COMMISSIONE III
AFFARI ESTERI E COMUNITARI
Comitato permanente sui diritti umani

Resoconto stenografico

INDAGINE CONOSCITIVA


Seduta di giovedì 22 luglio 2004


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PRESIDENZA DEL PRESIDENTE
GENNARO MALGIERI

La seduta comincia alle 14,20.

(Il Comitato approva il processo verbale della seduta precedente).

Sulla pubblicità dei lavori.

PRESIDENTE. Avverto che, se non vi sono obiezioni, la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso impianti audiovisivi a circuito chiuso.
(Così rimane stabilito).

Audizione di rappresentanti di «Nessuno tocchi Caino».

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sulla violazione dei diritti umani nel mondo, l'audizione di rappresentanti dell'associazione «Nessuno tocchi Caino».
Nelle scorse settimane l'associazione «Nessuno tocchi Caino» ha pubblicato, come di consueto, il rapporto annuale sulla pena di morte nel mondo, curato quest'anno dalla dottoressa Elisabetta Zamparutti, oggi presente a questa audizione in compagnia del segretario dell'associazione Sergio D'Elia.
L'audizione verterà sui contenuti di questo importante dossier: attraverso di essa cercheremo di verificare, assieme ai nostri ospiti, quale è lo stato dell'arte a proposito della pena di morte e se vi siano differenze con la situazione che avevamo avuto modo di esaminare lo scorso anno.
In seguito ad una prima analisi del rapporto e dalle notizie che l'associazione «Nessuno tocchi Caino» ha diffuso negli ultimi giorni mi è sembrato di capire che non vi sono grandi motivi di ottimismo. Intanto, vorrei ricordare che qualche mese fa l'Unione europea ha respinto la moratoria sulla pena di morte attraverso un atto che, francamente, giudico inspiegabile. In ogni caso, riterrei di fermarmi qui nei commenti poiché in questa sede non mi compete approfondire l'argomento in questione. Desidero solo sottolineare che si tratta di un'occasione perduta - me ne rammarico - e, con ciò, penso di interpretare anche il sentimento dei componenti il Comitato permanente sui diritti umani della Commissione esteri della Camera dei deputati.
Vi è poco da stare allegri, anche perché, per esempio, apprendiamo dalla news letter dell'associazione «Nessuno tocchi Caino» che negli ultimi giorni in Iran vi sono state ulteriori esecuzioni. Il 19 luglio un giovane di vent'anni ed uno di diciotto anni (Mehdi Yazdani e Navab Davoodi) sono stati giustiziati - mi permetto di aggiungere il termine «assassinati» - nella città di Esfahan: ciò, a testimonianza del fatto che la recrudescenza delle persecuzioni nei confronti dei dissidenti da parte delle autorità iraniane prosegue in maniera assolutamente implacabile, soprattutto dopo gli eventi del 20 febbraio scorso quando a molti deputati riformisti è stato impedito di ricandidarsi a membri del Consiglio dei guardiani della rivoluzione, il quale, come sapete, fa direttamente capo alla guida spirituale Ali Khamenei.
Questi appena descritti sono sintomi che ci fanno comprendere come il problema sia di stretta attualità, quindi non bisogna sottovalutarlo abbassando la guardia.


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Pertanto questo Comitato - sempre con grande piacere - ospita i rappresentanti dell'associazione «Nessuno tocchi Caino», affinché ci forniscano dati che possano farci avere un quadro sempre più completo della situazione riguardante l'applicazione della pena di morte nel mondo.
Nel ringraziare i nostri ospiti per essere intervenuti, do immediatamente la parola alla dottoressa Zamparutti.

ELISABETTA ZAMPARUTTI, Componente del Consiglio direttivo dell'Associazione «Nessuno tocchi Caino» e curatrice del rapporto «La pena di morte nel mondo». Signor presidente, vorrei ringraziarla per avermi permesso di parlare nuovamente della situazione mondiale riguardante la pena di morte, soprattutto tenendo conto del rifiuto europeo - verificatosi l'anno scorso - circa la presentazione all'Assemblea generale delle Nazioni Unite della risoluzione per la moratoria universale concernente le esecuzioni capitali.
Il rapporto 2004 sulla pena di morte nel mondo - presentato alla stampa esattamente un mese fa - mostra come l'evoluzione continui ad essere sostanzialmente positiva rispetto a passi abolizionisti compiuti da vari paesi.
Avendo presentato il rapporto un mese fa mi limiterò a fare un quadro della situazione, mentre cercherò di soffermarmi un po' di più sulle novità che, fino ad oggi, si sono avute.
Innanzitutto, i paesi e i territori che, a vario titolo, hanno deciso di rinunciare a praticare la pena di morte sono a tutt'oggi 134; di questi 81 sono totalmente abolizionisti e 14 sono abolizionisti per crimini ordinari. La Russia, in quanto paese membro del Consiglio d'Europa, è impegnata ad abolire la pena di morte e, nel frattempo, attua una moratoria delle esecuzioni capitali. Vi sono poi 6 paesi che attuano una moratoria delle esecuzioni, mentre 32 paesi sono abolizionisti di fatto, cioè non eseguono sentenze capitali da oltre dieci anni. I paesi mantenitori della pena di morte nei propri ordinamenti sono, invece, 62. Di questi 62 paesi, nel 2003, solo 29 hanno compiuto delle esecuzioni che sono state almeno 5.606, un numero nettamente superiore rispetto alle oltre 4 mila esecuzioni registrate nel 2002 e che si spiega semplicemente con il fatto che per la prima volta dall'interno della Cina, dove la pena di morte è segreto di Stato, hanno cominciato a filtrare dati sulle esecuzioni che superano di gran lunga quelli diffusi negli anni scorsi dalle organizzazioni abolizioniste o dagli organi di stampa. Tutto ciò, in termini relativi e realistici, ci permette di affermare che il numero delle esecuzioni nel 2003 è complessivamente diminuito nel mondo rispetto all'anno precedente.
L'Asia continua a rimanere il continente dove si pratica la quasi totalità della pena di morte nel mondo. Se calcoliamo che in Cina vi sono state almeno 5 mila esecuzioni, il dato complessivo del 2003 corrisponde ad almeno 5.481. L'Africa conferma la tendenza ad abbandonare l'uso della pena di morte: nel 2003 sono state registrate 56 esecuzioni. L'Europa sarebbe un continente totalmente libero dalla pena di morte se non fosse per la Bielorussia che nel 2003 ha effettuato almeno una esecuzione.
Anche le Americhe costituirebbero un'area continentale libera dalla pena di morte se non fosse per i 65 cittadini giustiziati negli Stati Uniti e per le 3 condanne eseguite a Cuba, dopo alcuni anni in cui ciò non avveniva più. Il dato politico più importante, evidenziato dalla nostra analisi, è che, dei sessantadue paesi in cui si mantiene la pena di morte, quarantasette sono totalitari, illiberali o autoritari: in essi, nel 2003, sono state compiute 5.523 esecuzioni, pari all'98,6 per cento del totale mondiale. Un solo paese, la Cina, è responsabile per l'89,2 per cento del totale delle esecuzioni effettuate nel mondo. Seguono l'Iran, che ne ha effettuate almeno 154, e l'Iraq, con almeno 113 esecuzioni (per questo paese, il periodo di riferimento si estende, ovviamente, sino al 9 aprile 2003, giorno della caduta del regime di Saddam Hussein).
A queste regioni del mondo, seguono il Vietnam e l'Arabia saudita, il Sudan, il


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Kazakistan, Singapore, il Pakistan. Tali dati - che ci dimostrano come la drammaticità della pena di morte e della sua pratica riguardino prevalentemente paesi dittatoriali - ci fanno capire come la soluzione definitiva del problema, più che nella lotta contro la pena di morte in sé, consista, in realtà, in quella per la democrazia, l'affermazione dello Stato di diritto, nonché la promozione e il rispetto dei diritti politici e delle libertà civili in tutto il mondo.
Proprio per questo, se comprendiamo che la posta in gioco si identifica nel rafforzamento della democrazia e se consideriamo che lo scenario internazionale è tale per cui esistono tutte le condizioni necessarie all'approvazione, da parte dell'Assemblea generale delle Nazioni Unite, di una risoluzione per la moratoria universale delle esecuzioni capitali, poco o male si spiega la decisione dell'Unione europea, lo scorso hanno, di non voler presentare un simile testo in quella sede.
Vorrei, ora, rendere note alcune brevi notizie sugli ulteriori segnali positivi recentemente ricevuti, successivamente alla presentazione del ricordato rapporto (avvenuta circa un mese fa).
Innanzitutto, vi sono notizie positive rispetto ad introduzioni di nuove moratorie o di passaggi da situazioni dove esiste già una moratoria delle esecuzioni capitali all'abolizione delle stesse. È il caso del Kazakistan, dove il presidente Nazarbayev - che nel dicembre 2003 aveva introdotto una moratoria sulla pena di morte -, in data 14 maggio 2004, ha dichiarato che il paese dovrebbe abolire completamente la condanna capitale, raggiungendo, così, un più alto livello di umanità.
Anche dal Tagikistan, l'8 luglio, abbiamo saputo che la Camera alta del Parlamento ha approvato una legge diretta ad introdurre una moratoria delle esecuzioni, sostituendo le condanne a morte con pene detentive. Anche in questo caso, il presidente del paese, nell'annunciare la proposta, aveva dichiarato che la moratoria sarebbe stata introdotta per cercare di democratizzare la società, aggiungendo che nessuno ha il diritto di togliere la vita ad un altro individuo.
In questo modo, con la decisione del Tagikistan, sono diventate tre le repubbliche del centro Asia che attuano una moratoria della pena di morte (oltre al Tagikistan, ricordiamo il Kirghizistan, che l'aveva introdotta nel dicembre 1998, ed il Kazakistan, che lo aveva fatto nel dicembre dello scorso anno). Il Turkmenistan ha invece completamente abolito la condanna capitale nel 2000 e quindi, delle cinque ex repubbliche sovietiche della ragione, rimane soltanto l'Uzbekistan a praticare ancora la pena di morte. Questi passaggi positivi che abbiamo registrato nelle ex repubbliche sovietiche del centro Asia dimostrano anche la bontà della politica dell'OSCE che, così come il Consiglio d'Europa ha fatto con tutti paesi dell'ex Unione sovietica, ha posto e continua a porre, come condizione per l'accesso alle istituzioni sovranazionali, l'introduzione di una moratoria in vista dell'abolizione definitiva dell'istituto.
Sempre sul fronte del passaggio dalla moratoria alla potenziale abolizione della pena di morte, va segnalato il caso dell'Algeria, in cui, dal 1993, esiste una moratoria delle esecuzioni, introdotta dall'allora presidente Zeroual, e dove, il 29 giugno 2004, il ministro della giustizia ha annunciato l'intenzione di presentare in Parlamento un disegno di legge per abolire definitivamente la pena capitale. Ci sono poi i due paesi asiatici dove recenti cambi di governo hanno fatto emergere segnali positivi verso l'abolizione, mi riferisco alla Corea del sud, in cui, nel luglio 2004, il partito Uri al governo - vincitore delle elezioni nell'aprile 2004 che vede al suo interno una numerosa presenza di deputati liberali - ha annunciato la presentazione al Parlamento di un progetto di legge per abolire definitivamente la pena di morte. Il parlamentare che ha proposto tale provvedimento era uno dei tredici studenti condannati a morte dalla corte marziale a metà degli anni Settanta, in seguito ad un blitz che aveva coinvolto numerosi studenti, otto dei quali giustiziati


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a meno di ventiquattr'ore dalla pronuncia di condanna. Il deputato che ha promosso il provvedimento riuscì, invece, a salvarsi, in virtù della sospensione della sua esecuzione e alla successiva concessione della grazia.
Altro paese dal quale sono giunte notizie importanti è l'India dove, nel maggio 2004, la nuova coalizione al potere ha annunciato l'intenzione di abrogare la legge sulla prevenzione del terrorismo, provvedimento responsabile di aver introdotto la pena di morte, oltre ad una serie di restrizioni come l'istituzione di corti speciali per il terrorismo e la previsione della possibilità di essere incarcerati per novanta giorni consecutivi senza incriminazione. Il nuovo governo ha dichiarato l'intenzione di abolire questa legge, all'origine di abusi che colpiscono soprattutto la minoranza musulmana, senza per questo voler venire a compromessi con il terrorismo.
Gli ultimi due paesi su cui vorrei soffermarmi sono l'Afghanistan e l'Iraq. Nel primo paese, in data 20 aprile 2004, è avvenuta la prima esecuzione dopo la caduta del regime talebano nel 2001: in quell'anno, che ha rappresentato l'ultimo di quel governo in Afghanistan, erano state effettuate 68 esecuzioni. Da allora, non se ne sono più registrate, salvo, appunto, quella dell'aprile 2004.
Quanto alla situazione irachena, le esecuzioni di oppositori politici e di cospiratori militari si sono verificate sino al giorno della caduta del regime, avvenuta in data 9 aprile 2003, quando l'applicazione della pena di morte è stata sospesa dall'Autorità provvisoria della coalizione.
Avevamo registrato, sino ad allora, 113 esecuzioni, ed è significativo che in Iraq, alla caduta di quel regime sanguinario, si fosse decisa, intanto, la sospensione delle esecuzioni capitali, tanto che l'Iraq, quest'anno, a Ginevra, dinanzi alla Commissione dei diritti umani, aveva di fatto cosponsorizzato la risoluzione per una moratoria universale delle esecuzioni capitali.
Però, con il ritorno della sovranità al paese si è assistito al varo, in data 8 luglio, da parte del governo iracheno ad interim, guidato da Allawi, di leggi speciali contro la guerriglia, una delle quali ripristina la pena di morte precedentemente sospesa. Senza poi contare quanto sta accadendo in ordine al processo nei confronti di Saddam Hussein; sulle condanne a morte, inoltre, occorre aggiungere ancora che, in data 8 luglio, secondo quanto riportato da un giornale locale, sarebbero già state pronunciate 6 sentenze di condanna.
È evidente che in questi paesi - mi riferisco all'Afghanistan e all'Iraq - dove sono recentemente caduti regimi sanguinari, la comunità internazionale (proprio adesso nella fase di ricostruzione anche politica dei due Stati) non può, non deve abbandonare il campo, né collaborare alla reintroduzione della pena di morte. Credo che il rilancio della campagna dell'associazione «Nessuno tocchi Caino» - volta ad ottenere una moratoria delle esecuzioni capitali in vista dell'abolizione definitiva - possa rappresentare uno strumento di ausilio per la complessa gestione di situazioni come quella afghana ed irachena. Tra l'altro tale campagna può rafforzare le prese di posizione ed i tentativi per non tornare più alla pratica della pena di morte.

PRESIDENTE. Ringrazio la dottoressa Zamparutti per la sua puntuale ed esauriente esposizione che, mi pare, abbia riassunto molto bene i contenuti del prezioso rapporto che è stato approntato anche quest'anno. Do ora la parola al dottor Sergio D'Elia.

SERGIO D'ELIA, Segretario dell'Associazione «Nessuno tocchi Caino». Signor presidente, la mia relazione tratterà in primo luogo del rapporto tra democrazia e pena di morte, di cui ha parlato anche, seppur brevemente, la dottoressa Zamparutti. In secondo luogo, parlerò dell'emblematico caso Iraq, anche in relazione ai suoi rapporti con la comunità internazionale riguardo all'evoluzione - nell'ambito del suo territorio - dei principi democratici e dei diritti umani e civili; inoltre verrà fatto particolare riferimento alla pena di


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morte. Infine, soffermerò la mia attenzione sull'iniziativa dell'associazione «Nessuno tocchi Caino»; in particolare, mi riferisco ad un progetto riguardante l'Africa approvato nell'ambito dell'ultimo consiglio direttivo dell'organizzazione.
Per quanto riguarda il primo punto, la dottoressa Elisabetta Zamparutti ha ricordato che ormai la soluzione definitiva da dare al problema della pena di morte attiene molto poco alla questione in sé e molto di più alla questione più generale dell'affermazione in molti paesi del mondo dei diritti umani, dello Stato di diritto e della democrazia. In ogni caso da sette anni a questa parte, da quando cioè viene redatto questo rapporto, si è scoperto un nesso immediato e diretto fra evoluzione del processo democratico e processo abolizionista o di moratorie in corso. Non vi è dubbio che, di per sé, affermazione della democrazia non significa abolizione della pena di morte ed è questo il caso degli Stati Uniti, del Giappone e dell'India. Comunque è altrettanto vero che solo un sistema democratico può concepire l'abolizione della pena di morte. Infatti, in democrazia si vota, quindi si possono cambiare i governi, i parlamenti e, di conseguenza, le costituzioni e i codici.
I dittatori possono abolire la pena di morte per decreto da un giorno all'altro, così come reintrodurla con gli stessi strumenti e tempi. Il fattore democratico incide moltissimo non solo sull'abolizione, ma anche sulla pratica concreta della pena di morte; in particolare, mi riferisco al numero delle esecuzioni, che, evidentemente, dipende dalla maggiore o minore trasparenza del sistema giudiziario, dall'esistenza o meno di ampie garanzie processuali e dal compimento di reati che prevedono la condanna a morte. In America esistono statistiche ufficiali sul numero di detenuti compresi nel braccio della morte, sulle condanne e sulle esecuzioni. Nei regimi illiberali, invece, non vi è nessuna statistica, anzi spesso vige il segreto di Stato. È il caso della Cina e - in piena continuità con la tradizione sovietica - della Bielorussia, del Tagikistan e dell'Uzbekistan. In paesi quali l'Iran, il Vietnam e lo Yemen dati sulle esecuzioni possono essere tratti soltanto da quanto, in minima parte, filtra sui giornali locali. Infine, in Corea del nord e in Siria le esecuzioni sono tenute assolutamente nascoste, la situazione è completamente blindata e le notizie non filtrano neanche sui giornali locali.
Negli Stati Uniti è possibile esperire una serie infinita di ricorsi prima dell'esecuzione, mentre nei paesi illiberali - in Cina in particolare - si può direttamente passare, nel giro di poche settimane, dall'incriminazione al plotone di esecuzione e ciò incide molto sul numero delle morti. Gli Stati Uniti sono una democrazia, di conseguenza la pena di morte che ivi viene praticata è da considerarsi una contraddizione inaccettabile. Occorre però dire le cose come stanno e cioè che nel 2003 negli Stai Uniti vi sono state 65 esecuzioni, a fronte delle 5 mila esecuzioni cinesi. Quindi le esecuzioni praticate in America rappresentano l'1,1 per cento del totale mondiale, anche se a causa dei media e spesso delle mobilitazioni a livello di organizzazioni internazionali sembra che la pena di morte vi sia solo negli Stati Uniti d'America.
La verità è che noi siamo potuti venire a conoscenza della situazione della pena di morte negli Stati Uniti d'America e delle torture praticate in Iraq solo grazie al sistema americano fondato in primo luogo sulla libertà di stampa e su quel potentissimo tribunale extragiudiziario costituito dall'opinione pubblica americana. Dei torturati e dei giustiziati nei regimi autoritari noi non sappiamo mai nulla, poiché ivi vige il segreto di Stato. Solo dopo la caduta di Saddam Hussein abbiamo potuto quantificare l'entità della carneficina giudiziaria operata dal regime iracheno negli ultimi trent'anni. Secondo le stime più ottimistiche un milione di persone sono state sepolte nelle fosse comuni e, spesso, si è trattato di persone torturate e poi giustiziate nelle celle di Abu Ghraib, che tanto hanno fatto notizia in questi ultimi tempi. Alcuni sostengono che è legittimo aspettarsi che queste cose avvengano sotto regimi autoritari. Direi


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che si tratta di una considerazione razzista, come se il diritto a non essere torturati o giustiziati fosse una prerogativa soltanto di noi cittadini occidentali iscritti all'anagrafe dei paesi liberali ed un lusso per i cittadini - si tratta di milioni o centinaia di milioni di persone se consideriamo anche i cinesi - che vivono sotto regimi totalitari.
Riguardo al caso dell'Iraq sappiamo che esecuzioni di oppositori politici, anche per reati non violenti, sono state compiute fino al 9 aprile del 2003, giorno della caduta di Saddam Hussein. Sappiamo anche che il nuovo governo - quello a cui sono stati passati i poteri il 28 giugno scorso - ha deciso il ripristino della pena di morte, anche se la costituzione provvisoria in vigore attualmente in Iraq non ne parla. Il ripristino della pena di morte in Iraq non è il modo migliore per presentare al mondo il nuovo Stato. L'Iraq, assieme all'Iran ed alla Cina, è sempre stato tra i primi tre paesi «esecuzionisti» del mondo, quindi l'abolizione della pena di morte ed una moratoria in questo paese rappresenterebbero davvero ed in maniera eclatante davanti alla comunità internazionale una soluzione di continuità rispetto al regime iracheno.
Per Saddam Hussein vale il nostro motto «nessuno tocchi Caino» il che, ovviamente, non vuol dire che noi caldeggiamo la sua impunità ma, sicuramente, la sua intangibilità ed incolumità. Una mozione in questo senso è stata depositata alla Camera dei deputati due settimane fa. Un testo analogo è stato depositato anche al Senato e verrà presentato anche al Parlamento europeo e presso altri parlamenti di paesi membri dell'Unione europea. Noi chiediamo che questo testo sia approvato, ci rivolgiamo, innanzitutto, ai paesi abolizionisti membri della coalizione impegnati in Iraq nel tentativo di costruire uno Stato su basi democratiche di giustizia, libertà, tolleranza e non violenza. Il principio di non ingerenza negli affari interni sarebbe - lo diciamo con molta nettezza - solo un alibi a copertura di regolamenti di conti, di vendette interne al vecchio regime di Saddam Hussein tra le vittime di quel regime e i loro carnefici attualmente in carcere.
Sarebbe uno scenario di giustizia vendicativa, spietata, molto lontana - è bene dirlo - dalle stesse nobili ragioni che hanno motivato l'intervento in Iraq.
Qualunque sia la veste giuridica della presenza italiana in quella regione, dopo il passaggio di poteri agli iracheni - anche qualora si trattasse di cooperazione giudiziaria e di polizia -, reputo che questa debba incontrare un limite, quello della non collaborazione nell'applicazione della pena di morte. Ci aspettiamo un impegno in tal senso, non soltanto da parte del Governo italiano, ma anche degli altri 24 membri dell'Unione europea e di tutti i paesi abolizionisti impegnati in Iraq.
Da ultimo, vengo al progetto di «Nessuno tocchi Caino» sull'Africa. Come è stato ricordato, tutti sanno che la nostra associazione mantiene l'obiettivo di presentare una risoluzione all'Assemblea generale dell'ONU per una moratoria delle esecuzioni capitali.
Questo tentativo è andato fallito lo scorso anno; abbiamo, in ogni caso, deciso di rilanciare l'iniziativa, soprattutto a partire dall'Africa, con riferimento particolare a quei paesi dove negli ultimi tempi - è il caso dello Zambia, al cui presidente il nostro rapporto è dedicato, proprio per l'impegno profuso soprattutto sul fronte dell'abolizione della pena capitale - si siano registrati progressi significativi. Quello dello Zambia è l'esempio positivo di un paese che, pur prevedendo la pena di morte, praticamente non la applica, in virtù delle commutazioni e delle grazie che il presidente concede ai confronti dei condannati a morte. Altre aree verso cui indirizzare la nostra attenzione sono poi la Repubblica democratica del Congo, il Mali, il Kenya, l'Uganda.
La decisione assunta riguardo a questa regione del mondo prevede una serie di iniziative, tra cui un impegno parlamentare italiano nei confronti dei parlamenti dei paesi in cui si stia discutendo di abolizione della pena di morte, i quali richiedono il nostro sostegno.


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In merito, vorrei far presente che, per l'autunno prossimo, è già stata programmata la missione di una delegazione del Senato della Repubblica italiana in Zambia.
Alla luce di ciò, mi permetto di proporre - avanzando in questa sede una richiesta che potrà essere formalizzata nei prossimi giorni, anche con un documento ufficiale - alla Camera dei deputati di coprire almeno un altro dei paesi africani dove si stanno registrando, negli ultimi tempi, passi positivi verso l'abolizione della pena di morte: mi riferisco al Ghana, anche in ragione della domanda avanzata dalle autorità di quel paese. Potrebbe essere questo un impegno del Comitato, della Commissione affari esteri, e più generalmente della Camera dei deputati.
L'Africa, può assumere un ruolo davvero simbolico e nello stesso tempo anche decisivo nell'ambito della nostra iniziativa. Le guerre civili, soprattutto quelle degli ultimi anni, in Africa hanno acquisito sempre dimensioni catastrofiche, dal punto di vista umanitario, con milioni di morti. Parliamo di situazioni come quelle in Sierra Leone, Burundi, Ruanda, Repubblica democratica del Congo e Sudan. Con la partecipazione attiva di questi paesi, che stanno tentando di uscire da situazioni difficili, catastrofiche, lo ripeto, potremo ottenere risultati molto importanti sul fronte dell'affermazione dei diritti umani.
La pena di morte, del resto, di per sé, costituisce un reale indicatore della situazione di un paese: la sua abolizione, infatti, non potrà che sottendere il compimento di passi forse ancora più importanti nel campo dei diritti civili ed umani. I segnali che provengono, pertanto, dalle menzionate realtà vanno raccolti in senso costruttivo e la nostra associazione intende assumersi un impegno deciso in tal senso. L'Africa può dimostrare, quindi, di non volere essere più terra di colpi di Stato, di esecuzioni sommarie, di genocidi, di pulizie etniche, anzi di essere capace di lanciare al mondo messaggi di tolleranza e di non violenza.
C'è anche un interesse molto pratico, politico. L'Africa è il continente in cui si concentrano maggiormente i paesi abolizionisti de facto, ovvero paesi che rappresentano la zona grigia tra Stati mantenitori e abolizionisti totali della condanna capitale.
I numeri contano, in Assemblea generale: sono 18 paesi - su 32 membri delle Nazioni Unite - a presentare situazioni di abolizione di fatto. Se costoro si schierassero in favore di una proposta italiana ed europea di moratoria, ciò sarebbe decisivo anche per una vittoria al Palazzo di vetro.
I segnali esistono, sono già contenuti nei numeri: alla luce di ciò, prevediamo che se una risoluzione venisse presentata passerebbe con la maggioranza assoluta dei voti; secondo le nostre stime, dovrebbero oscillare tra 97 e 104 i paesi disposti a votare a favore, su 191 membri dell'ONU. Tra i 17 e i 25 si asterranno; tra i 63 e i 69 voteranno contro. La linea della moratoria è una linea pragmatica, politica, ma operante sempre nella prospettiva dell'abolizione della pena di morte; è una linea vincente, dal punto di vista sia politico, sia numerico. Solo un'Unione europea inanimata, rinunciataria, codarda, potrebbe decidere di far fallire questo progetto, cioè di non vincere - non combattendola - una battaglia già vinta in partenza.

PRESIDENTE. Ringrazio il dottor D'Elia per il suo intervento, in particolare per le considerazioni svolte circa i rapporti tra democrazia e pena di morte, nonché, come giustamente sottolineato, tra democrazia e tutela dei diritti umani. Mi associo all'auspicio che lei formulava rispetto alla riuscita del progetto «Africa», patrocinato dall'associazione «Nessuno tocchi Caino», iniziativa, a mio avviso, molto opportuna, soprattutto in questo momento.
L'Africa è un continente, come tutti sappiamo, molto problematico, e questo Comitato se ne è occupato più volte, soprattutto negli ultimi mesi. È un continente che sta morendo - nonostante gli apparenti sforzi compiuti - nell'indifferenza della più parte dell'umanità.


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Le iniziative che lei, per la sua associazione, ha messo in campo, insieme con la Commissione straordinaria per la tutela e la promozione dei diritti umani dell'altro ramo del Parlamento, mi sembrano assai rilevanti. Valuterò, naturalmente insieme con i membri del Comitato che presiedo, nonché con la presidenza della Commissione affari esteri e quella della Camera dei deputati, se non sia il caso di unire anche una nostra rappresentanza alla delegazione del Senato della Repubblica nello svolgimento della missione in Zambia, facendo la stessa cosa per il Ghana.
Forse, sarebbe anche il caso di pensare un po' più in grande, da adesso a quando sarà possibile farlo (cioè sino, quantomeno, allo spirare della legislatura, che mi auguro si verifichi per scadenza naturale), elaborando un progetto organico che veda uniti gli sforzi di «Nessuno tocchi Caino» insieme con quelli del Parlamento italiano, in particolare per l'Africa.
L'impegno dovrebbe tendere alla promozione non soltanto di queste missioni, ma anche di scambi più approfonditi e continuativi con le realtà drammatiche dell'Africa, nella prospettiva di una maggiore consapevolezza, da parte delle istituzioni rappresentative del nostro paese, di quanto accade in quel continente. A nome del Comitato permanente sui diritti umani vi ringrazio ancora, sentitamente, per quanto fate, soprattutto in merito a questo progetto, nonché per la documentazione depositata, di cui autorizzo la pubblicazione in allegato al resoconto stenografico (vedi allegato).
Do la parola ai colleghi.

RAMON MANTOVANI. Vi ringrazio per il vostro lavoro. Come sapete, partecipo assiduamente alle vostre audizioni che si svolgono presso la III Commissione della Camera dei deputati e, dal momento che sono l'unico componente di questo Comitato presente all'audizione odierna, mi permetterò di impiegare, per il mio intervento, qualche secondo di tempo in più. Credo di essere stato sempre coerente, dal punto di vista dei comportamenti politici e parlamentari, riguardo a questo tema.
Vorrei sollevare alcuni problemi, attesa la mia piena, totale e completa condivisione degli obiettivi del vostro lavoro e delle parole che avete pronunciato oggi, in questa sede. Voi avete affermato, entrambi, che non si capisce bene per quale motivo l'Unione europea abbia mantenuto quell'atteggiamento che anch'io qualifico con gli stessi aggettivi che avete usato voi. Vorrei chiedervi di formulare alcune valutazioni più precise su questo punto. Io ho alcune opinioni in proposito: credo che la cosiddetta lotta contro il terrorismo internazionale nel contesto della guerra preventiva permanente, in generale, abbia pesato alquanto sulla scelta dell'Unione europea, date le pressioni, da una parte, e la volontà, dall'altra, di non aprire contrasti e contraddizioni con gli Stati Uniti e con altri paesi. Vorrei che, oltre ad affermare di non capire il perché, esprimeste una vostra valutazione politica.
Una seconda questione attiene ad un tema più generale e mi rendo conto di sollevarlo, forse, impropriamente; tuttavia, mi interessa conoscere la vostra opinione in proposito. Condivido le parole che sono state pronunciate circa il rapporto esistente tra la natura democratica di uno Stato e l'abolizione di fatto o la persistenza della comminazione delle pene capitali. A questo proposito sono completamente d'accordo con voi, così come penso e concordo sul fatto che combattere e lottare per una moratoria e per l'abolizione totale e definitiva della pena di morte sia un contributo effettivo alla democratizzazione di ogni paese del mondo, in generale. Oltre a stabilire questo rapporto tra sistemi più o meno democratici e liberali e applicazione della pena di morte, forse bisognerebbe anche - non principalmente ma anche - osservare la relazione che esiste tra alcuni indicatori che attengono al sistema carcerario e al sistema giudiziario. Sappiamo, infatti, che ci sono paesi, come gli Stati Uniti, in cui si pratica la pena di morte e tra le minoranze afroamericane e ispaniche è intollerabile la percentuale di popolazione incarcerata. Questo è il segno di come si applica la giustizia nello Stato di diritto.


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Quando dati così significativi ci evidenziano, non dico una discriminazione, ma qualcosa che ci si avvicina molto, abbiamo anche in questo caso uno strumento per potere aggredire il tema della pena di morte, non classificandolo semplicemente come una banale contraddizione con il sistema democratico.
Oltre a queste, vorrei svolgere un'ulteriore considerazione. Ci sono paesi totalmente abolizionisti in cui sono uccise decine e decine di persone, ogni anno, dagli apparati dello Stato (se volete, posso elencarne i nomi); ci sono paesi, come Israele, che praticano l'omicidio di Stato nei confronti non dei propri cittadini ma degli avversari, dei nemici, come si vogliano definire, praticano, cioè, l'assassinio personale (è recente l'uccisione del leader di Hamas). Anche questo mi sembra un problema, perché mi sembra difficile non vedere il rapporto che può esistere - non dappertutto esiste ma può esistere - tra il non prevedere e il non applicare la pena di morte, avendo dato vita, di fatto, ad una moratoria, proclamata o meno, durata per molti anni, e la contemporanea uccisione, da parte degli apparati dello Stato, di decine di sindacalisti, come in Colombia, per esempio, un paese in cui sono uccisi, ogni anno, l'80 per cento dei sindacalisti di tutto il mondo (l'anno scorso sono stati quasi 90, l'anno precedente 150).
La Cina è il nostro nemico principale, se parliamo di pena di morte. Basta vedere la dimensione del problema: anche se volessimo collegare tale dimensione alla popolazione, dal punto di vista demografico, constateremmo che la Cina è sproporzionatamente il primo paese che esegue condanne capitali. L'abrogazione dell'embargo delle armi nei confronti della Cina è stato votato in sede di Commissione ma non è stato ancora inserito nell'ordine del giorno dell'Assemblea della Camera dei deputati. Siamo nella meravigliosa situazione in cui l'embargo sul commercio delle armi con la Cina, deciso dopo la strage di piazza Tien An Men, è stato cancellato e siamo nella paradossale situazione in cui l'unico voto contrario, in questa Commissione, è stato espresso dal sottoscritto. In altri termini, quello di Rifondazione comunista è stato l'unico gruppo parlamentare ad esprimere voto contrario ed, essendo l'unico rappresentante di tale gruppo presente in questa Commissione, tendo spesso a identificare me stesso con il mio partito (delirio di onnipotenza!). Siccome condivido le vostre parole sulla Cina, e non mi importa se in Cina ci sia il partito comunista o un altro partito (anzi, mi importa ancor di più, perché sento questo problema come principalmente mio), voglio sapere che cosa farà la vostra associazione a questo proposito.
Io sono sempre stato contrario all'applicazione di qualsiasi embargo che riguardi tutte le fattispecie commerciali e medicinali. Non ho mai utilizzato due pesi e due misure, perché quegli embarghi colpiscono unicamente le popolazioni civili. Invece, sono sempre stato favorevole all'applicazione di embarghi relativi alla vendita delle armi. Qui, però, siamo al paradosso, perché si insiste a voler promulgare embarghi che colpiranno le popolazioni civili di diversi paesi (non intendo fare l'elenco) e con la Cina si riapre il commercio delle armi. Non credo che il commercio delle armi dell'Italia con la Cina modificherà la potenza politico-militare cinese ma si tratta di una questione politica di primaria importanza, se vogliamo che quanto da voi affermato ed auspicato abbia qualche seguito e non si limiti a costituire principi e valori assolutamente vuoti e privi di conseguenza.

PRESIDENTE. Do la parola al dottor D'Elia per una replica.

SERGIO D'ELIA, Segretario dell'Associazione «Nessuno tocchi Caino». Per quale motivo l'Unione europea ha detto di no alla moratoria delle esecuzioni?
Me la cavo con tre battute. L'Unione europea ha detto no alla moratoria delle esecuzioni perché in Europa, riguardo all'abolizione della pena di morte, vi è una visione integralista, fondamentalista. In poche parole si vuole raggiungere l'obiettivo dell'abolizione mondiale, totale e perpetua della pena di morte, quindi la moratoria


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rappresenterebbe una soluzione di poco conto rispetto a questo principale obiettivo. L'Unione europea ha paura che nell'ambito dell'Assemblea generale venga bocciata la proposta di moratoria poiché si ritiene di non avere i numeri necessari per vincere. Questa opinione può risultare un po' fondata solo nel caso in cui venga espressa da persone in buona fede; in ogni caso, la nostra associazione ha messo a disposizione dell'Unione europea tutte le statistiche, tutti i dati e tutto un piano completo della lobby, comprendente anche i dati di previsione di voto che smentirebbero questa paura. Inoltre, un'iniziativa dell'Unione europea a favore della moratoria rischierebbe di aprire un conflitto - un qualcosa del genere si è già manifestato nel 1999 -, una collisione con gli Stati Uniti d'America, il paese più potente del mondo, e con la Cina, il paese che ha il mercato potenziale più vasto e più interessante del nostro pianeta. Si tratta di due paesi che praticano la pena di morte e che l'Unione europea ritiene di non dover infastidire, di non dover mettere in difficoltà. Non è questo il ragionamento seguito da coloro che all'interno dell'Unione europea operano in buona fede, ma forse sarà il ragionamento che spinge i paesi forti - tra i quali l'Inghilterra - a non intraprendere questa iniziativa.
Per quanto riguarda il rapporto fra democrazia e pena di morte e gli indicatori a cui lei faceva riferimento (il sistema carcerario e le questioni relative alle minoranze razziali), nel nostro rapporto - non soltanto all'interno della scheda sugli Stati Uniti d'America, ma anche nella parte introduttiva che, tra l'altro, rappresenta un po' il vademecum per chi vuole studiare in modo approfondito le 600 pagine di relazione suddivise in capitoli - vi è un capitolo riguardante il rapporto tra discriminazione razziale e pena di morte dedicato, quasi esclusivamente, agli Stati Uniti d'America. Mi sembra assolutamente evidente che la questione della razza in America incide molto sulle decisioni delle giurie, dei procuratori circa l'applicazione della pena di morte. Comunque, da filoamericano, penso che in America il sistema prevalga, sia nei confronti del singolo cittadino sia nei confronti del presidente americano. Non dimentichiamo che l'America è una grande democrazia comprensiva di anticorpi, di antidoti - la Costituzione in primo luogo - utili a debellare anche la pena di morte. Negli Stati Uniti vi sono 2 milioni di detenuti e questo è un problema perché significa che qualcosa all'interno del sistema non funziona. L'ergastolo, ad esempio, è previsto per punire anche coloro che compiono tre furti e questo non fa che aumentare i pregiudizi razziali. Si tratta di un grave problema, anche se gli Stati Uniti d'America - lo ripeto - hanno gli anticorpi per risolverlo poiché i cittadini possono contare su leggi democratiche, su una Corte suprema e su un'opinione pubblica che rappresenta il più grande tribunale extragiudiziario di controllo circa l'operato del potere politico. Esiste solo negli Stati Uniti un'opinione pubblica in grado di fare da contrappeso anche agli errori commessi dai suoi cittadini o dai suoi presidenti.
Riguardo ad Israele e all'omicidio di Stato preventivo, penso che la pena di morte significhi uccidere qualcuno dopo averlo arrestato, incarcerato, processato, condannato. In Cina ci vogliono due settimane, negli Stati Uniti vent'anni di reclusione nel braccio della morte. In quest'ultimo caso è vero che alla fine si può anche essere scoperti innocenti, comunque si ha sempre la possibilità di provare la propria innocenza, possibilità della quale non possono certo usufruire i cittadini cinesi: si tratta di interessanti contraddizioni. Vi è una differenza fra la pena di morte e l'omicidio preventivo, anche se non vorrei che questa mia affermazione si trasformasse in un titolo scandalistico di giornale. L'omicidio di Stato, paradossalmente, avrebbe senso se perpetrato in via preventiva nei confronti di una persona che minaccia la vita, la sicurezza, ma che non si riesce a catturare, a mettere in condizione di non nuocere, a portare davanti ad un tribunale, a tenere in carcere. In ogni caso penso che in uno Stato non si può permettere la pratica dell'omicidio, neanche se quest'ultimo venisse inteso in


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via preventiva. Non bisogna confondere l'omicidio preventivo con l'omicidio di Stato, con la pena di morte.
Sulla questione dell'embargo alla Cina - che verrà tolto se la legge verrà approvata - e sul commercio di armi sono d'accordo con quanto è stato detto, anche se tutto ciò fa il paio, il triplo, il quadruplo con una serie di rapporti riguardanti la Cina, ma anche l'Iran, il Vietnam ed altri paesi. I diritti umani vengono sacrificati sull'altare del commercio e dei rapporti di cooperazione economica. Se negli incontri bilaterali o nell'ambito di rapporti di cooperazione l'Italia - o l'Unione europea - facesse presente alla Cina la questione della pena di morte o della persecuzione dei tibetani credo che i cinesi apprezzerebbero, onorerebbero la correttezza, l'integrità e il rigore del nostro paese. Un interlocutore coerente, infatti, non nasconde le proprie convinzioni, non le sottomette ai propri interessi, ai propri affari. Sono considerati paesi affidabili - con i quali, tra l'altro, si tengono più volentieri scambi commerciali - quelli che non rinunciano a parti importanti della prova civiltà giuridica. Per quanto mi riguarda non apro una campagna contro la revoca dell'embargo alla Cina perché ciò non mi compete, anche se al riguardo potrei sicuramente rilasciare una dichiarazione personale, un comunicato. Bisognerebbe promuovere campagne contro molte cose che non vanno nei rapporti tra Occidente e paesi totalitari. I nostri amici e compagni al Parlamento europeo - tra i quali Maurizio Turco - hanno documentato nero su bianco quanto denaro l'Unione europea ha riconosciuto ai paesi totalitari e dittatoriali (Corea del nord, Laos, Vietnam) in termini di aiuti, di cooperazione: si tratta di soldi, di euro usciti dalle nostre tasche. Questo denaro permetterà la perpetuazione dei regimi totalitari che opprimono gli abitanti dei paesi interessati; si tratta di un problema generale che va posto con coerenza e con rigore.

PRESIDENTE. Ringrazio il dottor D'Elia anche per quest'ultima considerazione. Credo sia facilmente riscontrabile dagli atti di questo Comitato come tutti i suoi membri si siano dimostrati particolarmente sensibili ed abbiano frequentemente posto l'accento su quest'ultima tematica che lei, opportunamente, ha sottolineato.
Credo che si ponga un problema per le democrazie, le istituzioni rappresentative ed i governi d'Occidente. I dittatori, i quali sono spesso anche massacratori e che rappresentano una parte piuttosto cospicua dell'umanità - la democrazia, ahimè, non ha fatto breccia dove noi pure ci attendevamo dovesse accadere, negli ultimi cinquant'anni - possono essere isolati in un unico modo possibile, tagliando le risorse grazie alle quali possono continuare a dominare sui loro popoli e far strame di diritti, dignità e libertà di quelle genti che, sfortunatamente, si trovano a dover soggiacere a quel dominio.
Nel verificare che l'Unione europea invia, grazie a sistemi discutibili di cooperazione, risorse cospicue presso questi governi o incentiva scambi commerciali, economici, e rapporti finanziari con gli oligarchi del terrore, dovremmo davvero porci il problema sulla qualità della nostra democrazia. Mi sia consentito affermare che preferirei disporre di una democrazia più consapevole della sua forza e capace di opporsi a quelle violazioni, tagliando le risorse a coloro che ne fanno un uso improprio, piuttosto che pensare ideologicamente - e le ideologie nascondono sempre interessi molto più concreti - di esportarla in modo banale, come fosse una merce di consumo per chiunque disponibile, immune dal vaglio di una coscienza ispirata appunto ai valori che la democrazia stessa presuppone.
È un grande tema che, naturalmente, un piccolo e modesto comitato quale il nostro non può risolvere, sebbene ritenga già un segnale importante che, in un'istituzione parlamentare, si possa discutere di uno dei nodi, forse «il nodo» della politica del nostro tempo, attraverso la cui dipanazione, probabilmente, potrebbero essere affrontati molti altri problemi fondamentali; ne sono un esempio i temi relativi alla sovranità alimentare o alla sovranità nella


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distribuzione e nell'acquisizione delle risorse, inerenti ai diritti di indipendenza e autodeterminazione dei popoli: occorre che questi valori siano finalmente affermati nello stesso modo in cui noi intendiamo affermare i diritti umani, a fronte, appunto, delle minacce costantemente portate nei loro riguardi.
Ringrazio molto l'associazione «Nessuno tocchi Caino», per il lavoro che svolge e per l'assiduità dei rapporti che intrattiene con le istituzioni parlamentari, anche grazie a questo Comitato, che naturalmente - come accennavo poc'anzi - resterà a sua disposizione, per qualsivoglia iniziativa l'associazione intenda intraprendere circa la maggiore diffusione di una cultura della tolleranza e della difesa della dignità umana in tutti gli angoli del mondo.
Ringrazio ancora gli illustri ospiti per il loro intervento, attendendoli nuovamente in occasione della pubblicazione del prossimo rapporto. Dichiaro conclusa l'audizione.

Comunicazioni del presidente.

PRESIDENTE. Comunico ai colleghi che la seduta odierna proseguirà con una breve informativa sull'indagine conoscitiva che ha impegnato, in questi mesi, il nostro Comitato.
Allo scopo, ho ritenuto necessario predisporre uno schema di documento interlocutorio di cui la Presidenza ha autorizzato l'approvazione da parte della Commissione, al fine di svolgere un primo bilancio dei lavori svolti. Di ciò sarà investita la Commissione la prossima settimana. L'analisi riassume il lavoro eseguito negli ultimi due anni, a partire dalla data in cui il Comitato che presiedo ha cominciato ad operare. Lo schema di documento resterà, pertanto, a disposizione dei colleghi; la Commissione affari esteri della Camera dei deputati sarà investita, quindi, del suo esame. Mi sia permesso in questa fase, innanzitutto, ringraziare con particolare calore gli uffici della III Commissione, a tutti i livelli, ed in particolare il segretario del Commissione stessa, dottor Renzo Dickmann, la dottoressa Laura Lai e il dottor Daniele Cabras, per l'aiuto che mi hanno e ci hanno offerto per la buona riuscita dei nostri lavori.
Senza il loro impegno, sicuramente, non avremmo beneficiato delle qualificate presenze che hanno animato i lavori del Comitato permanente sui diritti umani. Senza la loro abnegazione, la loro fattiva intelligenza, molte occasioni sarebbero state perdute.
Come i colleghi sanno, questo Comitato ha svolto audizioni le quali, anziché trasformarsi in occasioni accademiche di riflessione sullo stato dei diritti umani nel mondo, hanno spesso stimolato iniziative parlamentari capaci di sollecitare l'attenzione della Camera dei deputati e del Governo sui problemi di maggior interesse e complessità, portati all'ordine del giorno dagli interlocutori che abbiamo ospitato. Ricordo, ad esempio, le iniziative parlamentari sui Montagnard, la libertà religiosa del mondo, il Darfur, la situazione in Uganda e in Sudan, e le molte guerre dimenticate.
È stato un lavoro svolto in tredici audizioni, che ha visto impegnati tra gli altri i grandi movimenti a tutela dei diritti umani, come Amnesty International, Aiuto alla Chiesa che soffre, Missionary service new agency, Nessuno tocchi Caino, Medici senza frontiere.
Ricordo, in particolare: le audizioni dei rappresentanti del «Movimento Lao per i diritti umani»; una testimonianza assai drammatica e particolarmente coinvolgente dell'avvocato Pablo Cruz Ocampo, membro del comitato permanente per la difesa dei diritti umani in Colombia; l'audizione del premio Nobel Jodie Williams e di Elisabeth Bernstein, della campagna internazionale per la messa al bando delle mine; l'audizione del premio Nobel per la pace 2003, Shirin Ebadi, ed anche l'incontro, anch'esso particolarmente toccante, con un gruppo di dissidenti cubani guidati da Alina Fernandez Castro e dalla madre di un giovane giornalista scomparso nelle prigioni cubane, del quale non si sa più nulla, Blanca Gonzales.


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Abbiamo cercato, nei limiti delle nostre possibilità, di dar voce a coloro i quali, molto spesso, nelle istituzioni parlamentari, difficilmente riescono ad averne. Il Falung Gong ha fatto irruzione nella Camera dei deputati, portando il suo carico di disperazione, maturata nel corso di lunghe persecuzioni in Cina, mentre i rappresentanti del movimento Lao ci hanno rivelato quanto quotidianamente accade nelle terrificanti carceri di Vientiane.
La testimonianza di Kok Ksor, leader dei Montagnard, ci ha aperto ancora di più gli occhi su una realtà che, molto spesso, è stata tenuta in secondo piano.
Ricordiamo, inoltre, quando ci siamo occupati del noto caso della scomparsa - poi felicemente risoltasi - della giovane Arjan Erkel di Medici senza frontiere in Cecenia.
In proposito, rammento che questo Comitato ha avuto modo di approfondire la situazione di quella regione, elaborando anche un documento approvato all'unanimità e recepito, nella sua interezza, dal Governo sulla terribile situazione che, in tale area dell'ex Unione sovietica, si continua a vivere. Il Comitato, si è occupato anche di casi veramente umani che hanno scosso l'opinione pubblica, come quello della famiglia Al-Sakhri, respinta alla frontiera, e del suo capofamiglia: sulla sua vicenda (abbiamo saputo che l'ingegnere è stato imprigionato nelle carceri di Damasco) sembra sia stato ora steso un velo di silenzio. Ciò nonostante, il Governo italiano, grazie anche alle sollecitazioni del Comitato, continua a tenere sotto controllo la situazione, senza aver abbandonato la speranza di veder risolto felicemente anche questo caso.
L'ultimo grande tema di interesse del Comitato è quello della libertà di informazione. Ascolteremo, nelle prossime settimane, a cominciare, mi auguro, da settembre, la Federazione nazionale della stampa italiana, anche in qualità di parte dell'International federation of journalists, e della più grande organizzazione del settore, Reporter sans frontier: gli eccidi consumati, infatti, contro i giornalisti, in tutte le parti del mondo, non solo quelle più calde come Iraq o Afghanistan, sono crescenti.
Ritengo che l'indagine conoscitiva in corso possa riuscire nel suo intento, cioè quello di esaminare, con la dovuta attenzione, tutti i temi che dobbiamo ancora toccare.
Mi auguro, inoltre, che il tempo a nostra disposizione ci consenta di approfondire questioni di particolare gravità, come il caso del Nepal, ad esempio, paese sconvolto dalla guerriglia maoista, o quello dell'instabilità endemica in centro America, con le sue forti ripercussioni negative e altamente drammatiche sulle popolazioni civili.
Avevo già sostenuto, all'atto della costituzione del Comitato, la necessità di prestare attenzione anche al diritto dei popoli ad avere una propria cultura, a difendere costumi, tradizioni ed usi, ad avere una propria identità, contro una forma di totalitarismo morbido, dilagante: l'omologazione culturale, altrimenti definita - con un'immagine che reputo particolarmente efficace - «dominio del pensiero unico».
Segnalo, poi, la situazione drammatica in cui versano molte tribù dell'Amazzonia dimenticate, gli Yanomami, esempio, come tante altre minoranze etniche e culturali che vengono quotidianamente sterminate, dell'indifferenza del cosiddetto mondo libero delle democrazie occidentali, soltanto per logiche ascrivibili al capitolo, tutt'altro che esaltante, della ricerca a basso costo di alti profitti.
Credo che il problema delle risorse e del loro governo, soprattutto in alcune aree del nostro pianeta come l'Africa, l'America latina ed il Sud est asiatico, sia certamente connesso a quello del diritto dei popoli, come pure, naturalmente, alla salvaguardia dei diritti umani.
Su tutto questo - e molto altro ancora che i colleghi vorranno segnalare all'attenzione della presidenza del Comitato -, mi auguro vi sia modo e tempo di discutere ancora, sottolineando i nodi del nostro tempo, i grandi fenomeni ascrivibili al libro della politica, al cospetto della quale


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le questioni ricordate non risultano ulteriori o eccentriche. La politica è una scienza che si occupa dell'uomo e, come tale, può e deve avere un senso soprattutto quando l'uomo si trovi maggiormente in pericolo.
Questo Comitato, grazie anche all'assiduità dei colleghi che vi hanno partecipato, ritengo abbia ben operato, e mi auguro che possa continuare a farlo aggiungendo un granello di ulteriore sensibilità democratica nella vita politica del nostro Parlamento repubblicano.

RAMON MANTOVANI. Vorrei approfittare di questa occasione, signor presidente, per ringraziare lei, perché ritengo che la sua presidenza sia stata fondamentale per il lavoro che abbiamo svolto e soprattutto per lo sguardo generale che questo Comitato ha saputo gettare su tutto il mondo. La ringrazio per il suo lavoro personale svolto in questa direzione e mi associo ai ringraziamenti che lei ha formulato per gli uffici e per i colleghi che hanno partecipato ai lavori di questo Comitato.
Mi permetto, altresì, di formulare un suggerimento, una richiesta su cui lei potrà decidere. Penso che, nell'ultimo scorcio della legislatura, per meglio mettere a frutto il lavoro che abbiamo svolto potremmo concentrare la nostra attenzione, oltreché sullo svolgimento delle audizioni già previste, su alcuni due o tre punti particolari, in modo tale che il nostro lavoro resti consacrato anche in atti parlamentare che possiamo produrre e portare all'approvazione della III Commissione o della stessa Assemblea. Le chiedo, cioè, di svolgere una breve discussione a latere di una delle prossime audizioni a questo proposito, in modo che, fra di noi, si possa decidere su quali priorità lavorare con l'obiettivo, appunto, della produzione di atti e non solamente del resoconto delle nostre attività conoscitive.
In collegamento con questo, mi permetto di chiedere a lei, quale presidente di questo Comitato, di prevedere due o tre missioni del medesimo Comitato, nell'ultimo scorcio della legislatura e di discutere di questo nell'ambito del dibattito che svolgeremo in Commissione, in merito alla relazione che lei ha testé illustrato. Lo affermo affinché risulti nel resoconto integrale di questa seduta. Piuttosto che missioni di rappresentanza e missioni di presenza a eventi sui quali non abbiamo alcun potere di influenza, mi interesserebbe che questo Comitato svolgesse missioni che possano diventare veri e propri atti politici e che possano rispecchiarsi, anche a seguito di dette missioni, in prese di posizione politiche di questo Parlamento, che consacrino e, in qualche misura, persino giustifichino il lavoro che abbiamo svolto in questi anni.

PRESIDENTE. Ringrazio l'onorevole Mantovani e tutti i componenti di questo Comitato. Ringrazio nuovamente gli uffici della Commissione affari esteri e comunitari.
Dichiaro conclusa la seduta.

La seduta termina alle 15,15.


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