Resoconto stenografico
AUDIZIONE
La seduta comincia alle 14,40.
PRESIDENTE. Avverto che, se non vi sono obiezioni, la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso impianti audiovisivi a circuito chiuso.
(Così rimane stabilito).
PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, ai sensi dell'articolo 143, comma 2, del regolamento, l'audizione del ministro degli affari esteri, Gianfranco Fini, sulle linee programmatiche del suo Dicastero.
Saluto il neoministro degli affari esteri, nonché vicepresidente del Consiglio dei ministri. Come egli ben sa, la Commissione affari esteri e comunitari della Camera dei deputati e la Commissione affari esteri ed emigrazione del Senato della Repubblica sono gli interlocutori naturali della politica estera italiana. Il vicepresidente del Consiglio Fini è il quarto ministro degli esteri che noi interroghiamo, nel corso di questa legislatura. Naturalmente, ringrazio tutti i suoi predecessori, che hanno sempre seguito con grande rapidità e grande attenzione il dibattito relativo alla politica estera, nel quale mi sembra naturale ricercare punti di convergenza anche con l'opposizione, dato che sono in gioco interessi di carattere nazionale, soprattutto in un momento così importante e così difficile. Il nostro impegno si attua attraverso le missioni italiane in varie parti del mondo e, in modo particolare, in questo momento, in Iraq ed in Afghanistan. Perciò, sarà estremamente interessante ascoltare il ministro degli affari esteri Gianfranco Fini che, è inutile nasconderlo, nella sua qualità di leader nazionale di Alleanza nazionale, è forse il più «politico» tra i ministri degli affari esteri che si sono succeduti, a parte, naturalmente, il Presidente del Consiglio dei ministri, Berlusconi, che ha ricoperto l'incarico ad interim. Quindi, la qualifica istituzionale di «politico» credo che gli spetti.
La ringrazio, signor ministro, e la invito ad intervenire. Noi ci accingiamo ad ascoltarla con grande attenzione; successivamente saranno formulate domande da parte dei componenti delle Commissioni, alle quali potrà replicare. Le rivolgo anche i miei personali auguri, beninteso auguri affettuosi.
GIANFRANCO FINI, Ministro degli affari esteri. Signori presidenti, onorevoli colleghi, sono lieto di avere l'opportunità di illustrare alle Commissioni parlamentari competenti le linee di indirizzo alle quali intendo attenermi alla guida della diplomazia italiana. Chiedo scusa fin d'ora se, forse, abuserò della vostra pazienza ma, per il rispetto doveroso nei confronti del Parlamento ho ritenuto fosse opportuna una ampia illustrazione delle linee guida in base alle quali cercherò di orientare la politica estera del nostro paese. Sono lieto di poterle illustrare a pochi giorni dall'assunzione di un nuovo e impegnativo incarico, di cui il primo motivo ispiratore è la continuità. La continuità è connaturata, innanzitutto, alla realtà di relazioni internazionali che, proprio perché toccano i rapporti fra Stati e popoli, i loro interessi ed il loro modo di essere, non possono e non devono essere
soggette alle oscillazioni dell'alternarsi dei ministri o delle maggioranze. Ancor meno possono esserlo ai capricci di rilevazioni demoscopiche dal respiro sempre più corto e per ciò stesso effimere.
In questi tre anni, anche grazie alla sua politica estera, l'Italia è stata tra i protagonisti della scena internazionale. Ha contribuito in maniera non secondaria al superamento definitivo delle divisioni dell'Europa, sancito dall'ingresso nell'Unione Europea e nella Nato della maggior parte dei paesi che si trovavano al di là della cortina di ferro e accompagnato dalla stagione nuova e costruttiva apertasi nei rapporti con la Russia. L'Italia ha contribuito all'avanzamento dell'integrazione europea, consacrato nella Costituzione firmata a Roma, poche settimane fa. Ha contribuito in modo fattivo a dare nuova solidità ai legami vitali dell'Alleanza atlantica, malgrado il venir meno delle consolidate certezze del passato e l'affiorare dell'insidia inedita di minacce tanto più letali in quanto sfuggenti e asimmetriche. L'Italia ha dimostrato con i fatti, con la sostanza di un impegno concreto e apprezzato nelle aree che hanno richiesto l'intervento dei nostri militari, la dedizione con cui persegue l'obiettivo di diffondere e difendere la pace e la giustizia in ogni angolo del mondo. Si è impegnata con vigore e coerenza a rilanciare la proiezione degli interessi e dei valori di cui il nostro paese è depositario nelle aree geografiche il cui rilievo è per noi prioritario: il Mediterraneo e i Balcani.
La realtà della scena internazionale in continua evoluzione, e che non cessa di porci di fronte a situazioni di crisi multiformi, ci ha già imposto, e ci porrà ancora in futuro, scelte impegnative. Al fondo di queste scelte si colloca e si collocherà un'impostazione che viene da lontano. La vocazione multilaterale, europea e atlantica dell'Italia nasce da un impianto consacrato dalla Costituzione e maturato negli anni difficili della guerra fredda. Oggi come nel dopoguerra e, per certi aspetti, ancor più che mai nell'età delle interdipendenze globali, il perseguimento dell'interesse nazionale che della politica estera è il fine primo e ultimo, è legato intimamente e indissolubilmente alla dimensione sopranazionale. È legato ad un sistema che trova nelle Nazioni Unite il suo riferimento ideale e nell'Unione europea e nell'Alleanza atlantica le sue espressioni più immediate e concrete, come non si stanca di ricordarci il Capo dello Stato.
L'Italia crede fortemente nella cooperazione internazionale a tutti i livelli, in primo luogo attraverso le organizzazioni che ho appena ricordato, quale fattore decisivo di successo. Vi crediamo non in virtù di un atto di fede in un multilateralismo astratto e fine a se stesso, ma perché vediamo in un multilateralismo concreto ed efficace lo strumento più appropriato per l'affermazione e la difesa dei nostri legittimi interessi. Sarebbe velleitario pensare di avere una proiezione internazionale del tutto autonoma, cosi come non potremmo permetterci un ripiegamento su noi stessi, che pregiudicherebbe la nostra sicurezza ed il nostro benessere. La scelta del multilateralismo è una scelta obbligata per un paese come l'Italia. A ben vedere, è una scelta obbligata per tutti, dall'Europa agli Stati Uniti: la storia, anche quella più recente, ha dimostrato che non vi sono alternative praticabili. Per l'Europa e per gli Stati Uniti, né l'isolazionismo né l'unilateralismo rappresentano un'opzione convincente: una «fortezza Europa» ed una «fortezza America» in competizione l'una con l'altra porrebbero le premesse per uno scontro al termine del quale finirebbero per soccombere entrambe. Come l'Europa continua ad avere bisogno degli Stati Uniti, così gli Stati Uniti hanno bisogno dell'Europa: non di meno Europa, ma di più Europa.
Nasce anche da questa constatazione l'impegno costante del Governo al rafforzamento parallelo dei vincoli dell'integrazione europea e della solidarietà transatlantica. Un approfondimento parallelo e reciproco, che non si esclude ma si completa a vicenda, in nome di quella comunanza di principi e di valori e di quella convergenza strategica di interessi che
continua a caratterizzare la famiglia delle democrazie euroatlantiche. La costruzione europea è un punto di riferimento cardinale irrinunciabile ed insostituibile della politica estera del Governo.
Certo, non crediamo e non possiamo credere all'Europa come entità distante e inaccessibile, di cui dovremmo accogliere il verbo in maniera irriflessa e aprioristica, senza nemmeno chiedersi se esso sia giusto o sbagliato o se possiamo noi stessi concorrere ad una sua migliore formazione. Un'Europa con queste sembianze sarebbe la negazione del sogno dei padri fondatori, tradirebbe l'idea stessa dell'Europa. La nostra idea è quella di un'Europa viva, dinamica, aperta al contributo che un paese come l'Italia ha, non solo il diritto, ma il dovere di offrire. Il Governo italiano ha un interesse preciso, ed un preciso dovere, verso i suoi cittadini: far sì che le politiche dell'Europa rispecchino interessi e priorità dell'Italia, come esse rispecchiano quelli degli altri paesi che abitano con noi la grande casa comune. Paese fondatore e da sempre all'avanguardia, in particolar modo negli snodi decisivi dell'integrazione europea, oggi l'Italia ha il dovere di essere in prima linea nell'aiutare l'Unione ad affrontare al meglio le sfide che le si presentano davanti. La ratifica del trattato costituzionale è la prima e più immediata di esse.
II Governo italiano - rafforzato, in questo caso, dal sostegno di una larghissima maggioranza parlamentare - ha sostenuto con tenacia l'esigenza di dotare l'Unione a 25 Stati di una base costituzionale solida e condivisa. La nostra decisione di procedere ad una sollecita ratifica del trattato ne è il corollario naturale. Essa scaturisce anche dalla volontà di indirizzare un segnale di ottimismo e determinazione nell'auspicio che il trattato stesso possa entrare puntualmente in vigore alla data-obiettivo del novembre 2006. Certo, siamo consapevoli dei rischi legati ad un iter di ratifica straordinariamente complesso, che comporterà in diversi Stati membri delicate consultazioni referendarie. Un'eventuale bocciatura rappresenterebbe una seria battuta d'arresto. Il Governo italiano intende contribuire a propiziare un esito diverso, un esito favorevole attraverso un'azione che valorizzi in maniera adeguata le molte innovazioni che il trattato introduce, a tutto beneficio di una realizzazione più completa ed efficace dei valori su cui l'Europa si fonda.
Intendiamo valorizzare i tanti aspetti positivi di un nuovo assetto che consente di correggere alcune deviazioni centraliste dell'attuale apparato comunitario, riconosce un ruolo accresciuto ai Parlamenti nazionali e alle collettività locali, definisce più chiaramente la ripartizione di competenze tra Unione e Stati membri, rafforza l'efficacia e la trasparenza del sistema istituzionale, soprattutto attraverso la creazione di una Presidenza stabile ed elettiva del Consiglio e di un ministro degli affari esteri che ricopra contemporaneamente l'incarico di Vicepresidente della Commissione.
Intendiamo impegnarci a valorizzare maggiormente, in maniera più convincente e convinta, i risultati innegabili che l'Europa, realizzazione ancora imperfetta ma continuamente perfettibile, è in grado di conseguire anche sul piano politico: in primo luogo, la sua ineguagliata capacità di aggregazione, che spiega da sola i progressi straordinari compiuti dai paesi candidati all'adesione, in primis, ma non solo, dalla Turchia; in secondo luogo, il contributo positivo e prezioso che l'Unione è in grado di offrire alla gestione delle crisi internazionali, quando vi si dedica con serietà e coerenza, come dimostra il caso della crisi ucraina.
La formula «unità nella diversità» sintetizza efficacemente la sfida di un'Europa futura che, quale che sia l'esito dei singoli procedimenti nazionali di ratifica, non potrà che ripartire dal patrimonio costituente maturato nel grande esercizio democratico della Convenzione.
Un'altra grande incognita sull'orizzonte dell'Europa finalmente riunificata è quella delle prospettive finanziarie per il periodo 2007-2013. Una questione non solo contabile, perché è di tutta evidenza che la disponibilità delle risorse ha una diretta incidenza sulla fissazione degli obiettivi,
quindi sulla sostanza stessa della politica dell'Unione. Anche in questo negoziato occorrerà contemperare i legittimi interessi nazionali con i valori comuni europei. Anche in questo negoziato l'apporto dell'Italia potrà rivelarsi determinante al raggiungimento di un'intesa. L'Italia, in passato beneficiario netto del bilancio comunitario, oggi è tra i suoi principali contributori. Ciò è lo specchio dei progressi rimarchevoli della nostra economia e della nostra società; un successo di cui è giusto essere orgogliosi, ma che porta con sé un costo. Siamo consapevoli che il recente ingresso di nuovi e più bisognosi paesi membri comporterà rinnovati obblighi di solidarietà. Non possiamo accettare, però, che possano essere penalizzate in modo discriminatorio le politiche di coesione oggi esistenti; riteniamo insostenibile il mantenimento di regimi di privilegio che non trovano più alcuna giustificazione nella realtà attuale.
La definizione delle prospettive finanziarie dovrà armonizzarsi con una visione complessiva della politica economica europea imperniata sul rilancio della competitività; un rilancio che non può non passare attraverso una revisione intelligente del patto di stabilità e di crescita, che consenta di coniugare al meglio il rigore finanziario con il più accentuato dinamismo preconizzato dalla strategia di Lisbona ed imposto dalla competizione globale.
Con l'adesione dei nuovi paesi membri, la costruzione della casa comune europea è a buon punto. Essa, però, non è ultimata. Bussano alla porta dell'Europa (intendo dell'Europa politica, perché della geografia e della storia del nostro continente sicuramente fanno già parte a pieno titolo) le candidature di Bulgaria e Romania, per le quali il Governo è impegnato ad assicurare il rispetto delle scadenze, concordate al 1o gennaio 2007. Ha già presentato domanda di adesione la Croazia, un'adesione di alto valore simbolico, che costituirebbe un passo significativo verso la realizzazione di quella prospettiva europea che per l'Italia è la chiave di volta per una stabilizzazione autentica e duratura della regione balcanica.
I Balcani continuano a rappresentare una regione prioritaria per l'Italia, per il suo stesso sistema economico. Siamo il primo partner commerciale di Croazia e Albania, il secondo di Slovenia, Serbia e Montenegro; tra i primi negli altri paesi dell'area. L'Italia è divenuta anche uno dei principali investitori nella regione (primo in Albania, secondo in Croazia) e si è confermata il primo donatore in Albania ed il secondo in Serbia e Montenegro.
L'integrazione nelle strutture europee ed euro-atlantiche della regione balcanica servirebbe, inoltre, a scongiurare il rischio di una indifferenza internazionale verso i Balcani che potrebbe facilmente generare un corrispettivo e molto più pericoloso scetticismo verso l'Europa di una regione che costituisce ancora uno dei principali teatri d'impegno dei nostri militari. L'ingresso nell'Unione presuppone una rottura netta ed inequivocabile con il passato: la questione della tutela delle minoranze, dei diritti degli esuli e della collaborazione con gli organi del Tribunale penale internazionale per i crimini nella ex Jugoslavia assume un rilievo centrale tanto per la Serbia che per la Croazia e la Bosnia.
Vi è, poi, la questione della candidatura turca, una candidatura vecchia ormai più di quarant'anni, su cui sarà chiamato a pronunciarsi il prossimo Consiglio europeo. Ho già illustrato all'Assemblea della Camera dei deputati, pochi giorni fa, la posizione del Governo al riguardo. Mi limito a ribadire che l'Europa si trova di fronte ad una scelta fondamentale per il futuro della Turchia che, ad ottant'anni dalla proclamazione della Repubblica, affronta una sfida antica, quella di ridefinire il proprio ruolo di paese mediterraneo e musulmano che cerca di rimaner fedele alla propria identità tradizionale, culturale e religiosa, senza per questo entrare in contraddizione con i valori moderni della democrazia e della laicità delle istituzioni. Una scelta fondamentale per il futuro dell'Europa e dei suoi rapporti con il mondo islamico: non posso fare a meno di
ripetere che la scelta a favore dell'integrazione della Turchia è la scelta più coerente con una visione di questi rapporti improntata al dialogo e non allo scontro delle civiltà. Una scelta coerente anche con la nostra idea dell'Europa come progetto dinamico e aperto; aperto anche al dialogo nel rapporto privilegiato con i propri vicini, tra cui spicca la Russia e, proiettata alla ribalta dall'attualità delle ultime settimane, l'Ucraina.
L'Italia ha colto prima e meglio di altri partner europei l'importanza di consolidare un autentico partenariato con Mosca, che ne incoraggi ed accentui la vocazione europea. Certo, la Russia è ancora molto diversa dalle democrazie più «mature»; nondimeno, essa fa parte a pieno titolo dello «spazio europeo», come ha riconosciuto più volte lo stesso Presidente Putin, e la prospettiva di un avvicinamento duraturo di questo grande paese all'Occidente, di cui l'Italia si è assunta l'onere e l'onore di facilitare la marcia, corrisponde sicuramente ad un interesse strategico non solo dell'Europa.
Gli sviluppi incoraggianti della crisi in Ucraina dimostrano quali risultati l'Europa è in grado di conseguire quando si muove in modo davvero compatto e corale, senza riserve mentali e segrete ambizioni di direttori, in uno spirito di collaborazione leale e fattiva con gli Stati Uniti.
Sul rapporto transatlantico sono stati versati fiumi di inchiostro, ora per piangerne (in altri casi per festeggiarne) il declino, ora per auspicarne il rilancio: in alcuni casi lo si è fatto in maniera molto eloquente e persuasiva, come nell'appello pubblico recentemente firmato da personalità europee insigni del calibro di Giuliano Amato, Valery Giscard d'Estaing e Ralf Dahrendorf. La posizione del Governo italiano al riguardo è nota e quasi non vi sarebbe bisogno di ripeterla. Giudichiamo l'alleanza atlantica il complemento indispensabile della costruzione europea: immaginare l'Europa come progetto in opposizione, o anche solo in competizione strategica con gli Stati Uniti, sarebbe un errore fatale ad entrambi. Dopo l'11 settembre, quando i nostri alleati si sono sentiti minacciati come mai prima nella loro storia, ci siamo adoperati in modo coerente per dare un significato tangibile al vincolo di una leale amicizia. Dobbiamo adesso continuare ad adoperarci per dare al rapporto transatlantico vitalità e contenuti nuovi, adeguati alla portata di sfide e minacce comuni. Crediamo, infatti, che anche per l'alleanza tra Stati Uniti ed Europa valga quello che uno dei padri dell'Europa contemporanea, Robert Schuman, aveva posto a fondamento della costruzione europea: che essa deve potersi basare su realizzazioni concrete, le quali creino innanzitutto una solidarietà di fatto e siano in grado di ripristinare appieno una fiducia reciproca che le incomprensioni degli ultimi anni hanno talvolta incrinato, anche seriamente.
L'Europa deve avere fiducia che la potenza militare degli Stati Uniti non costituisce un pericolo di fronte al quale sia necessario un riequilibrio. Al contrario, essa deve cogliere nella leadership globale di una potenza come gli Stati Uniti una risorsa strategica per sé e per l'intera comunità internazionale, nell'ambito di un efficace sistema multilaterale. Gli Stati Uniti, dal canto loro, non debbono temere dalla crescita di un'Europa politica l'ascesa di una potenza rivale, o peggio ostile, ma debbono avere fiducia che un'Europa più forte è un alleato più serio e affidabile, un partner strategico più efficace. A questo tendono l'ambizione e l'impegno dell'Italia: aiutare l'Unione Europea ad emergere come attore globale, capace di operare costruttivamente in partenariato strategico con gli Stati Uniti. Ovviamente, solo l'Unione Europea in quanto tale può aspirare ad esercitare questo ruolo con credibilità e autorevolezza. Ogni divisione interna, ogni direttorio più o meno ristretto condanna il nostro continente ad una progressiva irrilevanza.
È questa la logica della «Strategia europea di sicurezza» elaborata ed adottata, su impulso della Presidenza italiana dell'Unione, alla fine del 2003. Un documento che sprona gli europei ad una politica estera e di sicurezza meno declamatoria,
e si sforza di valorizzare il contributo fondamentale che, anche in termini di prevenzione, può essere fornito da quella Europa «superpotenza civile» che stiamo vedendo efficacemente all'opera in Ucraina. Un'Europa che, pur senza rinunciare alla sua vocazione alla pace perpetua, non perde di vista le preoccupazioni di una realtà fatta di violenze e conflitti, la cui gestione non possiamo permetterci di delegare ai soli Stati Uniti.
Luogo e strumento privilegiato del partenariato strategico tra le due sponde dell'Atlantico rimane l'Alleanza sancita dal Trattato del 1949; un'alleanza le cui strutture, modalità operative e priorità strategiche vanno tuttavia aggiornate per metterle al passo con la natura di una minaccia nuova, ma pur sempre comune; un'alleanza di cui va soprattutto rilanciata la dimensione di foro di consultazione politica, in quanto la minaccia terroristica non può essere affrontata con i soli strumenti militari; essa va combattuta e sconfitta innanzitutto con le armi e le ragioni della politica. È una trasformazione di cui l'Italia ha da tempo sottolineato la necessità. Una trasformazione per molti aspetti già in atto, che può essere sicuramente annoverata tra i successi della nostra politica estera. Una trasformazione che si esprime attraverso le nuove missioni della Nato, missioni innovative sia per una proiezione territoriale non più legata ai confini dell'Alleanza, sia per contenuti in cui la dimensione della sicurezza si coniuga sempre più con quella della assistenza alla formazione dei governi e delle istituzioni. Missioni per il cui successo l'Italia è fortemente e concretamente impegnata.
Un primo esempio, sintomatico sia delle nuove missioni della Nato che del contributo rilevante assicurato dall'Italia è l'Afghanistan, al momento la maggiore priorità operativa dell'Alleanza atlantica. Il successo delle elezioni presidenziali del 9 ottobre è la migliore dimostrazione dell'efficacia della missione ISAF, che alla loro riuscita, grazie anche all'apporto dell'Italia, ha dato un contributo fondamentale. Grazie alla presenza ed al sostegno della Nato, un paese che sino a pochi anni fa era ostaggio dell'alleanza tra un regime oscurantista ed i burattinai del terrore di Al Qaeda sta finalmente muovendo i primi passi sul cammino della democrazia. Un cammino che l'Alleanza intende continuare ad assistere. Intende sicuramente farlo l'Italia, che è presente in Afghanistan attraverso la sua partecipazione ad ISAF e a Enduring Freedom, anche con un sostegno proprio, finanziario e di cooperazione allo sviluppo, alle nascenti istituzioni afghane. L'Italia rimane in prima linea nella ricostruzione del sistema giudiziario afghano, dove sono stati già conseguiti rilevanti successi operativi, con la finalizzazione del codice di procedura penale e di quello minorile, con la formazione di circa un migliaio di magistrati. Tra il 2001 e il 2003 l'Italia ha finanziato in modo significativo, direttamente e tramite istituzioni internazionali e organizzazioni non governative, la ricostruzione dell'Afghanistan; si accinge a fare altrettanto negli anni a venire. Ci accingiamo inoltre ad assumere la guida di un progetto provinciale di ricostruzione nella provincia di Herat, per meglio coordinare i progetti di sviluppo in tutta l'area occidentale del paese.
Onorevoli colleghi, sono fin troppo note le divisioni della comunità occidentale, divisioni laceranti all'interno della stessa comunità transatlantica, attorno alla questione irachena, divisioni che l'Italia si è adoperata per far sì che non raggiungessero mai una soglia critica e che dobbiamo metterci alle spalle una volta per tutte, se non vogliamo fare il gioco dei terroristi. La diplomazia italiana è già impegnata a favorire una maggiore dimensione multilaterale nella gestione della ricostruzione irachena, attraverso un coinvolgimento crescente e sinergico delle principali organizzazioni internazionali e regionali: l'ONU, innanzitutto, ma anche la NATO e l'Unione europea. Pur non facendo parte del Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite, abbiamo contribuito attivamente alla predisposizione della risoluzione 1546 che, per la rinascita dell'Iraq, stabilisce un'agenda condivisa tanto da coloro che
sono stati a favore dell'intervento militare quanto da coloro che vi si sono opposti.
La Conferenza internazionale di Sharm el Sheik ha conferito nuovo impulso ad un processo del quale le elezioni previste per il 30 gennaio costituiscono uno snodo decisivo. È nostro dovere assicurare seguiti coordinati e coerenti, sostenere l'Iraq come abbiamo sostenuto e continueremo a sostenere l'Afghanistan. In Iraq, come in Afghanistan, il sostegno della comunità internazionale è indispensabile per scongiurare il rischio che la ricostruzione pacifica del paese soccomba dinanzi al ricatto quotidiano della violenza terroristica. Il ripristino di una condizione minima di sicurezza e l'avvio di una normalizzazione politica sono priorità parallele. Le elezioni devono potersi svolgere nei termini stabiliti. Come convenuto da tutta la comunità internazionale a Sharm, i paesi vicini devono impegnarsi a neutralizzare quelle forze che cercano di far deragliare l'intero processo di transizione politica. Dai leader del nuovo Iraq deve venire un impegno altrettanto determinato a propiziare una riconciliazione nazionale durevole, presupposto essenziale ad una credibile assunzione di responsabilità della sicurezza del paese.
L'assistenza della NATO per l'addestramento e l'equipaggiamento delle Forze di sicurezza irachene, già decisa al vertice di Istanbul e passata alla sua fase operativa nella recente riunione ministeriale di Bruxelles, è una componente centrale di un processo di transizione che ha come obiettivo la piena «irachenizzazione» della sicurezza, cui è legato il progressivo disimpegno della Forza multinazionale di cui anche l'Italia fa parte. È importante che all'iniziativa della NATO si affianchi quella dell'Unione Europea, che ha deciso di inviare, subito dopo le elezioni del 30 gennaio, una missione integrata nei settori della polizia, dello Stato di diritto e dell'amministrazione civile. Solo quando gli iracheni saranno in grado di poter provvedere da sé al proprio destino e diranno alla comunità internazionale di non aver più bisogno di assistenza, si potrà prevedere il rientro delle nostre truppe, che in Iraq stanno svolgendo un compito difficile, ma nel migliore dei modi, di cui l'Italia deve essere fiera, perché si è guadagnata sul campo la riconoscenza sincera del Governo e, quel che più conta, della popolazione irachena.
L'Italia è da sempre particolarmente attiva in Medio Oriente, dove si apre adesso una finestra di opportunità preziosa per favorire il rilancio del processo di pace. Occorre anche da parte nostra intensificare gli sforzi volti a riannodare il dialogo tra le parti in vista della realizzazione di una pace equa, giusta e complessiva. Riteniamo che tre settori di azione siano prioritari: sostegno alle elezioni amministrative e presidenziali nei Territori, miglioramento delle condizioni di sicurezza, aiuto finanziario all'Autorità nazionale palestinese. Su queste priorità informeremo la nostra azione anche in seno all'Unione Europea e non mancheremo di sensibilizzare al riguardo Israele, Stati arabi e Stati Uniti.
Auspichiamo che i palestinesi possano individuare rapidamente, attraverso un percorso elettorale pacifico e trasparente, un legittimo successore di Arafat, che sappia abbandonare senza ambiguità la strada della «Intifada armata» ed intavolare negoziati di pace con Israele. Abbiamo già chiesto al Governo provvisorio palestinese di prendere misure concrete per porre fine agli attacchi contro obiettivi israeliani e di impegnarsi senza riserve nella lotta al terrorismo. È certamente una questione pregiudiziale. Allo stesso tempo e con uguale forza abbiamo chiesto e chiediamo che Israele faccia il possibile per favorire un pacifico svolgimento delle elezioni nei Territori palestinesi, in particolare allentando la pressione militare. Le ultime decisioni al riguardo di Sharon sono positive.
Continuiamo a ritenere che la crisi sia risolvibile soltanto attraverso la ripresa dei negoziati all'interno del quadro internazionalmente condiviso della road map. La soluzione del conflitto potrà fondarsi unicamente sulla visione di due Stati che convivono pacificamente, nel rispetto del diritto del popolo palestinese all'autodeterminazione
e di quello di Israele a vivere in pace e sicurezza all'interno dei propri confini. Per questo sosteniamo il piano di disimpegno israeliano, quale ulteriore opportunità per rilanciare il processo negoziale e a condizione che esso si configuri quale adempimento della road map e non in alternativa alla medesima. In questo quadro, incoraggiamo gli sforzi egiziani sul fronte della sicurezza e quelli delle istituzioni finanziarie internazionali sul fronte economico, per permettere all'autorità palestinese di assumere in maniera ordinata il controllo della striscia di Gaza. Siamo pronti a dare il nostro contributo a qualunque meccanismo che il «quartetto» deciderà di stabilire e crediamo fermamente che l'Unione europea abbia un ruolo centrale da svolgere. Sappiamo che gli Stati Uniti avranno la leadership nel campo della sicurezza, ma crediamo che l'Unione europea possa e debba fornire un contributo importante.
Per questi motivi, l'Italia è impegnata in ogni foro multilaterale per promuovere misure non solo politiche e di sicurezza, ma anche economiche, capaci di avere un lungo respiro: la nostra iniziativa nota come «piano Marshall» per la Palestina, adottata a suo tempo dal G8, è sempre valida, e deve presto tornare di attualità. Il Medio Oriente ed il Mediterraneo non sono solo aree di interesse strategico per l'Italia. Sono aree che conosciamo bene, forse meglio di altri. Ci lega ad esse una familiarità che ha le sue radici nella geografia, un'amicizia schietta che trae alimento da una storia ricca di relazioni intense e fruttuose. Anche per questo, non possiamo mancare di far valere il contributo dell'Italia sulle questioni che riguardano la regione, e che riguardano per ciò stesso direttamente anche noi.
L'Italia è fortemente interessata e da tempo impegnata per la normalizzazione dei rapporti fra l'Iran e la comunità intenzionale. Quella stessa normalizzazione che ha recentemente fatto registrare progressi incoraggianti nel caso della Libia. Riuscire a indurre anche l'Iran ad assumere posizioni di maggiore responsabilità sui grandi temi della stabilità del Medio Oriente e dell'Iraq avrebbe una valenza straordinaria. Al tempo stesso, sul fronte della non proliferazione delle armi di distruzione di massa, che insieme alla lotta al terrorismo rimane banco di prova decisivo dell'efficacia dell'azione multilaterale, il ruolo dell'Iran appare ancora non esente da ombre.
Dopo la risoluzione adottata dal Consiglio dei governatori dell'AIEA lo scorso 29 novembre è adesso necessario che l'Iran ottemperi in pieno e con trasparenza agli impegni assunti, cosa che del resto è una precondizione per l'applicazione dell'accordo concluso il 14 novembre da Teheran con Francia, Germania e Regno Unito, sotto gli auspici dell'Alto rappresentante Solana. Per potere affrontare più efficacemente con Teheran la questione nucleare, abbiamo chiesto e infine ottenuto un coinvolgimento più ampio e diretto nei negoziati dell'Unione Europea nel suo insieme e in quanto tale.
Anche nei rapporti con i paesi medio-orientali e della sponda sud del Mediterraneo, la nostra azione sul piano bilaterale sarà tanto più incisiva quanto più saprà intrecciarsi ed essere completata dalle iniziative da noi promosse nell'ambito delle organizzazioni multilaterali. L'Italia intensificherà il proprio impegno in sede europea per il rilancio del processo euro-mediterraneo, avviato ormai quasi dieci anni fa con la dichiarazione di Barcellona, con lo scopo di stimolare ulteriormente il coinvolgimento dell'Unione nella lotta all'immigrazione clandestina. Mi piace sottolineare che i primi risultati della nostra azione di impulso si sono già visti alla recente conferenza euro-mediterranea de L'Aja, le cui linee di azione recepiscono le direttrici della dichiarazione di Roma per il rafforzamento del partenariato, adottata il 2 ottobre su nostra iniziativa dai ministri degli esteri di Italia, Francia, Portogallo e Spagna.
Il dialogo e la collaborazione più stretta ed intensa con i paesi arabo-musulmani sono di vitale importanza anche nell'ambito della lotta al terrorismo. Anche in quest'ottica, riteniamo importante rafforzare le sinergie tra i vari programmi
avviati negli ambiti, internazionali e regionali, più disparati: il partenariato Grande Medio Oriente Africa del Nord previsto dal G8; il processo di Barcellona; l'iniziativa di cooperazione di Istanbul; il dialogo mediterraneo della NATO; il dialogo 5+5 con i paesi del Maghreb. L'Italia ritiene che da ciascuno di questi programmi possano derivare benefici indiretti per gli altri; è in ogni caso essenziale evitare, in ciascuno di essi, imposizioni o paternalismi e promuovere invece una responsabilizzazione congiunta e un dialogo paritario, basato sul reciproco rispetto. La democrazia è un valore universale - libertà e diritti umani - che sa e deve rispettare tradizioni e religioni. Non può essere prerogativa di pochi né del solo Occidente.
La politica estera italiana deve sapersi sempre più articolare, infine, su livelli diversi e molteplici. Anche questo è un aspetto del «fare sistema» in un contesto in cui la dimensione transnazionale della competizione esalta l'importanza della proiezione esterna, e quindi della politica estera, ai fini della competitività di un sistema-paese. La politica estera ha quindi un ruolo specifico, e di primaria importanza, nel contribuire a rendere l'Italia pienamente attrezzata ad affrontare al meglio gli appuntamenti con la globalizzazione. L'incalzare continuo della globalizzazione ci pone dinanzi ad una molteplicità di sfide tutte egualmente complesse ed egualmente pressanti. Mi sono soffermato più a lungo su quelle più immediate e geograficamente più vicine: ma non posso tralasciare la sfida, non solo economica ma anche politica, posta dall'avanzare di realtà asiatiche quali la Cina e l'India; la sfida della crescita di un continente al quale ci legano fortissimi vincoli non solo politici ed economici, ma anche sentimentali, come l'America Latina; la sfida drammatica dello sviluppo dell'Africa, che attraversa una fase cruciale del suo futuro, una realtà che non dobbiamo dimenticare.
Dinanzi a queste sfide intendiamo mobilitare e valorizzare al meglio le componenti più vive e dinamiche dell'intero sistema Italia: un'imprenditoria i cui sforzi di internazionalizzazione vanno incoraggiati e promossi con determinazione e coerenza; una lingua e una cultura la cui promozione va messa al passo coi tempi, commisurandola ad una domanda diffusa e crescente, pari alla popolarità di uno stile di vita che costituisce il nostro miglior biglietto da visita nel mondo; la risorsa unica degli italiani all'estero, ambasciatori del made in Italy e adesso, con la legge che consente loro l'esercizio del voto, importante soggetto politico; la risorsa altrettanto preziosa dei professionisti e dei volontari dell'aiuto allo sviluppo, di una cooperazione per la quale dobbiamo impegnarci a rendere disponibili risorse maggiori ed adeguate alle nostre ambizioni, e coerenti con i nostri impegni.
In un discorso inaugurale fare professione di ottimismo è un esercizio spesso rituale, quasi obbligato. Sono però sinceramente convinto che all'Italia non manchino le risorse per affrontare con successo le sfide della globalizzazione. Qui si innesta il discorso sulle istituzioni del sistema globale, sulla riforma dell'ONU che è una questione su cui nei mesi che verranno non potrà non concentrarsi la nostra attenzione: ma non intendo abusare oltre della vostra pazienza. La posizione del Governo è ben nota, una posizione che, tengo a ripetere, non è contro nulla e nessuno, meno che mai contro paesi amici che sulla questione hanno molto semplicemente una visione diversa dalla nostra. Quella italiana è una posizione a favore del multilateralismo efficace, per rafforzare rappresentatività e legittimità delle Nazioni unite che ne sono il centro. Ho ribadito in dettaglio la nostra contrarietà a nuovi membri permanenti senza alcuna verifica di mandato, a soluzioni che dividono la comunità internazionale, all'indomani del rapporto dei saggi nominati dal Segretario generale dell'ONU.
Mi fa piacere rimarcare in questa sede che la nostra tesi ha suscitato reazioni positive anche negli esponenti più avvertiti dell'opposizione, che hanno dimostrato di averne colto appieno spirito e significato.
Mi sembra un segnale incoraggiante e che mi dà lo spunto per alcune considerazioni finali.
Per sua natura, la politica estera è efficace solo se essa è perseverante. Essa richiede perseveranza e pazienza non solo a chi la fa, ma anche a chi la giudica. Uno dei padri della diplomazia americana del secondo dopoguerra, George Kennan, era solito paragonare la politica estera ad una pianticella che ha bisogno di tempo per svilupparsi, e che sarebbe pericoloso strappare al proprio terreno di coltura di tanto in tanto solo per vedere se ha messo radici. Essa è tanto più duratura quanto più essa è condivisa. La politica estera di un paese non è intesa a servire gli interessi di questo o quel governo. Suo beneficiario più diretto, se non esclusivo, è il paese, siamo noi tutti. Lavorando tutti noi italiani, con consapevolezza e nel rispetto dei rispettivi ruoli e responsabilità, potremo essere più credibili e, quindi, più influenti.
Da parte mia, mi riprometto tenere il più possibile informato e coinvolto il Parlamento, anche perché ritengo prezioso il contributo della diplomazia parlamentare. Sono fiducioso, anzi certo, che potrò contare sulla vostra leale e fattiva collaborazione.
PRESIDENTE. Ringrazio il ministro degli affari esteri, Gianfranco Fini, per l'ampia esposizione che merita, naturalmente, una discussione altrettanto ampia, nei limiti dei tempi che ci sono fissati. Appunto per rendere ordinata la nostra discussione, comunico che i tempi sono così ripartiti: per ciascun gruppo rappresentato alla Camera e al Senato, sono a disposizione 12 minuti (naturalmente suddivisibili in base ai rispettivi rappresentanti); per ciascun gruppo, rappresentato solo alla Camera o solo al Senato, sono a disposizione otto minuti; le componenti politiche del gruppo misto dispongono ciascuna di cinque minuti.
FRANCO DANIELI. Signor presidente, signor ministro, intervenendo sull'ordine dei lavori, vorrei svolgere alcune considerazioni. Ci siamo trovati, oggi, in una condizione spiacevole. Alcuni parlamentari si sono trovati davanti alla scelta di venire qui ad ascoltare lei, in un momento importante, l'illustrazione delle linee programmatiche del suo dicastero, oppure recarsi in Aula, ad esprimere un voto per l'elezione di due giudici della Corte costituzionale. Conosco le ragioni di sostanza e le opportunità che bisogna cogliere, ma non posso non dolermi moltissimo per questa situazione, scaturente dalla gestione del calendario dei lavori assembleari e di Commissione.
Concludo semplicemente con una raccomandazione: che ci sia questa sua disponibilità, come lei ha manifestato anche concludendo il suo intervento, ad incontri con le Commissioni parlamentari di Camera e Senato, in modo da avere maggiore tempo a disposizione, perché il rapporto tra parlamentari e ministro degli affari esteri possa essere utile ad entrambe le istituzioni, ai fini dell'attività che reciprocamente portiamo avanti.
PRESIDENTE. Dello svolgimento di questa seduta sono io, insieme al senatore Provera, il responsabile. Ho ricevuto, senatore Danieli, la sua telefonata, le ho fornito informazioni circa la situazione che si presentava in aula, dove molti colleghi erano già arrivati; mi sono rimesso alla decisione comunemente assunta con il senatore Provera, e abbiamo dunque proceduto allo svolgimento dei nostri lavori secondo l'ordine del giorno stabilito. Mi dispiace che altri abbiano seguito una strada diversa, perché trovo che, trattandosi di una votazione, anche in ragione di una certa elasticità del procedimento, con particolare riferimento ai tempi della chiama, si potesse articolare piuttosto agevolmente la presenza sia in questa sede sia in Aula per il voto. Ad ogni modo, ho proceduto esattamente in totale sintonia con il collega, presidente Provera.
Per quanto riguarda la disponibilità del ministro a riferire alle Commissioni, anche singolarmente - richiesta avanzata spesso anche dalla Commissione affari esteri della Camera dei deputati - ritengo che il vicepresidente Fini sia disponibile a farlo,
come ha sempre dimostrato in passato, quando era rappresentante del Governo italiano in occasione della Convenzione europea.
Do la parola al presidente Provera che ha chiesto di parlare. In qualità di esponente del gruppo Lega Padana, egli desidererà certamente porre alcune domande.
FIORELLO PROVERA, Presidente della 3a Commissione del Senato. Signor presidente, signor ministro, intanto interverrò come presidente della Commissione esteri del Senato. Vorrei rivolgere molti auguri di buon lavoro al neoministro Gianfranco Fini, con l'auspicio che con lui possa intercorrere il medesimo rapporto proficuo e cordiale intrattenuto con il predecessore, ministro Frattini.
Cercherò di essere estremamente sintetico, anche per il rispetto che devo ai colleghi, a lei, signor ministro, e al suo tempo. Vorrei dunque sottoporre alla sua attenzione due aspetti di particolare rilievo: in primo luogo, la riforma della cooperazione. Lei sa che in Senato, presso la Commissione affari esteri, è in discussione un disegno di legge che intende riformare la politica di cooperazione con i paesi in via di sviluppo, considerata da tutte le parti politiche elemento integrante e strumento di politica estera, un aspetto fondamentale. Sarà anche certamente al corrente delle difficoltà che la politica di cooperazione italiana sta incontrando nell'esercizio delle sue funzioni, sia per la riduzione costante delle risorse messe a disposizione, sia per una sorta di apparente incapacità di spesa e di progettualità nei rapporti bilaterali, a favore di una percentuale estremamente alta di risorse profuse attraverso il canale multilaterale.
Proprio alla luce della scarsità di risorse, da una parte, e della necessità di dare visibilità al nostro paese, ritengo che questo disegno di legge debba ricevere la sua attenzione, atteso che ci troviamo sul finire o comunque nell'ultima parte della legislatura ed evidentemente un ulteriore ritardo precluderebbe l'approvazione del provvedimento. Vorrei conoscere, dunque, in primo luogo il suo parere al riguardo.
In secondo luogo, mi soffermerò su un'altra questione di rilievo, il caso della Turchia, estremamente complesso, al di là delle eventuali possibili strumentalizzazioni politiche o partitiche che se ne possano fare. Non è una questione risolvibile con un sì o con un no; d'altra parte, rappresenta un problema fondamentale per il futuro del nostro paese e dell'Europa. Lei ha espresso il suo parere, sappiamo bene quanto varie siano le implicazioni, le sfaccettature attinenti a tale questione, di tipo politico, militare, economico, sociale. Le chiedo se non ritenga che ad una decisione così importante debba essere garantito il massimo della pubblicità, coinvolgendo in modo approfondito tutto il popolo, la società intera; le chiedo quali percorsi parlamentari diretti a questo fine lei reputa si possano intraprendere perché la gente sia chiamata a capire, eventualmente a condividere e a decidere al riguardo, anche alla luce di un referendum - da me auspicato - cui ricorrere per esprimere un parere quanto più democratico possibile.
Il referendum è la forma di democrazia più diretta. La ringrazio ancora e le auguro buon lavoro.
DARIO RIVOLTA. Signor ministro, voglio in modo particolare ringraziarla per la sua relazione che è stata esauriente ed approfondita sulla gran parte dei punti cruciali della politica estera.
Anch'io le porgo gli auguri di buon lavoro che sicuramente produrrà ottimi risultati, anche perché lei si è sempre dimostrata una persona attenta ad ascoltare le esigenze che giungono dal Parlamento.
Mi permetto di avanzarle alcune domande che sono, in realtà, dei piccoli approfondimenti sui temi che lei ha affrontato nella sua esposizione. Poc'anzi nella relazione ha parlato dell'Iran, ma non ha menzionato il problema riguardante la Corea del Nord. L'Italia, alcuni anni fa, fu protagonista di una apertura, concordata anche con gli alleati, nei confronti di questo paese che portò ad acquisire determinate posizioni anche di
ruolo, non solo di rapporti bilaterali, su una certa area ed in certe direzioni. Oggi quella linea, che aveva dato luogo alla firma di taluni accordi, non sembra che venga portata avanti, tanto che gli accordi, firmati allora con il Governo della Corea del Nord, non sono ancora arrivati in Parlamento per la necessaria ratifica.
A tal proposito, quindi, mi piacerebbe sapere se su questo argomento lei abbia già avuto tempo e modo di formarsi un'opinione, oppure se pensa di poterlo approfondire in secondo momento.
Sempre nell'introduzione ha poi parlato di Russia dicendo che deve avvicinarsi all'Europa, in un cammino che il nostro paese vorrebbe agevolare ed accompagnare. Che tipo di Russia vogliamo si avvicini all'Europa? È una Russia a cui vengono riconosciute zone di influenza nei confronti di paesi vicini o una Russia minimale che invece rimanga ristretta all'interno dei propri confini? Quale Russia come grado di sviluppo della democrazia? Quale Russia nei propri rapporti interni rispetto a determinate minoranze?
Per quanto riguarda la Turchia né io né il mio gruppo parlamentare siamo in sintonia con ciò che dice il presidente Provera, mentre concordiamo con le parole da lei dette e siamo anche convinti che i dubbi e le paure che accompagnano le ipotesi di un futuro - anche se non così vicino - ingresso della Turchia nell'Unione Europea siano dubbi e paure che saranno fugate dai fatti.
Poco fa lei ha detto che l'interesse nazionale della politica estera è il fine primo ed ultimo e su questo io sono in totale sintonia con lei. Per questo fine la politica estera utilizza determinati strumenti e uno di questi, anche se ha valenze più ampie, è rappresentato dalla cooperazione internazionale; purtroppo, però, credo che dovremmo essere tutti portati a pensare che difficilmente si riuscirà ad approvare una legge prima della fine di questa legislatura in entrambi i rami del Parlamento.
A tal proposito ci sono però due aspetti che vorrei portare alla sua attenzione: la cooperazione internazionale è uno degli strumenti che si usano per portare avanti la politica estera di ciascun paese, però la gestione effettiva della cooperazione internazionale non è nelle mani di organi politici, ma in quelle di un organismo chiamato Unità tecnica centrale (UTC) che utilizza le proprie valutazioni, non sempre palesi, per effettuare determinate scelte. Questa organizzazione è diretta da persone che da lungo tempo hanno dei contratti che continuamente vengono rinnovati (anche recentemente questo Governo ne ha rinnovati alcuni fino al 2006) e che invece - a mio parere - dovrebbero essere approfonditi uno per uno. Su questo argomento ha già in mente delle iniziative da prendere oppure si riserva di fare degli approfondimenti? L'altro aspetto sempre riferito alla cooperazione riguarda le Organizzazioni non governative (ONG) che usufruiscono di fondi pubblici dello Stato e del popolo italiano e, anziché essere la nostra bandiera all'estero, non perdono occasione per parlare male di questo Governo e di conseguenza di questo paese che fornisce loro gli strumenti finanziari per svolgere i compiti a cui sono preposte; credo, quindi, che proprio per coerenza e per rispetto dell'interesse nazionale, non sia lecito accettare che qualunque persona e tanto meno un organismo, anche se non governativo, qualora usufruisca di mezzi pubblici e fondi del popolo italiano possa utilizzarli parlando male del popolo italiano che ha espresso un Governo e una sua istituzione.
In ultimo vorrei chiederle: come può essere esportata la democrazia? Ritiene, cioè che debba essere diffusa, come qualcuno ha sostenuto recentemente, anche in maniera un «pochino forzosa», oppure che debba seguire altre procedure affinché possa diffondersi nel mondo?
ALBERTO MICHELINI. Parlerò solo pochi minuti per trattare un argomento di cui mi occupo da tempo riguardante l'Africa.
Il ministro dice che l'Africa è una realtà da non dimenticare, io mi permetto di aggiungere che questa è una realtà che non possiamo permetterci di dimenticare;
infatti, nel prossimo G8 che si svolgerà in Scozia l'Africa sarà, per la quinta volta, sul tavolo degli otto grandi. Tony Blair ha voluto che l'Africa fosse, insieme ai cambiamenti climatici, il grande tema del vertice; quindi, evidentemente ci sono motivi molti forti per cui si dà questa grande importanza al continente africano.
In Africa, oltre al problema delle malattie e della fame che noi dobbiamo assolutamente affrontare, esiste anche in potenza l'incognita del terrorismo; infatti, ci sono 400 milioni di islamici e c'è un grande fermento religioso sostenuto economicamente dall'Arabia Saudita per quanto riguarda le conversioni, la creazione di moschee e quant'altro. I paesi interessati a questo fermento vanno dal Corno d'Africa passando per il Sudan per arrivare infine, attraverso la Nigeria, fino all'Atlantico; quindi, esiste un terreno molto fertile per il terrorismo che può essere alimentato dall'estrema povertà, dalla disperazione e dall'emigrazione selvaggia. Noi dobbiamo, quindi, portare lo sviluppo in Africa in modo tale da metterli in condizione di autosvilupparsi.
Ritengo che il nostro paese debba occuparsi maggiormente dell'Africa come fanno gli altri paesi europei che sono molto impegnati in tale continente; infatti, i capi di Stato e di governo spesso visitano personalmente questi paesi, mentre in questa legislatura noi non siamo mai andati. Il Presidente della Repubblica Ciampi si è recato qualche tempo fa in Sudafrica, ma l'Africa è molto di più del Sudafrica, quindi, vale la pena di dedicare a questo continente uno dei prossimi viaggi.
Quest'area ha una potenzialità enorme e noi in qualche modo possiamo intervenire; infatti, quando si parla di internazionalizzazione delle imprese, bisogna tener presente che non esiste soltanto la Cina, ma sono a disposizione cinquantasei paesi, nella metà dei quali si può certamente investire.
PIERO FASSINO. Signor ministro, naturalmente in primo luogo le faccio gli auguri e poi, ovviamente, esprimo l'auspicio che faccia quello che ha detto; infatti, nelle cose che ha enunciato ho trovato molte idee che sono condivisibili.
Lo registro con soddisfazione perché quello della politica estera, più di ogni altro, è un campo nel quale si deve cercare di perseguire le convergenze per la tutela dell'interesse del paese e della sua affermazione. Naturalmente, molti elementi hanno radici antiche e sono costanti della politica estera italiana. Mi auguro che molte delle indicazioni che lei ha fornito in questa sede siano effettivamente oggetto di azione conseguente. Lo affermo perché c'è una sola cosa, che voglio evidenziare, sulla quale il mio dissenso è netto (capisco bene che, in virtù del ruolo che ricopre, probabilmente lei non poteva fare altro): non credo che, in questi tre anni, il ruolo dell'Italia sia stato quello che lei ha delineato all'inizio della sua relazione. Anzi, noi dell'opposizione abbiamo molte ragioni per ritenere che, in questi tre anni, ci sia stata una conduzione della politica estera ondivaga, oscillante e, spesso, subalterna, che ha indebolito il ruolo dell'Italia. Mi auguro che grazie a lei, signor ministro, ci possa essere, invece, una ripresa di ruolo del nostro paese diverso da quello che si è conosciuto in questi tre anni. Per farlo, bisognerà introdurre una serie di correttivi rispetto alla politica estera seguita. In effetti, nella sua relazione ci sono indicazioni che rappresentano, a mio avviso, una correzione delle scelte compiute in questi tre anni.
Comunque, non mi interessa molto un dibattito di questa natura. Mi interessa, invece, nei pochi minuti che ho a disposizione, porle alcune questioni che guardano avanti. La prima di esse attiene all'Unione europea. Signor ministro, lei ha confermato l'impegno del Governo - che, peraltro, corrisponde ad una sollecitazione che anche noi dell'opposizione avevamo espresso - per una rapida ratifica del trattato costituzionale. Siamo d'accordo e vogliamo sperare che sarà davvero così.
Vorrei conoscere, però, quale sia la posizione del Governo rispetto a due punti dirimenti. Il primo riguarda una questione che lei conosce ed è dibattuta in Europa, in questo momento, vale a dire la possibilità
che, senza aspettare il compimento di tutto il processo di ratifica, possano essere anticipatamente applicate alcune parti del trattato, laddove c'è un consenso facilmente acquisibile da parte di tutti gli Stati contraenti. Vorrei sapere che cosa pensi il Governo di questo, che rappresenterebbe, per così dire, un impulso molto forte.
In secondo luogo, vorrei sapere come pensi il Governo italiano di affrontare - ove abbia già formulato un'ipotesi - l'eventualità di qualche mancata ratifica. Ieri, il commissario Monti, dalle pagine del Corriere della sera ha riproposto un'ipotesi, come già aveva fatto altre volte. Non affermo che sia l'unica ma credo che non sia inutile porsi tale questione. Mi auguro che nessun paese mancherà di ratificare - questo è ovvio - tuttavia è meglio avere una istruzione di questo tema.
Sempre per restare all'Unione europea, credo che la conclamata volontà di considerare l'Europa indissolubile dagli interessi italiani, come lei ha affermato nella sua relazione, comporti come coerente conseguenza la partecipazione dell'Italia a tutte le politiche comunitarie. Le segnalo, signor ministro, che in parecchi dossier non è così. Ne evidenzio uno che, a mio avviso, è il più critico e, cioè, quello che riguarda la politica di freno che l'Italia ha attuato in questi anni nella realizzazione di uno spazio europeo di giustizia. Credo che una correzione debba essere introdotta rispetto alla politica adottata fin qui.
Un altro tema è quello dell'Iraq. Non voglio riproporre, naturalmente, la diversità di analisi. Tuttavia, sottolineo che in quel documento dell'ONU - quello dei saggi incaricati da Kofi Annan - che lei non ha mancato di apprezzare in un articolo pubblicato sul Corriere della sera, c'è una proposta di definizione di modalità e criteri per l'intervento militare che, in qualche modo, conferma il carattere illecito della guerra in Iraq rispetto alle determinazioni della comunità internazionale. Tuttavia, non mi interessa tanto questo, quanto ottenere un chiarimento. Stante che siamo tutti interessati a consentire che le elezioni si svolgano e che tutti dobbiamo lavorare affinché si svolgano alla data prevista e siano elezioni fair and free, vorrei sapere come il Governo italiano pensi di gestire la fase successiva. Le domando questo alla luce della considerazione che Olanda, Ungheria e Polonia, paesi impegnati in Iraq, hanno già annunciato di ritenere quella successiva alle elezioni come la fase del loro disimpegno militare sul terreno e che anche il suo predecessore, signor ministro, in una intervista di qualche mese fa, preannunciò l'ipotesi che, successivamente alle elezioni, si lavorasse per una sostituzione della presenza italiana in Iraq con quella di altri Stati e con altre modalità. Vorrei sapere quale sia la strategia del Governo per affrontare il problema dell'uscita, per così dire, da quello scacchiere. Lei ha già affermato che finché ci sarà richiesto noi resteremo. Le segnalo che paesi come l'Olanda, l'Ungheria e la Polonia, che hanno compiuto la stessa scelta del Governo italiano di essere presenti in quell'area, non subordinano la loro decisione a questo criterio ma hanno già annunciato un disimpegno. Credo che questa dovrebbe essere, come minimo, materia di riflessione da parte del Governo.
Un altro punto è quello riguardante i Balcani. Registro con favore - anche per mie personali responsabilità assunte nel passato in questa politica - la sua volontà di rilanciare un ruolo dell'Italia nei Balcani. Le pongo, tuttavia, una questione: quella del Kosovo. Giunge a maturazione un passaggio molto delicato della vicenda kosovara, cioè la definizione di uno status che cerchi di determinare un assetto definitivo nella regione. Vorrei sapere quale sia la posizione del Governo italiano riguardo all'iniziativa in proposito.
Un ulteriore tema è quello dell'Africa, questione già richiamata dal collega Michelini. Condividendo le sue valutazioni, mi chiedo se l'Italia non possa farsi portatrice della proposta di istituire un consiglio euro-africano quale sede permanente di concertazione di politiche di cooperazione tra l'Unione europea ed il continente africano, superando la prassi, attualmente osservata, di convocare una
tantum vertici straordinari che, proprio per il carattere della episodicità, non hanno la possibilità di implementare una politica conseguente. A mio avviso, sarebbe positivo se l'Italia si facesse carico di questa proposta.
Per quanto riguarda il Medio Oriente, c'è una finestra di opportunità, come lei ha affermato. Credo che siano necessarie un'azione più efficace ed una maggiore presenza dell'Italia, la quale - questa è una valutazione difforme da quanto lei ha sostenuto - in questi tre anni mi pare abbia avuto, in realtà, un atteggiamento scarsamente attivo e, quando attivo, non equilibrato. Storicamente, l'Italia ha avuto la capacità di essere un interlocutore ascoltato sia da parte palestinese sia da parte israeliana. Credo che non dobbiamo perdere questa capacità che, invece, penso si sia indebolita in questi anni. Dall'essere un interlocutore sul doppio fronte consegue la possibilità di contribuire alle politiche che l'Unione europea ed il «quartetto» possono realizzare in quell'area, proprio nel momento in cui si riapre una stretta finestra di opportunità per il processo di pace, che deve essere perseguita.
Per quanto riguarda l'ONU e, in particolare, la riforma del Consiglio sicurezza già ho avuto modo di interloquire con lei, signor ministro, attraverso un articolo apparso sul Corriere della sera che, per così dire, converge nella posizione da sostenere, quella del doppio obiettivo di un allargamento a seggi non permanenti, oggi, e, in prospettiva, di una attribuzione di un seggio all'Unione europea. Mi chiedo se il Governo italiano non possa esaminare una proposta che in quella sede ho avanzato, cioè quella di sottoporre in sede di dibattito di riforma dell'ONU anche la proposta di istituzione di un consiglio di sicurezza economico, che possa essere la sede di governo dei processi di globalizzazione economica. Tra l'altro, in un consiglio di sicurezza economico sarebbe più facile sperimentare anche l'assegnazione di seggi alle istituzioni di cooperazione ed integrazione regionale, oltreché alle singole nazioni.
Pende, inoltre, l'annosa questione della riforma delle politiche di cooperazione. Da parte mia, le pongo un'urgenza molto più stringente: sulla base della legge finanziaria che il Parlamento sta per approvare, noi stiamo chiudendo l'aiuto allo sviluppo e le politiche per la cooperazione. La sollecito a considerare tale questione, perché le cifre che sono state confermate sono inferiori a quelle fino ad oggi stanziate, al netto dell'erosione dovuta all'inflazione; stanziamenti che già erano assolutamente insignificanti. Siccome ritengo che le politiche di cooperazione siano essenziali sia per una politica bilaterale sia per una politica multilaterale, credo che non possiamo commettere l'errore di privarci di questo strumento. Quindi, il problema di una correzione delle dotazioni finanziarie è condizione essenziale, senza la quale qualsiasi discorso sulla riforma, sull'UTC e quant'altro è del tutto inutile. Senza soldi non si fa alcunché; si tratta di una questione prioritaria.
Infine, due questioni relative al Ministero degli affari esteri. Penso che ci sia il problema di dotare il ministero di tutte le strutture, le risorse e gli strumenti necessari per svolgere la politica estera. Anche da questo punto di vista, siamo in presenza di un sottodimensionamento di organici, di strutture e di strumenti che mette a dura prova la possibilità che la struttura diplomatica del Ministero degli affari esteri assolva alle proprie funzioni, tanto più che, con le politiche di globalizzazione, di interdipendenza, di cooperazione europea e così via, è cresciuta da parte di tutti dicasteri la tendenza a sviluppare, per così dire, azioni internazionali nei settori di competenza.
È normale che sia così! Nessuno vuole «mettere le braghe al mondo», ma una politica estera ha bisogno di essere sistemica, di avere un punto di direzione, che non può che essere rappresentato, insieme alla Presidenza del Consiglio, dal Ministero degli affari esteri. Per fare ciò, è necessario dotare il ministero degli strumenti e delle risorse necessarie che oggi spesso
mancano. Anche questo è un problema che riguarda il disegno di legge finanziaria all'esame in Parlamento.
Infine, l'ultima questione può sembrare particolare, ma tale non è. Nelle 185 nazioni nel mondo chi rappresenta l'Italia è il capo missione che guida l'ambasciata. Ho avuto modo, per diretta esperienza, di conoscere la professionalità e la competenza della nostra diplomazia, elemento di garanzia. Non è indifferente, però, come si individuano i nostri rappresentanti all'estero, anche perché non rappresentano un Governo, ma il paese e spesso hanno un tempo di vigenza superiore a quella del Governo. Pongo, quindi, la questione di verificare la possibilità di prevedere procedure che associno il Parlamento, come già avviene in altri paesi - ad esempio gli Stati Uniti -, nell'individuazione e nella selezione di chi deve guidare le presenze diplomatiche nel mondo. Oggi non avviene così, trattandosi di un percorso totalmente interno al ministero. Non dubito che ciò sia realizzato con le migliori intenzioni; non ho sospetti da lanciare, ma pongo un problema di natura istituzionale, richiedendo che il Parlamento sia coinvolto nella nomina di chi rappresenta l'intero paese all'estero.
Le chiedo scusa, signor ministro, se non potrò ascoltare le sue risposte per la vita convulsa, di cui lei è pienamente a conoscenza, di un segretario di partito. Sono comunque presenti deputati e senatori del nostro gruppo parlamentare che la ascolteranno con attenzione.
FIORELLO PROVERA, Presidente della 3a Commissione del Senato. Avverto i colleghi senatori che alle ore 16 si svolgeranno votazioni in Assemblea.
PRESIDENTE. Comunico che il gruppo dei Democratici di sinistra-L'Ulivo ha esaurito il tempo a propria disposizione. Do ora la parola all'onorevole Zacchera.
MARCO ZACCHERA. Intervengo rapidamente anche perché altri componenti del gruppo hanno il diritto e il dovere di intervenire. Le rivolgo, comunque, dei sinceri, anche se scontati, complimenti ed auguri di buon lavoro.
Mi riallaccio a quanto detto dall'onorevole Fassino poco fa, presentando questioni assolutamente concrete, in primo luogo i problemi finanziari. Siamo abbastanza delusi, come componenti della Commissione esteri, avendo preso atto che nel disegno di legge finanziaria all'esame in Parlamento non è stato possibile parlare di fondi. Sono assolutamente d'accordo sulle questioni sollevate poco fa dall'onorevole Fassino: si spende troppo poco per il Ministero degli affari esteri e, aggiungo, non si spende bene. Mi auguro che il suo arrivo al ministero porti alla realizzazione di quelle piccole riforme, a costo zero, necessarie per razionalizzare le spese. Ricordo che l'anno scorso sono stati approvati documenti, poi non applicati, per responsabilizzare maggiormente i titolari delle strutture, a livello di ambasciatori, liberandoli da giochi burocratici che comportano soltanto perdite di tempo e di soldi.
Aspetti di carattere organizzativo devono essere affrontati in altre sedi dove - spero - avremo anche risposte. Le persone addette ad alcuni settori fondamentali della nostra diplomazia all'estero sono obiettivamente troppo poche. Vi sono paesi in cui le richieste di visto sono, per così dire, «incancrenite», anche con situazioni negative in merito alla trasparenza dell'azione di coloro che collaborano con le nostre ambasciate.
Passando ad aspetti di carattere politico, si è già parlato della cooperazione, su cui reputo debba nascere un rapporto nuovo tra Esecutivo e Parlamento. Alcune questioni, come la cooperazione internazionale, impongono maggiore coinvolgimento delle due parti con suggerimenti e verifiche per cambiare alcune cose. Ciò che diceva il collega Rivolta è politicamente vero: non possiamo continuare a gestire la cooperazione internazionale con metodi di parte e senza trasparenza dal punto di vista legislativo.
Sono assolutamente d'accordo che debba essere aiutata l'Autorità palestinese,
ma l'Italia deve anche essere in misura maggiore garante di trasparenza; occorre capire come vengono spesi i fondi dell'Unione europea e del nostro paese da parte dell'Autorità palestinese.
Per quanto riguarda la Cina, sono parzialmente preoccupato, anche se comprendo la Realpolitik che porta a togliere l'embargo sulle armi. Questo paese può essere un nostro alleato a livello mondiale e, in particolare, nella riforma del sistema ONU, ma non posso dimenticare che la Cina non assolve ai suoi obblighi in merito ai diritti umani. Sono convinto che la sua azione, signor ministro, sarà molto attenta.
Sono pienamente d'accordo con molte altre parti della sua relazione, in particolare nel passaggio riguardante la Turchia. Reputo necessario chiarire all'opinione pubblica determinate questioni riguardanti questo paese, che è un partner fondamentale dell'Italia in Europa per il Mediterraneo, altrimenti avremo una forte sperequazione nell'Unione europea.
Infine, una questione che mi sta particolarmente a cuore riguarda la partecipazione alle elezioni politiche, tra circa quindici mesi, degli italiani all'estero. Siamo nel caos più assoluto. Tuttora abbiamo 800 mila persone non registrate all'anagrafe. Bisogna avere il coraggio di preparare l'anagrafe consolare, e non l'AIRE, per predisporre gli elenchi dei votanti o sarà meglio non procedere alle elezioni, perché non abbiamo un riscontro obiettivo tra gli italiani che devono votare e quelli che possono farlo. Il 31 dicembre scadono contratti di persone che hanno lavorato nelle diverse ambasciate per sistemare l'anagrafe, ma la situazione non è migliorata. Dobbiamo occuparci di ciò e dare una risposta concreta e seria in vista delle elezioni.
FRANCESCO SERVELLO. Non può mancare l'intervento di un rappresentante del gruppo di Alleanza nazionale al Senato per formulare i migliori auguri al ministro degli affari esteri. Penso che lei ne abbia bisogno data la complessità del mandato assunto.
Vorrei intervenire anche per rispondere, in qualche modo, all'intervento dell'onorevole Fassino, il quale ha affermato che negli ultimi anni il ruolo dell'Italia è stato indebolito. Non esiste affermazione più sbagliata e menzognera di questa. È sufficiente esaminare quanto accaduto negli ultimi anni sul terreno internazionale, le complicazioni che hanno persino determinato una divisione nel comportamento delle maggiori potenze europee rispetto alla questione irachena, per capire che quanto si sta realizzando, con la costituzione di rapporti anche indiretti con la Russia, gli Stati Uniti e la Cina, rappresenta un atteggiamento di grande attivismo politico, e non soltanto di carattere turistico, come in tanti momenti della nostra storia del dopoguerra è avvenuto. Formulo, quindi, un sentito riconoscimento alla novità della maggiore presenza dell'Italia in campo internazionale. Forse vi è qualche confusione determinata dal comportamento delle regioni che, anch'esse, fanno politica estera e non politiche di promozione commerciale, ma - rammento - dal punto di vista dell'immagine i maggiori giornali internazionali riconoscono per così dire, un cambio di marcia, soprattutto nelle ultime settimane.
Detto ciò, vorrei far presente che è perfettamente inutile continuare a studiare la riforma della cooperazione sapendo già, in partenza, che non sarà possibile giungere alla conclusione. Lo avevo già detto qualche anno fa: si lavora «a vuoto» perché non sarà possibile concludere l'esame del provvedimento. Allora, si potrebbero estrapolare alcune norme cogenti di carattere operativo che interessino il ministero e gli operatori economici, in modo da far sì che almeno le risorse disponibili possano essere utilizzate al meglio, soprattutto nel rapporto bilaterale. Su questo aspetto sono molto fermo.
Il rapporto bilaterale deve essere privilegiato: è a questo livello che l'iniziativa italiana acquisisce evidenza, dato che a livello multilaterale, ove sono, sostanzialmente, le maggiori potenze economiche a decidere, la nostra azione tende a scomparire.
Quanto, poi, al ritiro delle truppe dell'Iraq dopo le elezioni, bisognerebbe operare, signor ministro, sul terreno europeo, ma per farlo occorrerebbe addivenire ad una base minima di intesa. Noto che è in via di recupero il rapporto con quelle potenze che si sono allontanate - con il ritiro delle truppe - dall'impegno comune in Iraq, assunto da diversi paesi tra i quali l'Italia; in ogni caso, non vi è dubbio alcuno che sia l'Europa intera a doversi porre il problema iracheno, con particolare riferimento alla fase postelettorale. Non è un problema della sola Italia - lo ha bene sottolineato il ministro -, è un problema della Spagna, della Francia, della Germania - anche dal punto di vista operativo ed economico - che si porrà rispetto agli sviluppi successivi di questa tormentata vicenda.
Quanto alla cooperazione, ritengo sia necessario giungere ad un punto di maggiore concretezza, anziché proseguire in questa diatriba. L'unico accento che mi pare sia mancato nel suo intervento, signor ministro, riguarda i problemi dell'Africa, veramente drammatici, tremendi, in via di crescente complicazione. Sul punto, ritengo sia imprescindibile intervenire con una politica veramente seria, non solo europea ma paneuropea, addirittura universale, come è nelle aspettative e nelle esortazioni continue del Papa. Questa tragedia non può continuare nelle dimensioni attuali.
Per concludere, vorrei raccomandare al ministro di affrontare, in questo quadro, il problema della difesa europea. Bisogna avviare una riflessione seria in proposito: svolgiamo missioni, siamo presenti ovunque, veniamo considerati come reali portatori di pace, attraverso le nostre rappresentanze militari; alla luce di ciò, il problema che rimane aperto è quello di dar luogo ad un reale rinnovamento della NATO, capace di assicurare una partecipazione più diretta - a mio avviso fondamentale - delle nazioni europee. D'altra parte, è inutile parlare di una politica estera europea in assenza delle condizioni militari, e quindi economiche, per porla in essere. Alla luce di ciò, mi auguro che l'intero Governo si adoperi con continuità perché l'Europa diventi veramente un soggetto politico dotato degli attributi per dar luogo ad una politica estera reale ed effettiva.
ANTONIO MACCANICO. Signor presidente, vorrei innanzitutto ringraziare il ministro degli affari esteri per la sua esposizione, così ampia e capace di toccare numerosissimi argomenti, ognuno dei quali richiederebbe, probabilmente, un opportuno approfondimento che in questa sede è ovviamente impossibile. Mi ha soprattutto colpito un'affermazione del ministro, nel corso del suo intervento, riguardo all'intenzione di improntare la sua azione di politica estera alla «continuità». Ebbene, ciò ha implicazioni precise. Continuità per l'Italia significa impegno per l'integrazione europea, impegno per l'accordo euroatlantico ed euromediterraneo.
Per quanto riguarda il primo aspetto, l'invito a ratificare rapidamente la Costituzione europea rappresenta certamente un fatto positivo. Sta a noi cercare di accelerare i tempi per dare l'esempio di una rapidissima ratifica del Trattato. Non si tratta soltanto di un fatto formale, ma anche di riprendere il filone di una politica europeistica, di iniziativa italiana. Ricordo che l'Italia è uno dei paesi costruttori dell'Unione europea e ciò comporta che alla ratifica segua anche una reale capacità di rendere effettive le novità introdotte, sfruttando quanto di nuovo la Costituzione europea contiene. Mi riferisco in particolare ai problemi dell'economia, alla luce del rischio reale che l'Europa corre di essere schiacciata tra un dollaro debole e la dinamica dei paesi orientali. È in corso una polemica sui parametri di Maastricht: in proposito, dobbiamo dire chiaramente che quei parametri rappresentano un succedaneo rispetto alla capacità di creare una base minima per un governo comune nell'eurozona. Su questo vorrei che il Governo si impegnasse. Un governo comune dell'eurozona, cioè la capacità di coordinare la macroeconomia di quell'area, dovrebbe rappresentare uno dei punti fondamentali di partenza della
nuova Costituzione europea. Oltre a ciò, si pone la necessità di tener conto della politica di coesione a livello comunitario, attesa la posizione molto difficile del nostro Mezzogiorno. Non sfugge che l'allargamento ai paesi dell'est, con reddito pro capite molto basso, potrebbe condurre ad una deformazione della politica di coesione, con il rischio di concentrare gli interventi a favore dei nuovi membri, escludendo dalle misure previste quelle aree in difficoltà, anche significative (il nostro Mezzogiorno ha una popolazione di circa 20 milioni di abitanti), dei paesi più avanzati, destinate ad essere sacrificate rispetto all'obiettivo comunitario. Vorrei che il Governo vigilasse molto a riguardo. La politica di coesione, in Europa, è molto importante, per l'Italia e per il nostro Mezzogiorno.
Una seconda nota positiva che riscontro nel suo intervento è il desiderio di un ritorno al multilateralismo. Ciò, a mio avviso, è importantissimo. A breve, il nostro Presidente del Consiglio incontrerà il Presidente Bush, ed auspico che, in occasione di quell'incontro, sia fatta presente tale aspirazione. Il multilateralismo, infatti, appare l'unica via per garantire un ordine mondiale. L'azione da svolgere deve essere intrapresa non solo nei confronti dell'America, ma anche verso i paesi europei, i quali debbono cominciare, se si vuole veramente recuperare il principio del multilateralismo, a parlare con una voce sola. Solo se questo obiettivo sarà conseguito la prospettiva multilaterale potrà essere recuperata in pieno. A riguardo, il nostro paese potrà svolgere un ruolo molto importante. Ripeto, si tratta di operare su due piani, nei confronti degli Stati Uniti e nei confronti dell'Europa. Quella frattura che si è creata all'epoca dei fatti in Iraq, gravissima per l'Europa, deve essere recuperata, atteso che non lo si è fatto con la conferenza di Sharm el Sheik. L'Italia può svolgere, allora, un ruolo serio in tale ambito. Le condizioni esistenti per trovare una soluzione favorevole sono del resto recentemente migliorate. Ritengo, soprattutto, che nell'area del Medio Oriente stiano maturando fatti nuovi, importanti: il Governo israeliano, a breve, sarà un Governo di coalizione, in cui entreranno i laburisti; la scomparsa di Arafat, e l'indizione di elezioni per la nomina di un nuovo leader, rappresentano fatti che possono veramente aprire una strada nuova. Se l'Europa riuscirà ad esprimersi con una voce unica rispetto a tale problema, potrà davvero svolgere un ruolo estremamente positivo.
Occorrerà poi stabilire una linea di azione per affrontare i pericoli eccezionali che stiamo correndo: terrorismo, proliferazione delle armi nucleari, diffusione dei mezzi di distruzione di massa.
Su queste cose non esistono interessi in contrasto tra gli Stati Uniti e l'Europa perché gli interessi sono comuni; quindi, si tratta soltanto di elaborare una strategia complessiva e l'Italia in questo può dare un grande aiuto.
Nell'ampia esposizione fatta dal ministro degli esteri non ho sentito nessun riferimento al suo recente viaggio fatto, insieme al Capo dello Stato, in Cina, mentre mi sarebbe piaciuto sapere se su questo c'è stata qualche importante novità.
Infine ricordo che esiste un problema aperto riguardante gli elenchi degli italiani all'estero essendovi elementi di difformità tra quelli posseduti dalla Farnesina e quelli del Ministero dell'interno. A tal proposito possiamo sperare che si arrivi ad una unificazione anche in previsione della futura rappresentanza degli italiani all'estero nel nostro Parlamento?
Ascoltando il ministro mi è sembrato di cogliere una sua aspirazione ad arrivare ad una linea di politica estera condivisa; quindi, mi auguro che questo suo desiderio possa essere realizzato anche se spetta a tutti arrivare a questo obiettivo.
GIAN PAOLO LANDI di CHIAVENNA. Signor ministro, sulle sue spalle gravano delle responsabilità politiche estremamente importanti perché lei avrà il compito di definire un'agenda di politica estera italiana particolarmente complessa: la gestione della situazione post-elezioni in Iraq; la complicata riforma delle Nazioni Unite o meglio del Consiglio di sicurezza;
la ratifica del Trattato europeo non solo in Italia, con particolare riferimento alle condizioni che si porranno qualora la Costituzione europea non dovesse essere ratificata in altri paesi; la gestione della situazione israelo-palestinese anche a seguito delle elezioni in Palestina.
Sulle sue spalle, quindi, gravano delle questioni estremamente importanti e mi pare che l'intervento che lei ha svolto in questa sede abbia definito un grande senso di responsabilità sia da parte sua sia da parte del Governo che lei rappresenta.
In alcuni passaggi lei ha fatto alcuni riferimenti rilevanti, ma mi limiterò a chiedere la sua valutazione solo su alcuni aspetti. Riguardo alla questione della Russia, dell'Ucraina e di tutta l'area d'influenza dell'ex Unione Sovietica lei ha detto che è necessario incentivare questa vocazione europea da parte della Russia. Sicuramente, però, i fatti recenti accaduti in Ucraina, e anche la complessa situazione delle recenti elezioni in Romania che si sono concluse nelle ultime ore con l'affermazione del candidato di centrodestra, dimostrano che in questa parte del mondo c'è ancora una forte presenza di una cultura e di una ideologia post-comunista che utilizza strumenti che sono molto lontani dalla cultura delle democrazie occidentali. Quello che è accaduto in Ucraina ai danni del candidato gradito - come sembra - alla maggioranza della popolazione ucraina è estremamente significativo; quindi, da un lato è necessario rafforzare le relazioni con questi paesi, ma dall'altro è fondamentale avere anche particolare attenzione a questi rigurgiti di cultura post-comunista e di ideologia dittatoriale che sono ancora presenti in queste realtà.
Riguardo alla questione palestinese, mi sarebbe piaciuto continuare a sentire quello che lei aveva già molto bene espresso qualche tempo fa riguardo alla questione del muro che divide Israele dalla Palestina. Io sono personalmente convinto che sia utile continuare a sostenere questa iniziativa di Israele perché, per quanto sia auspicabile che anche le elezioni in Palestina possano dare un risultato di maggior democrazia in questo paese, credo che difendere e tutelare gli interessi e la sicurezza del popolo israeliano sia un elemento di particolare importanza per la tutela e la garanzia anche dei principi democratici dell'Occidente.
In questa audizione, signor ministro, le sono state rivolte parecchie domande in materia di cooperazione allo sviluppo di cui condivido sostanzialmente le valutazioni e le incentivazioni, però vorrei anche evidenziare - ovviamente come contributo, visto che lei ne è perfettamente al corrente - un dato importante riguardante l'esplosione demografica in quei paesi poveri e in via di sviluppo; essa rappresenta uno degli elementi che vanno a costituire la drammatica situazione di povertà, carestia e degenerazione del sistema eco-ambientale. Questa situazione di forte incremento demografico, che viene invece accompagnata da un decremento di natalità del mondo occidentale, determina poi grandi flussi migratori: si prevede che nei prossimi anni il fenomeno interesserà 190 milioni di persone. Non crede, come io personalmente ritengo, che i ministri degli esteri europei debbano intervenire ed agire per cercare di governare o comunque per dare dei segnali anche rispetto a questa esplosione demografica dei paesi poveri? A sostegno di questa tesi le cito un solo un dato: l'India in sei giorni ha una percentuale di nascite pari al tasso di natalità annuale che si ha in Italia.
Questi sono i dati rispetto ai quali vorrei venisse data attenzione sia nella politica di cooperazione allo sviluppo sia nella politica internazionale.
CESARE RIZZI. Signor ministro, innanzitutto voglio rinnovarle i miei complimenti per il suo nuovo incarico di ministro degli affari esteri; le auguro di arrivare a fine legislatura visto che diversi ministri si sono finora succeduti.
Riguardo alla sua relazione mi limiterò a chiedere la sua valutazione solo su tre aspetti: l'entrata della Turchia nell'Unione Europea, l'embargo alla Cina e la situazione africana.
Per quanto concerne la Turchia lei ha manifestato la necessità di accelerare i tempi di entrata in Europa di questo paese e ha anche detto che il futuro della Turchia è una scelta di coerenza rispetto al rapporto con il popolo islamico. A tal proposito io sono convinto che la Turchia non possa entrare in Europa prima di dieci anni a causa dei diritti umani e quant'altro; le vorrei, inoltre, ricordare che in quel paese ci sono 80 milioni di islamici e che - come riportato oggi da vari quotidiani - gli industriali turchi sono contrari all'entrata della Turchia in Europa perché dicono di non essere pronti.
Il Capo dello Stato durante il viaggio in Cina si è dimostrato favorevole alla revoca dell'embargo di armi alla Cina; su questo vorrei sapere qual è la sua opinione e quella del Governo perché non ritengo sia il caso di procedere in tal senso.
Un altro problema molto importante riguarda l'Africa di cui tutti parlano, ma nessuno fa niente. Nel mondo ci sono circa 25 mila persone che muoiono di fame ogni giorno e buona parte di questi sono africani; ci sono grosse organizzazioni - di cui io parlo da anni - come la FAO che spende l'80 per cento dei propri introiti per il personale composto da 2.400 persone. Di questa situazione l'anno scorso si sono occupati alcuni quotidiani che nei loro servizi notavano anche che i funzionari della FAO che vengono mandati in giro per il mondo fanno riunioni a Parigi, a New York o a Roma, ma non si recano mai nei paesi africani dove sarebbe il caso di andare perché è lì che vi è molto bisogno.
Vorrei chiederle, signor ministro - visto che tutti i miei discorsi sono stati fatti al vento, perché se ne parla sempre ma nessuno mai interviene - se non sia il caso, per una volta, di controllare e di intervenire presso queste grandi organizzazioni, dato che anche il nostro paese versa ad esse i contributi. Mi riferisco, innanzitutto, alla FAO. Bisogna capire per quale motivo circa l'80 per cento di queste contribuzioni sia speso per mantenere il relativo personale quando se ne potrebbe fare a meno, o lo si potrebbe ridurre radicalmente, e si potrebbe fare in modo che ogni giorno muoia di fame un minor numero di persone. È incredibile: tutti i giornali continuano a parlarne dell'Africa - io conosco benissimo questo continente, nel quale mi sono recato numerosissime volte, e conosco tutti i paesi africani - e nessuno fa niente, anche il nostro Governo non ha mai fatto assolutamente niente. Sono stato in Tanzania, in Congo e in molti altri paesi - addirittura, in Uganda sta scoppiando un'altra rivoluzione - e ho constatato che nessuno fa niente. Moltissime persone muoiono di fame mentre alcune grandi organizzazioni, alle loro spalle, mangiano, bevono e fanno baldoria. Perciò, signor ministro, la prego di intervenire, una volte per tutte, perché - come ho detto - è da cinque o sei anni che ripeto le stesse cose ma tutti fanno orecchie da mercante.
RAMON MANTOVANI. Lei ha pronunciato un discorso impegnato, signor ministro, un discorso che ha abbracciato i principali temi del suo nuovo impegno, per il quale, come sa, le ho già rivolto i miei auguri, in occasione del dibattito svoltosi in Assemblea riguardo alla Turchia. Cercherò di attenermi a quei temi, anche se ho ascoltato molti colleghi che proponevano argomenti che dovrebbero essere oggetto di qualche interrogazione, piuttosto che di un confronto così importante come quello sulle linee programmatiche del Ministero degli affari esteri.
Al contrario di qualcun altro dell'opposizione, non le dirò che sono d'accordo con la sua politica salvo pensare che un Governo di colore diverso avrebbe potuto fare meglio e praticare meglio quella stessa politica, tranne che su qualche punto. La mia opposizione alle sue linee programmatiche è pressoché totale. Tranne che sulla questione dell'ONU, non ho riscontrato alcun elemento sul quale, sinceramente ed onestamente, ritenga di poter convergere, probabilmente perché ci differenzia l'impianto analitico della situazione mondiale.
Alla fine del suo intervento, signor ministro, lei ha parlato delle sfide della
globalizzazione. Penso che il Governo di un paese come il nostro dovrebbe porsi il problema del bilancio della globalizzazione, la quale non è un evento meteorologico ma un processo, contemporaneamente, economico, politico, militare e culturale che è stato implementato, favorito e, per alcuni versi, deciso attraverso atti precisi. Penso, altresì, che sarebbe opportuno interrompere quel processo di cosiddetta internazionalizzazione dell'economia che, in realtà, è stato, più che altro, un processo di violenta ed estrema liberalizzazione del commercio e di totale rinuncia al controllo sugli andamenti della finanza internazionale. Questo processo ha prodotto alcuni gravissimi danni, non solo nella parte di umanità sofferente (è inutile citare le cifre perché sono abbastanza note e, comunque, abbastanza impressionanti da rimanere incise, spero, nella memoria di ognuno), ma anche nell'economia dei nostri Stati che, non per caso, in questi ultimi tre o quattro anni stanno conoscendo momenti di difficoltà e di crisi. Perciò, non condivido l'idea che sia necessario promuovere e favorire quella internazionalizzazione dell'economia di cui lei ha parlato. Peraltro, per molte nostre imprese, quest'ultima ha significato semplicemente passare nella proprietà di finanziarie o colossi multinazionali per essere, poi, soppresse, mentre i prodotti che si realizzavano con il buon nome dell'ingegno, della creatività e della cultura imprenditoriale del nostro paese continuavano a essere commercializzati, senza che in Italia rimanesse nulla di quanto si faceva una volta.
Tale globalizzazione ha prodotto una instabilità e una insicurezza internazionale. Quando parlo di insicurezza non mi riferisco al fenomeno terroristico fondamentalista islamico. Infatti, quest'ultimo nasce ben prima dei processi che noi chiamiamo di globalizzazione e persegue due obiettivi da essi totalmente separati, avvantaggiandosi, tuttavia, di alcuni nefasti effetti per cercare un consenso ad un progetto che, come ripeto, è autonomo. Resta il fatto che l'instabilità e l'insicurezza dominano e che di fronte a tutto ciò ci sono due opzioni.
Lei ha il merito, signor ministro, di aver pronunciato un discorso che ritengo molto chiaro: non lo condivido ma, almeno, è chiaro. Lei parla di una leadership statunitense sull'Occidente e di una NATO che deve pensare ad essere presente al di fuori dei propri confini e si riferisce al G8 come ad uno dei principali organismi di decisione nel mondo. Non ripeterò quanto lei ha affermato. Penso che sarebbe necessario, invece, seguire un'altra strada e, cioè, quella di costruire le basi per la riproduzione di una multipolarità nel mondo. Questo non significa competizione o guerra fredda ma commercio fondato sul reciproco vantaggio, sviluppo in confronto allo sviluppo di altri ed equilibrio dal punto di vista politico e militare. Nel suo discorso, lei è stato a cavallo tra la dottrina unilaterale e la dottrina multilaterale che, però, si iscrivono nella formazione di un nuovo ordine mondiale fondato sull'unipolarismo, quello dei paesi occidentali o, se vuole, dei paesi ricchi o, ancora, dei paesi transatlantici. Si tratta di una scelta che io combatto, che io contrasto e che penso sia pericolosa per il futuro dell'umanità perché alimenta e, se proseguita con così tanta determinazione, continuerebbe ad alimentare il pericolo di uno scontro fra civiltà e religioni e potrebbe scavare un abisso tra diverse culture e civiltà nel mondo che sarebbe ben difficile, poi, colmare e superare. In particolare, lo strumento dell'azione militare o, per meglio dire, della guerra - guerra umanitaria o guerra preventiva o comunque la si voglia chiamare - è un volano di questa politica. Capisco che chi pensa ad un mondo unipolare senta anche il bisogno di governare il mondo, soprattutto con la forza, ma penso che, invece, il nostro paese dovrebbe essere promotore di pace, in particolare, all'interno dell'Unione europea, così contribuendo a formare una posizione dell'Unione europea.
Non ho il tempo per dilungarmi su questo argomento ma intendo riprendere un aspetto della sua relazione che non
condivido: la questione del conflitto israelo-palestinese. Lei, signor ministro, ha usato parole precise; il suo discorso è preparato e le parole sono state sicuramente pesate. Lei ha usato parole nette e frasi asseverative su quanto dovrebbero fare i palestinesi, mentre sul Governo israeliano si è limitato a dire che dovrebbe fare il possibile per favorire le elezioni, ed allentare la morsa militare per perseguire questo obiettivo.
Israele pratica il terrorismo di Stato, occupa territori in violazione del diritto internazionale, non rispetta le risoluzioni delle Nazioni Unite, pratica scientemente l'omicidio politico. Israele sta costruendo un muro (che piace particolarmente all'onorevole Landi di Chiavenna) al di fuori di qualsiasi principio di legalità internazionale. Israele, come ammettono anche molti esponenti del Governo e della maggioranza cui lei appartiene, in una prima fase ha sostenuto contro Arafat la fazione fondamentalista di Hamas. Non sono totalmente d'accordo con quanto succede all'interno dell'Autorità palestinese e con certi metodi di lotta, anche terroristici, che vengono adottati, ma vedo con particolare preoccupazione la posizione del Governo da lei espressa, in quanto la posizione che colpevolizza e responsabilizza soltanto una delle due parti in causa e sorvola sulle gravissime violazioni che lo Stato di Israele ed il suo Governo compiono non rappresenta un contributo alla pace, quanto piuttosto una tanica di benzina versata su un fuoco acceso.
PRESIDENTE. Vi sono ancora due iscritti a parlare, gli onorevoli Cima e De Zulueta: mi appello a loro per lasciare il tempo alla replica del ministro dato che i lavori dell'Assemblea riprenderanno tra non molto.
LAURA CIMA. Signor presidente, ho a disposizione anche i minuti che spettavano alla componente del gruppo verde del Senato che non ha parlato. Cercherò di essere breve, ma non si può fare una riflessione su un aspetto così ampio, come le linee programmatiche del Ministero degli affari esteri, in pochi minuti.
In primo luogo affermo anch'io, per essere chiara, che non condivido la visione e la linea del ministro, che ritiene possibile perseverare in una politica estera che ha alla propria base l'affermazione degli interessi dell'Occidente con la forza e la parola d'ordine che la democrazia si esporta attraverso l'uso delle armi. Allo stesso tempo, gli obiettivi del Millennium round, che rappresentano il metro e la misura per garantire il nostro futuro, sono sempre più lontani. Continuano a verificarsi situazioni allarmanti come il fatto che ogni sei minuti muore un bambino, molto lontano dall'obiettivo di vincere la miseria, che invece aumenta. Vi sono situazioni pazzesche come il fatto che in Africa le adolescenti al di sotto dei vent'anni sono per il 75 per cento malate di AIDS o comunque sieropositive senza alcuna garanzia per il futuro di un continente. La situazione ambientale degli ecosistemi è sempre più drammatica, con frane, inondazioni e conseguenti morti. Lei, signor ministro, non ha detto una parola sul protocollo di Kyoto: eppure si tratta di questioni di politica estera, perché sono problemi riguardanti il futuro del nostro pianeta.
L'Afghanistan produce molta più droga di prima ed i nostri giovani sono distrutti dalla droga proveniente da questa nazione. Le armi sono uno strumento per fare affari e noi sponsorizziamo il fatto che dovremmo vendere più armi alla Cina, dato che i diritti umani ormai sono riconosciuti. Abbiamo visto come viene riconosciuta la libertà religiosa anche sui giornali di oggi: i cattolici devono pagare il pedaggio per andare a messa a Natale ed in Tibet un'intera etnia con la propria cultura è distrutta. Non so cosa altro dovrebbe fare il Dalai Lama per chiedere che il proprio popolo sia rispettato. Di fronte a tutto ciò noi chiediamo che sia tolto l'embargo sulle armi forzando, convincendo il nostro Presidente della Repubblica (è gravissimo e lo addebito a lei) che bisogna dire che l'Europa ha praticamente già tolto l'embargo: ciò è falso; non è così.
Pur essendo particolarmente curato in ogni parola, le manca completamente una
visione vincente del futuro, una preoccupazione per i nostri figli affinché possano ancora vivere su questo pianeta violento. Le donne - non solo in Africa, come abbiamo visto - continuano ad essere sottomesse e violentate, in particolare nel mondo islamico fondamentalista che non abbiamo assolutamente contribuito a portare alla ragione, ma che anzi stiamo esasperando sempre più. Mi permetta un solo esempio: a Falluja quante persone sono state uccise e quante case distrutte per prendere quanti terroristi? E tutto ciò per verificare che il terrorismo non è finito, che le elezioni (nonostante si continui a dire l'opposto) non saranno possibili, come viene affermato anche da esponenti del Governo iracheno. Lei parla di una politica estera di continuità, ma basata su cosa: sulla convivenza umana o sulla legge della giungla e del più forte? Questo è il cammino verso cui stiamo andando e non siamo assolutamente d'accordo con le linee programmatiche da lei enunciate. Naturalmente le rivolgo, come d'obbligo, i migliori auguri.
TANA DE ZULUETA. Avendo pochissimo tempo a disposizione vorrei porre due domande concrete cui anteporre una constatazione: considero positivi gli accenti in apparenza più sinceramente europeisti del nuovo ministro che ringrazio per la sua relazione. Spero che ciò significhi che potremmo tornare ad essere, come ha detto l'onorevole Maccanico, protagonisti di avanguardia della costruzione europea e non giocatori di rimessa. Noto anche con soddisfazione che si parla di multilateralismo come perno centrale della nostra politica estera. Questo progetto è nella continuità della politica estera italiana dei passati decenni, ma non degli ultimi tre anni, in quanto il multilateralismo è cosa diversa dal bilateralismo personalizzato e significa rafforzare il sistema degli organismi internazionali ed il quadro della legalità internazionale. Mi auguro, quindi, di vedere un rinnovato impegno a favore della Corte penale internazionale.
Per quanto riguarda la cooperazione e la mancanza di risorse, lei, signor ministro, poteva forse arginare il dissanguamento del finanziamento alla cooperazione. Si parla di interesse nazionale ma nelle tabelle OCSE siamo il paese che, in assoluto, nega più degli altri l'aiuto: facciamo pochissima cooperazione e quella poca ritorna a soggetti italiani.
Passando alle domande che intendo porre, lei giustamente parla del suo progetto per le Nazioni Unite, ripreso anche dal New York Times - ne sono soddisfatta -, richiamandosi all'importanza di rafforzare questo organismo. Rafforzare le Nazioni Unite significa anche avere un segretario generale autorevole e forte mentre, come lei sa, l'attuale segretario generale è oggetto di una campagna di delegittimazione pretestuosa e assai violenta. Mi piacerebbe che il nostro Governo, come il primo ministro inglese Tony Blair, prendesse posizione per chiarire il proprio sostegno, affinché questo gioco non diventi realmente pericoloso per la credibilità delle istituzioni.
Lei ha poi parlato di molti temi ma non della questione delle migrazioni, la prima grande sfida del nostro millennio. Sul punto, spero che avremo altre occasioni di sentirla. Vorrei in ogni caso porle una domanda: abbiamo sentito, da parte del ministro degli interni, che esiste un accordo con la Libia per risolvere la questione del fenomeno migratorio, in particolare, per quanto riguarda la presa in consegna di immigrati illegali o irregolari che arrivino nel nostro paese. L'episodio di Lampedusa ha fatto sì che molti, in Europa, si chiedano in che cosa consistano tali accordi; noi per primi in Parlamento lo abbiamo domandato. Chiedo a lei, signor ministro, se è possibile illustrarli e se il Parlamento possa conoscerne i contenuti in dettaglio, perché toccano i principi fondamentali dei diritti umani.
PRESIDENTE. Non essendovi altri interventi, do la parola al ministro degli affari esteri, Gianfranco Fini, per la replica.
GIANFRANCO FINI, Ministro degli affari esteri. Desidero, innanzitutto, ringraziare tutti i colleghi della Camera e gli onorevoli senatori che hanno preso la parola. Mi dolgo di non disporre del tempo necessario e sufficiente a rispondere in modo articolato ai molti quesiti posti e alle numerose valutazioni avanzate, per arricchire un dibattito risultato - e non parlo della mia relazione - certamente di livello; come ho spiegato nel corso dell'introduzione, tuttavia, quella odierna è la prima audizione del nuovo ministro degli affari esteri, e non sarà l'ultima. Avremo modo e opportunità, nel prossimo futuro, di concentrarci su alcune delle molte questioni sollevate in questa sede. Mi chiedo - e pongo la questione ai presidenti delle Commissioni qui riunite - se in futuro non sia opportuno porre al centro dell'eventuale incontro un singolo tema, al massimo due questioni principali, evitando la dispersione di argomenti, ciò che del resto oggi era insito nella logica stessa dell'audizione, essendo stato chiamato a riferire sulle linee generali dell'attività del Ministero degli affari esteri per il prossimo futuro.
Confesso subito, facendo professione di umiltà, che in ogni caso, anche qualora disponessi del tempo necessario, non mi sentirei in grado di fornire una risposta non superficiale ad alcune delle questioni poste, ed in particolar modo a quella, molto importante, relativa alla cooperazione. Mi impegno, però, ad approfondirla, non avendo ancora avuto modo di focalizzarla in tutti i suoi aspetti, oltre che quello, di tutta evidenza, relativo alla disponibilità di risorse. Non ritengo, del resto, che il problema sia circoscrivibile, come ha sottolineato l'onorevole Fassino, al possesso di strumenti finanziari adeguati per svolgere un certo tipo di politiche. È l'intero tema della cooperazione a dover essere approfondito, anche alla luce del dibattito, di cui non conosco altro che le linee generali, che si è svolto e si svolge attualmente in Parlamento, attorno al disegno di legge giacente al Senato circa una riforma organica e globale della cooperazione. Nelle prossime settimane, sarò personalmente disponibile ad un confronto più approfondito sulla questione, una volta che, con i sottosegretari, le strutture della Farnesina, i colleghi del Governo, avrò avuto modo di esaminare in dettaglio i problemi a riguardo. Analogamente rispondo all'onorevole Rivolta, sulla questione relativa alla Corea, data l'identica necessità di svolgere ulteriori approfondimenti.
Esprimerò, invece, talune considerazioni su argomenti a proposito dei quali ritengo sia possibile - con una certa proprietà di contenuti e non di linguaggio soltanto - già definire, o meglio ribadire, la posizione del Governo, a partire dalla vexata quaestio del rapporto con la Turchia, ribadendo concetti già noti, ma mettendo in evidenza, perché così mi è stato espressamente richiesto dal presidente Provera e poi dall'onorevole Rizzi, quale sia la natura oggettiva della decisione che il Consiglio dei Capi di Stato e di Governo deve assumere nella giornata di venerdì, quando l'Unione europea, con l'auspicio italiano che la decisione sia positiva, sarà chiamata a decidere la data di avvio dei negoziati. Dico subito all'onorevole Rizzi che vi è stato, evidentemente, un fraintendimento. Il Governo non ha fatto menzione di un'accelerazione dell'ingresso della Turchia nell'Unione, bensì ha espresso il suo favore per fissare, nel primo trimestre del 2005, la data di avvio dei negoziati. Come ho però dichiarato nella giornata di ieri, dopo la riunione del CAGRE, confermo di avere l'impressione che la data sarà stabilita non nel primo trimestre, bensì, più probabilmente, nella seconda parte del 2005, sebbene ciò non rappresenti un elemento dirimente. Vale evidenziare, in ogni caso, che il percorso verso l'adesione, dal momento di avvio dei negoziati, impegnerà perlomeno un decennio: questo è noto sia all'Unione europea sia alla Repubblica turca. Aggiungo che la natura del negoziato è già definita ed è profondamente innovativa. Sottolineo che il negoziato è aperto ad ogni soluzione. Per chiarezza, la Turchia si è vista riconoscere lo status di paese candidato a divenire membro dell'Unione: il negoziato che ne
consegue ha dunque un unico oggetto, vale a dire l'adesione. Non si può ipotizzare che al termine del negoziato vi sia una partnership diversa rispetto all'appartenenza pleno iure all'Unione. Ma, ed è la prima volta che accade, l'Unione europea considera il negoziato open-ending, cioè lo si potrà interrompere in ogni momento, ed eventualmente concluderlo, qualora si prendesse atto che quel paese non sia in grado di soddisfare le molte richieste che l'Unione europea ha avanzato, relative non solo e soltanto, come sanno i colleghi, alle questioni economiche, ma anche a diritti umani, al codice di procedura penale, al rispetto delle minoranze. Lo dico con sincerità: non riesco a comprendere una certa «turcofobia», pur esistente, in alcune società europee; la Repubblica turca che ha già compiuto numerosi passi avanti, rispettando i criteri di Copenhagen, è sottoposta ad ulteriori dimostrazioni non di buona volontà verbale ma di capacità di riforme per integrarsi completamente in una società esigente e di istituzioni complesse, quali sono quelle dell'Unione europea. Ritengo che da questo punto di vista non vi sia necessità di dar corso a preventive autorizzazioni che non siano quelle date dal Parlamento. In forma più esplicita, non credo sia saggio attivare in Italia un meccanismo referendario per chiedere agli italiani se vogliano che si dia via libera ad un negoziato - certo complesso, lungo, anche problematico -, rispetto ad un paese come la Turchia, il quale ha già compiuto notevoli progressi lungo la via dell'adesione ai valori dell'Unione europea prima ancora che dell'integrazione. Aggiungo, ma è cosa nota, che nella Costituzione vigente, il referendum è previsto per abrogare delle leggi. È vero che esiste un precedente illustre, quando si chiese agli italiani cosa pensassero del processo di integrazione europea, ma non ritengo che si debba attivare il meccanismo referendario per chiedere alla pubblica opinione cosa pensi dell'avvio del negoziato per l'ingresso, fra dieci anni, della Turchia nell'Unione.
Senza che vi sia un coordinamento logico tra gli argomenti, mi è stato chiesto da più parti, in questa occasione, che cosa il Governo italiano intenda dire quando sostiene la necessità di esportare la democrazia.
Credo che da questo punto di vista ci sia stato un equivoco perché in tal senso si è espressa la comunità internazionale in più di un occasione. Non mi riferisco solo al G8 che - lo dico all'onorevole Mantovani - è certamente una struttura che racchiude dei paesi a forte capacità industriale e di sviluppo, ma che negli ultimi tempi - si pensi in particolare modo al progetto «Grande Medio Oriente» allargato ai paesi del nord Africa - si è data una dimensione di tipo più politico; quindi, pensare al G8 come ad una «cupola » in cui i potenti del pianeta governano il mondo nel totale disprezzo nei confronti dei paesi del terzo e del quarto mondo, mi sembra una visione legittima, ma certamente non è - come lei ha onestamente sottolineato - quella del Governo.
Quando si parla di esportazione della democrazia da parte del Governo italiano non si fa altro che riprendere alcune delle valutazioni che sono state fatte anche molto recentemente al vertice di Rabat (io ho rappresentato il Governo italiano in quel vertice derivante da una iniziativa che fu assunta in seno al G8: il progetto «Grande Medio Oriente») ed è del tutto evidente che la democrazia non può essere esportata con la forza. La democrazia scaturisce dal basso, in qualche modo dal dialogo rispettoso con la società e particolarmente con la società civile. A me non piace, per la mia formazione politica, mettere in contrapposizione la società politica e la società civile, ma anche a Rabat è emerso chiaramente, sia da parte dei paesi occidentali, sia da parte dei paesi arabo-musulmani, che per democrazia innanzitutto non si intende un modello istituzionale perché da questo punto di vista vi sono vari modelli, ma una serie di valori che in quanto tali sono universali: in primis il valore rappresentato dalla libertà e sullo stesso piano quello rappresentato dal rispetto della dignità della persona umana. Quindi, se la democrazia è libertà
e rispetto della dignità umana, non si può pensare che questa sia prerogativa dell'Occidente, dove certamente è diffusa più che altrove, ma anche del resto del mondo.
Non si può pensare che la democrazia sia prerogativa di una cultura o di una tradizione religiosa e non di altre; quindi, da questo punto di vista credo che proprio l'esempio turco dimostri come non ci sia una contraddizione tra l'Islam e i valori dell'Unione Europea e quelli più in generale della democrazia e della laicità delle istituzioni. La democrazia, quindi, non si esporta con le armi o con la forza perché o nasce dal basso, oppure rischia di non attecchire.
A tal proposito aggiungo - perché ne sono convinto - che un paese come il nostro, proprio perché mediterraneo, proprio perché ha una sua tradizione a riguardo, deve essere convincente nell'ambito della comunità occidentale nel far capire che la democrazia non solo nasce dal basso, ma deve essere rispettosa delle identità, delle tradizioni e, in qualche modo, di quelli che sono i tratti distintivi di un popolo e di una comunità. Io credo che non piaccia a nessuno vedersi imporre qualche cosa perché l'identità nazionale e il senso di appartenenza ad una comunità devono essere sempre rispettati e, poi, ci sono dei valori che in qualche modo sono comuni.
Per quanto riguarda la questione della Cina vorrei assicurarle, onorevole Cima, che nessuno ha convinto il Capo dello Stato perché il Presidente della Repubblica agisce... (Commenti dell'onorevole Cima). No, lei ha usato parole esplicite che mi sono segnato e poiché ci sono i resoconti penso sia doveroso da parte del rappresentante del Governo correggerla. Il Capo dello Stato non ha necessità di essere convinto e non si fa convincere da nessuno perché ha le sue intime e ferme convinzioni.
La questione cinese è una materia complessa e delicata, quindi la riassumo per quel che riguarda la responsabilità del Governo: avevo già detto, prima della visita del Capo dello Stato in Cina, per precisione nella prima riunione del Consiglio affari generali dei ministri degli esteri a Bruxelles - la prima riunione cui ho partecipato - che ad avviso del Governo italiano bisognava riconoscere che il rapporto tra l'Unione Europea e la Cina era profondamente diverso rispetto a quello esistente dopo i fatti di Tien Ammen quando fu deciso di porre l'embargo nei confronti della vendita delle armi. Questo è un problema di coerenza; infatti se si dice che la Cina è un partner pur in presenza (su questo avete perfettamente ragione e lo dico a lei, come faccio con altri colleghi, perché ne sono convinto anch'io) di enormi questioni collegate ai diritti umani, alle libertà religiose e al rispetto dei valori democratici, però non c'è dubbio che oggi il rapporto tra l'Unione Europea e la Cina non è lo stesso che c'era dopo Tien Ammen. Se questa è la situazione, fermo restando che la politica dell'embargo è spesso una politica che si rivela dannosa o controproducente (c'è l'embargo alla Cina, come c'era l'embargo alla Libia e come c'è l'embargo a Cuba, perché è l'embargo che a mio modo di vedere che deve essere considerato nella sua efficacia), ho ribadito che era arrivato il momento di discutere della richiesta, che altri paesi europei avevano già fatto, di revocare l'embargo nei confronti della Cina e mettere a punto quel codice di condotta relativo alla vendita delle armi che riguarderà tutti paesi, Cina compresa; quindi, una misura diretta non verso un unico paese, ma erga omnes che può essere ugualmente rigorosa perché non credo sia interesse dell'Unione europea armare potenze come la Cina che, del resto, non credo abbia la necessità di farsi armare dall'Unione europea; infatti, chi ha studiato la questione sa che si tratta, innanzitutto, di una questione per certi aspetti di principio. Avendo verificato che in seno all'Unione Europea vi era una posizione sostanzialmente convergente su queste posizioni (altri paesi avevano avanzato questa proposta prima di noi, perché non è un mistero che la Francia e la Germania da tempo sostenevano quello che io ho sostenuto solo un mese fa) ho avuto il piacere di verificare che vi era un'autonoma
valutazione del Capo dello Stato non dissimile da quella che ho testé ribadito. A tal proposito dico anche - in particolar modo all'onorevole Maccanico - che il rapporto con una potenza continentale come la Cina per forza di cose dovrà tener conto di mille questioni, compreso il desiderio fortissimo che la società cinese ha di privilegiare nel rapporto con l'Unione Europea un paese come il nostro che agli occhi dei cinesi non è soltanto l'Italian style o la Ferrari, ma è innanzitutto il simbolo della cultura europea. Fa un certo effetto sentirsi dire dall'interlocutore cinese che loro sanno perfettamente che l'Italia è, secondo la nota stima dell'Unesco, il paese in cui è presente il 64 per cento del patrimonio culturale dell'umanità.
Il rapporto con la Cina non è soltanto quello di un paese che richiede la presenza dei nostri imprenditori e che è disponibile ad un interscambio in crescita, ma è - secondo me - un rapporto che può arricchire il dialogo tra civiltà. Non necessariamente dobbiamo vederlo come il dialogo tra la nostra cultura, la nostra civiltà occidentale e cristiana e il mondo islamico, perché dobbiamo intraprendere questo dialogo di civiltà e di cultura anche con realtà diverse - di cui quella cinese ha una dimensione di tutta evidenza - in assenza del quale si rischia l'incomprensione e di non fare passi avanti nella difesa dei valori universali.
Non c'è dubbio, però, che il monitoraggio dovrà essere molto, molto attento. Aggiungo che ci sono alcuni timidi ma inequivocabili segnali da parte delle autorità cinesi, le quali hanno capito perfettamente che, se vogliono intrattenere un rapporto con l'Unione europea e con l'Occidente, sul tema della democrazia e sul tema dei diritti non possono continuare a fare quello che facevano fino a qualche tempo fa, cioè negare l'esistenza del problema. I segnali sono timidi e ricchi di contraddizioni ma non c'è dubbio che ci sia, rispetto a qualche tempo fa, un certo disgelo, per usare un'espressione utilizzata, a suo tempo, a proposito di un'altra superpotenza. Ritengo sia doveroso, allora, agire al fine di aprire quei varchi e di far comprendere che tutto ciò che fanno è importante ma non è ancora sufficiente.
L'onorevole Fassino mi ha chiesto, in particolar modo, quale sia la exit strategy per l'Iraq. Confermo quello che ho già detto. Le elezioni del 30 gennaio sono considerate da tutta la comunità internazionale - l'ho verificato di persona, in occasione del vertice di Sharm El Sheikh - il punto di partenza della strategia di uscita. Non c'è ombra di dubbio che pensare allo svolgimento di elezioni in un paese come l'Iraq come se si svolgessero in Baviera o in Svezia significa sognare a occhi aperti. Saranno elezioni che si svolgeranno in condizioni estremamente difficili, in primo luogo, dal punto di vista della sicurezza. Credo che non occorra essere appassionati di politica estera per mettere in evidenza che anche l'escalation terroristica - che era ampiamente prevista - subirà ulteriori sussulti a mano a mano che ci avviciniamo al 30 gennaio. Al di là del numero di coloro che parteciperanno al voto, al di là delle aree che ne saranno interessate e al di là della presenza, o meno, dei componenti di alcune comunità (si parla molto dell'ipotesi che la componente sunnita non si rechi a votare ma occorrerebbe ricordare che non tutti i sunniti hanno affermato che non intendono votare), è importante il semplice fatto che in Iraq si possa votare per la prima volta. Quando si afferma di voler ripristinare la democrazia in Iraq non so a quale epoca ci si riferisca perché, in realtà, si tratta di impiantarla per la prima volta. Questa è la ragione per la quale ho ricordato, nella relazione, come l'esempio afghano dimostri il valore in sé dell'appuntamento elettorale. Si tratta, davvero, del riferimento ad un simbolo. Il 30 gennaio si attiverà un percorso politico, perfettamente indicato dalla risoluzione n. 1546, nella quale è scritto chiaramente che il mandato della forza multinazionale non è a tempo illimitato e, quindi, non si tratta di un'occupazione. Anche chi era contrario all'intervento anglo-americaano ha ribadito, in occasione del vertice di Sharm El Sheikh, che l'unico percorso
possibile è quello indicato dalla risoluzione n. 1546 e non una permanenza a tempo indeterminato. Quando il percorso sarà ragionevolmente garantito quanto alle condizioni di sicurezza, è chiaro che si prenderà atto che sarà venuta meno la ragione della presenza della forza multinazionale. Molti Stati, tra cui la Germania - ho incontrato il primo ministro Fischer qualche giorno fa - hanno tenuto una posizione molto diversa da quella del Governo italiano ma non si può chiedere loro di rivedere i loro giudizi, così come credo non abbia senso chiedere al Governo italiano di rivedere i propri, perché la politica è anche assunzione di responsabilità sul piano sia interno sia internazionale.
GIANFRANCO FINI, Ministro degli affari esteri. Però, quando oggi affermo che tutta la comunità internazionale è cosciente del fatto che l'unico percorso possibile è quello indicato dalla risoluzione n. 1546 intendo dire che non si garantisce l'irachenizzazione della sicurezza soltanto attraverso la presenza sul territorio delle nostre forze, come stiamo facendo noi italiani per gli aspetti umanitari, o con la preparazione delle forze di sicurezza irachene. Credo sappiate che la Germania è impegnata in un'azione di formazione professionale dei poliziotti iracheni, che si sta svolgendo negli Emirati arabi. Non si può chiedere ai tedeschi di andare a farlo in Iraq, visto che non vi hanno inviato le loro forze armate, ma credo si debba valorizzare questo impegno, al pari dell'impegno di chi, ad esempio, ha deciso di cancellare l'80 per cento del debito dell'Iraq nei confronti della comunità internazionale.
Non intendo dilungarmi troppo sul tema. Restano ferme le divisioni e le diverse valutazioni che si sono registrate nella comunità internazionale e che ci sono state, e ci sono, nel Parlamento italiano sulla legittimità dell'intervento e sulla opportunità della presenza dopo la fine della guerra. Almeno questa distinzione, però, lasciate che io la rimarchi: l'Italia non ha partecipato all'intervento per far cadere Saddam Hussein, non abbiamo inviato le nostre truppe insieme agli anglo-americani per far cadere Saddam Hussein. Quando è finita la guerra e Saddam Hussein è caduto, abbiamo accettato di inviare, nell'ambito della forza multinazionale, truppe che hanno una missione umanitaria e di pace, come previsto dalla risoluzione delle Nazioni Unite. So che agli occhi di molti si tratta di una distinzione capziosa ma il mio riferimento alla legittimità dell'intervento e all'opportunità della presenza delle truppe dopo la fine della guerra è finalizzato alla chiarezza e anche a mettere in evidenza che, al di là di tutto questo, oggi la comunità internazionale concorda nell'affermare che non c'è altra strada se non quella di seguire quanto previsto dalla risoluzione delle Nazioni Unite. Il punto di partenza sono le elezioni del 30 gennaio. Ci sono alcune tappe e c'è una data, che è chiaramente prevista entro il 2005. Certamente, se si dovessero determinare miglioramenti dal punto di vista della sicurezza si potrà accelerare. Dio non voglia che si determinino, al contrario, peggioramenti, di fronte quali è chiaro che bisognerà svolgere riflessioni ulteriori.
Rispondendo alle domande formulate dalla onorevole De Zulueta, anche per quel che riguarda lo status del Kosovo, sarà necessario qualche approfondimento. Fin d'ora escludo che tale status possa essere diverso rispetto ad una posizione intermedia tra i due eccessi. Mi spiego meglio: le recenti elezioni in Kosovo hanno dimostrato che Belgrado continua ad essere un primario interlocutore della minoranza serba. I serbi, in Kosovo, non hanno votato. Quindi, a mio avviso, non si può pensare che possa tornare all'interno della Repubblica serbo-montenegrina né, tanto meno, si può pensare, all'opposto, che possa essere uno Stato indipendente. All'interno di questi due estremi bisognerà connaturare uno status del Kosovo, tenendo conto del fatto che, anche in questo
caso, le Nazioni Unite sono state chiare, affermando che deve essere multietnico, deve essere pluralista e democratico e deve essere configurato, quindi, secondo un forte decentramento, non solo di tipo amministrativo, rispettoso di queste peculiarità. Credo che l'Italia nell'ambito dell'Unione europea abbia una sensibilità su questo tema che deve indurre l'Unione a riaccendere i riflettori sui Balcani, senza considerare che, adesso, la probabile incriminazione, da parte del Tribunale de L'Aja, del futuro premier kosovaro determinerà un'ulteriore escalation di tensione. Nella mia relazione mi sono riferito all'indifferenza nei confronti dei Balcani, perché da qualche tempo a questa parte mi sembra che si consideri archiviata la pratica mentre, in realtà, ci sono molte questioni ancora aperte e il fuoco cova sotto la cenere. Come i colleghi sanno, la stessa unità e integrità territoriale della Serbia-Montenegro è in discussione perché l'autonomismo montenegrino sta sfociando in posizioni di richiesta di indipendenza. Non a caso ho affermato che l'Italia ha due priorità: Mediterraneo e Balcani. Infatti, in un'Unione europea con 25 Stati membri, che diventeranno 27, i Balcani non sono soltanto geograficamente contigui all'Italia ma, se ci pensate bene, sono il cuore della costruzione europea. Comunque avremo modo di approfondire anche questo tema.
Passando al Medio Oriente, rispetto le posizioni anche quando non le condivido e, in questo caso, con l'onorevole Mantovani ci troviamo agli antipodi. Affermare che Israele dia vita al terrorismo di Stato è un'espressione inaccettabile perché il terrorismo, a mio modo di vedere, nella mia cultura politica, non può essere mai associato alle istituzioni. Si tratta di una frase che conosciamo anche in riferimento a vicende italiane di molti anni addietro. Penso che una democrazia, e Israele è tale (almeno questo, onorevole Mantovani, credo che la trovi concorde), non possa essere chiamata sul banco degli imputati come esecutrice di azioni terroristiche.
In ogni caso, riprendo quanto detto dall'onorevole Fassino e da altri colleghi della maggioranza: l'Italia è fermamente convinta che sia necessario esercitare moral suasion nei confronti di entrambe le parti ed occorra farlo all'interno di un'azione dell'Unione europea quanto più coesa possibile. Se in uno scacchiere, come quello mediorientale, l'Unione si divide, è evidente che i falchi dei rispettivi schieramenti tendono a volare in cielo. È oggettivamente una questione complessa (è persino banale dirlo), ma quando si apre la finestra di opportunità, ed ora ciò sta avvenendo, dobbiamo determinare noi alcune precondizioni ed una di queste è che l'Europa parli una lingua sola. Naturalmente ho avuto modo di confrontarmi con alcuni colleghi dell'Unione europea, in particolar modo con coloro che hanno una tradizionale attenzione al Medio Oriente, Straw, Fischer, Barnier; bisognerà anche confrontarsi con le parti israelo-palestinesi (confermo che da lunedì a mercoledì sarò in Palestina e in Israele) ed occorrerà da parte dell'Unione europea una capacità di sintesi per determinare una posizione unanime. Per quanto riguarda il rapporto con gli Stati Uniti, dovremo verificare la capacità dell'Europa di essere coprotagonista proprio sui dossier più caldi e la questione mediorientale è «la» questione. Non vi è convegno in cui non si afferma che se vogliamo impostare il rapporto tra Islam e Cristianesimo in modo non conflittuale, bisogna prima risolvere la questione israelo-palestinese.
Consapevole dell'enorme difficoltà, penso che la finestra di opportunità creatasi oggi debba essere spalancata. È stato il caso che ha voluto che l'uscita di scena di Arafat ponesse ai palestinesi il problema di una leadership riconosciuta da Israele e pronta ad atti concreti contro il terrorismo. Un altro aspetto importante è la decisione unilaterale di Sharon, presa contro il proprio partito, la propria maggioranza ed il proprio Governo. L'onorevole Maccanico ricordava che tra i nuovi eventi vi è la costituzione di un Governo di unità nazionale in Israele, ma ciò deriva dal fatto che Sharon, in modo unilaterale, non solo nei confronti dei palestinesi ma anche della propria maggioranza, ha deciso
il ritiro da Gaza. Al riguardo confermo quanto ho detto: il ritiro da Gaza o avviene all'interno della road map o, di per sé, non è un elemento sufficiente. Inoltre, terzo aspetto determinante è la dichiarata volontà del presidente Bush, nel suo secondo mandato, di riaprire la questione mediorientale. Questa è la finestra di opportunità, rappresentata da tre fattori che, fino a poco tempo fa, non esistevano. Sarebbe veramente un errore madornale non evidenziare e non lavorare per mettere in evidenza le convergenze. Non so se pecco di ottimismo, ma qualche segnale concreto esiste. Quando Barghouti ritira la candidatura, non lo fa forse per rendere evidente che il leader dell'OLP sarà colui che viene giudicato moderato, Abu Mazen? Il fatto che Sharon affermi, come ha fatto ieri, che revocherà i posti di blocco, se pur con certe limitazioni, per consentire il massimo dell'affluenza possibile alle urne e garantisca, come aveva già affermato quindici giorni fa, che gli arabi di Gerusalemme est potranno votare rappresenta un segnale. È vero che si verificano ancora attentati ed esistono posizioni molto rigide ma la situazione si sta muovendo. Il compito della diplomazia di paesi come l'Italia, ma in particolar modo dell'Unione europea, è cercare di aprire questi varchi.
GIANFRANCO FINI, Ministro degli affari esteri. Concludo con una doppia risposta all'onorevole De Zulueta. Kofi Annan sarà presente a Bruxelles, il 17 dicembre, e quella sarà l'occasione per far capire chiaramente, da parte dell'Unione europea ed anche da parte del Governo italiano, che il problema delle Nazioni Unite, oggi, non è certamente rappresentato dal segretario generale, ma dalla riforma e dal multilateralismo. Se vi sono responsabilità di altra natura, come qualcuno ipotizza, non sta certamente ai governi esprimere preventiva solidarietà o condanna. Il tema delle Nazioni Unite è talmente centrale da andare molto al di là del ruolo del segretario generale pro tempore. Dico pro tempore in quanto tutti siamo tali: le istituzioni rimangono, gli incarichi affidati alle persone al contrario passano.
Infine, per quanto riguarda la questione relativa alla cooperazione ed alle risorse in essa impegnate, dico con assoluta schiettezza che il ministro degli affari esteri, quando è anche vicepresidente del Consiglio, ha il dovere di indicare priorità generali. So perfettamente che anche l'attuale disegno di legge finanziaria non è generoso con il Ministero degli affari esteri, ma è altrettanto vero che questo provvedimento, con il pieno consenso del vicepresidente del Consiglio ha cercato di fornire risposte a determinate questioni. Naturalmente dovremo fare il punto sulla condizione in cui opera il ministero in relazione alle risorse, ma sarebbe semplicistico pensare che le risorse sarebbero state trovate solo perché l'incarico di ministro è ora rivestito da un leader di partito con una certa autorevolezza all'interno del Governo. Il Governo ha destinato le risorse all'interno di una scala di priorità e, naturalmente, se la priorità è stata la riduzione del carico fiscale, qualche sacrificio lo ha dovuto fare, con il consenso del ministro degli affari esteri, anche della Farnesina. Ciò non significa che non dovremo più fare cooperazione ma che dovremo, come ha ben detto l'onorevole Zacchera, razionalizzare le risorse. Da questo punto di vista, poiché vi è una certa esperienza da parte di molti membri delle Commissioni esteri, vi invito caldamente a contribuire sul piano delle idee e delle proposte per razionalizzare le risorse ed anche le risorse umane, esprimendo una disponibilità tutta da costruire (lo stesso onorevole Fassino è stato molto prudente). La questione delle risorse non riguarda solo l'aspetto finanziario, ma il più delle volte le risorse umane. La Farnesina è stata definita l'aristocrazia della pubblica amministrazione, nel senso letterale, greco, del termine. Non reputo tale definizione
particolarmente lontana dalla realtà, ma le risorse debbono essere comunque ottimizzate.
Mi è stato chiesto della nomina degli ambasciatori dato che la politica estera va al di là dei governi e riguarda l'intero paese. Sapete quali sono gli obblighi di legge, ma se stabiliamo un rapporto, fermi restando i ruoli e le diverse responsabilità tra Governo e Commissioni, di confronto e di reciproco scambio di proposte di arricchimento, da parte mia nulla osta ad associare, in modalità da definire, il Parlamento nel momento in cui si deve indicare chi rappresenti la Repubblica italiana, soprattutto in alcune grandi sedi internazionali.
Chiedo scusa per i tanti argomenti che non ho trattato e mi auguro che quanto prima si possano approfondire altre questioni.
PRESIDENTE. Ringrazio il ministro per il suo intervento e gli rivolgo i migliori auguri.
Dichiaro conclusa l'audizione.
La seduta termina alle 17,15.