni ho potuto verificare i cambiamenti intercorsi, però non conosco la storia passata riguardante la gestione del consiglio federale e dell'organizzazione calcistica, se non da arbitro che si informava attraverso i giornali.
Come uomo del sistema calcistico, posso individuare tanti motivi dei malesseri del calcio. Uno di essi potrebbe essere rappresentato dal fatto che il calcio viene propinato quotidianamente. In questo senso, un utente del calcio potrebbe stancarsi di assistere ogni giorno allo stesso spettacolo. Ciò ha creato difficoltà anche per quanto riguarda il sistema di ritorno economico. Infatti, tra i contributi maggiori vi erano quelli delle scommesse, che diminuiscono sempre di più (ad esempio, il totocalcio e gli altri sistemi di contribuzione federale).
Per quanto riguarda la nostra associazione, viviamo di contributi federali a livello centrale, mentre riceviamo contributi volontari a livello periferico. Vi sono sezioni in 212 località italiane, le quali si gestiscono attraverso versamenti di quote mensili da parte degli associati. A livello centrale la Federcalcio ci dà un budget che gestiamo per l'utilizzo delle commissioni tecniche e associative e per tutto ciò che riguarda la formazione e il reclutamento arbitrale.
Varie volte, a livello amichevole, mi sono incontrato con l'onorevole Lolli e con il sottosegretario Pescante. Tanto per essere chiari, ciò è avvenuto a prescindere dall'appartenenza politica, ma in quanto sia Pescante che l'onorevole Lolli costituivano dei riferimenti per lo sport.
Riteniamo che il decreto Melandri sia orfano di un'appartenenza tra i tecnici,
quella degli arbitri. Si è riproposto un decreto che ripresenta un errore madornale: non riconoscere tra i tecnici gli ufficiali di gara. Se non siamo dei tecnici, vorrei sapere cosa rappresentiamo nell'ambito del sistema calcistico nazionale. È una critica all'ex ministro Melandri per non aver accettato la nostra sollecitazione a valutare se gli ufficiali di gara dovessero essere inseriti nelle quote degli allenatori e dei calciatori. Infatti, ci hanno estromesso totalmente. Magari si parla di essere sempre più autonomi. Sicuramente il decreto Melandri avrebbe dato un riconoscimento ancora maggiore all'autonomia degli ufficiali di gara, che non è stata vista bene da chi ha redatto il decreto la prima volta e da chi lo ha riproposto la seconda volta.
Avevamo inviato delle lettere sia al CONI, sia a Pescante e al ministro Urbani. Però, non siamo riusciti ad ottenere non tanto un riconoscimento, quanto ciò che ci era dovuto.
Gli arbitri fanno parte del sistema calcio, come gli allenatori e i giocatori; perché allora non considerarli alla stregua dei tecnici, categoria a cui pur fa riferimento il decreto Melandri? Invece, quel provvedimento non ci riconosce il ruolo centrale che svolgiamo, diversamente da quanto avviene per gli altri operatori del settore appena richiamati. Dovremmo riflettere sul fatto che mentre una gara potrebbe anche disputarsi senza un allenatore (si pensi ad un caso di squalifica), la mancanza di una presenza arbitrale ne precluderebbe assolutamente lo svolgimento. Torneremo comunque a lottare per ottenere quel riconoscimento che ci è stato negato.
PRESIDENTE. Ritengo che il problema sia stato sufficientemente esposto e ben illustrato anche in questa sede e certamente ne terremo conto.
TULLIO LANESE, Presidente dell'Associazione italiana arbitri (AIA). Ritornerò, comunque, ad affermare questo principio, conducendo questa lotta perché ritengo si tratti di un riconoscimento logico, in ragione della nostra incontestabile esistenza nel pianeta calcio, rispetto alla quale sarebbe del tutto irragionevole eludere la nostra richiesta. Spetterà poi al decreto Melandri - e a coloro che saranno chiamati a rivederne le disposizioni - stabilire quale sia questo ruolo e che natura assuma, ai sensi delle norme in esso contenute.
GIOVANNI LOLLI. Rendo noto che già nel mese di gennaio il Governo ha provveduto a rivedere il decreto legislativo in causa, approvando il successivo decreto n. 15 del 2004, che ne ha modificato la disciplina; ciononostante, purtroppo nessuno dei problemi da voi sollevati ha trovato trattazione nel nuovo provvedimento.
TULLIO LANESE, Presidente dell'Associazione italiana arbitri (AIA). Di nuovo? Lo ripeto, se questo avviene è perché non ci è riconosciuta la nostra qualità di tecnici del settore.
PRESIDENTE. Ringrazio il presidente Lanese. Passiamo ora agli interventi dei colleghi.
ANTONIO RUSCONI. In qualità di estimatore del calcio dilettantistico e giovanile, ho particolarmente apprezzato il riferimento al numero delle gare arbitrate, oltre a quelle di serie A e B. Avendo la fortuna di disporre di arbitri a livello internazionale di grande fama e impatto massmediatico ( è il caso di Collina, soprattutto), e data la mancanza di arbitri nei settori giovanili, provinciali e a volte anche regionali, mi chiedo se non sia peregrino ipotizzare una campagna di promozione della loro presenza - a partire da un sostegno da parte dei media orientato in tal senso -, sfruttando le grandi potenzialità esistenti nel settore, dato che, in ogni caso, il ruolo arbitrale rimane insostituibile. Consentire che il campionato esordienti venga arbitrato dai dirigenti, a mio parere, mal si concilia con il principio di terzietà che il ruolo arbitrale dovrebbe invece esprimere. Lo ritengo negativo anche
rispetto alla funzione educativa che la competizione sportiva ed il suo svolgimento dovrebbero assicurare: la presenza dell'arbitro a dirigere la gara costituisce assicurazione di imparzialità per il giovane giocatore, prima ancora che un indicatore generale di trasparenza sportiva.
Vengo, quindi, alle questioni più tecniche, partendo da una prima osservazione sugli aspetti principali del settore. Attualmente, il calcio è probabilmente l'industria maggiore nel paese: ciò convenuto, e considerata la chiara crisi che ha pervaso quel sistema, forse sarebbe opportuno riservare anche qualche riflessione sui problemi di questa grande industria, come è già avvenuto nel caso della FIAT.
Passando, quindi, alle domande specifiche, mi soffermerò, in primo luogo, su alcuni punti relativi alla selezione arbitrale. Si parla spesso di credibilità arbitrale: certamente è più facile attribuire le responsabilità di un goal mancato ad un rigore negato da un cattivo arbitraggio, piuttosto che all'errore di un attaccante pagato miliardi; tali posizioni derivano dal fatto che, senza dubbio, molto di quanto accade è legato alla capacità arbitrale.
Rinnovandole la mia stima, sollevo un primo quesito sul sorteggio arbitrale: non sarebbe molto più semplice e responsabile affidare all'AIA la competenza di individuare - per le gare più difficili e competitive, di maggiore impatto sul paese -, i professionisti maggiormente capaci a svolgere la funzione arbitrale?
Quanto alla tecnologia, non ritiene ipotizzabile che le nuove strumentazioni possano risolvere alcuni problemi legati al corretto arbitraggio?
PRESIDENTE. Onorevole, lasciamo perdere la moviola...
ANTONIO RUSCONI. Perché vi è riluttanza ad ipotizzare l'introduzione di tecnologie e segnalazioni elettroniche come avviene nel tennis? La possibilità dell'errore umano non verrebbe certamente azzerata, dato che, al mutare dell'osservatore, muterebbe ancora, molto probabilmente - eccetto casi incontrovertibili - l'interpretazione di uno stesso evento, sebbene sia possibile rivedere più volte un'azione registrata; tuttavia, la presenza di strumenti tecnologici appare comunque un elemento di supporto molto rilevante.
Da ultimo, vengo alla questione del professionismo arbitrale. Se ne parla molto ed io penso che l'Italia sarebbe probabilmente il paese più idoneo per intervenire in materia.
TULLIO LANESE, Presidente dell'Associazione italiana arbitri (AIA). In risposta alle domande sul reclutamento, rendo noto che attualmente è in corso una campagna televisiva promozionale avviata in accordo con la RAI; infatti, il contratto federale prevede la possibilità di spot televisivi istituzionali. Per questi motivi, è stata nostra cura, in qualità di soggetti «istituzionali» nella Federcalcio, iniziare nel mese di marzo a muoverci in questa direzione; l'iniziativa sarà ripetuta a settembre, in occasione dell'apertura dei corsi a livello periferico. Peraltro, ai fini del reclutamento, la nostra campagna di informazione si svolge anche mediante affissione di manifesti tesi a garantire maggior trasparenza e ricchezza di notizie possibile sulla presenza e il ruolo arbitrale.
Per quanto riguarda, poi, le considerazioni dell'onorevole Rusconi circa la difficoltà di una presenza arbitrale nel settore giovanile, rispondo che il problema è un altro. La verità - che forse si intende adombrare - è che il settore giovanile, quando si parla di competizioni relative a giovanissimi, non vuole assolutamente arbitri ma intende disciplinare a modo proprio le competizioni, facendole arbitrare a genitori o dirigenti di società. Non è un problema di mancanza di figure arbitrali e se questa informazione le è stata riferita da qualcuno è perché questi signori nascondono la realtà delle cose, ovvero motivazioni di ordine puramente economico sottese a determinate scelte di arbitraggio. Si ricordi che ogni qualvolta un arbitro interviene, anche per arbitrare una partita dei «pulcini», ciò comporterà dei costi, almeno quelli minimi relativi al rimborso
delle spese sostenute dal quel professionista. Si tratta di spese che finiscono per incidere notevolmente sui costi complessivi delle competizioni.
Quanto al reclutamento, stiamo lavorando molto in proposito. Si tratta di un obiettivo che costituirà uno dei punti fondamentali di battaglia per il prossimo anno. Ad ogni modo, già da quello in corso ci siamo attivati, ma certamente il percorso che abbiamo inteso intraprendere non è stato agevole, considerata l'assenza nell'associazione di una cultura promozionale in senso proprio, che ad esempio comprendesse anche il ricorso a spot pubblicitari o campagne divulgative in favore della professione.
Quanto al sorteggio - perlomeno secondo le modalità adottate sino a qualche anno fa - ho sempre sostenuto che fosse disastroso, non per la gestione ma per la crescita arbitrale. Infatti, così come concepito, il sorteggio integrale mortificava ed ostacolava la crescita professionale dell'arbitro. Due erano le fasce di sorteggio, una per la serie A ed un'altra per la B, e ciò determinava una sostanziale impermeabilità delle fasce stesse: gli arbitri sorteggiati erano destinati a rimanere nelle originarie serie di assegnazione, senza possibilità di passaggio all'altra.
E soffriamo ancora, al momento attuale, di questo metodo «dannato», in quanto responsabile di aver negato ai ragazzi la possibilità di crescere, come invece avviene nel caso delle società di calcio per i giovani giocatori. Nonostante le lacune del sistema, tuttavia sostengo fermamente - come lei ha anche sottolineato - che il nostro paese ha una fra le migliori associazioni del mondo, sebbene da più parti si levino critiche di biasimo sulla nostra attività in ragione di un'incrostazione culturale - cui neppure i mass media si sottraggono - che tende ad imputare in modo consistente al ruolo arbitrale il risultato di una certa partita. Si tratta di un fenomeno molto italiano, in verità, teso ad alimentare polemiche spesso prolungate sull'attività dell'arbitro, ciò che, invece, pare assente in altre realtà (si pensi solo a quanto è avvenuto alcune settimane fa nella partita tra Manchester United e Porto, terminata con l'eliminazione del primo per un goal corretto eppure annullato: se ne è parlato un poco e poi la questione è caduta senza ulteriori contestazioni).
Il sorteggio, tuttavia, deve essere ancora migliorato, se si vuole continuare ad utilizzare questo sistema. Sostanzialmente - a mio parere - si ricorre al sorteggio perché non si nutre fiducia nell'organizzazione; se così non fosse, infatti, si affiderebbe all'organizzazione il compito di destinare gli arbitri migliori alle partite più importanti, tenendo conto delle classifiche. Queste, d'altra parte, vanno considerate sia nella parte alta sia nella parte bassa, perché le squadre che retrocedono in serie B ricevono un danno molto forte e rischiano la paralisi della società. L'attuale sistema del sorteggio potrà essere corretto, anche se qualche passo in questa direzione è già stato compiuto inserendo i giovani: soprattutto quest'anno, sono stati messi alla prova molti ragazzi con risultati piuttosto soddisfacenti, considerato l'esisto disastroso degli anni precedenti (1999, 2000, 2001). Si trattava infatti di sorteggi blindati in A e B, con 12 arbitri in A e 8-9 in B. Ed era un dramma.
Riguardo alla tecnologia, ritengo vi sia una mancanza di informazione e di conoscenza delle regole. Non è compito della nostra associazione o della Federcalcio la decisione sull'inserimento della moviola in campo o sulla dotazione all'arbitro del microfono, come, ad esempio, nel tennis (anzi, vi ricordo che nel tennis è stato eliminato). Vi faccio notare poi che nel rugby, che è il calcio più violento, dove si fanno esperimenti innovativi, vi sono comunque difficoltà; tuttavia, pur commettendosi errori arbitrali, essi non emergono come nel calcio, essendo minore l'attenzione dei media. Mi riferisco naturalmente al sistema italiano. All'estero, infatti, il rugby è visto come un momento di svago per le famiglie. Da noi, invece, si pensa sempre al risultato, da cui dipendono gli sponsor.
Ormai, nei fatti, lo sport è diventato business. Il calcio vero non c'è più, è
diventato business. Aggiungo che non possiamo avere una regolamentazione diversa dal sistema internazionale, in quanto i nostri arbitri non potrebbero lavorare all'estero. Il calcio è bello proprio perché ha una regola unica in tutto il mondo.
Per quanto riguarda il professionismo, ritengo che esso sia improponibile. Non tutti gli arbitri arrivano ai 45 anni (mi riferisco alla serie A e alla serie B). Se un arbitro diviene professionista, quando smette che attività svolge? Non può svolgere due attività. Non possiamo pensare ad un professionismo globale. In Europa, per di più, si dice che in Italia i gettoni di presenza siano i più alti: ciò non è affatto vero, in quanto siamo al passo con Francia, Germania, Inghilterra e Spagna. Ci sono poi tutti i problemi dei contributi e del dopolavoro. I calciatori hanno un percorso professionale diverso e più ampio, mentre la vita dei nostri arbitri può essere brevissima. Pensiamo, ad esempio, a Collina che ha 45 anni o a Paparesta che arriva a 32 anni in serie A e B, dove può rimanere per tredici anni o per due o tre anni: dopo essere stato inquadrato professionista, cosa farà?
GIOVANNA BIANCHI CLERICI. Mi piacerebbe conoscere l'entità del rimborso spese corrisposto agli arbitri di serie A e di serie B e le vostre proposte volte ad arginare il fenomeno della violenza negli stadi, così come delle intimidazioni, alle quali abbiamo assistito purtroppo qualche serata fa.
TULLIO LANESE, Presidente dell'Associazione italiana arbitri (AIA). A differenza del calcio professionistico, dove gli arbitri sono quasi blindati, il problema esiste in campo dilettantistico. Vi è una commissione che, tutte le settimane, raccoglie le informazioni dalla periferia ed il dato che emerge è confortante - a differenza di quanto detto dalla stampa. Si registra infatti una contrazione della violenza in periferia del 13-14 per cento, se per violenza intendiamo l'offesa fisica, non l'insulto o la minaccia, che sono più comuni. Si tratta di un numero di casi con lesioni importanti che oscilla dai 60 agli 80 su 632 mila gare. Si tratta quindi di una percentuale molto bassa.
Per quanto riguarda i rimborsi, mi sembra di ricordare che in serie A un arbitro internazionale percepisce 5 mila euro lordi per ogni gara, in serie B, 2.000-2.500 e, per la fascia intermedia, 3 mila. In linea di massima, un arbitro di serie A che disputa circa 20 gare l'anno riesce a percepire 120 mila euro lordi, soggetti quindi a tassazione.
PAOLO SANTULLI. Giocando da ragazzino a calcetto nei campetti di periferia, mi sono reso conto che, senza arbitro, non ci può essere il rispetto delle regole e, senza il rispetto delle regole, non ci può essere gioco, perché prevale la legge del più forte. Credo che questo discorso, purtroppo, si ripeta nei campionati organizzati dalla Federazione perché, laddove ci vorrebbero arbitri preparati, si mandano sempre ragazzini inesperti, soprattutto nelle attività giovanili. Purtroppo, ciò non favorisce la formazione di un atleta e, nel prosieguo della sua attività, il rispetto complessivo nei confronti dell'arbitro.
La vostra organizzazione dovrebbe essere completamente svincolata dalla Federazione anche dal punto di vista dei vostri pochi finanziamenti perché, in effetti, sussiste il pericolo di un'influenza: abbiamo parlato di sudditanze psicologiche che, per quanto ci sia sempre buona fede, esistono a tutti i livelli.
TULLIO LANESE, Presidente dell'Associazione italiana arbitri (AIA). Lei parla di autonomia dell'associazione nel sistema federale calcistico. Allora, come possiamo cercare un'autonomia se con il decreto Melandri non ci viene riconosciuto il ruolo di tecnici del sistema calcistico e dello sport in genere? Ritengo che si debbano fare dei passi importanti. Innanzitutto, cerchiamo di riconoscere agli ufficiali di gara in genere il ruolo di tecnici e, successivamente - come hanno fatto gli allenatori, i calciatori e tutte le componenti delle varie federazioni -, si cercherà anche di arrivare all'autonomia.
Per quanto riguarda gli arbitri preparati nel settore giovanile, alla formazione degli atleti dovrebbero pensare gli allenatori; noi non ci occupiamo di tale aspetto, ma facciamo rispettare le regole.
PAOLO SANTULLI. Però quando un ragazzino va ad arbitrare un altro ragazzino?
TULLIO LANESE, Presidente dell'Associazione italiana arbitri (AIA). È preferibile non inviare un arbitro che ha già operato in serie D ad arbitrare un ragazzino, perché vi andrebbe demotivato. Gli allenatori dei giocatori devono fare formazione. Noi la facciamo: diciamo all'arbitro quali sono le regole, lo invitiamo prima ad osservarle e, poi, a farle rispettare dai giocatori. Non so se gli allenatori facciano tutto ciò perché, spesso, vedo qualcuno che nelle panchine incita a colpire e ad aggredire l'avversario: questa è una cultura che devono dare loro.
PRESIDENTE. Ringrazio il nostro ospite per essere intervenuto e gli esprimo tutta la mia solidarietà, perché fare il presidente di Commissione è un po' come fare l'arbitro: in questa sede alla violenza non si arriva, ma gli insulti ci sono.
TULLIO LANESE, Presidente dell'Associazione italiana arbitri (AIA). Apprezzo la solidarietà, ma chiederei soltanto un'attenzione al decreto Melandri del futuro, perché la penalizzazione dello sport è quella di non aver riconosciuto gli arbitri come ufficiali di gara tecnici.
PRESIDENTE. Ringrazio nuovamente il presidente Lanese e dichiaro conclusa l'audizione.
La seduta termina alle 14,10.