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I COMMISSIONE
AFFARI COSTITUZIONALI, DELLA PRESIDENZA DEL CONSIGLIO E INTERNI

INDAGINE CONOSCITIVA


Seduta di marted́ 29 gennaio 2002


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La seduta comincia alle 9.40.

(La Commissione approva il processo verbale della seduta precedente).

Sulla pubblicità dei lavori.

PRESIDENTE. Avverto che, se non vi sono obiezioni, la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso impianti audiovisivi a circuito chiuso.
(Così rimane stabilito).

Audizione del professor Marco Cammelli, ordinario di diritto amministrativo presso la facoltà di giurisprudenza dell'università di Bologna.

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sulle problematiche inerenti la disciplina per la risoluzione del conflitto di interesse, l'audizione del professor Marco Cammelli che, a nome della Commissione, saluto e ringrazio per aver accolto il nostro invito.
Nel dare subito la parola al professore per lo svolgimento della sua relazione, colgo l'occasione per ricordare al nostro ospite che, dopo il suo intervento, i colleghi potranno porre delle domande o formulare eventuali osservazioni, alle quali il professore potrà rispondere in questa sede ovvero riservarsi di produrre, successivamente, uno scritto ad integrazione della sua relazione odierna.

MARCO CAMMELLI, Ordinario di diritto amministrativo presso la facoltà di giurisprudenza dell'università di Bologna. Vorrei partire da una breve premessa e da alcune precisazioni che mi sembrano importanti, mentre mi soffermerò in un secondo momento su una parte forse un po' noiosa, ma comunque necessaria all'analisi di tutti i progetti di legge, con riferimento agli indicatori più importanti: l'accezione di conflitto, il tipo di autorità immaginata, il procedimento e gli effetti. Si tratta di una analisi ravvicinata e forse in parte anche un po' pesante, ma credo che nella logica dell'odierna audizione rientri anche un aiuto di tipo più strettamente tecnico. Mi soffermerò, infine, su alcune opzioni di fondo, che emergono dai progetti di legge e che richiedono alcune valutazioni.
La premessa che vorrei fare è che la disciplina di cui ci occupiamo persegue il corretto funzionamento del sistema pubblico, della correlazione fra le azioni del sistema pubblico e le finalità pubbliche ad esse assegnate. Ciò non significa che soltanto la disciplina del conflitto di interessi sia funzionale a questa correlazione, potendo infatti molti altri strumenti avere effetti indiretti positivi nei confronti del presidio di questa correlazione, ma si tratta appunto di strumenti che agiscono in via indiretta. Mi spiego meglio: un dato, a mio avviso, molto interessante che il parere del professor Caianiello ha indicato è che una buona disciplina della concorrenza e una buona capacità di valutare gli aiuti alle imprese, nel senso di una verifica della parità fra questi soggetti è, ad esempio, un aspetto che sotto questo profilo aiuta a garantire che da parte del pubblico non avvengano turbative di questa parità; ma naturalmente questo è un altro versante, si tratta per così dire di cerchi che solo in parte possono sovrapporsi, avere


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cioè effetti simili o convergenti, ma che concettualmente, ed anche positivamente, sono diversi.
In tal senso credo che non ci si possa interamente, o prevalentemente, appoggiare ad aspetti di tipo indiretto; il corretto funzionamento del sistema pubblico cioè deve avere, in primo luogo, una disciplina pubblicistica che risolve in via diretta il problema.
Alcune evidenti differenze di questi aspetti si possono, ad esempio, vedere in un provvedimento generale che attribuisca privilegi a tutte le imprese di una categoria: questa misura può essere impropria rispetto al sistema pubblico, perché distorcente, lontana o deviante rispetto ai fini pubblici, mentre non è percepita dalle imprese perché, avendo riguardato tutte le imprese nello stesso modo, non pone problemi di differenza fra i soggetti operanti nella stessa categoria. Si tratta, dunque, di sistemi diversi, che solo in parte possono convergere, ma che per altri versi lasciano aperto il discorso.
Premesso ciò, vorrei ora richiamare alcuni altri aspetti. L'oggetto del conflitto di interessi, nel sistema pubblico, non è soltanto l'utilizzazione di un potere a fini, per così dire, egoistici o comunque collegati all'aspetto privato e individuale del titolare (che comunque è la parte più consistente in tutti gli ordinamenti). Vi è, infatti, un secondo profilo, importante e tradizionale nel nostro ordinamento, che credo sia giusto richiamare: è il problema del rispetto dei ruoli, cioè non un rapporto fra atti o volontà che si incrociano, bensì il rispetto dei ruoli assegnati ad un soggetto dalla situazione di fatto o dal sistema, nel senso che ruoli diversi presuppongono una diversità e richiedono su questo l'assenza di confusioni. Ciò può avvenire non solo nel rapporto pubblico-privato, ma anche nel rapporto pubblico-pubblico; infatti molte delle incompatibilità esistenti sono semplicemente rispetto di funzioni pubbliche distinte, che non debbono essere confuse. Ad esempio, l'articolo 10 del testo unico delle leggi recanti norme per la elezione della Camera dei deputati, approvato con decreto del Presidente della Repubblica n. 361 del 30 marzo 1957, individua alcuni conflitti di ruolo e non di attività. Il fatto che lo Stato garante e l'impresa garantita, o anche lo Stato regolatore e l'impresa regolata, siano fattispecie incompatibili non riguarda un'azione o una attività, bensì riguarda, prima ancora, un ruolo e una posizione. Ciò è importante perché ci dice che il conflitto può nascere non solo da atti o da attività, ma anche da posizioni o situazioni, anche statiche.
Il bene tutelato, inoltre, è certamente il corretto funzionamento del sistema pubblico, in tutti i suoi vari aspetti (compresi anche i pesi e i contrappesi del sistema pubblico), ma vi sono anche aspetti che riguardano le apparenze; le incompatibilità sui ruoli distinti riguardano anche un bene diverso che è quello della valutazione più chiara e netta di «chi fa che cosa», quando le funzioni sono tra loro distinte.
A fronte di queste finalità, l'ordinamento predispone una serie di strumenti: alcuni sono particolarmente pesanti, legati prevalentemente al ruolo svolto, e debbono essere disciplinati con legge, in quanto sottoposti a riserva di legge: essi sono insuperabili (nel caso dell'ineleggibilità) o seccamente alternativi (nel caso di incompatibilità) e sia l'uno sia l'altro vanno rigorosamente disciplinati da una legge ordinaria, essendo sottoposti a riserva di legge.
Vi è invece un altro cerchio di conflitti, ritenuti non potenziali ma attuali, che sono soddisfatti ed affrontati con l'obbligo di astensione ed anche con quella zona grigia dei doveri di correttezza, legati ad aspetti etici, ad atti di comportamento e così via.
I primi, quindi, sono strettamente legati al ruolo e sono disciplinati da legge e in quanto tali debbono essere predeterminati (è quindi richiesto un dato preliminare preventivo rilevante), mentre gli altri sono, o possono essere, affidati a fonti normative diverse, anche più semplici, di tipo interno o amministrativo (o anche a delle regolazioni morbide, come si dice tipicamente dei codici etici) e possono essere ex post,


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nascere cioè dall'esperienza concreta e producono effetti evidentemente di tipo diverso.
Questi strumenti pesanti e leggeri forse vanno tenuti ben separati, perché corrispondono ad esigenze pesanti e leggere, fornendo quindi una risposta differente. Se incrociassimo gli aspetti e utilizzassimo, per la soluzione di un problema pesante, un strumento leggero, evidentemente sforzeremmo lo strumento leggero e rischieremmo di avere qualche problema.
Vorrei richiamare anche il fatto che, ovviamente, non c'è soltanto un'accezione pubblicistica del conflitto di interessi. Ce n'è, infatti, una di tipo civilistico, legata al diritto dell'impresa, così come c'è un'accezione penalistica. Mi soffermo su quest'ultima, perché ho l'impressione che sarebbe un errore disciplinare questa materia senza avere la piena consapevolezza che vi è tutto un versante penalistico che su tali aspetti ha costruito e costruisce molto, avendo proprie interpretazioni che vanno forse percepite e considerate in modo da fare scelte consapevoli.
In particolare vorrei ricordare che nel diritto societario, e in tutto il diritto degli Stati Uniti in tema societario, non è sufficiente il conflitto, nel senso che esso non ha rilievo in quanto tale. Esso deve essere invece associato ad un risultato, ci vuole cioè un danno. In tutta l'area societaria è il danno a rendere rilevante il conflitto; ciò non vuol dire che il conflitto non ci sia, ma che non è rilevante, perché quello che conta in un'impresa è che il conflitto produca reddito; se non c'è stato vulnus sul piano della produzione del reddito, il rilievo non c'è.
Pertanto questo è un aspetto particolarmente leggero, per così dire, del conflitto. Per il diritto penale vi è, invece, un'accezione di conflitto di interessi legato ai reati contro la pubblica amministrazione che è molto più pesante. Nel senso, cioè, che nei reati contro la pubblica amministrazione si dice che l'accezione seguita è quella cosiddetta formale, nel senso che ciò che conta è il comportamento e che questo comportamento (ovvero la violazione del dovere di rispetto dell'interesse pubblico) avviene non soltanto per la sussistenza del conflitto, ma anche quando l'interesse privato si affianca a quello pubblico senza danneggiarlo. Cioè l'interesse pubblico è interamente soddisfatto, ma di fianco a questo vi è anche un interesse privato.
La visione formale del conflitto d'interessi per il giudice penale è dunque particolarmente severa. Mi sembra che il dato prevalente sia il bene tutelato (non sono penalista e quindi ciò dovrebbe essere più puntualmente verificato), ma direi che la dottrina e la giurisprudenza prevalenti indicano in questo affiancamento un dato improprio che viola la esclusività della dedizione all'interesse pubblico. Dunque, poiché si è tenuti all'esclusività dell'interesse pubblico, non è possibile neppure affiancare ad esso un'attività privata: è un tipico esempio in cui viene tutelata la visibilità all'esterno, vale a dire la possibilità per il terzo e per il cittadino di distinguere i due elementi.
Come forse lei si ricorderà, signor presidente, questo dato viene ormai colpito non già con l'interesse privato in atti d'ufficio (che è stato soppresso), ma con un'utilizzazione dell'articolo del codice penale relativo all'abuso d'ufficio sotto il profilo del mancato rispetto dell'obbligo di astensione. Richiamo tale istituto perché qui ritroviamo esattamente una parte di quel dovere di astensione che, dunque, sotto questo profilo presenta un risvolto importante.
Aggiungerei anche che il muoversi nell'esclusività dell'interesse è un dato così rilevante che un provvedimento recente ne fa una fattispecie di conflitto di interessi estrema nell'ambito societario: parlo del decreto legislativo n. 231 del 2001 sulla responsabilità amministrativa delle società e degli enti, che all'articolo 5, comma 2, stabilisce che l'amministratore che ha agito nell'interesse esclusivo proprio o di terzi pone in essere una condotta non riferibile alla società di cui è amministratore. Quindi, l'esclusività è un punto di tale rilievo da avere, da un lato, quella protezione penalistica che richiamavo prima e dall'altro, se sviata, da interrompere


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la relazione di imputazione fra soggetto ed ente rappresentato dal soggetto. Si tratta precisazioni di un certo rilievo che credo possano essere di qualche utilità se considerate nei lavori della Commissione.
Naturalmente, ho affrontato l'argomento cercando di rispondere a due domande. In primo luogo, i problemi nuovi: le nuove forme di organizzazione di impresa del capitale finanziario ed i problemi delle imprese del settore da comunicazione stanno dentro questo sistema? Il sistema che ho richiamato è il sistema vigente, dunque immagino che prima di qualunque legge si ponga il problema di sapere se il sistema vigente dia una risposta, e in quale misura, al problema in esame, posto che siamo tutti d'accordo sul fatto che esistono troppe leggi e che spesso, per risolvere un problema, se ne creano altri. Pertanto, la prima domanda che mi sembra ragionevole porsi è in quale misura il sistema, così come richiamato, risponda al problema ed in quale lo lasci fuori.
La seconda domanda che occorre porsi è in quale misura il problema pubblico si risolva solo dal lato pubblico. Riprendo il quesito che il presidente Caianiello poneva e dal quale mi sembra di capire che, anche se indirettamente, un sistema funzionante di concorrenza tra imprese e la sua tutela dia sicuramente utilità anche su questo versante. Tuttavia, si tratta pur sempre di una risposta indiretta. Infatti, esiste un serio problema di diversità: il provvedimento generale a favore di tutte non rileva per la concorrenza, ma rileva invece per lo sviamento dell'interesse pubblico (se questo c'è); lo stesso concetto di impresa dominante è un concetto rilevante per la concorrenza mentre non è detto che lo sia per il conflitto di interessi. Dunque, come dicevo, sono «cerchi» che solo in parte possono fornire una risposta.
A tali domande provo a rispondere con un'analisi dei progetti di legge nel loro insieme. Questa è la parte un po' analitica - di cui mi scuso -, ma per i lavori della Commissione può essere utile uno sguardo su alcuni indicatori. Al riguardo, ho cercato di prendere in esame l'ambito soggettivo, la definizione del conflitto, l'oggetto, l'autorità e il procedimento per vedere come era risolto nei vari progetti di legge, anche se, naturalmente, vi è un aspetto d'insieme.
Vi sono forti oscillazioni nei progetti di legge presentati che in parte sono dovute alle diversità delle ipotesi di fondo (e quindi sono evidenti), in parte riguardano invece aspetti forse meno considerevoli sul piano strettamente politico, ma rilevanti dal punto di vista tecnico-giuridico. Quindi, forse è bene richiamarle affinché la Commissione, nei suoi lavori, possa esserne avvertita.
Per quanto riguarda il primo punto, inerente all'ambito soggettivo, solamente il disegno di legge del Governo e la proposta di legge Bertinotti hanno un'estensione enorme dei soggetti, perché, ad esempio, quest'ultima arriva sino agli assessori degli enti locali (è quindi molto ampia), mentre la maggior parte dei progetti di legge si limita soltanto ai membri del Governo. Tale oscillazione ha una serie di conseguenze importanti perché in primo luogo presenta un problema di riflesso sulle fonti. In tal senso, vorrei segnalare un problema relativo al sistema delle autonomie locali: infatti, concluderò le mie considerazioni richiamando l'attenzione della Commissione sul fatto che se oggi esiste un problema al centro dell'attenzione del Parlamento, esiste giustamente un problema anche sul sistema locale, che è molto maggiore di quanto si percepisca normalmente e che forse merita qualche considerazione.
Come dicevo, esiste un problema sulle fonti: non tutto ciò che riguarda il sistema regionale locale può essere oggetto di una legge del Parlamento dopo la riforma del titolo V della Costituzione. In secondo luogo, esiste il problema della struttura dell'autorità: è evidente come una autorità che si deve occupare di un arco di elementi così vasto abbia bisogno di una struttura seria e sostenuta sul piano organizzativo; infine, allargando l'ambito soggettivo ci si trova in un sistema difficile da gestire perché una serie di soggetti godono dell'immunità parlamentare ed altri


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no; dunque, la stessa azione fatta in ambienti diversi (parlo del sistema regionale e locale) dà evidentemente «suoni» diversi. Tale aspetto va considerato, perché vedremo che questa è un'implicazione rilevante sul piano processuale e dunque pone qualche interrogativo.
Per quanto riguarda la definizione del conflitto, esistono accezioni molto «secche» che non si occupano neppure del problema della astensione: infatti, i progetti di legge degli onorevoli Soda, Bertinotti e Rutelli non si occupano di tale problema, ma affrontano direttamente il sistema delle incompatibilità. Nel disegno di legge del Governo e nella proposta di legge Bressa, invece, tali accezioni sono più ampie, anche se, per quanto riguarda il disegno di legge governativo, registro alcuni scostamenti ed asimmetrie nella definizione del conflitto di interessi che forse vale la pena di sorvegliare con attenzione. È vero che sono riferite ad attività diverse dell'autorità (alcune sono di vigilanza), tuttavia all'articolo 3, primo comma, il conflitto è definito come «atto con incidenza specifica sul patrimonio».
Più avanti, all'articolo 6, primo comma, il conflitto di interessi è definito invece come «atti volti a favorire l'interesse proprio in contrasto con interesse pubblico»: in questo caso, l'accezione è già significativamente diversa. Infine, all'articolo 7, primo comma, è «un trattamento privilegiato in danno del pubblico interesse». Ora, vorrei chiarire che è vero che si tratta di fattispecie anche leggermente diverse, perché sono azioni dell'autorità graduate in modo diverso, tuttavia ho l'impressione che queste oscillazioni sulla definizione del conflitto siano motivo di enorme confusione nell'applicazione: ciò di fatto, metterà in grave difficoltà.
Per quanto attiene all'oggetto, vorrei segnalare che si tratta per lo più di atti. Salvo la proposta di legge Bressa, particolarmente ampia, che parla di «ogni atto idoneo ad influenzare...» (si tratta di un'affermazione molto ellittica), le proposte Rutelli e Soda risolvono tutto direttamente nell'incompatibilità e quindi non si pongono tale problema. Pertanto, per i progetti che intraprendono la strada del controllo sugli atti, vorrei segnalare che vi sono dei problemi legati a diverse questioni, in particolar modo per il disegno di legge del Governo. In primo luogo, vi è tutta la parte omissiva: se il conflitto viene disciplinato appuntandolo sull'atto, certamente rimane fuori la parte in cui viene determinata una situazione di privilegio astenendosi dall'intervenire, ad esempio non adottando un provvedimento che fa cessare una situazione di privilegio di un'impresa o di una categoria di imprese. Quindi, in questo caso si tratta di un provvedimento che dovrebbe essere adottato e magari viene ritardato: l'omissione, che evidentemente non è un atto, ma che può realizzare egualmente...

FILIPPO MANCUSO. È un atto negativo comunque.

MARCO CAMMELLI, Ordinario di diritto amministrativo presso la Facoltà di giurisprudenza dell'Università di Bologna. È una definizione possibile sul piano dottrinale; per la verità, l'omissione si può concretizzare in vari modi: risponderò quando saranno formulate domande. Comunque, mi pare francamente un problema che merita in ogni caso di essere esplicitato e chiarito.
Un altro problema è quello che riguarda gli atti di governo che dovessero essere trasferiti: un disegno di legge come quello del Governo tutto incentrato sugli atti governativi deve allora fare poi i conti con le implicazioni che da questo derivano. Ad esempio, se le funzioni di governo vengono trasferite in altre sedi, le devo inseguire: al riguardo, porto il caso di una funzione affidata al Governo, sottoposta al Parlamento per l'approvazione con veste legislativa, ma che resta sostanzialmente amministrativa, quale una legge-provvedimento. Inoltre, se un domani vi fossero delle riforme istituzionali e alcune funzioni di governo fossero attribuite al Presidente della Repubblica, l'avere disciplinato il conflitto di interessi sulle funzioni di governo porterebbe ad estendere anche ad una Presidenza della Repubblica


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riformata questi dati? Ovviamente, si tratta quasi di esempi di scuola, ma sono necessari per comprendere che, nel momento in cui si orienta un progetto su una funzione e non su un soggetto, si insegue fatalmente tale funzione là dove essa si colloca.
Sempre con riferimento all'oggetto, vi è una parte comune tra i vari progetti presentati (ed è pacifico) sulle prestazioni professionali, sulle cariche e sugli uffici: mi sembra che su questo aspetto non si pongano questioni. Invece, sulla parte relativa alle questioni economiche rilevanti, ed in particolare inerente alle imprese operanti nel campo della comunicazione, rilevo che tutte le proposte intervengono in materia tranne il disegno di legge del Governo.
Per quanto concerne invece l'autorità, vale a dire i soggetti che debbono intervenire a presidio della soddisfazione e del rispetto di queste norme, due progetti di legge prevedono autorità ad hoc (il disegno di legge del Governo e la proposta di legge Rutelli), mentre per il resto mi sembra che sia la proposta dell'onorevole Bressa sia quelle presentate dall'onorevole Soda e dall'onorevole Bertinotti tendano a fornire una soluzione ordinaria, appoggiandosi cioè ad autorità esistenti ed aggiungendo o ritoccando le loro competenze.
Pertanto, credo che su questo aspetto, soprattutto per quanto riguarda i progetti di legge che prevedono l'istituzione di nuove autorità, sia opportuno cominciare a mettere a punto alcuni aspetti che nella pratica rivestiranno una certa importanza, ad esempio, che l'autorità che si costituisce abbia sicuramente la qualifica di pubblico ufficiale (perché penso che sia indubbio). In tal caso, è tenuta all'obbligo di denuncia alla magistratura penale? Questo forse è un dato di qualche rilievo per le implicazioni che ha e del quale, quindi, forse è opportuno avere almeno consapevolezza.
Negli ultimi tempi - e questo è un dato, per così dire, singolare, o quantomeno curioso - si è verificata, nel nostro ordinamento, una tendenza ad aggredire le autorità sul piano giuridico - soprattutto su quello penalistico - quali soggetti solventi, al fine di risarcire eventuali danni a categorie di consumatori rimasti sul lastrico in seguito a gravi situazioni verificatesi. Si aggrediscono, insomma, queste autorità (Consob, Isvap, e via dicendo), sotto il profilo dell'omessa denuncia di eventi di cui erano a conoscenza o per non aver impedito l'evento («tu sapevi che quella assicurazione era claudicante, non sei intervenuto e così di seguito...).
Sono tuttavia - mi chiedo - situazioni che hanno qualche rilievo? Nel momento in cui si costruisce l'autorità, per la delicatezza della missione - cioè occuparsi di organi diversi dell'ordinamento - questi punti credo debbano essere assolutamente chiariti, altrimenti un domani ci saranno amare sorprese sotto vari aspetti.
Per quanto riguarda il procedimento, desidero innanzitutto considerare l'aspetto dell'attivazione: per il Governo, questa è soltanto d'ufficio, cioè il procedimento avviene soltanto d'ufficio (ma questo anche nel progetto Rutelli, in ragione, tuttavia, dell'inversione del meccanismo, nel senso che in esso il conflitto di interessi sulle imprese rilevanti è presunto, salvo, per così dire, liberatoria da parte dell'autorità). Necessariamente non c'è un'iniziativa: è lo stesso soggetto interessato infatti che si attiva per dimostrare che valgono le esimenti, nel caso specifico. In ogni caso, a me pare che il discorso dell'attivazione sia importante.
Per quanto riguarda altri progetti - quelli degli onorevoli Bertinotti e Bressa -, essi prevedono anche la sollecitazione da parte della minoranza, mentre il progetto dell'onorevole Soda prevede addirittura il solo ricorso ad un quinto dei membri per attivare l'autorità che si occupa delle incompatibilità. Questo è un dato evidentemente importante.
Sottolineo poi il problema consistente nel sapere se questi atti siano di pura spettanza dell'autorità o ricevano stimoli esterni, nonché quale sia il ruolo della minoranza. Su questo, forse una considerazione finale andrebbe svolta. Credo che sia importante anche chiarire - ed è al secondo punto del procedimento - se


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questo sia un procedimento a contraddittorio o meno. Cioè, mi chiedo se in questo procedimento, l'autorità - o chi si occupa di ciò - proceda, per così dire, in modo solitario oppure si tratti di un procedimento che va sagomato secondo le regole del contraddittorio, con tutti gli effetti che ciò comporta.
Mi pare che alcuni progetti indichino ciò esplicitamente, in qualche modo e sono quelli degli onorevoli Bressa, Rutelli e Soda, che immaginano varie forme di dialogo. Ciò non è invece chiaro nel progetto del Governo e questo mi pare un punto da chiarire, per tutte le conseguenze anche sulla pubblicità: l'avviso, l'indicazione, anche per tutti gli effetti che si possono avere specie sul piano politico.
Sul regime processuale, accenno ad alcuni aspetti, forse meno eclatanti di altri su cui l'attenzione politica in questo momento è forte, ma destinati invece a contare molto nel funzionamento effettivo di questi istituti.
Ritengo che, salva l'ipotesi di una competenza ad hoc da parte dell'autorità giurisdizionale ordinaria - quindi una sorta di organo speciale all'interno del giudice ordinario (progetti Soda, Rutelli, e Bressa) - il problema consista nel fatto che su questo punto c'è un silenzio nel progetto del Governo. Ciò forse è spiegabile in considerazione del fatto che, poiché le misure finali del progetto del Governo non sono assunte dall'autorità ma in seguito da diversi altri soggetti, allora, in questo caso, non c'è, per così dire, necessità di indicare quanto detto.
Ritengo comunque che resti da chiarire il regime processuale degli accertamenti dichiarati. L'autorità accerta una situazione di incompatibilità e questo fa sì che poi altra autorità debba provvedere. A parte il fatto che - e parlo sempre del progetto del Governo - nella relazione si dice che vi è la possibilità di assumere una sanzione finale, bisogna altresì rilevare che nel testo si parla di «proporre». Quindi ci si riferisce ad altra autorità, non è la stessa a farlo. A me pare che anche in questo caso vi sia un importante problema di rapporto con alcuni risvolti processuali.
Il primo, è il rapporto fra questo procedimento e quello penale. Se nel frattempo si è mosso il giudice penale che succede? Prima, durante e dopo tutte le varie fattispecie (e non intendo dilungarmi oltre). Certamente si tratta di un dato importante, particolarmente per quei soggetti che non possiedono l'immunità: presidenti delle regioni, sindaci, presidenti di provincia e via dicendo. Insomma, in questo caso che succede tra i due dati? Anche perché, come sappiamo, il giudice penale può sapere di ogni questione in via incidentale. Quindi, il problema si pone.

MARCO BOATO. Rispetto all'immunità, quali sono gli aspetti che secondo lei rilevano in questa materia? In altri termini, l'immunità in senso lato non c'è più, ma vi è soltanto l'insindacabilità delle opinioni.

FILIPPO MANCUSO. Il professore parlava evidentemente di responsabilità, degli effetti delle irregolarità del comportamento, non sulla sanzione penale ma sugli effetti amministrativi.

MARCO CAMMELLI, Ordinario di diritto amministrativo presso la facoltà di giurisprudenza dell'università di Bologna. Mi pare che ci sia un problema, sempre sul piano processuale, anche per quanto riguarda la rappresentanza dello Stato in caso di conflitto. Mi chiedo, e questo vale per esempio nel caso del progetto dell'onorevole Rutelli: nel caso in cui in primo grado, per esempio, l'organo ad hoc dia ragione all'interessato, cioè escluda il conflitto pur essendo previsto l'appello, chi può promuovere quest'ultimo? L'interessato naturalmente no, perché è stato scagionato e non ne ha interesse. Quindi si tratta semmai delle istituzioni in quanto tali, le quali, nutrendo dubbi al riguardo, potrebbero farlo. A questo punto, però, il problema che si pone è quello della gestione dell'Avvocatura dello Stato, un problema delicato, perché in questa materia bisognerà immaginare chi sia in grado di sostenere le azioni delle istituzioni indipendentemente


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dal titolare. Non saprei risolvere la cosa, ma ritengo che il problema ci sia.
Le sanzioni, l'abbiamo visto, sono di vario genere e tipo. Questo è chiaro, salvo il fatto che mi sembra importante sottolineare che vi siano comunque sanzioni anche per violazione dei doveri strumentali (e ciò è indicato soltanto dal progetto dell'onorevole Bressa). Sulle sanzioni - devo dire - nutro qualche dubbio, specialmente su quelle immaginate per le imprese - quindi non sull'interessato - in caso di revoca delle concessioni ed addirittura di raffreddamento dell'impresa che non può concorrere.
Su questo aspetto esprimo qualche perplessità, nel senso che la cosa deve essere approfondita, naturalmente, ma dal punto di vista dei terzi che hanno fatto affidamento, dell'azionista di minoranza dell'impresa sanzionata a cui viene revocata la concessione od altro ed anche, infine, da quello operativo della stessa pubblica amministrazione. Pensando infatti ad un complesso progetto di realizzazione di opere pubbliche che viene interrotto, in caso di simili sanzioni alle imprese, nutro qualche dubbio, sia di tipo giuridico, sia anche di tipo organizzativo, per così dire, fattuale.
Mi sono soffermato su questi aspetti perché sono quelli che ritengo meno evidenti ad un primo esame, ma chi conosce questa materia sa bene quanto siano importanti.
Naturalmente, l'oscillazione più forte tra i vari progetti è altra e riguarda fondamentalmente due punti. Il primo è il problema consistente nel collocare, nell'ambito del problema dell'impresa, le imprese del settore della comunicazione, unificandole o stabilendo invece un regime ad hoc.
Il secondo problema riguarda l'intervenire prima o dopo. In realtà, tutta la logica del progetto del Governo consiste nell'intervenire dopo, ed ecco la dilatazione dell'astensione, poiché si interviene dopo, capillarmente, sul singolo punto e non invece, come avviene negli altri progetti, prima, mediante un regime ad hoc, e poco sul post (tant'è che negli altri progetti addirittura la sanzione manca).
Questo è il motivo per cui - immagino - non c'è previsione di astensione nel progetto Rutelli: perché si gioca sul tema delle incompatibilità. Insomma, nel primo caso è dilatata l'astensione, il conflitto viene affrontato dopo e di volta in volta, esponendosi naturalmente per questo, alle - a mio avviso giuste - osservazioni del presidente Caianello in merito al fatto che su questo punto, nel momento in cui ci si sposta sul dopo e sugli atti, si finisce per fare un'attività che fatalmente si sovrappone un po' a l'area di controllo del Parlamento sul Governo e che porta il presidente Caianiello a parlare in termini di «intruso istituzionale» (probabilmente, a ragion veduta).
Quindi, questa scelta di fondo è quella che distingue il progetto del Governo dagli altri. Questo spiega anche perché le sanzioni siano solo proposte e non irrogate (perché poi il tutto torna ad una valutazione politica da parte del Parlamento o direttamente alle autorità ordinarie indicate per compiere questi atti).
Per chi invece - e sono tutti gli altri - interviene pre, cioè prima, in termini di incompatibilità, in realtà, abbiamo una sottodistinzione: l'incompatibilità, per così dire, secca, insuperabile, l'ineleggibilità, contenuta, in particolare - se non ricordo male - nel progetto Soda, e, invece, un'incompatibilità superabile con gestione fiduciaria e forzosa che si ritrova negli altri progetti, in particolare in quello dell'onorevole Rutelli.
Quali valutazioni, di carattere istituzionale - non ne spettano a me altre - si possono fare allora su tali progetti? A me pare che si possa dire questo.
Primo: sull'astensione. Mi pare che, affidare la soluzione del problema dei conflitti sulle attività economiche più rilevanti - e particolarmente su quelle delle imprese delle comunicazioni, di cui si sia azionisti di riferimento o di cui, comunque, si abbia il controllo - appoggiandola semplicemente all'astensione - sia concettualmente un peso troppo grande su uno


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strumento troppo leggero. Nelle classificazioni iniziali, abbiamo visto che l'astensione certamente serve, ma per cose più circoscritte. Credo che, comunque lo si consideri, questo sia un problema rappresentato dai ruoli (titolarità o comunque controllo di queste imprese) e mi pare che non sia possibile dare una risposta in termini di rimedi funzionali. Si tratta di un problema «pesante» - non «leggero» - e che anche a tutela degli interessati, richiede una predeterminazione.
Oggi, si guarda a certi problemi che si pongono, ma un domani, in realtà, lo stesso interessato potrebbe trovarsi ad essere spostato su questo dato dell'astensione e quindi su un dato più rapsodico, meno tutelato in termini di predeterminazione.
L'indeterminatezza della relazione ex post, senza parametri predeterminati, è un ruolo che credo sia insieme troppo pesante e troppo insufficiente e che comunque finisce per interporsi tra esecutivo e Parlamento. Ritengo che su questo le osservazione del parere del presidente Caianiello siano fondate. Dunque il dato dell'astensione è fatto per altri problemi, ma non è in grado, a mio avviso, di affrontare quelli che si pongono.
Per la parte che riguarda la gestione fiduciaria, riprendo i progetti dal punto di vista dell'esito. Certamente ci troviamo sul campo delle incompatibilità. Certamente le regole vengono definite prima. In questo caso le regole vengono definite prima, ma il gioco si fa dopo. In realtà, qui è proprio la superabilità a giocare, nel senso che il sistema è chiaro perché si fa dopo l'elezione e, in questo, soprattutto per le attività economiche di maggior rilievo, presenta alcuni aspetti di significativa vulnerabilità. Dopo l'elezione, infatti, si opera con difficoltà. Si ha davanti il dovere di esercitare il mandato (chiunque infatti potrà giustamente evidenziare questo fatto e da ciò deriva l'ovvia resistenza a cedere i propri beni, sottolineando l'improprietà di mettere, come dire, in contrasto le due esigenze).
Dunque, mi pare che questo sia un dato di notevole vulnerabilità, si ravvisano anche problemi di identificazione dei beni di gestione fiduciaria e soprattutto, come tutta la letteratura in materia e la varia documentazione testimoniano, quando ci si allontana dal capitale immobiliare la possibilità di una gestione cieca si riduce molto. Ritengo, altresì, che le implicazioni istituzionali della creazione di una autorità e di un procedimento ad hoc creino una situazione di vulnerabilità, con l'esposizione, cioè, a ricorsi e con incertezze sull'integrazione fra questi istituti ed il resto dell'ordinamento. Pertanto, si evidenziano, a mio avviso, seri problemi al riguardo.
Lo schema dal quale siamo partiti, in realtà, è l'articolo 10 del testo unico delle leggi recanti norme per la elezione della Camera dei deputati, che fino a poco tempo fa non era mai stato contestato, pur se vi sono aspetti controversi; ritengo che la soluzione lineare, dal punto vista astratto, sia proprio quella contenuta nell'articolo 10, il quale si riferisce ad un conflitto di ruoli e non di decisioni e non a caso si occupa di regolatore e regolato, di controllore e controllato. Anche la stessa fattispecie dell'impresa con garanzie da parte dello Stato implica dei ruoli: lo Stato è garante dell'impresa e l'imprenditore è garantito. Se si ritiene fondata tale logica, allora non si deve far altro che rivedere questa fattispecie ed aggiornarla. Devo comunque sottolineare un lieve dissenso rispetto al parere del professor Caianiello: non rilevo alcuna azione emulativa verso i soggetti (in questo caso per la loro ricchezza); si tratta semplicemente della garanzia di funzioni diverse; sono ruoli diversi e quindi non vi è un problema di censo ma di ruoli distinti. Così come nei sistemi elettrici si isolano fra loro i diversi fili, il sistema istituzionale isola fra loro queste diverse funzioni al fine di evitare un corto circuito, o la verosimiglianza di un corto circuito. Questa costituisce, agli occhi del cittadino, una situazione da tutelare.
Mi pare che questo sistema escluda le decisioni pubbliche, quindi l'intervento del soggetto interessato su scelte che riguardano l'impresa. Il problema era già stato


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affrontato nel 1994 dalla Giunta per le elezioni e certamente non può essere risolto in termini di interpretazione. Si configura il dovere dell'interpretazione restrittiva: a mio avviso, non vi è dubbio che parlare di legale rappresentante voglia dire riferirsi esclusivamente ad esso. Queste clausole di ineleggibilità sono derogatorie del normale diritto di accedere ai pubblici uffici e perciò vanno interpretate in modo restrittivo: se si vuole estendere tale ipotesi, come sarebbe saggio e ragionevole nel caso specifico, anche all'azionista di riferimento, allora, va espressamente previsto. Naturalmente tale previsione, che andrebbe anche estesa ai membri non elettivi del Governo, presenta il vantaggio dell'assenza di procedimenti e di autorità speciali; inoltre l'opzione avviene prima, è libera e vi provvede l'interessato, evitando opzioni successive e per mano dell'autorità. Tra l'altro, per scienza e coscienza, debbo aggiungere che non ritengo siano presenti problemi di costituzionalità; l'articolo 51 della Costituzione prevede che la legge stabilisca i requisiti per l'accesso alle cariche elettive ed agli uffici pubblici; la legge - come nel 1957 aveva preso in considerazione le imprese concessionarie ed i legali rappresentanti - può disciplinare oggi la materia in discussione.
Colgo l'occasione per ringraziare il presidente di questa Commissione per l'opportunità di intervenire in questa sede. Nel preparare la mia relazione ho affrontato alcuni argomenti strettamente istituzionali ed altri che sono frutto delle riflessioni svolte lavorando su queste proposte.
Il primo punto da affrontare riguarda, a mio avviso, i problemi trattati dai vari progetti di legge. Ritengo che valga il vecchio principio delle soluzioni diverse per problemi diversi, nel senso che tentare di dare a questi ultimi un'unica soluzione può dar luogo a difficoltà. Ritengo inoltre che sarebbe importante distinguere tre ambiti di problemi. Il primo è quello delle imprese dell'informazione: non vedo come si possa assimilare questo argomento agli altri; si tratta di questioni diverse, che ovviamente hanno caratteristiche e valenze differenti. Vi è poi il tema del conflitto di interessi, nei suoi diversi aspetti, rispetto al quale occorre tener conto del ruolo del Governo. Infine vi è il problema del sistema degli enti locali al quale, come avevo preannunciato, ritengo sia giusto prestare attenzione.
Il problema delle imprese dell'informazione va trattato a parte perché, a mio avviso, ci troviamo in realtà al di fuori del conflitto di interesse, nel senso che per le imprese che operano nell'informazione soltanto indirettamente e successivamente si può configurare un conflitto di interessi. Il contrasto fra ruoli, fra interesse pubblico e privato, può esserci ma si rileva solo laddove si esaurisce il problema preliminare, quello del pluralismo dell'informazione e della tutela della libertà di formazione delle opinioni in generale e del controllo dell'esercizio del potere pubblico in particolare. È un principio diverso, costitutivo di ogni ordinamento democratico. L'informazione, infatti, è un modo per risolvere i conflitti di interesse; in tutti i paesi gli organismi - etici o meno, disciplinati in modo puntuale o meno - si avvalgono, nella loro opera, della libertà di informazione; l'informazione è un mezzo per risolvere il problema del conflitto in quanto permette un controllo, affiancando gli strumenti istituzionali. Nel caso che ci riguarda, invece, non è un modo per risolvere il problema ma una parte dello stesso e dunque, almeno a mio avviso, non può che prevedersi una separazione. Come ricordato anche dal professor Caianiello, vi sono principi della Corte costituzionale che richiedono una pluralità di operatori - diversi ed equivalenti - il che significa uscire dalle condizioni attuali, sia per la parte pubblica sia per quella delle imprese commerciali. Affrontato questo problema (che riguarda la struttura del sistema) si tratta poi di occuparsi di quelli ordinari: solo a quel punto si potrà verificare il singolo gestore che, detenendo una carica governativa, generi un problema di conflitto di interessi.
Il secondo, arduo tema riguarda i conflitti che nascono dalle posizioni, dai ruoli, e non dagli atti. A tale proposito, volevo solo richiamare l'attenzione sulla considerazione


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che si tratta di un aspetto che assume importanza crescente nella nostra esperienza istituzionale. L'attuale tendenza alle esternalizzazioni ed alle privatizzazioni rende il settore pubblico più un regolatore che un gestore; questa scissione fra regolazione e gestione fa sì che vedremo spesso il privato coinvolto nella gestione di cose pubbliche, alla condizione, però, che la funzione pubblica di regolazione sia perfettamente definita. Sono convinto che non riusciremo, come invece dovremmo, a privatizzare ed esternalizzare se non a condizione di elaborare una rigorosa disciplina della distinzione fra la parte pubblica intrasferibile (cioè la funzione di regolazione, che deve essere precisa e va tutelata) ed il resto, dove - quale che sia la mano, pubblica o privata - il problema riguarda la gestione. Pertanto il tema dei ruoli è destinato ad incrementare la sua rilevanza, a diventare cioè più importante di quanto non fosse nel 1957.
Infine, un breve accenno al sistema degli enti locali che si trova oggi imbrigliato in un profondissimo intreccio dovuto al trasferimento di funzioni enormi, alla polarizzazione di poteri nei confronti di autorità monocratiche come il sindaco - quindi con una funzione che definirei centripeta - ed infine alla convergenza di poteri pubblici sul comune; ciò determina un problema di pesi e contrappesi, di equilibri pubblici fra i diversi segmenti, che va valutato affinché non ci si curi solo del livello centrale, sottovalutando quanto avviene a livello regionale e soprattutto locale. Pensiamo a servizi pubblici dove il comune è contemporaneamente espressione della domanda dei cittadini, proprietario delle reti, spesso gestore del servizio, controllore e detentore della possibilità di agevolare o meno la privatizzazione delle fondazioni; c'è qualcosa che non funziona, ed ho l'impressione che questo sia veramente un punto rilevante.
Concludo sottolineando che, forse, vi sono dei piccoli accorgimenti che potrebbero risultare importanti. In particolare - è un aspetto che non ho rilevato nei vari progetti di legge - mi riferisco all'importanza di differenziare la nuova disciplina a regime su questo punto dalle soluzioni per l'immediato. Ho l'impressione che, da molti punti di vista, ivi compreso quello costituzionale, l'intervento in corso d'opera ponga problemi molto delicati; piuttosto che ritagliare un principio generale sulla situazione attuale, sarebbe molto più utile tenere nettamente distinto l'oggi (i fatti affrontati, come sempre, con regime transitorio) dal domani (il principio disciplinato in modo riconoscibile). Ritengo che, per risolvere un problema, non se ne debbano creare degli altri. È un rischio in cui si può incorrere: penso, ad esempio, alle autorità, ed in particolare all'utilizzo di quelle esistenti. Infine, il problema del rispetto delle autorità istituzionali è evidentemente fuori discussione ma nell'affrontare il tema delle istituzioni non si può non tener conto delle implicazioni del bipolarismo in atto nel nostro sistema. Poiché nel sistema bipolare «secco» il controllo spetta alla minoranza, tale funzione, anche se la si immagina speciale, nei confronti del Governo non può non basarsi anche sullo status della minoranza, in termini di poteri di attivazione del controllo e in termini di concorso nel suo esercizio. È un aspetto a mio avviso innegabile.

PRESIDENTE. Do ora la parola ai colleghi che intendano porre questioni o chiedere chiarimenti.

GIAN FRANCO ANEDDA. Desidererei che il professore chiarisse meglio un passaggio del suo intervento. Egli ha parlato di esclusività dell'interesse pubblico nell'azione di Governo e di «prevalenza».
Per quanto riguarda la esclusività, mi sembra estremamente difficile giungere ad una regolamentazione, perché qualunque attività del Governo non può essere esclusivamente rivolta all'interesse pubblico o non esplica effetti esclusivamente pubblici, in quanto colpisce degli interessi anche particolari. Allora, come si fa a trovare il discrimine? Se il Governo, ad esempio, riducesse le tasse, certamente tale riduzione produrrebbe degli effetti anche sull'attività singola dei membri del Governo.


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Allora: il concetto di esclusività mi sembra impossibile da applicare; il concetto di prevalenza come lo si identifica?

MARCO BOATO. Ringrazio il professor Cammelli per l'analiticità della sua relazione.
Su un piano squisitamente teorico vorrei, in primo luogo, capire a cosa si riferisce il professore nel distinguere i soggetti che godono di un'immunità parlamentare, rispetto a coloro che, invece, non ne godono. Vorrei capire che importanza egli attribuisca a tale questione, sapendo che ormai l'immunità parlamentare esiste - ai sensi del primo comma dell'articolo 68 della Costituzione - soltanto per le opinioni e i voti espressi, non esistendo altra forma di immunità dopo la revisione costituzionale del 1993; semmai esiste l'autorizzazione a procedere all'arresto prima della sentenza definitiva, perché se c'è una sentenza definitiva, anche in quel caso non è prevista alcuna autorizzazione.
Con riferimento a quanto da lei detto sulla necessità di individuare soluzioni diverse per problemi diversi, mentre mi è chiara l'ipotesi che lei suggerisce per quanto riguarda il conflitto di interesse vero e proprio, non lo è altrettanto la questione che riguarda le imprese dell'informazione, che sappiamo essere uno degli argomenti più rilevanti con riferimento alla situazione attuale.
In relazione a tale aspetto, proprio perché lei ha parlato di soluzioni diverse per problemi diversi, mi chiedevo quale fosse la sua ipotesi.
Mi sembra, inoltre, di aver capito che lei abbia detto che la soluzione più lineare sarebbe quella di estendere il modello di cui all'articolo 10 del testo unico del 1957, dirigendosi quindi sul terreno delle ineleggibilità o delle incompatibilità, che permettono poi delle scelte (e non delle cessioni forzate) sul tipo di attività da intraprendere, quella politica o quella economica, o se lasciare l'una per intraprendere l'altra.
Lei ha, poi, sollevato la questione del regime transitorio, sulla cui possibilità abbiamo ascoltato anche ieri il professor Angiolini, mentre, per altri aspetti, sia il professor Cheli sia il professor Cassese hanno espresso su di esso delle perplessità. La soluzione che lei ipotizza come la più lineare dovrebbe poi andare a regime per qualunque cittadino che aspiri a certe cariche.
Dal momento che operiamo in una situazione in cui c'è un conflitto di interessi, per dichiarazione stessa di chi ne è parte - tanto è vero che se ne è discusso in occasione di propaganda elettorale, se ne è parlato nel 1994 e si sono consultati dei «saggi» -, il problema non riguarda tanto il riconoscimento dell'esistenza del conflitto, quanto il modo in cui affrontarlo.
Nel corso delle audizioni svolte in questa indagine conoscitiva, l'ipotesi del regime transitorio sembrerebbe aver trovato favore in alcuni casi e sfavore in altri. Le chiederei, pertanto, di approfondire questo aspetto, di grandissima rilevanza per la materia che stiamo affrontando.

GIANCLAUDIO BRESSA. Premesso che per brevità non intendo ripetere quanto ha appena detto il collega Boato, essendo anch'io molto interessato a conoscere il suo pensiero in relazione a questa fase transitoria, vorrei invece approfittare per ringraziarla, perché nella sua relazione ha reso molto evidente come, aldilà delle grandi questioni di sistema, cioè di approccio al problema della soluzione del conflitto di interesse, esistono alcuni aspetti cosiddetti minori, ma che sono di grandissimo significato e peso per la soluzione dello stesso, per cui è molto opportuno riflettere in modo puntuale sulle sue osservazioni.
Con riferimento alla opportunità di scegliere soluzioni diverse per problemi diversi, sulla questione conflitto di interessi e ruolo del Governo, proprio per la valutazione che lei fa (il fatto cioè che il conflitto nascente da posizioni aumenterà), vorrei capire se lei intende ragionare entro i termini dello schema dell'articolo 10 del testo unico del 1957 - e quindi con una definizione puntuale di quali sono le


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posizioni suscettibili (per definizione) di conflitto di interesse - oppure ritiene che questo debba essere oggetto di una definizione caso per caso. Faccio un esempio per spiegarmi meglio: l'ipotesi di gestione di attività di impresa su concessione dello Stato a me pare evidente che rappresenti un conflitto di interesse in sé e quindi non sia suscettibile di grandi interpretazioni. Oltre a questa ipotesi ce ne sono altre, oppure lei ritiene che anche essa sia suscettibile di valutazione caso per caso?
Faccio un ulteriore esempio: se mi candidassi a fare il Presidente del Consiglio dei ministri, una concessione datami dallo Stato evidentemente rileverebbe; se mi candidassi, invece, a fare il presidente della regione Lombardia una concessione datami dallo Stato per la gestione dell'acquedotto pugliese evidentemente non rileverebbe.
Le chiedo, pertanto, se lei propende per una definizione puntuale e definitiva una tantum, dal momento che prima lei parlava di opportunità di consentire - e sono d'accordo con lei - solo interpretazioni restrittive, di quelle situazioni di conflitto che derivano dallo schema dell'articolo 10, eventualmente adeguandole, perché la situazione si è certamente evoluta dagli anni cinquanta ad oggi.
Vorrei, quindi, capire se lei pensava ad una definizione puntuale o se prevedeva invece anche la possibilità di valutare caso per caso; in questa ipotesi, quale sarebbe l'autorità titolare di questa funzione? Un'autorità a sé stante o altre?

SERGIO SABATTINI. Vorrei ringraziare anch'io il professor Cammelli per la sua relazione, e poiché condivido l'impianto complessivo del suo ragionamento, vorrei soffermarmi solo su alcuni aspetti.
Da quasi tutti i progetti di legge rileva il tema dell'accorpamento della questione del conflitto di interesse a livello del Governo nazionale e dei sistemi locali. Personalmente ritengo non sia utile questa sovrapposizione per due ragioni. Una di queste, come è stato ricordato dal professor Cammelli, si ricollega al nuovo Titolo V della seconda parte della Costituzione; dovremmo pertanto intervenire su quella parte infrangendo così il principio di affidamento delle questioni direttamente alle regioni. L'altro motivo è inerente al fatto che forse è necessario - questa è la mia opinione, ma vorrei sentire anche quella del professore - rivedere tutto il sistema a livello degli enti locali.
Al riguardo, vorrei però un suggerimento concreto: una normativa che sovrapponga il livello nazionale a quello locale appesantisce o meno il sistema?
L'altra questione riguarda l'opzione dell'ineleggibilità, cioè l'articolo 10 del testo unico del 1957. Chiedo se sia sufficiente un suo aggiornamento o se sia necessario, invece, qualcosa di più.
Nel testo unico relativo agli enti locali è prevista un'ineleggibilità assolutamente radicale per alcune cariche o funzioni, addirittura per conflitto di interesse (penso ad esempio ai presidenti delle società per azioni controllate dagli enti locali o ai membri dei consigli di amministrazione, che sono ineleggibili). In quel caso una disciplina, ancorché da aggiornare, è comunque prevista.
Chiedo quindi al professore se sia questo il modello. È, quindi, maggiormente consigliabile un'individuazione di conflitto regolata direttamente dalla legge antecedente alle elezioni attraverso l'ineleggibilità? In questo caso il professor Cammelli prevede eventuali ulteriori complicazioni che possano in qualche misura essere impugnate dal soggetto interessato o invece questa strada può essere la più semplice? Mi sembra di aver capito, da quanto detto dal professore, che in questo modo il soggetto interessato è più libero, rispetto ad un meccanismo come quello dell'ineleggibilità (che è più radicale), di muoversi come meglio crede: se vuole cioè rientrare nella normativa o meno. Questo ragionamento convince anche me, perché mi pare quello formalmente e politicamente più corretto.
Basarsi sull'articolo 10 del testo unico del 1957 può prevedere complicazioni ulteriori o è sufficiente individuare una casistica che produca ineleggibilità?


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Poiché ritengo sia utile ragionare sulle contraddizioni tra funzioni e ruoli, e non caso per caso, la questione che mi pongo è come sia possibile individuare una norma che sia il più possibile equa, costituzionalmente forte e che risponda alle finalità proposte. Mi chiedo quindi se non vi sia anche su questo versante qualche problema che dovremo esaminare.

PRESIDENTE. Ringrazio i colleghi che sono intervenuti nel dibattito.
Do ora la parola al professor Cammelli per la replica.

MARCO CAMMELLI, Ordinario di diritto amministrativo presso la facoltà di giurisprudenza dell'università di Bologna. Signor presidente, non risponderò direttamente ad una domanda (credo sia quella dell'onorevole Boato) perché voglio approfondire gli aspetti processuali su un termine obsoleto, cui facevo riferimento, quale quello dell'immunità. Del resto, sono state segnalate questioni processuali che adesso richiamerò e che intendo precisare in modo più puntuale nell'integrazione che invierò alla Commissione.
Vengo rapidamente al cuore dei problemi che mi sono stati sottoposti. Per quanto riguarda le imprese operanti nel campo dell'informazione, personalmente ritengo che per quanto concerne il tema degli operatori diversi ed uguali, le indicazioni della Corte costituzionale (peraltro chiarissime e sulle quali non c'è assolutamente nulla da aggiungere) configurino un sistema di eguali e diversi che competono e che realizzano il pluralismo dell'informazione, elemento essenziale per risolvere il problema dei conflitti, perché garantisce il controllo più capillare e meglio funzionante. In una situazione come quella attuale, profondamente diversa dagli ammaestramenti della Corte, si può dire solamente che questo settore va riportato a quel livello, nel senso che vi dovrebbe essere una pluralità di gestori con singole concessioni per permettere il pluralismo dell'informazione.
Siccome si tratta di cose che insieme stanno e probabilmente insieme dovrebbero cadere (almeno nel nostro sistema), è possibile immaginare dunque che il duopolio attuale si «spezzetti» in una serie di diversi gestori. Certo, nella situazione attuale sembra di parlare del libro dei sogni, tuttavia credo che ciò corrisponda a quanto ci è stato indicato dalla Corte costituzionale interpretando le esigenze di pluralismo dell'informazione. Qualora questo avvenisse, è certo che, a questo punto, il problema del singolo gestore diventerebbe un problema abbordabile. Oggi, invece, ci troviamo di fronte ad una situazione «fuori taglia».
Quindi, si tratta di un tema che va ricondotto nei termini giusti e separato dal resto: ripeto che non si tratta di un conflitto di interessi: è un problema di struttura del sistema democratico e della formazione delle opinioni. Certamente, esso ha delle implicazioni, ma che rappresentano però un aspetto tutto sommato secondario.
Per quanto riguarda il potere locale, vorrei osservare come il quadro dei ruoli sia profondamente sconvolto dalla costruzione del sistema delle autonomie locali: infatti, non vi è stato soltanto un decentramento verso la periferia, ma anche una dinamica centripeta dai sistemi pubblici operanti a livello locale all'ente territoriale ed un'ulteriore dinamica centripeta dall'ente locale territoriale al sindaco: ciò pone dei problemi. Quindi, credo che la logica dei ruoli vada interamente ripensata, perché si tratta di una catena di produzione a parte: occorre mettersi con la «cassetta degli attrezzi» a ragionare su questo, sapendo però che così le cose non vanno. Penso, ad esempio, alla modifica della disciplina sulle fondazioni; al riguardo, rischiamo di avere circuiti locali (non importa di quale colore) «sigillati», per così dire, dove non si esce, non si entra e dove davvero si possono porre problemi delicati, che oggi non vediamo. Non ho proposte, perché in questo caso il problema esce dalla logica ordinaria e dunque va immaginato in una logica diversa che riproponga pesi e contrappesi: anche nell'ambito pubblico, così come in quello privato, occorre che vi sia chi


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controlla e chi è controllato, perché se si mette tutto insieme, qualcosa non funzionerà.
Per quanto riguarda gli altri aspetti, a mio avviso la soluzione dell'ineleggibilità, che sembra quella più pesante, è anche quella più chiara, perché fa cadere una serie di difficoltà. Naturalmente, questo presuppone un regime transitorio, che non venga applicato immediatamente a chi è stato candidato ed è stato eletto in certe condizioni, quindi senza modificare in corso d'opera queste regole: mi sembra un principio dell'ordinamento giuridico che ritengo importante tutelare. Al riguardo, quale potrebbe essere un regime transitorio? Qualsiasi cosa, anche a costo di dire che nei prossimi due o tre anni si immaginano soltanto forme particolari di pubblicità per garantire un controllo particolarmente attento da parte dell'opinione pubblica; tuttavia, con le prossime elezioni, queste sono le regole e queste le alternative che si aprono. Personalmente ritengo preferibile anche solo questo, piuttosto che estrapolare un principio per adattarlo alla situazione attuale. In questo modo non risolviamo il problema attuale: è un punto di cui sono profondamente convinto.
Per quanto attiene al conflitto di interessi (il cerchio del conflitto in quanto tale, quindi né le imprese di informazione, né la parte locale), esso si articola in due filoni. Il primo è costituito dal conflitto insanabile della ineleggibilità, per cui è necessaria una puntuale previsione legislativa. Non vi sono alternative, perché si dispone di diritti importanti e quindi sottoposti a riserva di legge; del resto, il sistema muta e di conseguenza muterà anche la legislazione: vuol dire che verrà aggiornata ogni due anni! Dall'altro lato, invece, esiste un cerchio più «morbido», non predeterminato: il comportamento corretto, lo stile, l'educazione istituzionale, il codice etico. Il conflitto relativo al singolo atto, da cui è meglio astenersi o è doveroso astenersi (non dimentichiamo che in questa materia sussiste anche la competenza del giudice penale) non è un dato predeterminato, ma è frutto di indicazioni: dall'analisi di questi anni possiamo dire che prevalentemente questi sono i dati. Del resto, è il modo con cui operano gli organismi di altri paesi, come ad esempio l'Office of government ethics, la cui funzione è quella di raccogliere la prassi e di fornire indicazioni ex post.
Abbiamo, quindi, da una parte un cerchio più stretto, legislativo, predeterminato, sottoposto a riserva di legge, cioè l'ineleggibilità; dall'altra parte, invece, un cerchio più largo, «morbido», quotidiano, più «domestico», ex post, ricostruito dai fatti in cui intervengono doveri di astensione e codici etici per i quali, probabilmente, c'è bisogno di organismi ad hoc. Vorrei aggiungere che occorrono organismi che operano per settore, perché un conto è la correttezza nell'area dei servizi, altro conto è la correttezza nell'ambito delle attività produttive: vi sono logiche di settore che vanno rispettate. Quindi, credo che tali organismi andrebbero immaginati come competenti almeno per grandi macroaree.

PRESIDENTE. Ringrazio a nome della Commissione il professor Cammelli, che invierà una integrazione scritta alla sua esposizione.
Dichiaro conclusa l'audizione e sospendo brevemente la seduta.

La seduta, sospesa alle 11.05, è ripresa alle 11.15.

Audizione del professor Stefano Mannoni, ordinario di storia delle costituzioni moderne presso la facoltà di giurisprudenza dell'università degli studi di Firenze.

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sulle problematiche inerenti la disciplina per la risoluzione del conflitto di interesse, l'audizione del professor Stefano Mannoni, ordinario di storia delle costituzioni moderne presso la facoltà di giurisprudenza dell'università degli studi di Firenze.


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Ringrazio il professor Mannoni per aver accolto il nostro invito e gli do la parola per la sua relazione introduttiva.

STEFANO MANNONI, Ordinario di storia delle costituzioni moderne presso la facoltà di giurisprudenza dell'università degli studi di Firenze. Vorrei esordire richiamando l'articolo del professor Giovanni Sartori, apparso questa mattina sul Corriere della Sera, perché ci porta immediatamente nel vivo di questa audizione. Tale articolo mi ha fatto venire in mente il libro di Mario Soldati America primo amore; questo libro dice, infatti, che di America ci si può ammalare e ci si può innamorare, ed è quanto è successo al professor Sartori perché, come tutti gli innamorati, ha in qualche modo...

EGIDIO STERPA. A un'età avanzata!

STEFANO MANNONI, Ordinario di storia delle costituzioni moderne presso la facoltà di giurisprudenza dell'Università degli studi di Firenze. L'autorevolezza del professor Sartori è tale che non credo risenta di queste difficoltà. Comunque, l'amore acceca, ed è quello che è capitato al professore perché il sistema americano di conflitti di interesse e di ethics in government, in realtà, non nasce da una proiezione nelle istituzioni del puritanesimo del tipo descritto ne «La lettera scarlatta» di Hawthorne. Quel sistema nasce trecento anni fa da una scelta precisa fatta dai signori John Adams, Alexander Hamilton e James Madison sulla forma di governo da dare agli Stati Uniti d'America
Vorrei segnalare un dato che è stato completamente trascurato nel dibattito che si è svolto finora sul modello americano, e cioè che per comprendere il sistema americano del conflitto di interessi la norma chiave è una disposizione costituzionale, cioè l'articolo 2, sezione seconda, della Costituzione federale del 1787, il quale prescrive che tutte le nomine presidenziali sono approvate dal Senato. Il Senato americano, dunque, ha un potere di veto assoluto su tutti i nominees presidenziali.
Ciò spiega lo zelo della Casa bianca nel far sì che tutti i propri nominees passino uno scrutiny (cioè un controllo) attraverso la FBI, la IRS (la guardia di finanza americana) ed il General council (il consigliere giuridico della Casa bianca) sulle situazioni di conflitto di interesse che possano determinare il rifiuto o il ritardo dell'approvazione della nomina da parte del Senato americano.
Vorrei portarvi due esempi, che ritengo siano assolutamente icastici ed emblematici della situazione in America e di quale sia la logica di questo sistema di ethics in government. Nel 1997 il consigliere per la sicurezza nazionale Anthony Lake ha dovuto rinunciare alla nomina a direttore della CIA perché, a causa di un episodio minore di conflitto di interessi, il Senato ha ritardato per quattro mesi l'approvazione della sua nomina: ebbene, egli ha rinunciato piuttosto che sobbarcarsi un monitoraggio ancora più intenso e penetrante sulla sua situazione personale.
Un episodio ancora più clamoroso è quello di Richard Holdbrooke il quale, di ritorno da Dayton, avendo lasciato per un anno il servizio pubblico ed essendo entrato nei ranghi della Credit Suisse First Boston ha commesso un errore, peraltro abbastanza banale alla luce degli standard europei, cioè una violazione delle regole di post employment che vietano a qualsiasi funzionario federale di svolgere per un anno attività di lobbying a favore di interessi privati dopo avere lasciato il servizio. Ebbene, l'ambasciatore Holdbrooke aveva sollecitato un paio di ambasciatori in giro per il mondo a fissare appuntamenti di lavoro per conto della Credit Suisse First Boston.
La Commissione esteri del Senato, presieduta dall'onorevole Jessy Helms, ha ritardato di otto mesi e mezzo la nomina di Hoolbrooke, e ha preteso che l'ambasciatore pagasse un'ammenda di 5 mila dollari, con l'attorney general, quindi con il general prosecutor, con il Ministero della giustizia, prima di vedere questa sua nomina confermata. Perché ho insistito su questo punto? Perché il sistema della disclosure della Ethichs in Government,


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che riguarda circa mille funzionari ad ogni rinnovo presidenziale - che vanno dal segretario di Stato, al segretario della difesa, al segretario agli affari esteri, fino ai dirigenti e ai capi dell'agenzia - è integrato in un ordinamento costituzionale di checks and balances, di pesi e contrappesi, in cui il Governo non dipende dalla fiducia delle Assemblee, ma vi è questo potere di monitoraggio molto severo sull'esecutivo, che si esercita attraverso indagini personali e attraverso un veto sui singoli individui.
Ritengo che questo debba essere sottolineato e chiarito, perché ho letto su La Stampa di venerdì scorso che l'ambasciatore americano a Roma sostiene che il sistema di etica pubblica americano è molto più severo di quello italiano, ed ha ragione. Però ha dimenticato di dire che la sua nomina è passata al vaglio di una Commissione senatoriale, la quale l'ha approvata dopo aver visto i resoconti dell'FBI nonché i resoconti sulla sua situazione patrimoniale. Non credo che questo sia un dettaglio trascurabile. Quello è un sistema alternativo al sistema di Governo parlamentare vigente in Europa. La Costituzione americana è un unicum, tanto è vero che non è stata esportata da nessuna altra parte. Su queste nomine presidenziali (e quindi anche sulla Ethichs in Government), c'è un bargaining, cioè una trattativa tra Senato ed amministrazione. Infatti, la White House, che è il vero organo di monitoraggio, naturalmente predispone queste audizioni parlamentari da parte dei propri nominees, in modo da schivare, in qualche modo, le difficoltà che possono nascere in merito a situazioni patrimoniali che possono dare adito o meno a sospetti.
La prassi dei comitati senatoriali non è la stessa in tutti i casi. Sostenere che tutti i segretari dell'amministrazione, tutti i capi dell'agenzia, siano tenuti meccanicamente a operare la divestiture, cioè ad alienare il loro patrimonio o a ricorrere al blind trust, semplicemente non corrisponde alla verità, perché vi è solo una Commissione (la Commissione per gli affari militari) del Senato la quale esige, per tutti gli appointees presidenziali, o la divestiture o il blind trust.
Questa è l'unica Commissione senatoriale che, da uno screening molto attento che ho fatto della letteratura e della prassi, risulta imporre questa regola già dai tempi di Kennedy.
Ci sono agenzie, come quella sull'energia, che esigono che i propri dipendenti o il proprio direttore non abbiano azioni, stocks, in imprese elettriche. Altre prassi di settore sono seguite in alcune agenzie ma ciò non è assolutamente generalizzato.
Vengo ora al secondo punto. È stato affermato che in America esisterebbe un'agenzia amministrativa indipendente, denominata OGE, che avrebbe il potere di porre il Presidente, il Vicepresidente, o alti funzionari governativi di fronte al dilemma: o vi liberate di situazioni patrimoniali suscettibili di determinare conflitti di interessi oppure ve ne andate a casa. Questo è grottesco, è una caricatura del sistema americano, che è un sistema di Costituzione scritta in cui la separazione e l'equilibrio dei poteri sono presi molto sul serio ed in cui un'agenzia amministrativa di 80 persone - questa è infatti la dimensione di questo organismo (l'OGE) - non ha assolutamente un potere di questo tipo. Non c'è l'ha nei confronti del Presidente e del Vicepresidente, i quali sono esclusi da tutti questi oneri, tranne da quello della disclosure, cioè di presentare il loro stato patrimoniale.
Se il Presidente o il Vicepresidente adottano iniziative, diciamo, cautelari al fine di mettersi al riparo da eventuali contestazioni politiche o giuridiche e così via, lo fanno di loro iniziativa e - ritengo - saggiamente, perché l'altro deterrente in questo sistema americano di Ethichs in Government è dato dal diritto penale. C'è una norma dell'United States Code, titolo 18, paragrafo 18, che configura nei termini seguenti gli interessi privati in atti d'ufficio: «Qualunque funzionario che prenda parte a una decisione dalla quale possa derivare anche un minimo vantaggio, diretto o indiretto, per il proprio patrimonio, è passibile di incriminazione da parte


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dell'attorney general». Non c'è una regola de minimis: cioè, anche una minima entità patrimoniale, che possa essere ricondotta alla decisione adottata, può far scattare l'incriminazione.
C'è una sezione dei servizi dell'attorney general, una sezione della Public ethic, che ha la funzione di istruire tali prosecutions. Queste ultime non sono molto numerose. Sono circa 14 o 15 l'anno. Oggi l'attorney general ha l'alternativa se agire in via penale o in via civile. Tuttavia, rimane un'azione dissuasiva molto forte. È chiaro che qualsiasi alto funzionario, dirigente o funzionario di Stato che si voglia mettere al riparo da seccature di questo tipo adotta varie misure, come liberarsi delle azioni, ricorrere al blind trust e via dicendo, come ottenere un ethics agreement contrattato con l'OGE, che gli consenta di avere una sorta di waiver, cioè di autorizzazione, di dispensa da decisioni in cui potrebbe sorgere un eventuale conflitto di interesse.
Abbiamo finora esaminato l'incardinamento costituzionale e la funzione deterrente del diritto penale. Sulla funzione deterrente del diritto penale non ho nulla da aggiungere, perché le norme esistono anche in Italia; naturalmente vengono applicate in modo diverso, anche se non hanno questa concettualizzazione oggettiva, nel senso che l'articolo 18 dell'United States Code è interpretato prescindendo dall'elemento soggettivo; cioè, agli americani non interessa il dolo o la colpa: basta che ci sia la situazione perché scatti la presunzione che il reato sia stato commesso.
Aggiungo agli elementi appena sottolineati un altro fattore che secondo me è completamente scomparso dal dibattito pubblico sul modello americano in queste settimane. Il modello americano, non è un modello rigido ma tiene conto del «caso per caso».
Non intendo citare la vicenda del sindaco Bloomberg perché ci sono delle analogie patrimoniali, imprenditoriali, con quella dell'onorevole Berlusconi, ma semplicemente perché si tratta di un test, di una spia di come ragioni l'amministrazione americana (in questo caso, quella di una grande città). Se si può sostenere che il sindaco Bloomberg non è un Presidente del Consiglio, definire «amministratore locale» un individuo che governa una città di 10 milioni di abitanti lo trovo un po' riduttivo. Ritengo che gli si possa accordare uno status leggermente superiore a quello che accorderemmo ad un sindaco o ad un presidente di una provincia italiana (fra l'altro, egli comanda la polizia e gestisce un bilancio enorme).
Il Board of Ethics del comune di New York (che osserva regole molto simili a quelle federali) - e per questo ho messo a disposizione della presidenza gli articoli del Washington Post e del New York Times - ha già fatto sapere che non intende affatto raccomandare al sindaco di New York la divestiture, cioè l'alienazione o il ricorso al blind trust (quest'ultimo sarebbe ridicolo in presenza di un impresa con 1200 giornalisti e 8 mila dipendenti, in cui l'intuitu personae è ineliminabile, non si «acceca» proprio niente).
L'altro elemento, così sostiene il Board of Ethics di New York, è questo: è improbabile il caso che il sindaco venga a trovarsi in una situazione di conflitto di interessi nell'adozione di decisioni (nella sua qualità e funzione di sindaco). Ove infatti potesse profilarsi una situazione di conflitto di interessi, cioè laddove il sindaco venisse a trovarsi nella condizione di adottare decisioni con un'incidenza sulla propria situazione patrimoniale, ebbene, in quel caso, scatterebbe l'obbligo di disqualification, cioè di astensione: tutto qua!
Perché ho insistito su questo punto? Perché tutta la casistica americana sul blind trust, sulla divestiture e così via, riguarda solo e soltanto stocks, azioni. Questo è un dato centrale, cruciale, che non è assolutamente stato sottolineato nei reportage italiani, nella ricezione italiana del modello americano. È vero che i Presidenti americani ricorrono al blind trust. Quando Rubin era segretario al Tesoro, è sì ricorso al blind trust, poiché era senior party di Goldman Sachs, ma si trattava di azioni, di obbligazioni, non di


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imprese. Ad un certo punto, egli ha affidato a questo blind trust, che è un istituto assolutamente corrente nel modello americano, il compito di gestire queste azioni. Così ha fatto il capo dell'antitrust americana (o le ha messe in un mutual funds), dopodiché si è in qualche modo coperto le spalle, perché di queste azioni loro fanno quello che vogliono: le vendono, le tengono senza che lui sia al corrente di tale gestione. Però, lo ripeto, si tratta di azioni, di titoli azionari.
Vengo ora brevemente alla ricezione italiana, cioè alla trasposizione nel modello italiano di ciò che si può trasporre. Comincio con il dire che, in blocco, il modello non può assolutamente essere trasferito in regimi di democrazia rappresentativa parlamentare, perché qui siamo nell'ambito di una logica diversa: quella dei pesi e dei contrappesi. Le due logiche non sono, pertanto, compatibili. In Italia, il Parlamento non ha il potere di approvare o disapprovare le nomine dei ministri, né quelle degli ambasciatori, né quelle dei prefetti. Per questo, non può, per così dire, «fare le pulci» sulle biografie individuali di questi personaggi né può esercitare un potere di veto. In Italia, come negli altri paesi europei, c'è il rapporto di fiducia, vi è la responsabilità politica che svolge questa funzione.
Cosa possiamo allora ricavare di utile e significativo dal modello americano per la realtà italiana? Mi riferisco, innanzitutto, al progetto del Governo. Ha notato che nel progetto del Governo viene ripreso - secondo me, in modo molto apprezzabile - il sistema della disclosure, ma solo a metà. Il sistema della disclosure americana esige che tutti i titolari di cariche di Governo non si limitino soltanto a comunicare la loro situazione patrimoniale, ma, attraverso l'OGE - in Italia può essere un'altra autorità - mettano a disposizione del pubblico, di chiunque ne abbia interesse - e cioè giornalisti o associazioni - l'indagine e la verifica su queste situazioni patrimoniali. L'OGE, ogni anno, riceve centinaia di richieste, da parte di organi di stampa, di comunicazioni delle situazioni patrimoniali del presidente, del segretario di Stato o di direttori di agenzie. Questa parte è stata omessa nel progetto del Governo ma ritengo che sarebbe un'importante integrazione.
La seconda integrazione, a mio avviso un po' singolare, riguarda l'omissione della notifica - cioè un potere di segnalazione previsto nel progetto del Governo - al Presidente della Repubblica. Non capisco perché ciò valga per il Presidente della Camera, per il Presidente del Senato ma non per il Presidente la Repubblica. Visto che il professor Sartori lamenta che il Presidente della Repubblica non eserciti tutto lo spettro dei poteri di garanzia - e secondo me a ragione, poiché una discrezionalità politica da parte Presidente della Repubblica non sarebbe concepibile - di fronte ad una segnalazione qualificata, da parte di un organo imparziale, ebbene, in quel caso ci sarebbero gli estremi, i poteri di cui dispone (controfirma e via dicendo).
Desidero ora entrare nel merito di alcune tipologie che sono emerse dai progetti di legge presentati.
Voglio dire - e senza giri di parole - che ritengo che affidare ad un organo imparziale (autorità amministrativa indipendente) il potere altamente discrezionale di valutare l'idoneità o inidoneità o meno delle misure proposte dal titolare di una carica di Governo per risolvere la sua posizione di conflitto sia assolutamente inconcepibile. Si tratta di una situazione in cui la discrezionalità non è verificabile né controllabile e dove il giudizio di questa sorta di sezione ad hoc della corte d'appello diventa un'altra soglia di discrezionalità; la corte, infatti, non avrebbe nessun parametro di giudizio e dovrebbe, a sua volta, esercitare la sua discrezionalità nel merito di questa vicenda e formulare, anch'essa, un'opinione. In pratica, ai tre giudici della corte d'appello è chiesto di riformulare l'opinione di questa authority; essi potrebbero affermare, ad esempio, che a loro avviso la valutazione emessa da questa authority non sia idonea e proporne, a loro volta, un'altra. Mi chiedo, allora, cosa controllerebbe la Corte di cassazione in una vicenda di questo tipo: a mio avviso molto poco. Siccome è stato


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affermato che in un ordinamento è sovrano chi ha l'ultima parola, allora in questo caso l'ultima parola sulla sussistenza in carica di un organo del Governo (quindi del potere esecutivo) la avrebbero tre giudici della corte d'appello. Questo è il quadro che si ipotizza; infatti, la sanzione prevista in questo disegno di legge è la notifica al Presidente della Repubblica dell'accertamento della violazione e mi pare di capire che, a quel punto, il Presidente della Repubblica dovrebbe rimuovere il Presidente del Consiglio dei ministri.
Si rileva, allora, un secondo aspetto; la revoca del Presidente del Consiglio dei ministri non è prevista nell'ordinamento italiano, la nostra non è una Costituzione gollista, nella quale il Presidente della Repubblica possa revocare il premier ed i ministri; la rimozione del Presidente del Consiglio dei ministri è un atto che deve essere previsto dalla Costituzione: niente di male a prevederlo! Vi sono delle Costituzioni secondo le quali il Presidente della Repubblica può revocare il primo ministro. È bene che lo si preveda, ma nella Costituzione e non con legge ordinaria.
Affronto ora quei progetti che ruotano intorno all'articolo 51 della Costituzione. Non v'è dubbio che questi sono tra i più conformi e più integrati rispetto all'ordito costituzionale. Ciò perché vi sono dei precedenti in tal senso, come il decreto del Presidente della Repubblica n.361 del 1957 e come la prassi interpretativa che accredita l'idea che l'esercizio del diritto fondamentale dell'eleggibilità, ossia di eleggere ed essere eletto, possa essere bilanciato con altri valori costituzionali (ma questo è, comunque, un punto delicato). La Corte costituzionale ha posto dei paletti alla discrezionalità del legislatore. Innanzitutto, vi è il principio di proporzionalità del mezzo rispetto al fine: le presunzioni, quando ci si trova nell'ambito dei diritti inviolabili, devono essere introdotte con molta cautela perché presumere significa ipotizzare, in qualche modo, un'inattitudine, un'inidoneità del singolo individuo a sceverare l'interesse privato dall'interesse generale e questo perché egli si trova in una determinata posizione. Esistono, quindi, il principio di proporzionalità del mezzo al fine e la teoria del minimo mezzo che è, poi, l'altro argomento utilizzato dalla Corte costituzionale per frenare l'estensione di queste presunzioni.
Va evidenziato, infine, il tema della stretta tipizzazione: a chi sostiene che la semplice partecipazione azionaria ad un'industria (come ad esempio un'impresa bellica o del settore delle comunicazioni) faccia scattare meccanismi di incompatibilità ricordo che in questa ipotesi la proporzionalità non sussiste e la tipizzazione è quanto meno vaga. A mio avviso, quindi, il canone ermeneutico della stretta interpretazione deve essere tenuto presente.
Chiedo venia a questa Commissione se mi consento una boutade ma, leggendo alcuni scritti elaborati sul meccanismo della ineleggibilità ed incompatibilità, mi è venuto in mente quanto scrivevano Fran ois Guizot e Adolf Thiers quasi duecento anni fa sostenendo che non detenere proprietà (o un certo censo) rendesse gli individui inidonei a cogliere e valutare l'interesse generale. Questo meccanismo delle presunzioni mi fa venire in mente una sorta di sistema censitario alla rovescia. Infatti, dai fisiocratici in poi, si pensava che la proprietà fosse garanzia di capacità di sviluppare e cogliere l'interesse generale; dal 2001, invece, ci si rende conto che detenere la proprietà, in qualche modo, crea una presunzione di commistione fra interesse privato ed interesse generale: è un cambiamento molto interessante nel modo di concepire il sistema rappresentativo e la democrazia. Certo, la Costituzione apre qualche spiraglio per sviluppare tale intuizione ma io, francamente, su ciò sarei cauto in quanto ritengo che le presunzioni vadano circoscritte.
Vorrei aggiungere che i progetti in materia di ineleggibilità e di incompatibilità hanno l'onere di chiarire meglio quale sia l'organo che si deve pronunciare su tali ipotesi ai fini di dichiarare la decadenza da alcuni incarichi. Nel caso specifico si parla, infatti, della decadenza di un ministro


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o di un Presidente del Consiglio dei ministri. Ricordo che la legge n.515 del 1993, sulla disciplina delle campagne elettorali, ha rappresentato un provvedimento molto coerente, innovativo e coraggioso ma, anche, costituzionalmente perfettamente legittimo. Ciò in quanto l'ultima parola, in conformità all'articolo 66 della Costituzione, non viene attribuita ai giudici (ai quali si fa ricorso per violazione delle regole delle campagne elettorali) ma al Parlamento, che si pronuncia sull'ipotesi di decadenza, mantenendo, in questo modo, le conformità alla Costituzione. Infatti, se un deputato viola il tetto previsto dalle leggi elettorali e la corte d'appello lo accerta, ebbene, l'ultima parola sull'eventualità che si configuri o meno un'ipotesi di decadenza spetta a chi dovere, cioè al Parlamento. Non credo, quindi, che la Corte costituzionale, con legge ordinaria, possa essere investita della funzione di dichiarare la decadenza del Presidente del Consiglio o di un ministro e ho qualche dubbio che ciò lo possa fare l'autorità giudiziaria ordinaria. Va ipotizzato qualcosa di meglio: si tratta di garantire un livello consono nella separazione dei poteri. Nell'ipotesi che vede coinvolta la Corte costituzionale ritengo sarebbe necessaria una legge costituzionale e non una legge ordinaria; per quanto riguarda invece l'ipotesi che interessa l'autorità giudiziaria ordinaria ho, invece - e lo ripeto - qualche perplessità che essa sia praticabile.
Affronto ora la parte conclusiva del mio intervento. Credo che, contrariamente a quanto dichiarato dal professor Caianiello, non sia affatto vero che il progetto Frattini non sia conciliabile con quanto di buono vi è nella proposta dello stesso Caianiello. Una delle ipotesi è che il progetto Frattini sia integrato dal suggerimento - molto americano - che prevede l'obbligo di mettere a disposizione della stampa - e di chiunque vi abbia interesse - le varie situazioni patrimoniali, non solo di ministri e sottosegretari, ma anche di presidenti di regioni e di sindaci; quest'ultima eventualità si configura, a mio avviso, in quanto la preoccupazione di un'eventuale disclosure interessa tutti e non soltanto i membri del Governo centrale. Credo che tra gli organi cui debba essere inviata la notifica - citata poc'anzi - vada incluso il Presidente della Repubblica.
Per quanto riguarda la teoria dell'authority, credo che, in un contesto nel quale si cerca disperatamente di fare un po' d'ordine nella proliferazione di autorità amministrative indipendenti, aggravare tale quadro aggiungendo un altro di questi organismi significherebbe, a mio avviso, violare il principio di Ockham. Non credo che sia assolutamente necessario il proliferare degli enti quando quelli esistenti possono svolgere il compito ipotizzato. Al riguardo, mi limito brevemente a richiamare l'articolo 21 della legge n.287 del 1990 in materia di anti-trust dove si afferma che allo scopo di contribuire ad una più completa tutela della concorrenza e del mercato, l'Autorità individua i casi di particolare rilevanza nei quali norme di legge o di regolamento o provvedimenti amministrativi di carattere generale determinano distorsioni della concorrenza o del corretto funzionamento del mercato. Già da ora, quindi, l'anti-trust possiede tale potere di segnalazione al Governo su singoli provvedimenti che alterino l'equilibrio del mercato della concorrenza; si tratta quindi di sviluppare ulteriormente questa intuizione. Stesso discorso vale per l'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni. Infatti, all'articolo 2 relativo al divieto di posizioni dominanti, è prevista un'ampia panoplia di strumenti di intervento rispetto ai quali nulla vieta che si includa un potere di segnalazione e di diffida al Governo.
Affronterei ora la vexata quaestio delle sanzioni. Trovo molto stimolante e suggestiva l'idea del professor Caianiello di colpire le imprese che beneficiano di favori governativi i quali abbiano ripercussioni negative sulla concorrenza o sul pluralismo; la trovo un'idea suggestiva perché vincola l'intervento dell'autorità a parametri oggettivi e ad una situazione reale e concreta di conflitto di interessi. Personalmente trovo pericoloso intervenire su un conflitto di interessi potenziale ed


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astratto perché così si dà la stura ad un vaso di Pandora di discrezionalità, di opinioni e di parametri non verificabili. Qui si configura, invece, un intervento nel caso concreto di conflitto di interessi che abbia reali effetti distorsivi. Vi è, però, una difficoltà, a mio avviso risolubile: le imprese si troverebbero in una situazione di responsabilità oggettiva. Esse non sono autrici dell'atto che altera la concorrenza, beneficiano dello stesso ma rispondono per fatto del Governo dell'atto che ha alterato questo equilibrio o che ha alterato il pluralismo. Abbiamo quindi una dissociazione tra autore, atto e colui che subisce la sanzione: effettivamente, ciò è un po' singolare.
Ritengo comunque che, a livello procedurale, si debba configurare un sistema di notifiche: tutto prenderebbe il via con una notifica o una diffida al Governo, da parte dell'autorità (in base all'articolo 21 o ad una altra norma che si può aggiungere) dell'esistenza di tale pericolo o di una situazione di conflitto, in seguito alla quale il Governo può decidere di non tener conto di questa segnalazione e andare avanti per la propria strada o, invece, di rimuovere l'ostacolo segnalato. Se il Governo prosegue per la propria strada il ministro che ha adottato quella misura si espone ad azioni che riguardano la sua responsabilità, a partire da quella civile su iniziativa delle società che subiscono sanzioni (come la revoca della concessione o di tipo pecuniario), a seguito della mancata adozione di una certa misura. Inoltre, vi è una attestazione, una notifica o una diffida formale da parte di una autorità indipendente che ha portato alla luce queste violazioni. Quel ministro si espone, ai sensi dell'articolo 43 del....

MARCO BOATO. Si immagini se Mediaset intenta causa civile a Berlusconi!

STEFANO MANNONI, Ordinario di storia delle costituzioni moderne presso la facoltà di giurisprudenza dell'università degli studi di Firenze. Capisco la sua obiezione, ma intanto Mediaset riceve una sanzione, in quanto un provvedimento del 1997 prevede sanzioni che possono giungere sino alla revoca della concessione; quindi non si tratta di uno scherzo. Inoltre, mi pare che le autorità indipendenti non siano state nominate da Berlusconi. Prescindendo, però, da questa reductio ad unum, si deve individuare un meccanismo che intervenga in un clear and present danger: questa è la filosofia. Non si può colpire il Governo perché è un organo costituzionale che ha la sua discrezionalità? Benissimo: si colpiscano i beneficiari dei favori del Governo e se, ad un certo punto, essi subiscono sanzioni per centinaia di milioni di euro, o accettano la revoca delle concessioni o citano in giudizio il ministro che ha preso il provvedimento, il quale dovrà pagare la sanzione, renderne comunque conto a qualcuno e forse anche dimettersi. Ricordo che nel sistema americano il Senato è costituito, in genere, da una maggioranza avversa al Presidente. Quindi, ogni nuovo Presidente deve farsi il segno della croce e sperare che gli vada tutto bene, dalla vita sessuale ai conti in banca e questa è una peculiarità del sistema americano.
Per quanto riguarda l'aspetto penale, vorrei far presente che, a parte le lettere anonime che circolano per Washington e che impongono all'Attorney general di procedere contro il suo collega ministro, per la discrezionalità dell'azione penale qualche volta si procede e qualche altra no; ricordo anche che viene nominato, da parte del Congresso, un independent council che svolge le funzioni di una sorta di procuratore speciale. Vorrei capire come un sistema di questo tipo possa essere integrato nella vecchia Europa, dove i francesi (che danno lezioni su Le Monde un giorno sì ed uno no) hanno istituzionalizzato il conflitto di interessi, in quanto gli ispettori delle finanze, Fabius, i consiglieri di Stato, eccetera, vanno e vengono dalle industrie private con il sistema del pantouflage, che comprende il controllore e il controllato.
Vorrei capire come possa avvenire l'integrazione nell'Unione europea dove, di fronte ad un caso di conflitto di interessi, la Commissione Sauter si è dimessa perché


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c'era un rischio di sfiducia da parte del Parlamento europeo. Personalmente, credo che i sistemi costituzionali debbano essere integrati sia nella realtà antropologica, sia nella storia costituzionale di ciascun paese.

PRESIDENTE. Ringrazio il professor Mannoni per la sua relazione.
Do ora la parola ai colleghi che volessero intervenire per formulare osservazioni o porre quesiti.

RICCARDO MARONE. Se ho ben capito la sua analisi del sistema americano, da esso risultano due fasi: una prima fase in cui il Senato, che nella quasi totalità dei casi esprime una maggioranza diversa da quella del Presidente degli Stati Uniti, «fa le pulci» - come lei ha detto - alle varie persone; al riguardo mi sembra lei abbia detto che il Senato procede sulla base di un sistema etico che probabilmente non c'è nella nostra vecchia Europa, cioè con un'attenzione particolareggiata caso per caso. Una volta superata questa fase, vi è quella dell'astensione sul singolo atto: mi sembra di capire che quest'ultima è successiva a quella dell'analisi sulle persone.

STEFANO MANNONI, Ordinario di storia delle costituzioni moderne presso la facoltà di giurisprudenza dell'università degli studi di Firenze. Vorrei precisare che al termine di queste audizioni di conferma al Senato, la scelta è normalmente la seguente: se il Segretario al tesoro si vuole coprire da ogni tipo di contestazione - facevo prima l'esempio di Rubin - può mettere nel blind trust il suo patrimonio, oppure venderlo. Questa è la regola, giacché la disqualification (cioè l'astensione) è per quei casi in cui si ritiene che il problema del patrimonio sia già stato risolto.

RICCARDO MARONE. Esatto, si ritiene che sia stato già risolto il problema del conflitto. Chiedo scusa, forse mi sono espresso male: lei dice giustamente che attraverso la fase del «fare le pulci» si risolve il problema del conflitto di interesse, con un'analisi caso per caso e con un controllo etico molto rigoroso. Una volta superata questa fase, diventa sufficiente lo strumento dell'astensione. Lei poi dice, altrettanto giustamente - di questo ne sono sempre stato convinto -, che prendere i sistemi giuridici stranieri (e in questo caso quello americano) così come sono e trasferirli nella nostra realtà è sempre un errore.
Passando alla soluzione italiana, mi sembra di capire che lei giudichi - anche se con un correttivo - la proposta Frattini adeguata, perché ritiene sufficiente l'astensione sul singolo atto (anche se, come ha detto prima giustamente il professor Cammelli, può configurarsi un conflitto anche attraverso un'omissione, e non solo mediante l'adozione di atti; anzi, forse questo è il tipo di conflitto più sottile).
Non sono riuscito a comprendere se lei ritenga che eliminare la prima fase e rinviare tutto a quella dell'astensione sia la soluzione migliore in un sistema come quello italiano, dove - come giustamente lei dice - l'indagine caso per caso non può essere fatta perché il nostro ordinamento costituzionale contempla la previsione di fattispecie astratte e rigorose che determinino quali siano le situazioni di conflitto di interesse.
Collegato a quest'ultimo c'è il problema di chi controlli. Al riguardo, lei non condivide la proposta di attribuire il controllo ad un giudice ordinario; tuttavia anche l'idea di attribuirlo al Parlamento, in un sistema divenuto ormai maggioritario, mi sembra insufficiente. Guardiamo, ad esempio quanti problemi sta creando alla giurisdizione domestica la questione degli 11 o 12 seggi non assegnati alle ultime elezioni; ciò avviene perché «calare» le leggi fatte per il proporzionale in un sistema maggioritario non è opportuno.
Le chiedevo, pertanto, come possa ritenere - dopo aver così ben sottolineato l'importanza dell'analisi nella fase preliminare - che la soluzione basata sulla semplice astensione degli atti sia soddisfacente per risolvere il conflitto di interessi nel nostro paese.


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MARCO BOATO. Vorrei chiedere al professor Mannoni se ha con sé anche una relazione generale, oltre alla nota sulla legislazione in materia di conflitto di interessi negli USA, che ci è stata distribuita.

STEFANO MANNONI, Ordinario di storia delle costituzioni moderne presso la facoltà di giurisprudenza dell'università degli studi di Firenze. Oltre alla nota, ho con me anche uno schema di relazione. Se lo ritenete opportuno, posso riservarmi di far pervenire alla Commissione il testo definitivo della relazione in un momento successivo.

MARCO BOATO. Ritengo possa essere utile e pertanto proporrei al presidente della Commissione di disporre la pubblicazione in allegato al resoconto stenografico della seduta odierna sia della nota sia della relazione.

PRESIDENTE. Penso che la proposta dell'onorevole Boato possa essere tranquillamente accolta. Pertanto, non appena il professor Mannoni ci farà pervenire la copia definitiva della relazione, questa sarà pubblicata, mentre dispongo sin da ora la pubblicazione in allegato al reconto stenografico della seduta odierna della nota, depositata agli atti della Commissione.

MARCO BOATO. Detto ciò, ringrazio il professore per il suo intervento.
Una prima considerazione che vorrei fare riguarda l'esempio, di cui lei ha parlato e al quale si ricorre spesso in questo periodo, dell'elezione di Bloomberg a sindaco di New York. Non intendo polemizzare su alcune delle sue considerazioni, che possono anche essere condivisibili, però mi sembra un po' forzato questo paragone, perché siamo di fronte ad un sindaco, che è titolare di un potere esecutivo essenzialmente di carattere amministrativo, non rispondendo dunque ad un'assemblea legislativa. In questo senso mi pare che, al di là della giusta notazione da lei fatta sulle caratteristiche dell'istituto del blind trust negli Stati Uniti d'America, il parallelo sia - ripeto - un po' forzato; ad ogni modo, le chiederei al riguardo un'ulteriore riflessione.
Credo abbia rilevanza, per il lavoro che la nostra Commissione deve effettuare, la sua osservazione circa la configurazione secondo la nostra Costituzione dei poteri di nomina e revoca del Primo ministro (ciò, peraltro, riguarda anche i ministri).
Le chiederei, invece, di approfondire il tema della possibile integrazione fra la proposta contenuta nel parere del professor Caianiello e l'originaria proposta del Governo. So che si sta lavorando in questa direzione (e quindi di fatto succederà esattamente ciò che lei ha detto), ma le chiederei di approfondire tale questione, perché altrimenti la sua potrebbe sembrare più una consulenza al Governo che non una riflessione fatta di fronte ad una Commissione parlamentare; ciò anche alla luce del riferimento - se non ho capito male - al principio del rasoio di Ockham. Anche qui, il problema riguarda chi decide se quel rasoio vada applicato o meno in questo caso (in realtà decide il Parlamento).
Anche il professor Cheli, nel corso dell'audizione svoltasi ieri, ha insistito molto sull'inadeguatezza della legislazione sulle competenze dell'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni - ma per altri aspetti si può dire la stessa cosa anche per l'Antitrust -, sotto un duplice profilo: sia quello del tipo di sanzioni, sia (ancor prima delle sanzioni) sotto quello delle competenze; al riguardo le chiederei di esprimere un giudizio.
Qualcuno - non ricordo chi - ha detto ieri che si tratta di una scelta di opportunità politica, quindi discrezionale del Parlamento (che non vuol dire arbitraria), che può essere effettuata in un senso o in un altro. Le chiederei, dunque, di approfondire questo aspetto con riferimento al sistema esistente delle Autorità di garanzia sotto il profilo delle competenze, delle sanzioni, dei procedimenti e così via, in riferimento ai problemi sollevati dal groviglio di questioni che vanno sotto nome di conflitto di interessi.


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Infine, vorrei soffermarmi proprio sull'aspetto delle sanzioni. Perché non si immagina di intervenire anche sull'altro versante, cioè quello delle autorità di Governo (quali che siano, perché si può arrivare fino ai sindaci o ai presidenti della provincia; ciò dipende dalle scelte che poi si faranno su questo tema)? C'è, in effetti, un problema specifico che riguarda le regioni, perché il nuovo articolo 122 della Costituzione pone un principio di autonomia delle stesse in questa materia. Comunque con riferimento agli altri sistemi di governo, si tratta di una scelta da fare. Perché immaginare soltanto il versante delle imprese, rispetto al quale peraltro si pongono i problemi che lei stesso ha sollevato?

PRESIDENTE. Ringrazio i colleghi che sono intervenuti nel dibattito.
Do ora la parola al professor Mannoni per la replica.

STEFANO MANNONI, Ordinario di storia delle costituzioni moderne presso la facoltà di giurisprudenza dell'università degli studi di Firenze. Sono state sollevate delle questioni di gran rilievo, potrei dire da vera e propria Assemblea costituente; l'irrompere nel nostro sistema del principio maggioritario è sicuramente il problema dei problemi, perché naturalmente la riflessione su queste Authority riguarda il sistema di pesi e contrappesi. Si proviene, infatti, da un sistema consociativo, nel quale non era prevista questa sorta di «dittatura del Governo», di electoral dictatorship (come direbbero gli inglesi) che, però, in una realtà flessibile come quella britannica, ha dei contrappesi sociologici mentre nel nostro caso c'è da ripensare, forse in non piccola parte, proprio il sistema dei contrappesi.
Detto ciò, per cominciare a rispondere ai quesiti che mi sono stati posti, credo che il combinato disposto di astensione e pubblicità - trattandosi di una situazione patrimoniale analitica e dettagliata, come quella prevista dalla disclosure americana, che si compone di decine e decine di pagine (ed infatti il Presidente, il Vicepresidente e i Segretari di Stato assumono degli studi legali di New York per redigere tali situazioni patrimoniali) -, insieme con le sanzioni sul portafoglio delle imprese che beneficiano dei favori governativi rappresenti un deterrente abbastanza efficace allo stato attuale dell'ordinamento costituzionale.
Per quanto riguarda altre forme, mi chiedo se a livello di regolamenti parlamentari (Commissioni parlamentari permanenti e Commissione di vigilanza) si possa immaginare un sistema - ed in tal caso il modello americano forse insegna qualcosa - in cui, attraverso l'introduzione di meccanismi come ad esempio il voto limitato, non si consenta alla maggioranza di dominare anche le Commissioni di controllo (penso ad esempio alla Commissione parlamentare per l'indirizzo generale e la vigilanza dei servizi radiotelevisivi, la quale ha poteri di indagine molto penetranti). Mi domando insomma se non si possa intervenire a livello di regolamenti parlamentari e trovare in tale ambito un contrappeso abbastanza efficace. A mio avviso, la scelta di un intervento a questo livello sembra praticabile, e non la escludo dallo spettro delle possibilità.
Il problema esiste: non posso dirle che una situazione di questo tipo...

RICCARDO MARONE. Mi sembra che il problema esista proprio nel momento in cui leggo che il fatto di aver vinto le elezioni, cioè di avere ricevuto il voto popolare, elimina la questione dei contrappesi: mi pare che vi sia una certa tendenza, anche nelle dichiarazioni della maggioranza, a dire: non c'è la necessità di contrappesi perché siamo la maggioranza del paese. Mi sembra che lei invece ponga il problema.

STEFANO MANNONI, Ordinario di storia delle costituzioni moderne presso la facoltà di giurisprudenza dell'università degli studi di Firenze. Io pongo il problema perché leggo in questi giorni sulla stampa inglese, con la stessa preoccupazione da lei espressa, che Tony Blair dice: ma dei Lord


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cosa ce ne facciamo? Eliminiamo anche loro! In questo modo, si assicura l'assoluta riflessività tra il Governo ed una maggioranza parlamentare che si colloca in rapporto gerarchico rispetto al Governo stesso. Il sistema di Tony Blair è stato molto celebrato anche da parti che forse si sarebbero dovute porre qualche interrogativo in più: infatti, la maggioranza del Governo laburista inglese ha appena abolito il Bill of rights del 1689 attraverso le misure sul terrorismo che conosciamo. Pertanto, quando affermo che il problema della dittatura...

ELENA MONTECCHI. Lei sa che c'è un grande dibattito al riguardo? Non mi sembra un esempio calzante!

STEFANO MANNONI, Ordinario di storia delle costituzioni moderne presso la facoltà di giurisprudenza dell'università degli studi di Firenze. Quale era l'esempio che non le sembrava calzante (Commenti del deputato Montecchi)? Dal momento la Costituzione inglese configura una «dittatura elettorale», ma allo stesso tempo prevede freni sociali e sociologici, il Bill of rights faceva in qualche modo parte di una sorta di Costituzione consuetudinaria che limitava la discrezionalità della maggioranza. Mi sembra innegabile che il problema sia all'ordine del giorno degli ordinamenti costituzionali europei.
Per rispondere alla questione sollevata dall'onorevole Boato, vorrei dire che mi sono soffermato sulla vicenda del sindaco Bloomberg con le cautele esposte in apertura. Certamente, si tratta di un sindaco e non di un Capo di Governo, ma devo dire che ho trovato un po' singolare il ragionamento che è stato seguito. Infatti, il sindaco Bloomberg è proprietario di un'impresa di informazione (con 1200 giornalisti) che è la diretta concorrente della Reuters. Il ragionamento degli americani è stato questo: siccome il sindaco di New York non ha competenza sul broadcasting, perché non si occupa di queste cose (anche se il comune di New York può affittare dei terminali da cui ricevere delle informazioni), il conflitto di interesse non esiste. Si possono mettere le cose anche in questo modo: qualcuno ha suggerito, sul versante della Reuters, che forse il conflitto di interessi c'era perché il sindaco ha un minimo vantaggio rispetto all'opposizione e ai suoi competitori avendo 1200 giornalisti che ventiquattr'ore su ventiquattro lavorano al suo servizio.
Ho fatto tale esempio per due ragioni: in primo luogo, per dire che il sistema americano è abbastanza elastico e a geometria variabile ; in secondo luogo per sottolineare come vi sia anche un filo di ipocrisia, perché vorrei sapere se governare New York come city boss con 1200 giornalisti che lavorano al proprio servizio non dia adito a un conflitto di interessi, anche se non si tratta di un conflitto di interessi formale e giuridico, ma sostanziale.
Quindi, i parametri legali o legalistici americani consentono alcune situazioni. Al riguardo, le faccio un esempio che ho trovato scioccante: il Postmaster general (il ministro delle poste americano), che si era dimenticato di avere un certo numero di stocks (azioni) della Coca-cola ed aveva partecipato ad una deliberazione per cui si dovevano installare distributori di Coca-cola negli uffici postali americani, ha ricevuto una multa di 30 mila dollari che ha dovuto transare con l'Attorney general perché ciò è stato ritenuto una grave violazione del conflitto di interessi. Vorrei dire che l'America è un paese di grandi contraddizioni, quindi la vicenda di Bloomberg era anche un invito a riflettere su questi aspetti.
Per quanto riguarda la questione delle sanzioni, vorrei dire che non ho in tasca la soluzione per risolvere il problema dell'imputazione della responsabilità dell'autore-beneficiario: si tratta di un problema giuridico notevole, non di un'aspetto secondario. Al riguardo, ho trovato suggestiva la proposta. In via procedurale, con audizioni delle imprese e con interpellanze, segnalazioni e diffide al Governo, è possibile trovare un momento in cui garantire all'impresa di essere audita altera parte. Nello stesso tempo, la pressione esercitata sull'impresa costringe il


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Governo a fare marcia indietro. Ho esposto in modo molto grossolano il meccanismo, ma l'idea è questa; devo dire che tutti stiamo pensando in che modo si possa configurare dal punto di vista giuridico, e nessuno ancora c'è riuscito.
Per quanto riguarda l'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, devo dire che ho trovato molto timida la relazione esposta dal professor Cheli ieri: l'autorità che presiede dispone infatti di vastissimi poteri. Trovo sempre molto apprezzabile il self-restraint da parte di chi presiede authority che dispongono di meccanismi di intervento e di sanzione così estesi perché ciò rappresenta una forma di garanzia e di affidabilità di chi detiene tale potere. Si possono certamente esplicitare alcuni passaggi, perché il senso della normativa da adottare sarebbe quello di chiarire alcuni punti prevedendo funzioni aggiuntive; tuttavia, affermare che questa authority non dispone né delle attrezzature, né delle competenze, né dei poteri per svolgere questi compiti mi sembra un rigurgito di timidezza da parte del professor Cheli che francamente non comprendo.

PRESIDENTE. Ringrazio il professor Stefano Mannoni per il contributo fornito a lavori di questa questo Commissione.
Dichiaro conclusa l'audizione e sospendo brevemente la seduta.

La seduta, sospesa alle 12.15, è ripresa alle 12.25.

Audizione del professor Giorgio Lombardi, ordinario di diritto pubblico comparato presso la facoltà di giurisprudenza dell'università di Torino.

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca l'audizione del professor Giorgio Lombardi.
Innanzitutto, desidero ringraziare il nostro ospite per la presenza, ma anche per la sua pazienza, dato il ritardo sull'andamento dei lavori. La invito, professore, ad esporre la sua relazione per poi consentire ai colleghi, come lei sa, di porre alcune domande alle quali potrà fornire immediatamente risposte ovvero riservarsi di inviarle, successivamente, per iscritto.

GIORGIO LOMBARDI, Ordinario di diritto pubblico comparato presso la facoltà di giurisprudenza dell'università di Torino. Desidero, innanzitutto, ringraziarvi per questo invito, del quale sento la responsabilità. Premetto che, di questo argomento, non mi sono mai occupato molto, pur trattandosi di uno dei temi centrali della polemica. Tuttavia, esso mi ha dato modo di approfondire anche qualche profilo che va oltre le soluzioni specifiche. Vorrei accennare a due di tali aspetti. Il primo attiene all'uso del diritto comparato dato che, in questa materia, vi si attinge a piene mani: se ne parla, si presentano esempi, si invocano precedenti stranieri e così via. Il secondo è relativo al cambiamento, in tutta questa materia, del tipo di rapporti all'interno di quella che, un tempo, si definiva società civile: una volta, perché la distinzione tra Stato, come apparato, e società, come l'insieme degli individui, è un pensiero che deriva dalla filosofia hegeliana; si badi bene, degli individui, non dei gruppi. Questo cambiamento comporta un ripensamento delle incompatibilità, delle ineleggibilità e di tutto il resto, elaborate quando la struttura statale aveva le caratteristiche che oggi sono in gran parte in discussione e, forse, anche superate.
Entriamo, più specificamente, nel primo tema: il diritto comparato. Di solito, si pensa che esso serva ad individuare le analogie. Ciò è corretto relativamente al diritto privato comparato nel cui ambito si cerca di raggiungere un diritto uniforme per favorire il commercio e gli affari. Nel diritto costituzionale, e nel diritto pubblico in generale, la ricerca di analogie richiede un'opera molto più sottile, che risulta pericolosa perché, soprattutto nel diritto pubblico, si ricorre ad un uso della comparazione come argomentum quo ad auctoritatem: si pensa, cioè, che se in un dato paese fanno così, anche noi dobbiamo fare così. A questo proposito posso citare un piccolo esempio, anzi, forse non


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tanto piccolo. Ricorderete quando, alcuni anni fa, si è voluto riformare il codice di procedura penale e si poneva, come obiettivo, il raggiungimento del modello anglosassone in uso negli Stati Uniti, il tanto lodato modello accusatorio. Non comprendendo i nostri giuristi il modo di essere del mondo anglosassone, volendolo trasportare presso di noi che, nei nostri cromosomi, abbiamo il processo inquisitorio da secoli, se non di più, ne è scaturito che il nostro processo non è divenuto accusatorio, è rimasto inquisitorio, riunendo in sé tutti i difetti dell'uno e dell'altro. Quando questa riforma del codice di procedura penale è stata approvata, tutti l'hanno osannata secondo il cosiddetto messianismo delle istituzioni. Il risultato lo potete osservare: siete stati obbligati a inserire nella Costituzione norme che, in qualunque altro Stato, avrebbero trovato più opportunamente posto in un codice. Questo è accaduto perché il codice non era in grado di assicurare quei valori elementari. Perciò, è necessario prestare molta attenzione quando si ricorre al diritto comparato: bisogna conoscere le differenze. Ho teorizzato - mi scuso per l'autocitazione - che il proprium del diritto pubblico comparato è lo studio delle differenze e non quello delle analogie. Una volta compreso il perché delle differenze, possiamo effettuare una buona comparazione e beneficiare anche degli effetti pratici. Ciò emergerà al momento opportuno, quando passerò all'esame delle diverse proposte e delle diverse tesi.
Esaminiamo ora il profilo attinente alla società e allo Stato. Il discorso è semplice: la società dell'Ottocento era, o almeno doveva essere, secondo coloro che l'avevano teorizzata, e cioè i liberali dell'approdo moderato della rivoluzione francese, una società di uguali in diritto perché moderatamente diseguali in fatto. Soprattutto, doveva essere una società dove non esistessero gruppi intermedi: concezione atomistica del popolo, secondo la definizione del famoso costituzionalista Emilio Crosa. All'interno di essa, osserviamo come l'origine della ineleggibilità - che un tempo non esisteva, essendo prevista soltanto l'incompatibilità - sia di tipo giacobino. Robespierre inventò l'ineleggibilità; addirittura, a Lamartine fu proibito di parlare perché la sua oratoria era tale da trascinare, non soltanto le folle, ma anche i ben più smaliziati deputati dell'Assemblea francese. Il fine era sempre quello di evitare un qualche cosa che, si afferma, possa alterare la situazione. Potreste domandarmi che cosa c'entri questo con il problema delle incompatibilità e dei conflitti di interesse. C'entra, eccome, perché all'epoca era facilissimo eliminare questi conflitti: era sufficiente affermare che due determinate cose insieme non potevano stare, dato che, comunque, erano disancorate, in un certo senso, dalla struttura sociale.
Oggi questa struttura è completamente diversa: lo Stato, attualmente, è ciò che il Giannini definiva società pluriclasse. Inizialmente a me questa sembrava una sciocchezza (scusate, se parlo in questo modo di un grande maestro!) perché tutti gli Stati sono, più o meno, pluriclasse. Studiando meglio il problema, questa definizione è importante in quanto significa, semplicemente, che non esiste più una classe come nell'Ottocento: la classe borghese, la classe operaia, il ceto industriale stabile o i bottegai. Oggi, la mobilità sociale è enorme; quindi, i cambiamenti sono altrettanto enormi. Inoltre, ciò comporta un profondo mutamento perché la società dell'Ottocento vedeva i diritti in pericolo a causa dell'intervento dello Stato, secondo la dialettica libertà-autorità nella quale, da una parte, c'è uno Stato, con la sua autorità che può ledere i diritti, dall'altra, la società civile con i cittadini portatori dei loro diritti che fanno valere nei confronti del potere pubblico. Tutto questo, ormai, non ha più corso perché i diritti possono essere offesi anche da poteri che non sono pubblici ma ne hanno gli stessi effetti: quelli volgarmente noti come i poteri forti ma che, meglio, si potrebbero indicare - con una mia definizione di circa trent'anni fa - come i poteri privati.
La nostra Costituzione, al secondo comma dell'articolo 3, secondo un'interpretazione giuridica rispetto a quella politica


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che aveva guidato Elio Basso a chiedere che questo articolo vi fosse inserito per legittimare una sorta di rivoluzione permanente, afferma semplicemente che - meglio non citare a memoria, può fare brutti scherzi - «è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del paese». I giuristi, poi, hanno interpretato la definizione di «lavoratori» nel senso di «cittadini». Anche la Costituzione spagnola, riportando la medesima norma, ha utilizzato il termine «cittadini». Questo voleva significare l'esistenza della rilevanza giuridica di una disuguaglianza di fatto, quando questa è tale da ledere un diritto. È un discorso che si pone sul piano delle garanzie individuali.
Detto questo, occorre adeguare il tema delle incompatibilità e del conflitto di interessi ad una società complessa e anche ad una situazione diversa dei rapporti tra Parlamento, Governo e popolo. Prendendo ad esempio il modello statunitense, del quale io non sono un esagerato estimatore - lo ritengo un'esperienza interessante, oggi troppo di moda e, quindi, una sana diffidenza non guasta - si rileva come quel poco di democrazia che esiste (scusatemi, se affermo questo ma ritengo che la democrazia sia una linea tendenziale che non c'è, è difficile da trovare) funziona, e può essere un esempio di riferimento non soltanto per via dell'investitura popolare e quant'altro, ma perché ci sono i pesi ed i contrappesi. Il proprium della Costituzione degli Stati Uniti d'America e del modo in cui opera è quello dei pesi e contrappesi nelle istituzioni: Presidente elettivo, Camera e Senato eletti in turni diversi, Presidente che dispone raramente di una propria maggioranza, dato che in genere è sostenuto da una maggioranza diversa. Allora, è necessario un accordo e nessuno va oltre il proprio limite (questo ricordatelo). Il potere giudiziario è fortissimo però, al momento giusto, sa fare un passo indietro. Pensate alla vicenda del New deal, quando la Corte suprema bocciava tutta la legislazione sociale del vecchio Theodore Roosevelt: c'era una maggioranza conservatrice, di liberali conservatori - ci possono pur essere - nella Corte suprema; Roosevelt, ad un certo punto, minacciò di introdurre una modifica costituzionale - aveva la maggioranza per farla approvare - per raddoppiare il numero dei giudici della Corte suprema, nominati dallo stesso presidente, soltanto con un controllo da parte del Senato. La maggioranza dei conservatori si era già assottigliata: uno di essi affermò che, in fondo, era meglio che il primato fosse attribuito al politico. Anche in quel caso pesi e contrappesi hanno funzionato.
Noi ci troviamo in questa situazione: ho sempre rilevato l'esistenza di conflitti di interesse, nel corso dei miei studi. C'era un progetto di legge, approvato dalla Camera e inviato al Senato, poi decaduto, che è stato recentemente ripresentato. Nell'introduzione, c'è un riferimento a Camillo Cavour che, quando divenne primo ministro, vendette le sue partecipazioni azionarie perché costituivano la maggior parte del suo patrimonio: non è vero, la maggior parte era rappresentata dai fondi e dalla produzione del grano. Quando rifiutò vantaggiosi affari proposti dall'Austria - vorrei ben dire - era ministro di un paese che le aveva appena dichiarato guerra e che, successivamente, ne avrebbe dichiarato un'altra. Tuttavia, conservò le sue proprietà e quando i prezzi del grano aumentarono a Torino si verificarono tumulti. Basta leggere quanto scrisse Brofferio, ne I miei tempi per capire il clima.
Oggi, ci troviamo in una situazione in cui c'è un servizio pubblico radiotelevisivo che, a mio giudizio (poi parleremo anche di quello privato), aveva senso in uno Stato come quello italiano degli anni Trenta, mentre oggi non ne ha più. Abbiamo un duopolio televisivo con un grande gruppo privato e un grande gruppo pubblico che si rassomigliano sempre più, in tutto. Il problema è semplice: i mezzi tecnici oggi disponibili non sono più quelli di un tempo, quando c'erano due, tre, quattro o


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sei bande; ce ne sono un infinità. Cessata la mia appartenenza al Consiglio superiore della magistratura, sono stato per quattro anni al Consiglio superiore delle telecomunicazioni e, devo riconoscere, ho imparato moltissimo, anche come la tecnologia attuale possa permettere in larghissima misura questo superamento tanto che neanche si potrebbe più parlare di concessione, in questo senso. Una cosa è la messa a disposizione delle vie per passare, altro è attribuire concessioni. Ricorderete che, per risolvere il problema dei suoli, si è pensato di definire concessione la vecchia licenza edilizia, che era e resta una autorizzazione, ritenendo, in tal modo, di avere cambiato tutto. Neanche per idea! Restava e resta una autorizzazione. Giannini, che verso la proprietà privata non era certamente tenero, a quel proposito - l'ho sentito con le mie orecchie - affermò: «già che c'eravate, potevate chiamarla Giuseppina, Carlotta o quello che volevate perché, tanto, nulla sarebbe cambiato».
A mio avviso, il problema non è tanto quello di chi fa una cosa, ma delle influenze che può avere. Voi penserete che ho scoperto l'acqua calda. Penso, invece, che questo significhi avviarsi a trovare una soluzione. Si vuole che sia ridotta o contenuta l'influenza che deriva dalla proprietà di mezzi di comunicazione o si vuole, semplicemente, privare di questi mezzi il suo detentore? Bisogna prima risolvere questo interrogativo, dopodiché gli altri. Questo però, non è un problema di conflitto di interessi, ma di influenza sulla formazione del consenso che, oggi, passa attraverso le vie più disparate. Un tempo avveniva attraverso la parola e, un poco, attraverso la stampa. In una società in buona misura di analfabeti, come era quella italiana di centocinquanta anni fa, i giornali erano al servizio di quella élite del due, tre per cento di persone che avevano diritto di voto. Oggi, è totalmente diverso: si legge di più, si ascolta di più e si osserva di più. Il quotidiano resta, si può leggere e conservare.
Non seguo molto la televisione e, anche se generalmente presto attenzione a ciò che faccio, dopo qualche ora o qualche giorno non ricordo più nulla delle trasmissioni televisive a cui ho assistito. L'informazione televisiva è molto più labile e le mode passano velocemente. Il problema diventa: togliamo o ne rendiamo comprensibile il significato? La nostra Costituzione afferma che la legge può stabilire la pubblicità riguardo a chi finanzia la stampa periodica, punto sul quale siamo arretrati. Si può dire che La stampa sia di proprietà di Agnelli, della FIAT o che la Repubblica appartenga a De Benedetti e Caracciolo: non si conoscono però gli accordi, la pubblicità, né il resto. Si tratta dunque di un provvedimento che deve essere esteso a tutti gli aspetti, non ad uno solo. Esistono molte piccole televisioni locali che non si affermano, ma che si rivolgono ad un proprio pubblico: in realtà contano i grandi telegiornali, i grandi luoghi del confronto.
Riguardo al problema in discussione si possono avere due profili: il primo riguarda il fatto che attraverso il notevole impatto costituito dal valore aggiunto della carica governativa si possa alterare l'equilibrio concorrenziale, non solo nei media ma in una serie di attività economiche; anche se oggi lo Stato sociale ha meno peso di un tempo, è comunque inevitabile che vi siano interventi dello Stato nel settore privato, che possono alterare equilibri. L'altro aspetto riguarda la modifica dell'orientamento politico elettorale attraverso l'uso del mezzo televisivo. Faccio un esempio: ricordo che, anche se allora ero un bambino, durante il ventennio esisteva un'unica fonte, un totale bombardamento quotidiano su ogni argomento. Erano tempi di guerra, ma quando il 23 luglio accadde un certo avvenimento, che cosa successe? Non rimase nulla, malgrado la situazione.
Ricordate le elezioni del 1996? I mezzi di comunicazione erano tutti presenti eppure il proprietario delle televisioni perse; d'estate i giornali non sanno cosa pubblicare ed inventano i serpenti di mare: quando vince le elezioni si dà la colpa alle televisioni, se le perde si dice che neppure le televisioni sono servite. Vogliamo togliere le televisioni a Berlusconi? Ciò non


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è consentito dalla Costituzione in vigore: da studioso di diritto costituzionale dico che questo tipo di espropriazione non è consentito dalla Costituzione dall'articolo 41, dall'articolo 42 e soprattutto dall'articolo 43, che è la nostra norma sulla socializzazione. Il riferimento utilizzato per la nazionalizzazione dell'energia elettrica è il seguente: «A fini di utilità generale, la legge può riservare originariamente o trasferire, mediante espropriazione salvo indennizzo allo Stato, ad enti pubblici, a comunità di lavoratori ed utenti, determinate imprese o categorie di imprese, che si riferiscano a servizi pubblici essenziali o a fonti di energia, situazioni di monopolio ed abbiano carattere di preminente interesse generale». Oggi la radio e la televisione non sono più un servizio pubblico essenziale (il referendum lo ha indicato chiaramente), non sono fonti di energia né situazioni di monopolio (in questo caso sarebbe monopolio anche la FIAT); inoltre è molto difficile valutare l'interesse generale. Ho letto il parere elaborato dal professor Caianello su questo punto: sono perfettamente d'accordo con quanto afferma.

PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE GIANCLAUDIO BRESSA

GIORGIO LOMBARDI, Ordinario di diritto pubblico comparato presso la facoltà di giurisprudenza dell'università di Torino. Le proposte di legge di cui ho potuto prendere visione prevedono di sottrarre o trasferire beni in mancanza di determinati atti, nessuno ha suggerito l'idea dell'esproprio: sto proponendo un argomento ad absurdum, per spiegare che anche forme che indirettamente portano ad un effetto di ablazione atipica non hanno spazio; infatti, se la Costituzione stabilisce le regole in questa materia, che è pur sempre oggetto del diritto patrimoniale, la strada è già tracciata oppure non esiste. Qual è allora la soluzione? Se ne possono trovare diverse, la prima delle quali è quella del blind trust, sulla quale immagino che avrete già acquisito molti pareri. Questo meccanismo, in uso negli Stati Uniti, serve soprattutto per i patrimoni azionari: se il proprietario di un certo numero di azioni dovesse assumere una carica pubblica, dovrebbe affidare le sue azioni ad un gestore; chiunque abbia un certo numero di azioni le affida sempre al gestore perché agendo diversamente, a meno che non si tratti di un esperto di Borsa, non otterrebbe risultati positivi. Questo discorso non è valido in presenza di una attività imprenditoriale perché si deve affidare un'impresa ad un gestore cieco. Questo è incompatibile con il dinamismo di impresa e realizza un effetto di ablazione occulta e non trovo questa ipotesi conforme al diritto costituzionale vigente (anche se spesso si piega la Costituzione a varie interpretazioni ). Di fronte ad una nuova normativa, bisogna domandarsi se si vuole limitare il conflitto di interessi o se si preferisce mantenerlo inalterato. Credo che l'idea di mantenerlo inalterato convenga a molti, mentre risolverlo conviene alla tranquillità sociale. Capiamo come sia possibile impostare le convenienze.
Consentitemi un'osservazione: il principio di eguaglianza del voto non può essere rispettato in assoluto. L'idea che tutto debba essere uguale è analoga a quanto si diceva nelle vecchie circoscrizioni elettorali in Francia (parliamo di 200 anni fa): il territorio si divide geometricamente per numero e si elimina la vecchia tradizione, perché i collegi non rispondono ad alcune esigenze. Il ragionamento è esattamente opposto a quanto avvenuto in Gran Bretagna dove i collegi costituiscono territorialità, non sono circoscrizioni, cioè ambiti di competenza entro la quale si realizza un'elezione, ma territorialità profonde che hanno come proprio esponente il deputato che viene eletto. Si tratta di un modello che non definirei federale, ma che assomiglia molto a questo secondo un costume, quello britannico, che presenta una continuità dal medioevo fino ad oggi, senza cesure. Nessuno è uguale: le campagne elettorali costano. Mi piace studiare la politica ma non ho mai affrontato una competizione elettorale perché non possiedo


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risorse sufficienti e non ho mai voluto chiedere denaro ad altri: si tratta di una attività costosissima. Per il senatore Umberto Agnelli la campagna elettorale è stata molto più leggera che per chiunque altro. Chi è appoggiato da un giornale vince più facilmente rispetto a chi non ha nessuno; chi possiede tre televisioni riesce altrettanto facilmente.
Si pone in primo luogo il problema di capire come venga e da chi questa sovrapposizione ed in secondo luogo che chi è in possesso di un determinato potere non alteri la concorrenza - non semplicemente in un determinato settore - e l'equilibrio dell'informazione. Mi rendo conto che è molto difficile in qualunque paese, ma nel nostro è difficilissimo. Poniamo che venga decisa l'istituzione di un'autorità superiore: a chi dovrà riferire? Certamente al Parlamento; ma in questo caso il Parlamento stesso non servirà più. Con il sistema elettorale maggioritario il Parlamento serve? Pongo una domanda retorica; esaminiamo il caso in cui in Parlamento si formi una maggioranza consistente e coesa oppure quello in cui la maggioranza sia ristretta. Nel primo caso il Parlamento non sarà in grado di influire su nessuna decisione: vi ricorderete che durante la metà degli anni cinquanta il professor Elia pubblicò un breve scritto da titolo «Il Governo comitato direttivo del Parlamento». Durante gli anni di studio, ci hanno insegnato che il Parlamento è tutto, mentre il Governo è l'esecutivo che deve eseguire quanto stabilisce il Parlamento nel momento in cui vota la fiducia: la mozione di fiducia costituisce la norma in base alla quale il Governo deve governare. Ciò presuppone una alterità profonda tra Parlamento e Governo, non una omogeneità, che oggi è diventata sempre più forte.
Nel modello britannico, da quando è in vigore il suffragio universale, si vota per il deputato, il programma, il leader, che sono percepiti come un insieme unico. In Italia siamo vicini a questa opzione; allora, il Parlamento non serve. Questo è il motivo per cui se si decide di istituire un'autorità superiore, come nella proposta del Governo, essa sarà fittizia perché o scardina il sistema costituzionale nel senso che questo diventa un doppione (nemmeno il migliore) rispetto alle Camere; oppure non servirà a nulla e sarà inutile. Poiché non abbiamo un sistema come quello vigente negli Stati Uniti, composto da pesi e contrappesi (non so se lo avremo mai) è necessario fare affidamento sull'impatto nei confronti dell'opinione pubblica. In Gran Bretagna, il contrappeso è costituito dall'opinione pubblica e dalla possibilità di cambiare il voto. Ora vogliono abolire la Camera dei Lords: ricordo che avevo assegnato una tesi sulla Camera dei Lords ad un giovane che avevo mandato a studiare ad Oxford. In quel periodo governava la signora Thatcher, conservatrice ma rivoluzionaria, a differenza della Camera dei Lords che è conservatrice ma non rivoluzionaria: l'unica forma di opposizione scaturiva dalla Camera dei Lords, anche se opposizione modesta perché già i laburisti, in varie occasioni, avevano prima eliminato il bicameralismo perfetto e poi la differenza tra il bill finanziario e altro.
Il problema è l'opinione pubblica diretta che non siamo abituati a considerare: sembrerà strano, ma nel sistema proporzionale l'opinione pubblica non conta perché ognuno procede secondo il proprio radicamento e, avendo diverse opzioni a disposizione, sceglie la propria; il resto avviene in sede parlamentare. Perché si è verificata la crisi di quella che si continua a chiamare la prima Repubblica? Perché non vi era la possibilità di intervenire e cambiare: il sistema successivo ha permesso il cambiamento, assegnando la vittoria prima ad un gruppo, poi ad un altro, poi ad un terzo; è questo il vero contrappeso e l'opinione pubblica conta moltissimo nella scelta di una parte o dell'altra. Se prestiamo attenzione, inoltre, il modo con cui si vota non provoca distanze abissali tra le forze politiche: se osserviamo il risultato delle ultime elezioni, capiremo che vi è poca differenza di voti in termini numerici. Si può essere gratificati da un'enorme maggioranza, che però rischia di essere perduta con estrema facilità. Questa è la ragione per la quale


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ritengo fondamentale l'opinione pubblica. Esiste, al riguardo, un problema di trasparenza.
Il problema è quello della trasparenza, ma facciamo attenzione, perché una volta usato questo termine, voi potreste rispondermi che si tratta di una bella parola ma che non serve a nulla. Invece serve.
Ho notato che nella proposta che era stata fatta prima, così come in quella firmata Angius ed altri, era previsto il riferimento alle due authorities: quella della concorrenza e quella delle telecomunicazioni. Io penso che la strada sia proprio quella, cioè puntare su un potenziamento di quelle autorità. Detto questo, posso capire che sorgano altre domande. Una, per esempio, potrebbe riguardare le sanzioni. Per altro verso ci si potrebbe chiedere come procedere. Un'altra potrebbe riferirsi agli atti del Governo. Un'altra ancora, infine, potrebbe riguardare il modo per realizzarle. Proverò qui a delineare alcune prospettive cercando di rispondere alle domande che mi verranno poste, a molte delle quali mi riserverò di farlo per iscritto, poiché lo considero più serio verso chi le pone.
Il primo discorso riguarda l'Authority per la concorrenza. Questa deve servire ad evitare non solo i vantaggi per se stesso, ma anche l'alterazione dell'equilibrio proveniente da quella posizione potere.
Ricordo che - mi pare nel Governo Dini - ad un certo punto era divenuto ministro degli esteri la signora Agnelli. Sono ripresi gli investimenti della FIAT in America latina. Può darsi che sia una coincidenza; può darsi di no. Tuttavia è avvenuto e la trasparenza avrebbe voluto che si fosse saputo perché, con quali aiuti e in quali modi.
Il secondo discorso riguarda l'Unione europea, la quale tiene moltissimo non solo alla libera concorrenza ma anche ad evitare i cosiddetti aiuti alle imprese. Sono dell'opinione che, in tutti i casi in cui ci siano determinate situazioni che possono portare ad uno stravolgimento della concorrenza, l'Autorità possa svolgere le sue indagini, ma il problema - secondo me - è quello delle inchieste. Noi siamo poco abituati a queste ultime, poiché di solito si svolgono in segreto, con poca pubblicità e con scambi di favori, mentre invece in questo caso si attuerebbe una pubblicità assoluta, mediante un'inchiesta breve ma attenta che veda una conclusione, la quale può consistere, per esempio, nell'inefficacia degli atti: attenzione, non parlo di nullità degli atti bensì di inefficacia di questi. L'atto, appunto, non ha effetto.
A questo punto, a conclusione di un'inchiesta, la relazione ben motivata che ne segue può essere portata in Parlamento. Certamente, dopo avere parlato di quest'ultimo nei termini che ho usato prima, ci si potrebbe chiedere: che cosa la si porta a fare in quel posto? Almeno, si verrebbe a sapere se c'è una maggioranza che si oppone, per esempio, a considerare un certo aspetto. Sarebbe un po' come quando, un tempo, c'era la registrazione con riserva della Corte dei conti. Perché si faceva? Perché erano soldi dei contribuenti e questi ultimi forse facevano più attenzione, per cui se il Governo insisteva nel voler effettuare quella spesa, la Corte dei conti la lasciava effettuare ma operava un rinvio al Parlamento. Tutto questo è venuto meno perché era minore l'impatto sociale di questi argomenti, ma ritengo che su un tema come quello di cui si discute può di nuovo essere venuto il momento per effettuare un confronto serio.
Infine, l'Autorità può sempre fare rapporto, volendo, anche al Commissario europeo per la concorrenza. Non dimentichiamo che viviamo in un sistema - quello europeo - dove il problema della concorrenza non riguarda solo l'ambito nazionale ma tutta l'Unione. Pertanto, ritengo che la nostra Autorità della concorrenza, opportunamente rivisitata, basti. Però c'è anche l'Autorità per le comunicazioni: non dimentichiamo che si parla di televisioni.
Quanto detto potrebbe andare bene per tutti i settori economici e non soltanto per chi in questo momento è Presidente del Consiglio. Ci sono tanti altri interessi in questione.
L'altro aspetto, dunque, riguarda i mezzi di comunicazione collettivi. Questi ultimi sono importanti, tanto a livello


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nazionale quanto a quello locale. Se così è, occorre considerare anche le televisioni locali. C'era un vostro collega che possedeva una piccola televisione locale ed è riuscito ad essere eletto anche grazie ad essa. Anche questo conta.
Tuttavia, il problema consiste soprattutto nel divieto di alterare l'equilibrio nella trasmissione dell'immagine. In altri termini, il problema dell'immagine non riguarda in sé e per sé la proprietà od altro, bensì il tipo di immagine che si trasmette. È l'immagine, il messaggio, come scrive Mc Luhan.
L'Autorità delle telecomunicazioni ha i poteri e i mezzi per intervenire: inchieste, dichiarazioni di inefficacia, sanzioni e via dicendo. Pensate, per esempio, alle sanzioni nel caso della stampa: si pubblica una notizia che non dovrebbe essere pubblicata. Quante volte c'è stata violazione del segreto istruttorio? Tante. Non riesco a capire - in realtà, lo capisco benissimo, ma è una domanda retorica - perché quando si pubblicano tali notizie, non intervenga una sanzione specifica e non la solita denuncia al solito tribunale o pretore, la quale non serve a nulla, oppure la solita smentita, che viene più spesso pubblicata in un fondo pagina minuscolo, mentre l'altra notizia occupava due o tre colonne. Sarebbe stato molto più semplice prevedere che quel giornale perdesse una pagina di pubblicità. Perché, infatti, quel giornale avrebbe pubblicato quella notizia? L'ha pubblicata per vendere. E perché fa la pubblicità? Per guadagnare, e più vende, più c'è pubblicità. Pertanto, sarebbe costretto a perdere una pagina di pubblicità per ogni notizia illecita, avvertendo, sulla pagina bianca, che la tale pubblicità non è stata consentita in seguito alla pubblicazione, per esempio, di una notizia coperta da segreto istruttorio o da qualunque altro. Mi si potrebbe obiettare: «I giornalisti inaridirebbero!». Rispondo: «Imparino!». Sono quindi dell'idea che le due authorities servano egregiamente.
Per quanto riguarda l'aspetto delle sanzioni, ce ne possono essere molte - come quelle di cui vi ho detto - possibilmente di tipo pecuniario, di immagine, e via dicendo.
Spero di essere stato esauriente e rimango a vostra disposizione per eventuali chiarimenti.

PRESIDENTE. Ringrazio, a nome della Commissione, il professore Lombardi per il suo contributo e dichiaro conclusa l'audizione.

Audizione del professor Giuseppe Morbidelli, ordinario di istituzioni di diritto costituzionale presso la facoltà di giurisprudenza dell'università La Sapienza di Roma.

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sulle problematiche inerenti la disciplina per la risoluzione del conflitto d'interesse, l'audizione del professor Giuseppe Morbidelli, ordinario di istituzioni di diritto costituzionale presso la facoltà di giurisprudenza dell'università La Sapienza di Roma, che ringrazio a nome della Commissione per la sua presenza ed al quale do subito la parola.

GIUSEPPE MORBIDELLI, Ordinario di istituzioni di diritto costituzionale presso la facoltà di giurisprudenza dell'università La Sapienza di Roma. Procederò per grandi semplificazioni, sia perché i problemi sono tantissimi, sia perché credo che se ne sia già discusso esaustivamente. Per questo, al fine di non ripetere argomentazioni già svolte dai colleghi che mi hanno preceduto, mi riferirò in particolare alle situazioni di conflitto di interesse riguardanti esponenti che ricoprono cariche di Governo (senza quindi entrare nel merito degli aspetti delle cariche regionali, provinciali e via dicendo).
Sostanzialmente, il mio discorso tocca due punti. Dapprima, i modelli astratti di incompatibilità; in secondo luogo, le misure conseguenti a questi modelli.
Mi pare chiaro - così come risulta anche dalle varie proposte presentate in


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Parlamento - che i modelli praticabili - altri, francamente, non vedo - siano, in prima istanza, quello tradizionale della categorizzazione preventiva; in secondo luogo, il modello (da altri anche definito «americano» o «flessibile») dove, nel momento in cui un soggetto assurge ad una determinata carica, si da luogo ad una verifica ad hoc, stabilendo se esistano o meno i requisiti di incompatibilità.
Quindi, non è del tutto rimessa a regole generali ed astratte ma a regole che richiedono una successiva verifica, quanto meno di natura discrezionale. Vi è poi la terza soluzione, che traspare dalla proposta governativa e anche dalla cosiddetta proposta Caianiello, ed è quella che non riguarda i soggetti in quanto tali (od il loro status) ma l'attività da essi svolta.
Sulla prima categorizzazione (chiaramente quella generale, prevista dalle leggi in materia di elezioni alla Camera ed al Senato e dalle leggi elettorali per regioni e comuni) non mi risulta che, con riferimento al caso di specie (queste proposte sono volte ad evitare una commistione di interessi in riferimento ad una specifica situazione patrimoniale), vi siano precedenti di incompatibilità secca ed assoluta in relazione al possesso di un certo patrimonio, qualunque sia l'attività svolta. Anche le costituzioni citate nei vari dossier (tedesca, francese, austriaca) che introducono il principio dell'incompatibilità tra cariche di Governo e determinate attività fanno sempre riferimento proprio all'attività e non allo status in quanto tale.
È stato affermato che far riferimento allo status significherebbe introdurre un limite di censo al contrario; in realtà, ritengo che un limite di tal genere sarebbe in contrasto non solo con tutta la nostra tradizione legislativa, ma anche con la regola di cui all'articolo 51 della Costituzione in base alla quale si configura una limitazione dell'accesso ai pubblici uffici solo in mancanza di alternative. L'intenzione di non introdurre un'incompatibilità «secca» in relazione alle situazioni patrimoniali è avvertita ad un tale livello che le varie proposte seguono, in realtà, quello che ho definito un meccanismo intermedio e cioè una valutazione - caso per caso - sulla base di una rilevazione, eseguita al momento dell'assunzione del mandato, di quelle che sono le situazioni patrimoniali proprie, familiari, e quant'altro.
Tuttavia, con una modalità quale quella prevista dalla proposta n.2214 si ipotizza lo stesso una valutazione caso per caso, ma in maniera tale che detenere un patrimonio in certi settori ritenuti rilevanti determina, di per sé, la dichiarazione di incompatibilità ad opera dell'autorità a ciò preposta. Pertanto, in riferimento al caso principale che sta dietro a questa legislazione in itinere, anche questa proposta finisce, di fatto (anche se è condotta con finezza richiamandosi al modello americano), col rientrare nella prima categoria, cioè quella delle assolute incompatibilità per ragioni di stato patrimoniale.
È vero anche che, proprio tenendo conto di alcune obiezioni che la ritengono una soluzione troppo radicale ed in contrasto con i principi dell'articolo 51, la proposta prevede una sorta di contraddittorio con l'autorità etica (o altra autorità) in base al cui esito si possono adottare varie misure. L'unica misura, però, che viene esplicitata è quella della vendita, la quale, a mio giudizio, sarebbe però sicuramente incostituzionale. Voglio ricordare che non mi sembra corretto richiamare la normativa prevista a tutela della concorrenza, in virtù della quale l'Autorità anti-trust può imporre la vendita quando si raggiungono certe concentrazioni; si tratta, in questo caso, di una vendita-sanzione, cioè una vendita che avviene perché una attività è ritenuta illegittima, e non una vendita alla quale, invece, si contrappone l'esercizio di un diritto costituzionalmente garantito. Né tanto meno si può richiamare la vendita prevista ad esempio dalla recente legislazione Ciampi nei confronti delle fondazioni bancarie, perché si tratta di una legge che riguarda enti che, a quell'epoca, vennero considerati pubblici e quindi enti nei confronti dei quali il legislatore ha sicuramente un potere confermativo.
La vendita coattiva, secondo la dottrina che si è occupata del tema, è del tutto


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parificabile ad una espropriazione; ciò perché sia che il trasferimento del bene avvenga per provvedimento unilaterale dell'amministrazione sia perché si è costretti a vendere sulla base dello iussus del legislatore, il sistema non cambia ed infatti, tradizionalmente, l'espropriazione viene chiamata vendita forzosa. Ciò è tanto più vero se si considera che la Corte costituzionale, da molto tempo, ha fornito una nozione di espropriazione molto lata, che riguarda tutte le ipotesi in cui si configura un'incisione sostanziale sul diritto dominicale (dove si incide proprio sulla facoltà di disposizione e quindi di restare proprietari). Se però si ipotizza una espropriazione, tralasciando ogni questione relativa all'indennizzo (che dovrebbe essere costituito dalla differenza tra valore di mercato e l'ammontare del ricavo conseguito ad una vendita subitanea), mancano allora i motivi di interesse generale affinché non vi sia conflitto ma il motivo di interesse generale è connesso a quel bene, che in quanto tale deve servire ad interessi generali, perché l'espropriazione o la vendita forzosa sono finalizzate a far sì che quel bene venga utilizzato da un terzo che ne usufruirà per fini di interesse generale. Aggiungo poi che, talvolta, nelle varie proposte, si parla di possibilità di vendita anche attraverso offerte pubbliche di vendita; allora mi domando, in questo caso, cosa avverrebbe per gli azionisti di minoranza. Non vi è dubbio, infatti, che una vendita di tal genere avrebbe l'effetto di deprezzare le azioni dei risparmiatori di fronte ad un'ingente immissione sul mercato del patrimonio.
Pertanto, la soluzione cosiddetta intermedia presenta proprio un limite di fattibilità anche in relazione al cosiddetto trust cieco, come del resto tutti ormai affermano, e mi pare che tale tesi sia condivisibile. Lo ha affermato anche l'Autorità garante della concorrenza e del mercato nel 1998, la quale ha tra l'altro sollevato dubbi di costituzionalità sulla vendita, che non servirebbe al risultato che si vorrebbe raggiungere. Pertanto vi è un limite di fattibilità, né credo si possa richiamare più di tanto la disciplina americana che come sappiamo - e come è stato ricordato anche stamani - non riguarda né il Presidente né il Vicepresidente (eletti direttamente da parte del popolo) ma ogni sorta di funzionario federale che non ottiene l'advice and consent del Senato, se non risponde a determinate caratteristiche. In tale ipotesi non si configura, pertanto, un intervento che va ad incidere su una scelta popolare, ma vi è una scelta da parte dei massimi vertici federali in relazione a questo sbarramento del Senato.
L'impraticabilità di questa soluzione preventiva ed intermedia potrebbe sollevare varie obiezioni come ad esempio quella del senatore Passigli nel suo libro, dove si afferma come in tal modo non si possa intervenire sulle cause; si afferma, invece che è proprio sulle cause che si dovrebbe intervenire e non sugli effetti. Tuttavia, interveniamo sulle cause allorché siamo in presenza di regole sull'ineleggibilità ed incompatibilità che non presentano controindicazioni di carattere costituzionale e che debbono sempre fare i conti con il principio di uguaglianza e con quello del minimo mezzo.
Del resto, la nostra legislazione amministrativa prevede da sempre l'istituto dell'astensione in tutte le multiformi ipotesi nelle quali il conflitto può emergere e non, ad esempio, un'incompatibilità per un sindaco proprietario di aree certamente interessate dal piano regolatore o di un altro proprietario di esercizi commerciali e, come tale, interessato al piano della rete distributiva; ma soprattutto, in riferimento alle cause del conflitto, va evidenziato come queste si radichino spesso - come dimostra la storia - in interessi privati riferibili, se mai, a patrimoni altrui e, proprio per questo, più agevolmente e cripticamente tutelabili in frode dell'interesse pubblico.
In altri termini, le possibili cause non le elimineremo mai (dovremmo occuparci, fra altro, anche del patrimonio dei segretari dei partiti di maggioranza) né, tanto meno, le elimineremmo con misure generali ed astratte; potremmo invece rilevare


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sempre gli effetti di situazioni conflittuali. Meglio sarebbe quindi, a mio giudizio, creare una cultura del controllo mirato che si muova tenendo conto delle regole di mercato e volta a verificare sempre il cui prodest; estendendo cioè quel modello dell'anti-trust prima del quale il mercato si regolava liberamente, con posizioni dominanti, senza che nessuno intervenisse. Oggi abbiamo, invece, attraverso tutta una serie di interventi, una griglia di regole che certamente hanno cambiato molto ciò che accade nel mercato.
Quindi le proposte come quella del professor Caianiello, e le altre simili, si inseriscono in questa cultura e a mio avviso aprono prospettive verso una valutazione stretta, continua e trasparente della tutela dell'interesse pubblico, avverso devianze in favore dei privati, quali mai vi è stata nel nostro paese. Tra l'altro, questa verifica supera i problemi relativi alla tempistica; infatti fin da oggi si può intervenire sulle attività, perché fin da oggi si può disporre che l'attività di Governo non contrasti con il pubblico interesse, ed approntare meccanismi adatti allo scopo. Non si potrebbe, invece, oggi stabilire uno status di incapacità ad accedere ad un ufficio, poiché l'articolo 51 della Costituzione richiama la legge che si intende, come è ovvio, una legge previa. Quindi è un qualche cosa che può essere realizzata subito a differenza di altre soluzioni che, necessariamente, si proiettano in là nel tempo.
È vero che questa nozione di controllo ex post rende più complessa e laboriosa l'attività di controllo ma ritengo che, nello stesso tempo, ed in ossequio ai principi costituzionali, impedisca presunzioni indiscriminate, suscettibili di ricomprendere fattispecie senza alcun distinguo. Le proposte avanzate a tal fine fanno riferimento ad una apposita autorità o all'Autorità garante della concorrenza e del mercato; personalmente sarei più favorevole alla seconda ipotesi proprio per evitare il proliferare delle autorità indipendenti. Sempre che, naturalmente, l'autorità abbia la struttura e l'organizzazione idonee e che affermi, essa stessa, che vi è, per così dire, la cultura per procedere in tal senso. In ciò anche modificandone, evidentemente, le procedure di nomina, per garantire uno spettro ampio di intervento da parte del Parlamento ed in modo tale da avere una autorità che interviene, di volta in volta, tenendo conto delle necessarie dichiarazioni che l'esponente di Governo deve sempre fare secondo il metodo americano e che traspare, poi, anche dalle varie proposte. Si potrebbe, altresì, prevedere l'obbligo di trasmettere all'autorità tutti gli atti il cui numero - attenzione - è destinato a ridursi grandemente dopo la revisione del titolo V della Costituzione.
Nello stesso tempo dovrebbero essere indicati gli interessi che il Governo ritiene siano coinvolti con questi atti; quindi, una sorta di analisi dell'impatto degli effetti. L'autorità potrebbe intervenire poi d'ufficio, o su richiesta di soggetti da determinare, quali ad esempio categorie interessate, enti pubblici, ordini professionali e sindacati maggiormente rappresentativi.
L'autorità segnalerebbe al Parlamento gli atti suscettibili di agevolare determinati interessi, per le determinazioni di conseguenza, così come la Corte dei conti segnala al Parlamento la registrazione con riserva e i risultati dei controlli di gestione sugli enti pubblici o finanziati dallo Stato (e, se ravvisa le ipotesi di reato, anche al giudice penale). L'autorità non adotta - né potrebbe a mio avviso - alcuna sanzione nei confronti degli organi di Governo, che sono soggetti in virtù della segnalazione di cui sopra al normale circuito di responsabilità politica.
Potrebbero essere ipotizzate ulteriori forme di pubblicità (sulla stampa e sulla televisione) o procedure rinforzate (cioè aggravate) per gli atti non aventi forza di legge, investiti dalle segnalazioni. Così l'autorità potrebbe segnalare l'inerzia di fronte a situazioni legislative o inadempienze attuative (anche di norme comunitarie o di sentenze della Corte), che mantengono lo status quo, a sua volta corrispondente all'interesse personale di chi ricopre cariche di Governo; si tratterebbe


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di un potere di segnalazione che l'autorità è usa fare, ai sensi della legge n. 287 del 1990.
Potrebbero, invece, essere previste sanzioni da applicare alle imprese favorite, sotto forma di recupero delle agevolazioni o in genere dei vantaggi legittimamente conseguiti, così come avviene per gli aiuti di Stato ritenuti non corretti dalla Commissione europea, perché arrecano vantaggi ritenuti non coerenti con il regime concorrenziale.
D'altra parte, sanzioni diverse sono, a mio giudizio, incostituzionali. Si è parlato di rimozione da parte del Presidente della Repubblica, il quale a mio avviso non ha questo potere, non potendosi certo richiamare il notissimo caso Mancuso, perché in quel caso vi era una mozione di sfiducia da parte del Senato. Mi domando, poi, chi dovrebbe controfirmare questo atto del Presidente della Repubblica. Se, poi, come si dice, questo atto è meramente certativo, cioè notarile, allora è di competenza dell'autorità ed è francamente singolare che si possa attribuire un potere di rimozione di organo costituzionale ad un'autorità non prevista dalla Costituzione.
Tralascio tutte le questioni connesse alla tutela giurisdizionale perché altrimenti si finirebbe per decidere davanti ad un collegio ad hoc, con tutte le evidenti controversie che nascerebbero sia di ordine costituzionale, sia di ordine politico.
Mi rendo conto che siamo di fronte ad una soluzione difficile e complessa, che pone peraltro problemi di gestione non agevoli, ma è l'unica che, a mio giudizio, in questo «slalom» costituzionale che dobbiamo fare, sia coerente con i principi della Costituzione vigente e che peraltro potrebbe determinare l'immissione nella nostra società di un controllo mirato alla tutela da interessi non commendevoli, così come si è prevista una tutela dalle posizioni dominanti, a difesa in particolare delle piccole imprese.
In fondo condivido gran parte di ciò che è stato scritto di recente sulla stampa da una persona, non credo sospetta di filogovernativismo, la quale ha sostenuto che la questione del conflitto mal si presta ad una soluzione giuridica formale, attraverso criteri astratti e puntuali; semmai il problema starà nell'intervenire con misure anti-trust nei confronti del duopolio RAI-Fininvest.

PRESIDENTE. Nessun altro chiedendo di parlare, vorrei porre personalmente un quesito al professor Morbidelli.
Premesso che è chiarissima l'impostazione e la sequenza logica del suo discorso, mi sembra di cogliere un aspetto problematico nel fatto che all'autorità verrebbe in qualche modo affidato un compito di analisi dell'impatto dell'azione del Governo. Al riguardo, di fronte all'inazione del Governo, l'Authority quali possibilità di intervento ha? Quand'anche ci fosse questa valutazione - perché lei parla di un'analisi dell'impatto dell'azione di Governo, impatto che viene quindi valutato atto per atto nel momento in cui, a seguito della dichiarazione, si possono configurare potenziali conflitti -, mentre l'Authority analizza l'impatto cosa succede? C'è una sospensione degli atti o comunque della loro efficacia?
Lei ha parlato, infatti, di sanzioni possibili solo ed esclusivamente con riferimento alle aziende che potrebbero ottenere un beneficio, ma non è detto (e non è automatico) che l'effetto sia solo quello dell'arricchimento indebito o improprio di una particolare azienda; possono esserci delle ricadute più generali su tutti i cittadini per effetto della mancata attuazione di una determinata scelta o decisione del Governo. In tutti questi casi, cosa accade?

GIUSEPPE MORBIDELLI, Professore ordinario di istituzioni di diritto costituzionale presso la facoltà di giurisprudenza dell'università La Sapienza di Roma. Le sue domande, presidente, mi consentono di precisare che questa è una soluzione che nasce da uno slalom costituzionale e certamente non ha, né potrà mai avere, dei caratteri per così dire «cartesiani».
Per quanto riguarda il primo profilo, ritengo che proprio nei confronti dell'inerzia del Governo sia possibile l'attività di segnalazione, che del resto spesso viene


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utilizzata e che talvolta produce un suo esito, trattandosi quindi di un attività che presenta attualmente già un suo rilievo.
Ovviamente queste autorità, sia quella attuale sia quella futura, dovranno conquistarsi sul campo la loro autorevolezza, ai fini di una maggiore efficacia delle proprie iniziative.
Per quanto riguarda la seconda parte della questione è evidente che, se c'è stata una redistribuzione a danno o a vantaggio dei cittadini, non sarà certamente possibile ripristinare la situazione in modo totale; ma ciò del resto già avviene quando viene comminata una multa ai petrolieri o agli assicuratori per un aumento del prezzo della benzina o delle tariffe RC auto, dove effettivamente è praticamente impossibile ristorare tutti coloro che si sono trovati ad essere svantaggiati da una situazione ritenuta illegittima (anche se in astratto sarebbe possibile intentare azioni conseguenti a questo fatto illecito, sulla base dell'articolo 2043 del codice civile).
Questo è quindi un problema comune, che già si presenta oggi di fronte a tutte le misure che nascono da soggetti pubblici, o anche da soggetti privati, e che riguardano una categoria molto vasta di soggetti.
Per quanto concerne invece la prima parte della sua seconda domanda è chiaro che si tratta di un punto su cui dovremo riflettere attentamente. Al riguardo, sono stato molto stringato, ma quando ci troviamo di fronte ad atti legislativi (con l'eccezione del decreto-legge, che non conosce tempi morti dalla sua entrata in vigore), la presentazione del disegno di legge dovrà essere comunicata anche all'autorità, la quale potrà fare, anche nel corso dei lavori preparatori, la sua segnalazione; se del caso, potranno a tal fine anche prevedersi opportune modifiche dei regolamenti parlamentari o comunque delle procedure rinforzate nel procedimento legislativo.
Stesso discorso vale anche nel procedimento amministrativo, che riguarda soprattutto atti amministrativi generali o regolamenti, che dopo la revisione del titolo V della seconda parte della Costituzione sono diminuiti di molto. Il nostro ordinamento già prevede l'istituto della comunicazione di procedimento ai diretti interessati, i quali possono interloquire; a maggior ragione in questo caso si comunicherà l'intervento di soggetti portatori di interessi diffusi all'autorità, che farà valere le sue ragioni dopo opportuna istruttoria e se rileva un qualche vizio allora si potranno prevedere procedure rinforzate. Per esempio, in materia ambientale, dove c'è un valore forte, quando c'è un ostacolo da parte dell'autorità preposta all'ambiente o alla salute, non valgono le regole di semplificazione, non vale la conferenza di servizi, non vale il meccanismo del silenzio-assenso. Gli stessi accorgimenti possiamo pertanto introdurli, con le dovute attenzioni, anche in questo caso.

PRESIDENTE. Ringraziamo il professor Morbidelli per il suo intervento.
Dichiaro conclusa l'audizione.

La seduta termina alle 13.45.

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