La seduta comincia alle 11,30.
TEODORO BUONTEMPO, Segretario, legge il processo verbale della seduta del 26 gennaio 2006.
(È approvato).
PRESIDENTE. Comunico che, ai sensi dell'articolo 46, comma 2, del regolamento, i deputati Alemanno, Aprea, Armosino, Baccini, Ballaman, Berlusconi, Berselli, Bono, Brancher, Burani Procaccini, Caligiuri, Carrara, Cicu, Contento, D'Alia, Delfino, Dell'Elce, Di Virgilio, Dozzo, Giuseppe Drago, Fini, Galati, Gentiloni Silveri, Grillo, La Malfa, Landolfi, Mantovano, Manzini, Maroni, Martinat, Martusciello, Matteoli, Miccichè, Possa, Prestigiacomo, Ramponi, Romano, Rosso, Saponara, Scajola, Scarpa Bonazza Buora, Selva, Soro, Tanzilli, Tassone, Tremaglia, Tremonti, Urso, Valducci, Viceconte, Viespoli, Vietti e Vitale sono in missione a decorrere dalla seduta odierna.
Pertanto i deputati complessivamente in missione sono cinquantasei, come risulta dall'elenco depositato presso la Presidenza e che sarà pubblicato nell'allegato A al resoconto della seduta odierna.
Ulteriori comunicazioni all'Assemblea saranno pubblicate nell'allegato A al resoconto della seduta odierna.
PRESIDENTE. Invito l'onorevole segretario a dare lettura del sunto delle petizioni pervenute alla Presidenza, che saranno trasmesse alle sottoindicate Commissioni.
TEODORO BUONTEMPO, Segretario, legge:
MARINO SAVINA, da Roma, chiede:
l'impiego di maggiori risorse finanziarie da destinare al Ministero dell'interno in particolare per il potenziamento delle strutture delle Forze di polizia (1061) - alla I Commissione permanente (Affari costituzionali);
una disciplina della riqualificazione del personale dei ministeri attraverso le cosiddette «lauree brevi» (1062) - alla VII Commissione permanente (Cultura);
ANTONIO DI GIACOMO, da Padova, chiede disposizioni in favore dei locatari delle case dell'INPDAP che vogliono esercitare il diritto di prelazione per l'acquisto delle stesse abitazioni (1063) - alla VI Commissione permanente (Finanze);
CENTRONE SANTE MARTINO, da Castellano Grotte (Bari), chiede nuove norme in materia di assicurazione obbligatoria di autoveicoli in seguito alla loro demolizione (1064) - alla VI Commissione permanente (Finanze);
FRANCESCO FRANCO, da Trecate (Novara), chiede nuove norme in materia di permesso di guida e la diversificazione tra la patente commerciale e quella per uso privato (1065) - alla IX Commissione permanente (Trasporti);
GIUSEPPE CATANZARO, da Tricesimo (Udine), chiede una riforma del sistema previdenziale volta ad istituire libretti di risparmio individuali sui quali accreditare i contributi pensionistici (1066) - alla XI Commissione permanente (Lavoro);
LORENZO TALAMI, da Padova, e numerosi cittadini, chiedono nuove norme in materia di protezione sociale con particolare riferimento alla cura delle persone anziane non autosufficienti (1067) - alla XII Commissione permanente (Affari sociali);
LUCA COLAIACOVO, da Roma, chiede nuove norme in materia di pedofilia (1068) - alla II Commissione permanente (Giustizia);
ANTONIO FORTUNATO, da Verona, chiede:
modifiche al codice civile relative al ruolo degli amministratori nelle società per azioni (1069) - alla VI Commissione permanente (Finanze);
nuove norme a tutela dei soci di minoranza delle società per azioni (1070) - alla VI Commissione permanente (Finanze);
CIANO DONADON, da Treviso, e numerosi altri cittadini, chiedono nuove norme in materia di deducibilità fiscale delle spese relative all'uso di autovetture e di telefonia mobile per gli agenti e i rappresentanti di commercio (1071) - alla Commissione VI permanente (Finanze);
CATELLO PANDOLFI, da Sorrento (Napoli), chiede:
provvedimenti per il contenimento del prezzo della benzina, nonché misure atte a promuovere l'uso di carburanti alternativi (1072) - alla VIII Commissione permanente (Ambiente);
misure a favore della libertà di culto (1073) - alla I Commissione permanente (Affari costituzionali);
modifiche alla legge elettorale in senso maggioritario (1074) - alla I Commissione permanente (Affari costituzionali);
FRANCO MARIA LIGI, da Roma, chiede l'adozione di iniziative volte a promuove la cultura della legalità (1075) - alla II Commissione permanente (Giustizia);
PIERO DE CRISTOFARO, da Roma, chiede modifiche alla normativa vigente in materia di ricorso diretto alla Corte Costituzionale (1076) - alla I Commissione permanente (Affari costituzionali);
GIACOMELLI ROBERTO, da Quarrata (Pistoia), chiede la soppressione dei termini di prescrizione per la presentazione delle richieste di indennizzo a favore dei soggetti danneggiati da complicanze irreversibili a causa di vaccinazioni obbligatorie o trasfusioni (1077) - alla XII Commissione permanente (Affari sociali);
ANGELO CASELLA, da Verona, chiede norme per l'indennizzo dei beni perduti dai cittadini italiani in Stati esteri a causa di eventi bellici (1078) - alla V Commissione permanente (Bilancio).
PRESIDENTE. Il Presidente del Senato ha trasmesso alla Presidenza, con lettera in data 26 gennaio 2006, il seguente disegno di legge, che è stato assegnato, ai sensi dell'articolo 96-bis, comma 1, del regolamento, in sede referente, alle Commissioni riunite II (Giustizia) e XII (Affari sociali):
S. 3716. - «Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 30 dicembre 2005, n. 272, recante misure urgenti per garantire la sicurezza ed i finanziamenti per le prossime Olimpiadi invernali, nonché la funzionalità dell'Amministrazione dell'interno. Disposizioni per favorire il recupero di tossicodipendenti recidivi» (Approvato dal Senato) (6297) - Parere delle Commissioni I, III, V, VI (ex
articolo 73, comma 1-bis, del regolamento, per gli aspetti attinenti alla materia tributaria), XI, XIV e della Commissione parlamentare per le questioni regionali.
Il suddetto disegno di legge, ai fini dell'espressione del parere previsto dall'articolo 96-bis, comma 1, del regolamento, è stato altresì assegnato al Comitato per la legislazione.
PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca la discussione della proposta di legge, rinviata alle Camere dal Presidente della Repubblica, d'iniziativa del deputato Pecorella: Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento.
Avverto che lo schema recante la ripartizione dei tempi per la discussione sulle linee generali è pubblicato in calce al resoconto stenografico della seduta del 23 gennaio 2006.
PRESIDENTE. Dichiaro aperta la discussione sulle linee generali.
Avverto che il presidente del gruppo parlamentare dei Democratici di sinistra-L'Ulivo ne ha chiesto l'ampliamento senza limitazioni nelle iscrizioni a parlare, ai sensi dell'articolo 83, comma 2, del regolamento.
Avverto, altresì, che la II Commissione (Giustizia) si intende autorizzata a riferire oralmente.
La relatrice, onorevole Bertolini, ha facoltà di svolgere la relazione.
ISABELLA BERTOLINI, Relatore. Signor Presidente, onorevoli colleghi, il 20 gennaio scorso, il Presidente della Repubblica ha rinviato alle Camere la legge sulla inappellabilità delle sentenze di proscioglimento, approvata dalla Camera dei deputati il 21 settembre 2005 e dal Senato il 12 gennaio 2006. A seguito del rinvio, la Commissione giustizia della Camera ha esaminato il testo apportandovi alcune modifiche che, come affermato nel parere espresso dalla Commissione Affari costituzionali, sono in linea con i rilievi del Capo dello Stato. Anzi, specialmente per quelli relativi ai casi di ricorso per Cassazione, si può sicuramente affermare che le questioni di costituzionalità evidenziate dal Presidente della Repubblica sono state pienamente risolte.
Si tratta di un provvedimento la cui ratio ed il cui contenuto è a tutti ben noto. Ricordo, infatti, che si è arrivati alla formulazione del testo dopo un approfondito lavoro in Commissione giustizia nel corso della prima lettura, al quale hanno partecipato con spirito costruttivo tutti i gruppi. È vero che spirito costruttivo non significa condivisione del testo, ma è anche vero che su alcune parti significative di esso oggetto del rinvio - mi riferisco al principio di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento da parte del pubblico ministero - si era registrato da parte dei gruppi di opposizione, se non un vero e proprio atteggiamento di favore alla introduzione immediata del principio nell'ordinamento, almeno una condivisione in astratto del medesimo. Le dinamiche politiche hanno poi portato l'opposizione su una posizione di accesa, naturalmente legittima, contrapposizione su tutto il provvedimento.
Tuttavia, anche quando il confronto parlamentare è diventato più aspro, i più rappresentativi gruppi di opposizione non hanno mai messo in dubbio la costituzionalità del principio della inappellabilità per il pubblico ministero delle sentenze di proscioglimento. Piuttosto, è stata sostenuta l'opportunità di procedere alla riforma dei sistemi di impugnazione in maniera più organica e complessiva. Una cosa è dire: non si introduca nell'ordinamento il principio della inappellabilità
perché è in contrasto con i principi costituzionali; altra cosa è dire: non si introduca tale principio perché è opportuno che prima sia riconsiderato nel complesso il sistema delle impugnazioni. Si tratta di una distinzione che credo debba essere tenuta sempre presente nel corso dell'esame che ci apprestiamo ad avviare.
Sulla parte del provvedimento che, invece, ha per oggetto i casi di ricorso in Cassazione, l'opposizione ha sempre manifestato contrarietà: a volte nel merito, altre volte sotto il profilo della costituzionalità, ma senza arrivare a presentare una pregiudiziale di costituzionalità, come sovente invece avviene quando l'Assemblea esamina un provvedimento che l'opposizione considera incostituzionale.
La scelta del Parlamento di introdurre nell'ordinamento il principio della inappellabilità delle sentenze di proscioglimento si basava anche sulla posizione di una parte della dottrina e su alcune decisioni della Corte costituzionale.
Sotto il primo profilo, rimando agli scritti dei professori Coppi, Padovani, Spangher e Stella, con i quali si era sottolineata l'opportunità di prevedere nel codice di procedura penale il principio in questione, in quanto considerato come vera e propria espressione degli stessi principi costituzionali.
Per quanto riguarda la Corte costituzionale, furono considerate decisive due sentenze.
Con la sentenza n. 98 del 1994 si è chiarito che il riconoscimento di uno strumento di impugnazione a favore di una sola parte processuale non determina necessariamente una disparità di trattamento di rilevanza costituzionale. La sentenza n. 280 del 1995 è stata poi chiara nel precisare che l'appello non costituisce un'estrinsecazione necessaria dell'azione penale. A ciò si aggiunga che le sezioni unite della Corte di cassazione (sentenza Franzese del 2002 e sentenza Andreotti del 2003) ed il Procuratore generale presso la Corte di cassazione nella relazione di inaugurazione dell'anno giudiziario 2004 hanno posto la questione della incongruenza di una sentenza di appello di condanna che riformi una sentenza di proscioglimento di primo grado, presupponendo la legittimità costituzionale di una riforma volta a sopprimere l'appello delle sentenze di proscioglimento, prefigurando diverse soluzioni del problema. D'altro canto, dopo l'approvazione della legge da parte delle due Camere ed anche successivamente al rinvio del Capo dello Stato, si è registrata una serie di interventi a tutela del principio dell'inappellabilità delle sentenze di proscioglimento, come ad esempio quelli dei professori Baldassarre e Frosini.
Passo ora ad esaminare il provvedimento alla luce dei rilievi del Presidente della Repubblica. Questi hanno riguardato l'introduzione nell'ordinamento del principio della inappellabilità delle sentenze di proscioglimento e la modifica dei casi di ricorso per Cassazione. Nel primo caso sarebbe violato il principio della parità delle parti sancito dall'articolo 111 della Costituzione, nel secondo caso, sempre in violazione dell'articolo 111 della Costituzione, la Corte di cassazione sarebbe trasformata da giudice di legittimità in giudice di merito, con un aggravio così pesante del carico di lavoro della Cassazione da determinare una violazione di principi costituzionali, quali quelli della ragionevole durata del processo e del buon andamento dell'amministrazione della giustizia, sanciti rispettivamente dagli articoli 111 e 97 della Costituzione.
Il principio della inappellabilità delle sentenze di proscioglimento da parte del pubblico ministero è affermato dall'articolo 1 della proposta di legge, che modifica l'articolo 593 del codice di procedura penale limitando i casi di appello alle sole sentenze di condanna. Come ho già accennato, il Presidente della Repubblica ha ritenuto tale modifica al codice di rito non conforme alla Costituzione. Più in particolare, nel messaggio di rinvio si legge che la soppressione dell'appello delle sentenze di proscioglimento «, a causa della disorganicità della riforma, fa sì che la stessa posizione delle parti nel processo venga ad assumere una condizione di disparità che
supera quella compatibile con la diversità delle funzioni svolte dalle parti stesse nel processo».
Viene ricordato che le asimmetrie tra accusa e difesa costituzionalmente compatibili non devono mai travalicare i limiti fissati dal secondo comma dell'articolo 111 della Costituzione. Si ricorda, inoltre, che è parte del processo anche la vittima del reato che si è costituita parte civile, che vedrebbe «compromessa dalla legge approvata la possibilità di far valere la sua pretesa risarcitoria all'interno del processo penale».
Infine, si ritiene incongruente che il pubblico ministero totalmente soccombente non possa proporre appello, mentre tale facoltà è prevista quando la sua soccombenza sia solo parziale, avendo ottenuto una condanna diversa da quella richiesta. Sono poi indicate come contraddittorie due disposizioni del codice di procedura penale in quanto non sono state modificate nonostante che la loro formulazione sembri rinviare ad ipotesi di appello contro sentenze di proscioglimento.
La Commissione giustizia ha confermato il principio della inappellabilità delle sentenze di proscioglimento, escludendolo tuttavia in un caso particolare. Non è stata quindi accolta la prima censura, che evidenzia una disparità tra le parti processuali poiché al pubblico ministero totalmente soccombente è stata sottratta la facoltà di proporre appello contro le sentenze di proscioglimento. Nel sancire il principio della inappellabilità di tali sentenze la questione del rapporto tra le parti è stata tenuta in debito conto sia in prima lettura sia in seconda lettura, pervenendo alla conclusione che non attribuire la facoltà di presentare appello contro una sentenza di proscioglimento non significa violare il principio della parità delle parti processuali. A tale proposito si ricorda che la sentenza n. 98 del 1994 della Corte costituzionale ha chiarito che il riconoscimento del potere di impugnazione dell'imputato non ne comporta di per sé uno corrispondente per il pubblico ministero, le cui funzioni non sono assistite da garanzie di intensità pari a quelle assicurate all'imputato dall'articolo 24 della Costituzione; e ciò vale anche dopo la riforma dell'articolo 111 della Costituzione che ha affermato il principio della parità tra le parti del processo.
L'introduzione di tale principio costituzionale non ha fatto venir meno quanto enunciato dalla Corte costituzionale nel 1994 poiché, come è stato anche affermato in dottrina, il principio di parità non significa una simmetria tra la parte privata e quella pubblica. Il principio di parità delle parti, infatti, deve essere letto in base all'intero dettato costituzionale. In caso contrario, si potrebbe arrivare a sostenere, ad esempio, che all'indagato spetterebbe di disporre della polizia giudiziaria ai fini delle indagini al pari del pubblico ministero.
La stessa Corte costituzionale ha più volte ribadito che la circostanza che la parte privata, in alcuni casi, sia titolare di minori facoltà rispetto alla parte pubblica non determina necessariamente una disparità di trattamento rilevante sotto il profilo costituzionale. Nel caso dell'appello dell'imputato contro una sentenza di condanna vi è una diretta esplicazione di un diritto di rilevanza costituzionale, il diritto di difesa, ma lo stesso non si può dire per l'appello del pubblico ministero contro le sentenze di assoluzione. Uno Stato democratico non può riconoscere alcun diritto costituzionale volto ad ottenere pervicacemente una sentenza di condanna nei confronti di un soggetto già riconosciuto innocente al termine di un processo regolare. Invece, deve riconoscere a colui che è stato ritenuto colpevole di un reato la possibilità di dimostrare la propria innocenza davanti ad un altro giudice. È questa la ratio del principio di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento: in un ordinamento che fa della persona il proprio fulcro, non si può ammettere che un individuo, già riconosciuto innocente da un organo dello Stato, il giudice di primo grado, al termine di un regolare processo, possa essere nuovamente assoggettato ai patimenti del processo penale per consentire ad un altro organo dello Stato, il
pubblico ministero, di provare che nel primo processo lo Stato si era sbagliato.
Il principio di parità delle parti processuali, letto alla luce dei principi fondamentali della Carta costituzionale, non significa che le parti debbano avere necessariamente identici strumenti processuali, quanto, piuttosto, che nel processo la difesa e l'accusa si devono confrontare su uno stesso piano al cospetto di un giudice terzo. L'articolo 111 della Costituzione su questo punto è chiaro: la parità tra le parti riguarda il contraddittorio che si svolge dinanzi ad un giudice terzo. È tutt'altra cosa affermare che le parti debbano necessariamente avere a disposizione gli stessi strumenti processuali affinché il principio di parità trovi attuazione. I mezzi che ciascuna parte deve avere a propria disposizione per poter investire nel merito un altro giudice non dipendono da quelli che sono attribuiti all'altra parte, ma devono fondarsi su interessi o diritti costituzionalmente rilevanti. Ad esempio, lo strumento della revisione della sentenza è previsto dal codice di procedura penale solamente per modificare la sentenza di condanna e non anche per condannare chi sia stato riconosciuto innocente da una sentenza passata in giudicato. Tuttavia, nonostante tale asimmetria, nessun profilo di incostituzionalità è mai stato avanzato in ragione dell'esclusione della revisione delle sentenze di proscioglimento su istanza del pubblico ministero.
Vi è un'ulteriore considerazione che deve essere sottoposta all'Assemblea. È principio razionale, prima che giuridico, quello secondo cui la sentenza di condanna deve essere pronunciata quando non vi è alcun ragionevole dubbio circa la colpevolezza dell'imputato. A tale proposito, si sottolinea che tale principio viene introdotto nel nostro ordinamento dall'articolo 5 della proposta di legge in esame, che su tale punto non è stata oggetto di alcun rilievo da parte del Presidente della Repubblica. Come si può affermare che non sussista un dubbio quando una persona, per uno stesso fatto e sulla base delle stesse prove, sia considerata da un giudice innocente e da un altro giudice colpevole? Tale dubbio è ancora più forte se si considera che il giudice di appello ha un rapporto mediato con le prove, anziché diretto, come lo ha, invece, il giudice di primo grado. La sentenza di condanna in appello è pronunciata da un giudice che ha letto soltanto delle carte. La sentenza di assoluzione di primo grado è pronunciata da un giudice in presenza del quale le prove si sono formate. La stessa Corte costituzionale ha più volte evidenziato la diversità dell'esame, sotto il profilo dell'acquisizione probatoria, tra il primo grado e l'appello, sottolineando che, in questo secondo caso, l'acquisizione della prova avviene in via indiretta.
Per le ragioni sopra esposte, la Commissione giustizia non ha ritenuto opportuno far venir meno il principio dell'inappellabilità delle sentenze di proscioglimento. Tuttavia, per ragioni di giustizia sostanziale, è stato approvato in Commissione un emendamento diretto a consentire l'appello anche contro le sentenze di proscioglimento nel caso in cui, dopo il giudizio di primo grado, siano emerse nuove prove. Naturalmente, l'appello potrà essere proposto nell'ambito degli ordinari termini di decadenza previsti dalla legge per tale mezzo di impugnazione. Le nuove prove potranno essere sia a favore che a sfavore dell'imputato. Nel primo caso, l'imputato avrà interesse a proporre appello contro la sentenza di proscioglimento qualora questa sia stata emanata a seguito della prescrizione del reato. Potrebbe, comunque, essere opportuno precisare che tale facoltà sia limitata a quelle sole prove che possono essere considerate decisive, cioè vere e proprie svolte ai fini della decisione.
Il Presidente della Repubblica, inoltre, ha sottolineato l'incongruenza che al pubblico ministero sia consentito di proporre appello in caso di soccombenza parziale. Proprio su questo punto ricordo che l'onorevole Fanfani aveva presentato un emendamento volto a circoscrivere ai casi più rilevanti l'appello del pubblico ministero contro le sentenze di condanna.
Dopo un approfondito esame, anche in sede di Comitato ristretto, si decise di
limitare l'intervento normativo alle sole sentenze di proscioglimento, rinviando ad un secondo momento la questione delle sentenze di condanna. Si tratta di una fattispecie del tutto diversa da quella della soccombenza totale in quanto, nel caso di soccombenza parziale, la questione della colpevolezza è stata risolta nel senso positivo.
La Commissione giustizia, pur senza rinunciare al principio dell'inappellabilità delle sentenze di proscioglimento, ha dato seguito alle preoccupazioni espresse dal Capo dello Stato circa le aspettative risarcitorie della parte civile. Il Presidente della Repubblica, infatti, ha ritenuto che la vittima del reato che si è costituita parte civile vedrebbe compromessa dalla legge approvata la possibilità di far valere la sua pretesa risarcitoria all'interno del processo penale. Ricordo che anche di tale questione si è a lungo discusso nel corso dell'esame parlamentare e, in particolare, di quello svoltosi in sede di Commissione giustizia. Per evitare che l'inappellabilità delle sentenze di proscioglimento si traducesse in un pregiudizio a danno della parte civile, si è modificato l'articolo 652 del codice di procedura penale in materia di efficacia della sentenza penale di assoluzione nei giudizi civili ed amministrativi. La questione è stata risolta prevedendo che la sentenza di assoluzione non faccia stato nei confronti della parte civile, salvo che questa sia costituita nel processo ed abbia presentato le conclusioni. Ciò significa che la parte civile che si sia costituita potrà scegliere se presentare o meno le conclusioni sapendo che, nel primo caso, un'eventuale sentenza di assoluzione farà stato anche nei suoi confronti. La ratio della disposizione deve essere letta nell'ottica più generale dei diversi piani di tutela, quello della tutela risarcitoria ed il piano civilistico e non quello penale.
Con la modifica dell'articolo 652 del codice di rito si sono ridotte in maniera significativa le conseguenze nel processo civile di quanto avvenuto in quello penale. Nonostante ciò, la Commissione giustizia ha ritenuto di tutelare maggiormente la parte civile, modificando la disposizione generale di cui all'articolo 576 del codice di procedura penale relativa agli atti di impugnazione della parte civile contro i capi della sentenza di proscioglimento pronunciata nel giudizio penale, stabilendo che tale impugnazione limitata ai soli effetti civili possa essere effettuata in via diretta e non più con il mezzo previsto per il pubblico ministero.
PRESIDENTE. Onorevole Bertolini...
ISABELLA BERTOLINI, Relatore. Ciò ha portato alla soppressione dell'articolo 577 del codice di rito relativo alla impugnazione della persona offesa per i reati di ingiuria e diffamazione. In tali casi troverà applicazione la norma di carattere generale di cui all'articolo 576.
Concludo, Presidente, chiedendo che la Presidenza autorizzi la pubblicazione in calce al resoconto della seduta odierna del testo integrale della relazione, che contiene anche tutta una parte relativa alla Corte di cassazione che riporta i rilievi formulati dal Presidente Repubblica; credo sia necessario che risulti agli atti.
PRESIDENTE. La Presidenza lo consente, sulla base dei criteri costantemente seguiti.
Ha facoltà di parlare il rappresentante del Governo.
GIUSEPPE VALENTINO, Sottosegretario di Stato per la giustizia. Signor Presidente, il Governo non può non apprezzare la compiuta, rigorosa ed analitica relazione che è stata illustrata e, francamente, nulla ha da aggiungere. Tutto quanto si poteva dire è stato detto, ed in maniera egregia. Sono stati fatti cenni alla dottrina prevalente su questo tema ed è stata citata la giurisprudenza, anche costituzionale. Quello della relatrice è un documento veramente compiuto ed apprezzabile. L'auspicio del Governo, pertanto, è soltanto che la proposta di legge possa essere approvata con grande celerità.
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Zaccaria. Ne ha facoltà.
ROBERTO ZACCARIA. Signor Presidente, ci accingiamo a discutere per la seconda volta questa proposta di legge, successivamente al rinvio operato dal Presidente Ciampi, il quale vi ha ravvisato numerosi motivi di palese incostituzionalità.
Quello al quale facciamo riferimento costituisce il sesto rinvio, da parte del Presidente Repubblica, nel corso dell'attuale legislatura. Se si analizzano i precedenti, è possibile cogliere alcune particolarità estremamente interessanti. Anzi, già dal numero dei rinvii e dalla loro qualità si potrebbero cogliere spunti considerevoli di riflessione.
Anche in questa occasione, il Presidente della Repubblica ha effettuato numerosi riferimenti puntuali alle disposizioni del testo che si accingeva a rinviare. In più passaggi, ha sottolineato come le prerogative della Presidenza della Repubblica in sede di rinvio intendessero riferirsi all'intero impianto delle norme approvate dalle Camere.
Infatti, scorrendo il testo del Quirinale, si vede sottolineato, pur a fronte di una, comunque, possibile rivisitazione del sistema delle impugnazioni in base alle previsioni del codice del 1989, «il carattere disorganico e asistematico della riforma».
Successivamente, evidenziando le ricadute della proposta di legge in senso inflattivo sul carico di lavoro della Cassazione - quindi, con effetti negativi sulla ragionevole durata del processo -, se ne individua la causa nella disorganicità della riforma proposta.
Infine, ancora, richiamando la possibilità del pubblico ministero di appellarsi solo in caso di soccombenza parziale non totale, si sottolinea la incongruenza della nuova legge, non quindi di singole disposizioni della stessa.
È significativo anche l'uso reiterato del termine «palese», da parte del Presidente Ciampi, al fine di qualificare il contrasto delle disposizioni recate dal testo rinviato prima con l'articolo 111 della Costituzione - in tema di ricorso per Cassazione per motivi di legge -, e più avanti con la ragionevole durata del processo, anch'esso principio costituzionale introdotto con la riforma del 1999.
Ma altre considerazioni ancora potrebbero farsi su quegli aspetti relativi al merito costituzionale, che sono tutt'altro che marginali; basti considerare le valutazioni, certamente non secondarie, relative all'efficienza del processo, sul quale si è pure soffermato, recentemente, il primo presidente della Corte di cassazione nel corso dell'inaugurazione dell'anno giudiziario.
Passando al seguito che si è scelto di dare al provvedimento dopo il rinvio presidenziale, è necessario ricordare come giustamente (tale è la mia valutazione) l'opposizione abbia richiesto e ottenuto che il riesame parlamentare si svolgesse sull'intero testo - proprio per le considerazioni contenute nel messaggio di rinvio, che facevano riferimento al carattere organico dell'intervento -, evitando perimetrazioni del dibattito che non avrebbero pregiudizialmente permesso un seguito coerente con le indicazioni del Quirinale.
Tuttavia, non si può non rilevare come i correttivi inseriti in Commissione non abbiano rispettato tale spirito e, quindi, non possano ritenersi sufficienti non solo per poter condividere il merito della proposta ma neanche per convenire sulla sua completa compatibilità con la Costituzione.
È innanzitutto mutato il ruolo della Cassazione, che preoccupa dal punto di vista costituzionale; di fronte al citato articolo 111, primo comma, della Costituzione, la modifica dell'articolo 7, comma 1, lettera b), del progetto di legge approvato in Commissione non è che un palliativo, e comunque una misura ridotta che, di certo, non va incontro integralmente alle perplessità del Presidente della Repubblica.
Non basta infatti che, elencando i casi di ricorso per Cassazione, si reintroduca la necessità che questo si basi sul testo della sentenza impugnata; nel testo rinviato, non vi era alcun riferimento, e quindi si poteva ipotizzare un ricorso talmente generale e non circostanziato che, in seguito
alla sua presentazione, la Cassazione avrebbe dovuto riesaminare l'intero processo al fine di riscontrare le eventuali illogicità segnalate. Nel contempo, però, si affianca al riferimento al testo della sentenza la possibilità di estendere il ricorso anche ad altri atti interni al processo, sebbene specificamente indicati. È evidente che una tale clausola rischia di essere vuota e persino contraddittoria in quanto rende possibile sindacare, nei motivi di gravame, un numero elevatissimo di atti - se non proprio ogni singolo atto del processo -; si vanifica pertanto la disposizione, tornando alla situazione precedente alla modifica: rimangono intatte, quindi, le obiezioni di costituzionalità sollevate in sede di rinvio.
Tra l'altro, in tal modo, viene meno - e si tratta di un rilievo anch'esso avanzato ripetutamente, non solo nel messaggio di rinvio ma anche dalla dottrina - il meccanismo filtro della Cassazione, che, nell'esperienza di questi anni, ha potuto dichiarare l'inammissibilità di moltissimi ricorsi. Infatti, evidentemente, se si esaminano gli atti del processo, una tale attività preliminare non può essere più svolta e si rischia di produrre un vero e proprio blocco delle attività della Cassazione. Anche su tale aspetto - lo ribadisco - mi pare sia intervenuto il primo presidente della Cassazione, dottor Marvulli; da ciò deriva anche il rilievo sull'inefficienza del processo ed il rischio, all'orizzonte, di nuove, possibili prescrizioni: una pericolosa saldatura con la legge ex Cirielli, che abbiamo esaminato recentemente e della quale ampiamente si è detto.
Passando alla questione relativa alla disparità tra accusa e difesa, ritengo necessario svolgere un'approfondita riflessione sia in linea di principio, sia sul merito del provvedimento, anche se potrò compierla solo in termini sommari.
Infatti, si può convenire, come è stato testé ricordato dall'onorevole relatrice, che tale parità, secondo l'articolo 111 della Costituzione, sia «nel» processo e che, conseguentemente, possano prevedersi divergenze, nelle attribuzioni delle parti, per quanto concerne una serie di disposizioni che riguardano altri profili. Del resto, vorrei ricordare che anche l'avvio del procedimento penale è monopolio del pubblico ministero, ma non per questo si ravvisa una disparità contraria alla Costituzione.
Ciò in linea di principio; tuttavia, non si possono trascurare le ricadute che la particolare differenziazione delle attribuzioni, per quanto concerne le impugnazioni (così come sono descritte nella proposta di legge), potrebbe determinare, finendo per pregiudicare, in questo modo, la posizione del terzo danneggiato costituitosi parte civile, il quale rischia di non ricevere una soddisfacente tutela delle proprie pretese.
Non dobbiamo altresì dimenticare - e si tratta del punto sul quale mi permetto di dissentire da ciò che ho poc'anzi ascoltato - che la disparità di fronte all'impugnativa è particolarmente grave. La lesione, in questo caso, è acuta, e si rischia di avere un impatto diretto con la Costituzione.
Vorrei formulare un'altra osservazione. Sembra del tutto dimenticata, infatti, tutta la passata giurisprudenza della Corte costituzionale sugli articoli 512 e 513 del vecchio codice di procedura penale (mi riferisco a quella della fine degli anni Settanta), che limitava l'appello avverso certe formule assolutorie: rilevo che, oggi, quella giurisprudenza torna d'attualità (desidero citare, in particolare, la sentenza 23 maggio 1978, n. 73) e potrebbe minare, alla radice, anche le nuove norme che stiamo esaminando.
Vorrei segnalare, infine, che la disposizione transitoria recata dall'articolo 11 del provvedimento in esame, che renderebbe applicabile la nuova legge anche ai processi in corso, suscita alcune perplessità. Si tratterebbe, infatti, dell'ennesima innovazione legislativa ad intervenire nei processi in corso, dopo l'intervento operato dalle leggi sulle rogatorie, sul legittimo sospetto e sulle immunità, nonché dal recente provvedimento, di cui abbiamo già parlato, di modifica dei termini di prescrizione.
Il risultato non è che un incredibile caos nelle aule giudiziarie - o, perlomeno, il rischio che ciò si verifichi -, nonché la testimonianza che gli interventi in materia di giustizia, operati in questa legislatura, non hanno fatto altro che ignorare - anzi, hanno aggravato - il dato cronico dell'eccessiva durata dei processi italiani. Ricordo che, anche se rapidamente, abbiamo già precedentemente affrontato tale argomento.
La proposta di legge in esame, che nell'intenzione dei proponenti dovrebbe soddisfare le esigenze di snellimento dei tempi della giustizia, invece produce, potenzialmente, l'effetto opposto, sommergendo di ricorsi la Corte di cassazione ed andando perfino ad intaccare, nell'ipotesi contemplata, il principio cardine della non regressione del procedimento, come sottolineato anche dal Quirinale nel caso in cui la Cassazione non confermasse la sentenza di non luogo a procedere.
Per questi motivi, dunque, si ritiene di esprimere un dissenso rispetto alla proposta di legge in esame, che tuttavia non è frutto di un'obiezione pregiudiziale. La riforma del sistema delle impugnazioni, infatti, potrebbe sicuramente rappresentare una priorità per il nostro sistema giudiziario, proprio nell'ottica e con l'obiettivo di abbreviare la durata dei processi, nel rispetto comunque di una serie di principi, richiamati sia nella giurisprudenza, sia nel messaggio di rinvio presidenziale.
Questo, tuttavia, non è il provvedimento adeguato, per colpa di tutte le perplessità di carattere costituzionale di cui è circondato, oltre a quelle di ordine politico, discendenti dalla straordinaria contemporaneità dell'incidenza della norma su una serie di noti processi. Si tratta, infatti, di un elemento che fa rientrare anche questa riforma nell'ordine dei provvedimenti che possiedono un carattere concreto, più che generale ed astratto. Non è il caso di fare nomi «eccellenti»: sarebbe del tutto pleonastico.
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Taormina. Ne ha facoltà.
CARLO TAORMINA. Signor Presidente, onorevoli colleghi, prendo atto che, per l'ennesima volta, il Parlamento è costretto a riprendere l'esame di provvedimenti che ha già approfondito, valutato ed approvato, e che deve farlo per iniziativa del Presidente della Repubblica.
Si tratta certamente di una prerogativa costituzionale che appartiene, appunto, al medesimo Presidente della Repubblica, ma che si aggiunge anche alle molte occasioni in cui, nel corso degli iter legislativi che in questi anni abbiamo posto in essere, lo stesso Capo dello Stato ha fatto sentire la sua autorevole voce, affinchè i provvedimenti in itinere potessero assorbire indicazioni, spesso molto preziose. Tuttavia, si tratta di un metodo abbastanza pericoloso, perché non possiamo dimenticare che esiste un principio posto al di sopra di ogni altro nel nostro sistema, ossia quello della sovranità del Parlamento. Per quanto la dialettica istituzionale debba essere tenuta nella migliore considerazione, quando si giunge ad un numero molto elevato di rinvii, forse persino ad un record, che l'attuale Presidente della Repubblica ha totalizzato, quando si giunge ad una così insistita volontà di interferire con l'iniziativa parlamentare e l'approvazione delle leggi, forse vi è qualcosa che non funziona; peraltro non è detto che, se non funziona qualcosa, ciò dipenda dal modo con il quale il legislatore, avvia, approfondisce ed approva le sue riforme. In ogni caso, si tratta sempre di un passaggio molto delicato, che in questa sede è mia intenzione rimarcare, perché non credo sia una buona cosa per la democrazia.
So bene che la previsione costituzionale circa i messaggi presidenziali non contiene un'indicazione relativa ai contenuti che legittimano il Presidente della Repubblica ad intervenire, ma so anche - al pari di tutti - che la prassi costituzionale si è orientata nel senso della necessarietà dell'indicazione di ragioni di costituzionalità come incidenti negativamente sui provvedimenti approvati dal Parlamento. Per la verità, nelle occasioni che più da vicino ho potuto studiare ed approfondire - mi riferisco al provvedimento di riforma dell'ordinamento giudiziario
ed alla legge Gasparri - francamente mi è stato un po' difficile trovare ragioni di carattere realmente costituzionale poste a fondamento dei messaggi al Parlamento. Oggi devo fare la medesima affermazione riguardo a ciò che, secondo il messaggio presidenziale, dovrebbe indurre il legislatore ad assumere una diversa posizione. Anzi, vi è da dire qualcosa in più rispetto a ciò che è avvenuto nel passato. In passato erano investiti di problematiche di costituzionalità motivi essenzialmente di merito, che, quindi, appartengono all'esclusivo compito del Parlamento, nelle valutazioni relative alla scelta di una direzione anziché di un'altra. Invece, questa volta si è ritenuto di far capo a ragioni di costituzionalità le quali, una dopo l'altra, risultano, secondo la mia valutazione, assolutamente infondate.
Già è stato detto molto sul problema dell'inappellabilità delle sentenze di assoluzione. Lo ha fatto, da par suo, l'onorevole Bertolini e, pertanto, non ripeterò le regioni per le quali, anche da parte mia, vi è un'assoluta non condivisione della posizione assunta dal Presidente della Repubblica, con il suo messaggio che, tra l'altro, reca, in un punto (mi riferisco a quanto scritto a pagina 3) la dimostrazione che si tratta di un appunto «riciclato» in termini di messaggio piuttosto che di un affermazione attribuibile originariamente alla persona del Presidente della Repubblica stesso.
Mi ha colpito molto, ad esempio - poiché ne parliamo in termini di costituzionalità, oggi, dopo la riforma dell'articolo 111 della Costituzione - il richiamo all'incidenza dell'inappellabilità delle sentenze di assoluzione sui tempi dei processi. Francamente, non ho capito come l'eliminazione di un grado di giudizio che, nella normalità dei casi, determina la pendenza di processi dai tre ai cinque anni, a seconda della situazione delle diverse corti d'appello italiane, possa incidere sui tempi dei processi, se non in una direzione, ossia quella di abbreviare moltissimo tali tempi.
Quanto al problema della parità tra accusa e difesa, non vorrei ripetere argomentazioni già bene illustrate dai colleghi, bensì fare una sintesi delle ragioni che sottendono tale principio, anche sulla base delle sentenze della Corte costituzionale puntualmente citate.
È stato già ricordato, giustamente, che l'articolo 111 della Costituzione fa menzione del principio della parità tra accusa e difesa solamente nella disposizione che si riferisce allo svolgimento di attività probatorie nel contraddittorio delle parti, davanti ad un organo giurisdizionale. Tale menzione non è senza rilievo, perché sta a significare che - così come si è sempre fatto in dottrina - dobbiamo distinguere gli atti di carattere processuale, che non incidono sullo svolgimento del processo sotto il profilo delle attività di impulso processuale, rispetto a quelli che di impulso processuale non sono. È evidente che la parità delle armi non possa che riguardare situazioni non concernenti le attività di impulso processuale. Tale parità tra accusa e difesa non vi può essere, per la elementare ragione che il pubblico ministero è il titolare del potere costituzionale di esercizio dell'azione penale, cui il cittadino è semplicemente assoggettato. Per questa elementare ragione, non vi è possibilità di discutere della parità delle armi con riferimento a tutto quanto ruota attorno all'attività di impulso processuale, come accade quando si tratta di legiferare attorno ai poteri di impugnazione del pubblico ministero.
Nel messaggio presidenziale vi è un riferimento assolutamente eccentrico rispetto alle ragioni che si sarebbero volute rappresentare come fonte di incostituzionalità della normativa approvata dal Parlamento; dunque, a mio giudizio, è una situazione che avrebbe dovuto essere e dovrebbe essere nella sostanza assolutamente respinta.
La medesima considerazione va svolta per quanto concerne il problema della presunta trasformazione della Corte di cassazione in organo di giurisdizione di merito per effetto della circostanza che, accanto ai motivi di impugnazione oggi previsti dal codice di procedura penale, se ne aggiungono altri che più direttamente incidono sul tessuto della motivazione e che, quindi, abilitano la Corte di
cassazione ad entrare anche in tale delicato settore. Il Presidente della Repubblica ha ravvisato in ciò ragioni di incostituzionalità.
Francamente, ritengo che una norma costituzionale debba essere ricordata in tutte le sue articolazioni, non soltanto con riferimento a quelle che fanno comodo. Nel messaggio presidenziale si fa richiamo alla Corte di cassazione come organo garante del controllo sulla legittimità delle sentenze in relazione alla denunzia di vizi di legittimità. Bastava leggere il comma precedente dell'articolo 111 della Costituzione per rendersi conto che quella norma prevede per il giudice l'obbligo (quindi, un obbligo non derivante da legge ordinaria, bensì dalla Costituzione!) di motivare i suoi provvedimenti, siano questi ultimi provvedimenti sulla libertà personale o sentenze.
Credo che nessuno possa affermare il contrario rispetto all'esigenza che quella norma debba essere rispettata e che la sua violazione si traduca, certamente, in violazione di legge, esattamente come risulta dal comma successivo dell'articolo 111 della Costituzione. Pertanto, anche sotto questo profilo, ritengo assolutamente plateale l'inadeguatezza dei motivi addotti nel messaggio presidenziale. Al riguardo, vorrei tra l'altro, ricordare un'altra cosa.
Fino al 1989, abbiamo avuto un sistema che disciplinava la Corte di cassazione grosso modo nei termini in cui avverrà per effetto dell'approvazione di questa legge da parte del Parlamento italiano. Mai nessuno si è posto il problema della costituzionalità di quei poteri affidati alla Corte di cassazione. Ciò senza dire, signor Presidente, onorevoli colleghi, che forse sarebbe stato il caso di rammentare come ci sia un collegamento tra il rafforzamento dei poteri della Corte di cassazione, come garante anche di una reale motivazione delle sentenze dei nostri giudici, e l'inappellabilità delle sentenze prevista da questo provvedimento legislativo.
È evidente, infatti, che proprio di fronte al fatto che non si è ritenuto adeguato giudicare nuovamente una persona assolta in primo grado da parte di un altro giudice di merito, dovrà essere più penetrante l'intervento della Corte di cassazione. Quindi, si tratta di ragioni non condivisibili che debbono indurre questo legislatore ad andare avanti per la sua strada.
Nonostante ciò, com'è stato ricordato, il messaggio presidenziale è stato preso come spunto e come occasione, piuttosto che come causa, per perfezionare ulteriormente il testo legislativo originario. Spesso, infatti, i testi recano la sofferenza del loro percorso e la violenza delle contrapposizioni e, quindi, non sempre essi sono perfetti e, comunque, sono sempre perfettibili.
Credo che con il testo che viene presentato all'Assemblea siano stati corretti alcuni aspetti che, comunque, a prescindere dal messaggio presidenziale, avrebbero potuto esserlo anche in precedenza.
Rammento, in particolare, per quanto concerne la questione dei poteri della suprema Corte di cassazione, l'esigenza di indicare con puntualità gli atti dai quali si trae la ragione della denunzia del vizio di motivazione, che razionalizza indiscutibilmente la disposizione contenuta nel testo di partenza.
Ricordo, inoltre, come è stato già fatto, il richiamo alla sopravvenienza di elementi di prova. Mi auguro, ovviamente, che essi siano legati ad un'assoluta decisività, altrimenti la norma si potrebbe prestare ad una certa strumentalizzazione.
Per quanto riguarda il presupposto e il limite unico di appellabilità delle sentenze di assoluzione, richiamo, altresì, i miglioramenti apportati nelle disposizioni transitorie.
Signor Presidente, onorevoli colleghi, credo che questa normativa, che mi auguro quanto prima possa diventare legge dello Stato, rappresenti - lo dico con molta convinzione - la migliore legge che sia stata licenziata dal Parlamento in questa legislatura. Si tratta, secondo la mia valutazione, di una vera e propria svolta storica, che dobbiamo a chi l'ha sostenuta con tanta forza e con tanta maestria. Mi riferisco al presidente della Commissione giustizia, onorevole Gaetano
Pecorella, che ha profuso tutto il suo impegno per portare avanti questa riforma nel migliore dei modi.
Credo, nonostante possa sembrare una legge fatta «a mosaico», che vi sia persino un filo conduttore unitario. Non casualmente, lo ha ricordato l'onorevole Bertolini, il Presidente della Repubblica non ha censurato la disposizione, secondo me centrale, relativa alla ragionevolezza del dubbio in ordine alla possibilità di pervenire alla condanna di un cittadino.
Ebbene, credo che non avendo il Presidente della Repubblica preso in considerazione tale punto affidi il suo messaggio ad una contraddizione di fondo. Infatti, proprio la ragionevolezza del dubbio sulla responsabilità di un imputato spiega - è stato già detto - l'inappellabilità delle sentenze di assoluzione e spiega anche un altro frammento di questa normativa che va rammentato e che il Presidente della Repubblica non ha censurato. Mi riferisco all'obbligo dell'archiviazione degli atti da parte di un pubblico ministero il quale si trovi di fronte ad una Corte di cassazione che ha escluso, in sede di applicazione dei provvedimenti cautelari, l'esistenza di una fattispecie indiziaria meritevole di questa denominazione secondo il codice di procedura penale. Dunque, vi è un costrutto assolutamente coerente e capace di dare una vera e propria svolta al nostro sistema processuale penale.
Signor Presidente, signori della corte... Onorevoli colleghi, scusate il lapsus...
PRESIDENTE. Onorevole Taormina, quale migliore corte che l'aula del Parlamento?
CARLO TAORMINA. Questo è vero, Presidente.
Vorrei ricordare un punto importante che stavo prima esaminando insieme al presidente Pecorella. Ho un documento, datato 2 marzo 2005, che proviene dall'Associazione nazionale magistrati, movimento per la giustizia: si tratta, notoriamente, della parte estrema, quasi extraparlamentare, rispetto all'organizzazione correntizia della magistratura, organizzazione correntizia recentemente riconosciuta dal presidente Marvulli in sede di inaugurazione dell'anno giudiziario, quindi ne possiamo parlare finalmente in maniera assolutamente chiara.
Vorrei che rimanesse agli atti del Parlamento, come sta accadendo, quanto è scritto in questo documento: «Per quanto riguarda la giurisdizione penale (...) la naturale premessa riguarda la constatazione, non nuova né recente, che l'intero sistema delle impugnazioni rivela l'esigenza di una pronta riforma». Sentite in cosa deve consistere la riforma: «Infatti, alla contraddizione derivante dalla subordinazione della sentenza di primo grado, frutto di un giudizio fortemente partecipato secondo lo schema del principio accusatorio, ad un giudizio di appello puramente cartaceo e formale, si accompagna l'astrattezza di un giudizio di legittimità ispirato alla tutela dell'uniformità dell'applicazione del diritto, il cui sindacato è limitato all'interpretazione della norma ed alla valutazione della mera struttura logica della sentenza impugnata. Si pone l'interrogativo se l'uniformità del diritto così concepita, come nomofilachia ossia come funzione astratta e paralegislativa, non si traduca in un'insufficienza del giudizio. Se, cioè, in un moderno sistema processuale la corretta ed uniforme applicazione della norma debba essere rimessa all'interpretazione astratta, - lasciando fuori dal sindacato di legittimità il travisamento del fatto, o se, invece, non debba essere desunta in ogni caso dalla valutazione del fatto, secondo le esigenze di accertamento e di regolamentazione che da esso promanano. Si tratta, in altri termini, di avvicinare il ruolo della Corte di cassazione» - e qui sta la rivoluzione della legge Pecorella - «a quello della Corte suprema di tipo anglosassone, sciogliendo finalmente il dilemma che Nello Nappi» - dev'essere un magistrato, altrimenti non verrebbe citato con tanta pomposità - «ha posto nella sua relazione all'ultima assemblea della Corte (...). Dal diverso assetto e dal differente orientamento della funzione ordinamentale dell'istituto deriverebbe un'azione più efficace e penetrante nel
processo, che ne risulterebbe razionalizzato e quindi potenziato nella capacità di accertamento e di valutazione, senza pregiudizio per la nomofilachia, perché nel migliorato approccio al fatto la Corte troverebbe la legittimazione alla sua giurisprudenza».
Signor Presidente, onorevoli colleghi, ho citato questo documento perché credo sia una sorta di fotografia dello spirito e della filosofia del provvedimento che prendiamo in esame dopo il messaggio presidenziale. In queste ore dobbiamo prendere atto che da parte della magistratura c'è una sorta di rivolta rispetto a questa legge e dobbiamo dire che tale rivolta è pretestuosa e preconcetta.
Infatti, in tempi assolutamente non suscettibili di alcuna perplessità, dal punto di vista della sincerità nella formazione dei propri convincimenti e nella loro espressione all'esterno, la magistratura, la più recalcitrante a qualsiasi ordine costituito, si è pronunciata esattamente nei termini in cui si sta nuovamente per pronunciare il Parlamento.
Ha ragione il ministro Castelli, quando afferma che la posizione della magistratura è una posizione assolutamente oltranzista, che non ha alcun punto di equilibrio e di osservazione dei fatti su cui il legislatore si sofferma.
Mi auguro, dunque, che l'iter del provvedimento possa modificarne solo alcuni aspetti lasciando integri gli elementi, le strutture portanti, i «paletti», che la norma rappresenterà sicuramente per l'intera legislazione processuale penale.
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Anedda. Ne ha facoltà.
GIAN FRANCO ANEDDA. Signor Presidente, dico subito che il Presidente della Repubblica, nel rinviare alle Camere con un messaggio la proposta di legge approvata, ha agito nell'ambito pieno e rigoroso dei poteri che la Costituzione gli attribuisce. La Costituzione, infatti, non circoscrive la possibilità dei rilievi a questioni di mera costituzionalità, ma implicitamente afferma che i rilievi possono riguardare anche questioni di opportunità, che sono rimesse alla completa discrezionalità del Presidente della Repubblica.
Ma se si tratta di valutazioni, ed in particolare di valutazioni di opportunità e quindi di opinioni, legittime certo ma in quanto tali opinabili, non vi è mancanza di rispetto nel contrapporre all'alta e dotta opinione - tale per la personalità di chi la esprime - l'altra, per definizione meno dotta, di un modesto avvocato di provincia quale io sono. Intendo discutere, e questa è la ragione per cui mi sono iscritto a parlare in sede di discussione generale, il merito del messaggio presidenziale, per esprimere sommessamente il mio dissenso dai contenuti.
Per anticipare la conclusione, affermo che ero e rimango convinto che il Parlamento dovrebbe confermare senza modifiche il testo già approvato, per due generali motivi: per riaffermare con la forza dei fatti la centralità del Parlamento e la sovranità piena nel legiferare, perché le motivazioni del rinvio sono intrise di manifeste imprecisioni che, con altri termini, potrebbero essere definite travisamento di fatti. Preso atto che il messaggio ha natura squisitamente politica e poco tecnica, ha prevalso la scelta di opportunità politica: evitare che la riapprovazione apparisse una immotivata contrapposizione al Capo dello Stato e non - come sarebbe - una meditata valutazione sui profili tecnico-giuridici della legge.
La proposta in esame ripropone in sostanza il testo, ma con alcune modifiche che accolgono i rilievi del Capo dello stato, affinché nessuno in buona fede possa dire che non si è tenuto conto delle osservazioni del Capo dello Stato e perché nessuno in buona fede possa dire che vi erano o permangono rilievi di presunta incostituzionalità.
Il punto centrale, vorrei dire il vero e solo motivo del rinvio, la critica di fondo, non attiene al principio dell'inappellabilità delle sentenze. Il rilievo è avanzato dal signor Presidente della Repubblica in termini quasi incidentali, con riferimento ad una presunta asimmetria tra l'accusa e la difesa, anche perché, come è stato di
recente ricordato, questa modifica venne auspicata da una parte della magistratura.
Il rilievo, in particolare, attiene alla modifica dell'articolo 606 del codice di procedura penale, nella lettera d) del primo comma, laddove si parla di possibilità del ricorso per mancata assunzione di una prova decisiva, e nella lettera e) dello stesso primo comma, che sopprime l'improvvido inciso che limita le censure al caso di mancata o manifesta illogicità della motivazione nella sola ipotesi che il vizio denunciato risulti dal testo del provvedimento impugnato (in sostanza, si tratta di un motivo di ricorso per la sola singolare ipotesi, in cui uno sprovveduto estensore della sentenza contraddica se stesso).
Si legge nel messaggio che dalle modifiche previste discenderebbe l'obbligo della Cassazione del controllo di legalità non della sentenza, bensì dell'intero processo, il che, come risulta nel messaggio, provocherà un insostenibile aggravio di lavoro, con allungamento certo dei tempi del processo.
Il Presidente della Repubblica ha ritenuto che l'ampliamento delle ipotesi del ricorso per Cassazione abbia un effetto inflattivo superiore a quello deflattivo risultante dalla soppressione dell'appello delle sentenze di proscioglimento.
Il Capo dello Stato sposa, quindi, la tesi secondo cui la crisi della giustizia in senso sostanziale e processuale può essere risolta soltanto con il ridurre il lavoro dei magistrati, con l'allontanare i cittadini dalla giustizia e con il rendere difficile l'accesso alla giurisdizione.
Esprimo ancora una volta il mio assoluto dissenso da siffatto modo di intendere l'amministrazione della giustizia.
È facile replicare che il testo proposto riprende il codice abrogato, che consentiva senza limiti, perché in violazione della legge processuale, ogni censura per la mancanza, l'insufficienza, la contraddittorietà della motivazione. È bene ricordare in questa occasione che, vigente quel codice, una sezione della Cassazione, la prima, in pochi mesi, pronunziando sentenze insigni si sbarazzò di un arretrato di anni, senza gridare all'insostenibile aggravio del lavoro.
Inoltre, l'allungamento dei tempi processuali non è l'automatica conseguenza del carico di lavoro. I tempi si allungano soltanto con riguardo all'intensità lavorativa con la quale l'eventuale aggravio viene affrontato.
Non è scritto da alcuna parte che la Cassazione sia solo giudice di legalità della sentenza e non, invece, giudice della legalità dell'intero processo.
La sentenza è il frutto, è la conclusione del processo, e proprio l'articolo 111 della Costituzione - tanto spesso invocato - impone che i provvedimenti giudiziari debbano essere motivati esaurientemente e non con motivazioni apparenti, e non vi può essere controllo della motivazione senza il controllo della rispondenza della stessa alle risultanze del processo.
È vero invece l'assunto - che solo a pronunciarlo appare eresia o bestemmia - che i giudici mal sopportano il controllo del loro lavoro. Ne fanno fede le ingiustificate proteste per alcune norme del nuovo ordinamento giudiziario. Oggi, il giudice di merito, il giudice dell'appello, può scrivere ciò che gli garba perché nessuno, nemmeno la Cassazione, che volentieri si è sottratta al compito, può effettuare alcuna verifica. Talché, se il giudice non ha tenuto conto e non si è occupato nella sentenza di una prova d'alibi che scagiona l'imputato, la Cassazione, dinanzi alla denuncia del vizio, replica affermando che non è suo compito esaminare o controllare gli atti processuali, con tanti cari saluti alla giustizia sostanziale.
Soggiunge il messaggio che verrebbe meno la funzione della VII sezione della Cassazione - la sezione filtro, istituita nel marzo del 2001 -, che avrebbe consentito in questi anni una decisiva economia delle risorse esaminando e dichiarando l'inammissibilità del 45 per cento dei ricorsi. Senonché, così come riferì alla Commissione giustizia sua eccellenza il Primo Presidente della Corte nel marzo del 2003, le inammissibilità dichiarate dalla VII sezione riguardano macroscopiche irregolarità
formali che nulla hanno a che vedere, salvo casi eclatanti, con il controllo della motivazione.
La nota del messaggio è quindi frutto di inesatta informazione e, di conseguenza, non pare pertinente affermare che il sistema determina violazione nel suo complesso del principio della ragionevole durata del processo.
Il rilievo presidenziale ha inoltre colpito la modifica dell'articolo 606 del codice di procedura penale riferita alla mancata assunzione di una prova decisiva. La modifica obbliga la Corte - si legge sempre nel messaggio - al controllo del fascicolo processuale e, in ogni caso di asserita decisività, di qualsiasi prova non ammessa.
Ancora una volta il rilievo non appare puntuale, perché la censura è prevista nel testo oggi in vigore con riferimento alla mancata assunzione di una prova decisiva già ammessa e la modifica si limita ad estendere l'esame dell'ammissibilità della prova, sempre decisiva, se richiesta.
Il rilievo in ordine alla disciplina transitoria trascura il fatto che, se nelle norme processuali il tempo regola l'efficacia dell'atto, una normazione diversa avrebbe determinato una incongrua ed ingiusta disparità di trattamento in ordine ai procedimenti in corso, creando un duplice e confuso binario di interpretazione e di applicazione.
E il richiamo alla presunta disparità di trattamento tra il pubblico ministero e l'imputato, proprio per la diversa natura dei soggetti interessati, non appare coerente con il sistema, tanto che è stato già criticato da eminenti costituzionalisti. D'altra parte, per rendersene conto è sufficiente rileggere lo studio sull'ordinamento giudiziario italiano redatto e pubblicato sul sito del Consiglio superiore della magistratura, che traccia il profilo del pubblico ministero italiano.
Il messaggio del Capo dello Stato, pubblicamente ringraziato dal Primo Presidente nel discorso di inaugurazione dell'anno giudiziario, rappresenta una non comprensibile acquiescenza a mere istanze corporative comunque vestite e trascura il dato di fondo: la Cassazione è l'organo di controllo della logica del giudice nel suo giudicare.
Senza controllo sull'uso della logica, ancorata alle risultanze processuali, essa è ridotta a verifica cartolare ed il controllo viene meno. Scompare, in sostanza, la motivazione, cioè l'unica, vera, effettiva, efficiente e reale garanzia per il cittadino (Applausi dei deputati dei gruppi di Alleanza Nazionale e di Forza Italia).
PRESIDENTE. È iscritta a parlare l'onorevole Lucidi. Ne ha facoltà.
MARCELLA LUCIDI. Signor Presidente, onorevole sottosegretario, colleghi, torniamo a discutere in questa aula di un provvedimento che i Democratici di sinistra non condividevano ieri, prima che fosse approvato dal Parlamento, e continuano a non condividere oggi. Resta infatti immutato il nostro giudizio negativo sul complesso di queste disposizioni, che affrontano solo parzialmente e male l'esigenza di riscrivere il nostro processo penale, quel processo che ormai non ha più coerenza e delude nei tempi e nelle procedure l'attesa di giustizia, che coinvolge l'imputato ed interessa tutti i cittadini.
Giustamente, il primo presidente Marvulli ha detto che il codice del 1989, nato come ambizioso progetto di rito accusatorio, è ormai un relitto in disarmo sulle cui ceneri si è costruito, attraverso reiterati interventi normativi, un sistema che ha il pregio di rendere meno funzionale l'amministrazione della giustizia.
Avvertiamo tutti l'esigenza di riformare il sistema di gravame delle sentenze, un sistema che svaluta l'importanza del giudizio di primo grado, il contraddittorio che si realizza in quella fase, che si svolge nel vivo di una dinamica che il giudice segue direttamente, in forza della quale assume e motiva la propria decisione.
Abbiamo contezza di quanto sia necessario garantire sempre e comunque il diritto di difesa, le esigenze del giusto processo e della sua ragionevole durata, ma tutto questo meritava che fosse seguita un'altra strada, che non rovesciasse sulla
Corte di cassazione il peso dei problemi irrisolti, costringendo quel giudice a cambiare la propria funzione, a sopperire a debite esigenze di accertamento, che altrimenti resterebbero non evase, a caricarsi di un dovere di indagine che gli nega la propria posizione apicale, residuale, di giudice di legittimità.
Il Presidente della Repubblica non ha promulgato la legge e ha chiesto nel merito una nuova deliberazione. Condividiamo i rilievi contenuti nel messaggio di rinvio alle Camere. Il principio dell'inappellabilità delle sentenze di proscioglimento, che dà il titolo a questo provvedimento, è un pezzo di stoffa nuova cucito su un abito vecchio. Quel principio ci convince, ha buone ragioni per entrare nell'ordinamento, ma non può metterlo a soqquadro.
È innegabile che per valutazioni o circostanze diverse oggi il processo può chiudersi con un esito favorevole all'imputato e che non possa farsi confusione, come il codice non fa, tra una sentenza di non doversi procedere, anche per estinzione del reato, ed una sentenza di assoluzione. Pur non condividendo la formula introdotta all'articolo 5 di questo provvedimento, che colloca la sentenza di condanna al di là di ogni ragionevole dubbio, crediamo che a maggior ragione, stante questa disposizione, il limite dell'inappellabilità delle sentenze di proscioglimento dovrebbe considerare quanto è avvenuto in primo grado, per non trascurare il ruolo processuale che svolgono tutte le parti coinvolte: l'accusa, la difesa e, in particolare - come ha ricordato il Presidente della Repubblica -, la vittima del reato costituitasi parte civile.
È tema che meriterebbe una specifica riflessione, quello del posto che nel processo penale è dato alle vittime dei reati. Vi è bisogno di una maggiore razionalità del sistema, razionalità che meglio andrebbe curata nel rapporto tra giudicato penale, che risponde alla pretesa punitiva pubblica e giudizio civile, che risponde alla pretesa risarcitoria privata. Avete invece ritoccato la questione senza darle il giusto rilievo che meriterebbe e che, a nostro avviso, solo una rivisitazione complessiva delle norme processuali penali consentirebbe.
Ciò che soprattutto ribadiamo con la forza dei rilievi sollevati dal Presidente della Repubblica è il danno evidente che questo provvedimento reca alle competenze della Corte di cassazione; danno che non si sana attraverso gli emendamenti che sono stati accolti in Commissione. Da anni la riflessione giuridica si sofferma sulla necessità di una corrispondenza dell'attività della Corte con la sua funzione nomofilattica, con il suo ruolo di assicurare l'esatta osservanza e l'uniforme interpretazione della legge. Queste norme spingono la Corte di cassazione verso una crisi irreversibile.
Quanto ai casi di ricorso di cui all'articolo 606 del codice di procedura penale, quegli emendamenti non restituiscono alla Suprema corte la sua funzione unica di controllo della legalità della sentenza, essi continuano a chiedere alla Corte di cassazione di guardare alla legittimità dell'intero processo. Mi soffermo sulla lettera d) che avete riformulato. Noi sappiamo che quanto alla mancata assunzione di una prova decisiva si prevede una prognosi postuma sul carattere di quella prova, la sua decisività, appunto, che impone un confronto fra quanto è scritto nel provvedimento impugnato e quanto sarebbe potuto dipendere da quella prova. Il richiamo agli articoli 507 e 603, comma 2, del codice di procedura penale estende quella prognosi a tutte le prove richieste dalla parte, in ogni fase, anche a quelle prove sopravvenute e scoperte dopo il giudizio di primo grado, che consentirebbero, o avrebbero consentito, all'imputato e al pubblico ministero - questo scrivete nel testo - di proporre appello contro le sentenze di proscioglimento. È una norma sbagliata, sulla quale vi invitiamo a riflettere. Così, quanto alla lettera e), è vero che questa norma si richiama ad un vizio che risulta dal testo del provvedimento impugnato, ma si associano ad esso anche gli altri atti del processo specificamente indicati nei motivi di gravame, che teoricamente potrebbero essere tutti gli atti del
processo. Si conferma, quindi, la necessità che la Corte di cassazione spieghi un'indagine di merito.
Nessuna considerazione hanno avuto i condivisibili richiami a considerare anche gli effetti dell'articolo 4, relativo all'impugnazione della sentenza di non luogo a procedere, e dell'articolo 9, relativo alle norme transitorie, quanto all'efficienza del processo e alla sua ragionevole durata. Il diritto di difesa, che come sostiene la relatrice, dovrebbe prevalere su questi due principi, perché c'è bisogno che le sentenze siano giuste, diventa un diritto inesigibile. Ridotti con altre leggi i tempi di prescrizione dei processi, resta solo da rallentarne lo svolgimento perché essi non si celebrino. È una logica deflativa molto originale, ma anche molto ingiusta, perché continuerà a squalificare la funzione giurisdizionale, investendo ora anche l'organo supremo della giustizia. Su questa Corte ricadrebbe un onere di lavoro non più gestibile attraverso la cosiddetta sezione filtro, non certo attraverso un organico limitato, ideato per un più ristretto ambito di valutazione, con indubbie conseguenze quanto all'accumulo di arretrati e alle lungaggini procedurali.
Quel che più ci sconvolge è la leggerezza con cui avete considerato gli effetti che produrrà la norma transitoria. Resta confermato che l'appello già proposto contro una sentenza di proscioglimento si converte in ricorso per Cassazione. Tutto ciò che è stato osservato in relazione a questa disposizione e che ha evidenziato il Presidente della Repubblica non conta! L'unica vostra modifica concerne il termine certo dato alla parte ricorrente per presentare nuovi motivi. Ma lo capite cosa provocherà questa norma, che sfugge ai principi generali, motivo per il quale avete dovuto esplicitarla? Cosa significherà lo spostamento di fascicoli, di carte, dalle corti d'appello verso Roma? Quale lavoro si imporrà alle cancellerie? Quali difficoltà organizzative si incontreranno? Quali disagi si produrranno? Quanto sarà compromessa la possibilità di rispondere in tempi certi ad un'istanza, l'unica che residua, di definizione processuale?
So che vi è sgradito sentirvi dire che quella in esame è, come tante altre, una legge ad personam. Sfortuna vuole per voi che tante coincidenze abbiano legato le vicende processuali di noti personaggi alle modifiche del codice penale e processuale. Capita a tutti gli avvocati, ai giudici e alle parti di cogliere attraverso i processi i limiti del sistema penale o civile. Non neghiamo che questi limiti debbano essere considerati a prescindere dal caso concreto in cui emergono e dal vantaggio che una persona può trarne. Colleghi, quel che non possiamo accettare è che per voi il fine, che è sempre particolare, giustifica sempre i mezzi e che, inoltre, non mostrate alcun interesse per le distorsioni che producete.
Avremmo potuto confrontarci meglio su una riforma delle impugnazioni, sul principio della inappellabilità delle sentenze di proscioglimento, sulla legittimità e la coerenza del grado di appello anche nei riguardi del condannato, su come rafforzare il primo grado a tutto vantaggio della celerità del sistema di gravame, nonché su come mantenere ed anzi migliorare l'attività del giudice di legittimità e, recentemente, su come accogliere le osservazioni fatte dal Presidente della Repubblica. Questi, con equilibrio, ha inteso ricondurci sul binario del diritto e dei principi costituzionali. Ha dato eco alle giuste preoccupazioni del Primo Presidente della Corte di cassazione, Nicola Marvulli, nonché del Presidente del consiglio di amministrazione della Rete dei presidenti delle corti supreme giudiziarie dell'Unione europea.
In Commissione giustizia abbiamo colto le perplessità che giungono dalle file della maggioranza. Il tenore degli emendamenti proposti dall'UDC è il segno di una condivisione ideale delle nostre obiezioni e della validità delle osservazioni del Quirinale. Ma quanta timidezza prevale in un gioco delle parti che alla fine mette tutto a tacere perché prevalga non il superiore interesse del cittadino, ma quello della maggioranza. Una maggioranza che in questi anni ha scritto due codici: quello riservato ai forti e quello riservato ai deboli. I primi escono dalle maglie della
giustizia, da quello che il Presidente del Consiglio dei ministri ha definito un girone infernale; i secondi vi restano. Per i primi si aprono le porte dell'impunità, per i secondi quelle del carcere.
L'anno giudiziario è stato inaugurato con una forte preoccupazione per gli esiti di scelte legislative che non hanno affrontato la crisi strutturale della giustizia e la sua insostenibile lentezza, che esasperano un garantismo senza tutele contro i processi e contro la certezza della pena.
Tra i provvedimenti che portano il segno negativo vi è quello in esame. E le modifiche modeste non possono essere soddisfacenti e non bastano a cambiare quel segno.
Resta un giudizio negativo, che ci imporrà di rimettere mano alle norme in esame, certamente attraverso un ragionamento complessivo che stabilisca un percorso processuale giusto, dal primo grado fino all'ultimo: per questo ci impegneremo (Applausi dei deputati del gruppo dei Democratici di sinistra-L'Ulivo)!
PRESIDENTE. Non vi sono altri iscritti a parlare e pertanto dichiaro chiusa la discussione sulle linee generali.
PRESIDENTE. Ha facoltà di replicare il relatore, onorevole Bertolini.
ISABELLA BERTOLINI, Relatore. Rinuncio alla replica, signor Presidente.
PRESIDENTE. Ha facoltà di replicare il rappresentante del Governo.
GIUSEPPE VALENTINO, Sottosegretario di Stato per la giustizia. Signor Presidente, anch'io rinuncio alla replica.
PRESIDENTE. Sta bene.
PRESIDENTE. Avverto che sono state presentate le questioni sospensive Mantini ed altri n. 1 e Finocchiaro ed altri n. 2 (vedi l'allegato A - A.C. 4604-C sezione 2), nonché le questioni pregiudiziali per motivi di costituzionalità Zaccaria ed altri n. 1 e Finocchiaro ed altri n. 2 (vedi l'allegato A - A.C. 4604-C sezione 1), che saranno discusse e votate in altra seduta.
Il seguito del dibattito è rinviato ad altra seduta.
La seduta, sospesa alle 13, è ripresa alle 15,35.
PRESIDENTE. Comunico che, ai sensi dell'articolo 46, comma 2, del regolamento, il deputato Valentino è in missione a decorrere dalla ripresa pomeridiana della seduta.
Pertanto i deputati complessivamente in missione sono cinquantasette, come risulta dall'elenco che è depositato presso la Presidenza e che sarà allegato al resoconto della seduta odierna.
PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca la discussione del disegno di legge: Conversione in legge del decreto-legge 10 gennaio 2006, n. 4, recante misure urgenti in materia di organizzazione e funzionamento della pubblica amministrazione.
Ricordo che nella seduta del 19 gennaio 2006 è stata respinta la questione pregiudiziale Amici ed altri n. 1.
PRESIDENTE. Dichiaro aperta la discussione sulle linee generali.
Avverto che il presidente del gruppo parlamentare dei Democratici di sinistra-L'Ulivo ne ha chiesto l'ampliamento senza limitazioni nelle iscrizioni a parlare, ai sensi dell'articolo 83, comma 2, del regolamento.
Avverto, altresì, che la I Commissione (Affari costituzionali) si intende autorizzata a riferire oralmente.
La relatrice, onorevole Mazzoni, ha facoltà di svolgere la relazione.
ERMINIA MAZZONI, Relatore. Signor Presidente, il decreto-legge in discussione reca norme eterogenee, tutte riconducibili nell'alveo dell'organizzazione amministrativa dello Stato e di enti pubblici nazionali ed affronta questioni rilevanti ed urgenti relative a settori nevralgici dell'attività di Governo quali i trasporti, l'energia e i diritti civili. In particolare, si apre con la disciplina di una procedura che istituzionalizza le iniziative di semplificazione e di qualità della regolazione attraverso l'istituzione di un comitato interministeriale di indirizzo, normativa di particolare importanza per la sua finalità volta ad esaltare i già lusinghieri risultati ottenuti nella direzione della maggiore efficienza della pubblica amministrazione e di una riduzione della distanza tra amministrazione e cittadini.
Seguono norme di organizzazione di alcuni uffici della pubblica amministrazione e di altri soggetti pubblici, con misure volte alla razionalizzazione dell'uso delle risorse umane. In particolare, fanno riferimento a questi argomenti gli articoli 2, 3, 4, 5, 9, 10, 11, 12, 13, 14, 15, 16, 19 e 25. Si lavora, in questi articoli, sulla trasparenza delle procedure di nomina di figure apicali, sulla riduzione del precariato, sulla valorizzazione delle funzioni, sulla definizione di posizioni di ruolo in considerazione delle mansioni e sull'adeguamento di strutture tecniche alle mutate competenze. Qualificante è l'intervento in materia di pari opportunità, per la quale si prevedono interventi di settore tendenti a fissare l'importanza sociale di tali politiche e a farle uscire dall'ambito delle politiche di genere. Di tale materia si occupano gli articoli 6, 7 e 26. In particolare, gli articoli 6 e 7, norme di «sensibilità», recano disposizioni di semplificazione e di giustizia in materia di accertamenti sanitari per le persone affette da gravi disabilità, prevedendo, altresì, disposizioni speciali per i docenti con figli affetti da disabilità e misure in materia di accesso al lavoro dei disabili. Al riguardo, ricordo, comunque, che è in discussione oggi in Assemblea il disegno di legge di conversione del decreto-legge n. 250 del 2005 che reca una modificazione con integrazioni proprio della norma modificata con il presente articolo.
L'articolo 26, invece, si occupa di chiarire che gli oneri derivanti dall'istituzione dell'ufficio di controllo e di garanzia della parità di trattamento sono da rinvenire esclusivamente nella disponibilità dell'autorizzazione di spesa già prevista nel capitolo relativo. Importante è anche la previsione della trasformazione del comitato per il microcredito per l'anno 2005 in comitato permanente, considerata la qualità dei risultati raggiunti da questo comitato nell'anno e la delicatezza del settore nel quale interviene. La tutela, in questo campo, ha una grande rilevanza socio-economica in quanto si fa carico di una debolezza del sistema creditizio che incide fortemente sulla tenuta del tessuto imprenditoriale del nostro paese e sui livelli di povertà a livello mondiale. La permanenza di un simile struttura è un forte segnale di attenzione da parte del Governo nei confronti dei piccoli e medi imprenditori nonché delle problematiche connesse allo sviluppo dei paesi meno avanzati, in quanto lo strumento del microcredito è divenuto uno dei più importanti nell'attività di cooperazione internazionale.
Misure delicate di palese urgenza recano, poi, gli articoli 17, 20, 24, 30 e 31. Con l'articolo 17 si istituisce un sistema di
monitoraggio e controllo inerente la circolazione stradale, con la previsione di un meccanismo di controllo integrato in tutti i sistemi di trasporto. L'articolo 24 definisce, demandandole ad una intesa in sede di Conferenza unificata, le procedure di nomina dei presidenti delle autorità portuali, allo scopo di realizzare la massima concertazione possibile, nel rispetto delle competenze, in un settore di rilevanza nazionale. L'articolo 30 implementa le funzioni delle capitanerie di porto-Guardia costiera con l'adeguamento della componente aeronavale. Con l'articolo 31 si stabilisce il metodo della definitiva chiusura delle posizioni creditorie e debitorie connesse alla copertura del disavanzo delle ferrovie concesse in ex gestione commissariale governativa.
Tornando all'articolo 18, esso rivede il sistema di utilizzazione e sfruttamento economico delle opere cinematografiche, con un intento di promozione della nostra cultura, affidando la gestione dei diritti relativi alla Cinecittà holding Spa.
L'articolo 20 prevede misure di contenimento dei prezzi dell'energia e delle tariffe pubbliche con la finalità di tutelare il potere di acquisto delle famiglie, così come previsto nel documento di programmazione economico-finanziaria, in un momento di criticità che impone scelte di politica energetica coraggiose.
L'articolo 21 del provvedimento, nel testo del Governo, consente alla Stretto di Messina Spa di poter svolgere in Italia e all'estero, quale impresa di diritto comune, attività di individuazione, progettazione, promozione, realizzazione e gestione di infrastrutture di trasporti e di opere connesse, nonché di fornire assistenza tecnica alle pubbliche amministrazioni per l'appalto di infrastrutture di trasporti quale organismo di diritto pubblico. Questa disposizione è stata modificata nel corso dell'esame in sede referente con l'approvazione di un emendamento che recepiva, fra l'altro, un'osservazione formulata dalla VIII Commissione volta ad escludere la possibilità, per la predetta società, di operare come impresa di diritto comune sul territorio italiano.
Con l'articolo 22 si introducono due distinte disposizioni, l'una riguardante i magistrati ordinari, l'altra il rinnovo del Consiglio superiore della magistratura; anche tale articolo è stato modificato durante l'esame condotto in sede referente dalla I Commissione. Il primo comma, nel testo del Governo, prevedeva che, ai fini del conferimento di incarichi direttivi e semidirettivi, il Consiglio superiore della magistratura dovesse valutare anche lo svolgimento da parte dei magistrati ordinari, per almeno due anni, degli incarichi di capo e vicecapo degli uffici di diretta collaborazione con i ministri, nonché degli incarichi di capo o vicecapo di Dipartimento ovvero di direzione generale, anche presso la Presidenza del Consiglio dei ministri. Tale disposizione, come ho riferito, è stata modificata dalla Commissione che ha soppresso il limite di durata di almeno due anni degli incarichi ai fini della loro valutazione per il conferimento di incarichi direttivi e semidirettivi ed ha incluso le commissioni di concorso tra i soggetti cui spetta la valutazione di tali incarichi; analoga modifica è stata apportata al secondo comma, che reca una norma di carattere transitorio.
La Commissione ha poi introdotto un nuovo comma, il 2-bis, prevedendo che le funzioni di sostituto procuratore nazionale antimafia siano equiparate alle funzioni requirenti di legittimità quale titolo preferenziale, a parità di graduatoria, per il conferimento degli incarichi direttivi previsti dall'articolo 2, comma 1, lettera h), n. 14 della legge di riforma dell'ordinamento giudiziario.
Il comma 3 dell'articolo 22 è stato interamente sostituito nel corso dell'esame condotto in Commissione. Nel testo iniziale, tale disposizione era volta a prevedere che i magistrati componenti elettivi del Consiglio superiore della magistratura in scadenza nel 2006, una volta scaduto l'incarico, fossero ricollocati in ruolo nell'ufficio di provenienza ovvero, a domanda, in altro posto libero presso il quale non fosse stata avviata la procedura di copertura, con esclusione di qualunque incarico direttivo. La norma, secondo
quanto dichiarato dal Governo nella relazione introduttiva al disegno di legge di conversione, si sarebbe resa necessaria a causa dell'entrata in vigore nel 2006 della riforma dell'ordinamento giudiziario. La Commissione non ha condiviso tale impostazione volta a differenziare la normativa applicabile agli attuali componenti togati del Consiglio superiore della magistratura ed ha ritenuto più opportuno modificare a regime la normativa vigente recata dal citato articolo 30 del decreto del Presidente della Repubblica 16 settembre 1958, n. 916. Quest'ultima prevede attualmente che, prima che siano trascorsi due anni dal giorno in cui ha cessato di far parte del Consiglio superiore della magistratura, il magistrato non possa essere nominato ad ufficio direttivo o semidirettivo diverso da quello eventualmente ricoperto prima dell'elezione o nuovamente collocato fuori del ruolo organico; ebbene, si è ridotto tale limite temporale da due anni e sei mesi.
L'articolo 23 mira a far fronte alla carenza di figure professionali idonee allo svolgimento delle funzioni di coadiutore notarile, prevedendo che le stesse possano essere svolte anche dai dirigenti dell'amministrazione degli archivi notarili cessati dal servizio d'ufficio o a domanda, che abbiano svolto per almeno venti anni, di cui almeno dieci nella qualifica dirigenziale, le funzioni di conservatore.
L'articolo 27 prevede l'assegnazione di un contributo straordinario a favore del Comitato atlantico italiano; si tratta di un organismo che, esistente in tutti i paesi della NATO, svolge attività a supporto degli ideali e delle finalità dell'Alleanza: è quindi importante sostenere tale Comitato.
L'articolo 28 reca una autorizzazione di spesa per il finanziamento delle attività istituzionali dell'Istituto per lo sviluppo e la formazione professionale dei lavoratori ed ha carattere di urgenza in quanto il finanziamento è indispensabile al funzionamento dell'Istituto stesso.
L'articolo 29 modifica l'articolo 12 del decreto legislativo n. 367 del 1996, concernente la composizione dei consigli di amministrazione delle fondazioni lirico-sinfoniche.
L'articolo 32 proroga al 31 dicembre 2006 il termine già previsto dall'articolo 8, comma 5, del decreto del Presidente della Repubblica 2 marzo 2004, n. 117, limitatamente alle richieste di emissione della Carta nazionale dei servizi da parte di cittadini non residenti nei comuni in cui è diffusa la Carta d'identità elettronica. Il termine infatti è scaduto, in quanto il citato comma 5 prevede che la procedura possa essere realizzata non oltre il 31 dicembre 2005.
L'articolo 33 dispone un'assegnazione di fondi, per l'anno 2006, per il finanziamento della prosecuzione dei lavori per la realizzazione del Centro per la documentazione e valorizzazione delle arti contemporanee.
L'articolo 34 introduce disposizioni volte a garantire una più efficiente ed efficace gestione delle procedure per la determinazione ed il recupero del danno ambientale, oggi frazionate tra varie direzioni generali. A tal fine, la norma unifica la complessiva gestione e lo sviluppo dei sistemi informativi e statistici, ivi compresi quelli cartografici, utilizzati dalle altre strutture ministeriali, con le correlate attività di studio e di ricerca, in modo da realizzare, all'interno del Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio, un unico e coordinato centro di imputazione strutturale di competenze, attualmente gestite tra più centri.
L'articolo 35 concerne, infine, l'entrata in vigore del decreto-legge.
Oltre alle modificazioni che ho illustrato, preciso all'Assemblea che la Commissione, nel corso dell'esame in sede referente, ha apportato al decreto-legge una serie di modifiche, volte a recepire sia le condizioni espresse nel parere della V Commissione (Bilancio), sia alcuni rilievi formulati dal Comitato per la legislazione. Altre modificazioni, inoltre, hanno riguardato il coordinamento formale del testo.
Signor Presidente, in conclusione, chiedo che la Presidenza autorizzi la pubblicazione in calce al resoconto della seduta odierna del testo integrale della mia relazione.
PRESIDENTE. Onorevole Mazzoni, la Presidenza lo consente, sulla base dei criteri costantemente seguiti.
Ha facoltà di parlare il rappresentante del Governo.
LEARCO SAPORITO, Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei ministri. Signor Presidente, mi riservo di intervenire in sede di replica, per formulare alcune osservazioni.
PRESIDENTE. Sta bene, signor sottosegretario.
È iscritto a parlare l'onorevole Rugghia. Ne ha facoltà.
ANTONIO RUGGHIA. Signor Presidente, eccoci, dunque, alle prese con uno di quei provvedimenti che il Parlamento voterà oltre la data del 29 gennaio, che il Governo stesso aveva indicato come termine di scioglimento delle Camere; ma il Presidente del Consiglio, al motto di «Lasciateci lavorare!», ha chiesto un'ulteriore proroga, per approvare leggi di grande importanza per gli interessi del paese!
Leggendo il contenuto dell'atto Camera n. 6259 (Conversione in legge del decreto-legge 10 gennaio 2006, n. 4, recante misure urgenti in materia di organizzazione e funzionamento della pubblica amministrazione), non si ha, per la verità, l'impressione di trovarsi di fronte ad un provvedimento di rilevante importanza per la nazione, per la pubblica amministrazione e per i cittadini (che hanno interesse ad ottenere servizi pubblici efficienti).
In buona sostanza, potevamo benissimo risparmiarci questo decreto-legge, poiché si tratta dell'ennesimo decreto omnibus presentato nel corso dell'attuale legislatura. Tale provvedimento investe settori disparati, e neppure del tutto attinenti alla pubblica amministrazione.
Vorrei segnalare che abbiamo già avuto modo di contestare, attraverso la questione pregiudiziale presentata dall'opposizione, il decreto-legge che ci chiedete di convertire. Esso, infatti, è stato approvato dal Governo in contrasto con i principi stabiliti dalla legge n. 400 del 1988 (violando il criterio di omogeneità, essenziale per i decreti-legge), nonché in assenza del requisito dell'urgenza, richiesto dall'articolo 77 della Costituzione.
È evidente, allora, che non sono né gli interessi della pubblica amministrazione, né quelli dei cittadini (né, tantomeno, è l'esigenza di buongoverno) ad avere motivato l'adozione del decreto-legge in esame. Tale provvedimento, infatti, al pari degli altri che discuteremo in queste due settimane di «saldi di fine legislatura», è stato concepito a favore di qualche clientela e degli interessi di bottega delle forze politiche di maggioranza, nel vano tentativo di risalire la china del consenso elettorale.
Si tratta, comunque, di un consenso che non aumenta, nonostante l'occupazione di tutti i programmi della televisione e della radio da parte del Presidente del Consiglio, il quale, imperterrito, malgrado l'alto richiamo del Presidente Ciampi, userà questi giorni di proroga dell'attività parlamentare per rinviare la par condicio elettorale, che sarebbe entrata in vigore con lo scioglimento delle Camere.
Ricordo che, ieri, l'onorevole Follini ha spiegato il motivo per cui gli alleati non abbiano concesso a Berlusconi la modifica della par condicio, da lui cocciutamente perseguita: si sarebbe trattato di un colossale monumento al conflitto d'interessi. Con il sistema elettorale proporzionale, infatti - con le «tre punte» -, anche i fedeli alleati diventano competitori. Essi sono preoccupati delle scorribande del premier su ogni canale radiotelevisivo, ed allora si diventa sensibili al tema del rispetto delle regole, delle garanzie e degli equilibri istituzionali molto più di quanto non lo si sia stati per tutta la durata della legislatura.
Comunque, se le Camere fossero state sciolte il 29 gennaio, nessuno avrebbe rimpianto la mancata conversione del decreto-legge in esame.
Passando al merito, riteniamo che questo provvedimento non si giustifichi, perché non ha requisiti di urgenza e perché non è utile al fine del miglior funzionamento della pubblica amministrazione. Come per il cosiddetto «mille proroghe»
o per il cosiddetto «taglia-spese», invece di usare gli strumenti ordinari, si sceglie la decretazione d'urgenza senza rispettare le prerogative del Parlamento e forzando, per l'ennesima volta, l'autonomia dei comuni, delle province e delle regioni, come se non fosse bastato, a tal fine, ciò che avete fatto con l'ultima legge finanziaria.
Dov'è l'urgenza che spinge il Governo e la maggioranza a varare un decreto-legge per costituire, all'articolo 1, un comitato interministeriale di indirizzo e guida strategica delle politiche di semplificazione? L'unica urgenza ravvisabile consiste nella nomina dei componenti di un nuovo organismo che potrà avvalersi di un altro organismo, la commissione per la semplificazione, introdotta nell'ordinamento sempre attraverso un decreto-legge, il n. 35 del 14 marzo 2005, che fissava in venti unità il numero dei componenti della commissione stessa. Troppo pochi, evidentemente! Eravamo distanti, più distanti di oggi dal clima elettorale. Ed ecco, allora, l'urgenza, in termini di semplificazione, dell'articolo 1 del decreto-legge che stiamo esaminando: portare da venti a trenta il numero dei dirigenti della commissione per la semplificazione ed istituire un nuovo comitato per la semplificazione, specificando che i componenti dei due organismi dureranno in carica tre anni, ma verranno nominati ora. Immaginiamo che tutto questo sforzo sia stato prodotto, naturalmente, per semplificare la vita al nuovo Governo che verrà scelto dagli italiani, evitandogli la complicazione di fare nomine e procedere ad incarichi!
Sempre all'articolo 1, al comma 9, si avverte il pressante bisogno di dare vita ad un altro comitato, questo per la verifica consuntiva dell'attività di Governo, con riguardo agli obiettivi del programma nello scorso finale della legislatura, nonché per l'implementazione del programma del nuovo Governo che verrà formato all'esito delle prossime elezioni. Quindi, a legislatura conclusa, il ministro per l'attuazione del programma di Governo procederà alla nomina dei componenti del comitato, ma non si capisce come farà tale comitato a verificare in tempo il programma dell'ormai trascorsa legislatura. Esso certamente potrà sempre implementare il programma del nuovo Governo, che non avrà scampo: dovrà avvalersi di tale comitato tecnico, a sua volta assistito dalla relativa segreteria tecnica. Considerate che la nomina di tale organismo è così urgente che la disciplina, la modalità di organizzazione ed il funzionamento del medesimo vengono demandati ad un altro, successivo decreto del Presidente del Consiglio dei ministri! È comunque massimamente urgente - si giustifica con ciò il ricorso allo strumento della decretazione d'urgenza - fissare, intanto, il numero dei componenti, con relativa spesa, e procedere alla nomina!
Sempre per contestare il ricorso al requisito d'urgenza, ci sembra incredibile che lo stesso possa ravvisarsi negli articoli 2, 3, 9, 16, 21 e 29 del provvedimento in esame.
Nella fattispecie prevista dall'articolo 2, si ampliano e si rendono più flessibili i criteri per la scelta del dirigente amministrativo della Scuola superiore della pubblica amministrazione. Non vorremmo che l'urgenza fosse determinata solo dalla volontà di confezionare un «abito su misura» per qualcuno, considerando che tale posto è attualmente vacante.
All'articolo 3 è previsto l'inquadramento in ruolo del personale in posizione di comando e fuori ruolo.
Con l'articolo 9 viene istituita una banca dati, peraltro volontaria ed eventuale, del personale in mobilità, presso il Dipartimento della funzione pubblica.
L'articolo 16 interviene in merito all'affidamento di mansioni superiori ai funzionari apicali per l'assolvimento delle funzioni dirigenziali.
L'articolo 21 amplia l'attività della società Stretto di Messina.
L'articolo 29 concede alle fondazioni lirico-sinfoniche l'opportunità di ampliare il numero dei componenti dei relativi consigli di amministrazione.
Ripeto, dov'è, in questi casi, l'urgenza che giustifica l'emanazione di un decreto-legge? È evidente che tali disposizioni, a
prescindere dal merito, hanno carattere ordinamentale e dovevano, quindi, essere regolamentate con gli ordinari strumenti legislativi. O, forse, era così indilazionabile istituire, con l'articolo 17, un sistema di controllo e monitoraggio delle informazioni inerenti la sicurezza e la regolarità della circolazione stradale, ferme restando le competenze del Dipartimento della protezione civile, nonché quelle del Ministero dell'interno?
A seguito delle osservazioni del Comitato per la legislazione, questa impellente necessità è diventata ancora più cogente: infatti, diventa facoltativa, ferme restando anche le funzioni di coordinamento, che vengono assegnate al Centro di coordinamento informazioni sulla sicurezza stradale (CCISS). Alla fine, dunque, si sono accorti che già c'è chi deve occuparsi della vicenda.
Insomma, con tutta urgenza, si esamina un decreto-legge sottoposto all'esame del Parlamento per la conversione in legge, prevedendo tante cose che si «possono» fare, e non che si «debbono» fare. Si decreta l'urgenza di ciò che opinabile: come si vede, siamo alla metafisica!
Nello stesso tempo, si duplicano funzioni, gettando via risorse, inutilmente per gli interessi del paese, ma utilmente per qualche mancia elettorale.
Un Governo così poco rispettoso e rigoroso nel gestire dipartimenti e ministeri si conferma, invece, inflessibile, anche con questo decreto-legge, quando si tratta di autonomie locali, tradendo un'ossessione maniacale contro i comuni, le province e le regioni.
Con l'articolo 4, ad esempio, si persegue dichiaratamente l'obiettivo di limitare il ricorso ad ogni forma di assunzione a tempo determinato, comprese quelle più flessibili, quali i contratti di collaborazione coordinata e continuativa. La furia centralista fa perdere all'esecutivo lucidità e razionalità. Attraverso questa norma, anche per tutte le assunzioni di personale precario, gli enti locali dovranno prima essere autorizzati dal dipartimento della funzione pubblica: immaginiamo che si creeranno non pochi danni alla gestione dei servizi.
Mi chiedo: i signori del Governo e della maggioranza si sono già dimenticati che, poco più di un mese fa, con la legge finanziaria per il 2006, ai fini del concorso al perseguimento degli obiettivi di finanza pubblica, è stato già fissato per le regioni, gli enti locali e le ASL il tetto di spesa per il personale, che non può superare, per ciascuno degli anni 2006, 2007 e 2008, l'ammontare dell'anno 2004, diminuito dell'1 per cento?
Per la prima volta, nel tetto previsto vanno conteggiate anche le spese per tutto il personale assunto a tempo determinato con contratti di collaborazione coordinata e continuativa e per coloro che prestano servizio con qualsiasi forma di rapporto di lavoro flessibile o con convenzioni.
Una volta stabilito tutto ciò (con nostro sommo disgusto!), a che serve sindacare sulle diverse forme di assunzioni, che sono state ridotte al lumicino, con gravi ripercussioni sulla qualità dei servizi per i cittadini? Perché tanto inutile accanimento?
A proposito dei contratti di collaborazione: a che serve l'articolo 13 di questo decreto-legge, quando, già con l'articolo 4, ne avete stabilito la regolamentazione? Abbiamo capito che volete ridurre l'utilizzo, che considerate eccessivo, delle collaborazioni coordinate e continuative nelle pubbliche amministrazioni: negli anni dal 2001 al 2004, si è passati da 63.243 a 206.451 contratti.
Con le ultime leggi finanziarie e anche con il cosiddetto decreto «tagliaspese», con tutta evidenza, avete manifestato la volontà di tagliare decine di migliaia di posti di lavoro, con riferimento a giovani che svolgono prestazioni di grande qualità e professionalità, utili a mantenere alto ed efficiente il livello dei servizi offerti ai cittadini. Tuttavia, dire la stessa cosa con due articoli dello stesso decreto-legge è veramente troppo! Allora, come si giustifica tutta la retorica sulla legge n. 30 del 2003 con le scelte che state consumando
per impedire il ricorso ad ogni forma di lavoro flessibile nella pubblica amministrazione?
Con l'articolo 12, sulla proroga delle assunzioni autorizzate, il Governo sembra compiere un atto di magnanimità, escludendo dal blocco delle assunzioni quelle già autorizzate alle amministrazioni dello Stato, agli enti locali e alle ASL, consentendone il completamento nel corso dell'anno 2006, secondo modalità e criteri individuati nei decreti autorizzativi. In realtà, il Governo copre solo una sua inadempienza.
È bene ribadire, infatti, che gli enti locali e le ASL da oltre un anno aspettano dal Governo l'emanazione dei decreti attuativi per assumere personale autorizzato. Invece dei decreti attuativi, sicuramente più utili, arriva il meno utile decreto di proroga.
La motivazione di quanto previsto dall'articolo 15 circa la durata degli incarichi dirigenziali è imperscrutabile. Probabilmente, in un decreto-legge sul funzionamento della pubblica amministrazione non si poteva non parlare degli incarichi dirigenziali.
Il passo avanti che oggi si compie è assolutamente decisivo... Se prima per le diverse fasce di dirigenti era stabilito che la durata degli incarichi non poteva eccedere il termine di tre anni e quello di cinque anni, oggi, finalmente, si afferma che non può essere inferiore a tre anni, né eccedere il termine dei cinque anni. Ecco a cosa serve un decreto-legge!
Signor Presidente, signor rappresentante del Governo, anche con questo decreto-legge appare chiaro che per voi i veri nemici dei conti pubblici sono i dipendenti pubblici e, tra questi, soprattutto quelli di comuni, province e regioni. Con la finanziaria, che non abbiamo neppure potuto discutere, perché l'avete blindata con il ricorso alla questione di fiducia, il sistema delle autonomie viene colpito con un taglio reale del 10 per cento per il 2006 rispetto al 2004.
Si colpiscono ingiustamente gli enti che hanno contribuito in modo attivo allo sforzo di risanamento finanziario, pur subendo le conseguenze del ciclo economico. Infatti, hanno subito i rincari dei beni e dei servizi (si pensi soprattutto al costo dell'energia), oltre ad aver rispettato il patto di stabilità.
I tagli incidono soprattutto sul personale. Tradotto in cifre, il limite del tetto di spesa (meno 1 per cento sul 2004 per il 2006) significa che smetteranno di lavorare 74 mila persone. E 42 mila collaboratori e lavoratori con contratto a tempo determinato smetteranno di prestare la loro opera lavorativa ad enti locali e regioni.
Il mancato rispetto dei limiti - recita la finanziaria - costituisce illecito disciplinare e determina responsabilità erariale. Quindi, appaiono del tutto ridicole le ulteriori disposizioni a carico dei comuni per la limitazione delle assunzioni e sul monitoraggio, introdotte con questo decreto.
Mancano anche i soldi per il rinnovo dei contratti per il biennio 2006-2007. Viene bloccata la contrattazione integrativa e vengono tagliati del 10 per cento gli straordinari e le indennità.
Come è facile immaginare, il taglio sul personale e il blocco delle assunzioni a tempo determinato e indeterminato avranno gravi ripercussioni sui servizi degli enti locali, delle ASL e delle regioni. Gli enti locali, attraverso i propri dipendenti, consentono ai bambini di andare negli asili e nelle scuole materne, garantiscono il trasporto pubblico locale, la viabilità, l'organizzazione dello smaltimento dei rifiuti, la valorizzazione delle risorse idriche ed energetiche, la tutela dell'ambiente, la gestione dei parchi e dei beni culturali, le attività sportive e ricreative, l'assistenza agli anziani e ai disabili, concorrono a mantenere sicure le città e tanto altro ancora.
Per voi, invece, i dipendenti degli enti locali rappresentano solo un pericoloso centro di spesa, da limitare e tenere sotto controllo.
Molte delle funzioni che ho elencato vengono garantite con il ricorso ai contratti di collaborazione coordinata e continuativa, che con questo decreto volete
ridurre drasticamente. Un recente studio di Bankitalia effettuato su migliaia di aziende ha rilevato che su quattro contratti di collaborazione coordinata e continuativa solo uno è stato trasformato, dopo i termini fissati dalla legge n. 30 del 2003, in contratto di programma. Su 25 contratti di collaborazione, solo uno è stato trasformato in assunzione a tempo indeterminato.
Se, inoltre, verrà attuata la vostra volontà di ridurre queste forme di lavoro nella pubblica amministrazione e nelle autonomie locali in maniera così drastica, diventerà del tutto inutile la legislazione sulla flessibilità del lavoro e risulterà del tutto chiaro che avete agitato, solo in funzione propagandistica, il tema del lavoro flessibile e del lavoro precario.
Voi vedete con grande preoccupazione - c'è scritto nella relazione che accompagna il decreto-legge - il fatto che dal 2001 al 2004 nella pubblica amministrazione le collaborazioni coordinate e continuative siano aumentate di 150 mila unità: ma non siete voi quelli della legge Biagi?
Come è noto, abbiamo contestato con convinzione e determinazione la legge n. 30 del 2003 perché non garantisce dignità e diritti ai giovani lavoratori e non dà sbocchi alle forme di lavoro parziale. Tuttavia, se c'è un posto dove la flessibilità non deve necessariamente coniugarsi con la precarietà, quello è la pubblica amministrazione, sono gli enti locali. Qui i giovani possono seguire percorsi formativi idonei a costruire professionalità, utili al loro futuro ed alla gestione dei servizi pubblici: tutto il contrario, insomma, di quello che proponete il con il decreto-legge in esame.
Bloccare il personale degli enti locali significa anche impedire lo sviluppo del paese, restringere in modo drastico le risorse per servizi essenziali e, anziché concorrere alla competitività della nazione, ridurre il livello di attività economica. È utile, non dannoso, sbloccare le assunzioni, favorire l'affermazione di una nuova leva di quadri e dirigenti nel sistema delle autonomie.
Come ho cercato di motivare, abbiamo, rispetto alla vostra, un'idea diametralmente opposta sull'organizzazione, il funzionamento ed il ruolo che la pubblica amministrazione deve svolgere negli interessi della nazione. Questo provvedimento conferma le scelte che avete compiuto in tutta la legislatura con il ritorno al centralismo esasperato, negando la riforma costituzionale che assegna pari dignità a comuni, province, regioni, Stato. Avete impedito ai comuni di esercitare la funzione amministrativa riconosciuta dall'articolo 118 della Costituzione. Avete scaricato sulla pubblica amministrazione e sul sistema delle autonomie gli effetti negativi delle vostre scelte sbagliate di politica economica che hanno peggiorato i conti pubblici, bloccato lo sviluppo, aumentato l'iniquità sociale.
Questo decreto-legge è del tutto coerente con tutto ciò che di negativo avete fatto in questi anni: per tale motivo voteremo contro la sua conversione in legge (Applausi dei deputati del gruppo dei Democratici di sinistra-L'Ulivo).
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Zaccaria. Ne ha facoltà.
ROBERTO ZACCARIA. Signor Presidente, intervengo anch'io sul disegno di legge di conversione del decreto-legge 10 gennaio 2006, n. 4, recante misure urgenti in materia di organizzazione e funzionamento della pubblica amministrazione. Questo è il titolo apparente, l'oggetto principale; in realtà, vi sono tante altre cose, come vedremo, in questo testo.
Intervengo per segnalare ancora una volta numerose anomalie contenute nel provvedimento in esame. Mi riconosco in molte delle considerazioni svolte dal collega Rugghia, anche se mi soffermerò più sugli aspetti riguardanti il contenitore che il contenuto: potrebbe essere uno sforzo inutile, dato che siamo alla fine del legislatura.
Eravamo stati abituati, per una sorta di convenzione silenziosa ma rigidamente osservata, ad esaminare provvedimenti di questo tipo in seconda lettura alla Camera.
Oggi, invece, questo decreto-legge è stranamente alla Camera in prima lettura, per cui lo esaminiamo nella versione presentataci dal Governo. Vorrei dire, ma non me la sento, che lo esaminiamo senza quegli interventi a cascata di solito effettuati dal Senato sui decreto-legge in virtù dei diversi canoni interpretativi. Per la verità, in questo caso l'operazione di supplenza vi è stata ugualmente, quindi il testo ne esce fortemente articolato.
Probabilmente, esaminiamo questo testo in prima lettura alla Camera perché al Senato sono in discussione altri decreti-legge dai contenuti estremamente indeterminati. Ne cito soltanto alcuni: il decreto-legge n. 271 del 2005, recante proroga dei termini in materia di efficacia di nuove disposizioni che modificano il processo civile; il decreto-legge n. 273 del 2005, recante definizione e proroga di termini, nonché conseguenti disposizioni urgenti; il decreto-legge n. 2 del 2006, recante interventi urgenti per il settore dell'agricoltura, dell'agroindustria, della pesca, nonché in materia di fiscalità di impresa.
Probabilmente nell'altra Camera si è preferito discutere in prima battuta quei decreti che, più di una volta, sono stati definiti omnibus (termine che sta diventando «nobile» alla luce dell'esperienza che abbiamo di fronte), al fine di poter approvare emendamenti, una sorta di vagoni che si aggiungono ad un treno mentre è in viaggio. Questo tipo di trapianto, di aggiunta che si adatta alle esigenze del momento, è favorito da un vaglio di ammissibilità decisamente meno restrittivo di quello che si opera alla Camera.
Tuttavia, queste considerazioni non devono indurre a pensare che il decreto in esame sia esente da vizi di eterogeneità e di mancanza dei requisiti di necessità e di urgenza, che caratterizzano in maniera lampante i decreti di cui ho parlato poco fa e che in genere hanno quel tipo di corsia preferenziale.
Con i termini «misure urgenti in materia di organizzazione e funzionamento della pubblica amministrazione» si utilizza un artificio letterario in virtù del quale sembra individuarsi - ripeto, sembra individuarsi - un oggetto determinato, mentre in realtà le norme non sono sempre, direi quasi mai, attinenti alla presunta materia del decreto stesso. La materia dell'organizzazione amministrativa è un riferimento assai generico. Infatti, si potrebbero citare una serie di materie che da questa si discostano profondamente. Sono già state richiamate le norme in materia di semplificazione, le disposizioni in materia di energia elettrica, di autorità portuali, di fondazioni lirico sinfoniche, di pari opportunità, di cinema. Abbiamo sentito che la relatrice, per contenere in termini ragionevoli il proprio intervento, ha dovuto fare un excursus di dimensioni enormi.
Inoltre, ancora una volta, il testo del decreto-legge risulta privo dei presupposti di necessità e d'urgenza, come dimostrano le numerose disposizioni aventi carattere ordinamentale, quali quelle di cui agli articoli 1, 19, 22 e 24. Tali disposizioni non giustificano l'urgenza che caratterizza il disegno di legge di conversione e, anche se può apparire inutile in questa fase della legislatura, è il caso di richiamare ancora una volta l'articolo 77 della Costituzione, che certamente non ha disegnato questo modello, e in seconda battuta l'articolo 15, comma 2, della legge n. 400 del 1988, norma ritenuta alla base dell'ordinato impiego della decretazione d'urgenza e quindi da osservare rigorosamente, come ha sottolineato il Presidente Ciampi in uno dei suoi sette (forse sei) rinvii alla Camera in questa legislatura.
Essendo ormai sul finire della legislatura, è più che mai interessante una sorta di riepilogo delle tendenze generali riguardanti i decreti-legge, su cui si sono concentrati gli studi degli uffici della Camera. Cito per tutti il «Rapporto sullo stato della legislazione 2004-2005», aggiornato al luglio 2005. È interessante notare che tali rapporti sono oggetto di studio molto approfondito al di fuori della Camera dei deputati, nelle università, nei luoghi di ricerca; non mi pare che analoga attenzione - e ciò naturalmente mi dispiace - abbiano in questo luogo. Un dato assai preoccupante risulta essere l'incidenza percentuale delle leggi di conversione sul
totale della produzione legislativa che, al 29 maggio 2005, risultava del 32,6 per cento. Ciò significa che se si escludono gli altri interventi normativi vincolati come le ratifiche e le leggi comunitarie, le quali restano preponderanti, l'attività del Parlamento è per un terzo concentrata esclusivamente sulla conversione di decreti-legge con margini di discussione e di esame assai più ristretti rispetto a quelli che potrebbero aversi nel normale procedimento legislativo.
Dati ancora più recenti, rinvenibili direttamente sul sito del Governo e aggiornati al 19 gennaio 2006, mostrano che su 635 disegni di legge di iniziativa governativa, se si escludono le 241 ratifiche, ben 210 sono i decreti-legge a fronte di 184 leggi ordinarie. Quindi, da tale punto di vista, si possono trarre conseguenze oramai definitive ed importanti: in questo scampolo di legislatura, di questi 210 decreti-legge ne sono pendenti in Parlamento 12 in corso di approvazione. Tuttavia, come noto, non era questa la motivazione per la posticipazione dello scioglimento, perché l'esame dei disegni di legge di conversione dei decreti-legge può avvenire anche a Camere sciolte.
Una breve panoramica sui contenuti di ciascuno di tali decreti mostra come essi abbiano rafforzato il loro carattere di decreti omnibus; tale termine, un tempo raffinato, oggi potrebbe essere utilizzato in senso peggiorativo, perché, in realtà, è come se fossero dei treni merci che contengono svariate mercanzie, nascendo con il pretesto di aggiustare qua e là situazioni rimaste in sospeso, come affermato poc'anzi.
Non è il caso, quindi, che vi siano ancora provvedimenti come i cosiddetti milleproroghe (in altre circostanze, abbiamo sottolineato che il ritmo con cui si è intervenuti con questi ultimi si è accentuato progressivamente) ed altri dagli argomenti più disparati. Il caso recentemente più eclatante è quello del decreto-legge 30 dicembre 2005, n. 272, recante misure urgenti per garantire la sicurezza ed i finanziamenti alle prossime Olimpiadi invernali, nonché la funzionalità dell'amministrazione dell'interno e disposizioni per favorire il recupero dei tossicodipendenti recidivi (approvato dal Senato). Anche in questo caso, si potrebbero fare battute di un certo tipo sull'abbinamento tra droga ed Olimpiadi, ma non è questa l'intenzione. Certamente, è difficile parlare di omogeneità, ma tale aspetto sarà discusso quando il provvedimento verrà trasmesso alla Camera per essere esaminato.
Esaminando più da vicino il provvedimento in questione, si nota come il tentativo di agganciare numerosi «vagoni» a questo «decreto locomotiva» è stato attuato anche durante l'esame in Commissione. Sono stati presentati numerosi emendamenti dagli ambiti di azione più diversi; quello che più di tutti ha fatto scalpore riguardava la possibilità di regolarizzare i cosiddetti collaboratori dei ministri, da inquadrare nel personale di ruolo delle amministrazioni, senza alcun passaggio concorsuale. I giornali hanno, in modo sprezzante, così titolato: «Promossi 700 portaborse». Certo, se non vogliamo questi titoli, dovremmo comportarci molto diversamente!
Norme come questa, di carattere microsettoriale e localistico, con finalità mirate, sono state inserite anche nel cosiddetto milleproroghe al Senato, sempre nel tentativo di trovare il canale che garantisse la più celere approvazione del provvedimento. Si tratta di una sorta di gara o di emulazione, non so se da considerare in modo positivo o negativo.
L'attività legislativa diventa così incoerente, priva di quei requisiti di generalità e astrattezza che dovrebbero caratterizzare le norme giuridiche, e finisce per appiattirsi sulle cosiddette leggi-fotografia, fatte ad immagine e somiglianza di qualcuno (di esempi, a questo proposito, se ne potrebbero fare, purtroppo, molti).
Non è un caso, quindi, che la gran parte dei decreti-legge approvati fino al dicembre del 2004 abbia avuto finalità di carattere speciale, volte ad introdurre discipline derogatorie o transitorie nei confronti di determinate categorie di soggetti.
Cito ancora, per l'ultima volta, il rapporto 2004-2005 che parla, in questo caso,
di una percentuale addirittura del 36,4 per cento, quindi enorme. I decreti-legge davvero urgenti e conformi al dettato costituzionale sono stati molti di meno, circa il 9,6 per cento. Quindi, è un'eccezione il rispetto della Costituzione.
Esaminando ancora il contenuto del decreto-legge, non si può non citare, come spesso è stato fatto in questi casi, il parere, anche questo già richiamato, del Comitato per la legislazione. In quella sede, si è riscontrata una pessima tecnica di legislazione dovuta non solo ad una sovrapposizione di fonti normative, come più volte abbiamo rilevato, ma addirittura a riferimenti errati ad articoli di norme che sono stati ormai abrogati da legge recenti. È il caso del riferimento all'articolo 18 della legge n. 229 del 2003, abrogato dal decreto legislativo n. 82 del 2005.
Del resto, di fronte ad incroci normativi così complessi tra Camera e Senato, al frequente «cambio di treno» che interviene spesso in questi iter, tutta questa patologia diventa fisiologia.
Sorge allora spontanea una riflessione. Ormai, la sede legislativa si è spostata dalle aule parlamentari alle sedi non governative, come già affermato, burocratiche ed amministrative e risponde a motivazioni sempre più particolaristiche e di nicchia.
Lo stesso sottosegretario Saporito, ha ammesso la complessità - penso che sia un eufemismo - della gestazione del provvedimento che, evidentemente, non risultava chiaro ab origine. A ciò si aggiunge che la fretta di legiferare e di inserire tasselli in un mosaico disordinato di disposizioni normative non aiuta certo la comprensione né l'applicazione successiva delle norme giuridiche, dato che manca del tutto quella coerenza di sistema che dovrebbe essere propria di ciascun ordinamento giuridico. E tutto questo con sommo disprezzo di quei bei discorsi che - ricordo la convocazione degli amministratori locali in una solenne cerimonia - si fanno nei convegni nei quali si parla di semplificazione, di drafting, di impatto sulla legislazione, di analisi tecnico-normativa.
Forse, di fronte ai numeri della maggioranza, tutte queste considerazioni finiscono per essere vuote dichiarazioni di principio. Signor Presidente, si potrebbe almeno chiedere una minore ipocrisia (Applausi dei deputati dei gruppi della Margherita, DL-L'Ulivo e dei Democratici di sinistra-L'Ulivo)?
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Perrotta. Ne ha facoltà.
ALDO PERROTTA. Come sempre, nelle discussioni sulle linee generali vi è una mistificazione della realtà da parte del centrosinistra. In particolare, vengono resi noti dati di cui non si capisce la provenienza o elaborati da centri di studio molto vicini al centrosinistra e, in particolare, ai Democratici di sinistra.
Colgo l'occasione per evidenziare le novità apportate con il presente provvedimento, senza entrare troppo negli aspetti tecnici.
L'articolo 6 prevede alcune semplificazioni per i portatori di handicap; infatti, il Ministero si soffermerà su alcune specifiche visite per accertare la sussistenza di falsi portatori di handicap.
Gli articoli 9 e 12 prevedono la creazione di una banca dati informatica per la mobilità esterna. Occorre ricordare che è possibile passare da un'amministrazione pubblica ad un'altra purché vi sia un posto vacante. Tuttavia, molto spesso, le amministrazioni non effettuano il censimento; dunque, l'istituzione della suddetta banca dati consentirà di conciliare domanda ed offerta. Inoltre, si impone alle amministrazioni l'obbligo del censimento annuale per verificare se vi sia carenza o aumento di pianta organica.
Si è detto da più parti che il Governo avrebbe l'intenzione di licenziare le persone. Ciò non è vero, in quanto l'articolo 14 consente la trasformazione dei contratti di formazione e lavoro già prorogati in contratti a tempo indeterminato, da destinare agli uffici con maggiori carenze di organico.
L'articolo 20 prevede disposizioni urgenti in materia di energia elettrica e gas.
L'articolo 28 autorizza la spesa di 10 milioni di euro per il 2006 per il finanziamento delle attività istituzionali dell'Istituto per lo sviluppo della formazione professionale dei lavoratori (ISFOL) e l'articolo 30 autorizza un contributo annuale di 4 milioni di euro per consentire un migliore pattugliamento alla Guardia costiera. Vi sembrano iniziative sbagliate?
Sto scrivendo un libro sugli sprechi degli enti locali e l'articolo 13 del presente provvedimento disciplina proprio i contratti di collaborazione che gli enti locali possono stipulare purché sussistano alcune condizioni.
Ricordo solo due elementi: la provata competenza e l'impossibilità del comune, della provincia, della regione e dello stesso ministero, di trovare personale interno che abbia quelle specifiche professionalità. Questa è una norma importantissima.
Vorrei citare solo un caso, che si riferisce alle provate competenze degli addetti stampa della segreteria di un presidente della provincia di Roma, Gasbarra: ebbene, nel curriculum non c'era scritto nulla, tranne che si trattava del figlio dell'addetto stampa dell'ufficio di Marrazzo. Vorrei poi ricordare le centinaia di miliardi spesi dall'ottimo - si fa per dire - Bassolino in consulenze e sprechi continui. Vorrei ricordare - mi sembra lo abbia detto il collega che mi ha preceduto - che gli incarichi e le consulenze sono aumentati, nell'ultimo quadriennio, di circa 150 mila unità: in Lombardia di 750 unità, nel Veneto di 312, mentre nelle regioni, nei comuni e nelle province rosse di 150 mila! Ben venga questo articolo, che mira ad evitare questi sprechi, tutelando i cittadini!
Un'ultimissima cosa. La sinistra parla sempre di par condicio, ma vengono dette delle bugie. Vorrei ricordare che questa mattina l'osservatorio di Pavia ha pubblicato dati relativi al 2001: la sinistra, nelle ultime elezioni politiche, ebbe una presenza nelle televisioni pari al 60 per cento. Altro che par condicio!
Sempre a proposito di par condicio, non capisco perché si fa sempre riferimento ai dati relativi alla televisione di Stato e non a quelli delle televisioni regionali, dove c'è il monopolio, per il 90 per cento, della sinistra. Perché questi dati non vengono ritirati fuori? Perché esiste questa bugia di base?
Ci dicono che non dobbiamo adottare decreti omnibus, ma allora chiudiamo la Camera! Anche voi, sul finire della precedente legislatura, avete approvato molti provvedimenti, perché avevate il diritto di concludere il lavoro che avevate iniziato (voi poi avete perso; vediamo se noi riusciamo a vincere). Stiamo facendo le stesse cose che avete fatto voi negli ultimi giorni di lavoro della Camera, ma voi fate come quel prete napoletano, che dice (lo dico in italiano, anche se sarebbe bello sentirlo dire in napoletano): «fai quello che dico io, ma non fare quello che ho fatto io» (Applausi dei deputati dei gruppi di Forza Italia e dell'UDC Unione dei democratici cristiani e dei democratici di centro (CCD-CDU)).
PRESIDENTE. È iscritta a parlare l'onorevole Amici. Ne ha facoltà.
SESA AMICI. Signor Presidente, i colleghi Rugghia e Zaccaria hanno illustrato con argomenti anche di merito il motivo del nostro voto contrario a questo decreto-legge.
Credo sia necessario in questo momento mettere al centro della discussone alcune riflessioni di principio. La verità è che ci troviamo di fronte ad uno di quei provvedimenti che può definirsi di fine legislatura. Si tratta di un decreto-legge eterogeneo, diverso, che contiene alcune norme che contesteremo nel merito con la presentazione di emendamenti durante il prosieguo dell'esame del provvedimento.
In questa fase mi preme ristabilire un dato tutto politico. Vedete cari colleghi, nei giorni scorsi la stampa ha parlato di questo decreto-legge e di quello che è ancora in corso di discussione al Senato - il cosiddetto «mille proroghe» -, dandone un'immagine devastante per la funzionalità stessa delle istituzioni pubbliche, in particolare del Parlamento.
Veda, collega Perrotta, qui esiste un punto che attiene ai profili giuridici e alle
funzioni proprie di uno Stato e delle sue istituzioni. Già a partire dagli anni Novanta, nei procedimenti di formazione legislativa, è avvenuto un passaggio di poteri dal Parlamento all'esecutivo, che si è ritagliato ormai una propria nicchia attraverso la quale passa la sua capacità di governo. Esso adotta in questo modo atti di delegificazione e provvedimenti di carattere preferenziale.
Questo potere, assunto - come dire - verso il potere esecutivo, in questi cinque anni di legislatura del centrodestra sta diventando un vero e proprio elemento disgregante che mette in discussione, non solo la capacità dialettica di tenuta delle istituzioni democratiche, ma anche la possibilità concreta di continuare a svolgere la propria funzione legislativa da parte del Parlamento. Questo è il punto sul quale abbiamo mantenuto profili alti di critica e non è un caso che anche su questo decreto-legge abbiamo presentato una pregiudiziale di costituzionalità.
Lo stupore che si prova nel leggere il contenuto di questo decreto-legge è legato essenzialmente ad uno degli elementi che più dovrebbe preoccupare chi svolge la funzione di legislatore. Non vi è solo quanto riportato dai titoli dei giornali riguardo la stabilizzazione di 700 collaboratori dei viceministri, che già di per sé sarebbe grave sia sul piano politico che sul piano etico (aspetteremo gli emendamenti, ancora in corso di presentazione, e li valuteremo uno per uno attentamente, anche quelli presentati dal Governo), ma la cosa più grave è che tutto ciò avveniva contestualmente alla presentazione di uno studio realizzato dal Censis, il Centro di investimenti di indirizzo sociale, diretto dal professor De Rita. In tale studio si rileva come, nell'ambito del rilancio del paese, si debba mettere in discussione l'idea della pubblica amministrazione e, quindi, di come la funzione dell'istituzione, del Governo e dei suoi poteri, sia oggi percepita dai cittadini e dall'opinione pubblica. Credo che noi dovremmo riflettere con grande attenzione su quello scritto, perché sta avvenendo qualcosa di più profondo legato al fatto del venir meno delle istituzioni, della loro capacità, della loro specifica natura legislativa e ordinamentale, che sta producendo in tutti noi situazioni di grave incuria.
Non si contesta il fatto che si voglia procedere alla stabilizzazione dei contratti dei dirigenti, o mettere insieme a fine legislatura un'ennesima commissione interministeriale, aumentata nelle sue unità; non si discute che la legge di semplificazione debba essere in qualche modo controllata e che ne vadano rilevati gli effetti e la veridicità, bensì ciò che si contesta è che questo accade all'interno di un aumento di unità del tutto legate al potere politico. È questo ciò che avete fatto in questi cinque anni nella pubblica amministrazione! Oggi non c'è più dirigente pubblico che non sia in qualche modo soggetto ad un potere politico eccessivamente discrezionale e la sua figura, la sua capacità di essere uno dei soggetti veri della missione pubblica vengono messe in ginocchio.
Lo abbiamo contestato quando avete approvato la legge sul riordino della Presidenza del Consiglio, quando avete immesso elementi di innovazione nell'articolo 165 e quando come oggi, attraverso alcuni articoli di questo decreto-legge, rimettete mano alle varie forme di mobilità sul lavoro (contratti, comandi, funzioni, incarichi). Ciò che non ci piace è che questo fa venire meno la distinzione netta tra le funzioni di indirizzo, che toccano ai politici, e la responsabilità di chi deve rispondere di un'istituzione pubblica e, proprio per questo, ha una missione che deve attenersi al benessere collettivo di tutti.
Questi sono gli elementi di contenuto politico e strategico per cui noi ci batteremo fino alla fine intorno ad un decreto-legge di cui contestiamo non solo l'urgenza, ma anche il fatto che esso contiene al proprio interno alcune norme che non solo lasciano stupiti, ma indignano. Ne cito uno per tutti (sugli altri interverremo nella discussione sugli emendamenti), l'articolo 34. Questo articolo del decreto-legge prospetta la possibilità e l'urgenza di creare una direzione generale nel Ministero dell'ambiente, che, alla faccia della semplificazione,
sta producendo sulla questione del danno ambientale un articolato che consta più di 700 pagine. Improvvisamente, dopo averci portato gli schemi di Governo, che dovevano ridurre nel proprio ambito, attraverso la razionalizzazione del proprio personale, le unità dirigenti a favore della dirigenza di primo livello, oggi ci parlate di un unico dirigente. Vi sembra una cosa seria?
È questo il modo con il quale si affrontano questioni così importanti? E, poi, si cade, per paradosso, su una buccia di banana! Da qui la nostra grande indignazione!
Nei prossimi giorni, durante l'esame del provvedimento, ci soffermeremo sulle questioni di merito; tuttavia ciò che mi interessa porre in rilievo è che alla fine di questa legislatura - lo possiamo dire come fosse quasi un canto del cigno - è assai singolare ed è una pena per tutti noi pensare che la nostra funzione, che doveva essere quella di governare con responsabilità, stia producendo, sul piano legislativo e normativo, un'idea di politica che non solo non sa separarsi dal governare ma che ridiventa l'unico strumento attraverso il quale si compiono scelte e si piegano le funzioni di responsabilità. Questo è inaccettabile per la dirigenza pubblica, ed è inaccettabile per una buona pubblica amministrazione che, come il sottosegretario Saporito sa bene, rappresenta l'elemento sul quale rinasce il fondamento di uno Stato che, a sua volta, determina certezza del diritto e possibilità di guardare alle nostre istituzioni come a quell'elemento sul quale si fonda l'idea di unità, di sviluppo e di etica pubblica.
Peggiorare la pubblica amministrazione significherebbe, quindi, determinare, ancora una volta, una situazione di stallo e di grave incertezza. Ciò non farebbe bene né all'Italia né alla pubblica amministrazione stessa (Applausi dei deputati del gruppo dei Democratici di sinistra-L'Ulivo).
PRESIDENTE. Non vi sono altri iscritti a parlare e pertanto dichiaro chiusa la discussione sulle linee generali.
PRESIDENTE. Ha facoltà di replicare il relatore, onorevole Mazzoni.
ERMINIA MAZZONI, Relatore. Signor Presidente, rinunzio alla replica.
PRESIDENTE. Ha facoltà di replicare il rappresentante del Governo.
LEARCO SAPORITO, Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei ministri. Signor Presidente, intervengo per dare alcune risposte ai problemi sollevati dai colleghi intervenuti. Nel fornire questi chiarimenti mi limiterò, ovviamente, ad evidenziare gli aspetti politici delle questioni senza entrare nel merito delle stesse.
Del provvedimento in esame si è parlato sia sugli organi di stampa sia con dichiarazioni dell'opposizione, sollevando problematiche che poi, nella realtà, non esistono. Faccio riferimento, ad esempio, alla sistemazione dei cosiddetti portaborse; questione, questa, che non è mai esistita (l'emendamento che la contemplava è stato dichiarato inammissibile). Stesso discorso vale anche riguardo ad altre questioni come, ad esempio, possibili ipotesi di abusi e di peggioramenti apportati alla situazione della pubblica amministrazione.
I precedenti Governi di centrosinistra avevano creato uno schema per il pubblico dipendente, soprattutto per il dirigente, rispetto al quale o questi si allineava oppure era costretto ad andarsene. A questo proposito, faccio notare all'onorevole Amici che l'attuale Governo ha eliminato il ruolo unico della dirigenza nel quale venivano collocati, per così dire, i reietti non allineati: trecento o quattrocento persone che, inserite in questo ruolo unico, versavano in una situazione di mortificazione (alcuni di questi stavano a casa e percepivano mezzo stipendio). Ancora, non siamo stati noi a mortificare i segretari comunali e provinciali, ma siete stati voi, quando eravate al Governo, ad approvare
la norma che ha portato all'istituzione dell'albo dei segretari comunali e provinciali. Albo nel quale attualmente sono inserite 480 persone, tra segretari comunali e provinciali, che hanno il titolo di dirigente ma che sono a casa e non riescono ad essere utilizzati proprio perché il ruolo unico ha fatto sì che ogni presidente di provincia o sindaco possa procedere alla scelta della persona che vuole. In tal modo, tante professionalità sono state mortificate.
L'onorevole Perrotta ha posto in rilievo alcuni aspetti essenziali del provvedimento, che mi piace ricordare perché ritengo abbiano un grande valore morale. Su tali aspetti spererei che l'opposizione si mostrasse d'accordo con noi. Faccio riferimento agli articoli 6 e 7 del provvedimento. Si tratta di due norme che riguardano i portatori di handicap e l'accelerazione delle relative procedure per il riconoscimento dell'invalidità e l'apprestamento delle garanzie previste.
Un'altra norma che al Governo sembra di grande valore sociale - spererei, pertanto, di contare sull'appoggio dell'opposizione - è quella ai sensi della quale i pubblici dipendenti malati di tumore o affetti da patologie stabilizzate possono essere garantiti immediatamente a seguito della decisione della commissione dell'ASL, senza essere costretti ad aspettare altri sette mesi per ottenere il provvedimento dell'INPS (il periodo più drammatico è proprio quello all'indomani dell'accertamento della patologia, per cui c'è bisogno di avere subito quelle garanzie che, sette mesi dopo, non contano niente).
Ricordo anche il provvedimento relativo all'allineamento degli incarichi dirigenziali, che sono resi uguali per tutti (per gli stessi anni). La previsione ha, per così dire, tagliato le unghie al politico: in passato, ma anche nel presente, si erano viste nomine a tre mesi, a sei mesi o ad un anno, secondo antipatie e simpatie (per non dire di altri parametri sulla base dei quali esse venivano attribuite ...).
In occasione dell'esame delle singole disposizioni del decreto-legge risponderò in dettaglio, se vi sarà tempo, a tutte le critiche specifiche che sono state mosse. Ciò premesso, mi pare che siano stati sollevati tre problemi essenziali.
Il primo riguarda i contratti, con riferimento ai quali l'opposizione ci ha accusati di non averli rinnovati. Non l'abbiamo fatto, né abbiamo determinato importi ai fini del rinnovo (ci siamo limitati a stabilire quelli per il periodo di vacanza contrattuale), perché è ormai imminente lo scioglimento delle Camere. Ad un mese e mezzo circa dall'inizio dell'anno, il Governo in carica non poteva arrogarsi la responsabilità di stabilire i contenuti del nuovo contratto e le somme da stanziare al riguardo. Peraltro, poiché per il biennio 2006-2007 il contratto dovrà avere anche contenuto normativo, abbiamo ritenuto che fosse corretto, anche sotto il profilo ordinamentale generale, riservare al nuovo Governo il compito di determinare il contenuto normativo ed economico del nuovo contratto. Naturalmente, speriamo che tale compito tocchi a noi; in ogni caso, siamo stati rispettosi ed abbiamo fatto in modo che il Governo che verrà possa autonomamente determinare le somme che vorrà. D'altra parte, se avessimo stanziato poco, ci avreste criticati; se avessimo stanziato molto, ci avreste criticati ugualmente, bollando le nostre misure come elettoralistiche.
Insomma, per quanto concerne i contratti, sia quelli del comparto sicurezza sia gli altri, ritengo che il Governo sia stato molto corretto nel lasciare al Governo che verrà la responsabilità di fare scelte che attengono alle relazioni sindacali.
Un altro problema che è stato sollevato da molti colleghi è quello della precarietà in cui versano i pubblici dipendenti. Al riguardo, desidero precisare che abbiamo ereditato una situazione che è stata creata dai precedenti tre Governi nella passata legislatura, in particolare dal Governo D'Alema. Se si introducono, come ha fatto il Governo D'Alema, la mobilità dei pubblici dipendenti, la flessibilità, il lavoro interinale, la privatizzazione ed i contratti a termine, è chiaro, chiarissimo che un simile percorso porta
alla precarietà! Quest'ultima, però, sicuramente non è stata voluta dall'attuale Governo, tanto è vero che noi ci siamo sforzati di riordinare, con normative apposite e prevedendo alcuni «paletti», tutti i fattori che creavano instabilità e precarietà per i dipendenti pubblici all'interno di una visione di garanzia del lavoro dei pubblici dipendenti, a prescindere dalla natura, determinata od indeterminata, del contratto di lavoro. Abbiamo dovuto sanare, regolamentare, garantire una situazione che poteva esplodere. L'unica certezza che i pubblici dipendenti avevano era quella della stabilità del posto di lavoro. Ebbene, gliel'avete tolta! Non gliel'abbiamo tolta noi, gliel'ha tolta il Governo D'Alema. Peraltro, ricordo che, nel corso di un incontro, D'Alema si rivolse ai pubblici dipendenti nel seguente modo: cari pubblici dipendenti, sappiate che il contratto pubblico non c'è più e che avrete un contratto privato come tutti gli altri.
L'altro tema è quello del passaggio della potestà di regolazione dal potere legislativo al potere governativo. Abbiamo detto tante volte, in questa sede ed in Commissione, che anche noi notiamo che la maggior parte delle leggi sono di iniziativa governativa e non parlamentare. Perché? Quali sono state le grandi proposte di legge di cui si sono fatti promotori gli amici dell'opposizione? Quali sono stati i tentativi di miglioramento di disegni di legge come quello che stiamo esaminando? Per principio, si è detto che non si doveva cercare alcuna base di dialogo! Certo, anch'io ed il Governo siamo preoccupati per la progressiva assunzione di responsabilità nella regolazione di rapporti importanti (quali quelli riguardanti il pubblico impiego), in mancanza dell'apporto di una parte del Parlamento che non aiuta, che non avvia il dialogo, che non vuole il confronto. Non è una scelta che abbiamo fatto noi, ma una scelta che abbiamo trovato già fatta!
Concludo dicendo che, complessivamente, in questi cinque anni noi siamo intervenuti nella pubblica amministrazione, ma attraverso una cornice di carattere generale.
Abbiamo dato stabilità: non è vero che i pubblici dipendenti e la dirigenza sono ora soggetti al potere politico, assolutamente no!
Anche i dati relativi allo spoil system che voi avete dato, non corrispondono a realtà, perché il fenomeno non è di 4500 dirigenti per la seconda fascia, e di 460 per prima fascia, ma è in linea con quanto avvenuto nella passata legislatura (e Bassanini queste cose le sa benissimo, e chi c'era le ricorda perfettamente). Questo - ripeto - non è avvenuto.
Noi siamo per una pubblica amministrazione indipendente, che sia capace di stimolare e si muova nella serietà più assoluta, tant'è vero che abbiamo detto: «Caro dirigente, noi non ti diamo più un incarico a tre mesi, o sei mesi. Ti diamo tre anni di tempo minimo, e cinque anni massimo, durante i quali tu devi dimostrare di poter portare avanti i progetti che noi ti affidiamo».
Abbiamo poi introdotto un istituto che a voi non piace, lo so: quello della vicedirigenza. La vicedirigenza è uno strumento di grande moralizzazione della pubblica amministrazione perché riconoscere tale istituto nel pubblico impiego, significa far formare sul campo quelli che saranno i dirigenti, e né i ministri e i sottosegretari di questo Governo, né quelli dei governi successivi, potranno ignorare l'autonomia del dirigente, la sua capacità di portare avanti i progetti per conto proprio, e quindi poter fare quello la pubblica amministrazione deve fare, ovvero svolgere un ruolo di supporto interno dello Stato, come l'onorevole Amici ha ricordato, ma in piena indipendenza, con grande capacità e con grande orgoglio di appartenenza. Riteniamo di aver fatto ciò, non ci siamo riusciti pienamente, però ritengo anche che non meritiamo tutte le accuse che ci rivolgete.
PRESIDENTE. Il seguito del dibattito è rinviato ad altra seduta.
PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca la discussione del disegno di legge, già approvato dal Senato: Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 5 dicembre 2005 n. 250, recante misure urgenti in materia di università, beni culturali ed in favore di soggetti affetti da gravi patologie, nonché in tema di rinegoziazione di mutui.
PRESIDENTE. Dichiaro aperta la discussione sulle linee generali.
Avverto che il Presidente del gruppo parlamentare Democratici di Sinistra, L'Ulivo ne ha chiesto l'ampliamento senza limitazioni nelle iscrizioni a parlare, ai sensi dell'articolo 83, comma 2, del regolamento.
Avverto altresì che la VII Commissione (Cultura) si intende autorizzata a riferire oralmente.
Il relatore, onorevole Garagnani, ha facoltà di svolgere la relazione.
FABIO GARAGNANI, Relatore. Il decreto-legge che giunge all'esame dell'Assemblea, approvato dal Senato la scorsa settimana, reca una serie di interventi diversi, riconducibili principalmente alle materie della scuola, dell'università, dei beni e delle attività culturali, e della sanità. Il testo originario del decreto era costituito da cinque articoli, più quello relativo all'entrata in vigore. Il Senato, oltre ad apportare qualche modifica agli articoli 1 e 5, ha introdotto 17 articoli aggiuntivi che ne hanno ampliato significativamente il campo di intervento.
Non mi paiono pertanto ingiustificati i rilievi formulati dal Comitato per la legislazione circa l'eterogeneità dei contenuti del decreto, che peraltro va evidentemente valutato anche in relazione alle particolari circostanze in cui volge la legislatura.
Va poi tenuto presente che il decreto scadrà il prossimo 4 febbraio, e appare quindi difficile modificarlo senza farlo decadere.
Si tratta perlopiù di una serie di interventi settoriali, volti a dare risposta ad esigenze specifiche e circoscritte, anche se non per questo meno importanti: si pensi ad esempio alle norme in favore degli emofiliaci, o dei soggetti affetti da sindrome da talidomide. Non credo quindi che tali norme, con forse la sola eccezione dell'articolo 1-bis, come si vedrà più avanti, possano costituire la base per una accentuata contrapposizione parlamentare, e mi auguro che si possa giungere a licenziare il provvedimento d'urgenza senza ulteriori modifiche.
Ripartendo gli interventi a seconda delle materie cui afferiscono, i contenuti del decreto possono essere richiamati come segue. Per quanto attiene ai temi dell'istruzione, dell'università e della ricerca, si segnalano l'articolo 1, già contenuto nel testo originario, nonché gli articoli da 1-bis a 1-septies e 1-undecies introdotti dal Senato.
L'articolo 1 incrementa di 32,4 milioni di euro per il 2005 il fondo per il sostegno dei giovani e la mobilità degli studenti, ai fini della corresponsione di assegni di ricerca ex articolo 51 della legge n. 449 del 1997. Si specifica che le risorse sono volte a consentire alle università di fare fronte ai programmi di ricerca nei settori strategici, settori invocati, a più riprese, da ogni forza politica presente nelle Commissioni e in tutto il Parlamento.
L'articolo 1-bis reca una disciplina organica in materia di scuole non statali, su cui, però, mi soffermerò in seguito.
L'articolo 1-ter, in materia di inquadramento degli insegnanti di religione cattolica, attribuisce, ove il trattamento economico da essi goduto al momento dell'inquadramento nei ruoli regionali sia
maggiore di quello spettante in seguito all'inquadramento stesso, il diritto alla conservazione dell'eventuale differenza, con corresponsione di assegni personali, riassorbibili in relazione ai futuri miglioramenti economici.
L'articolo 1-quater prevede, per l'anno accademico 2006-2007, che le istituzioni di alta formazione artistica, musicale e coreutica (definite AFAM) abbiano facoltà di assumere 716 unità di personale con contratti di lavoro a tempo indeterminato, in qualità di coadiutori.
L'articolo 1-quinquies dispone la trasformazione dell'Istituto italiano di studi germanici in ente pubblico di ricerca nazionale a carattere non strumentale. Mi riservo di dare per acquisite alcune connotazioni che si riferiscono all'entità, all'identità e al ruolo di questi istituti - considerandole, appunto, conosciute - anche perché preferisco soffermarmi su altre parti del provvedimento in esame che ritengo maggiormente meritevoli dell'attenzione di questa Assemblea, in quanto particolarmente incisive ed incidenti sulla gamma degli interventi di cui stiamo parlando.
L'articolo 1-sexies dispone la trasformazione degli istituti di educazione denominati Conservatori della Toscana in fondazioni di diritto privato.
L'articolo 1-septies, poi, dispone l'equipollenza della laurea in scienze motorie alla laurea in fisioterapia, subordinatamente alla frequenza di un corso su paziente da istituire, con decreto, presso le università.
L'articolo 1-undecies, concernente la professione di enologo, prevede l'equipollenza della laurea triennale di primo livello afferente al settore vitivinicolo con il diploma universitario di primo livello relativo al medesimo settore, ai fini dell'acquisizione del titolo di enologo.
Quanto ai beni e alle attività culturali, si segnalano l'articolo 5, già contenuto nel testo originario, e gli articoli 1-novies, 1-decies e gli articoli da 5-bis a 5-quater, introdotti dal Senato.
L'articolo 1-novies destina la somma di 250 mila euro per il 2006 al finanziamento del museo della Shoah di Ferrara.
L'articolo 1-decies modifica la composizione del consiglio di amministrazione dell'Accademia nazionale di santa Cecilia, elevando da 9 a 13 il numero dei componenti. Dei 4 nuovi membri, 2 sono eletti dal corpo accademico mentre le modalità di scelta degli altri 2 sono rimesse allo statuto.
L'articolo 5 modifica il decreto legislativo n. 419 del 1999 e il decreto del Presidente del Consiglio dei ministri del 23 maggio 2001, che ha dato ad esso attuazione, escludendo dalle norme di razionalizzazione degli enti pubblici ivi contenute le deputazioni e le società di storia patria, in ragione della loro natura privatistica.
L'articolo 5-bis, in primo luogo, estende la programmazione triennale della consulta territoriale per le attività cinematografiche all'individuazione degli obiettivi per la promozione di tutte le attività cinematografiche cui possono essere destinati contributi ministeriali ai sensi dell'articolo 19, comma 3, del decreto legislativo n. 28 del 2004. Inoltre, l'articolo rafforza il ruolo della Conferenza Stato-regioni nell'ambito della commissione per la cinematografia, sancendo che i membri delle sottocommissioni in cui essa si articola, ora scelti dal ministro, siano scelti per un terzo dalla Conferenza.
Anche questo è un dato che mi pare significativo in quanto viene incontro alle richieste delle regioni.
L'articolo 5-ter include l'Istituto internazionale di studi «G. Garibaldi» tra gli enti ammessi ai benefici di cui alla legge n. 390 del 1986, riguardante la possibilità di ricevere in concessione o in locazione beni immobili demaniali e patrimoniali dello Stato non suscettibili anche temporaneamente di utilizzazione per usi governativi.
L'articolo 5-quater ripristina i finanziamenti - venuti meno per la loro inclusione nella tabella E della legge finanziaria per il 2006 - di cui all'articolo 1, comma 28, della legge finanziaria per il 2005 ed all'articolo 2-bis, comma 1, del decreto-
legge n. 7 del 2005 per interventi volti al risanamento e al recupero dell'ambiente, allo sviluppo economico e sociale e alla tutela dei beni culturali, da individuare con decreto del ministro dell'economia e delle finanze sulla base di appositi atti di indirizzo parlamentare. Gli importi ripristinati sono pari a 59,5 milioni per il 2006 e a 21 milioni per il 2007.
Tra gli altri interventi, si segnalano, in primo luogo, le misure concernenti la sanità (articoli 3 e 4 del testo originario del decreto e articoli 1-octies, 4-bis, 4-ter e 5-quinquies, introdotti dal Senato). Più in particolare, l'articolo 3 è volto ad assicurare una maggiore tutela per i soggetti affetti da sindrome da talidomide, riconosciuta tra le patologie che danno diritto all'esenzione dalla partecipazione alla spesa sanitaria, mentre l'articolo 4 riconosce un indennizzo aggiuntivo in favore di persone affette da emofilia danneggiate dalla somministrazione di emoderivati, per le quali non si sia conclusa entro il 31 ottobre del 2005 la procedura transattiva già prevista dalla normativa vigente.
In relazione alle norme sui soggetti affetti da sindrome da talidomide, occorre segnalare un possibile problema di sovrapposizione di interventi normativi. Sia il comma 3 dell'articolo 3 del decreto in esame che il comma 3 dell'articolo 6 del decreto-legge n. 4 del 2006, attualmente all'esame della Camera, infatti, modificano il comma 2 dell'articolo 97 della legge finanziaria per il 2001, che esonera da ogni visita medica i soggetti portatori di particolari menomazioni. I due interventi non risultano pienamente coordinati: quello del decreto in esame, infatti, prevede l'espressa inclusione dei soggetti affetti da sindrome da talidomide tra quelli esentati dalle visite mediche; l'intervento del decreto-legge n. 4, invece, sostituendo integralmente il comma citato della finanziaria per il 2001, sostituisce la formula precedentemente usata, «soggetti portatori di gravi menomazioni fisiche permanenti», con una diversa formula, «soggetti portatori di menomazioni o patologie stabilizzate o ingravescenti», che non sembra includere gli affetti da sindrome da talidomide. Fermo restando che, data la successione nel tempo delle due norme, la disposizione contenuta nel decreto in esame deve essere considerata non più vigente, occorrerebbe che il Governo chiarisse l'eventuale opportunità di modificare l'articolo 6, comma 3, del decreto-legge n. 4, per includere espressamente, nella nuova formulazione del comma 2 dell'articolo 97 della finanziaria, i soggetti affetti da talidomide.
L'articolo 1-octies, poi, contiene la disciplina delle professioni sanitarie non mediche ed autorizza le aziende sanitarie ad istituire, a fianco del già previsto servizio dell'assistenza infermieristica ed ostetrica, il servizio sociale professionale; le aziende possono attribuire l'incarico di dirigente di tali servizi, oltre che al personale dell'area delle scienze infermieristiche e della professione sanitaria ostetrica, anche al personale del servizio sociale professionale.
In tale ambito si segnala anche l'articolo 4-quater, specificando che per l'accesso alle professioni sanitarie è necessaria una formazione universitaria.
Gli articoli 4-bis e 4-ter, invece, da una parte autorizzano l'Istituto superiore di sanità e l'Istituto nazionale malattie infettive Lazzaro Spallanzani a prorogare, fino al 31 dicembre 2006, i contratti di lavoro a tempo determinato in essere, e dall'altro incrementano da 1 a 15 milioni di euro il finanziamento concesso per l'anno 2006 al Centro San Raffaele del Monte Tabor dal decreto-legge n. 203 del 2005.
In questo ambito può essere preso in considerazione anche l'articolo 5-quinquies, che prevede il potenziamento dell'organico del Comando carabinieri per la tutela della salute, autorizzando a tal fine il Ministero della difesa a bandire un concorso straordinario, per titoli ed esami, per il reclutamento fino a venti sottotenenti.
Si segnala a parte, infine, l'articolo 2, che modifica l'articolo 1, comma 71, della legge finanziaria per il 2005, in materia di rinegoziazione dei mutui contratti dagli enti territoriali, con oneri di ammortamento
a totale o parziale carico dello Stato, al fine di concorrere alla riduzione della spesa effettiva per interessi.
Veniamo ora all'articolo 1-bis, in materia di scuole non statali, cui ho accennato nell'introduzione della mia relazione: si tratta, infatti, dell'intervento su cui si è maggiormente concentrato l'esame in Commissione, in sede referente.
Il suo contenuto può essere così riassunto. Il primo comma di tale articolo prevede che le scuole non statali siano ricondotte alle tipologie delle scuole paritarie riconosciute ai sensi della legge n. 62 del 2000 e delle scuole non paritarie.
Quanto alle scuole paritarie (commi 2 e 3), si stabilisce espressamente che la frequenza delle scuole paritarie costituisce assolvimento del diritto-dovere di istruzione e formazione, e si ridefinisce la procedura per il riconoscimento della parità.
Si introduce, poi, la previsione che le scuole paritarie non possano svolgere esami di idoneità per alunni frequentanti scuole non paritarie che dipendano dallo stesso gestore, o da altro con cui il gestore abbia comunanza d'interessi. Si tratta di una norma di rilievo, volta ad incrementare il grado di trasparenza di tale istituzione, così come è stato richiesto in diverse sedi.
I commi 4 e 5 dell'articolo in oggetto introducono, invece, alcuni principi di base in materia di scuole non paritarie. In particolare, vengono introdotti i seguenti requisiti minimi: un progetto educativo ed un'offerta formativa conformi ai principi della Costituzione, nonché finalizzati agli obiettivi di apprendimento correlati al conseguimento dei titoli di studio; disponibilità di locali, arredi e attrezzature conformi alle norme vigenti in materia di sicurezza ed igiene; impiego di personale docente e di un coordinatore forniti di adeguati titoli professionali, nonché di idoneo personale tecnico ed amministrativo; alunni frequentanti in età non inferiore a quella prevista nelle scuole statali o paritarie in relazione al titolo di studio da conseguire. Le scuole non paritarie in possesso dei suddetti requisiti sono incluse in apposito elenco, e l'ufficio scolastico regionale è chiamato a vigilare sulla sussistenza e sulla permanenza delle condizioni stesse.
Si esclude, comunque, che le scuole non paritarie rilascino titoli di studio aventi valore legale e si prescrivono condizioni atte ad evitare abusi nella denominazione. Alle sedi ed alle attività d'insegnamento prive delle caratteristiche sopra elencate si vieta di assumere la denominazione di «scuola»; esse, inoltre, non possono comunque essere sedi di assolvimento del diritto-dovere all'istruzione ed alla formazione.
Il comma 7 dell'articolo 1-bis del decreto-legge in esame abroga le disposizioni del testo unico in materia di scuole non statali, ad eccezione di una serie di norme. Le disposizioni non abrogate sono relative ai sussidi alle scuole materne non statali, alle convenzioni ed alle scuole dipendenti da autorità ecclesiastiche e licei linguistici (che continueranno a trovare applicazione alle sole scuole paritarie), ai requisiti dei soggetti gestori e agli oneri a loro carico, alla salvaguardia delle competenze delle regioni a statuto ordinario e speciale e delle province autonome, ai cittadini dell'Unione europea gestori o insegnanti nelle scuole materne private, alle scuole ed istituzioni culturali straniere in Italia, al servizio prestato dai docenti che passano dalle scuole pareggiate allo Stato, ai titoli di studio dei docenti delle scuole materne che chiedano il riconoscimento.
Ribadisco che dette norme, non abrogate dal comma 7, sono relative ai sussidi alle scuole materne non statali ed alle categorie che ho appena elencato.
Sono poi abrogate le norme del regolamento di cui al regio decreto n. 1297 del 1928, relative alle cosiddette scuole «a sgravio». Viene soppresso, infine, l'articolo 1, comma 7, secondo periodo, della legge n. 62 del 2000, che prevede un decreto ministeriale per il superamento delle disposizioni del testo unico sulle scuole non statali.
Il comma 8 reca, infine, una clausola di invarianza della spesa.
Vorrei precisare che l'intervento sopra descritto porta a compimento, se non altro sul piano dell'impianto normativo, il percorso prefigurato dalla cosiddetta legge sulla parità scolastica (legge n. 62 del 2000). Quest'ultima legge, infatti, ha previsto che, entro un determinato numero di anni, si dovesse procedere al definitivo superamento delle norme in materia di scuole non statali contenute nel testo unico sull'istruzione (decreto legislativo n. 297 del 1994).
Desidero segnalare che, a causa di difficoltà di carattere procedurale, che potranno essere approfondite in altra sede, non è stato possibile giungere al superamento di tali disposizioni tramite lo strumento del decreto ministeriale già previsto dalla citata legge n. 62 del 2000. Per tale motivo, il Governo ha deciso di ricorrere all'intervento diretto mediante decreto-legge, attuato con l'articolo in esame.
Ritengo che un intervento in materia, a quasi sei anni dall'entrata in vigore della legge n. 62 del 2000, sia ritenuto necessario da gran parte delle forze politiche. Si tratta, infatti, di gettare le basi per porre ordine in una materia in cui, purtroppo, si registrano evidenti fenomeni distorsivi: dai cosiddetti «diplomifici», alle scuole separate, apparse negli ultimi anni in molte città.
In Senato ed in Commissione, tuttavia, le disposizioni in esame sono state oggetto di critiche da parte dei gruppi di opposizione, peraltro con una certa diversità di accenti tra quelli della sinistra, che potremmo definire più laicista, ed il gruppo della Margherita, DL-L'Ulivo. Senza entrare nel merito di tali critiche, che potranno essere affrontate nel seguito della discussione, vorrei, in questa sede, limitarmi a sottolineare che l'introduzione dei requisiti minimi per le scuole non statali - anche non paritarie - non deve - e non può - essere letto come l'introduzione di limiti alla libertà di insegnamento, prevista dalla nostra Costituzione. Si tratta, infatti, di requisiti minimi - ed insisto, minimi -: sostanzialmente, il rispetto della Costituzione e l'utilizzo di strutture idonee, che vengono posti a garanzia degli studenti, quindi degli utenti di un servizio talmente importante quale quello dell'istruzione, e che hanno a che fare con la possibilità che una determinata struttura possa essere realmente considerata una scuola.
Quello proposto dal Governo, quindi, è un intervento di buonsenso, mirato ad evitare i possibili abusi che si possono attualmente realizzare sotto la copertura di sedicenti istituzioni scolastiche, che, in realtà, pur fregiandosi dell'appellativo di scuola, svolgono attività che esulano completamente dal nostro progetto di istruzione; la cronaca quotidiana ci testimonia che di tali realtà - lo ripeto - il nostro paese - scusate il bisticcio di parole - ha ben presente la presenza.
Debbo, inoltre, rilevare che in questa materia non si può certo imputare al Governo di essere stato troppo interventista. Semmai, infatti, va lamentata la non completa attuazione degli impegni assunti in questo campo: molto di più, infatti, si sarebbe potuto - e dovuto - fare per giungere all'effettiva realizzazione di un sistema di istruzione più equilibrato, in cui al servizio reso alla scuola pubblica si affianchi davvero quello delle scuole non statali paritarie, che è pure un servizio pubblico. In favore di queste ultime resta ancora molto da fare ed insisto molto in tal senso.
Il mio auspicio è che ciò che non siamo riusciti a realizzare in questa legislatura...
PRESIDENTE. Concluda, onorevole Garagnani.
FABIO GARAGNANI, Relatore. Concludo, signor Presidente. Dicevo che il mio auspicio è che ciò che non siamo riusciti a realizzare in questa legislatura, per motivi che comporterebbero troppo tempo per essere riassunti in questa sede, sia finalmente realizzato nella prossima.
Conclusivamente, torno ad esprimere l'auspicio che il decreto-legge in esame sia tempestivamente convertito in legge, senza ulteriori modifiche.
PRESIDENTE. Ha facoltà di parlare il rappresentante del Governo.
GIOVANNI RICEVUTO, Viceministro dell'istruzione, dell'università e della ricerca. Signor Presidente, onorevoli deputati, il Governo non ha molto da aggiungere a ciò che è stato detto dal relatore e si riconosce sostanzialmente, concretamente e totalmente nell'analitica e competente illustrazione del provvedimento, ma anche nel giudizio che il relatore ha dato sulla sua natura e sulle sue finalità. Si tratta di un provvedimento di fine legislatura, che assolve ad esigenze concrete e specifiche di settore, esigenze avvertite dai comparti interessati e pertanto meritevoli di adeguata attenzione.
Sostanzialmente, salvo che per alcune diversità di valutazioni su talune norme, non credo vi possa essere una corposa materia per contendere tra maggioranza ed opposizione, sicché, da parte del Governo si auspica che, pur nell'esigenza di sostenere un confronto serrato tra maggioranza e opposizione, si possa arrivare sollecitamente ad un'approvazione del provvedimento in esame entro il 4 febbraio che, come è stato ricordato dall'onorevole Garagnani, è il termine ultimo utile per convertire il decreto in legge.
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Volpini. Ne ha facoltà.
DOMENICO VOLPINI. Signor Presidente, onorevoli colleghi, ci troviamo, ancora una volta, di fronte ad un provvedimento «paghi dieci e prendi uno»: ossia, se all'interno del provvedimento omnibus interessa «uno», si deve pagare dieci.
Soprattutto, ci troviamo di fronte ad un insieme di materie delicate ed importanti, che il Governo e questa maggioranza stanno disciplinando praticamente post mortem. Infatti, se ieri si fossero sciolte le Camere, sarebbe stato difficile approvare tali disposizioni legislative.
Ciò dimostra quanto il Governo - che è stato al potere per cinque anni, approvando a spron battuto leggi di interesse specifico - sia interessato a queste materie. Mi sembra di vedere certe casalinghe poco ordinate che, con la scopa, gettano ciò che ritengono spazzatura sotto il tappeto: in extremis, giungendo al confronto elettorale, il Governo alza il tappeto e la tira fuori; ma ciò non cambia il giudizio che il Governo ha espresso, gettandola sotto il tappeto. Esso riteneva tali questioni molto marginali, ed i relativi provvedimenti, potevano anche non essere approvati. Ciò è assai grave e deve far molto riflettere.
A tal proposito, vorrei richiamare l'articolo 1-bis, riguardante l'esito della riforma sulla parità scolastica. Nella scorsa legislatura, il Governo di centrosinistra, con l'onorevole Berlinguer, aveva coraggiosamente delineato tale riforma, che ha abbattuto un muro secolare, istituendo il nuovo sistema pubblico integrato dell'istruzione, il sistema nazionale dell'istruzione.
Onorevole Garagnani, non esistono scuole pubbliche e scuole paritarie: le scuole pubbliche sono scuole dello Stato; poi, vi sono le scuole paritarie private. Tutte fanno parte del sistema pubblico nazionale, con pari dignità e pari diritti, ai sensi del comma 2; ossia, sono paritarie a tutti gli effetti negli ordinamenti vigenti.
Pertanto, bisognerebbe anche modificare il linguaggio, cominciando a parlare delle scuole paritarie come scuole pubbliche, diverse dalle scuole private; ma, «finalmente», come lei ha affermato, dopo sei anni, disattendendo le prescrizioni della legge n. 62 del 2000, tirando fuori in extremis tale materia da sotto il tappeto, voi approvate un siffatto sistema.
Secondo la legge n. 62 del 2000, dopo tre anni di sperimentazione (ossia, nel 2003), il ministro avrebbe dovuto presentare al Parlamento una relazione sull'andamento della riforma e proporre il superamento delle precedenti denominazioni e del precedente sistema, abolendo le cosiddette scuole autorizzate, parificate e legalmente riconosciute, e riducendo tutto l'impianto a due categorie: le scuole paritarie private e le scuole private tout court. Il ministro ha presentato la relazione con un anno di ritardo, nel 2004. La legge che deve ordinare il sistema lo fa in extremis, post mortem, come si vede, e ci dimostra l'interesse che questo Governo
ha avuto per tutto il sistema scolastico fondato dalla legge n. 62 del 2000, in particolare, per le scuole paritarie.
Che per cinque anni questo Governo abbia mortificato il sistema scolastico nella sua globalità, per quanto riguarda sia le scuole statali sia quelle paritarie private, lo si evince dalle leggi finanziarie che si sono succedute. Per le scuole paritarie, tra le quali, ovviamente, nei cinque anni erano prese in considerazione solo quelle materne ed elementari parificate, il Governo non solo non ha fatto niente, ma ha «battuto in testa» dall'inizio alla fine della legislatura.
Non dimentichiamo che nella scorsa legislatura si è tagliato tutto il bilancio delle scuole materne e delle scuole elementari parificate private e degli istituti magistrali! La «cattiva» maggioranza di centrosinistra, secondo il centrodestra, aveva portato quel bilancio, che era di 205 miliardi, a 960 miliardi, con un incremento, grazie alla legge n. 62 del 2000, di 280 miliardi per le scuole materne e di 60 miliardi per le scuole parificate. Senza parlare dei fondi per il diritto allo studio, che abbiamo aumentato cospicuamente per tutti e cinque gli anni e che, nell'ultimo anno, sempre con la legge n. 62 del 2000, sono stati portati a 250 miliardi.
Il primo provvedimento del Governo di centrodestra e, in particolare, dal ministro Tremonti è consistito nell'assestamento del bilancio 2001. È stato il segnale: ha sottratto, tout court, 100 miliardi alle scuole materne private!
A seguito della sollevazione che ne è scaturita, compresa quella dei popolari e della Margherita, ha fatto finta di restituire quei 100 miliardi, ma non era vero, secondo quanto ha risposto ad una nostra interrogazione. Infatti, li restituiva, ponendoli a carico degli anni successivi.
L'altra cosa grave è che per due anni e mezzo il Governo non ha erogato alle scuole parificate materne i fondi che per legge avrebbe dovuto erogare, tanto che i gestori di queste scuole si sono dovuti rivolgere alle banche per accendere mutui, pagando gli interessi, in attesa che il Governo desse loro ciò che era loro dovuto.
La volontà del Governo di centrodestra di distruggere la parità scolastica non finisce qui. Non ci dimentichiamo la legge sull'ampliamento dell'offerta formativa, altra disposizione introdotta dal «cattivo» Berlinguer e dai Governi di centrosinistra, che stanziava i fondi per tutti i progetti di ampliamento dell'offerta formativa, destinandoli alle istituzioni scolastiche - a tutte le istituzioni scolastiche! - senza fare differenza. La bella cosa fatta dalla ministra è stata quella di dire che il fondo era per le scuole dello Stato, mentre le scuole parificate e paritarie avevano un altro contributo, dimenticando che la legge sulla parità scolastica metteva sullo stesso piano e in uno stesso sistema, senza distinzioni, queste scuole. Lei, invece, le ha distinte per dimostrare molto chiaramente la sua avversità a un sistema nazionale integrato.
Ma non è una novità. Se leggiamo gli interventi dell'onorevole Valentina Aprea quando era capogruppo di Forza Italia nella scorsa legislatura, durante l'approvazione della legge n. 62 del 2000, si può constatare che ella si è scagliata in modo molto duro contro il termine «sistema nazionale» dell'istruzione.
Non voleva, infatti, un sistema, ma voleva un servizio nazionale dell'istruzione. La cosa è molto semplice: il servizio va a soddisfare un bisogno; il sistema va a soddisfare un diritto della persona umana. Per noi l'istruzione è un diritto e ci dev'essere un sistema nazionale che lo salvaguardi e lo realizzi. Per Forza Italia era un semplice bisogno che poteva essere soddisfatto da un servizio, caso mai affidato al mercato. Tale filosofia è rimasta ed è andata avanti in questi cinque anni.
Non avete mai dato una lira a quel fondo: in finanziaria il fondo per le scuole paritarie non è aumentato di un centesimo. Avete dato soltanto 30 milioni di euro, poi 50 e 50, per qualcosa di molto strano alle famiglie, che la Corte costituzionale ha dichiarato, giustamente, incostituzionale, come noi vi avevamo preannunciato.
Infatti, l'avete configurato come diritto allo studio, ma avete voluto legiferare come Stato, imponendolo alle regioni: sapete che ciò è incostituzionale perché il diritto allo studio è di competenza esclusiva delle regioni. Dunque, il vostro operato ha portato solo una grande confusione e non ha ottenuto niente: questo è quanto avete fatto ed è molto grave.
All'interno del provvedimento in esame vi sono, poi, aspetti riguardanti i professori di religione ed altri argomenti che andavano trattati in modo serio durante tutta la legislatura. Non venite a dirci, come fa il Presidente Berlusconi, che non avete potuto legiferare per l'ostruzionismo delle sinistre: fa ridere tutti! Parliamo, piuttosto, dell'ostruzionismo che vi siete fatti da soli. La settimana scorsa abbiamo visto finire l'ostruzionismo della Lega che ha fatto perdere due settimane di tempo sul provvedimento riguardante lo smaltimento dei rifiuti, perché voleva ricattare il Governo sulla legge in materia di autodifesa. Peraltro, si tratta di una legge assurda che sottomette il valore della persona umana al valore dei beni: per difendere dei soldi, posso ammazzare una persona, anche se quella persona non mi sta minacciando nella mia vita.
Questi sono i principi che avete sancito e andate a dire che non avete potuto fare altre cose che per legge avreste dovuto fare, dato che si trattava di prescrizioni di legge. Tanto - come sa chi ha seguito i lavori parlamentari - per questo Governo e, per imposizione, anche per questa maggioranza le leggi e la stessa Costituzione sono state più pastoie da evitare e scavalcare che non vincoli da rispettare. Infatti, le leggi, non parliamo poi della Costituzione che per fortuna richiede il referendum confermativo, sono state approvate un po' alla «carlona» e sono state, appunto, optional. Il principe si è ritenuto sempre legibus solutus: ha protestato sia contro la Costituzione, quando non gli andava bene, sia contro le leggi. Figuriamoci per un piccolo e povero provvedimento come quello della parità scolastica che avete bistrattato dall'inizio alla fine della legislatura!
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Perrotta. Ne ha facoltà.
ALDO PERROTTA. Signor Presidente, anche questa volta vediamo l'altra parte del bicchiere, quello mezzo pieno. Vorrei ricordare che nel provvedimento in esame vi è un'incentivazione alla ricerca universitaria per 64 miliardi: si tratta di una risposta concreta all'attacco portato avanti dall'opposizione quando abbiamo realizzato la riforma della scuola.
Ricordo, inoltre, per rispondere ad alcuni precedenti errori commessi dal centrosinistra, che abbiamo la dimostrazione di quanto stabilito nella precedente norma, cioè la trasformazione, in alcuni enti, di contratti a tempo determinato in contratti a tempo indeterminato. Nelle accademie di belle arti, nei conservatori di musica e negli istituti superiori per le industrie artistiche, assumiamo 916 persone fra coloro che hanno contratti a tempo determinato.
Inoltre, il decreto-legge prevede il finanziamento del Museo della Shoah. Si tratta di una norma inserita nel disegno di legge finanziaria che, non essendo materia attinente, il Presidente Casini dovette espungere. Il Governo sopperisce ora destinando 500 milioni al suddetto Museo.
Finalmente, si determina un'equipollenza della laurea triennale nel settore vitivinicolo, che porta al titolo di enologo, con il diploma universitario di 1o livello previsto dalla legge n. 341 del 1990. Inoltre, l'articolo in questione contiene una previsione importantissima, cioè la rinegoziazione dei mutui che, con l'abbassamento dei tassi, permetterà una notevole diminuzione del deficit pubblico dovuto a mutui accesi per finanziare opere dello Stato da parte degli enti locali, mutui che sono costati una cifra enorme.
L'articolo 3 prevede l'assistenza dei soggetti affetti da sindrome da talidomide, mentre l'articolo 4 l'indennizzo per i soggetti emofiliaci danneggiati da somministrazione di emoderivati. Inoltre, vi è un importante aiuto che permetterà ai NAS,
che svolgono un lavoro egregio ma sono rimasti privi di sottufficiali, di assumere venti sottotenenti.
A mio avviso, nel testo in esame vi è soltanto un'«ombra», l'equipollenza di titoli di studio prevista dall'articolo 1-septies. Mi lascia molto perplesso l'equiparazione del diploma di laurea in scienze motorie a quello di laurea in fisioterapia, purché il diplomato abbia conseguito un attestato di frequenza ad un corso su un paziente. Come ho già detto in Commissione, povere nostre ossa! Reputo ciò un errore.
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Tocci. Ne ha facoltà.
WALTER TOCCI. Signor Presidente, siamo di fronte ad un decreto-legge che mette insieme argomenti diversi, molti dei quali non rientrano nei principi della decretazione d'urgenza. Siamo in presenza di interventi ad personam, rivolti a singoli enti, che vengono assunti al di là di una programmazione generale, e di un provvedimento che rende le norme ancora più complesse, farraginose e contorte.
Ricordo che l'attuale Governo aveva iniziato la legislatura con l'impegno alla semplificazione, a ridurre il numero delle leggi; la conclude invece con provvedimenti di questo tipo, che sono un'accozzaglia di norme frammentate, fra di loro contraddittorie, la gran parte improvvisate e comunque volte a scardinare ordinamenti che, per loro natura, dovrebbero essere molto più «stabili». Tutto ciò dimostra che i giorni in più, conquistati dal Presidente del Consiglio con l'offensiva mediatica, si stanno rivelando particolarmente negativi per l'attività legislativa del paese. Infatti, le norme proposte hanno, nella maggior parte dei casi, intenti esclusivamente propagandistici. Molte di esse porranno costi rilevanti a carico del bilancio dello Stato; pertanto, in generale, si tratta di un'attività legislativa dannosa per il paese.
Per quanto riguarda il merito, vorrei soffermarmi, in primo luogo, sulla questione delle scuole parificate.
Nel nostro paese, il bilancio del ministro Moratti è negativo per quanto riguarda la gestione delle scuole statali. Gran parte dei cittadini, dei genitori e degli insegnanti ha potuto constatare che la situazione della scuola statale italiana è sicuramente peggiorata in termini di tagli ai finanziamenti e di confusione normativa. Sono stati, inoltre, compiuti dei passi indietro.
Si tratta di un argomento abbastanza noto. Pochi sanno, invece, che il bilancio del ministro Moratti è anche molto negativo per quanto riguarda le scuole private paritarie. Sembrava che l'attacco alla scuola statale fosse compensato da un'azione privilegiata nei confronti delle scuole private. Tuttavia, il ministro Moratti è riuscita nel capolavoro di produrre effetti negativi sia per quanto riguarda le scuole statali sia per quanto riguarda quelle private (lo ha dimostrato con grande precisione prima di me il collega Volpini ed io faccio mie le sue considerazioni in ordine a tale aspetto).
Il Governo di centrosinistra aveva equilibrato il sistema con la legge n. 62 del 2000, che prevedeva un sistema nazionale con determinati criteri e standard, definiti da quella legge, per le scuole statali e le scuole private.
Il ministro Moratti ha fatto di tutto per scardinare quel sistema e, quindi, per demolire un punto di equilibrio molto importante che si era raggiunto nel nostro paese in ordine ad una questione spinosa, che aveva tenuto acceso il dibattito in Italia per tanti anni.
Il collega Volpini ha dimostrato che vi sono stati dei tagli anche alle scuole private, non solo a quelle statali. Ricordiamo, infatti, che sono stati destinati 100 miliardi in meno alle scuole materne private e che il fondo per l'offerta formativa, che, in virtù della legislazione sul sistema nazionale unitario previsto dalla citata legge n. 62, avrebbe dovuto riguardare tutte le scuole, sia quelle statali sia quelle private, è stato, invece, spezzato in due fondi, venendo meno ad uno dei principi fondanti del sistema paritario.
Il collega Volpini ha ricordato anche che gli stessi fondi previsti per le scuole parificate non sono stati erogati per diversi anni, mettendo, quindi, in difficoltà il mondo della scuola.
Il fallimento si riscontra soprattutto nel fatto che la legge n. 62 del 2000 stabiliva alcuni impegni ed adempimenti molto precisi. Secondo tale legge, entro tre anni dall'approvazione, nel 2003, si sarebbe dovuto fare il bilancio della situazione, per quanto riguarda l'attuazione della legge stessa, con una relazione al Parlamento, e risolvere il problema della coerenza tra le norme recate dalla legge n. 62 e quelle precedenti, concernenti le scuole parificate.
Quindi, dal 2003, il ministro Moratti ha avuto due anni di tempo per attuare la legge, raggiungere l'obiettivo dell'omogeneità delle norme e risolvere la questione delle scuole parificate, in coerenza con l'ordinamento previsto dalla legge n. 62 sopra richiamata.
Ebbene, in quasi tre anni, il ministro Moratti non ha mantenuto questo impegno. Infatti, la relazione al Parlamento è giunta con un anno di ritardo e, soprattutto, non è stato emanato il provvedimento che doveva rendere compatibili le vecchie scuole parificate con il sistema paritario.
Tant'è vero che ci troviamo qui a discutere di questo problema a seguito dell'introduzione al Senato di un articolo di iniziativa parlamentare e non in conseguenza della presentazione di un organico provvedimento di legge presentato dal Governo al Parlamento. Questo già dimostra che il ministro Moratti è inadempiente su un punto essenziale che riguarda l'ordinamento della scuola pubblica italiana.
In ciò vedo non solo un'inadempienza, un'inefficienza, un mancato rispetto delle scadenze previste dalla legge - tutte cose di per sé già abbastanza gravi, soprattutto per un ministro che si è sempre vantato di essere efficiente -, ma anche qualcosa di più, vale a dire il tentativo di mettere in discussione la mediazione che si era realizzata in ordine alle scuole private attraverso la legge n. 62 del 2000. Il ministro Moratti ha dunque voluto far proprio un orientamento radicale presente nel centrodestra italiano che ha sempre visto in maniera negativa l'ordinamento del sistema paritario. Tale orientamento, infatti, punta ad una soluzione diversa, nella quale le scuole private possono darsi propri ordinamenti senza sottostare a criteri e standard nazionali, ricevendo comunque contributi pubblici.
Nel centrodestra, si evidenzia quindi un atteggiamento radicale contro la parità, del quale il ministro Moratti si è fatta rappresentante, svolgendo un'azione negativa nei confronti di quell'ordinamento che costituiva un punto di equilibrio e di mediazione molto importante nel rapporto tra scuola pubblica e scuola privata.
Dunque, siamo di fronte ad un emendamento presentato al Senato, ad una proposta legislativa molto frettolosa sulla quale non si è potuto sviluppare un dibattito ampio, come invece sarebbe stato utile e necessario per una materia così delicata e di così alto profilo costituzionale, culturale e civile e siamo in presenza di un risultato che per alcuni aspetti si presenta anche paradossale.
In particolare, il comma 4, dell'articolo 1-bis introduce disposizioni molto gravi rispetto alla nostra Costituzione. Si tratta di norme non solo gravi dal punto di vista della legittimità costituzionale, ma anche paradossali rispetto agli orientamenti politici e culturali dello stesso centrodestra. Infatti, siamo di fronte a disposizioni che intendono ingabbiare e regolamentare anche le scuole private che non chiedono di partecipare al sistema paritario. Parliamo della scuole private tout court, vale a dire di quella iniziativa che si svolge esclusivamente a livello sociale e civile e che non chiede alcun contributo allo Stato. Questo tipo di scuola assolutamente privata rientra pienamente nel dettato dell'articolo 33 della Costituzione relativo alla libertà di insegnamento e, quindi, dovrebbe trattarsi di una scuola privata senza alcuna regolamentazione.
Tant'è vero che la Corte costituzionale, nel lontano 1958, introdusse la figura
giuridica della presa d'atto: il ministero, di fronte all'iniziativa di una scuola privata, che - ripeto - non chiede allo Stato riconoscimenti né normativi, né finanziari, si deve limitare ad una presa d'atto. In altre parole - dice la Corte implicitamente -, lo Stato non può svolgere alcuna azione normativa e regolamentare sulla libera iniziativa privata, volta ad organizzare un'esperienza scolastica.
Voi cambiate questo orientamento ormai consolidato della Corte costituzionale e vi spingete ad una dettagliata regolamentazione della scuola privata.
Lei, onorevole Garagnani, ha detto che le norme qui introdotte sono molto leggere, sono dei requisiti minimi (se ricordo bene lei ha usato questo termine). Basta leggere il testo dell'articolo per capire che non si tratta affatto di requisiti minimi. Infatti, come si può vedere, al comma 4, lettera a), si richiede alla scuola privata un progetto educativo conforme ai principi della Costituzione - e questo mi sembra pacifico - , e poi si aggiunge «e all'ordinamento scolastico italiano». Quindi, una scuola privata, anche se non chiede contributi e vuole rimanere totalmente privata, secondo questa norma, si deve uniformare all'ordinamento scolastico italiano. Non solo, ma voi stabilite addirittura che nella organizzazione interna di questa scuola ci deve essere un coordinatore delle attività educative e prevedete norme sui titoli professionali degli insegnanti, sul rapporto tra queste attività formative e i titoli di studio vigenti per il sistema paritario e tante altre cose.
Non solo la norma già prefigura un intervento molto pesante su un'attività libera, quale dovrebbe essere quella di una scuola privata, non paritaria, ma addirittura rimanda ad un regolamento successivo, che dovrà definire le procedure per l'iscrizione ad un albo nazionale, stabilendo in via amministrativa ulteriori vincoli all'organizzazione di queste scuole private.
Questa parte della norma si conclude vietando a tutti i soggetti che non rispettano queste regole di utilizzare il termine «scuola» per definire la propria attività. Questo è un intervento molto pesante. Onorevole sottosegretario, le faccio qualche esempio e se lei nella replica avesse poi la compiacenza di rispondermi, fornirebbe un contributo alla chiarezza: una volta approvata questa norma, sarà ancora possibile leggere su un'automobile le parole «scuola guida»? La scuola guida, per fregiarsi del termine scuola, deve rientrare in questa normativa? Voi dite espressamente che la denominazione «scuola» non può essere utilizzata al di fuori delle norme previste dai commi 4 e 5. Sarà possibile scrivere questa parola su un manifesto o sulla porta di una scuola di canto, di pittura, di sci? Sarà ancora possibile parlare di scuola di bocce? E questo discorso vale per tante altre attività privatistiche.
Faccio questi esempi, onorevole sottosegretario, per rendere evidente che qui state introducendo delle figure normative assolutamente esuberanti, fuori misura, che vogliono disciplinare delle attività private che devono essere lasciate nella loro spontaneità.
Mi sia consentita, però, una considerazione politica e culturale. L'onorevole Garagnani ha detto che nel corso del dibattito, all'interno dell'opposizione vi è stato un atteggiamento di chiusura da parte dei settori più laicisti della sinistra. Da come si è espresso penso si riferisse alla mia parte politica. Ebbene, onorevole Garagnani, qui si sono completamente ribaltati i ruoli, perché noi, persone di sinistra, riteniamo che una scuola privata, quando non chieda norme specifiche e non chieda finanziamenti, deve essere lasciata nella sua totale libertà, come dice la Corte costituzionale; lo Stato può limitarsi soltanto ad una presa d'atto, ma non può dettare norme nell'organizzazione di questa scuola privata. Siamo quindi al paradosso, per cui voi, sedicenti liberali, arrivate ad introdurre per la prima volta nell'ordinamento giuridico italiano norme che impediscono la libera iniziativa per la costituzione di scuole private non paritarie. Trovo veramente grave il fatto che questo articolo sia passato sotto silenzio, che non vi sia stato un dibattito pubblico,
perché siamo di fronte ad un ribaltamento dei presupposti ideologici del centrodestra. Voi, che parlate di liberismo, che parlate di pensiero liberale, introducete disposizioni che nessuno in Italia aveva mai osato introdurre, perché andate a normare pesantemente la condizione di scuole private che non chiedono alcun contributo e alcuna norma.
Mi auguro che nei prossimi giorni su questa vicenda si possa aprire una discussione, perché a me sembra paradossale che il centrodestra chiuda la sua legislatura con un prova di statalismo come nessun altra formazione politica in Italia ha mai avuto il coraggio di proporre. Solleveremo la questione presentando una questione pregiudiziale di costituzionalità, il cui contenuto mi pare evidente, perché essa farà riferimento appunto alla sentenza della Corte costituzionale del 1958, che fu assunta proprio per cancellare le norme precedenti che pretendevano di normare la scuola privata. Sostanzialmente, voi state cercando di riportare il paese a prima del 1958, facendo come se la Corte costituzionale non si fosse espressa su una materia tanto delicata per quanto riguarda i rapporti tra scuola privata e scuola pubblica, i diritti civili e la libertà di insegnamento nel nostro paese, questioni essenziali per la convivenza civile del paese.
Vi è un altro aspetto in chiaro contrasto con la Carta costituzionale, cioè le competenze regionali introdotte dal Titolo V, di cui voi non tenete minimamente conto quando stabilite il rinvio ad un regolamento ministeriale per dettare i criteri attraverso i quali saranno erogati i contributi alle scuole ex parificate. Ora, è fuori discussione da parte nostra l'opportunità di mantenere questi contributi alle scuole parificate, ma è evidente che i criteri attraverso i quali essi vengono erogati sono, dopo la modifica del Titolo V, in regime di concorrenza tra Stato e regioni e, quindi, come minimo, la questione deve essere trattata in sede di Conferenza Stato-regioni, sulla base di un'intesa tra lo Stato e le regioni. Non è assolutamente possibile, come voi invece state facendo, emanare un regolamento ministeriale su una materia che in questo momento è in regime di concorrenza.
La nostra osservazione non è sul merito, sul contributo. Le scuole parificate avevano i contributi e continueranno ad averli, sia pure a determinate condizioni; tuttavia, i criteri di erogazione, a nostro avviso, non possono essere affidati ad un regolamento ministeriale ma debbono essere concertati tra lo Stato e le regioni. Anche in questo caso, quindi, si rinviene un contrasto evidente con il Titolo V della Costituzione. Da parte vostra viene posta in essere una forzatura per renderci conto della quale non c'è bisogno di un'analisi giuridica sofisticata.
Inoltre, l'articolo 81 della Costituzione, starei per dire il «povero» articolo 81, viene ad essere derogato in quasi tutti i provvedimenti legislativi promossi dal Governo e dalla maggioranza. È del tutto evidente che il provvedimento in esame determina un aumento della spesa pubblica: innanzitutto, perché si stabilisce che quello erogato alle scuole parificate è un contributo minimo che, come tale, può essere anche aumentato; inoltre, prima esso era riferito soltanto alle scuole parificate, mentre ora, con questo provvedimento, viene esteso a tutte le scuole paritarie. Da qui, una platea molto più ampia di soggetti aventi diritto, che determina un preciso obbligo di stanziamento in bilancio.
Non si tratta di considerazioni di parte né, tanto meno, di un ragionamento tecnico dell'opposizione, ma si tratta della stessa motivazione con la quale il Consiglio di Stato ha bocciato per carenza di finanziamenti un'analoga proposta del Governo in questa materia. Ora, siccome il testo che voi proponete è, dal punto di vista finanziario, lo stesso di quello bocciato dal Consiglio di Stato, è del tutto evidente che ciò determina un contrasto con l'articolo 81 della Costituzione. In poche righe di testo, voi siete riusciti ad ottenere ben tre punti di contrasto con la Carta costituzionale: un buon record da parte di un cattivo legislatore!
Passo ora ad esaminare altri aspetti del provvedimento in esame. L'articolo 1 disciplina l'incentivazione della ricerca nelle università: il finanziamento degli assegni di ricerca. Si tratta, finalmente, di una cosa buona con la quale si finanziano gli assegni dei nostri giovani ricercatori. Però, anche in questo caso, voi, pur volendo perseguire una buona intenzione, siete riusciti ad attuarla malamente creando diversi problemi. Innanzitutto, mi stupisce la motivazione di questo stanziamento. Si prevede, in particolare, che esso sia destinato a consentire alle università di fare fronte ai programmi di ricerca. La norma sembrerebbe voler dire che siamo in presenza di un'emergenza che spiegherebbe, fra l'altro, il ricorso allo strumento del decreto-legge. In altre parole, è come se si sostenesse che oggi le università non sono in grado di fare fronte ai programmi di ricerca a causa di una carenza di finanziamenti. Ed è effettivamente così; conseguentemente, è una norma veritiera quella che voi avete inserito all'articolo 1. Una norma, quindi, che smentisce tutto il trionfalismo usato dal ministro Moratti nei suoi messaggi mediatici di questi mesi; ministro che ha sostenuto che nel nostro paese la ricerca nelle università è stata finanziata e che vi è stato anche un incremento di tali finanziamenti che avvicinano ormai l'Italia agli standard europei in settore.
La realtà, che tiene conto soprattutto di quanto sostengono docenti e ricercatori universitari, pone in evidenza una carenza di finanziamenti nel comparto della ricerca. E voi, proprio con la previsione contenuta all'articolo 1, riconoscete implicitamente una carenza di risorse finanziarie, tant'è che prevedete un apposito fondo cui destinate 32 milioni di euro.
Quello di cui si discute con il provvedimento in esame è un problema grave, soprattutto perché veniamo da quasi cinque anni di blocchi delle assunzioni e siamo alla vigilia di un vero e proprio esodo pensionistico che interesserà quasi la metà dei docenti universitari che, a sua volta, farà sorgere un inevitabile problema di ricambio generazionale.
In questi anni, i nostri migliori cervelli, i molti giovani italiani pieni di talento (per nostra fortuna, ne abbiamo tanti), hanno trovato quasi tutte le porte sbarrate nella ricerca pubblica: negli enti, blocco totale; nelle università, carenza di finanziamenti; blocchi delle assunzioni a singhiozzo. Molti di essi - si tratta di giovani brillanti, i quali vantano già decine di pubblicazioni nelle riviste scientifiche più accreditate a livello mondiale - continuano a svolgere il proprio lavoro con stipendi da fame (sotto i mille euro al mese), in condizioni di totale incertezza sul loro futuro e senza avere la possibilità di essere valutati per quello che fanno, vedendo riconosciuto il loro impegno.
La legge Moratti aveva promesso un ricambio generazionale; invece, la sua versione definitiva premia, nei concorsi universitari, il criterio dell'anzianità. Viceministro Ricevuto, ricorderà la discussione svoltasi in VII Commissione quando, in modo imprevisto ed imprevedibile, proprio lei presentò un emendamento ai sensi del quale quindici anni di anzianità valevano come titolo ai fini dei concorsi universitari. Quindi, avete fatto di tutto per bloccare il ricambio generazionale, per tenere i giovani fuori dalla porta!
In questi anni, vi abbiamo sollecitati a perseguire una politica contraria, a riaprire le porte, a bandire i concorsi, a finanziare l'assunzione di giovani. Gli appelli non sono venuti soltanto da noi, ma anche dal mondo della ricerca. Persino dal Presidente della Repubblica è venuta una sollecitazione che vi ha costretti in qualche modo ad intervenire. Quando, nel 2003, avete previsto una deroga al blocco delle assunzioni, non avete fatto altro che raccogliere una precisa sollecitazione del Presidente della Repubblica: il Presidente Ciampi lanciò un allarme nel corso di un incontro con i giovani talenti italiani, i quali minacciavano di andare all'estero perché non trovavano alcuna risposta in Italia.
In tutti questi anni, abbiamo presentato molti emendamenti...
PRESIDENTE. Onorevole Tocci...
WALTER TOCCI. Signor Presidente, credevo di poter usufruire anche del tempo che non è stato utilizzato dalla collega del mio gruppo, ma, se non è così, mi avvio a concludere.
Non c'è stata alcuna possibilità di risolvere il problema. Oggi, con le ultime norme, riconoscete che il problema esiste, ma date gli assegni di ricerca soltanto per un anno, mentre sappiamo che, di solito, la durata dell'assegno di ricerca è di due anni (ma anche di quattro; addirittura, può essere rinnovato fino ad otto anni). Purtroppo, è difficile che in un anno si possa portare avanti un vero progetto di ricerca. A tale riguardo, signor viceministro, le faccio notare che la 7a Commissione del Senato aveva deciso di dare validità biennale all'assegno di ricerca (come vorrebbero, del resto, il buonsenso e l'esperienza di tutti gli atenei d'Italia).
Evidentemente, si tratta, anche in questo caso, di un tentativo propagandistico dell'ultimo minuto. Infatti, non soltanto prevedete una misura una tantum, che non vale per il 2006 e per il 2007, ma la spalmate su un numero doppio di quello degli aventi diritto e ne riducete la durata ad un anno (mentre, normalmente, gli assegni di ricerca hanno durata biennale).
L'iniziativa è positiva, ma viene adottata con un intento tutto propagandistico; di conseguenza, mancano il respiro, la programmazione che sarebbe necessaria e la durata temporale congrua per un programma di ricerca.
La cosa più grave è che avete escluso gli enti pubblici: il CNR, l'ENEA, l'Agenzia spaziale italiana e tutti gli altri enti pubblici non potranno utilizzare lo strumento dell'assegno di ricerca! L'esclusione è incomprensibile, perché nella legge istitutiva del 1998 si faceva riferimento sia alle università sia agli enti pubblici di ricerca. È possibile che il presidente del CNR non abbia segnalato il problema? Come mai questo accanimento del Governo contro gli enti pubblici di ricerca?
Non so se si tratti di una svista, onorevole viceministro. Spero che lei possa correggerla, attraverso un emendamento proposto dal Governo, o comunque mediante un avviso favorevole sull'emendamento che noi abbiamo già presentato. Sarebbe davvero un fatto molto grave impedire agli assegnisti degli enti di ricerca di godere di questo strumento, di questo finanziamento.
Vengo infine alla questione riguardante l'Istituto di studi germanici. Con questa approvanda disposizione, voi applicate all'Istituto di studi germanici le norme previste per il CNR.
Il CNR è il più grande ente di ricerca italiano, con ottomila dipendenti e quattromila ricercatori. L'Istituto di studi germanici è, dal punto di vista del personale e della struttura, un piccolo istituto. Voi alzate una montagna per spostare un topolino. Ricorrete cioè ad una strumentazione normativa molto complessa, quale quella del CNR, e la imponete ad una struttura molto semplice, quale quella dell'Istituto di studi germanici. È chiaro a tutti che si tratta di una incongruenza, di una cosa esuberante, di un modo di normare assolutamente spropositato e fuori misura.
Tutto ciò ricordando anche che è chiaro a tutti che la macchina amministrativa del CNR non funziona e che, quando è stata applicata ad altri enti, come nel caso dell'INFN, ha prodotto già dei risultati molto, molto negativi.
Non si capisce quindi perché all'Istituto di studi germanici si debba sovrapporre una norma così pesante, così farraginosa. Ricordo che l'istituto fu creato dal fascismo, nel 1931, e il fascismo ne fece una delle migliori strutture culturali del tempo: pur dentro la gabbia della tirannia, in quell'istituto, negli anni Trenta, si fecero sentire le migliori menti dell'area culturale tedesca, da Carl Schimtt a Werner Jaeger, al grande Heidegger, che vi tenne una grande conferenza su Holderlin. Nonostante, appunto, il regime, la tirannia, anche alcuni intellettuali di origine ebrea poterono esprimersi in quella sede.
La Repubblica confermò l'Istituto di studi germanici, togliendo la definizione di «regio istituto», ma ne riconobbe i regolamenti e gli istituti esterni. Ora arrivate voi, dopo tanti e tanti anni, e cancellate
questi regolamenti, che nessuno aveva mai messo in discussione, per applicare a quell'istituto la pesante burocrazia del CNR. Non si capisce perché. Nessuno lo ha motivato. C'è da essere maliziosi, in quanto l'unica cosa che cambia per davvero è il fatto che viene meno la figura del direttore come organo dell'istituto. Come mai avete messo in campo questa burocrazia così ampia con l'unico risultato di eliminare il direttore come organo dell'istituto?
Infine, perché vi occupate soltanto di burocrazia, soltanto di norme, di regolamenti, e non guardate alla sostanza? Se per una volta abbiamo l'opportunità di trattare in questa sede dell'Istituto di studi germanici, a me piacerebbe discutere di cose sostanziali.
WALTER TOCCI. Una delle cose sostanziali è, ad esempio, il modo in cui funziona la biblioteca dell'istituto. Si tratta di una delle biblioteche più importanti sulla cultura tedesca, addirittura a livello europeo. È una prestigiosa e ricca biblioteca. Ebbene, quella biblioteca funziona oggi a ranghi ridotti, con un orario che io considero impresentabile: chiude alle ore 13, quando invece una struttura culturale di quella rilevanza, di quel prestigio, di quella importanza, dovrebbe essere aperta mattina, pomeriggio e sera, perché si tratta di un'istituzione che dovrebbe essere a disposizione di tutti i ricercatori, di tutti gli studiosi della materia; tanto più che proprio in questi giorni è arrivata, purtroppo, una brutta notizia, e cioè che la biblioteca del Goethe Institut, qui a Roma, verrà chiusa per carenza di fondi. Quindi, gli studiosi della cultura tedesca non avranno più neppure a disposizione quella struttura.
Allora, io le chiedo, signor viceministro, almeno di accompagnare questo provvedimento, rispetto al quale non concordiamo per le ragioni che ho evidenziato, con un ordine del giorno che assicuri all'istituto le condizioni operative necessarie per ampliare l'orario della biblioteca e consentire, quindi, a tutti gli studiosi di utilizzare questa prestigiosa struttura culturale del nostro paese.
Infine, signor Presidente, mi perdonerà se accenno anche alla questione del titolo professionale di enologo. Siamo in presenza di una norma di cui si capisce il senso, ma che è evidentemente sbagliata sul piano tecnico. Infatti, andate ad equiparare la cosiddetta laurea breve al diploma universitario. Come sapete, quest'ultimo non esiste più; pertanto, non si capisce come si possa equiparare un titolo vigente ad un titolo di studio che non è più in vigore. Sarebbe stato molto più semplice fare l'inverso, cioè equiparare il diploma alla cosiddetta laurea breve e affermare che, comunque, sono riconosciute le condizioni previste dalla legge del 1991 per il titolo professionale di enologo. Questo è un altro esempio. In tal modo, tra l'altro, avete derogato anche al parere consultivo del CUN, che è obbligatorio nelle procedure di equipollenza.
Si tratta di un'ulteriore dimostrazione della farraginosità di norme in gran parte inutili o, comunque, improvvisate che, quindi, produrranno problemi. Anche le notizie positive, come quella del finanziamento degli assegni di ricerca, sono accompagnate da esclusioni ingiustificate nei confronti di altri soggetti, come gli enti di ricerca, che ne avrebbero molto, molto bisogno (Applausi dei deputati dei gruppi dei Democratici di sinistra-L'Ulivo e della Margherita, DL-L'Ulivo).
PRESIDENTE. Non vi sono altri iscritti a parlare e pertanto dichiaro chiusa la discussione sulle linee generali.
PRESIDENTE. Ha facoltà di replicare il relatore, onorevole Garagnani.
FABIO GARAGNANI, Relatore. Signor Presidente, replicherò brevemente, in
quanto parte del dibattito si è già svolta in sede di Commissione. Volevo evidenziare, però, la sottovalutazione, da parte dei colleghi del centrosinistra che sono intervenuti, e anche la insufficiente valutazione dei contenuti innovativi di questo provvedimento, soprattutto per quanto riguarda la definizione di una serie di criteri che regolamentano il funzionamento delle scuole private. Mi pare, infatti, che si sottovaluti il rischio di una proliferazione di scuole che tali non sono e che si faccia un processo alle intenzioni del Governo senza essersi misurati con la realtà dei fatti. Non si vuole comprimere - ci mancherebbe altro! - le libertà di alcuno. Semplicemente, si vuole definire, in termini precisi, ciò che è scuola rispetto a ciò che scuola non è, in presenza di fatti di cronaca che ognuno di noi ha verificato e sui quali, da ogni schieramento, ci siamo espressi in termini preoccupati. Credo sia dovere del legislatore approvare norme proprio per garantire la quiete pubblica, l'ordine pubblico e la necessaria distinzione tra ciò che è scuola e ciò che scuola non è - come dicevo - oltre alla possibilità di apprendimento da parte di tutti coloro che sono in età di apprendere, da parte dei discenti di ogni categoria sociale e di ogni età, a seconda della scuola di appartenenza. Questa è una esigenza che si è palesata in questi anni e non è certo in contrasto con la Costituzione. Si tratta di una esigenza manifestata da gran parte dell'opinione pubblica e risponde a quei criteri di regolamentazione ai quali si richiama spesso la sinistra, polemizzando con il Governo per una presunta liberalizzazione, per una presunta incoerenza e per una presunta volontà di smantellare l'apparato dello Stato. Il riferimento alle scuole paritarie, pure contenuto in questo provvedimento, e la distinzione fra scuola paritaria e scuola eminentemente privata serve a chiarire l'orientamento del Governo.
Altra contraddizione che ho notato negli interventi dei rappresentanti della sinistra è il rimprovero al Governo per le scarse risorse messe a disposizione delle scuole paritarie. In effetti, non ho alcuna difficoltà a riconoscere che le risorse sono limitate. Nello stesso tempo, il centrosinistra, che di questo ci rimprovera, chiede costantemente un aumento della dotazione per la scuola statale, senza rendersi conto dei gravi limiti del bilancio, accusando il Governo in ogni sede, istituzionale e non, di privilegiare le scuole paritarie. Allora, mettetevi d'accordo: il Governo o è accusato in un senso, o lo è nell'altro. Tale contraddizione è stata palesata anche in questa sede.
D'altra parte, è bene rammentare che circa il 97 per cento del bilancio del Ministero dell'istruzione, dell'università e della ricerca è destinato alla retribuzione degli insegnanti, il che dà già un'idea degli impegni e degli oneri - e, aggiungerei, dei problemi - sottostanti la scuola italiana; quest'ultima, dunque, deve porsi proprio la necessità di una migliore definizione dei propri organici. Soprattutto, va posta la questione delle prospettive della ricerca e del ruolo della scuola paritaria, la quale deve assumere una funzione realmente pubblica, che finora, invece, non le è stata riconosciuta.
Questo provvedimento cerca di porre rimedio almeno in parte a tali aspetti e, soprattutto, per quanto riguarda la scuola, definisce alcuni criteri, scolastici ma anche di ordine pubblico, che ritengo ogni Stato moderno ed ogni Governo che si trovi in una situazione di particolare emergenza - quale è quella di ogni Governo europeo - deve affrontare; e di tali questioni il provvedimento si è fatto carico.
Tralascio di entrare nel merito di altri punti relativi a misure limitate che riguardano la sanità e l'università; anche per quest'ultima, comunque, ritengo sia stato fatto un passo avanti proprio con riferimento alle condizioni anche economiche ed istituzionali in cui versano i nostri atenei o buona parte di essi.
PRESIDENTE. Ha facoltà di replicare il rappresentante del Governo.
GIOVANNI RICEVUTO, Viceministro dell'istruzione, dell'università e della ricerca. Intendo replicare, signor Presidente,
perché chiamato in causa dall'onorevole Tocci.
Anzitutto, intendo dichiarare che francamente non avrei mai pensato che si potesse giungere ad una interpretazione così paradossale; poneva una domanda, l'onorevole Tocci, con riferimento alla questione se si potessero continuare a chiamare scuola le scuole guida e, addirittura, le scuole di bocce.
Ebbene, al riguardo, ritengo che non vi possa essere assolutamente alcuna contraddizione o impedimento in tale senso; a ben leggere il testo, infatti (e se l'onorevole Tocci l'avesse letto attentamente come noi abbiamo fatto, non avrebbe posto la questione), l'impedimento a chiamarsi scuola è posto - riporto le espressioni contenute nel quinto comma dell'articolo 1-bis - soltanto per quelle «sedi» e per quelle «attività di insegnamento che non presentino le condizioni di cui al comma 4» e che quindi non possono comunque assolvere al «diritto-dovere all'istruzione e alla formazione».
WALTER TOCCI. Non vi è scritto!
GIOVANNI RICEVUTO, Viceministro dell'istruzione, dell'università e della ricerca. Nel richiamare il comma 4, si fa riferimento all'esigenza che vi sia «un progetto educativo» e una «offerta formativa» che siano «conformi ai principi della Costituzione e all'ordinamento scolastico italiano»; con «scolastico» si intende, appunto, fare riferimento ad un momento importante dell'istruzione degli alunni di questo paese.
WALTER TOCCI. Quindi, chi non è in quelle condizioni non può chiamarsi scuola!
GIOVANNI RICEVUTO, Viceministro dell'istruzione, dell'università e della ricerca. Sono stato poi chiamato in causa, onorevole Tocci, anche per un altro aspetto del problema, relativo al fatto che questo Governo, a suo modo di vedere, non avrebbe le caratteristiche per continuarsi a definire un Governo liberale.
WALTER TOCCI. Quanto lei sta dicendo non corrisponde al testo!
GIOVANNI RICEVUTO, Viceministro dell'istruzione, dell'università e della ricerca. Ritengo invece che questo Governo non ha nulla da imparare da alcune parti politiche, compresa la sua, in relazione alla caratterizzazione liberare dei provvedimenti da esso approvati, da questo ora in esame a quello sulla inappellabilità delle sentenze da voi tanto avversato.
Per noi infatti il liberalismo è innanzitutto una dottrina che assume sempre la difesa e la realizzazione delle libertà individuali e collettive, il che avviene, appunto, con il provvedimento sulla inappellabilità delle sentenze.
Voglio poi ricordare come fino a pochi anni fa considerarsi liberali significava essere messi alla berlina da una certa cultura propria della sinistra e del suo partito.
WALTER TOCCI. Ma dove lo ha letto? Su Topolino, lo ha letto...!
GIOVANNI RICEVUTO, Viceministro dell'istruzione, dell'università e della ricerca. Oggi, invece, è diventato una moda, onorevole Tocci. Lo è diventato dopo la caduta del muro di Berlino; è diventato una moda anche per la cultura della sinistra. Dopo la caduta del muro di Berlino, anche voi avete scoperto il mercato.
WALTER TOCCI. Non sa di che parla!
GIOVANNI RICEVUTO, Viceministro dell'istruzione, dell'università e della ricerca. Va da sé che i seguaci dell'ideologia comunista interpretano il mercato a modo loro applicando gli stessi schemi mentali usati sempre e ciò ovviamente stravolge la stessa caratterizzazione, la stessa indicazione dell'essere liberali.
PRESIDENTE. Avverto che è stata presentata, a norma dell'articolo 96-bis, comma 3, del regolamento, la questione pregiudiziale Grignaffini ed altri n. 1 (vedi l'allegato A - A.C. 6293 sezione 1), che sarà discussa e votata in altra seduta.
Il seguito del dibattito è rinviato ad altra seduta.
PRESIDENTE. Comunico l'ordine del giorno della seduta di domani.
Martedì 31 gennaio 2006, alle 11,30:
1. - Seguito della discussione della proposta di legge (previ esame e votazione delle questioni pregiudiziali di costituzionalità e delle questioni sospensive presentate):
PECORELLA: Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento (Rinviata alle Camere dal Presidente della Repubblica) (4604-C).
- Relatore: Bertolini.
2. - Seguito della discussione del disegno di legge (previ esame e votazione della questione pregiudiziale presentata):
S. 3684 - Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 5 dicembre 2005, n. 250, recante misure urgenti in materia di università, beni culturali ed in favore di soggetti affetti da gravi patologie, nonché in tema di rinegoziazione di mutui (Approvato dal Senato) (6293).
- Relatore: Garagnani.
3. - Seguito della discussione del disegno di legge:
Conversione in legge del decreto-legge 10 gennaio 2006, n. 4, recante misure urgenti in materia di organizzazione e funzionamento della pubblica amministrazione (6259-A).
- Relatore: Mazzoni.
La seduta termina alle 18,15.
ISABELLA BERTOLINI, Relatore. Il 20 gennaio scorso il Presidente della Repubblica ha rinviato alle Camere la legge sulla inappellabilità delle sentenze di proscioglimento approvata dalla Camera dei deputati il 21 settembre 2005 e dal Senato il 12 gennaio 2006.
A seguito del rinvio, la Commissione giustizia della Camera ha esaminato il testo apportandovi alcune modifiche che, come affermato nel parere espresso dalla Commissione Affari Costituzionali, sono in linea con i rilievi del Capo dello Stato. Anzi, specialmente per quelli relativi ai casi di ricorso per Cassazione, si può sicuramente affermare che le questioni di costituzionalità evidenziate dal Presidente della Repubblica sono state pienamente risolte.
Si tratta di un provvedimento la cui ratio ed il cui contenuto è a tutti ben noto. Ricordo, infatti, che si è arrivati alla formulazione del testo dopo un approfondito lavoro in Commissione giustizia nel corso della prima lettura, al quale hanno partecipato con spirito costruttivo tutti i gruppi. È vero che spirito costruttivo non significa condivisione del testo, ma è anche vero che su alcune parti significative di esso oggetto del rinvio - mi riferisco al principio della inappellabilità delle sentenze di proscioglimento da parte del pubblico ministero - si era registrato da parte di gruppi di opposizione, se non un vero e proprio atteggiamento di favore alla introduzione immediata del principio nell'ordinamento, almeno una condivisione in
astratto del medesimo. Le dinamiche politiche hanno poi portato l'opposizione su una posizione di accesa (naturalmente legittima) contrapposizione su tutto il provvedimento. Tuttavia, anche quando il confronto parlamentare è diventato più aspro, i più rappresentativi gruppi di opposizione non hanno mai messo in dubbio la costituzionalità del principio della inappellabilità per il pubblico ministero delle sentenze di proscioglimento. Piuttosto, è stata sostenuta l'opportunità di procedere alla riforma dei sistemi di impugnazione in maniera più organica e complessiva. Una cosa è dire: non si introduca nell'ordinamento il principio della inappellabilità perché è in contrasto con i principi costituzionali; altra cosa è dire: non si introduca tale principio perché è opportuno che prima sia riconsiderato nel complesso il sistema delle impugnazioni. Si tratta di una distinzione che credo debba essere tenuta sempre presente nel corso dell'esame che ci apprestiamo ad avviare. Sulla parte del provvedimento che, invece, ha per oggetto i casi di ricorso in Cassazione, l'opposizione ha sempre manifestato contrarietà: a volte nel merito, altre volte sotto il profilo della costituzionalità, ma senza arrivare a presentare una pregiudiziale di costituzionalità, come sovente invece avviene quando l'Assemblea esamina un provvedimento che l'opposizione considera incostituzionale.
La scelta del Parlamento di introdurre nell'ordinamento il principio della inappellabilità delle sentenze di proscioglimento si basava anche sulla posizione di una parte della dottrina e su alcune decisioni della Corte costituzionale. Sotto il primo profilo, rimando agli scritti dei professori Coppi, Padovani, Spangher e Stella, con i quali si era sottolineata l'opportunità di prevedere nel codice di procedura penale il principio in questione, in quanto considerato come vera e propria espressione degli stessi principi costituzionali. Per quanto riguarda la Corte costituzionale, furono considerate decisive due sentenze. Con la sentenza n. 98 del 1994 si è chiarito che il riconoscimento di uno strumento di impugnazione a favore di una sola parte processuale non determina necessariamente una disparità di trattamento di rilevanza costituzionale. La sentenza n. 280 del 1995 è stata chiara nel precisare che l'appello non costituisce una estricazione necessaria dell'azione penale. A ciò si aggiunga che le sezioni unite della Corte di Cassazione (sentenza Franzese del 2002 e sentenza Andreotti del 2003) ed il procuratore generale presso la Corte di Cassazione (relazione di inaugurazione dell'anno giudiziario 2004) hanno posto la questione della incongruenza di una sentenza di appello di condanna che riformi una sentenza di proscioglimento di primo grado, presupponendo la legittimità costituzionale di una riforma volta a sopprimere l'appello delle sentenze di proscioglimento, prefigurando diverse soluzioni del problema. D'altro canto, dopo l'approvazione della legge da parte delle due Camere ed anche successivamente al rinvio del Capo dello Stato, si è registrata una serie di interventi a tutela del principio dell'inappellabilità delle sentenze di proscioglimento, come ad esempio quelli dei professori Baldassarre e Frosini.
Passo ora ad esaminare il provvedimento alla luce dei rilievi del Presidente della Repubblica.
Questi hanno riguardato l'introduzione nell'ordinamento del principio di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento e la modifica dei casi di ricorso per Cassazione. Nel primo caso sarebbe violato il principio di parità delle parti sancito dall'articolo 111 dalla Costituzione, nel secondo caso, sempre in violazione dell'articolo 111 della Costituzione, la Corte di Cassazione sarebbe trasformata da giudice di legittimità in giudice di merito, con un aggravio così pesante del carico di lavoro della Corte di Cassazione da determinare una violazione di principi costituzionali, quali quelli della ragionevole durata del processo e del buon andamento dell'amministrazione della giustizia, sanciti rispettivamente dagli articoli 111 e 97 della Costituzione.
Il principio della inappellabilità delle sentenze di proscioglimento da parte del pubblico ministero è affermato dall'articolo
1 della proposta di legge, che modifica l'articolo 593 del codice di procedura penale limitando i casi di appello alle sole sentenze di condanna.
Come ho prima accennato, il Presidente della Repubblica ha ritenuto tale modifica al codice di rito non conforme alla Costituzione. Più in particolare, nel messaggio di rinvio si legge che la soppressione dell'appello delle sentenze di proscioglimento «a causa della disorganicità della riforma, fa sì che la stessa posizione delle parti nel processo venga ad assumere una condizione di disparità che supera quella compatibile con la diversità delle funzioni svolte dalle parti stesse nel processo.» Viene ricordato che le asimmetrie tra accusa e difesa costituzionalmente compatibili non devono mai travalicare i limiti fissati dal secondo comma dell'articolo 111 della Costituzione. Inoltre, si ricorda che è parte del processo anche la vittima del reato costituitasi parte civile, la quale vedrebbe «compromessa dalla legge approvata la possibilità di far valere la sua pretesa risarcitoria all'interno del processo penale.» Infine, si ritiene incongruente che il pubblico ministero totalmente soccombente non possa proporre appello, mentre tale facoltà è prevista quando la sua soccombenza sia solo parziale, avendo ottenuto una condanna diversa da quella richiesta. Sono poi indicate come contraddittorie due disposizioni del codice di procedura penale in quanto non sono state modificate nonostante che la loro formulazione sembri rinviare ad ipotesi di appello contro sentenze di proscioglimento.
La Commissione giustizia ha confermato il principio della inappellabilità delle sentenze di proscioglimento, escludendolo tuttavia in un caso particolare.
Non è stata, quindi, accolta la prima censura che evidenzia una disparità tra le parti processuali, poiché al pubblico ministero totalmente soccombente è stata sottratta la facoltà di proporre appello contro le sentenze di proscioglimento.
Nel sancire il principio dell'inappellabilità di tali sentenze la questione del rapporto tra le parti è stata tenuta in debito conto sia in prima lettura che in seconda lettura, pervenendo alla conclusione che non attribuire la facoltà di presentare appello contro una sentenza di proscioglimento non significa violare il principio di parità delle parti processuali. A tale proposito si ricorda che la sentenza n. 98 del 1994 della Corte costituzionale ha chiarito che il riconoscimento del potere di impugnazione dell'imputato non ne comporta di per sé uno corrispondente per il pubblico ministero, le cui funzioni non sono assistite da garanzie di intensità pari a quelle assicurate all'imputato dall'articolo 24 della Costituzione. Ciò vale anche dopo la riforma dell'articolo 111 della Costituzione, che ha affermato il principio della parità tra le parti del processo. L'introduzione di tale principio costituzionale non ha fatto venir meno il principio enunciato dalla Corte costituzionale nel 1994, poiché, anche come è stato affermato in dottrina, il principio di parità non significa una simmetria tra la parte privata e quella pubblica. Il principio di parità delle parti, infatti, deve essere letto in base all'intero dettato costituzionale. In caso contrario, si potrebbe arrivare anche a sostenere, ad esempio, che all'indagato spetterebbe di disporre della polizia giudiziaria ai fini delle indagini al pari del pubblico ministero. La stessa Corte costituzionale ha più volte ribadito che la circostanza che la parte privata in alcuni casi sia titolare di minori facoltà rispetto alla parte pubblica non determina necessariamente una disparità di trattamento rilevante sotto il profilo costituzionale. Nel caso dell'appello dell'imputato contro una sentenza di condanna vi è una diretta esplicazione di un diritto di rilevanza costituzionale (il diritto di difesa), ma lo stesso non lo si può dire per l'appello del pubblico ministero contro le sentenze di assoluzione. Uno Stato democratico non può riconoscere alcun diritto costituzionale volto ad ottenere pervicacemente una sentenza di condanna nei confronti di un soggetto già riconosciuto innocente al termine di un processo regolare. Deve, invece, riconoscere a colui che è stato ritenuto colpevole di un reato la possibilità di dimostrare la propria innocenza innanzi
ad un altro giudice. È questa la ratio del principio di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento: in un ordinamento che ha la persona come proprio fulcro, non si può ammettere che un individuo, già riconosciuto innocente da un organo dello Stato (il giudice di primo grado) al termine di un regolare processo, possa essere nuovamente assoggettato ai patimenti del processo penale per consentire ad un altro organo dello Stato (il pubblico ministero) di provare che nel primo processo lo Stato si era sbagliato.
Il principio di parità delle parti processuali letto alla luce dei principi fondamentali della Carta costituzionale non significa che le parti debbano avere necessariamente gli stessi identici strumenti processuali, quanto piuttosto che nel processo la difesa e l'accusa si devono trovare su uno stesso piano al cospetto di un giudice terzo. L'articolo 111 della Costituzione su tale punto è chiaro: la parità tra le parti riguarda il contraddittorio che si svolge innanzi ad un giudice terzo. È tutt'altra cosa affermare che le parti debbano necessariamente avere a disposizione i medesimi strumenti processuali affinché il principio di parità trovi attuazione. I mezzi che ciascuna parte deve avere a propria disposizione per poter investire nel merito un altro giudice non dipendono da quelli che sono attribuiti all'altra parte, ma devono fondarsi su interessi o diritti costituzionalmente rilevanti. Ad esempio, lo strumento della revisione della sentenza è previsto dal codice di procedura penale solamente per modificare la sentenza di condanna e non anche per condannare chi sia stato riconosciuto innocente da una sentenza passata in giudicato. Tuttavia, nonostante tale asimmetria, nessun profilo di incostituzionalità è stato avanzato in ragione della esclusione della revisione delle sentenze di proscioglimento su istanza del pubblico ministero.
Vi è inoltre un'ulteriore considerazione che deve essere sottoposta all'Assemblea.
È principio razionale prima che giuridico quello secondo cui la sentenza di condanna deve essere pronunciata quando non vi è alcun ragionevole dubbio circa la colpevolezza dell'imputato. A tale proposito si sottolinea che tale principio viene introdotto nel nostro ordinamento dall'articolo 5 della proposta di legge in esame, che su tale punto non è stata oggetto di alcun rilievo da parte del Presidente della Repubblica. Come si può affermare che non sussiste un dubbio quando una persona per uno stesso fatto e sulla base delle stesse prove sia considerato da un giudice innocente e da un altro giudice colpevole? Tale dubbio è ancora più forte se si considera che il giudice di appello ha un rapporto mediato con le prove, anziché diretto come lo ha invece il giudice di primo grado. La sentenza di condanna in appello è pronunciata da un giudice che ha letto soltanto delle carte. La sentenza di assoluzione di primo grado è pronunciata da un giudice in presenza del quale le prove si sono formate. La stessa Corte costituzionale ha più volte evidenziato la diversità dell'esame, sotto il profilo dell'acquisizione probatoria, tra il primo grado e l'appello, sottolineando che in questo secondo caso l'acquisizione della prova avviene in via indiretta.
Per le ragioni sopra esposte, la Commissione giustizia non ha ritenuto opportuno far venir meno il principio dell'inappellabilità delle sentenze di proscioglimento. Tuttavia, per ragioni di giustizia sostanziale, è stato approvato in Commissione un emendamento diretto a consentire l'appello anche contro le sentenze di proscioglimento nel caso in cui dopo il giudizio di primo grado siano emerse nuove prove. Naturalmente l'appello potrà essere proposto nell'ambito degli ordinari termini di decadenza previsti dalla legge per tale mezzo di impugnazione. Le nuove prove potranno essere sia a favore che a sfavore dell'imputato. Nel primo caso l'imputato avrà l'interesse a proporre appello contro la sentenza di proscioglimento qualora questa sia stata emanata a seguito della prescrizione del reato. Potrebbe comunque essere opportuno precisare che tale facoltà sia limitata a quelle sole prove che possono essere considerate decisive, cioè delle vere e proprie svolte ai fini della decisione.
Il Presidente della Repubblica, inoltre, ha sottolineato l'incongruenza che al pubblico ministero sia consentito di proporre appello in caso di soccombenza parziale. Proprio su questo punto, ricordo che l'onorevole Fanfani aveva presentato un emendamento volto a circoscrivere ai casi più rilevanti l'appello del pubblico ministero contro le sentenze di condanna. Dopo un approfondito esame anche in Comitato ristretto si decise di limitare l'intervento normativo alle sole sentenze di proscioglimento, rinviando ad un secondo momento la questione delle sentenze di condanna. Si tratta di una fattispecie del tutto diversa da quella soccombenza totale, in quanto nel caso di soccombenza parziale la questione della colpevolezza è stata risolta nel senso positivo.
La Commissione giustizia, pur senza rinunciare al principio della inappellabilità delle sentenze di proscioglimento, ha dato seguito alle preoccupazioni espresse dal Capo dello Stato circa le aspettative risarcitorie della parte civile. Il Presidente della Repubblica, infatti, ha ritenuto che la vittima del reato costituitasi parte civile vedrebbe «compromessa dalla legge approvata la possibilità di far valere la sua pretesa risarcitoria all'interno del processo penale.» Ricordo che anche di questa questione si è a lungo discusso nel corso dell'esame parlamentare ed, in particolare, di quello in Commissione giustizia. Per evitare che l'inappellabilità delle sentenze di proscioglimento si traducesse in un pregiudizio a danno della parte civile si è modificato l'articolo 652 del codice di procedura penale, in materia di efficacia della sentenza penale di assoluzione nei giudizi civili e amministrativi. È stata risolta la questione prevedendo che la sentenza di assoluzione non faccia stato nei confronti della parte civile salvo che questa si sia costituita nel processo ed abbia presentato le conclusioni. Ciò significa che la parte civile che si sia costituita potrà scegliere se presentare o meno le conclusioni, sapendo che, nel primo caso, una eventuale sentenza di assoluzione farà stato anche nei suoi confronti. La ratio della disposizione deve essere letta nella ottica più generale dei diversi piani di tutela: quello della tutela risarcitoria è il piano civilistico e non quello penale. Con la modifica all'articolo 652 del codice di rito si sono ridotte in maniera significativa le conseguenze nel processo civile rispetto a quanto avvenuto nel processo penale. Nonostante ciò la Commissione giustizia ha ritenuto di tutelare maggiormente la parte civile, modificando la disposizione generale, di cui all'articolo 576 del codice di procedura penale, relativa agli atti di impugnazione della parte civile contro i capi della sentenza di proscioglimento pronunciata nel giudizio penale, stabilendo che tale impugnazione, limitata ai soli effetti civili, possa essere effettuata in via diretta e non più con il mezzo previsto per il pubblico ministero. Ciò ha portato alla soppressione dell'articolo 577 del codice di rito relativo alla impugnazione della persona offesa per i reati di ingiuria e diffamazione. In tali casi, troverà applicazione la norma di carattere generale di cui all'articolo 576.
A tale proposito, si segnala che nel messaggio di rinvio sono evidenziate delle incongruenze normative determinate dalla mancanza di coordinamento degli articoli 577 e 597, comma 1, lettera b) del codice di procedura penale e articolo 36 del decreto legislativo 28 agosto 2000, n. 274, sulla competenza penale del giudice di pace, con la nuova disciplina dell'appello. È stato evidenziato che l'articolo 577 del codice di procedura penale continua a prevedere la impugnazione delle sentenze di proscioglimento per i reati di ingiuria e diffamazione, senza specificare se essa riguardi anche l'appello. Per quanto riguarda l'articolo 577, ricordo che la Commissione ha provveduto a sopprimere la disposizione in oggetto. Non si è invece ritenuto opportuno modificare l'articolo 597, comma 1, lettera b), del codice di procedura penale, per quanto questo si riferisca alla ipotesi di sentenza di proscioglimento appellata dal pubblico ministero. Tale disposizione, infatti, continuerà a trovare applicazione in quei casi in cui le sentenze di proscioglimento potranno ancora essere oggetto di appello nonostante
l'introduzione del principio generale della loro appellabilità. Si tratta in particolare della ipotesi in cui una sentenza di proscioglimento che sia stata oggetto di ricorso per Cassazione sia convertita in appello ai sensi dell'articolo 580 del codice di procedura penale, così come modificato dal provvedimento in discussione.
Si è invece provveduto a sopprimere la disposizione dell'articolo 36 del decreto legislativo 28 agosto 2000, n. 274, che continuava a consentire l'appello del pubblico ministero contro alcuni tipi di sentenze di proscioglimento.
Come ho già precisato, il rinvio del Presidente della Repubblica ha per oggetto anche la disposizione volta a modificare l'articolo 606 del codice di procedura penale che disciplina i casi di ricorso per Cassazione, stabilendo che tra essi rientrano la mancata assunzione di una prova decisiva quando la parte ne ha fatto richiesta, sempre che la stessa fosse ammissibile, nonché la mancanza o la contraddittorietà ovvero la manifesta illogicità della motivazione della sentenza.
Riguardo a tali rilievi, le modifiche apportate al testo dalla Commissione giustizia possono sicuramente essere considerate esaustive, pur confermando nella sostanza la ratio del testo approvato dai due rami del Parlamento.
Secondo il Presidente della Repubblica, tali modifiche «generano un'evidente mutazione delle funzioni della Corte di Cassazione, da giudice di legittimità a giudice di merito, in palese contrasto con quanto stabilito dall'articolo 111 della Costituzione, che, al penultimo comma, dispone che contro le sentenze e contro i provvedimenti sulla libertà personale, pronunciati dagli organi giurisdizionali ordinari o speciali, è sempre ammesso ricorso per Cassazione per violazione di legge». In sostanza, la valutazione della motivazione demandata dalla Corte di Cassazione atteneva al controllo della legalità della sentenza, mentre oggi «dalla seconda modificazione introdotta, inevitabilmente discende che la Corte di Cassazione debba procedere al controllo della legalità dell'intero processo, riconsiderandone ogni singolo atto. Analoga mutazione si verifica per effetto della prima modificazione, nella parte in cui obbliga la Corte al controllo del fascicolo processuale in ogni caso di asserita decisività di qualsiasi prova non ammessa.»
Tutto ciò determinerebbe un pesante aggravio per la Corte di Cassazione che non poterebbe più ricorrere al meccanismo di ammissiblità dei ricorsi incentrato sulla cosiddetta sezione «filtro». Vi sarebbe una crescita in termini esponenziali del carico di lavoro tale da poter compromettere «il bene costituzionale dell'efficienza del processo» (articolo 97) ed il principio di ragionevole durata del processo (articolo 111). Questa situazione sarebbe aggravata dalla norma transitoria che, da un lato, prevede l'applicabilità anche ai procedimenti pendenti delle nuove disposizioni che ampliano i casi di ricorso per Cassazione e, dall'altro, converte in ricorso per Cassazione «l'appello proposto prima della data di entrata in vigore della presente legge contro una sentenza di proscioglimento». Aggravamento della situazione deriverebbe anche «dall'articolo 4, che modifica l'articolo 428 del codice di procedura penale, trasferendo dalla Corte d'appello alla Corte di Cassazione l'impugnazione della sentenza di non luogo a procedere», in quanto ne deriverebbe «non soltanto un ulteriore aumento di lavoro per la Corte di Cassazione, ma anche, in caso di mancata conferma della sentenza di non luogo a procedere, una regressione del procedimento, che ne allungherà inevitabilmente i tempi di definizione.»
In realtà, le modifiche apportate dalla proposta di legge approvata da Camera e Senato alla disciplina dei casi di ricorso per Cassazione furono dettate da una esigenza ben precisa: il giudizio di legittimità, che la Costituzione prevede come una fase che non può essere eliminata dal processo, deve essere garantito in tutta la sua pienezza. Ciò, naturalmente, non significa che il giudizio di legittimità deve trasformarsi in un giudizio di merito. Per quanto il testo rinviato dal Presidente della Repubblica non determinasse una
trasformazione della Corte di Cassazione da giudice di legittimità a giudice di merito, si è ritenuto opportuno modificare le disposizioni del testo relative ai casi di ricorso per Cassazione al fine di eliminare qualsiasi dubbio circa il loro fondamento costituzionale.
In primo luogo, si è modificata la disposizione volta a sostituire la lettera d) dell'articolo 606 del codice di procedura penale, in maniera tale da eliminare qualsiasi dubbio che le prove alle quali è fatto riferimento in tale lettera non siano quelle decisive, cioè quelle indicate dal comma 2 dell'articolo 495, come peraltro è previsto dalla normativa vigente. Si è, tuttavia, precisato, attraverso il richiamo agli articoli 507 e 603, comma 2, che l'ammissibilità delle prove di tale natura possa essere chiesta anche in una fase successiva a quella introduttiva relativa alla illustrazione delle prove. In sostanza la novità rispetto all'attuale normativa non è data dal parametro del giudizio, che continua ad essere la legittimità, quanto piuttosto dalla possibilità di eccepire il vizio di cui alla lettera d) dell'articolo 606 anche in relazione alle prove la cui ammissibilità è stata chiesta (e respinta) nel corso dell'istruttoria dibattimentale. È evidente che tale facoltà non muta la natura del giudizio, che era e rimane di legittimità. Tuttavia la formulazione della nuova disposizione potrebbe lasciare adito a dubbi interpretativi. Per tale ragione il Comitato dei nove potrebbe trovare una nuova formulazione in base alla quale sarà chiaro che la novità del testo è limitata all'allargamento della fase temporale nella quale la richiesta di ammissione di una prova diviene rilevante anche ai fini del giudizio in Cassazione.
La Commissione ha, inoltre, modificato anche la disposizione relativa alla sostituzione della lettera e) dell'articolo 606. In particolare, al fine di evitare qualsiasi dubbio interpretativo circa il fondamento costituzionale della nuova disciplina, si è limitata a modificare la disciplina vigente prevedendo che la mancanza o manifesta illogicità della motivazione possa risultare oltre che dalla sentenza (secondo quanto attualmente prevede la legge) anche da altri atti processuali specificatamente indicati tra i motivi del gravame. È del tutto evidente che il parametro di giudizio al quale la Corte di Cassazione deve fare riferimento per valutare l'illogicità della motivazione non è assolutamente mutato: continua a rimanere la legittimità.
Infatti, l'esame della contraddittorietà della motivazione appare come un sindacato di legittimità tanto nel caso in cui la contraddittorietà risulti dalla sentenza quanto nel caso in cui risulti da altri atti del processo. La modifica apportata dalla Commissione al testo rinviato alle Camere, comunque, non determina alcun eccessivo appesantimento del giudizio presso la Corte di Cassazione. Per tale ragione si è previsto che il vizio debba risultare comunque da un atto processuale e che questo debba essere specificamente indicato tra i motivi di gravame.
Circa la modifica dell'articolo 428, che disciplina i casi di impugnazione della sentenza di non luogo a procedere, si è intervenuti per coordinare la disciplina vigente al principio di inappellabilità sancito dall'articolo 1, per cui si è soppressa la previsione dell'appello e si è previsto che possa essere presentato ricorso per Cassazione. Tale ricorso non può che essere quello la cui disciplina è prevista in via generale dall'articolo 606. Non si tratta di una sostituzione nel giudizio di merito di secondo grado della Corte di Cassazione al giudice di appello. È stato piuttosto eliminato il giudizio di merito di secondo grado, residuando quello di legittimità.
Si segnala, inoltre, che nel corso dell'esame in Commissione, è stata posta la questione relativa alla sentenza di appello di condanna, che abbia riformato una sentenza di proscioglimento di primo grado, nel caso in cui la sentenza di appello sia stata poi annullata con rinvio da parte della Corte di Cassazione. In questo caso, l'instaurazione di un nuovo giudizio di appello potrebbe essere considerata incostituzionale sotto il profilo della disparità di trattamento. In questi casi, infatti, la fattispecie appare del tutto identica a quella che si verifica nel caso di
proscioglimento in primo grado. Così come in tale ipotesi non è ammesso l'appello, nel caso in cui la sentenza di appello di condanna sia stata annullata con rinvio dalla Corte di Cassazione, l'appello dovrà essere considerato inammissibile. Ritengo che di tale questione debba tenere conto il Comitato dei nove.
ERMINIA MAZZONI, Relatore. Il decreto-legge n. 4 del 2006, reca una serie di disposizioni urgenti in materia di organizzazione e di funzionamento della pubblica amministrazione. Il decreto-legge si compone di 35 articoli. L'articolo 1 reca norme di particolare rilievo in tema di semplificazione amministrativa e qualità della regolazione, con l'obiettivo di istituzionalizzare le iniziative a supporto della semplificazione e della better regulation, in modo da rendere le politiche di settore permanenti e periodicamente misurabili in termini di riduzione di atti, tempi e costi.
A tale fine, le attività di indirizzo e di guida strategica delle politiche di semplificazione e di qualità della regolamentazione sono attribuite ad un Comitato interministeriale di indirizzo, presieduto dal Presidente del Consiglio dei ministri (o dal ministro per la funzione pubblica da lui delegato). Il Comitato ha il compito di predisporre, antro il 31 marzo di ogni anno, un piano di azione per il perseguimento degli obiettivi del Governo in materia, e di verificarne periodicamente lo stato di attuazione. Il Comitato interministeriale si avvale del supporto della commissione di cui all'articolo 3, comma 6-duodecies, del decreto-legge 14 marzo 2005, n. 35, convertito, con modificazioni, dalla legge 14 maggio 2005, n. 80, ridenominata «Commissione per la semplificazione e la qualità della regolazione», il cui numero dei componenti è elevato da 20 a 30.
Per l'attuazione delle deleghe di cui all'articolo 14 della legge di semplificazione per il 2005 (legge 28 novembre 2005, n. 246), relative alla individuazione delle disposizioni legislative statali, pubblicate anteriormente al 1o gennaio 1970, delle quali si ritiene indispensabile la permanenza in vigore, il Comitato può avvalersi anche del Consiglio di Stato, presso la cui sezione per gli atti normativi è costituita una apposita segreteria tecnica.
Il comma 8 proroga di sessanta giorni il termine di cui all'articolo 14, comma 1, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, per la formulazione della direttiva annuale da parte dei ministri relativamente alla parte concernente l'indicazione dei meccanismi e degli strumenti di monitoraggio e valutazione dell'attività dirigenziale in relazione agli obiettivi fissati. Tale proroga è giustificata dalla necessità di adeguare, sulla base di linee guida fissate con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, i meccanismi e gli strumenti predetti al nuovo sistema informatico «Monitor», di recente elaborato dal ministro per l'attuazione del programma di Governo. Per l'implementazione di tale sistema, strategico per la verifica consuntiva dell'attività di Governo con riguardo agli obiettivi del programma nello scorcio finale della legislatura, nonché per l'implementazione degli obiettivi del programma del nuovo Governo che verrà formato all'esito delle prossime elezioni politiche, il comma 9 prevede che il ministro per l'attuazione del programma di Governo si avvalga di apposito Comitato tecnico, costituito da un massimo di otto componenti scelti tra le categorie di cui all'articolo 3, comma 6-duodecies, del decreto-legge n. 35 del 2005, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 80 del 2005 (professori universitari, magistrati amministrativi, contabili ed ordinari, avvocati dello Stato, funzionari parlamentari, avvocati del libero foro con almeno quindici anni di iscrizione all'albo professionale, dirigenti delle amministrazioni pubbliche ed esperti di elevata professionalità). Il Comitato è a sua volta assistito da una segreteria tecnica formata da un massimo di sei unità di personale, scelte anche tra estranei alla pubblica amministrazione.
Sulla nomina e sulle modalità di determinazione dei compensi dei componenti del Comitato tecnico e della segreteria tecnica dispone il successivo comma 10.
L'articolo 2 modifica, allo scopo di renderli maggiormente flessibili, i criteri di scelta del dirigente amministrativo della Scuola superiore della pubblica amministrazione (SSPA), adeguando la legislazione vigente all'esigenza di preporre al vertice amministrativo della scuola un soggetto dotato delle competenze manageriali e gestionali necessarie. In particolare, alle categorie tra le quali è attualmente possibile scegliere il dirigente amministrativo della SSPA (dirigenti di prima fascia dello Stato e i dirigenti di amministrazioni pubbliche di livello equivalente in base ai rispettivi ordinamenti) sono aggiunte le persone in possesso delle specifiche qualità professionali richieste per l'accesso agli incarichi dirigenziali di vertice delle amministrazioni (persone di particolare e comprovata qualificazione professionale, che abbiano svolto attività in organismi ed enti pubblici o privati ovvero aziende pubbliche o private con esperienza acquisita per almeno un quinquennio in funzioni dirigenziali, o che abbiano conseguito una particolare specializzazione professionale, culturale e scientifica desumibile dalla formazione universitaria e postuniversitaria, da pubblicazioni scientifiche o da concrete esperienze di lavoro maturate, anche presso amministrazioni statali, ivi comprese quelle che conferiscono gli incarichi, in posizioni funzionali previste per l'accesso alla dirigenza, o che provengano dai settori della ricerca, della docenza universitaria, delle magistrature e dei ruoli degli avvocati e procuratori dello Stato).
L'articolo 3 reca disposizioni in materia di personale delle amministrazioni dello Stato in posizione di comando o fuori ruolo, che rispondono ad un'esigenza di razionalizzazione delle risorse umane disponibili nelle amministrazioni. La norma in esame, infatti, attua il contenimento della spesa per il personale statale, imponendo alle amministrazioni dello Stato di stabilizzare nei propri ruoli, secondo il criterio dell'anzianità di servizio, il personale non dirigente di ruolo delle amministrazioni dello Stato in posizione di comando o di fuori ruolo, che ne faccia domanda e che sia in possesso dei richiesti e specifici requisiti culturali e professionali. L'inquadramento di tale personale nei ruoli delle amministrazioni in cui presta servizio comporterà una riduzione di spesa o, meglio, un risparmio di gestione, anche per le amministrazioni di originaria appartenenza, le quali vedranno diminuire i costi per il personale, senza tuttavia subire alcun depauperamento di funzionalità, trattandosi di personale che comunque non è utilizzato da anni. Dall'ambito di applicazione della norma sono escluse le unità di personale appartenente alle Forze armate e alle Forze di polizia. Per i dipendenti del Ministero degli affari esteri si applica quanto previsto dall'articolo 30, comma 2-ter, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165. Il personale non immediatamente trasferito per carenza di posti disponibili in organico nelle amministrazioni dove presta servizio, permane nella posizione di comando o di fuori ruolo, fino al successivo inquadramento a copertura di posti resisi disponibili in organico, con precedenza rispetto alle procedure concorsuali.
Con riferimento a tale articolo nel corso dell'esame in sede referente sono state valutate alcune proposte emendative volte a modificare l'ambito di applicazione della disposizione in esame; sulla questione il rappresentante del Governo si è riservato di compiere un approfondimento in vista dell' esame da parte dell'Assemblea e tali proposte sono state, conseguentemente, ritirate.
L'articolo 4 reca disposizioni volte a consentire un monitoraggio sui contratti a tempo determinato e la somministrazione a tempo determinato nelle pubbliche amministrazioni.
A tal fine la procedura autorizzatoria del reclutamento di personale a tempo indeterminato, prevista dall'articolo 35, comma 4, del decreto legislativo n. 165 del 2001 - che subordina le determinazioni relative all'avvio di procedure di reclutamento all'emanazione di apposito decreto
del Presidente del Consiglio dei ministri, da adottare su proposta del ministro per la funzione pubblica di concerto con il ministro dell'economia e delle finanze - viene estesa anche ai concorsi diretti a selezionare personale a tempo determinato per contingenti superiori alle cinque unità, inclusi i contratti di formazione e lavoro. In tal modo si consente il monitoraggio sull'utilizzo di tali tipologie di forme contrattuali flessibili di lavoro all'interno della pubblica amministrazione in relazione alle effettive esigenze e necessità temporanee delle amministrazioni, evitando la formazione di personale precario e l'elusione del blocco delle assunzioni. In tal senso, il comma 2 si propone di introdurre nel citato decreto legislativo n. 165 del 2001 una norma a carattere ordinamentale diretta a puntualizzare a livello normativo il carattere assolutamente eccezionale delle forme flessibili di lavoro all'interno della pubblica amministrazione.
L'articolo 5 consente alla Croce rossa italiana, che già si avvale di personale con contratti a tempo determinato, di continuare ad avvalersi sino al 31 dicembre 2006 del medesimo personale, in considerazione dei delicati compiti istituzionali cui è chiamata. La disposizione è finalizzata a garantire il normale svolgimento dell'attività della Croce rossa italiana, presso la quale la prestazione lavorativa dei soggetti che hanno stipulato contratti di lavoro a tempo determinato rappresenta una risorsa indispensabile per assicurare il perseguimento degli obiettivi istituzionali.
Le disposizioni introdotte dall'articolo 6, comma 1, sono volte a semplificare le procedure relative agli accertamenti sanitari previsti dalla legge per le persone affette da disabilità, mentre il comma 2 modifica l'articolo 399 del testo unico in materia di istruzione, di cui al decreto legislativo 16 aprile 1994, n. 297, che prevede che i docenti immessi in ruolo non possono chiedere il trasferimento ad altra sede nella stessa provincia prima di due anni scolastici e in altra provincia prima di tre anni scolastici, stabilendo che tale disposizione non si applica ai docenti che hanno un figlio affetto da grave disabilità da assistere quotidianamente, e che svolgono la propria attività al di fuori della provincia di residenza. Il comma 3 semplifica e limita le visite di rivedibilità e di controllo previste per i soggetti portatori di menomazioni o di patologie stabilizzate (ad esempio amputazioni di arto, condizioni genetiche) che non comportano variazione nel tempo, al fine di evitare inutili disagi per i cittadini e un sovraccarico di lavoro per le stesse commissioni deputate all'accertamento.
In proposito ritengo opportuno segnalare all'Assemblea e al Governo che la disposizione da ultimo richiamata sostituisce integralmente il comma 2 dell'articolo 97 della legge n. 388 del 2000 e che tale disposizione è oggetto, invece, di una puntuale integrazione da parte dell'articolo 3, comma 3, del decreto-legge n. 250 del 2005, il cui disegno di legge di conversione è iscritto all'ordine del giorno dell'odierna seduta.
Poiché il decreto-legge al nostro esame è entrato in vigore successivamente a quello cui ho fatto riferimento, la disposizione attualmente vigente è quella recata dal provvedimento in esame; ritengo quindi che sia opportuno verificare, con il rappresentante del Governo se tale disposizione, che si riferisce in generale ai soggetti portatori di menomazioni o patologie stabilizzate o ingravescenti, debba essere o meno integrata con il riferimento alla specifica patologia di cui al precedente decreto n. 250.
Con le disposizioni introdotte dall'articolo 7 si intende realizzare un sistema di monitoraggio delle disposizioni in materia di accesso al lavoro dei soggetti disabili. A tal fine si prevede l'obbligo per le amministrazioni pubbliche chiamate a dare attuazione alle vigenti disposizioni in materia di collocamento obbligatorio, di comunicare ed inviare annualmente le schede informative del personale disabile alla Presidenza del Consiglio dei ministri - Dipartimento della funzione pubblica.
L'articolo 8, prevede la trasformazione del «Comitato nazionale italiano per il
2005 Anno internazionale del Microcredito», istituito in data 29 ottobre 2004, in Comitato permanente, al fine di dare continuità alle iniziative intraprese. Si ricorda in proposito che l'Assemblea generale delle Nazioni Unite ha proclamato, con la risoluzione n. 53/198, il 2005 quale Anno internazionale del Microcredito. In particolare, con l'espressione «microfinanza» si individua l'offerta di servizi finanziari di modesta entità rivolti ad una clientela a basso reddito. Con la risoluzione n. 58/221 l'Assemblea generale delle Nazioni Unite ha invitato gli Stati membri a costituire Comitati nazionali rappresentativi dell'intera società civile per coordinare le iniziative dell'Anno.
L'articolo 9 consente alla Presidenza del Consiglio dei ministri - Dipartimento della funzione pubblica di gestire una banca dati informatica per agevolare l'incontro tra le domande di mobilità volontaria dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni e il fabbisogno professionale delle stesse. Al fine di garantire l'autonomia organizzativa delle amministrazioni, l'adesione alla banca dati è volontaria; l'accesso ad essa, l'utilizzo dei dati in essa contenuti, nonché l'introduzione informatica della propria candidatura sono rimessi all'iniziativa delle amministrazioni, se interessate. Ciò vale anche per l'utilizzo della banca dati da parte dei dipendenti pubblici che fossero interessati a comunicare il proprio curriculum.
La disposizione introdotta dall'articolo 10 ha lo scopo di allargare l'ambito di applicazione dell'articolo 10-bis del decreto-legge 30 settembre 2005, n. 203, convertito, con modificazioni, dalla legge 2 dicembre 2005, n. 248, che disciplina la mobilità temporanea di un contingente di segretari comunali e provinciali da assegnare al Dipartimento della funzione pubblica, senza oneri aggiuntivi per l'erario. Il menzionato articolo 10-bis considera una cerchia molto ristretta di soggetti destinabili all'utilizzo presso il Dipartimento; in particolare, si tratta dei segretari comunali e provinciali per i quali è già decorso il quadriennio di disponibilità previsto dal testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali, e che sono assoggettati alla mobilità d'ufficio. Poiché molti di questi segretari sono stati assegnati presso altre pubbliche amministrazioni, al fine di ricomporre il contingente di trenta unità fissato dalla norma la disposizione in esame amplia l'ambito soggettivo di applicazione della procedura di mobilità, considerando più in generale i segretari che si trovano in posizione di disponibilità in base al citato testo unico degli enti locali.
L'articolo 11 modifica l'articolo 6 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, al fine di migliorare la definizione dei fabbisogni di personale delle pubbliche amministrazioni e, conseguentemente, eliminare incongrui e generalizzati passaggi di personale tra aree funzionali e tra posizioni economiche, realizzando l'ottimale utilizzo delle risorse umane e garantendo un corretto sviluppo delle carriere professionali.
L'articolo 12 consente alle amministrazioni di cui all'articolo 1, commi 95, 96 e 97, della legge 30 dicembre 2004, n. 311, autorizzate ad avviare le assunzioni a tempo indeterminato di personale ai sensi del decreto del Presidente della Repubblica 6 settembre 2005, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 221 del 22 settembre 2005, di completare dette assunzioni anche nel corso dell'anno 2006, entro la data del 30 aprile prossimo. Sono inoltre fatte salve le assunzioni presso gli enti locali e quelle relative al Servizio sanitario nazionale, di cui all'articolo 1, comma 98, della legge 30 dicembre 2004, n. 311, riferite all'anno 2005, secondo modalità e criteri individuati nei decreti autorizzativi.
L'articolo 13 interviene sui presupposti e le condizioni da rispettare per attivare le collaborazioni coordinate e continuative nelle pubbliche amministrazioni al fine di ridurne il numero, passato negli anni dal 2001 al 2004 da 63.243 a 206.451 contratti, modificando a tale fine le disposizioni dettate dall'articolo 7, comma 6, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165.
L'articolo 14 aggiorna l'elenco delle priorità di cui all'articolo 1, comma 97, della legge 30 dicembre 2004, n. 311, prevedendo le assunzioni del personale con
contratto di formazione e lavoro già prorogato da destinare nelle strutture di enti previdenziali con maggiori vacanze di organico.
L'articolo 15 mira a uniformare la durata degli incarichi dirigenziali, prevedendo che gli incarichi conferiti ai sensi dell'articolo 19, comma 6, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, debbano avere durata minima di tre e massima di cinque anni. Si ricorda in proposito che la norma vigente prevede una distinzione tra la durata massima degli incarichi di funzione dirigenziale di livello generale, pari a tre anni, e quella degli altri incarichi di funzione dirigenziale, pari a cinque anni.
L'articolo 16 estende e adatta la disciplina relativa alle mansioni dettata dall'articolo 52 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, all'ipotesi di affidamento di mansioni superiori a funzionari apicali dell'area C per l'assolvimento di funzioni dirigenziali non generali presso le sovrintendenze del Ministero per i beni e le attività culturali. La norma, prevedendo un anno come durata massima per gli incarichi di mansioni superiori, consente anche la sottoposizione a valutazione dell'attività del reggente.
L'articolo 17 istituisce presso il Ministero delle infrastrutture e dei trasporti un sistema di monitoraggio e controllo delle informazioni inerenti alla sicurezza della circolazione stradale, in modo da collegare stabilmente i centri di controllo e le sale operative delle amministrazioni, degli enti e degli operatori nel campo della sicurezza stradale e comunque dei vari settori di trasporto già esistenti ma non adeguatamente collegati in rete. Con decreto del ministro delle infrastrutture e dei trasporti, di concerto con il ministro per l'innovazione e le tecnologie, verranno emanate direttive per l'organizzazione del sistema di monitoraggio e controllo in argomento e per i relativi strumenti di connessione.
L'articolo 18 introduce una nuova disciplina in ordine alla gestione dei diritti di utilizzazione e di sfruttamento economico delle opere cinematografiche finanziate ai sensi del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 28. In particolare il comma 1 prevede che la gestione di tali diritti per conto del Ministero per i beni e le attività culturali sia affidata a Cinecittà Holding Spa (società per azioni partecipata al 100 per cento dal Ministero dell'economia e delle finanze), mentre il comma 2 stabilisce che le procedure e tutti i profili specifici inerenti allo sfruttamento dei medesimi diritti siano oggetto di una specifica convenzione tra il Ministero e detta società, sentita la Consulta territoriale per le attività cinematografiche di cui all'articolo 4 del citato decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 28.
Tenuto conto dello status giuridico della società, l'affidamento in questione si inquadra, in sostanza, nella fattispecie dell'appalto in house, con ciò venendo meno, in via preliminare, l'esigenza del bando di un'apposita gara, secondo le norme comunitarie, per la gestione dei diritti medesimi. I proventi sono destinati ad alimentare il Fondo per le attività cinematografiche di cui all'articolo 12 del citato decreto legislativo n. 28 del 2004 e quindi, in prospettiva, ad aumentare le risorse statali per il settore che, com'è noto, per problemi strutturali si trova in una fase di grave difficoltà.
L'articolo 19 adegua la dotazione organica dell'Autorità garante della concorrenza e del mercato a seguito dei nuovi compiti ad essa assegnati dall'articolo 19 della legge 28 dicembre 2005, n. 262 (Disposizioni per la tutela del risparmio e la disciplina dei mercati finanziari) in materia di vigilanza sulla concorrenza tra aziende ed istituti di credito. In particolare è prevista un'integrazione del ruolo organico di sette unità, da assumere mediante selezione pubblica, e la possibilità di assumere altre sette unità, con contratto a tempo determinato, aggiuntive rispetto a quelle già previste dall'articolo 11 della legge 10 ottobre 1990, n. 287. Sempre al fine di adeguare la dotazione di personale dell'Autorità, si prevede la facoltà di fare riscorso agli istituti del comando e del fuori ruolo da altre pubbliche amministrazioni.
L'articolo 20 introduce alcune disposizioni urgenti in materia di energia elettrica. Si ricorda, in proposito, che il Documento di programmazione economico-finanziaria per gli anni 2006-2009, nell'ambito delle misure finalizzate alla tutela del potere d'acquisto delle famiglie, prevede il ricorso a specifiche azioni di contenimento diretto e indiretto dei prezzi dell'energia e delle tariffe pubbliche. In particolare, per quanto riguarda le tariffe dell'energia elettrica, sono promosse iniziative volte alla riduzione e stabilizzazione della componente tariffaria a copertura degli oneri di incentivazione delle fonti rinnovabili (cosiddetta energia CIP 6/92) attraverso idonee operazioni finanziarie.
L'operazione prevede la cessione al mondo creditizio dei crediti, oggi vantati dal Gestore del sistema elettrico-GRTN Spa, legati alla componente A3 della tariffa, che il Gestore stesso riceve per coprire i costi di incentivazione dell'energia prodotta con fonti rinnovabili ed assimilate ai sensi della deliberazione del Comitato interministeriale dei prezzi n. 6 del 29 aprile 1992 (CIP 6/92), pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 109 del 12 maggio 1992. L'articolo contiene l'insieme delle garanzie tecniche necessarie per la promozione dell'operazione. Il compito di definire dal punto di vista strategico l'operazione è affidato ad un atto di indirizzo del ministro delle attività produttive, adottato di concerto con il ministro dell'economia e delle finanze, e sentita l'Autorità per l'energia elettrica e il gas, a garanzia degli interessi dei clienti finali.
L'articolo 21, nel testo del Governo, consente allo Stretto di Messina Spa di poter svolgere, in Italia e all'estero, quale impresa di diritto comune, attività di individuazione, progettazione, promozione, realizzazione e gestione di infrastrutture di trasporti e di opere connesse, nonché di fornire assistenza tecnica alle pubbliche amministrazioni per l'appalto di infrastrutture di trasporti, quale organismo di diritto pubblico. Tale disposizione è stata modificata nel corso dell'esame in sede referente, con l'approvazione di un emendamento, che recepiva una osservazione formulata dalla Commissione, volto ad escludere la possibilità per la predetta società di operare come impresa di diritto comune nel territorio italiano.
L'articolo 22 introduce due distinte disposizioni, l'una riguardante i magistrati ordinari, l'altra il rinnovo del Consiglio superiore della magistratura. Il comma 1, nel testo del Governo, prevede che, ai fini del conferimento di incarichi direttivi o semidirettivi, il Consiglio superiore della magistratura debba valutare anche lo svolgimento da parte dei magistrati ordinari, per almeno due anni, degli incarichi di capo e vicecapo degli uffici di diretta collaborazione di ministri, nonché degli incarichi di capo o vicecapo di Dipartimento ovvero di direzione generale, anche presso la Presidenza del Consiglio dei ministri.
Tale disposizione è stata modificata dalla Commissione che ha soppresso il limite di durata di almeno due anni degli incarichi apicali presso gli uffici di diretta collaborazione ai fini della loro valutazione per il conferimento di incarichi direttivi e semidirettivi e ha incluso le commissioni di concorso tra i soggetti cui spetta la valutazione di tale incarichi. Analoga modifica è stata apportata al comma 2, che reca una norma di carattere transitorio.
La Commissione ha, quindi, introdotto un nuovo comma (2-bis) prevedendo che le funzioni di sostituto procuratore nazionale antimafia sono equiparate alle funzioni requirenti di legittimità quale titolo preferenziale a parità di graduatoria per il conferimento degli incarichi direttivi previsti dall'articolo 2, comma 1, lettera h), numero 14 della legge di riforma dell'ordinamento giudiziario.
Il comma 3 è stato interamente sostituito nel corso dell'esame in sede referente. Nel testo iniziale tale disposizione era volta a prevedere che i magistrati componenti elettivi del Consiglio superiore della magistratura in scadenza nel 2006, una volta scaduto l'incarico, siano ricollocati in ruolo nell'ufficio di provenienza ovvero, a domanda, in altro posto libero
presso il quale non sia stata avviata la procedura di copertura, con esclusione di qualunque incarico direttivo (cosiddetto «concorso virtuale»). La norma, secondo quanto asserito dal Governo nella relazione introduttiva al disegno di legge di conversione, si renderebbe necessaria a causa dell'entrata in vigore nel 2006 della riforma dell'ordinamento giudiziario, di cui alla legge 25 luglio 2005, n. 150, mediante i suoi decreti attuativi, che potrebbero determinare, nel loro complesso, pregiudizio ai componenti elettivi del Consiglio superiore della magistratura, ove fossero tenuti al rientro in ruolo secondo le norme di cui all'articolo 13 della legge 28 marzo 2002, n. 44 (che ha modificato l'articolo 30 del decreto del Presidente della Repubblica 16 settembre 1958, n. 916), e che, peraltro, prevede la possibilità di un rientro soprannumerario nel posto di origine.
La Commissione non ha condiviso tale impostazione volta a differenziare la normativa applicabile agli attuali componenti togati del Consiglio superiore della magistratura, ed ha ritenuto più opportuno modificare, a regime, la normativa vigente, recata dal citato articolo 30 del decreto del Presidente della Repubblica 16 settembre 1958 n. 916, che attualmente prevede che prima che siano trascorsi due anni dal giorno in cui ha cessato di far parte del Consiglio superiore della magistratura il magistrato non può essere nominato ad ufficio direttivo o semidirettivo diverso da quello eventualmente ricoperto prima dell'elezione o nuovamente collocato fuori del ruolo organico, riducendo tale limiti temporale da due anni a sei mesi.
L'articolo 23 mira a far fronte alla carenza di figure professionali idonee allo svolgimento delle funzioni di coadiutore notarile, prevedendo che le stesse possano essere svolte dai dirigenti dell'Amministrazione degli archivi notarili cessati dal servizio d'ufficio o a domanda, che abbiano svolto per almeno venti anni, di cui almeno dieci nella qualifica dirigenziale, le funzioni di conservatore.
L'articolo 24, che modifica l'articolo 8 della legge 28 gennaio 1994, n. 84, inserendo un nuovo comma 1-bis, è finalizzato a consentire una migliore definizione delle procedure per la nomina del presidente dell'autorità portuale. Nello specifico, viene demandato ad un'intesa in sede di Conferenza unificata, ai sensi dell'articolo 8, comma 6, della legge 5 giugno 2003, n. 131, la definizione delle procedure per la individuazione dei candidati da inserire nella terna di esperti di cui al comma 1 del citato articolo 8 della legge n. 84 e l'individuazione dell'esatto iter procedimentale di perfezionamento dell'intesa tra il ministro e la regione interessata, nel rispetto dei principi di leale collaborazione tra organi dello Stato, allo scopo di corrispondere all'esigenza, ribadita più volte negli ultimi pronunciamenti della Corte costituzionale, di garantire un maggiore coinvolgimento degli enti territoriali nella nomina dei presidenti delle autorità portuali (sentenze nn. 378 e 386 del 2005).
L'articolo 25, integrando la disposizione recata dall'articolo 28, comma 2, del decreto legislativo n. 165 del 2001, consente l'accesso al concorso per esami per la dirigenza pubblica anche a coloro che hanno ricoperto incarichi dirigenziali o equiparati in amministrazioni pubbliche per un periodo non inferiore a due anni, con incarico conferito ai sensi dell'articolo 19, comma 6, del decreto legislativo n. 165 del 2001, qualora siano in possesso di laurea e diploma triennale di dottorato di ricerca.
L'articolo 26 chiarisce che tutti gli oneri derivanti dall'istituzione dell'ufficio di controllo e di garanzia della parità di trattamento presso il Dipartimento per le pari opportunità della Presidenza del Consiglio dei ministri di cui all'articolo 29 della legge 1o marzo 2002, n. 39, ivi compresi i compensi agli esperti e consulenti esterni, nonché il compenso aggiuntivo al personale di altre amministrazioni pubbliche in posizione di comando, aspettativa o fuori ruolo, di cui all'articolo 7, comma 5, del decreto legislativo 9 luglio 2003, n. 215, è da rinvenire esclusivamente nella disponibilità dell'autorizzazione di spesa
prevista dal predetto articolo 29, comma 2, al fine di assicurare l'invarianza degli oneri per la finanza pubblica.
L'articolo 27 prevede l'assegnazione di un contributo straordinario a favore del Comitato atlantico italiano. Si ricorda che il Comitato atlantico è un organismo esistente in tutti i paesi della NATO e svolge la sua attività a supporto degli ideali e delle finalità dell'Alleanza, promuovendo, nella società civile e nelle istituzioni, la cooperazione e la sicurezza internazionali. Il Comitato atlantico italiano è stato istituito nel 1955.
L'articolo 28 reca una autorizzazione di spesa nel limite di 10 milioni di euro per l'anno 2006, per il finanziamento delle attività istituzionali dell'ISFOL (Istituto per lo sviluppo e la formazione professionale dei lavoratori), ed ha carattere di urgenza in quanto il finanziamento è indispensabile al funzionamento dell'Istituto.
L'articolo 29 modifica l'articolo 12 del decreto legislativo n. 367 del 1996, concernente la composizione dei consigli di amministrazione delle fondazioni lirico-sinfoniche.
L'articolo 30 autorizza un contributo annuale di 4 milioni di euro, per quindici anni, al fine di rafforzare le capacità di pattugliamento e sorveglianza marittima del Corpo delle capitanerie di porto-Guardia costiera, mediante l'adeguamento della componente aeronavale.
L'articolo 31 reca disposizioni volte alla definitiva chiusura dell'attività di regolazione delle partite debitorie e creditorie connesse alla copertura del disavanzo delle ferrovie concesse in ex gestione commissariale governativa, comprensiva degli oneri di trattamento di fine rapporto maturati alla data del 31 dicembre 2000, effettuata ai sensi dell'articolo 145, comma 30, della legge 23 dicembre 2000, n. 388. Al fine di evitare diseconomie per la pubblica amministrazione, con conseguente impegno di unità di personale per un'attività da considerare residuale, la norma limita la regolazione in argomento alle istruttorie eseguite congiuntamente dal Ministero dell'economia e delle finanze e dal Ministero delle infrastrutture e dei trasporti, a seguito delle istanze formulate e delle comunicazioni effettuate dalle aziende interessate entro la data del 31 agosto 2005. Ciò comporterà, da un lato, la rinuncia dello Stato all'accertamento di eventuali sopravvenienze attive, dall'altro un risparmio per la finanza statale connesso al mancato riconoscimento delle sopravvenienze passive per le richieste formulate successivamente al 31 agosto 2005.
L'articolo 32 proroga al 31 dicembre 2006 il termine già previsto dall'articolo 8, comma 5, del decreto del Presidente della Repubblica 2 marzo 2004, n. 117, limitatamente alle richieste di emissione della Carta nazionale dei servizi da parte di cittadini non residenti nei comuni in cui è diffusa la carta d'identità elettronica. Il termine in questione è infatti scaduto, prevedendo il citato comma 5 che non oltre il 31 dicembre 2005 la procedura di accertamento preventivo del possesso della Carta d'identità elettronica fosse effettuata dalle amministrazioni che emettono la Carta nazionale dei servizi, limitatamente ai residenti nei comuni che diffondono la Carta d'identità elettronica, previo accordo con i comuni interessati.
L'articolo 33 dispone una assegnazione di fondi per l'anno 2006 di una quota pari a 10.000.000 di euro per il finanziamento della prosecuzione dei lavori per la realizzazione del «Centro per la documentazione e valorizzazione delle arti contemporanee».
L'articolo 34 introduce disposizioni volte a garantire una più efficiente ed efficace gestione delle procedure per la determinazione ed il recupero del danno ambientale, oggi frazionate tra varie direzioni generali. A tal fine la norma unifica la complessiva gestione e lo sviluppo dei sistemi informativi e statistici, ivi compresi quelli cartografici, utilizzati dalle altre strutture ministeriali, con le correlate attività di studio e ricerca, in modo da realizzare all'interno del Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio un unico e coordinato centro di imputazione strutturale di competenze, oggi gestite tra più centri. A tal fine è istituita una Direzione
generale per il danno ambientale che assume il ruolo di unico centro di responsabilità amministrativa al quale imputare, tra le altre, tutte le citate funzioni istituzionali che presentano potenziali caratteri di intersettorialità ed interdipendenza.
L'articolo 35 concerne, infine, l'entrata in vigore del decreto-legge.
Oltre alle modificazioni già illustrate, la Commissione, nel corso dell'esame in sede referente, ha apportato al decreto-legge una serie ulteriore di modifiche, volte a recepire sia le condizioni espresse nel parere della V Commissione bilancio, sia alcuni rilievi del Comitato della legislazione. Altre modificazioni, infine, hanno carattere di coordinamento formale del testo.