COMMISSIONI RIUNITE
II (GIUSTIZIA) E XII (AFFARI SOCIALI)

Resoconto stenografico

INDAGINE CONOSCITIVA


Seduta di giovedì 22 luglio 2004


Pag. 3

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE DELLA XII COMMISSIONE
GIUSEPPE PALUMBO

La seduta comincia alle 14,15.

(Le Commissioni approvano il processo verbale della seduta precedente).

Sulla pubblicità dei lavori.

PRESIDENTE. Avverto che, se non vi sono obiezioni, la pubblicità dei lavori sarà assicurata anche mediante l'attivazione dell'impianto audiovisivo a circuito chiuso.
(Così rimane stabilito).

Audizione dei direttori delle case circondariali «Le Vallette» di Torino, «Rebibbia Nuovo complesso» di Roma e «Poggioreale» di Napoli.

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sulla sanità penitenziaria, l'audizione dei direttori delle case circondariali «Le Vallette» di Torino, «Rebibbia Nuovo complesso» di Roma e «Poggioreale» di Napoli.
L'indagine conoscitiva in oggetto nasce dall'esigenza di approfondire l'attuale situazione della sanità penitenziaria, anche in vista dell'esame di diverse proposte di legge in materia. Soprattutto vi è la necessità di analizzare i problemi sorti dopo la fase di sperimentazione del trasferimento al Servizio sanitario nazionale delle funzioni di sanità penitenziaria, prima svolte dall'amministrazione penitenziaria, come disposto dal decreto legislativo n. 230 del 1999. Da più parti sono state rilevate numerose difficoltà organizzative ed economiche seguite alla fase di sperimentazione; oggi ci occuperemo di tali aspetti, anche in funzione di una migliore gestione della sanità penitenziaria. Ricordo, infine, che la sperimentazione prevista dal decreto-legislativo n. 230 del 1999 è stata avviata inizialmente in Toscana, Lazio e Puglia e successivamente in Emilia-Romagna, Campania e Molise.
Saluto i nostri ospiti e do la parola per il suo intervento introduttivo al dottor Buffa, direttore della casa circondariale «Le Vallette» di Torino, cui seguiranno gli interventi del dottor Cantone, direttore della casa circondariale «Rebibbia Nuovo complesso» di Roma, e del dottor Acerra, direttore della casa circondariale «Poggioreale» di Napoli, ai quali ricordo che sarà gradito anche l'ulteriore materiale documentale che vorranno farci pervenire in seguito.

PIETRO BUFFA, Direttore della casa circondariale «Le Vallette» di Torino. La regione in cui ha sede l'istituto da me diretto, il Piemonte, non è stata interessata dalla sperimentazione prevista dal decreto legislativo n. 230 del 1999. L'unico intervento che, in base alla nuova normativa, ci ha visti coinvolti è stato il trasferimento al Servizio sanitario nazionale delle funzioni di assistenza ai detenuti tossicodipendenti. Si è reso necessario quindi un diverso approccio a questa tematica.
A mio avviso il vero problema è che siamo di fronte ad un intervento sanitario pubblico con una forte connotazione aziendale, con una grande attenzione all'organizzazione, alle strutture ed al budget. Quindi siamo in presenza di un'attività di tipo ambulatoriale quando invece, per quella che è la mia esperienza, la sanità penitenziaria avrebbe bisogno di un approccio orientato maggiormente alla medicina


Pag. 4

di tipo residenziale, ossia con presidi prolungati nel tempo, che necessitano di un'attenzione specifica al contesto penitenziario.
Pur tuttavia, sulla base delle disposizioni della normativa suddetta, ci siamo attrezzati per far fronte alle nuove esigenze, anche se con notevoli ritardi: in realtà solamente a gennaio di quest'anno si è registrato al riguardo un intervento diretto, concreto. Ma se questo deve essere considerato come il preambolo al trasferimento completo della sanità penitenziaria al Servizio sanitario nazionale, allora sorgono alcuni dubbi. Questo proprio perché il contesto penitenziario necessita di un controllo costante, molto forte. La salute in carcere assume diverse dimensioni: non sono necessarie semplicemente la cura, la terapia e la diagnosi, vi è anche l'esigenza di seguire la persona in carcere per aspetti non ininfluenti nei confronti della libertà personale e dei rapporti con la magistratura.

CARMELO CANTONE, Direttore della casa circondariale «Rebibbia Nuovo complesso» di Roma. Proseguendo sulla stessa linea delle considerazioni del dottor Buffa, vorrei precisare che nel settore della sanità penitenziaria si vive una situazione particolare. In tutti i settori dell'amministrazione dello Stato (anche quella penitenziaria) è necessario ragionare in termini di riduzione delle risorse, anche umane, e di una minor possibilità di lavoro straordinario; in pratica, si deve risparmiare su tutto.
Nel settore della sanità penitenziaria (anche in quello della sanità in generale) i problemi sono diversi: è notorio come sia sempre più forte e attenta la domanda di buona sanità all'interno delle carceri. Altrettanto nota è la risonanza di casi di reale o supposta malasanità verificatisi all'interno degli istituti penitenziari (decessi negli istituti di pena o a seguito di ricoveri in uscita dagli stessi istituti); si rileva anche dalla stampa la notevole e comprensibile attenzione che tali casi sollevano a livello nazionale. Più in generale vi è una richiesta di incremento degli standard di qualità della sanità e della cura quotidiana dei detenuti nelle carceri, a cui per forza di cose si deve rispondere impiegando buone risorse.
È pur vero che da anni si segue una politica di riduzione dell'uso di farmaci all'interno degli istituti; è però sufficiente pensare alla spesa sostenuta per i farmaci antiretrovirali destinati ai detenuti sieropositivi portatori di HIV o per farmaci utili alla cura di altre patologie particolari, per comprendere quale sia il livello di spesa necessario ora all'interno di un istituto penitenziario rispetto a vent'anni fa.
Cito l'esperienza di Roma e dell'istituto «Rebibbia Nuovo complesso» che, per l'approvvigionamento di farmaci antiretrovirali, oggi non deve più spendere quanto invece ha speso sino al 2002, all'incirca oltre 1 miliardo di vecchie lire; tale spesa ora, in base al decreto legislativo n. 230 del 1999, è a carico della regione Lazio. Ma ciò non sposta di molto il problema: su chiunque ricada, tale spesa va comunque sostenuta.
Appare invece necessario integrare quanto più possibile il servizio sanitario penitenziario con il Servizio sanitario nazionale. La regione Lazio non è stata significativamente coinvolta dalla sperimentazione di cui al decreto legislativo n. 230 del 1999, se non per quanto attiene all'assistenza dei soggetti tossicodipendenti. Nel settore dell'assistenza e prevenzione delle tossicodipendenze sono stati compiuti passi importanti. Nel nostro territorio le ASL competenti in questo ambito sono protagoniste insieme a noi in uno sforzo comune.
Se ai rappresentanti delle ASL, in particolare dei SerT (ma anche del servizio penitenziario in generale) chiediamo quali ulteriori risorse essi possano mettere in campo, questi rispondono con fortissime perplessità. Un esempio concreto sul settore tossicodipendenze riguarda le ASL che, in questi ultimi anni, non hanno avuto la possibilità di immettere valori aggiunti in termini di risorse umane. Alle risorse del 2000 hanno potuto sommare solo le risorse umane che lo scorso anno


Pag. 5

abbiamo trasferito loro in occasione del passaggio di competenza dei presidi per tossicodipendenze. Quindi, in funzione di un rafforzamento dell'attività sanitaria nel settore delle tossicodipendenze, le ASL e i SerT competenti incontrano grosse difficoltà per ottenere l'immissione di altre risorse sia per quanto riguarda il versante prettamente medico (in particolare per le crisi di astinenza) sia per quanto riguarda la gestione psicoterapeutica, trattamentale successiva.
Il modello che riteniamo andrebbe auspicato per il futuro prevede una fortissima integrazione. Si discute ampiamente se debba essere conservata una sanità penitenziaria specifica, alle dirette dipendenze dell'amministrazione penitenziaria (il classico servizio sanitario penitenziario interno) o se, invece, tutte le funzioni debbano essere trasferite in toto al Servizio sanitario nazionale. Il problema di fondo - a mio avviso - è l'esigenza di non prescindere da una grande interazione tra i due servizi, sia per quanto riguarda la gestione dei pazienti ordinari sia per quanto riguarda i servizi specialistici.
Nell'ambito di un'analisi svolta su tali basi è necessario differenziare anche le varie realtà territoriali. Ad esempio, la domanda di assistenza sanitaria del carcere di Gorizia (che ha 40 detenuti) è ragionevole e le prestazioni ambulatoriali possono essere erogate dignitosamente. Diversa è la situazione dell'istituto «Rebibbia Nuovo complesso» di Roma, che ospita 1.600 detenuti appartenenti alle fasce di età più varie e dove sono presenti un reparto per detenuti portatori di malattie infettive ed un ambulatorio polispecialistico. Esempio analogo è quello dell'istituto «Regina Coeli», sempre di Roma. In tali casi, la domanda di prestazioni sanitarie è talmente articolata che si può andare avanti soltanto grazie ad una notevole interazione con i poli sanitari esterni.

SALVATORE ACERRA, Direttore della casa circondariale «Poggioreale» di Napoli. Anzitutto desidero ringraziare per questo invito che ci dà la possibilità di esprimere il nostro parere dinanzi alle Commissioni riunite.
I colleghi che mi hanno preceduto hanno ampiamente illustrato il quadro attuale relativo all'assistenza e cura dei detenuti tossicodipendenti, ormai acquisito in tutta Italia. In questo ambito, il trasferimento alle ASL delle funzioni di assistenza e cura è avvenuto utilizzando gli stessi fondi destinati in un primo momento al Ministero della giustizia ed ora trasferiti al Servizio sanitario nazionale. Grosso modo le convenzioni sono rimaste le stesse, medici e infermieri sono gli stessi e il servizio è sostanzialmente identico. Credo pertanto che su ciò non sia necessario aggiungere altro.
Resta aperto invece il problema dell'assistenza e cura degli altri soggetti, oltre ai detenuti tossicodipendenti. Va infatti precisato che i detenuti tossicodipendenti sono assistiti dai SerT solo per lo stato di tossicodipendenza ma non per altre patologie, per le quali interviene la sanità penitenziaria.
Anzitutto va ricordato che in questo settore le esigenze nel corso degli anni sono aumentate. Sono d'accordo con l'affermazione dei colleghi: indubbiamente le esigenze sono aumentate per molti motivi. La prima causa è legata all'innalzamento dello standard sanitario esterno che, indubbiamente, si riflette anche sull'assistenza prestata all'interno di un istituto penitenziario. Anzi, molte volte questa assistenza deve essere anche più elevata; infatti, per diversi motivi, molte patologie (vere o presunte) pongono i medici dell'istituto in condizione di dover necessariamente richiedere nuovi accertamenti. Il numero di accertamenti maggiore è richiesto ai detenuti che entrano per la prima volta in un istituto penitenziario.
Cito ora la mia esperienza presso l'istituto «Poggioreale»; attualmente questa casa circondariale ha due reparti chiusi, ospita 1.900 detenuti (in condizioni normali si arriva anche a 2.300 o 2.500 soggetti detenuti) e comprende un centro clinico funzionante. È utile ora analizzare l'andamento delle assegnazioni di fondi erogati negli ultimi 10 anni. Nel 1994


Pag. 6

abbiamo ricevuto il corrispondente in lire di circa 3 milioni 141 mila euro, nel 2004 abbiamo ottenuto 2 milioni 395 mila euro. Sostanzialmente i fondi a disposizione dell'amministrazione penitenziaria diminuiscono, a fronte di esigenze che aumentano. Fino ad ora si è intervenuti con tagli che non hanno compromesso lo standard assistenziale dei detenuti. Andare oltre però non è possibile; e tra l'altro non sarebbe neanche conveniente per un motivo molto semplice: in effetti la riduzione degli stanziamenti comporta, per un istituto con un centro clinico come «Poggioreale», la diminuzione o quasi l'azzeramento della possibilità di adeguare le proprie attrezzature.
Far divenire obsolete delle attrezzature di un istituto penitenziario comporta un aumento delle spese sia per il mantenimento della loro efficienza sia per i conseguenti aggravi di spesa dovuti all'impossibilità, molte volte, di svolgere gli accertamenti all'interno e alla necessità di ricorrere a strutture esterne. Ma tali spese non rientrano tanto nel capitolo sanità, quanto piuttosto in quello relativo a missioni ed impiego di personale di polizia penitenziaria. In effetti si verifica solo uno spostamento della spesa, con indubbie difficoltà di sicurezza, anche per i cittadini che si trovano nelle strutture sanitarie.
Infine, un ultimo accenno alla sperimentazione, che in Campania è stata avviata un mese prima del termine per cui era prevista la sua conclusione! Si è proceduto alla fornitura di farmaci e di agenti reattivi, consegnati fino al mese di marzo di quest'anno, dopodiché la consegna è stata sospesa. Pertanto attualmente dobbiamo provvedere anche all'acquisto di questi prodotti! Si creano così nelle varie regioni e città situazioni differenti. Vi sono realtà nelle quali le regioni contribuiscono al budget sanitario degli istituti penitenziari e regioni dove le ASL non contribuiscono affatto, creando ulteriori disparità di trattamento.

PRESIDENTE. Ho particolarmente apprezzato gli interventi introduttivi dei nostri ospiti. Il problema sollevato dal dottor Buffa, inerente la caratteristica residenziale della sanità penitenziaria, meriterebbe un approfondimento. La maggioranza delle prestazioni riguarda ricoveri ospedalieri o piuttosto di natura ambulatoriale?

PIETRO BUFFA, Direttore della casa circondariale «Le Vallette» di Torino. Riconosco che in effetti si tratta di un problema di terminologia che si riscontra anche quando discutiamo con il direttore generale o il direttore sanitario di un'azienda sanitaria. Il paziente ordinario normalmente si reca in un presidio sanitario per usufruire di una prestazione. Nel nostro caso non è così: di norma un detenuto richiede prestazioni di qualunque genere e lo fa costantemente (questa condizione particolare di angoscia viene descritta anche in alcuni testi).
Attualmente il nostro sistema è strutturato in maniera tale da consentirci di fronteggiare queste necessità. Il mio timore, però, è che il servizio venga articolato diversamente e non vi saranno più punti di contatto con l'istituto penitenziario (questi elementi si rilevano maggiormente negli istituti di grandi dimensioni).
Vi sono casi che necessitano di un ricovero di tipo ospedaliero, che può avvenire sia internamente all'istituto sia in reparti detentivi esterni. L'altra parte, la stragrande maggioranza degli interventi sanitari, ha caratteristiche di altro genere e va posta in relazione alla presenza all'interno di strutture chiuse di persone che già presentano un certo livello di mobilità. Non possiamo dimenticare che la popolazione media dei detenuti è sicuramente più predisposta alle patologie; questo sia per la storia personale degli stessi detenuti sia per diversi altri motivi, non ultima la coabitazione non sempre facile all'interno degli istituti. Oltre a tali aspetti, prettamente clinici, organici, vi è poi un elemento di natura psicogena, ormai accertato.
Proseguendo su questa linea, uno dei maggiori problemi che incontriamo è quello del reclutamento del personale sanitario (medici e infermieri). Attualmente


Pag. 7

le tariffe non sono appetibili, né per un infermiere né per un medico; il che comporta difficoltà di vario genere, tra le quali la mancanza di copertura del servizio. Il mio timore è che, invece, un'azienda abituata a seguire criteri manageriali e ad impostare un servizio soprattutto in ragione del budget possa incontrare dei problemi ad affrontare un quadro di questo genere. Ad esempio, quanto meno nell'area di Torino - ma credo anche in altre situazioni - in estate gli ospedali accorpano dei reparti proprio per la mancanza di risorse. Ma il nostro non è un settore ospedaliero normale, i soggetti interessati non si trovano in condizioni di normale libertà, sono persone che si trovano in istituto penitenziario.
Vi è poi il problema dell'integrazione tra i servizi, su cui esistono due visioni differenti. In ogni caso, qualunque formula venga adottata in base alle disposizioni di legge, l'integrazione non può essere stabilita attraverso regolamenti ma dipenderà sempre dalle persone e dalla loro visione comune. Se questa integrazione viene a mancare, il servizio ne patirà fortemente le conseguenze. All'interno del mio istituto, ad esempio, vi è un servizio per le tossicodipendenze, sin da subito fermo nel delineare la propria autonomia...

PRESIDENTE. Mi scusi se la interrompo, ma quello della tossicodipendenza è un problema specifico degli istituti penitenziari, più che nella realtà esterna. Nel corso dei nostri lavori abbiamo spesso ascoltato testimonianze dell'esistenza di un problema particolare riguardante la tossicodipendenza negli istituti penitenziari.

PIETRO BUFFA, Direttore della casa circondariale «Le Vallette» di Torino. A ciò si aggiunga il problema della psichiatria; sono contesti abbastanza simili. Su due temi rilevanti disponiamo di due servizi e due atteggiamenti completamente diversi. Il servizio per le tossicodipendenze, correttamente e legittimamente, ha sin da subito affermato - in maniera forte e chiara - la sua specializzazione e autonomia, il suo carattere specialistico, anche se ha mantenuto un certo livello di integrazione. Dall'altra parte vi è un servizio psichiatrico, egualmente autonomo, ma gestito direttamente dall'azienda sanitaria. Ad esempio, nel nostro istituto abbiamo due reparti psichiatrici, gestiti con queste modalità ma con fondi non pubblici; abbiamo usufruito di sovvenzioni da parte delle fondazioni bancarie, con tariffe molto diverse...

TIZIANA VALPIANA. Diverse in che misura?

PIETRO BUFFA, Direttore della casa circondariale «Le Vallette» di Torino. Certamente più alte.
Nonostante le tariffe più alte, l'atteggiamento è stato molto diverso: registriamo un'integrazione, non so se definirla formalmente migliore, ma comunque sostanzialmente diversa, così come è diverso anche il livello di efficacia. Si tratta di un problema notevole; il carcere è un sistema che tende ad includere o escludere, dipende dall'approccio. I detenuti che risiedono nelle carceri comprendono immediatamente questi aspetti.

PRESIDENTE. Do la parola ai colleghi che desiderano intervenire.

GIACOMO BAIAMONTE. Desidero unirmi ai ringraziamenti rivolti ai nostri ospiti per il loro intervento. Nella passata legislatura mi sono interessato dei problemi della sanità penitenziaria ed ebbi anche occasione di presentare alcune interrogazioni parlamentari in materia. Ricordo che raccolsi le proteste di alcuni infermieri e di alcune guardie in servizio penitenziario, i quali chiesero un incontro presso il mio gruppo parlamentare proprio per manifestarmi il loro disagio e la loro protesta. Una delle loro lamentele riguardava proprio la loro promiscuità con le patologie presenti nelle carceri.
Nella mia veste di medico mi sono interessato in maniera particolare di questa vicenda. Se il nostro obiettivo è la


Pag. 8

prevenzione e quindi evitare la diffusione delle malattie, allora, a mio avviso, abbiamo di fronte un problema serio perché chi mi rappresentò quella situazione testimoniò di venire a contatto sistematicamente, per ordine di servizio, con detenuti tossicodipendenti, affetti da HIV, quindi con soggetti immunodepressi. Inoltre a seguito di una mia indagine è emerso un incremento dei casi di infezione e di tubercolosi. Si presenta pertanto un problema sanitario molto serio, anche perché gli individui che entrano in contatto con tali pazienti possono veicolare le infezioni all'esterno, in particolare alle loro famiglie.
Sono convinto che i problemi di questo settore siano di due ordini. Il primo riguarda una categoria di detenuti malati cronici, tra i quali i tossicodipendenti, i malati di AIDS e, in generale, i soggetti affetti da patologie infettive. Vi è poi un'altra categoria di individui affetti da patologie di tipo occasionale, ad esempio di origine alimentare, ai quali vanno aggiunti i simulatori. Per questi ultimi è comunque necessario un esame diagnostico che accerti la veridicità o meno della patologia.
A mio avviso è un errore affidare al Servizio sanitario nazionale la gestione della sanità penitenziaria, anche in considerazione delle peculiarità di questo settore. Ritengo che l'obiettivo principale dovrebbe essere quello di creare un corpo sanitario alle dipendenze del Ministero della giustizia (alla stregua del corpo carcerario) che disponga sia di una specializzazione nei problemi carcerari sia di specialisti che collaborino in alcuni settori. Certo, sono convinto che non possano essere previsti servizi sanitari penitenziari per tutte le specialità mediche.
Ad esempio, svolgo nella mia città, Palermo, l'attività di professore universitario, ordinario di chirurgia, e molto spesso mi è capitato di essere chiamato presso il carcere dell'Ucciardone per trattare casi di detenuti affetti da patologie polmonari serie, che necessitavano di un intervento chirurgico, oppure soggetti affetti da pancreatiti croniche (causate, ad esempio, da una calcolosi delle vie biliari).
Il problema è stato in parte risolto creando nell'ospedale principale una sezione destinata ai detenuti, con una divisione di medicina ed una di chirurgia destinate esclusivamente ai soggetti in condizioni cliniche particolari. Quindi non tutti possono usufruire di tali servizi ma solo coloro che, versando in condizioni particolari, necessitano di un ricovero ospedaliero. Ritengo, perciò, che i problemi da voi lamentati vadano affrontati, come credo abbia fatto il Ministero della giustizia prima di queste nuove disposizioni.
Molto spesso in questo ambito i problemi di giustizia si intersecano con quelli dei magistrati e dei direttori delle case circondariali. Non va dimenticata, infatti, la necessità di trattare questi soggetti principalmente sotto un aspetto clinico, ma anche sintomatologico e psicologico (si tratta di casi particolari, possono esservi anche dei simulatori). Proprio per tali motivi sono necessari addetti ai lavori dotati di specializzazione, di predisposizione e di comprensione particolari nei confronti dei detenuti. La mia convinzione è che sia necessario un servizio alle dipendenze esclusive del Ministero della giustizia e non un servizio promiscuo con il Servizio sanitario nazionale.

LUIGI GIACCO. Anch'io ringrazio i nostri ospiti per averci fornito una serie di utili elementi di valutazione in un settore molto complesso come quello penitenziario. Nel corso delle nostre periodiche visite nelle carceri ci siamo resi conto dei problemi che si vivono all'interno degli istituti penitenziari. Parlare in una Commissione parlamentare di queste tematiche è, tutto sommato, semplice; molto più difficile è, invece, vivere quotidianamente sulla propria pelle i problemi di tutti i giorni del settore penitenziario. La mia premessa vuole essere anche un riconoscimento per coloro i quali, come i nostri ospiti, vivono la loro professione a servizio dei detenuti.
Mi sembra chiaramente che i nostri ospiti abbiano opportunamente enfatizzato


Pag. 9

e chiarito le condizioni dei detenuti che vivono in tali strutture. La loro è una condizione che comporta una serie di conseguenze patologiche maggiori rispetto all'esterno anche, e soprattutto, di natura psicologica. Talvolta, inoltre, vi sono casi di soggetti che versano in condizioni patologiche particolari, di natura psicogena; tali detenuti hanno necessità di trovare alternative alla routine quotidiana e, quindi, anche le richieste di visite e di controlli sanitari diventano un modo per instaurare un tipo di relazione differente e per cogliere un elemento di diversità rispetto al quotidiano.
Vorrei conoscere l'opinione dei nostri ospiti su alcuni temi, in parte già affrontati dal collega Baiamonte, non so, però, se in maniera condivisibile. Certamente è necessaria la presenza di un servizio sanitario all'interno delle carceri. Il concetto di sanità va però allargato fino a ricomprendere la nozione generale di salute. Ossia, al di là di un intervento squisitamente medico, negli istituti penitenziari è necessaria una organizzazione specifica; mi riferisco, ad esempio, agli psicologi, a figure magari border line rispetto al settore propriamente sanitario, come gli educatori. Anche questo è un aspetto da valutare. Diversamente, resteremo fermi ad un approccio di tipo strettamente sanitario, ad un concetto di sanità legato più alla patologia che non al benessere ed alla salute complessivi. Non vorrei aprire un'ampia discussione al riguardo, ma comunque ritengo che tali elementi andrebbero affrontati.
Ritenete opportuna un'integrazione tra Servizio sanitario nazionale e sistema sanitario penitenziario, oppure si dovrebbe giungere ad una soluzione in cui vi sia un unico punto di riferimento (sia questo il Servizio sanitario nazionale o un servizio dipendente dal Ministero della giustizia)? Non credete anche voi che l'integrazione potrebbe rappresentare una facilitazione ma forse potrebbe anche costituire un ulteriore elemento da gestire?
In questi giorni sono stato contattato da diversi infermieri, i quali hanno lamentato l'estrema carenza di personale all'interno delle carceri, turni di lavoro eccessivi e situazioni - come da voi sottolineato - non gratificanti sotto il profilo economico. È difficile organizzare un servizio di fronte a difficoltà come la carenza di personale. Dovremmo affrontare il problema e reperire risorse adeguate per tali obiettivi. In alcune carceri, come avviene ad esempio nella mia zona, ad Ancona, delle prestazioni di 36 ore diventano di 24, quindi con una riduzione dell'orario di lavoro degli infermieri, con conseguenze negative nei vari reparti.
I nostri ospiti sono tutti direttori di istituti penitenziari di notevoli dimensioni e quindi credo che siano i migliori testimoni dei problemi che si incontrano in questo settore. Vorrei conoscere la vostra opinione rispetto sia alla differenziazione sul territorio di questi problemi sia, in particolare, alla possibilità di creare un servizio specifico che risolva il problema dell'integrazione del personale.
Inoltre vorrei sapere se condividiate la necessità di un intervento ancor più incisivo nel settore del personale, teso a fornire una risposta qualitativamente migliore ai problemi dei detenuti, in un'ottica, però, che non tenga solo ed esclusivamente conto della patologia ma anche delle condizioni complessive di salute.

TIZIANA VALPIANA. Desidero anzitutto scusarmi con i nostri ospiti per il ritardo; in realtà con i nostri ospiti dobbiamo scusarci spesso a causa della quasi totale incertezza degli orari delle sedute. È anche per questo motivo che oggi, ad ascoltare le loro preziose indicazioni, sono presenti pochi parlamentari. Fortunatamente abbiamo il supporto del resoconto stenografico, che consentirà ai colleghi oggi non presenti di conoscere le testimonianze del vostro lavoro, sicuramente utili per le conclusioni della nostra indagine conoscitiva.
Ritengo che la figura del direttore di un carcere sia un elemento centrale. A dire il vero, i nostri ospiti hanno avuto il pudore di non parlarci delle loro condizioni personali di disagio. Credo, però, che chiunque di noi frequenti le carceri si renda


Pag. 10

conto di come un direttore di un istituto penitenziario abbia responsabilità enormi e gestisca un numero di lavoratori e di reclusi elevato, a fronte di una scarsissima remunerazione economica e con ulteriori oneri derivanti dal ruolo e dalla responsabilità che credo andrebbero approfonditi unitamente al tema della capacità di decisione di questi soggetti.
In materia di prevenzione vorrei citare il caso del carcere di Verona (zona da cui provengo) dove in questi giorni si stanno verificando due situazioni estreme. Essendo stati individuati tre casi di tubercolosi, si è dovuto procedere a circa 750 accertamenti diagnostici, con un aggravio enorme di organizzazione necessaria a trasportare i detenuti e parte del personale a sostenere le visite, a fronte evidentemente di un organico di personale sottodimensionato, assolutamente ridotto nei ranghi. Tali visite, però, secondo me servono a poco o nulla, fintantoché le celle destinate ad una persona saranno abitate da tre e forse in un futuro prossimo da ben quattro individui.

GIACOMO BAIAMONTE. È necessario distinguere i malati cronici dagli altri.

TIZIANA VALPIANA. È vero. Ma vivere in una cella in quattro invece che da soli è differente, anche per chi non è malato cronico. E dirò di più: da ieri in quell'istituto viene interrotta l'erogazione di acqua, per alcune ore al giorno, a causa dell'insufficienza del sistema idrico. Tutto ciò si verifica perché il numero dei detenuti è quattro volte maggiore della prevista capienza per cui è stato costruito il carcere. Pertanto, anche servizi importanti come l'erogazione dell'acqua ed il riscaldamento invernale non corrispondono alle necessità su cui erano stati tarati. Già nel periodo di Natale dello scorso anno sono intervenuta sulla vicenda delle difficoltà di riscaldamento e intendo seriamente fare altrettanto per la questione dell'erogazione idrica.
Un direttore di un istituto penitenziario carcerario deve far fronte ai problemi di medicina penitenziaria senza però disporre degli strumenti adeguati per garantire quel corollario di adempimenti che sono una componente primaria di qualsiasi attività di prevenzione. Mi chiedo allora se si terrà conto del fatto che in questo paese vi è stato un taglio notevole dei fondi destinati alla giustizia e di conseguenza al settore penitenziario. Vorrei sapere se i nostri ospiti vivano una situazione di incertezza sulla ripartizione di competenze in materia di sanità penitenziaria, non essendo, a mio avviso, ben individuabili le funzioni trasferite al Servizio sanitario nazionale da quelle invece rimaste al servizio sanitario penitenziario. Mi chiedo quali possibilità di manovra abbiano realmente i direttori degli istituti penitenziari e quali siano le loro capacità di intervenire concretamente in tema di prevenzione e cura.
Sui temi della sanità penitenziaria la mia opinione è diametralmente opposta a quella del collega Baiamonte. Credo che il cittadino il quale abbia contratto un debito con la giustizia e per questo motivo si trovi in carcere non possa veder leso il proprio diritto alla salute né debba ricevere un trattamento sanitario diverso da quello di qualsiasi altro cittadino. Se come libera cittadina posso disporre di un medico di base ed essere iscritta al Servizio sanitario nazionale, perché non posso fare altrettanto come detenuta? Ritengo necessario che chi si trovi in carcere mantenga comunque un medico di base (non dico lo stesso) e usufruisca degli stessi servizi a disposizione degli altri cittadini. Credo, pertanto, che dovrà essere il Servizio sanitario nazionale a farsi carico delle esigenze dei cittadini reclusi, certo disponendo delle necessarie risorse.
A mio avviso, l'attuale situazione di tipo misto crea incertezza e rappresenta la peggior soluzione possibile: non si dispone né delle risorse del Servizio sanitario nazionale - peraltro decurtate anche per tutti gli altri cittadini - né di quelle del Ministero della giustizia. Alcuni direttori di carceri (credo in Sicilia) sembra abbiano risolto il problema della carenza di


Pag. 11

fondi nell'unica maniera possibile: riducendo le ore di presenza degli infermieri. Ma così si incide sulla salute!
Quali altri strumenti, allora, avete a disposizione per consentire un'adeguata attività di prevenzione e cura dei detenuti e del personale da voi gestito (tralasciando il problema della riabilitazione, che quasi non è possibile affrontare neanche fuori dalle carceri)? Avete forse le mani legate, in attesa di comprendere cosa accadrà in futuro?

PRESIDENTE. Non essendovi altre richieste di intervento, do la parola ai nostri ospiti per le repliche.

SALVATORE ACERRA, Direttore della casa circondariale «Poggioreale» di Napoli. Personalmente ritengo che la corretta impostazione nei confronti della necessità o meno di una sanità penitenziaria specifica risieda in una via di mezzo, cioè in una situazione di integrazione con il Servizio sanitario nazionale. Sono convinto che una tale integrazione debba necessariamente esservi; non si può pretendere - sia detto chiaramente - che l'istituto penitenziario diventi a tutti gli effetti un ospedale. A mio avviso l'integrazione è indubbiamente nei fatti; altrimenti sarebbero necessarie risorse notevoli. Basti pensare che tra i vari istituti penitenziari ve ne è uno solo che dispone di un centro clinico, quello di Pisa, dove è possibile effettuare una TAC. È indubbiamente preferibile che i detenuti possano effettuare una TAC sul posto ed evitare così un esborso notevole di risorse.
Sono convinto che una sanità penitenziaria debba continuare ad esistere, per un motivo molto semplice: anzitutto perché altrimenti perderemmo tutte le professionalità acquisite, inoltre perché in realtà il detenuto deve essere trattato come un normale cittadino. Credo che ogni direttore di istituto penitenziario abbia mai pensato il contrario e si sforzi - naturalmente - affinché queste condizioni si verifichino, sia pure con le attuali disponibilità.
Indubbiamente, una volta stabilito ciò, bisognerebbe comprendere quali prestazioni sia in grado di assicurare il Servizio sanitario nazionale. I medici che lavorano nel nostro campo necessitano di una certa esperienza; l'approccio tra medico e paziente (chiunque esso sia) non è lo stesso se il paziente si trova in carcere o meno. Personalmente ritengo che le due situazioni siano completamente diverse. Certo, come ricordava l'onorevole Baiamonte, da questa analisi vanno esclusi i simulatori (chi vuole approfittare di tali situazioni); ma gli altri, coloro che non simulano, presentano delle necessità diverse da chi si trova in stato di libertà. Il medico che si occupa di sanità penitenziaria deve avere una professionalità specifica, che naturalmente col tempo può essere acquisita anche dal personale sanitario delle ASL. È però importante che queste prestazioni siano assicurate dagli stessi medici. Purtroppo, molte volte le ASL utilizzano personale in turn over, come avviene nei SerT, creando condizioni di difficoltà. Ma con ciò non voglio sostenere che il Servizio sanitario nazionale non sia in grado di svolgere le funzioni di sanità penitenziaria.
Affronto ora il tema delle realtà territoriali; provengo da Napoli, dove non mi pare il Servizio sanitario nazionale abbia un grande interesse ad occuparsi delle problematiche dei detenuti. Si sappia che la regione Campania, nell'ambito del piano sanitario regionale, aveva individuato nell'ospedale Cardarelli di Napoli la sede di un reparto detentivo. Ebbene, questo reparto è ormai chiuso da anni! E i ricoveri avvengono nelle normali corsie dei vari ospedali! È necessario verificare l'esistenza di una effettiva volontà e attenzione verso questo settore; dopo la trasformazione in aziende delle unità sanitarie non credo che ciò avvenga. Forse sarebbe necessario creare una rete di rapporti con le direzioni dei vari istituti penitenziari; inoltre, il passaggio dei compiti di sanità penitenziaria alle aziende sanitarie ed una migliore interazione fra i vari soggetti interessati possono rappresentare il modo per alleggerire i direttori degli stessi istituti di una parte delle loro responsabilità.


Pag. 12

CARMELO CANTONE, Direttore della casa circondariale «Rebibbia Nuovo complesso» di Roma. Siamo tutti d'accordo sulla necessità di conseguire in tema di sanità penitenziaria una cultura comune tra chi gestisce le strutture penitenziarie - la direzione e l'amministrazione penitenziaria - e chi si occupa di medicina all'interno degli istituti di pena. Le difficoltà nel conseguire questa visione comune non sono molto lontane dalle difficoltà di dialogo che si incontrano normalmente nelle carceri. Ad esempio, ciò avviene quando un detenuto deve affrontare un ricovero o una visita urgente e i nostri medici debbono discuterne con il personale di sicurezza, la polizia penitenziaria e i direttori degli istituti.
Chi conosce il mondo delle carceri sa che, ogni qual volta vi è una richiesta di visita urgente - soprattutto nel periodo estivo - che possa comportare un ricovero (ma anche una permanenza all'esterno di poche ore), questo intervento fuori dall'istituto mette in crisi le strutture penitenziarie (anche quelle di una certa consistenza). Non deve stupire che anche in una struttura come la casa circondariale «Rebibbia Nuovo complesso», che dispone di mille agenti, quando è necessario trasferire all'esterno un detenuto in orari particolari ci si trova di fronte a variabili inquietanti. In tali casi subentrano a volte delle contrattazioni, con richieste di rinviare il ricovero al giorno seguente.
Se malauguratamente il detenuto, trasferito all'esterno per un ricovero urgente, viene rinviato alla struttura penitenziaria in quanto non è stato ritenuto necessario il ricovero, allora si verifica una situazione di malessere spiacevole. Il medico che ha disposto quel ricovero passerà per un soggetto che non tiene conto delle esigenze di custodia e non sa valutare la reale gravità di una situazione. Questi pericoli, queste situazioni di disagio in cui ci si può trovare (e che per il nostro ruolo di direttori siamo chiamati a gestire) si potrebbero riproporre anche in futuro qualora passasse il concetto di trasferire la sanità penitenziaria al Servizio sanitario nazionale (sia pur in un'ottica di specializzazione).
Non so se l'idea dell'onorevole Baiamonte possa avere delle prospettive; è mia personale opinione, però, che se vogliamo valorizzare le specificità della sanità penitenziaria all'interno di un corpo separato o nell'ambito dello stesso Servizio sanitario nazionale, allora dobbiamo far sì che l'attività del medico penitenziario sia preponderante. Attualmente la legge n. 296 del 1993 stabilisce che l'attività svolta dai medici penitenziari all'interno degli istituti penali è compatibile con qualsiasi altra prestazione svolta nell'ambito del Servizio sanitario nazionale.
Un medico incaricato, responsabile della gestione del servizio sanitario di un istituto (a «Rebibbia Nuovo complesso» ve ne sono 7, ciascuno responsabile di un settore) è chiamato a prestare servizio nell'istituto per 18 ore settimanali (la media è di 3 ore al giorno, ma può accadere che i medici prestino servizio per mezzora un giorno e poi recuperino nei giorni successivi). E questo è ritenuto compatibile con l'attività di medico di base, di primario ospedaliero e con le altre attività svolte all'esterno...

TIZIANA VALPIANA. Mi sembra riemerga il problema dell'esclusività ...

CARMELO CANTONE, Direttore della casa circondariale «Rebibbia Nuovo complesso» di Roma. Forse. Mi chiedo allora cosa accadrebbe se questo comportamento fosse ammissibile anche per un direttore di istituto o per qualsiasi altra professionalità, anche meno impegnativa di quella di medico penitenziario. Come si fa a lavorare nell'istituto penitenziario e ad avere la mente impegnata altrove, o viceversa? E non mi pare neanche che ciò valorizzi l'esclusività o la «primarietà» del medico penitenziario. Ovviamente vanno riconosciuti un'adeguata retribuzione ed un adeguato ruolo professionale al personale che presta servizio sanitario in carcere.
Chi lavora come medico nelle carceri, come ruolo principale deve svolgere solo


Pag. 13

quello di medico penitenziario; solo così miglioreranno anche le condizioni di vivibilità e il rapporto con i pazienti. Spesso i detenuti - al di là delle singole realtà - lamentano situazioni problematiche relative al rapporto tra medico e paziente; certo, a volte sbagliano o esagerano: molti medici realizzano moltissimo per valorizzare questo rapporto. Si tratta però di un problema reale. Un medico che svolga la propria attività principalmente nell'istituto, ad esempio sin dalla mattina, e che vi presti la sua opera per molte ore al giorno (come gli educatori, gli ispettori o i direttori di reparto dei grandi istituti) garantirebbe quel tipo di professionalità necessaria per ottenere un'adeguata vivibilità ed un migliore rapporto tra detenuto-paziente e settore sanitario.

PRESIDENTE. Per ora i medici penitenziari sono gli unici che svolgono una doppia attività.

CARMELO CANTONE, Direttore della casa circondariale «Rebibbia Nuovo complesso» di Roma. Sì, è vero.

GIACOMO BAIAMONTE. Ma esiste anche un problema di orario di lavoro!

LUIGI GIACCO. La non esclusività l'avete voluta voi!

TIZIANA VALPIANA. È vero!

PIETRO BUFFA, Direttore della casa circondariale «Le Vallette» di Torino. Credo che il nostro compito qui oggi sia non tanto quello di esprimerci in favore o meno di una medicina penitenziaria specifica, quanto piuttosto di fornire gli elementi utili ad assumere delle decisioni in materia. Certo, quello sollevato è un problema strisciante nel dibattito quotidiano.
Vorrei comunque replicare all'affermazione sulle differenze tra concetto di salute e sanità negli istituti penitenziari. Se effettivamente desideriamo migliorare le condizioni sanitarie e, più in generale, lo stato di salute all'interno delle carceri, dobbiamo considerare che il carcere è un sistema dove qualunque elemento nuovo che intervenga comporta delle conseguenze. Una delle posizioni fortemente richiamate in occasione delle modifiche apportate dal decreto legislativo n. 230 del 1999 è stata quella secondo cui - giustamente - all'interno degli istituti penitenziari i cittadini italiani o stranieri detenuti non dovevano usufruire di una sanità diversa (dove per «diversa» si intendeva peggiore) rispetto a quella garantita dal Servizio sanitario nazionale. Si tratta di una posizione forte e corretta, ma vi è un particolare da sottolineare: se non teniamo conto del sistema penitenziario in tutte le sue accezioni non riusciremo mai a conseguire tale obiettivo.
In base alla mia esperienza, ritengo che se in questo settore si incontrano dei problemi ciò non sia dovuto alla carenza professionale di medici e infermieri o delle organizzazioni che gestiscono l'assistenza sanitaria all'interno degli istituti penitenziari. Anzi, frequentemente avviene il contrario: spesso vi è un'inflazione terapeutica, quasi un accanimento. Ma allora qual è il problema reale? Se in un solo giorno si richiedono 10, 20 o 40 visite specialistiche, sarà impossibile poterle effettuare! E ciò determina diverse conseguenze negative, alcune già evidenziate dal collega Cantone. È evidente quanto sia complicato scortare all'esterno un detenuto, in particolare se non consideriamo anche gli altri limiti del sistema penitenziario (ad esempio di organico). Ed ancora, quando ad un soggetto detenuto sono prescritte analisi specialistiche, anche particolarmente avanzate e complesse, e questi assiste ad un ritardo e ad un inadempimento dell'amministrazione nello svolgere tali accertamenti, ciò non fa che determinare ulteriore malcontento nell'individuo detenuto. E questo inciderà ulteriormente sulla sua salute e sul suo atteggiamento nei confronti del sistema.
Decidere in favore o meno di una sanità penitenziaria specifica rappresenta forse un falso problema. Probabilmente sarebbe opportuno analizzare tutti i fattori che intervengono dal momento della diagnosi a quello della terapia e della


Pag. 14

risoluzione del problema e quali sono gli elementi che incidano sulla effettiva capacità di prestare cure sanitarie all'interno delle carceri.
L'onorevole Valpiana ha chiesto se noi, come direttori di istituti penitenziari, abbiamo le mani legate. Sono molte le possibili risposte a questa domanda; e tutte concrete. Anzitutto vi è un problema di razionalizzazione del sistema. È chiaro che un soggetto detenuto è maggiormente disposto ad addebitare particolari responsabilità al proprio terapista o al proprio amministratore. In effetti, negli istituti penitenziari esiste una forte contrapposizione tra questi soggetti e ciò comporta che, in alcune circostanze, sulla base del timore della propria responsabilità si dia origine ad una vera e propria inflazione terapeutica e ad una eccessiva richiesta di accertamenti, con immaginabili conseguenze economiche. Il problema che maggiormente si evidenzia, in realtà, è proprio la difficoltà nel reperire le risorse necessarie; prima individuiamo queste risorse, e poi decideremo dove collocarle!
La questione delle tariffe, degli stipendi, poi, non è certo ininfluente in un'ottica sistemica. In genere, soprattutto nelle professioni infermieristiche e mediche (specialistiche in particolare), è ovvio che i più bravi si fanno pagare di più. E chi accetta un incarico di questo genere, può anche farlo in relazione ad una sua impossibilità di ottenere introiti di altro tipo, anche se non è sempre così: personalmente conosco casi di alcuni colleghi, medici e infermieri, che non svolgono questa attività solo per denaro ma anche perché lavorare in carcere da un punto di vista personale e professionale è quanto meno interessante. Si lavora in un contesto diverso da qualunque altro; però questo è un altro argomento. Quindi, se ci si pone nell'ottica di ricercare un migliore equilibrio della sanità, a mio avviso dobbiamo ragionare sugli elementi da me evidenziati.

PRESIDENTE. Vi ringrazio per le vostre esaurienti risposte, per quanto lo possano essere in un ambito come questo. Sicuramente la vostra esperienza sarà di aiuto per tutti noi. Come ha ricordato l'onorevole Valpiana, i direttori degli istituti penitenziari sono coloro che, più di altri, hanno contezza della reale situazione nelle carceri e sono in grado di esporre le esigenze di tutti, non solo di medici o detenuti. Per parte nostra abbiamo ascoltato tutti, rappresentanti di categoria dei medici e...

TIZIANA VALPIANA. Dei detenuti non ancora!

PRESIDENTE. Lo faremo, anche se è difficile farlo in questa sede... abbiamo però già incontrato i rappresentanti di associazioni interessate. L'odierna audizione ci consente di valutare la situazione del settore penitenziario dal punto di vista centrale dei direttori degli istituti di pena; è chiaro che sia i medici sia i detenuti difendono il proprio settore. Ricordo, comunque, che sono state presentate alcune proposte di legge in materia, di cui una a firma dell'onorevole Mario Pepe.
Ritengo che l'obiettivo principale da perseguire in questo ambito sia un'integrazione tra Servizio sanitario nazionale e medicina penitenziaria. Non credo sia possibile affidare l'assistenza sanitaria negli istituti penitenziari esclusivamente ad un solo settore, sia esso il Servizio sanitario nazionale o un servizio penitenziario specialistico. Inoltre, anche dal punto di vista economico è necessaria un'integrazione quanto più efficace possibile. L'assistenza sanitaria è un compito difficile già per il solo Servizio sanitario nazionale; come pensiamo che se ne possa occupare la sanità penitenziaria da sola? Determinate attrezzature, che oggi costano moltissimo, non sono acquistabili se non a fronte di una integrazione fra i vari servizi. È necessario trovare il giusto equilibrio tra i vari settori per conseguire un reale miglioramento di queste attività.

GIACOMO BAIAMONTE. Signor presidente, vorrei brevemente contribuire ricordando una mia esperienza personale. Ho conosciuto il professor Giglio, che


Pag. 15

prestava la sua opera presso il carcere dell'Ucciardone di Palermo; costui era stimato e apprezzato, sia dai direttori sia dai detenuti. Ebbene, quando decise di lasciare l'incarico egli venne vivamente pregato di proseguire la sua opera e accettò. Evidentemente riteneva che fosse personalmente gratificante prestare la propria opera in un carcere, anche gratuitamente...

CARMELO CANTONE, Direttore della casa circondariale «Rebibbia Nuovo complesso» di Roma. Si occupava di medicina specialistica?

GIACOMO BAIAMONTE. Sì.

MARIO PEPE. Signor presidente, credo sia giunto il momento di incardinare nel calendario dei lavori della Commissione la discussione sui provvedimenti in materia. Sono mesi che stiamo svolgendo queste audizioni ed ormai conosciamo benissimo i vari problemi, anche per aver partecipato a diversi convegni. Attualmente vi è un vuoto nella sanità penitenziaria. In effetti, i medici penitenziari vivono in una sorta di limbo, di incertezza che si ripercuote anche sulla serenità del loro lavoro. Non c'è certezza per il futuro e spetta, quindi, alla politica fornire delle sicurezze in questo settore, in qualsiasi modo!
È importante che la Camera del deputati esamini questo problema. A mio avviso possiamo ascoltare i rappresentanti anche di altre associazioni; è, però, necessario calendarizzare l'esame delle varie proposte di legge in materia ed avviarne la discussione generale. Altrimenti questa riforma tornerà in mano all'Ulivo, che ha già combinato dei guasti (Commenti). Abbiamo visto la sperimentazione cosa ha comportato (Commenti).

PRESIDENTE. Colleghi, per cortesia.

KATIA ZANOTTI. Signor presidente, vorrei replicare...

PRESIDENTE. Colleghi, vi prego, non è un problema che riguarda né i nostri ospiti né l'ordine del giorno della seduta odierna. Affronteremo tali tematiche nelle sedi opportune, come l'ufficio di presidenza.
Ringrazio gli auditi per il loro utile contributo ai nostri lavori e dichiaro conclusa l'audizione.

La seduta termina alle 15,30.