COMMISSIONI RIUNITE
I (AFFARI COSTITUZIONALI, DELLA PRESIDENZA DEL CONSIGLIO E INTERNI) E IV (DIFESA)

Resoconto stenografico

AUDIZIONE


Seduta di luned́ 27 gennaio 2003


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PRESIDENZA DEL PRESIDENTE DELLA I COMMISSIONE
DONATO BRUNO

La seduta inizia alle 12,10.

Sulla pubblicità dei lavori.

PRESIDENTE. Avverto che, se non vi sono obiezioni, la pubblicità dei lavori sarà assicurata anche mediante l'attivazione dell'impianto audiovisivo a circuito chiuso.
(Così rimane stabilito).

Audizione del ministro dell'interno, Giuseppe Pisanu, sul fenomeno del terrorismo in Italia.

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, ai sensi dell'articolo 143, comma 2, del regolamento, l'audizione del ministro dell'interno Giuseppe Pisanu, sul fenomeno del terrorismo in Italia.
Nel salutare il ministro Pisanu, lo ringrazio per aver accolto l'invito rivoltogli dalle Commissioni I e IV.
A causa dei lavori odierni dell'Assemblea, che vedono impegnati i membri della I Commissione, abbiamo stabilito, d'intesa con il ministro Pisanu e con il presidente della IV Commissione, l'onorevole Ramponi, di concludere i nostri lavori entro le 16. Pertanto, dopo lo svolgimento della relazione introduttiva del signor ministro e una breve pausa, riprenderemo i nostri lavori con gli interventi dei colleghi i quali avranno a disposizione, in linea di massima, cinque minuti di tempo ciascuno, per terminare così questa fase intorno alle ore 15,15 e concedere un tempo adeguato alle risposte del ministro Pisanu. Qualora non riuscissimo a concludere i lavori entro la giornata odierna, il ministro dell'interno ha già dato la sua disponibilità per un ulteriore incontro, la cui data verrà stabilita d'intesa con il presidente Ramponi.
Do ora la parola per il suo intervento introduttivo al ministro Pisanu, che è accompagnato dai suoi collaboratori, dottor Soi e prefetto Mosca.

GIUSEPPE PISANU, Ministro dell'interno. Onorevoli presidenti, onorevoli colleghi, lo scorso 15 gennaio, nel rispondere in Aula al question time, avevo affermato che gli eventi di questi ultimi mesi hanno progressivamente consolidato l'ipotesi di un pericoloso risveglio del terrorismo in Italia. Avevo, conseguentemente, manifestato la mia disponibilità a rendere un'informativa più ampia e circostanziata in ordine a questo fenomeno che minaccia la convivenza civile ed il sereno svolgimento del confronto politico-sociale. Ringrazio, perciò, il Presidente della Camera e la Conferenza dei capigruppo che oggi mi offrono questa opportunità. Peraltro, credo che da troppo tempo, ormai, il Parlamento non abbia avuto la possibilità di intrattenersi adeguatamente a riflettere su questo fenomeno. Naturalmente io non sarò all'altezza di questa riflessione; mi sono sforzato, tuttavia, di offrirvi una relazione non improvvisata alla quale allego anche una corposa documentazione che deposito presso le Commissioni.
Desidero tracciare, preliminarmente, il quadro generale della minaccia terroristica di matrice interna ed internazionale presente nel nostro paese per passare poi ad analizzarne le componenti principali.
Quando parlo di terrorismo internazionale, mi riferisco a movimenti violenti e gruppi armati che operano in realtà geografiche


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diverse; alcuni dei quali si ispirano ad ideologie laiche o ad istanze indipendentiste a carattere regionale mentre altri si ispirano al radicalismo religioso ed in particolare all'integralismo islamico. I primi hanno finora limitato la loro attività all'interno delle rispettive aree di crisi (si pensi ai gruppi baschi e corsi); gli altri, dopo i tragici eventi del settembre 2001, sono assurti al ruolo di protagonisti sulla scena mondiale.
Il terrorismo di matrice islamica parte, come ben sapete, dal fanatismo religioso e da una radicale avversione all'occidente e, perciò, rifiuta il dialogo tra diverse culture ed, anzi, si colloca, rispetto ad esse, in assoluta opposizione. In Italia, anche in tempi recenti, una pressante attività investigativa ha consentito di individuare e disarticolare varie cellule che, a diverso titolo, si collegavano ai centri di addestramento di Al Qaeda per rinfoltire le file dei combattenti islamici nei grandi conflitti etnico-religiosi.
I confortanti risultati fino ad ora raggiunti sono stati sottolineati in vari autorevoli contesti internazionali. Da ultimo, solo qualche giorno fa, l'Attorney General degli Stati Uniti d'America ha dato pubblicamente atto al nostro paese di aver assunto «un ruolo di leadership» nella lotta al terrorismo.
Tuttavia, la minaccia resta incombente e tende ad aggravarsi, come confermano episodi recenti in Italia, Spagna e Regno Unito. Si stanno, perciò, intensificando le attività di prevenzione e investigazione condotte da polizia e magistratura in un ampio contesto di collaborazione internazionale.
Dico subito che non sono finora emerse prove concrete di interazione fra gruppi islamici e organizzazioni eversive endogene, ma questa ipotesi viene attentamente seguita dagli investigatori, anche sulla base di alcuni segnali provenienti dall'ambiente carcerario. Mi riferisco, in particolare, ad alcuni contatti epistolari registratisi tra reclusi magrebini e detenuti italiani appartenenti a gruppi eversivi di estrema sinistra.
Ricordo, peraltro, che il comunicato di rivendicazione dell'omicidio Biagi e numerosi altri documenti, compreso l'ultimo volantino degli NTA, evocano un «fronte combattente antimperialista», comprendente le nuove BR, i vari movimenti armati e il terrorismo islamico.
Per quanto riguarda il territorismo interno, è ben noto il livello di aggressione raggiunto, a più riprese, anche in tempi lontani, sia da parte di formazioni della sinistra estrema (gruppi armati di ideologia marxista e anarchica), sia da parte di organizzazioni riconducibili all'estremismo di destra.
Mentre i gruppi di ispirazione marxista continuano ad essere organizzati su schemi rigidamente gerarchici e collocano la lotta armata nella prospettiva di una guerra di classe, i gruppi anarchici privilegiano una filosofia individualistica, che si manifesta attraverso numerose azioni violente, tuttavia spesso rispondenti ad una logica unitaria.
Molti e gravi sono gli episodi rivendicati da nuclei che si ispirano alle tesi estreme del marxismo, principalmente motivati da tematiche attuali, quali quelle delle lavoro, dell'occupazione e delle riforme istituzionali, in un rapporto di affinità ideologica fra «vecchio» e «nuovo» terrorismo. Il «nuovo» terrorismo italiano di origine marxista affonda quindi le sue origini nel passato anche se, oggi, si propone con logiche e strategie adeguate ai mutati scenari politici, economici e sociali.
Come illustrerò più avanti, si tratta di un fenomeno che evidenzia indiscutibili connessioni con l'eversione degli anni settanta. Basti pensare all'influenza che gli «irriducibili» ancora in carcere esercitano sui nuovi militanti o alle recenti risoluzioni strategiche che presentano ampie analogie con quelle degli «anni di piombo».
Le vecchie chiavi di lettura ci consentono, perciò, di inquadrare meglio taluni aspetti del fenomeno odierno e ci aiutano a capirlo, ma non possono fornirci, da sole, una spiegazione esaustiva di quanto sta accadendo.


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Altrettanto gravi si sono rivelati gli episodi di violenza riconducibili a quella parte dell'area anarchica che ha ormai abbandonato il purismo individualista e si è venuta a collocare, sempre più, in una prospettiva insurrezionale, prendendo di mira siti e simboli legati, di volta in volta, a tematiche antistatuali, anticarcerarie, ambientaliste, separatiste e antimperialiste, con azioni condotte nel territorio nazionale e, spesso, in parallelo con azioni analoghe all'estero.
Da tempo, sono noti i collegamenti che uniscono gli anarco-insurrezionalisti italiani a gruppi affini operanti in altre nazioni europee, specialmente in Spagna e Grecia, dove sono detenuti militanti italiani condannati per gravissimi reati, nei cui confronti la «solidarietà insurrezionale» si è tradotta, anche recentemente, in gravi fatti criminosi.
Posso confermare, sulla base di accurate analisi, che in Italia l'anarco-insurrezionalismo è il fondamento ideologico di una vasta banda armata clandestina, la quale, anche in assenza di una direzione strategica e di un'organizzazione verticistica di stampo brigatista, ha tutte le caratteristiche di un'associazione sovversiva. Così come ritengo che la ripresa dell'interventismo anarchico possa in parte ascriversi alla volontà di innalzare il livello di scontro con lo Stato dopo il sostanziale fallimento, a Firenze, delle istanze estremistiche, emarginate dalla stragrande maggioranza del movimento no global.
L'eversione di destra, dal canto suo, trae origine da lontane direttrici storico-politiche. Essa ha alimentato quella complessa vicenda politico-eversiva che, nel passato, è stata definita «strategia della tensione».
In quel contesto storico, sono maturati gravissimi fatti di sangue, ancora oggetto di delicate indagini giudiziarie, fatti che, fortunatamente, non sembrano riproporsi nella realtà odierna.
Si è avuto, invece, modo di verificare che alcune organizzazioni della destra radicale hanno recentemente assunto atteggiamenti aggressivi in ambiti particolari, raccogliendo frange di devianza giovanile e di emarginazione metropolitana e radicando contatti con soggetti attivi in altri paesi europei.
In un'ottica internazionalista si collocano, inoltre, gruppi aggregati intorno a riviste specializzate, composti da estremisti di destra convertiti all'Islam che coltivano rapporti con ambienti sciiti, specialmente sul terreno dell'antisemitismo.
Più in generale, la scena politica dell'estremismo di destra resta caratterizzata da personaggi che, a cavallo tra gli anni settanta e fino agli anni novanta, hanno optato per una scelta rivoluzionaria di contrapposizione violenta alle istituzioni democratiche. Essi appaiono ancora in grado di catalizzare energie giovani intorno a temi tipici del radicalismo politico-ideologico di matrice fascista o, addirittura, intorno a posizioni nichiliste.
Mi soffermerò più avanti sulla presenza nel nostro paese di una vasta area di illegalità politica diffusa, la quale interessa tanto l'estremismo di destra quanto l'estremismo di sinistra e, pur non manifestandosi con atti terroristici, impone una costante opera di vigilanza, di prevenzione e di contrasto per la sua indiscutibile pericolosità.
Mi riferisco ad una serie di atti illegali che, seppure soltanto a valenza dimostrativa, indicano l'esistenza, nella galassia dell'estremismo - o intorno ad essa - di individui e gruppi organizzati che hanno comunque scelto la violenza, ancorché minore, quale metodo di lotta politica. Ed allora, anche se diversa può essere la motivazione dei singoli fatti, sicuramente convergenti sono gli effetti: creare insicurezza ed allarme nei cittadini, intimidire le vittime di volta in volta prescelte, sfidare apertamente l'autorità delle istituzioni, cercando di far passare il messaggio che si può infrangere la legge senza essere puniti.
Per queste ragioni, non va in alcun modo sottovalutata la pericolosità di questi comportamenti che definirei «a bassa intensità eversiva»: chi infrange le vetrine, chi formula minacce di morte ed esalta gli omicidi dei terroristi, chi arriva ad aggredire fisicamente l'avversario, chi incendia


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la sede di un partito, di un sindacato o di un'altra associazione, non solo si pone fuori dal confronto politico e dalla civile convivenza ma può, come il passato insegna, al verificarsi di determinate condizioni, compiere il «salto di qualità» verso la lotta armata. Bisogna perciò essere particolarmente vigili.
Senza indulgere a paralleli semplicistici, infatti, non si può escludere in prospettiva (e sottolineo: in prospettiva) una interrelazione tra l'area della illegalità politica diffusa e quella terroristico-eversiva, così come avvenne in passato allorché le frange più estreme dell'Autonomia operaia diedero vita al fenomeno cosiddetto del «terrorismo diffuso», che si poneva in posizione dialettica rispetto al «terrorismo selettivo» delle Brigate rosse.
Passo ora ad illustrarvi più dettagliatamente le diverse componenti del terrorismo e della illegalità politica diffusa. Per quanto riguarda l'eversione ed il terrorismo di sinistra, le Brigate rosse-PCC, gli NTA ed altri gruppi, il comunicato di rivendicazione dell'omicidio D'Antona richiama le linee programmatiche dell'ala militarista delle Brigate rosse, il cui impianto strategico - contestualizzato alla fase socio-politica del momento - viene riproposto nella sua interezza. Lo stesso documento fornisce una chiave interpretativa delle ragioni del silenzio delle Brigate rosse nel corso degli anni novanta, dopo la «ritirata strategica» dell'estate 1982, ritirata che aveva innescato (come molti ricorderanno) un dibattito interno conclusosi nel 1984 con la nota spaccatura tra gli intransigenti della cosiddetta «prima posizione» e i gradualisti della «seconda posizione». In questo senso debbono leggersi, infatti, i riferimenti ai Nuclei comunisti combattenti (NCC), indicati appunto come strumenti per il rilancio dell'iniziativa combattente nell'ambito della «ritirata strategica» e perciò capaci di raccogliere l'eredità delle Brigate rosse.
Un'ulteriore conferma di questo ruolo è giunta nel maggio 2002 dal documento letto in tribunale dalla «militante rivoluzionaria» Vincenza Vaccaro, secondo la quale i Nuclei comunisti combattenti, collocandosi razionalmente nella strategia dell'«attacco al cuore dello Stato», hanno potuto assumere, nel 1999, «la denominazione Brigate rosse». I NCC hanno rivendicato, tra gli altri, il fallito attentato alla sede della Confindustria (nell'ottobre 1992), l'attentato esplosivo alla sede del NATO Defence College di Roma (nel gennaio 1994) ed un ulteriore episodio del febbraio 1995, conclusosi con l'arresto di due noti estremisti toscani che si dichiararono militanti dei Nuclei comunisti combattenti. Da allora questa denominazione non è più ricomparsa.
Il 19 marzo 2002 viene assassinato il professor Marco Biagi. Nel corposo documento di rivendicazione, inviato la sera successiva ad oltre cinquecento indirizzi di posta elettronica, non si rilevano riferimenti ai Nuclei comunisti combattenti; questa circostanza può essere letta quale indiretta conferma della confluenza dei Nuclei nelle Brigate rosse-PCC, culminata nell'omicidio D'Antona. Ulteriori, significativi avalli agli omicidi del professore Biagi sono stati forniti dai detenuti «irriducibili», che in occasione di diversi processi sono intervenuti per riaffermare la validità della linea politica delle Brigate rosse-PCC. Peraltro, recenti acquisizioni investigative confermano il ruolo di alcuni detenuti storici delle Brigate rosse nell'elaborazione del documento di rivendicazione dell'omicidio D'Antona.
Le rivendicazioni degli omicidi D'Antona e Biagi (sulle quali vale la pena soffermare l'attenzione) ribadiscono e aggiornano la linea ideologica, politica ed operativa delle Brigate rosse. La prima svolge un'ampia analisi della situazione interna, con forti critiche al Governo D'Alema, colpevole di aver avallato un sistema neo-corporativo di concertazione tra Governo, Confindustria e sindacati. Conseguentemente, sostiene la strategia di «colpire il cuore dello Stato», mentre sul versante internazionale propugna la costruzione di un «Fronte combattente antimperialista». Nella seconda rivendicazione il professor Biagi viene individuato come l'artefice di un «progetto di ridefinizione (...) delle relazioni neocorporative


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tra esecutivo, Confindustria e sindacato confederale», in linea con il Governo Berlusconi, accusato di voler questa volta superare la concertazione per avviare una rimodellazione sociale e politica. Sul fronte internazionale ampio spazio viene riservato alla politica «espansionistica della catena imperialista avviata negli anni ottanta dagli USA», al crollo politico dei paesi del Patto di Varsavia e ai nuovi equilibri determinatisi nello scacchiere internazionale. Il documento, dopo aver salutato la strage delle Twin Towers come un attacco alla strategia imperialista, sostiene la necessità di nuove alleanze tra le forze rivoluzionarie dell'area europeo-mediterranea-mediorientale volte alla costruzione di un «Fronte combattente antimperialista».
Negli ultimi anni, accanto alle nuove BR, si sono evidenziati i Nuclei territoriali antimperialisti (NTA), con una specifica vocazione antiatlantica e antiamericana ed altri gruppi terroristici che dichiarano esplicitamente di volersi rapportare alle Brigate rosse, quale «suprema istanza» della strategia della lotta armata. Mi riferisco al Nucleo proletario rivoluzionario (NPR), che ha rivendicato il fallito attentato del luglio 2000 alla sede milanese della CISL, al Nucleo iniziativa proletaria rivoluzionaria (NIPR), che ha rivendicato gli attentati del 2000 e del 2001 alla Commissione di garanzia per l'attuazione della legge sullo sciopero nei servizi pubblici, alle sedi del Consiglio per le relazioni Italia-USA e all'Istituto affari internazionali. Su questa linea si collocano anche altri gruppi come i Nuclei armati per il comunismo, il Nucleo proletario combattente e i Nuclei proletari per il comunismo, che hanno rivendicato diversi, recenti attentati in Sardegna.
In prospettiva critica verso le Brigate rosse si pone, invece, il «Fronte rivoluzionario per il comunismo», che ha rivendicato i falliti attentati incendiari compiuti nel luglio 2002 ai danni della succursale FIAT di Milano e della sede CISL di Monza. Questo fronte si discosta dalla «deriva militarista» delle nuove Br e propone una «alternativa» incentrata sullo strumento tattico della «propaganda armata», con attacchi destinati a suscitare scalpore e raccogliere consenso tra le masse popolari.
Parallelamente, altri sodalizi, non direttamente responsabili di azioni delittuose, sostengono posizioni tese al sovvertimento dell'ordinamento statuale, privilegiando il lavoro politico tra le masse, da svolgersi in ambito intermedio tra attività pubbliche e clandestinità. Su queste posizioni si sono talvolta evidenziati i CARC (Comitati di appoggio alla resistenza per il comunismo), che hanno promosso una campagna volta a costruire un «Fronte popolare per la ricostruzione del partito comunista». Tra le sigle che denotano una certa familiarità con le tematiche delle formazioni eversive, ricordo il «Fronte popolare di liberazione» e la «Colonna Margherita Cagol» che, nel luglio 2002, ha preannunziato la ripresa della lotta politica sotto forma di «guerriglia metropolitana».
Sulla base degli elementi che ho appena richiamato, gli analisti ritengono che le Br-partito comunista combattente e i gruppi affini continueranno a concentrarsi sul conflitto economico sociale, ma terranno alta la mira anche sui temi dell'antimperialismo, soprattutto nella malaugurata evenienza della guerra in Iraq.
Parlo ora del movimento anarco-insurrezionalista. L'area anarco-insurrezionalista costituisce una evoluzione radicale del più ampio movimento anarchico dal quale si distacca, assumendo, come ho già detto, connotazioni autonome e marcatamente eversive.
Sotto il profilo operativo, essa utilizza, secondo gli insegnamenti del suo principale ideologo, Bonanno, in luogo di un assetto organizzativo verticistico e strutturato, la costituzione progressiva di « gruppi di affinità» che rappresentano «unità autonome di base, autogestite», nate «in relazione a precipue situazioni e che si richiamano alla conflittualità permanente, all'autogestione, e all'attacco ». Già sul finire degli anni ottanta, viene esaltata la pratica dell'attacco alle realizzazioni del capitale e dello Stato sul territorio,


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privilegiando le strutture minimali (cavi, fili, condotte, tubi, antenne, centraline, tralicci), senza cui le strutture complesse diventano inutilizzabili. Il tema delle piccole azioni viene così a far parte del progetto insurrezionale e ne costituisce il tessuto di fondo.
Fondamentale, nell'evoluzione dell'ideologia insurrezionalista, è la pubblicazione, nel 1996, di un comunicato a firma degli anarchici detenuti Giuseppe Stasi e Gregorian Garagin, nel quale viene proposta «la ricostruzione in senso rivoluzionario di una organizzazione anarchica combattente, internazionalista ed antimperialista, in rapporto con tutte le forze rivoluzionarie che intendono sovvertire l'ordine dello Stato». Il dibattito che ne consegue evidenzia il tentativo di conciliare l'individualismo anarchico con il principio organizzativo della lotta armata, tipico dei gruppi rivoluzionari marxisti, e di armonizzare l'attacco, il sabotaggio, l'azione diretta insurrezionale, sia individuale sia di gruppo, con il progetto organico di un anarchismo combattente.
All'idea della struttura organizzativa, però, è mancato più volte il riscontro esauriente di atti terroristici ascritti agli anarco-insurrezionalisti. Infatti, molte ipotesi di reati associativi per finalità eversive, formulate sul piano investigativo dai pubblici ministeri, non sono state condivise dai giudici delle indagini preliminari, o si sono affievolite durante l'iter dibattimentale, nonostante i numerosi fattori indiziari acquisiti a carico di elementi di spicco dell'area anarco-insurrezionalista. In coerenza con le sue premesse, questo movimento ha promosso specifiche campagne sull'intero territorio nazionale, sostenute anche con ampia diffusione documentale, su tematiche di volta in volta antirepressive, anticarcerarie, antigiudiziarie, ecologiste, anticlericali ed antimperialiste. A partire dal 1998, come attestano i documenti che ho consegnato alla presidenza, queste formazioni hanno fatto registrare un incremento dell'attività delittuosa ed un concomitante innalzamento della capacità offensiva, sintomatica, spesso, di un clima di odio verso le forze dell'ordine e le istituzioni.
Mi limito qui a ricordare le sei lettere recapitate nel luglio di quell'anno a personalità istituzionali, contenenti ordigni esplosivi, la cui deflagrazione avrebbe potuto provocare danni fisici, anche gravi; l'ordigno esplosivo disinnescato a Bologna nel luglio 2001, che avrebbe potuto produrre effetti letali; da ultimo, l'attentato del dicembre 2002 contro la questura di Genova. In quest'ultimo caso, le modalità dell'azione (rivendicata con un volantino a firma «Brigata 20 luglio», la stessa dell'attentato del febbraio precedente al Viminale) inducono a ritenere che gli ordigni erano stati collocati non per finalità dimostrative ma per colpire gli operatori della polizia.
All'accresciuta capacità offensiva, si è accompagnata una spiccata vocazione internazionalista, nel cui alveo sono maturati i gravi fatti di terrorismo in Italia, Spagna e Grecia, rivendicati con varie sigle eversive. Da tempo, l'insurrezionalismo coltiva il disegno di costituire una struttura internazionale di raccordo tra soggetti e movimenti di più paesi, denominata «Internazionale antiautoritaria insurrezionalista-I.A.I.».
I falliti attentati dell'ottobre 1999, ai danni della caserma dei carabinieri di Musocco e della sede dell'ENET (Ente nazionale ellenico per il turismo) di Milano, rivendicati dalla sigla «Solidarietà internazionale», sono riconducibili ad una comune azione di solidarietà a favore dell'anarchico Nikos Matziotis, tratto in arresto in Grecia per aver collocato una bomba, nel dicembre 1997, al Ministero dello sviluppo. D'altra parte, il gruppo anarchico greco di cui il Matziotis era leader, ha rivendicato attentati incendiari in danno di obiettivi italiani, realizzati in Grecia nell'aprile 1998. I collegamenti con la Spagna sono comprovati dai rinvenimenti di ordigni avvenuti nel giugno e dicembre 2000 in Milano, rispettivamente nella cripta di sant'Ambrogio e sulle guglie del Duomo.


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I due episodi sono stati rivendicati con volantini firmati «Solidarietà internazionale», in cui è fatto specifico riferimento alla lotta contro il regime carcerario spagnolo Fies, (Fichero de internos de especial seguimiento) applicato anche nei confronti di terroristi italiani detenuti in Spagna. Tra questi, vale la pena di ricordare Michele Pontolillo, Claudio Lavazza e Giovanni Barcia, arrestati per aver partecipato ad una rapina di autofinanziamento conclusasi con un violento conflitto a fuoco nel corso del quale hanno perso la vita due poliziotte spagnole e sono stati feriti una guardia giurata e tre dei rapinatori.
Un cenno a parte meritano altri episodi criminosi, posti in essere alla vigilia del G8, nel luglio 2001, e rivendicati con un volantino, di chiara matrice anarchica, siglato «Cooperativa artigiana fuoco e affini (occasionalmente spettacolare)».
Nei fatti di Genova si sono distinti per la loro violenza i cosiddetti black blok, guerriglieri urbani di estrazione prevalentemente anarchica, attivi in Irlanda, Germania, Austria, Spagna, Grecia, nel Regno Unito e in diversi paesi dell'est europeo.
Ad ulteriore conferma degli stretti legami tra i gruppi anarchici italiani e spagnoli, sottolineo i recenti invii di plichi esplosivi alla redazione di Barcellona del quotidiano El Pais e alle sedi Iberia di Roma, Malpensa e Fiumicino, nonché alle sedi romane della RAI e della radio televisione spagnola, accompagnati da un volantino firmato con cinque «c»: cellula contro capitale carcere i suoi carcerieri e le sue celle.
Debbo, infine, evidenziare la saldatura tra le «campagne» ambientaliste e quelle «antirepressive» che sembra essersi realizzata in occasione del recente attentato ad un impianto di risalita dell'Abetone, rivendicato con scritte murarali («Fuoco ai distruttori - Marco Libero») e con vari volantini pervenuti a diversi organi di stampa. Il riferimento è al noto anarco-ambientalista Marco Camenisch, recentemente estradato in Svizzera, dopo aver scontato dodici anni di reclusione in Italia per concorso in tentato omicidio, detenzione e porto abusivo di armi e materiale esplodente, nonché per concorso aggravato in attentati a diverse linee di trasmissione di energia elettrica.
Negli stessi giorni si sono registrati tre attentati a ripetitori di telefonia mobile ubicati nelle limitrofe province di Massa, Lucca e Livorno.
I temi della difesa dell'ambiente congiunti a quelli della lotta alla «Colonizzazione italiana» compaiono frequentemente nelle rivendicazioni dei gruppi anarco-insurrezionalisti sardi che si sono distinti per la loro virulenza, per i collegamenti con i Nuclei proletari comunisti e, secondo una prassi ormai consolidata nell'isola, con frange separatiste ed esponenti della criminalità locale. Negli ultimi mesi questi gruppi hanno scatenato una stagione di violenze, contrassegnata nella notte tra sabato e domenica scorsi da un attacco armato ad una pattuglia dei carabinieri conclusosi fortunatamente senza vittime.
Per quanto riguarda l'estrema destra, nel corso degli ultimi due anni non si sono registrati episodi di natura eversivo-terroristica attribuibili a formazioni di estrema destra. Si deve peraltro evidenziare che, nel corso dell'anno, sono emersi contatti fra personaggi legati all'estrema destra ed ambienti mercenari internazionali, finalizzati addirittura al sovvertimento di uno Stato estero. Il 5 dicembre due persone sono state tratte in arresto per traffico illegale di armi e per arruolamento, addestramento e collocazione di soldati di ventura.
Da un punto di vista generale, è possibile schematizzare il variegato panorama dell'estrema destra in due grandi settori: quello dell'area «politica» e quello dell'area «aggressiva».
Nella prima, possono ricomprendersi le formazioni della destra radicale più legata alle concezioni storiche e ai principi classici di riferimento. Ad essa fanno capo i movimenti «Forza nuova», «Sinergie europee», «Fascismo e libertà». Nella stessa area politica vanno altresì ricomprese le formazioni della destra nazional-popolare ed antagonista legata a tematiche incentrate


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sull'antimondialismo e sull'antimperialismo USA, nonché il «Fronte sociale nazionale» ed il «Movimento rinascita nazionale». All'area politica fanno pure riferimento una serie di formazioni tra le quali spiccano il «Centro studi trans lineam», l'associazione culturale «Noi stessi» ed alcune formazioni dell'integralismo cattolico che si contrappongono alla presunta islamizzazione dell'occidente.
Aggiungo, oltre ai movimenti «Base autonoma» e «Nuovo ordine europeo», il movimento antisemita «Comunità politica d'avanguardia» che, invece, catalizza in chiave anti-americana e anti-israeliana esperienze ed istanze politico-religiose di derivazione islamica.
Nell'area aggressiva possono includersi le formazioni skinheads e frange violente delle tifoserie ultras. Mentre l'estrema destra politica sembra accusare una fase di stasi, un certo successo riscuotono i gruppi violenti diffusi essenzialmente negli ambienti dello stadio, nei circuiti musicali di area ed in alcune ristrette frange di emarginazione metropolitana.
Si tratta del segmento di estremismo più sensibile al richiamo della violenza in quanto culturalmente più debole e privo di stabili obiettivi.
L'infiltrazione ideologica delle tifoserie ultras costituisce uno dei motivi di maggiore preoccupazione a causa della difficoltà di prevenire atti di violenza in un ambiente caratterizzato dalla commistione, spesso inestricabile, tra delinquenti comuni che frequentano le curve degli stadi ed elementi che professano ideologie estreme.
Resta, infine, da dire che negli ultimi anni estremisti di destra in possesso di armi da fuoco si sono resi responsabili di reati contro il patrimonio, mentre, in tempi recenti, è emerso il coinvolgimento di alcuni neofascisti romani in numerose rapine in danno di istituti di credito del Lazio, della Toscana e dell'Emilia Romagna.
Seppure brevemente, riferirò, adesso sull'illegalità politica diffusa. Accanto ai fenomeni di matrice eversiva e terroristica, permettetemi di insistere su quei fenomeni trasversali di illegalità politica diffusa che, consolidandosi, possono spianare la strada a forme ben più gravi di violenza.
Risparmio alle Commissioni riunite l'esposizione degli episodi più emblematici di questa violenza; vi fornisco, però, alcuni dati riassuntivi.
Nell'anno scorso, sono stati 119 gli attentati - incendiari e dinamitardi - e le devastazioni in danno, rispettivamente, di 49 edifici istituzionali, 25 sedi di partito, 11 sedi di organizzazioni sindacali e 34 istituti scolastici. Nello stesso periodo, si sono registrati 413 danneggiamenti nei confronti dei medesimi obiettivi, 293 dei quali hanno avuto ad oggetto sedi di partito. Particolarmente prese di mira risultano le agenzie di lavoro interinale, che sono state fatte oggetto di 66 azioni di danneggiamento, alcune delle quali di rilevante entità.
Milleduecentoquarantadue sono state le minacce rivolte a persone, attraverso lettere, scritte murali o a mezzo telefono, 353 quelle dirette contro obiettivi «sensibili». Va segnalato, in particolare, il notevole incremento delle intimidazioni rivolte ad esponenti e sedi sindacali, che in un anno sono triplicate, passando dalle 38 del 2001 alle 117 del 2002. Sempre nel 2002 si sono verificati 30 episodi violenti di intolleranza politica o razziale, mentre numerose sono state le manifestazioni nel corso delle quali si sono verificati episodi di turbativa dell'ordine pubblico.
Anche sul versante delle tifoserie calcistiche si registrano segnali poco tranquillizzanti. Molti estremisti politici, di destra e di sinistra, sono diventati, nel tempo, anche leader delle frange ultras più facinorose, rendendosi responsabili, in tale veste, di episodi, anche gravi, di intemperanza e di intolleranza razziale.
Di fronte a questi fenomeni occorre che ognuno faccia la sua parte: le forze dell'ordine devono continuare ad esercitare un'azione sempre più penetrante e capillare di informazione, di monitoraggio, di prevenzione e, all'occorrenza, di repressione, che riaffermi la legalità anche individuando i canali di finanziamento delle formazioni estremiste.


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Per altro verso, è assolutamente determinante il ruolo dell'autorità giudiziaria, al fine di assicurare una tempestiva, rigorosa e, soprattutto, uniforme applicazione della legge, che consenta di punire, in modo adeguato, tutti coloro che si rendono responsabili di qualsiasi atto illegale.
Spetta infine al Governo, al Parlamento e alle forze politiche sostenere questa azione, esprimendo, senza alcuna indulgenza, la più ferma ed unanime condanna per ogni atto di violenza, intimidazione ed illegalità, da qualsiasi parte esso provenga, ed adottando, se necessario, anche appropriate misure di carattere legislativo.
Vorrei affrontare, adesso, la questione del terrorismo internazionale.
L'offensiva militare condotta in Afghanistan dalle forze della coalizione internazionale ha fortemente inciso sulle capacità operative di Al Qaeda, ma non ne ha neutralizzato la minaccia. Un complesso lavoro di intelligence, svolto in diverse aree geografiche, ha infatti posto in evidenza un certo riposizionamento dell'organizzazione di Osama Bin Laden, soprattutto in quei paesi a forte presenza islamica, che garantiscono maggiori possibilità mimetiche alle sue articolazioni operative. Al riguardo, le risultanze investigative hanno rivelato che le potenzialità offensive della rete terroristica sono ancora notevoli, come confermano anche i sanguinosi attentati che, da Bali a Mombasa, hanno colpito beni e cittadini di paesi impegnati nell'operazione Enduring Freedom.
Le prime indagini avrebbero avvalorato l'ipotesi di una diretta responsabilità della rete terroristica transnazionale di Osama Bin Laden e, quindi, l'esistenza di un ampio progetto eversivo che interesserebbe l'Africa orientale ed alcune regioni del sud-est asiatico, tutte caratterizzate da conflitti religiosi, verso le quali confluirebbero migliaia di militanti fuoriusciti dall'Afghanistan, che contano sulla buona accoglienza delle locali comunità islamiche.
L'analisi delle più recenti acquisizioni informative evidenzia la persistenza di tre differenti livelli di cellule terroristiche di matrice integralista islamica, definiti in funzione della dipendenza gerarchica, delle capacità operative e della natura dei loro obiettivi.
Il primo livello è costituito da cellule direttamente collegate al vertice di Al Qaeda, che impartisce istruzioni ed ordini operativi; il secondo livello è composto dalle organizzazioni che si riconoscono nel Fronte islamico per la Jihad contro gli ebrei ed i crociati, struttura dalle forti connotazioni antioccidentali, creata da Bin Laden, che collega distinte formazioni, operanti in diverse aree di conflitto; il terzo livello, invece, è formato da un agglomerato di cellule autonome, a struttura reticolare, e spesso a composizione transnazionale, non sempre direttamente collegate ad Al Qaeda, unite, tuttavia, dal comune progetto di aggressione all'Occidente ed ai simboli che lo rappresentano. Su questo modello si articolavano le cellule di ispirazione salafita operanti in Europa (principalmente in Germania, Francia, Inghilterra, Belgio, Spagna ed Italia), smantellate del corso del 2001-2002, che si prestavano assistenza reciproca sul piano logistico, finanziario e propagandistico.
La maggior parte degli stranieri coinvolti nelle indagini condotte in Italia dall'inizio degli anni novanta sono entrati illegalmente nel nostro territorio, ed hanno poi tentato di regolarizzare la loro posizione attraverso diversi strumenti, compresa la richiesta di asilo politico. È emerso anche il ruolo focale svolto da alcuni centri di aggregazione islamica che, in diversi modi, hanno cercato di agevolare l'inserimento di soggetti conosciuti per il radicalismo delle loro posizioni politico-religiose. Non sono finora emerse, invece, sicure connessioni tra terrorismo internazionale ed organizzazioni per l'immigrazione clandestina verso l'Italia, a differenza di quanto risulta per altri paesi europei.
Certamente il primo livello operativo, posto alle dirette dipendenze di Osama Bin Laden, è stato indebolito dall'attacco all'Afghanistan. Ma il secondo ed il terzo livello non hanno subito eguali danni, ed


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è perciò prevedibile che la minaccia maggiore venga da loro e, specialmente, dalle cellule autonome, per lo più formate da numerosi mujahedin addestrati nei campi dell'area afghano-pakistana. Si tratta di individui e gruppuscoli difficilmente individuabili, a causa della loro struttura organizzativa elementare, fortemente compartimentata.
In questo quadro, le dichiarazioni diffuse il 2 novembre 2002 dall'emittente quatariana Al Jazira, con le quali Bin Laden ha rinnovato la minaccia di azioni terroristiche contro gli Stati Uniti e i loro principali alleati, tra cui l'Italia, hanno ulteriormente elevato il grado di rischio a cui anche il nostro paese è esposto.
La diffusione del messaggio potrebbe infatti essere il segnale per l'avvio di progetti terroristici, da attuare nel medio termine, ad opera di cellule dormienti dell'organizzazione Al Qaeda, analogamente a quanto si è già verificato in occasione degli attentati contro le ambasciate degli Stati Uniti d'America in Kenya e Tanzania, ad opera di terroristi colà stabilitisi da diverso tempo senza destare alcun sospetto nelle forze di sicurezza.
Informazioni provenienti da qualificati circuiti internazionali, ci dicono che Al Qaeda sarebbe in grado di impiegare sostanze molto nocive in azioni terroristiche e che disporrebbe, a questo fine, di un'articolata struttura per l'addestramento alla produzione, manipolazione ed utilizzo di aggressivi chimico-batteriologici. Importanti conferme in questo senso giungono da due recenti operazioni condotte in Francia e Gran Bretagna dalle forze di polizia locali (per maggiori dettagli su queste operazioni, rimando alla relazione a disposizione delle Commissioni).
Per quanto riguarda l'Italia risulta soltanto l'ipotesi investigativa, emersa nel febbraio 2002, di un progetto di adulterazione delle condutture idriche dell'ambasciata statunitense a Roma. Naturalmente, quello degli attentati chimici non è il solo rischio a cui è esposto il nostro paese. Basti ricordare le indagini appena avviate su un gruppo di cinque marocchini trovati in possesso di esplosivi, di carte geografiche e mappe sulle città di Padova, Treviso e Verona, dove risulta contrassegnato il comando NATO FTASE. Indagini più vaste e complesse, ma analoghe, sono in corso in altre parti d'Italia.
Per ciò che concerne, infine, gli eventuali riflessi in Italia del conflitto israelo-palestinese, fonti di intelligence segnalano che le principali organizzazioni in lotta sono orientate a limitare le azioni armate ai territori investiti dal conflitto stesso. Va tuttavia segnalato che potenziali rischi verso obiettivi occidentali potrebbero derivare da elementi dissidenti di formazioni palestinesi.
Ho già detto che il quadro complessivo della minaccia terroristica, interna ed internazionale, assumerebbe connotazioni ancora più preoccupanti nella malaugurata ipotesi di una guerra in Iraq. In tal caso, come risulta da numerosi segnali premonitori e attendibili informazioni, è assai probabile che individui e gruppi inclini alla pratica dell'illegalità politica farebbero di tutto per inquinare e deviare il confronto politico-sociale e le pacifiche manifestazioni di piazza, preparando il terreno, anche senza volerlo, a forme di violenza maggiore. Non si può peraltro escludere che nel clima generale prodotto dalla guerra gruppi eversivi di diversa origine e cultura convergano spontaneamente nel segno della comune avversione alla NATO, agli Stati Uniti d'America e ad Israele o addirittura concordino le loro azioni, secondo la vecchia idea del marciare divisi per colpire uniti. Comunque, di fronte alla percezione di un innalzamento del livello della minaccia, abbiamo avvertito l'esigenza di definire nuove strategie di contrasto per una più efficace risposta alla duplice sfida delle centrali terroristiche interne ed internazionali.
Deciso impulso è stato conferito alla cooperazione internazionale di polizia preventiva e investigativa, sia nell'ambito dell'Unione europea e di Europol, sia negli altri fori bilaterali e multilaterali. Intensa è anche la cooperazione nell'area mediterranea - segnatamente il partenariato euromediterraneo e il Foro mediterraneo - al fine di stabilire ancora più stretti


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collegamenti con le polizie dei paesi nordafricani, ritenuti ad elevato rischio per la presenza di cellule terroristiche di matrice islamica. È stata inoltre rinsaldata la collaborazione operativa con i servizi di polizia specializzati dei partner europei, degli Stati Uniti d'America e degli altri Stati della coalizione internazionale contro il terrorismo.
In questa cornice si collocano le attività investigative di recente avviate con le polizie argentina e salvadoregna, nonché la costituzione di unità miste di indagine italo-spagnole, strumento indispensabile per lo svolgimento di specifiche investigazioni su cellule eversive operanti in più contesti territoriali.
Sul versante della lotta al finanziamento del terrorismo, il lavoro del comitato di sicurezza finanziaria e delle forze di polizia ha consentito di congelare beni e danaro appartenenti a 67 soggetti. Sono stati poi rafforzati i dispositivi di vigilanza e sicurezza a tutela degli obiettivi civili e religiosi presenti sul territorio nazionale, modulando opportunamente i sistemi di intervento a protezione delle frontiere marittime, aeree e terrestri, anche attraverso coordinate azioni internazionali.
Per parte sua, l'UCIS ha potenziato le misure di protezione individuale (sono oggi 673 le persone destinatarie di servizi di scorta o di tutela), anche se siamo ben consapevoli della impossibilità di proteggere tutti coloro che, a vario titolo, sono teoricamente esposti a rischio.
Sul versante interno, il proliferare di sigle eversive, la rigida compartimentazione esistente al loro interno e le conseguenti difficoltà di penetrazione investigativa hanno imposto un adeguamento delle strategie organizzative ed operative. Si stanno pertanto riorganizzando gli uffici Digos, con l'istituzione di 26 sezioni interprovinciali antiterrorismo, in linea con le nuove funzioni attribuite al pubblico ministero distrettuale, per meglio coordinare l'azione degli organi investigativi territoriali. Similmente, l'Arma dei carabinieri e la Guardia di finanza stanno affinando gli strumenti e le modalità operative. È stato inoltre costituito presso il dipartimento della pubblica sicurezza un gruppo di lavoro tecnico per lo scambio informativo in materia di prevenzione e repressione del terrorismo, del quale fanno parte esperti delle forze di polizia, dei servizi di sicurezza e del dipartimento dell'amministrazione penitenziaria, che in questi mesi ha svolto un intenso e proficuo lavoro.
Più in generale, l'azione di contrasto si è avvalsa, oltre che dei tradizionali strumenti informativi ed investigativi, anche della più ampia gamma di istituti introdotti con la normativa antiterrorismo del 2001. Di estrema utilità si sono rivelate le intercettazioni preventive, anche telematiche, strumento amministrativo affidato al ministro dell'interno, pur con il controllo di legittimità dell'autorità giudiziaria, per far luce su situazioni e comportamenti ritenuti interessanti per il successivo sviluppo dell'attività di indagine e per la cattura dei latitanti. Notevoli risultati ha dato l'attività di monitoraggio della rete Internet, divenuta oramai strumento abituale per la diffusione di messaggi eversivi: l'informatica ed i «covi telematici» costituiscono, infatti, una delle maggiori novità del modo di organizzarsi ed esprimersi delle formazioni terroristiche. Anche per questo si è dato largo spazio alla formazione specialistica degli operatori delle forze dell'ordine.
I buoni risultati investigativi conseguiti nell'ultimo anno convalidano l'impegno e la professionalità degli inquirenti. Dopo l'11 settembre del 2001, le forze dell'ordine hanno concluso numerose indagini sulle reti terroristiche di matrice islamica presenti nel nostro paese, che hanno portato all'arresto di 55 persone (alcune delle quali già condannate) sospettate di svolgere un ruolo di fiancheggiamento, di sostegno logistico ed in alcuni casi di partecipazione diretta ai gruppi di fuoco. Nel novembre del 2001 si è conclusa l'operazione «Al Muhajirun», che ha consentito di sgominare una rete terroristica tunisino-algerina, attiva in Lombardia, appartenente al «Gruppo salafita per la predicazione ed il combattimento». Nel successivo mese di febbraio, sulla scorta di informazioni circa il rischio di attentati


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alle condotte idriche di alcune ambasciate, sono stati fermati tre cittadini marocchini trovati in possesso di una cartina particolareggiata dell'area circostante l'ambasciata del Regno Unito e di strumenti idonei alla contraffazione di documenti. L'operazione è stata completata con l'arresto di altri sei marocchini, che disponevano di mappe della rete idrica di Roma e di quattro chilogrammi di ferrocianuro di potassio, nonché di numerosi moduli in bianco per il rilascio del permesso di soggiorno.
Nel mese di settembre sono stati arrestati a Gela, mentre si trovavano a bordo del cargo mercantile «Sara» (segnalato come vettore appartenente ad Al Qaeda) 15 cittadini pakistani muniti di documenti contraffatti. Nei confronti degli indagati, ancora in stato di detenzione, sono in corso attive indagini su scala internazionale. Un ulteriore importante successo è poi costituito dalla cattura, avvenuta il 28 settembre scorso, del tunisino Baazaoui Mondher Ben Mohsen, elemento di rilievo internazionale nel terrorismo islamico.
L'assiduo impegno investigativo volto a disarticolare la minaccia interna, ci ha consentito di individuare e catturare elementi di spicco delle Br-Pcc, già condannati per gravi delitti e latitanti all'estero. Tra le operazioni più significative, merita un cenno quella conclusa nello scorso mese di ottobre, nel quadro delle indagini relative all'omicidio del professor D'Antona, nei confronti dei terroristi Michele Mazzei, Francesco Donati, Francesco Galloni e Antonino Fosso - tutti già condannati all'ergastolo per omicidio - che nel carcere di Trani, secondo quanto finora accertato dalla magistratura, avevano elaborato documenti preparatori della rivendicazione dell'assassinio di via Salaria. Nel medesimo contesto di indagine, sono stati emessi provvedimenti di custodia cautelare in carcere nei confronti di tre ex militanti dei Nuclei comunisti combattenti, Nadia Desdemona Lioce, Mario Galesi e Michele Pegna, accusati di appartenere alle Br-Pcc. Inoltre, grazie anche alla collaborazione delle forze di polizia e delle autorità giudiziarie straniere, si è riusciti ad individuare ed arrestare tre latitanti di primo piano, sospettati di essere organici alle Br-Pcc: Paolo Persichetti, Leonardo Bertulazzi e Nicola Bortone. Quest'ultimo, all'atto dell'arresto, si è dichiarato «militante rivoluzionario» e si è chiuso nel silenzio.
L'azione di contrasto alle formazioni anarco-insurrezionaliste ha portato all'arresto dall'inizio del 2000, per reati di varia natura, di 44 persone.
Numerose indagini sviluppate nell'ultimo anno nei confronti di gruppi neofascisti hanno consentito di trarre in arresto 19 persone per rapina, tentato omicidio e reati in materia di armi ed esplosivi, mentre 156 sono state deferite all'autorità giudiziaria prevalentemente per reati a sfondo razziale ed apologia di fascismo. Una particolare rilevanza assume l'arresto negli ultimi mesi a Roma di quattro elementi gravitanti nell'area dell'estremismo di destra, ritenuti responsabili di oltre 20 rapine consumate nel centro Italia, nonché la cattura degli ex militanti Nar Gilberto Cavallini e Pasquale Belsito, quest'ultimo da tempo latitante.
Concludendo, debbo osservare che i segnali di allarme provenienti dall'arcipelago eversivo italiano prescindono spesso dal quadro internazionale e trovano i loro appigli nelle politiche economiche, sociali ed istituzionali dell'attuale Governo. Anche i grandi progetti di cui il Governo Berlusconi sta avviando la realizzazione potrebbero alimentare pretestuose e violente opposizioni ancorate ai temi dell'ambientalismo più radicale, come è accaduto con le iniziative ecoterroristiche contro l'Alta velocità.
Signor presidente, onorevoli colleghi, vi chiedo scusa per la pesantezza di questo mio intervento e della documentazione allegata. Ho cercato di darvi una rappresentazione esauriente ed obiettiva dell'illegalità politica e del terrorismo che in varia misura minacciano l'Italia. Spero che vi troviate elementi utili per sviluppare le vostre analisi e le vostre valutazioni. Personalmente, e con tutta la mia responsabilità di ministro dell'interno, mi accingo ad ascoltarle, con la dovuta attenzione,


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ben sapendo che su una materia così sfuggente e sensibile è facile nutrire idee ed opinioni diverse. Ma in questo caso ciò che più conta è ritrovare le ragioni essenziali per un comune impegno contro l'illegalità politica ed il terrorismo. Di certo nessuno di noi potrà strumentalizzare la discussione a fini politici di parte. Del resto siamo tutti egualmente interessati a garantire la libera manifestazione delle opinioni e del dissenso, mantenendola però nell'alveo della legalità costituzionale. In momenti più difficili di questo, l'unità dei democratici italiani attorno ai valori fondamentali della Costituzione è riuscita a sconfiggere un terrorismo ben organizzato, più risoluto e feroce. Anche oggi, pur in presenza di profondi contrasti sociali e politici, noi siamo capaci, grazie anche al generoso impegno delle forze dell'ordine, di sconfiggere questo nuovo terrorismo. Basta volerlo.

PRESIDENTE. Ringrazio il ministro per la sua esauriente relazione. Come stabilito in precedenza, sospendo brevemente la seduta; alla ripresa avranno luogo le domande dei commissari al ministro.

La seduta, sospesa alle 13,35, è ripresa alle 14.

PRESIDENTE. Riprendiamo i lavori con gli interventi dei colleghi che intendono porre domande al ministro o formulare osservazioni.

FILIPPO MANCUSO. Signor ministro, la sua relazione è stata esemplare per accuratezza: immagino che lei abbia attinto a tutto il suo patrimonio di buona fede e di conoscenze per dare al Parlamento una cognizione il più possibile diffusa della complessità del fenomeno, per rendere conto del quale ha accettato l'invito che le è stato rivolto dalle Commissioni.
Ho notato qualche errore storiografico, come quello, ad esempio, di considerare una novità italiana il trasformarsi dell'anarchismo in un movimento operativo: nella storia dell'anarchia sono sempre esistite frange che si sono trasformate in una sorta di truppe operative. Anche questa piccola inesattezza, forse, può ridimensionare quell'elogio di completezza che le ho rivolto.
Vi è, signor ministro, un fatto sul quale lei non avrebbe potuto, probabilmente, prevenire la mia curiosità: lei ha giustamente connotato l'attuale terrorismo di sinistra come una frangia ereditaria dell'antico fenomeno analogo. Forse si tratta di una semplificazione giornalistica perché, come lei stesso ha riconosciuto, altri e diversi sono i presupposti dell'una situazione e dell'altra: se i presupposti mutano, gli effetti non possono essere comparati, almeno sul piano dell'impostazione problematica.
Anche ammettendo, come in parte si deve fare, l'esattezza di questo collegamento, chiedo al ministro perché la Polizia di Stato - non so se il capo della polizia o l'amministrazione di cui lei è al vertice - ha smobilitato, in gran parte, l'esperienza dei funzionari che avevano svolto con notevole successo la prima campagna antiterrorismo, destinandoli ad incarichi che non hanno nulla a che vedere con ciò. Si dà il caso che questo sia avvenuto nei confronti di persone entrate in conflitto con il capo della polizia. Non voglio pronunciare nomi - glieli farò poi in via riservata - perché non vorrei indicare alla persecuzione del capo della polizia queste altre sue prede. Quando il ministro si compiacerà di ammettermi ad un colloquio personale, con la responsabilità che ho e che lei ha a sua volta, signor ministro, le svelerò i nomi; tra l'altro, le dirò che, nell'esigenza di utilizzare le esperienze professionali addestrate contro il primo terrorismo, è stato liquidato per dissensi con il capo della polizia e per vendetta di lui, il numero uno di questa materia, mandato a ricoprire l'incarico di questore a Brindisi, da dove è stato poi trasferito. Si trattava del numero uno in assoluto, che non compiaceva, evidentemente, le bizze.
Tale fenomeno, che non mi permetto di rendere eponimo per la ragione che ho


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spiegato, non si limita ad un singolo funzionario, tanto che l'amministrazione della polizia, sempre ambita tra i giovani delle migliori leve, si sta depauperando. Su 2.500 funzionari - vice questori e simili - 1.000 hanno presentato domanda di esodo: l'amministrazione sostiene che sono 300 o 400, ma anche in questo caso la situazione sarebbe assai allarmante, dato il livello degli esodanti, per l'efficienza in generale e per l'aspetto, che il ministro ha giustamente puntualizzato, della lotta al terrorismo. Non bisogna considerare tale fenomeno semplicemente in funzione della prevenzione e repressione del terrorismo, ma anche di un interesse più vasto: tra gli elementi che sono già esodati, che stanno esodando, o chiesto di esodare, vi sono alcune tra le migliori intelligenze del servizio, che presentano la comune caratteristica di non essere subordinati ai capricci dispotici, ad esempio relativi alle promozioni.
Lei, signor ministro, l'altro giorno è stato da me sollecitato a sorvegliare su questa materia. Sappia, però, che le ragioni al tempo stesso etiche, finanziarie e funzionali per cui questo esodo è diventato massiccio (ma varrebbero anche ove non fosse così massiccio, come le peggiori cifre indicano) sono significative di uno scontento motivato, per esempio, dall'arbitraria progressione e promozione di carriera, a tal punto che, se non sei un servo del capo della polizia, non la ottieni neppure se fossi Dante Alighieri. Questo è un problema che riguarda il paese e sul quale innesto un altro interrogativo: quanti sono i ricorsi giurisdizionali ed amministrativi presentati da funzionari non promossi e chi sono, invece, i funzionari promossi (mi riferisco alla carriera nella Polizia di Stato)? Qual è il loro pedigree, quali sono i loro collegamenti, di passate consuetudini, con il capo della polizia? Quali non sono, invece, tali collegamenti per quanto riguarda i funzionari che sono stati estromessi oppure trasferiti o, ancora, conculcati nelle loro giuste aspirazioni di promozione? Tutto questo attiene alla questione dell'antiterrorismo, che non si può attuare con il personale proveniente dalle squadre mobili. Quest'ultimo può anche essere utilizzato ma non si può estraniare da questi grandi problemi il personale più addestrato, più competente.
Lo ripeto, le farò i nomi in futuro, poiché in questa sede non mi sembra delicato. Io non sono stato informato di questo direttamente dagli interessati ma lo sono stato nella mia qualità di parlamentare e di esperto della materia. Perciò, domattina nessuno potrà venirle a chiedere una punizione nei confronti di coloro che il capo della polizia, in base alla conoscenza dei fatti di cui dispone, potrà avere individuato come oggetto della mia protesta, poiché di protesta si tratta. In altro luogo, signor ministro, certamente non in questa sede, lei mi dovrà rispondere. In occasione della precedente audizione, la invitai a rendersi conto direttamente (ed io ho confidato sulla sua assicurazione) in ordine al modo in cui avvengono le promozioni, sia in questo campo sia nella destinazione prefettizia, sinora tutti dominati dal capriccio satrapico dell'attuale capo della polizia. Non so per quanto tempo dovrete mantenerlo in carica. Non credo di utilizzare erroneamente il termine «dovrete». Se lo utilizzo, in luogo di «vorrete mantenerlo», è perché questo paese, purtroppo, anche ai più alti vertici, talvolta, non è libero, quando si tratti di determinazioni che possano nuocere ad altri. Questo problema, che parte dall'antiterrorismo e si dipana attraverso problematiche più generali dell'amministrazione, finisce con l'attingere, attraverso questo mio ultimo accenno, alla libertà degli organi pubblici di fare politica e di fare amministrazione se, ora in sede legislativa, ora in sede puramente amministrativa, debbono temere che, un domani, qualsiasi mascalzone, anche se «gallonato», dica: non lo puoi fare perché altrimenti parlerò di te. Questo è molto grave.
Dal momento che questo Governo annovera personalità, tra cui la sua, che mi consentono la leale dichiarazione di preoccupazione che sto pronunciando, altrettanta lealtà mi attendo quando lei crederà di fornire - spero che possa - una risposta


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a queste preoccupazioni, che riassumo: perché l'antiterrorismo è stato sguarnito di alcune delle competenze più peculiari della materia e perché tra gli attuali responsabili dell'ex UCIGOS, che oggi reca diverso nome, vi sono ben due indagati per i fatti di Genova? Di questi indagati non presumo la colpevolezza; anzi, presumo la perfetta innocenza. Tuttavia, altro è presumere la perfetta innocenza, altro è valutare la opportunità di mantenere in uffici che si occupano di una certa materia proprio coloro che sono indiziati di responsabilità nella medesima. Non si tratta di superare la presunzione di non colpevolezza; è una questione che si inserisce nella opportunità di governo. Questo avviene in un modo non solo oggettivamente inammissibile, ma anche a discapito delle vere competenze. La sede di Brindisi è importantissima, fondamentale direi. Tuttavia, se vi è stata proposta una personalità che vanta una tra le migliori esperienze, in Italia, in materia di antiterrorismo, e questa stessa persona si è trovata in conflitto con il capo della polizia, dove sta la ragionevolezza, dove sta l'equità e dove sta la funzionalità del provvedere?
Questo mi attendo da lei, signor ministro. Non mi deluda.

FABRIZIO CICCHITTO. In primo luogo, signor ministro, desidero darle atto sia della completezza del quadro che ci ha fornito, sia del grande senso di equilibrio politico emerso dalla sua relazione e dalle riflessioni che lei ha formulato recentemente e che non rientravano nell'esposizione che ci doveva illustrare, non essendo all'ordine del giorno della audizione di oggi. Mi riferisco alla intervista che lei ha rilasciato, qualche tempo fa, a la Repubblica, nella quale, saggiamente, lei sosteneva l'opportunità, nel momento in cui emergono problemi e pericoli di terrorismo internazionale nel nostro paese connessi ad una fede religiosa, di tendere una mano a coloro i quali vivono in Italia e praticano quella fede religiosa, per isolare le tendenze estremistiche e fondamentalistiche e stabilire un colloquio con quelle migliaia di persone che vengono qui per lavorare e non per praticare il terrorismo. Lei ci ha offerto un quadro completo; perciò, nei limiti di tempo molto ristretti di cui disponiamo, vorrei cogliere alcune questioni che emergono.
Noi abbiamo a che fare con più matrici terroristiche, molto differenziate le une dalle altre. Questo implica una problematica ed una specializzazione, per così dire, molto articolate. Nello stesso ambito del terrorismo interno, esistono differenze profondissime. Da un lato vi è la matrice brigatista classica che, tra l'altro, forse anche per la durezza della sua metodologia, si è maggiormente concentrata e «compartimentizzata». Rispetto ad essa una riflessione credo che sia necessaria, anche in relazione alle ultime iniziative delittuose assunte e alle motivazioni di queste iniziative. Mi riferisco ai documenti di rivendicazione dell'assassinio del professor D'Antona e dell'assassinio del professor Biagi. In particolare, la prima parte della rivendicazione dell'assassinio del professor D'Antona rivela un notevole approfondimento, conoscenze culturali ed una conoscenza delle tematiche attinenti alle vicende del Ministero del lavoro, alla contrattazione e così via. La mia impressione è che si collochi al di là e al di fuori delle competenze di brigatisti associati in carcere.
Invece, la seconda parte della rivendicazione dell'uccisione del professor D'Antona ha, certamente, una matrice brigatista classica e anche la rivendicazione e gli attacchi fatti al professor Biagi rivelano delle conoscenze estremamente particolareggiate sulla sua carriera, sulla sua attività e sulle sue consulenze tali da suscitare le più ampie preoccupazioni. La lettura dei testi e la conoscenza dei soggetti in campo suscitano l'impressione della combinazione tra un ceppo classico brigatista e, invece, competenze e conoscenze profondamente collocate nell'ambito del confronto sindacale e del mondo del lavoro.
A mio avviso, la persecuzione nei confronti di alcuni esponenti della CISL non particolarmente conosciuti al grande pubblico costituisce un'ulteriore materia di riflessione e di approfondimento rispetto a


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questa tematica. Signor ministro, a fronte dell'estremo approfondimento che ha sviluppato sui molteplici aspetti della tematica terroristica, proprio nel caso dell'assassinio del professor D'Antona e, successivamente, del professor Biagi è emersa la questione della fuga di notizie, che, nel caso del professor D'Antona, è stata gravissima e tale da rappresentare un intralcio per le indagini. Tale questione - che, talora, si ripete e in parte si è ripetuta anche in un episodio attinente alle indagini nei confronti di coloro che potevano essere implicati nell'assassinio del professor Biagi - pone un problema al Ministero dell'interno, ad alcune questure e anche ad alcuni settori della magistratura perché tali fughe di notizie, estremamente gravi e preoccupanti, sono pervenute più volte da Roma.
La differenziazione del terrorismo interno è molto profonda perché, a fronte di una tematica relativa al brigatismo rosso - che, d'altra parte, si è rilevato molto concentrato e compartimentato -, abbiamo avuto un fenomeno estraneo agli schemi, ai canali conoscitivi e agli esperti di antiterrorismo a cui faceva riferimento il collega Mancuso. Infatti, tutta la tematica dell'anarco-insurrezionalismo sfugge completamente alle culture conoscitive tradizionali delle forze dell'ordine, per cui, probabilmente, per anni si è sviluppato un «fenomeno carsico» che, con un'attenzione molto relativa, ha avuto modo di espandersi al di là del previsto.
Anche in quel caso emergono dei problemi e lei vi ha accennato. Probabilmente, in quel mondo esiste la doppiezza di un'apparente accentuazione dei fenomeni di spontaneismo tipici di una certa cultura anarchica ma, forse, anche dei fenomeni associativi che dovrebbero essere colti in sede di repressione perché hanno determinato una serie di conseguenze.
Quindi, per quello che riguarda il terrorismo interno abbiamo due fenomeni molto diversi l'uno dall'altro: il brigatismo tradizionale e l'anarco-insurrezionalismo, che - dimostrando rilevanti capacità di aggregazione e di associazione, ed inserendosi nelle manifestazioni del G8 e ai margini di movimenti che non hanno obiettivi e metodologie armate -, presenta rischi molto rilevanti. Non ho nulla da aggiungere rispetto al quadro che ci ha fornito sui rischi di terrorismo internazionale e sulla possibilità di una sua accentuazione derivante da fattori che prescindono totalmente dal ragionamento che stiamo svolgendo oggi. Voglio sottolineare la positività del suo approccio rispetto a tale tematica, combinando insieme una rigorosa azione preventiva e repressiva nei confronti di tale fenomeno e la distinzione nei confronti di tutti coloro che vengono nel nostro paese con lo scopo di lavorare.
Quindi, bisogna evitare che alcuni momenti associativi diventino momenti di propagazione di fenomeno di terrorismo. Infatti, proprio in una valutazione serena di fenomeni religiosi che non vanno assolutamente criminalizzati, a Milano sotto il momento associativo islamico si è verificata una pericolosissima aggregazione che si è spinta ai confini del terrorismo, anzi si è inserita completamente al suo interno. Quindi, dobbiamo confrontarci positivamente con il moltiplicarsi delle moschee, nella misura in cui si tratta di un fenomeno religioso, e collaborare sul terreno dei rapporti civili ma, nello stesso tempo, dobbiamo isolare tutti i fenomeni di un fondamentalismo che deborda nel terrorismo perché questo è l'altro grande pericolo con il quale dobbiamo misurarci.
Lei ha fornito alla Camera un quadro estremamente ampio, articolato ed equilibrato dei fenomeni, dai quali noi tutti ci auguriamo che le forze dell'ordine traggano le conseguenze per un'azione preventiva che è decisiva per disinnescarli.

MARCO MINNITI. Innanzitutto, volevo ringraziare il ministro per l'ampia e approfondita informazione che ha fornito al Parlamento perché, sinceramente, se ne sentiva la necessità. Su temi così impegnativi come quelli della lotta al terrorismo, se si escludono le occasioni motivate da tragiche ricorrenze di eventi, mancava da tempo la possibilità di una riflessione


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che fosse un po' più di scenario e, in qualche modo, sganciata dal singolo avvenimento.
Penso anche che la riflessione non possa esaurirsi in questo appuntamento. Se i presidenti delle Commissioni ed il ministro fossero d'accordo, questa potrebbe divenire la sede di un rapporto parlamentare duraturo - naturalmente cadenzato in relazione agli impegni e senza sminuire il lavoro dell'Assemblea -, rappresentando una sede più ravvicinata in cui sviluppare un lavoro parlamentare che sia insieme conoscenza, ricerca, studio e valutazione di documenti.
Credo che ciò sia particolarmente importante, perché le organizzazioni terroristiche - per loro stessa natura - hanno bisogno di «mettere in campo» programmi politici; quindi spesso ciò che hanno intenzione di compiere o le ragioni che le portano ad individuare un determinato ambito di obiettivi sono scritte nei documenti. Per questa ragione, trovo particolarmente importante un'attenta valutazione di quanto scritto con un lavoro efficace che sviluppi anche una comunicazione parlamentare.
Penso vada condivisa la preoccupazione trasmessa in questa sede, che, naturalmente, comporta un impegno unitario del Parlamento, mai - peraltro - venuto meno. Ringrazio il ministro per l'oggettività - uso un termine un po' «forte» - con la quale ha trasmesso i documenti. Sappiamo bene che si tratta di un tema particolarmente delicato, in cui è facile farsi prendere la mano dal punto di vista della politica, o ancor più di una parte politica. Penso invece, poiché su questi temi è necessario avere un impegno unitario che non deve venire meno, vi sia l'esigenza di oggettivizzare al massimo le questioni. Lo sforzo compiuto oggi va in questa direzione ed il Parlamento deve raccogliere questo lavoro. Naturalmente ciò non significa pensarla allo stesso modo (vi sono opinioni fortemente differenti), ma - su questi temi - si può realizzare un punto di lavoro, di analisi e di valutazione comune, senza farsi trascinare dalla propaganda politica su una questione su cui non è possibile «giocare» politicamente.
Chiedo scusa anticipatamente al ministro se dovrò assentarmi, ma i lavori si sono protratti oltre i limiti da me previsti; avrò modo successivamente di leggere nel resoconto stenografico le risposte che ella avrà la cortesia di fornirmi.
La preoccupazione espressa nasce da una assoluta originalità della situazione italiana. In tempi passati, abbiamo affrontato un terrorismo particolarmente forte, combattivo e straordinariamente radicato nel territorio. Lo abbiamo affrontato e, in parte, sconfitto; anche se successivamente si è capito che tale sconfitta non aveva completamente sradicato le cellule criminali presenti, il terrorismo ha comunque subito una sconfitta molto forte nel nostro paese.
L'elemento di originalità, che colloca l'Italia in una posizione simile ad alcuni paesi europei, ma diversa da altri, è che per la prima volta ci troviamo dinanzi alla possibilità - non dico l'effettività ma la possibilità - di una connessione tra un risorgente terrorismo interno ed una minaccia internazionale terroristica molto forte.
Parlo di risorgente terrorismo interno, in quanto gli omicidi del professor D'Antona e del professor Biagi sono segno di una capacità militare particolarmente significativa, che, nel tempo, è ulteriormente migliorata (chiedo scusa dell'uso di tale termine; intendo affermare più efficace). Tra i due attentati vi è stato un salto di qualità anche nella tecnica operativa delle cellule che li hanno effettuati (una ha operato a Roma ed un'altra a Bologna ed il fatto stesso che si operi in due città differenti fornisce il segno di un salto di qualità e di una capacità operativa significativamente più evoluta).
Non so se il ministro possa fornirci qualche elemento di valutazione ulteriore. Mi pare del tutto evidente l'esistenza di una possibilità di collegamento - già in re -, suffragata anche dalla semplice lettura dei documenti. Nella rivendicazione - come è già stato citato, ma la ricordo perfettamente - dell'omicidio del professor


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Biagi, vi è di fatto una messa in campo del terrorismo interno in rapporto con quello internazionale. Non si afferma necessariamente la volontà di costruire un'alleanza, ma si evidenzia la presenza del terrorismo interno come una realtà su cui chiunque voglia inserirsi nel territorio nazionale potrebbe contare.
Intendo chiedere al ministro se, al di là della valutazione di questi documenti, vi siano altri elementi - anche riservati, che in questo momento lei non può «trasmettere» - che possano rafforzare quelle potenzialità, considerandole indizi più significativi.
Inoltre, vi è un dato di forte preoccupazione su cui dovremmo fare pressione nei riguardi degli apparati dello Stato. Nel terrorismo interno, soprattutto nella parte più «combattente», quella più implicata negli atti criminali particolarmente gravi - non mi riferisco soltanto agli omicidi consumati, ma anche a quelli potenziali che non sono giunti al termine - vi è un dato di «inconoscibilità». Si tratta di un fenomeno terroristico interno, di cui conosciamo grosso modo la collocazione, le radici, ma non l'attualità. Questo è il punto più delicato che abbiamo dinanzi. Anche nelle valutazioni degli analisti si afferma l'esistenza di una matrice, di un rapporto con coloro che sono in carcere, che conosciamo e supponiamo in collegamento con elementi esterni al carcere, i quali tuttavia ci risultano del tutto inconoscibili e sconosciuti. Non conosciamo la configurazione esterna di una cellula terroristica particolarmente forte, capace ed efficace.
È un punto di estrema delicatezza anche perché - altra questione - vi si accompagna la questione dei finanziamenti dell'organizzazione. In passato abbiamo già avuto una vasta «letteratura» sulle possibili ipotesi di finanziamento. Lei, signor ministro, vi ha accennato e intendo chiederle di essere più preciso, per sapere se vi siano elementi di connessione tra attività criminali più propriamente comuni ed ipotesi di finanziamento delle organizzazioni terroristiche. Lei, per esempio, ha parlato, per quanto riguarda l'estrema destra, della sicura presenza di elementi eversivi di questa area in rapine come forma di autofinanziamento. Vorrei sapere qualcosa di più, anche perché i collegamenti finanziari potrebbero essere un punto di connessione con l'eventuale terrorismo internazionale.
Un altro aspetto che intendo sottolineare riguarda una dichiarazione alla Camera dei Comuni del primo ministro del Regno Unito, Tony Blair, in cui ha riferito di ritenere inevitabile - uso il termine testuale, molto «forte», perché significa che non vi è alcuna possibilità di evitarlo - un atto terroristico nel territorio inglese. Vorrei sapere, signor ministro, essendo, nel quadro delle minacce di una azione terroristica di Al Qaeda, lo scenario europeo considerato nel suo insieme, se vi siano elementi di preoccupazione, e quali, nei confronti del nostro paese, cioè se il nostro paese possa essere inserito in una operazione terroristica più ampia, che abbia come obiettivo l'Europa.
Infine, concludo affrontando due ulteriori questioni.
Evidenzio il problema dell'azione di contrasto, repressione e prevenzione. L'omicidio di Marco Biagi ha messo in luce tanti punti di debolezza, non voglio tornare su tale questione in questa sede. Tuttavia il principale punto di debolezza risiedeva nel fatto che - non le sarà sfuggito, signor ministro - ad un certo punto ci siamo trovati di fronte ad una relazione al Parlamento dei servizi di sicurezza del nostro paese che era così mirata nella valutazione della minaccia da farne quasi scaturire un identikit. Quasi non casualmente un settimanale pubblicò quella lettura come se ci fosse già un quadro abbastanza limitato degli obiettivi potenziali. A conferma che, a volte, basta leggere le carte per avere un quadro più certo rispetto alle tante valutazioni realizzabili d'acchitto, fintamente approfondite ma che sono di pura fantasia.
Ciò che più mi colpì di quella vicenda è che ci siamo trovati di fronte, non tanto a responsabilità individuali (che vanno sempre accertate) ma ad una situazione in cui una parte dello Stato, i servizi di


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sicurezza, lanciava un allarme ed un'altra parte dello Stato non era in grado di raccogliere quell'allarme ponendo sotto vigilanza, non dico il professor Biagi, ma tutti quanti coloro che potevano rientrare in quel quadro di valutazione. Questo è un aspetto delicato perché chiunque conosca la macchina dello Stato sa che quei livelli di incomunicabilità purtroppo esistono. Non lo dico con spirito di parte. Il problema c'è, quella vicenda è stata macroscopica ma l'evidenza c'è tutta!
Abbiamo in corso di discussione parlamentare la riforma dei servizi di sicurezza del nostro paese ma ciò su cui mi premeva accentrare l'attenzione, signor ministro, è sapere se lei sia intervenuto e quali sono i risultati del suo lavoro e se ritenga che questi siano stati sufficienti per evitare quei livelli di incomunicabilità tra settori dello Stato. Ciò riguardava ieri i servizi di sicurezza, domani riguarderà un altro settore ma non è questo il problema, non si tratta di stabilire chi è buono e cattivo; ci interessa sapere se le varie parti dello Stato sono in comunicazione tra di loro; ossia se le due mani dello Stato sono coordinate tra loro: se la mano destra sa quel che fa la sinistra.
Ricordo, infine, che ho apprezzato il modo con il quale il ministro ha affrontato questo tema così delicato; l'ho apprezzato dalle sue iniziative pubbliche, dove si è un po' più «politici» mentre qui chiaramente ci troviamo in una sede parlamentare. Mi è parso particolarmente importante il suo accenno in alcune uscite sui giornali sull'importanza di dialogare con quello che giornalisticamente è stato definito l'Islam moderato. Questo è un punto chiave e costituisce il punto centrale delle mie preoccupazioni riguardo allo scenario internazionale. Non voglio affrontare altri temi ma si tratta di un punto chiave perché nel momento in cui si riesce a tenere separato l'Islam moderato dall'integralismo e dal terrorismo si compie una operazione straordinaria. Non c'è intelligence che tenga, quella è intelligenza politico diplomatica!
Ritengo anche che su quella linea vada mantenuta una coerenza di impostazione così come ritengo fondamentale che vi sia una capacità di dialogo con i movimenti. Credo che l'esperienza di Firenze abbia costituito un punto di riferimento importante; si è dimostrato come si possa garantire la libera espressione delle opinioni - anche quelle più radicali - senza cedere alla commistione con la violenza. Penso che questo debba essere un principio aureo dello Stato, non dei governi che si succedono. Mi sono permesso di ricordarlo caro ministro perché siamo di fronte a passaggi impegnativi e delicati nei quali anch'io rilevo dei rischi e delle preoccupazioni; ritengo che mantenendo un atteggiamento di dialogo e di apertura che sappia distinguere con nettezza le opinioni, anche le più radicali, nei confronti della violenza allora, da questo punto di vista, si consentirà, da un lato, una libera e legittima espressione delle opinioni di ciascuno e dall'altro si realizzerà una lotta più efficace nei confronti del terrorismo.

FILIPPO ASCIERTO. Signor ministro, anch'io desidero ringraziarla per il panorama complessivo e puntuale che ci ha fornito sul terrorismo nazionale ed internazionale. Vorrei approfittarne anche per far giungere attraverso la sua persona un ringraziamento alle forze dell'ordine che, nel corso di questi mesi, con sacrificio e soprattutto con ottimi risultati si sono particolarmente impegnate nell'attività di prevenzione e contrasto.
Quanto da lei esposto poc'anzi serve effettivamente per una valutazione politica attenta e approfondita sui vari fenomeni terroristici. Nelle prossime settimane dovremmo chiederci se sono validi gli strumenti di prevenzione e contrasto di cui disponiamo oggi. Oppure, ed è questa la domanda che voglio porle, se il quadro normativo sia in realtà ancora debole per l'attività di contrasto. Desidero quindi sapere cosa si possa fare di più per tenere alta la guardia nei confronti del terrorismo. Alcune ipotesi le abbiamo già esaminate in passato, in convegni ed in atti parlamentari. Ad esempio penso a quanto sia importante compiere un'attività di prevenzione attraverso accertamenti quotidiani,


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realizzati soprattutto tramite contatti all'interno delle moschee, all'interno di luoghi dove è noto che si usa un linguaggio molto estremo. Tutto ciò è legato, a volte, anche a intoppi normativi che limitano, ad esempio, l'esercizio della videosorveglianza, delle intercettazioni e dell'attività di polizia giudiziaria. Penso che a breve vada posta all'ordine del giorno una modifica legata alla sicurezza della legge sulla privacy.
Inoltre anche nei confronti di quelle aree non estreme ma per così dire antagoniste, talvolta vicine all'insurrezionalismo, credo si debba iniziare a pensare a quelle attività di polizia, di pubblica sicurezza, che venivano svolte nel recente passato ma di cui si è persa la consuetudine. Al riguardo penso a quelle leggi vigenti (l'avviso orale, la diffida, eccetera) e ai provvedimenti di pubblica sicurezza come l'obbligo della firma e la non partecipazione ad alcune manifestazioni (mi riferisco ad esempio allo stadio). Evidentemente questi ragazzi trovano nello stadio il loro humus, la possibilità di creare disordini e dare sfogo alle loro violenze sono ormai conosciuti dalle forze di pubblica sicurezza e dalle squadre di calcio. Credo che grazie a questi provvedimenti potremmo tranquillamente porli nelle condizioni di non poter più offendere. Signor ministro, potrebbe essere organizzata per questi soggetti la visione delle partite di calcio sulle televisioni a pagamento presso i commissariati, evitando così la loro presenza allo stadio...! Bisogna avere la volontà di interrompere questa spirale di violenza.
Un altro aspetto è invece il terrorismo, le brigate rosse; il ceppo, le origini, le tradizioni da cui nascono le conosciamo. Ricordo anch'io in questi anni le fasi che hanno visto protagonisti i vari gruppi terroristici, le persone che si sono contraddistinte per azioni di violenza e una lunga scia di sangue. Questi li abbiamo combattuti e sconfitti! Non è sconfitta però quella ideologia e non è sconfitta quella voglia di combattere lo Stato insita in quell'ideologia. Allora, percorrendo una strada a ritroso - al di là delle ideologie ma a queste collegate - troviamo delle persone, molte delle quali non si sono mai dissociate, hanno intessuto rapporti con l'esterno, non si sono mai pentite ed hanno rivendicato, anche dalle carceri, la loro appartenenza a queste organizzazioni: di tutto ciò dobbiamo aver ben chiara la mappa.
Ad esempio, quando prima si faceva riferimento al terrorismo di matrice ecologica, ricordando il terrorista Marco Camenisch, il cui nome viene citato, nell'attentato di qualche giorno fa, con una scritta su un muro, mi domando: avrà costui qualche amico in Italia?
Se la risposta è affermativa, dobbiamo assolutamente conoscere tali amici e a tal fine l'attività di intelligence e di prevenzione deve essere assolutamente mirata e accurata, anche attraverso l'utilizzo di quelle «intelligenze» che in passato c'erano nelle forze dell'ordine e nei servizi (ma che oggi sono probabilmente andate, in gran parte, effettivamente perdute) che vanno recuperate e, caso mai, rafforzate per le esigenze dello Stato.
Per questo motivo, un'attività di prevenzione, al di là della modifica di qualche legge, deve essere sempre più profonda ed accurata. A tale proposito, conosco bene, signor ministro, il suo impegno così come quello delle forze dell'ordine e la prego di interpretare questa mia affermazione a sostegno del vostro lavoro e non in contrapposizione con esso.
Ritengo, inoltre, molto importante la riforma dei servizi, attualmente in itinere. Si tratta di una riforma alla quale dobbiamo provvedere al più presto possibile in questa legislatura, perché proprio attraverso di essa potremmo fornire ulteriori strumenti in aggiunta a quelli che da un punto di vista normativo sono stati resi disponibili poco tempo fa.
Oggi, signor ministro, a fronte dello scenario internazionale che lei ha disegnato, a fronte dei rapporti che possono esistere anche con il terrorismo italiano, abbiamo bisogno di un'opera di prevenzione forte ed accurata.
La domanda è allora la seguente: ritiene che per quanto riguarda le tecnologie


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e gli uomini - sicuramente mi aspetto una risposta positiva - siamo all'altezza di affrontare un compito così grave?
Inoltre, ritiene che le operazioni di servizio, che si sono ultimamente concretizzate in modo così brillante, si siano verificate in modo, per così dire, sporadico o siano, invece, il frutto di un lavoro approfondito che, in questi ultimi tempi, grazie anche agli indirizzi dello stesso Ministero, in rapporto con gli altri servizi di sicurezza a livello internazionale, dimostra la loro e la nostra efficienza, quale frutto di un sistema coordinato?

MARCO BOATO. Signor ministro, mi pare che tutti gli interventi svolti, se pure da posizioni politiche diverse, inizino - e non sarò io il primo ad astenermi dal fare altrettanto - con un ringraziamento nei suoi confronti. Ciò mi sembra in linea con la direzione positiva da lei indicata nelle ultime parole della sua relazione, quando ha riferito che, nel dibattito che seguirà le comunicazioni, «... ciò che più conta è ritrovare le ragioni essenziali per un comune impegno contro l'illegalità politica ed il terrorismo. Di certo nessuno di noi potrà strumentalizzare la discussione a fini politici di parte». Condivido queste sue conclusioni politiche e mi sembra che con il contributo da lei datoci con questa relazione molto ampia - ci ha inoltre fornito ulteriore materiale di documentazione che analizzeremo - lei sia andato nella direzione giusta.
Tuttavia, vorrei osservare - soltanto incidentalmente, a seguito dell'intervento del collega che mi ha preceduto - che a mio avviso il problema che si pone oggi non consiste in quello di nuove modifiche legislative.
Ritengo, infatti, che abbiamo strumenti legislativi stratificati nel tempo e, in qualche caso, anche con qualche superfetazione. Abbiamo avuto sentenze della Corte costituzionale che, in relazione a taluni di questi, ne hanno dichiarato la costituzionalità, purché a tempo. Si tratta di strumenti introdotti alla fine degli anni settanta, che sono ancora in vigore, mentre altri sono stati introdotti recentemente, come lei stesso ha ricordato.
Vorrei al riguardo - solo incidentalmente, in dissenso sul punto con il collega che mi ha preceduto - ricordare un episodio che, forse, anche lei, signor ministro, ricorda (perché eravamo in Parlamento assieme).
Parlo della VIII legislatura (1979-1983), quando eravamo nel pieno della massima esplosione del fenomeno terroristico nel nostro paese. Nel decreto Cossiga antiterrorismo, del 1979, fu introdotta anche la norma sul fermo di polizia limitata nel tempo (annuale), che, quindi, doveva essere rinnovata con decreto legge. L'anno successivo, io stesso fui protagonista di episodi di ostruzionismo parlamentare - parlando 18 ore - contro quella norma che, però, fu rinnovata per un anno. Tuttavia, l'anno successivo, ci saremmo ritrovati nella stessa situazione ed eravamo - desidero ricordarlo - in pieno sequestro Dozier, quando cioè un generale americano della NATO, di stanza a Verona, al comando della FTASE era stato sequestrato. Tra l'altro - come lei ricorderà - imperversarono nel nostro paese le analisi sul fatto che fossero coinvolti i paesi dell'est, il KGB e via dicendo.
Il modo incruento in cui si concluse quel sequestro - mi inchino alle forze dell'ordine di allora - rappresenta certamente un episodio di rilievo, laddove fu seguito, come per Pollicino, un percorso che andava non da Verona a Praga o a Mosca, ma da Verona, via Pindemonte, a Padova nella casa di una studentessa universitaria. Il generale Dozier fu quindi liberato in modo incruento, per lui e anche per i suoi carcerieri.
Tuttavia, nel pieno di tale sequestro - e prima della liberazione del generale -, il ministro dell'interno dell'epoca mi avvicinò in aula - alla Camera - e mi disse che se non avessi «cantato vittoria» pubblicamente, non sarebbe stato rinnovato il fermo di polizia (che non era servito assolutamente niente).
Io, per motivi di responsabilità istituzionale, - ero all'epoca, come oggi, un


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deputato dell'opposizione - non «cantai vittoria» e stetti zitto. In silenzio, allora, il Governo dell'epoca, con il sequestro Dozier ancora in corso, non rinnovò quello strumento che si era dimostrato totalmente inutile e ininfluente nella lotta contro il terrorismo.
Non avrei neanche richiamato questo episodio alla memoria, se non fosse stato per il ricordo che l'intervento del collega che mi ha preceduto ha in me suscitato (egli, peraltro, vive a Padova e quindi conosce bene la realtà che ho descritto).
In realtà, con gli strumenti legislativi che abbiamo già a disposizione, conta molto di più la capacità di analisi, di ricostruire i fenomeni puntualmente, di individuarne le linee di tendenza, le possibili origini, i possibili sviluppi e le eventuali interconnessioni.
All'epoca, signor ministro, tutto ciò era presente in minima parte e, infatti, l'Italia si trovò, sia come Stato, sia, anche, dal punto di vista delle istituzioni, delle forze politiche e sociali, dei sindacati, impreparata a quell'esplosione, la quale fu assai più diffusa e drammatica - come lei stesso ha incidentalmente ricordato - di quella che ci troviamo di fronte oggi (pur essendo la situazione attuale allarmante per quanto riguarda le linee di ripresa in alcuni settori che lei ha puntualmente individuato).
Tuttavia, non c'è paragone rispetto alla gravità di ciò che abbiamo vissuto alla fine degli anni sessanta, da piazza Fontana in poi e così nel corso degli anni settanta fino alla fine di questi e all'inizio degli anni ottanta: un'esplosione di terrorismo, sia di «sinistra», sia di «destra» che, per fortuna, non ha avuto più paragoni nella storia del nostro paese.
Da questo punto di vista, sto svolgendo alcune osservazioni sulla sua relazione che mi pare quindi condivisibile. Certamente, potrei richiedere, eventualmente, di verificare questo o quel dato ma, di mestiere, non faccio il poliziotto e ritengo che in Parlamento non dobbiamo sostituirci a chi sul piano tecnico operativo svolge tali mansioni. Se da un lato si possono anche commettere degli errori (il recente episodio di Bologna, San Petronio, lo conosciamo tutti) tali errori, fortunatamente possono essere anche corretti tempestivamente. Non rientra, quindi, nel nostro dovere istituzionale - oggi, in questa sede - dire a lei e ai suoi collaboratori delle varie forze di polizia che cosa si debba tecnicamente fare. Questa è una responsabilità che ha il Governo e di cui quest'ultimo risponde al Parlamento. Quest'ultimo, su tale aspetto, non deve incidere mentre è sul quadro dell'analisi, sulle prospettive e sulle linee politiche di intervento che deve fare sentire la sua voce.
Mi viene in mente la condivisibile e rigorosa articolazione - contenuta nella sua relazione - con la quale, sia sul versante «di sinistra» sia su quello «di destra», si distingue tra fenomeni terroristici, fenomeni di illegalità diffusa gravi (da perseguire, reprimere ma da non omologare automaticamente al terrorismo), fenomeni ideologici (anche quelli gravi, ma da non appiattire meccanicamente agli altri). In poche parole, non fare di ogni erba un fascio, ma avere la consapevolezza della complessità storico-culturale di questi fenomeni e sapere che (e per fortuna oggi lo fa un ministro dell'interno di fronte al Parlamento) analizzare puntualmente documenti e persone risalenti ai gruppi di cui si è parlato non rappresenta una deminutio dal punto di vista politico, ma un momento fondamentale di conoscenza del fenomeno al fine di combatterlo.
Mi sovviene un parallelo storico che è bene non si ripeta (e non si sta ripetendo). Penso al movimento del '77. Esso portava al suo interno espressioni di dissenso, di antagonismo politico e anche di illegalità. Si trattava di un movimento sociale (per il quale non nutrivo grande simpatia) che, anche se recava suo interno fenomeni discutibili ed inaccettabili, non era intrinsecamente terroristico né complessivamente violento (e negli archivi del suo Ministero sarebbe facile trovare riscontro a quanto sto dicendo). Orbene, aver fatto piazza pulita di quella realtà portò nei mesi successivi (quindi nel 1978) ad una proliferazione - priva di precedenti nella storia italiana - delle attività di reclutamento


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dei gruppi terroristici sia di sinistra (in misura prevalente) sia di destra. Tra l'altro, come ben sappiamo tutti, il sequestro e l'assassinio di Moro sono dell'anno successivo a quel movimento. Prima linea o i gruppi del terrorismo cosiddetto «diffuso» ebbero la massima diffusione a partire dalla scomparsa di quella realtà sociale e culturale, sia pur discutibile, magmatica e tumultuosa. Ripeto che queste mie sono osservazioni a margine della sua relazione, il cui impianto mi pare condivisibile anche relativamente all'intento di non saldare quanto fortunatamente non è saldato, paventando possibili esiti del genere solo al fine di evitarli e non per fomentarli.
Mi è parso altresì giusto fare una puntuale ricognizione delle sigle, perché si tratta di un dato obiettivo. Però dobbiamo stare attenti a non cadere nel «tranello» di chi vuole autorappresentarsi come strumento di propaganda armata o di reclutamento. La moltiplicazione di sigle (che si caratterizza, quanto al versante di sinistra, per l'uso di termini quali «nuclei», «proletari», «combattenti» e «comunismo», tutte parole che vengono intersecate e alternate l'una all'altra nelle più diverse tipologie linguistiche) spesso è uno strumento che piccoli gruppi (pericolosi certamente) del terrorismo diverso da quello delle Brigate rosse (diciamo del terrorismo «diffuso») utilizzano per farsi propaganda e, creando la falsa sensazione (attraverso la inevitabile pubblicità dei media, tipica di una società per fortuna democratica e non totalitaria) di una moltiplicazione dei soggetti e della loro forza, favorire il reclutamento. Quindi, in questo caso, si tratta di capire chi si ha di fronte, capirne la portata, la dimensione, non sottovalutare la gravità dell'eventuale minaccia ma neppure (più che sopravvalutarla) sovrarappresentarla. In caso contrario, si rischia di compiere involontariamente un servizio a questi terroristi reali o aspiranti tali.
C'è una parte che svilupperei maggiormente, segnatamente quella relativa alle ultime frasi della sua relazione. Quanto da lei scritto è sostanzialmente condivisibile (anche se ovviamente si possono sempre fare delle osservazioni a margine). Tuttavia, a mio parere, accanto alla prevenzione (che è uno strumento di polizia o dei servizi) e alla repressione (che è uno strumento e di polizia giudiziaria e dell'autorità giudiziaria), un ruolo altrettanto fondamentale lo dovrebbe avere la risposta (del Governo, delle forze politiche di maggioranza e di opposizione, ma anche del tessuto sindacale, sociale, culturale e religioso del nostro paese) di carattere politico, culturale e istituzionale.
La fase più acuta del terrorismo degli anni settanta e ottanta non sarebbe stata così drasticamente ridimensionata nel nostro paese, portando ad una totale sconfitta di alcuni gruppi terroristici di destra e di sinistra (NAR, Terza posizione, Prima linea, Azione rivoluzionaria) e ad un ridimensionamento del terrorismo diffuso (che esiste ancora, ma in forma diversa e ridimensionata rispetto a quella che ha avuto tra la fine degli anni settanta e i primi ottanta), se non ci fosse stata, oltre alla repressione del fenomeno, anche una risposta politica, culturale e istituzionale adeguata.
Non è di per sé terrorismo ma mi spaventa (tanto più in relazione al Medio Oriente) l'accenno da lei fatto ad attività ascrivibili all'antisemitismo, imputabili a gruppi di estrema destra. Nell'immediato non necessariamente si tratta di attività terroristiche, ma potrebbero alimentare fenomeni di illegalità. Ricordo che recentemente la sede della Margherita nella mia città, Trento, è stata imbrattata con scritte razziste ad antigiudaiche, in cui il presidente della provincia, che è un cattolico, viene identificato addirittura come «ebreo», termine questo che viene usato, quindi, con l'accezione di insulto. Ciò avviene nell'anno di grazia 2003. Oggi è il giorno della shoah, della memoria, e ciò mi induce a sottolineare il fenomeno con particolare forza.
Esiste anche un aspetto culturale (che riguarda lo Stato, la scuola, l'opinione pubblica, i mass media, il mondo religioso) ed uno istituzionale. Anche a tal proposito faccio un riferimento storico (anche se


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non c'è bisogno di insegnare nulla a lei, che è sardo, e quindi appartiene ad una autonomia speciale): due della autonomie speciali nel nostro paese sono nate (la prima) o sono state rinnovate (la seconda) in relazione alla necessità di combattere il fenomeno terroristico anche tramite una risposta istituzionale. Il separatismo siciliano, che era un fenomeno terroristico, è stato sì represso (con qualche episodio tuttora oscuro), ma solo unitamente alla concessione dell'autonomia speciale. Il terrorismo in Alto Adige è stato sì fatto oggetto di repressione da parte dello Stato italiano, ma (e ricordo figure come quella di Moro o di Saragat) a ciò ha fatto seguito la capacità di mettere in cantiere una risposta di carattere istituzionale. Da questo punto di vista, signor ministro, io ho trovato quanto da lei detto a la Repubblica martedì 21 gennaio scorso di straordinario interesse, positività ed opportunità. In quella sua intervista c'è infatti la giusta consapevolezza che, se la risposta ai fenomeni (di radicalismo, di potenziale terrorismo e, in qualche caso, di vero terrorismo) rinvenibili all'interno del mondo islamico fosse quella della demonizzazione e della criminalizzazione complessiva (la schedatura delle moschee come qualcuno poco fa ha auspicato o altre iniziative similari), noi renderemmo un servizio al terrorismo di matrice islamica.
In tal modo appiattiremmo chiunque fosse di identità islamica nel nostro paese, favorendo la legittimazione a fornirci una risposta violenta («ci trattano come potenziali terroristi, ci emarginano, non ci accettano, bisogna rispondere»). Apprezzo quindi quanto da lei dichiarato nell'intervista rilasciata al quotidiano la Repubblica sei giorni fa. Testimonia la capacità intelligente del ministro dell'interno di affrontare un problema capace di presentare anche aspetti di tipo terroristico o eversivo, costituenti una minaccia per il paese; pone il problema di come garantire una risposta politica, istituzionale, al fine di evitare che si alimenti un terreno di coltura, per usare un'espressione famosa in decenni passati, di quel tipo di fenomeno. Quindi, se posso associarmi a tale posizione, lo faccio, esortandola a seguire quella strada con determinazione.
Ciò non vuol dire abbassare la guardia, l'attenzione, la vigilanza. Non dobbiamo modificare la legge sulla privacy. Come lei ha ricordato, non occorre un'autorizzazione per accedere ad Internet, o entrare in possesso di materiale e documentazione, oggi talmente vasto da rappresentare una fonte di dati assai utili da analizzare. Per quanto riguarda le intercettazioni, ritengo non vi sia paese al mondo che si adoperi più dell'Italia. Quindi, non è questo il problema che ci si presenta dinanzi. Il nodo non sta nella mancanza di strumenti, ma nella modalità del loro utilizzo, nella capacità di mirarli, calibrarli, senza coinvolgere cittadini estranei, distinguendo i fenomeni invece di farne un'unica commistione che potrebbe appiattire la realtà, in parte diversa, anche quando si tratta di fenomeni ugualmente pericolosi.
Due sono i problemi da affrontare, signor ministro. Il primo è stato da lei citato, a proposito di fatti reali, non risalenti soltanto ad epoca recente, ma addirittura ad oltre un decennio fa. Mi riferisco ad attentati di argomento ambientale. È vero, questo fenomeno c'è stato anche in passato, ma con una sostanziale differenza rispetto ad oggi. Attualmente, nessun movimento ambientale nel nostro paese - non solo quello che io politicamente rappresento, cioè i Verdi, ma anche associazioni, gruppi (ce ne sono anche di destra, ma prevalentemente hanno un orientamento culturale e di sinistra) a carattere ambientalista - ha mai attenuato i giudizi di rigetto totale per i tentativi di attività illegali in relazione a problematiche di tipo ambientale, sebbene si tratti di temi fondamentali di dibattito (dall'inquinamento elettromagnetico all'assalto ambientale).
Questo è un fatto positivo, perché vuol dire che non esiste né si crea un terreno di simpatia o di neutralità, a differenza, ahimé, di quanto avvenuto in alcuni settori, negli anni settanta e all'inizio degli ottanta, rispetto a certe tematiche affrontate


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con le armi e con il sangue dai gruppi terroristici. Per questo, dico che fortunatamente, pur con il dovere suo e nostro di avere la consapevolezza dei pericoli potenziali per l'oggi e per il futuro, riconosciamo la diversità del contesto attuale rispetto a quello di 15 o 20 anni fa.
Un'ultima osservazione intendo esprimere, a proposito di una questione da lei toccata indirettamente, e più volte, nel ricordare la dinamica cosiddetta «antimperialista», innescata da parte sia delle Brigate rosse sia dei gruppi anarchico insurrezionalisti, sia, per altri aspetti, con riferimento al fenomeno di Israele, dei gruppi fascisti (mi riferisco, in questo ultimo caso, a ipotesi di saldatura con movimenti terroristici antisemiti da parte di gruppi di estrema destra). Non è una novità. Freda, quando parlava dei timer diceva: sono caramelle per bambini ebrei. Tali erano le espressioni che si usavano alla fine degli anni settanta. Quindi non è fatto inedito la tragedia della saldatura tra antisemitismo e una pseudosolidarietà con la causa arabo-palestinese. Epperò lei, giustamente - ripetendolo un paio di volte - ha richiamato all'attenzione, nella malaugurata ipotesi di una guerra all'Iraq, il rischio che fenomeni di terrorismo internazionale possano riproporsi con ripercussioni sul nostro paese. Sebbene tali organizzazioni non abbiano più, nel nostro paese, un eventuale retroterra logistico - perché mi pare di capire che la maggior parte delle operazioni di polizia abbia confutato ciò - , l'Italia potrebbe comunque divenire terreno di attentati diretti. Del resto, in passato, si sono verificate aggressioni di tal genere contro la NATO; e non vi è stato soltanto il sequestro Dozier di cui ho parlato, ma si sono susseguiti tanti altri attentati, come in Friuli oppure anche qui, a Roma (lei ha citato il caso del collegio della difesa americano).
Reputo effettivo il pericolo che fenomeni simili si possano accentuare, quindi è stato senz'altro opportuno, da parte del ministro, aver attirato l'attenzione del Parlamento, e per tramite di questo, dell'opinione pubblica in merito. Ovviamente, non è un'audizione con il ministro dell'interno che può portare il Parlamento a pronunciarsi sull'intera questione della guerra in Iraq. Personalmente, mi ritengo piuttosto attento alle responsabilità istituzionali per capire che quella è una materia da affrontare a livello parlamentare generale; sottolineo, conclusivamente, che questa sua preoccupazione è anche da me condivisa, ritenendo opportuno - non tanto e non solo per quanto riguarda la tutela dell'ordine pubblico nel nostro paese, quanto ai fini della sicurezza complessiva dell'Italia nel contesto internazionale - mostrare la consapevolezza di quanti e quali rischi per il nostro territorio detta questione possa comportare. Potrebbero, infatti, lo ripeto, riproporsi quelle saldature che tutti temiamo e che pure, al momento, non si riscontra essersi verificate.
Storicamente, sono intercorsi rapporti di gruppi terroristici italiani, sia di destra - ho citato Freda - sia di sinistra, con altri esterni, per esempio palestinesi, ma si trattava di soggetti come il «Fronte democratico popolare» o come il «Fronte popolare», ovvero gruppi palestinesi di matrice marxista-leninista, e non espressione del radicalismo islamico, e privi, all'epoca, di gran rilevanza (parlo degli anni settanta, inizio anni ottanta). Questo tipo di saldatura tra l'attuale fenomeno terroristico e gruppi che hanno una dimensione da lei definita «laica» ma che io preferisco chiamare piuttosto « politico-ideologica », fino ad oggi non si è verificata. Ed io mi auguro e penso non possa aver luogo in futuro. Ma è altresì evidente che un contesto internazionale di precipitazione potrebbe condurre obiettivamente a questo rischio anche l'Italia, la quale pure, per decenni, ha fatto di tutto per esserne fuori (lei meglio di altri può documentarlo, avendo fatto parte dei Governi interessati, o comunque della maggioranza di allora). La preoccupazione di tener fuori l'Italia dai pericoli simili è storicamente riscontrata. Si ricordi in ogni caso quanto avvenuto con l'attentato di Fiumicino: l'Italia ha subito stragi dovute a matrice internazionale. Altre vicende


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sono poi occorse, si pensi, per esempio, all'assalto a Vienna a danno dei ministri dell'OPEC (in quel caso vi fu anche una saldatura tra un gruppo terroristico di estrema sinistra tedesco e gruppi palestinesi comandati dal veneziano Carlos).
Ma l'Italia, almeno direttamente, non ha conosciuto tale fenomeno. Ed è auspicabile riuscire ad evitare una esperienza simile.

MARCELLO PACINI. Signor, presidente, sarò più breve dei colleghi che mi hanno preceduto. Vorrei, innanzitutto, aggiungere il mio plauso a quelli già espressi relativamente alla relazione ampia, articolata e molto informale del ministro. Vorrei anche sottolineare come l'apprezzabilità della medesima sia ulteriormente cresciuta in ragione del fatto che, alcuni giorni fa, il ministro stesso abbia diffuso, se pure in forma giornalistica - cioè attraverso un'intervista -, un'informazione preliminare sul suo orientamento strategico, di grandissima rilevanza, dal quale, appunto, è derivata immediata ricaduta sul contenuto di quanto discusso questo pomeriggio.

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE DELLA IV COMMISSIONE
LUIGI RAMPONI

MARCELLO PACINI. Infatti, l'orientamento da lei palesato nell'intervista attiene alle problematiche connesse ad un milione, circa, di residenti in Italia, residenti che non solo potrebbero diventare territorio di reclutamento (un'entità demografica di riferimento), ma potrebbero costituire anche un ambiente in cui gruppi terroristici malintenzionati possono nascondersi, far doppi giochi, trovare quasi un loro santuario. Quindi, signor ministro, è importante, a mio avviso, tenere conto, proprio nelle valutazioni che noi diamo di quanto da lei riferito, della questione sollevata. Lei ha dovuto trattare nella stessa esposizione del terrorismo interno e di quello islamico-internazionale, e giustamente ci ha messo in guardia circa la possibilità di connessioni o alleanze - magari momentanee - volte a turbare l'ordine pubblico in Italia. A mio parere, però, sebbene sia lungi da me sottovalutare il terrorismo interno, occorre sempre tenere presente la grandissima differenza dei due fenomeni per qualità e pericolosità. In Italia, infatti, il terrorismo interno, anche se è certamente, ormai, quasi di natura endemica, non ha più, fortunatamente, la virulenza di un tempo. Occorre, quindi, considerarlo quale una attività criminale che deve essere assolutamente stroncata, ma della quale si conoscono abbastanza bene le motivazioni e gli obiettivi stabiliti. Del resto, lei stesso, signor ministro, ha dato un'informativa molto precisa; attraverso la sua analisi dei documenti, infatti, si possono distinguere con grande accuratezza le origini ideologiche e culturali e le finalità dei singoli spezzoni del terrorismo interno.
Ben poco, invece, si sa del terrorismo internazionale; a mio avviso, è proprio il terrorismo islamico la vera grande novità che si pone al mondo d'oggi. L'11 settembre del 2001, costoro hanno dato prova della loro grandissima capacità offensiva: ritengo si sia trattato di un salto di qualità di grandissima rilevanza nel quadro del terrorismo internazionale di tutte le epoche. Del resto, non nascondono di voler condurre una guerra contro l'occidente; una guerra di contestazione globale, in cui si pone il problema non della palingenesi di una società, ma quello della distruzione di una società! Ciò aumenta la pericolosità, a prescindere dalla circostanza che sia o meno possibile un'alleanza momentanea o strumentale con il terrorismo interno.
Il livello offensivo del terrorismo islamico è stato dimostrato a New York; a mio avviso, è, dunque, necessario che si abbia la consapevolezza della ripetibilità di quell'evento, anche in Italia. Dobbiamo, al riguardo, avere un livello di guardia altissimo, mai avuto nel passato; si pone, di conseguenza, il problema dei rapporti possibili con i residenti musulmani in Italia, persone che potranno anche essere - magari tra dieci o dodici anni - cittadini


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italiani, almeno in parte. Occorre allora, a mio parere, signor ministro, uscire dalla contrapposizione da lei giustamente fatta tra moderati ed estremisti. Certo, i due termini sono utili a distinguere sul momento chi sia o possa essere d'accordo con forme eversive e chi, invece, ne sia lontano. Tali categorie, però, non servono ad individuare gli obiettivi di una politica di integrazione, una politica quale quella effettivamente da lei indicata.
Anche se mi pare non abbia mai posto la questione in questi termini, lei ha, però, posto un problema: come integrare, all'interno della Repubblica italiana, questi musulmani, peraltro insieme agli altri immigrati. Bisognerà, perciò, porsi anche il problema di come integrare i cinesi, i filippini e le altre etnie e nazionalità presenti nel paese. Tra tutte, però, la più numerosa è quella, molto articolata, dei residenti di religione musulmana.
L'Italia arriva all'appuntamento con qualche decennio di ritardo rispetto alle altre esperienze europee; può, quindi, godere del vantaggio del differenziale temporale per poter capire - e anche evitare - qualche errore. Però bisogna affrontare il problema in modo globale, ben al di là delle sole questioni relative all'ordine pubblico. Bisogna riuscire a capire, in primo luogo, se si voglia perseguire una strategia di integrazione individuale o se si voglia, invece, seguire un strategia basata su una modalità di integrazione comunitaria. Di tale aspetto, a mio avviso, occorrerebbe discutere a fondo, trattandosi di scelta fondamentale da cui derivano politiche, quadri giuridici ed interventi governativi diversi, nonché il diverso atteggiarsi dei rapporti dei residenti musulmani con le nostre scuole ed istituzioni. Ad esempio, è mio convincimento che l'esperienza fatta in Germania sia molto diversa da quella avutasi in Francia. A mio avviso, non dobbiamo imitare gli altri paesi in quanto i tempi sono cambiati; oggi, bisogna tenere conto dell'esistenza dei nuovi mezzi di comunicazione. Tutto è cambiato, anche l'immigrato che arriva in Italia; dunque, non possiamo più pensare di adottare formule e strumenti validi in altri tempi. Certamente, però, esistono due grandi vie di integrazione: da un lato, quella, appunto, personale (volta a formare futuri nuovi cittadini italiani); dall'altro, quella, invece, comunitaria, che risolve il problema della «sedentarizzazione» degli immigrati in Italia attraverso il mantenimento di forti vincoli al loro interno. Si tratta di una via che deve essere molto approfondita.
Durante la discussione in Assemblea del disegno di legge sull'immigrazione avevo preparato alcuni emendamenti, poi «caduti» a causa della mia inesperienza parlamentare. Con essi proponevo che a tutti i residenti stranieri in Italia fosse offerta - senza, dunque, configurare alcun obbligo - la possibilità di frequentare corsi per l'insegnamento dell'italiano e della Carta costituzionale. A mio avviso, l'argomento Carta costituzionale è fondamentale per gli stranieri; infatti, è attraverso i valori in essa consacrati che possono comprendere quale sia la differenza abissale tra il paese lasciato e il nuovo nel quale sono giunti. A mio avviso, un buon patto deve proprio basarsi sull'esplicita accettazione dei nostri principi non dati per conosciuti ma esplicitati, letti, affinché possano essere tutti condivisi. Però, la mia proposta emendativa cadde e, ora, quindi, sono alla ricerca di una modalità per riproporla. Tuttavia, la consideravo - e perciò ne parlo ora - come l'inizio di un discorso sull'integrazione. Credo che l'integrazione deve essere perseguita non attraverso una legge ma attraverso moltissimi comportamenti; però, nello stesso tempo, occorrerà trovare un modo per discuterne tutti insieme.
Al riguardo, mi chiedo - ed è la prima domanda che le rivolgo, signor ministro - se non sia necessaria la definizione preliminare, attraverso l'opera del Parlamento, di una strategia per l'integrazione. Ciò per non arrivare, poi, a trovarci dinanzi a provvedimenti i quali, piovendo dall'alto, sconterebbero, quindi, un'inadeguata, diversa sensibilità. A mio avviso, la definizione di una strategia per l'integrazione farebbe da giusto pendant con le soluzioni per il mantenimento dell'ordine


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pubblico e, dunque, con il giusto perseguimento dei reati commessi all'interno di queste comunità.
Affermo ciò anche perché una definizione della strategia dell'integrazione servirebbe a valutare meglio alcuni progetti di legge al nostro esame. Per i miei colleghi della I Commissione, infatti, non è un mistero il mio atteggiamento critico nei confronti del disegno di legge sulla libertà religiosa, attualmente in discussione.

PRESIDENTE. Onorevole Pacini, la invito a concludere il suo intervento e a non discostarsi dall'oggetto dell'audizione, data la ristrettezza del tempo a nostra disposizione.

MARCELLO PACINI. Ne parlo adesso perché mi sembra che ciò rappresenti un esempio di incoerenza rispetto a quanto viene affermato oggi. Non siamo riusciti, infatti, a giungere ad una cultura comune tra coloro che hanno predisposto tale disegno di legge e chi, invece, in questo momento è portatore di altre sensibilità, per cui si tratta di una specie di dialogo tra sordi.
Ciò che, a mio avviso, rappresenta un difetto di riflessione su questo disegno di legge è il fatto che, in un mondo globalizzato, con grandissime differenze culturali, vi sia ancora, nel nostro ordinamento, la volontà di omologare tutto all'interno di certi concetti: da qui derivano conseguenze estremamente pericolose.
Faccio l'esempio della figura del ministro di culto. Tale figura, infatti, è imposta anche a religioni che non la prevedono, come ad esempio all'Islam, perché nel nostro impianto concettuale il ministro di culto è indispensabile. Da ciò consegue, ad esempio, che l'articolo 200 del codice di procedura penale, relativo al segreto d'ufficio dei ministri di culto, concepito pensando ai ministri di culto giudaico-cristiani, viene applicato anche a pseudo ministri di culto (perché sono tali per noi, ma non all'interno delle comunità di provenienza), con esiti a mio avviso negativi.

PRESIDENTE. Signor ministro, abbiamo ancora a disposizione 26 minuti di tempo. Forse lei concorda con me sul fatto che non si tratta di domande che richiedono una risposta immediata, e se lei ed i colleghi siete d'accordo, possiamo continuare con gli interventi dei deputati che intendono porre quesiti e formulare osservazioni; se lei lo desidera, tuttavia, posso invitare i colleghi a contenere i loro interventi, per riservarle uno spazio di dieci minuti per le repliche.

GIUSEPPE PISANU, Ministro dell'interno. Grazie, signor presidente, ma preferisco ascoltare.

PRESIDENTE. Dunque, ci aggiorneremo quando lei riterrà opportuno rispondere ai quesiti posti. Il presidente della I Commissione, Donato Bruno, è d'accordo con tale modo di procedere?

DONATO BRUNO, Presidente della I Commissione. Concordo, signor presidente.

GIUSEPPE PISANU, Ministro dell'interno. Concordo pienamente con lei, signor presidente, tuttavia le domando solamente un minuto per fornire una precisazione, che devo assolutamente fare, in relazione all'intervento dell'onorevole Mancuso.
Vorrei semplicemente dire, poiché desidero che rimanga agli atti, che non terrei neanche un minuto alle dipendenze del ministro dell'interno un dirigente che assumesse atteggiamenti di infedeltà o di slealtà nei confronti del ministro stesso. Naturalmente, sono pronto a discutere e ad accettare che sia messo in discussione l'operato di qualsiasi dirigente; tuttavia, francamente, rispondo completamente delle nomine dei dirigenti (ne ho fatte pochissime, quasi nessuna, se non ricordo male) che ricadono sotto la mia personale responsabilità (che, in realtà, si limita al proporre al Consiglio dei ministri le decisioni).
Comunque, sono certo anche di non poter mettere in discussione in alcun modo, allo stato delle mie conoscenze, la correttezza e la lealtà dei dirigenti del Ministero dell'interno. Per quanto concerne i due cui si è fatto cenno, devo dire


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che non sono stati sottoposti a misure amministrative per la semplice ragione che nei loro confronti erano, e sono ancora in corso, indagini di carattere giudiziario, ed è logico che la misura di carattere amministrativo debba essere subordinata alle risultanze dell'attività giudiziaria.

PRESIDENTE. Ricordo che abbiamo ancora 24 minuti e che hanno chiesto di parlare quattro deputati, i quali hanno a disposizione, dunque, 6 minuti ciascuno.

CARLO LEONI. In realtà, diversi colleghi, in particolare l'onorevole Minniti, hanno già formulato domande che intendevo porre, e che mi limiterò soltanto a ricordare.
Purtroppo, grava non su questo Governo, ma sullo Stato italiano il fatto che ancora non si conoscano gli esecutori degli omicidi dei professori D'Antona e Marco Biagi, e dobbiamo tutti sentirla come una grave mancanza. Ciò è segno dell'assoluto isolamento di questi gruppi, come sappiamo bene, tuttavia le istituzioni pubbliche marcano una carenza non di poco conto, anche perché vi è stata un'attività, che però non ha prodotto risultati.
Ricordo, come hanno già fatto altri colleghi, il caso Geri, e le indagini focalizzate su un gruppo romano, Iniziativa comunista, la cui sigla, tuttavia, non rientra neanche nell'elenco di quelle che questa mattina il ministro ha indicato, in questa sede, come suscettibili di un'osservazione particolare. Ribadisco, allora, la domanda, posta precedentemente dal collega Minniti, su quanto è a conoscenza del ministro a proposito di eventuali canali di finanziamento dei gruppi BR, o di gruppi ad essi legati.
Per quanto riguarda Forza nuova, invece, anche se è vero ciò che ha affermato il ministro, cioè una sua possibile classificazione nell'ambito dei gruppi politici dell'estrema destra, tuttavia desidero ricordare che soggetti appartenenti a tale formazione hanno dato luogo anche ad attività di carattere violento: mi riferisco al recente episodio dell'aggressione avvenuta all'interno degli studi di una televisione privata.

GIUSEPPE PISANU, Ministro dell'interno. Adel Smith.

CARLO LEONI. Esatto. Si tratta, quindi, di un gruppo che, oltre a contravvenire alla normativa nazionale inerente all'apologia del fascismo e del razzismo, compie anche azioni di carattere violento.
Credo sia stato compreso in tutta la sua portata l'allarme che il ministro, molto serenamente e seriamente, ha lanciato questa mattina a proposito del terrorismo sia interno, sia internazionale, tanto più di fronte all'ipotesi di una guerra contro l'Iraq, argomento in più per compiere ogni sforzo per evitare tale conflitto. Vorrei domandare, a questo punto, come si organizza lo Stato di fronte a questo possibile, ulteriore salto di qualità, sia dell'una, sia dell'altra forma di terrorismo.
Anch'io non ritengo necessari ulteriori interventi legislativi; tuttavia, vorrei domandare al ministro, che precedentemente vi ha fatto cenno, in primo luogo come ci si organizza nel territorio. Stiamo parlando, infatti, di gruppi molto diffusi, con radici in diverse aree e territori del paese, anche se con una prevalenza nel nord-est; in altri termini, vorrei sapere in che modo le nostre forze dell'ordine, e segnatamente quella parte delle forze dell'ordine aventi il compito di contrastare il terrorismo, si stanno organizzando nel territorio.
Vorrei chiedere al ministro, infine, precisazioni in merito al rapporto con i servizi. È ancora nella mente di tutti noi l'episodio, già ricordato, dell'informativa dei servizi pochi giorni prima dell'omicidio del professor Biagi, pubblicata su un settimanale, che descriveva in modo quasi esatto e dettagliato l'identikit dell'obiettivo, alla quale non si è prestato ascolto. Allora, delle due l'una: o queste informative vengono ignorate, oppure esistono altri canali di relazione - ma questo non sarebbe possibile, se non anche in veste pubblica, almeno di informazione al Parlamento - tra i servizi, il Ministero dell'interno e le forze dell'ordine. Rispetto a quel deprecabile episodio di mancanza di comunicazione,


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allora, vorrei sapere anch'io se siano stati fatti passi in avanti, e si vi sia una collaborazione maggiore.

ELETTRA DEIANA. Come hanno osservato sia il ministro Pisanu sia altri colleghi, oggi stiamo affrontando una materia su cui spesso c'è la verificata vocazione ad un uso pubblico dissennato e di parte delle problematiche connesse ad essa, in voga in vari paesi e manifestatosi particolarmente virulento nel nostro paese. A questo proposito ricordo, anche per evidenziare le responsabilità di questa maggioranza, l'uso che si è fatto di fenomeni come se fossero legati al terrorismo, connessi invece a grandi manifestazioni di massa ispirate, mosse e organizzate con altro spirito come, ad esempio, nel caso del G8 di Genova e, più in generale, con riguardo a quelle manifestazioni organizzate dai movimenti cosiddetti no global.
Non posso che prendere atto, come hanno già fatto i colleghi che mi hanno preceduto, dell'ampiezza della relazione con cui il ministro Pisanu ha voluto informare il Parlamento e della sobrietà e dell'equilibrio con cui egli ha voluto trattare il tema in esame nei suoi diversi aspetti e nelle molteplici connessioni, spesso sottolineate pretestuosamente, come avviene quando al diritto di protesta, anche in forme estreme purché nei limiti propri di uno Stato di diritto, si associa la questione degli immigrati, connessa (pretestuosamente) al terrorismo, alla delinquenza e ad altre cose di questo genere.
Il ministro - dico ciò anche a nome del mio gruppo - ha impresso, ripeto, alla sua relazione un taglio di grande obiettività e di grande equilibrio. Ed è proprio per questo motivo che a me pare necessario mantenere una rigorosa distinzione tra fenomeni culturali e vicende storiche entro le quali si collocano esperienze come quella della cultura anarchica o vicende indipendentiste come nel caso - visto che il ministro vi ha fatto riferimento - dei partiti indipendentisti sardi, i quali hanno una storia, obiettivi e pratiche che rientrano nella legalità, e commistioni ideologiche e ramificazioni operative che sono tutt'altra cosa. Agendo in questo modo si eviterebbe che un fenomeno possa essere usato per criminalizzare gli altri fenomeni.

GIUSEPPE PISANU, Ministro dell'interno. Onorevole Deiana, ho fatto riferimento soltanto a frange.

ELETTRA DEIANA. Sì, intendo solo sottolineare questo aspetto, senza avere nulla da obiettare. É chiaro che lei, ministro, ha tracciato nel suo intervento solo il quadro della situazione, mentre l'azione del Governo e delle istituzioni, essendo di natura complessa, non è soltanto di sua competenza. Tuttavia, l'ampia ricostruzione che il ministro ha fatto sul terrorismo e sulla lotta al terrorismo, lascia gravemente scoperta la possibilità di comprendere quali siano precisamente le responsabilità che hanno condotto ai delitti Biagi e D'Antona. Ovviamente, sono anch'io del parere che ciò non sia in nessun modo imputabile a responsabilità del Governo, ferma restando però tutta la problematica relativa ai vari settori dello Stato in ordine alla sicurezza di personaggi caduti sotto i colpi del terrorismo. Comunque, mi preme evidenziare come attorno a questi due assassinii - Biagi e D'Antona - si siano verificati e moltiplicati veri e propri abbagli investigativi - faccio riferimento al caso Geri e a quello di Iniziativa comunista - che creano situazioni di commistione e di sovrapposizione che sono di poco aiuto all'azione diretta ad individuare in modo preciso ed efficace le responsabilità.
Trovo debole la tesi esposta dal ministro sulla divisione tra un'estrema destra politica non incline alla violenza e un'estrema destra più sociale, giovanilistica e culturale; questa divisione, a mio parere, non è appropriata. In questo senso, come ricordava il collega Leoni, anch'io desidero evidenziare che Forza nuova è sicuramente un gruppo di estrema destra radicale-politico incline ad operare violentemente sul territorio; non faccio riferimento solo alla recente vicenda dell'aggressione avvenuta durante una trasmissione televisiva, ma anche ai tentativi


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di azione violenta, di occupazione del territorio, al duro fronteggiamento con le forze dell'ordine e alle continue provocazioni sul campo della legalità (in particolare, mi riferisco alla legge Mancino sulle ideologie razzistiche).
Condivido quanto è stato detto in ordine al fatto che non occorrano ulteriori sedimentazioni legislative proprio perché disponiamo di tutti gli strumenti all'uopo necessari; infine, al ministro, che ha fatto riferimento alla possibilità di nuove e appropriate misure di carattere legislativo, chiedo se ha in mente qualcosa di preciso al riguardo oppure se si tratta semplicemente di un'opzione di carattere generale.

VALTER BIELLI. L'onorevole ministro ha sostenuto che ritiene importante l'incontro odierno anche per ascoltare, conseguentemente gli chiedo se ritiene utile, attraverso le due Commissioni (I e IV) riunite congiuntamente, oppure attraverso uno strumento ad hoc, avere la possibilità di uno scambio di informazioni ravvicinato nel tempo per affrontare un tema così importante e così delicato. Uno strumento, quindi, che unisca le forze politiche in una battaglia comune attorno ad un tema delicato.
Il ministro ha fatto diverse volte riferimento per il nostro paese ad una serie di rischi di matrice terroristica connessi ai gruppi anarcoinsurrezionalisti, elencando una serie di motivazioni che evidenziano un rischio vero.
L'analisi da lei fatta ci spiega come questi gruppi stiano passando da una filosofia individualista ad una di tipo organizzativo con rapporti anche internazionali. Tali gruppi possono ancora essere definiti anarco-insurrezionalisti, oppure c'è dietro qualcosa di nuovo e di diverso per cui, forse, questa definizione non risponde più pienamente a ciò che sta accadendo nella galassia terroristica? Aggiungo: non è che dietro a questa sigla mettiamo troppe cose che non riescono poi a farci capire ciò che sta realmente avvenendo? Poiché gli attentati che sono stati compiuti da coloro che fanno riferimento a questa sigla sono estremamente sofisticati, bisognerebbe anche chiedersi come mai le indagini non ci abbiano portato all'individuazione dei responsabili, visto che stiamo parlando di attentati al Viminale e ad una questura. Si tratta di gente che è stata capace di collocare bombe come se sapesse dove fossero piazzate le telecamere e dove dovesse collocarle per sfuggire all'individuazione da parte delle forze dell'ordine. In tale frangente parlare di anarco-insurrezionalisti individuali è quantomeno molto improbabile.
Su Forza nuova i miei colleghi hanno già fatto alcuni riferimenti. Forza nuova sta cercando di reclutare sul territorio nuovi soggetti, attraverso i meccanismi che ha posto alla nostra attenzione, per azioni che hanno poco di politico e molto di illegale. Che cosa sa dei rapporti che Forza nuova potrebbe avere stabilito con il gruppo di Boccaccio, il fascista capo del Movimento politico occidentale, sciolto dall'allora ministro dell'interno Mancino, che svolgeva un'attività eversiva con collegamenti internazionali molto forti? È a conoscenza di rapporti tra Forza nuova e la cosiddetta destra istituzionale? Mi rendo conto che si tratta di una domanda forte, ma quali sono i rapporti tra Forza nuova ed alcune frange della Lega, in riferimento ad alcuni episodi che hanno visto assieme personaggi legati alla Lega e questo gruppo?
Ultima domanda, premesso che ho notato come la sua relazione, estremamente impegnata ed espressione di un giusto metodo che condivido, sia stata, più che una risposta ad alcuni interrogativi, una fotografia della situazione. Innanzitutto, il problema costituito dall'omicidio D'Antona e dall'omicidio Biagi, il fatto che sembra si brancoli ancora nel buio, nonostante vi siano state anche dichiarazioni roboanti. Riferendosi alla vicenda del brigatista Pegna, lei ha affermato che le indagini sui due omicidi erano uscite dal buio perché vi erano sicuramente dei collegamenti. Tuttavia, se è vero che vi sono dei collegamenti, credo vi dovrebbero essere dei riscontri.


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Ministro, ha detto una cosa che condivido: i rischi di guerra potrebbero accentuare i rischi di terrorismo anche nel nostro paese; il problema è che i rischi aumenteranno anche in ragione di un altro elemento, perché potremmo essere l'unico paese europeo, insieme al Regno Unito, ad aver già affermato, rispetto ad una presunta azione militare, di voler fiancheggiare l'azione degli Stati Uniti. Fino ad oggi tutti i paesi europei si erano mantenuti su una linea comune; così facendo il nostro paese, malgrado la presenza di un Papato estremamente attento, che nei confronti dell'Islam ha tenuto aperto il dialogo, rischia di trovarsi ancora più scoperto rispetto al terrorismo sulla base di alcune prese di posizione che non fanno parte del contesto dell'Europa unita. Cosa pensa al riguardo?

SILVANA PISA. Condivido molto di quanto detto dai colleghi dell'opposizione, soprattutto l'ultima parte del discorso del collega Bielli. Vorrei fare due domande al ministro riguardo al terrorismo internazionale. Quando il ministro nella sua relazione si riferisce al «complesso lavoro di intelligence, alle risultanze investigative, alle più recenti acquisizioni informative rispetto all'organizzazione di Bin Laden», si riferisce ad un lavoro investigativo svolto nel nostro paese o ad uno svolto da altri paesi stranieri? Perché ciò che ha colpito tutta l'opinione pubblica internazionale è che tutta la materia investigativa della vicenda seguente all'11 settembre si è svolta in modo assolutamente secretato e non trasparente, al punto che sono in molti a dubitare, non dell'esistenza di un network terrorista di matrice islamista, perché le prove sono lampanti, ma della personalizzazione di Bin Laden o del mullah Omar. Esisteranno davvero, oggi, questi personaggi? Stupisce, pertanto, una descrizione così tecnica e precisa. In particolare mi riferisco a quanto viene detto nella relazione nel punto in cui si parla di primo o di secondo livello, analisi che sembrano simili alle dettagliate descrizioni delle Brigate rosse di un tempo. Che tali descrizioni siano attinenti anche ad Al Qaeda mi pare strano, visto che ancora oggi sembra sia invece una organizzazione diversificata e ancora molto sfuggente nelle sue modalità.
Posto che il terrorismo trova il suo alimento nella povertà e nell'emarginazione nelle condizioni materiali di chi viene arruolato come «manovalanza», come si pensa di prevenire questo tipo di condizioni materiali che determinano la diffusione del terrorismo di origine islamica nel nostro paese?

PRESIDENTE. Faccio i miei complimenti all'onorevole Pisa per la sua brevità. Prima di concludere il ministro vorrebbe fare una precisazione.

GIUSEPPE PISANU, Ministro dell'Interno. Vorrei soltanto dire ai colleghi che su alcune circostanze, trattandosi di una seduta pubblica, ho preferito tacere, ma renderò informazioni più puntuali ai colleghi del COPACO che mi hanno convocato per dopodomani.

PRESIDENTE. Comunico che, non essendovi il tempo necessario affinché il ministro possa esaurientemente rispondere, egli si riserva di predisporre le risposte e di comunicare alle Commissioni quando potrà replicare alle nostre domande. Ringraziamo il ministro per la sua disponibilità. Il seguito dell'audizione è rinviato ad altra seduta.

La seduta termina alle 16.