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PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca il seguito della discussione del disegno di legge costituzionale, già approvato in prima deliberazione dal Senato: Modificazione di articoli della parte II della Costituzione e delle abbinate proposte di
legge costituzionale di iniziativa dei deputati Zeller ed altri; Bielli; Spini e Angioni; Buttiglione ed altri; Contento; Cola; Pisapia; Selva; Selva; Selva; Bianchi Clerici; Peretti; Volontè; Pisapia; Lusetti ed altri; Zaccheo; Mantini ed altri; Soda; Olivieri e Kessler; Costa; Serena; Pisicchio ed altri; Bolognesi ed altri; Paroli; Buontempo; Zeller ed altri; Collè; Vitali ed altri; Maurandi ed altri; Olivieri; Boato; Stucchi; Cento; Monaco; Pacini; Consiglio regionale della Puglia; Consiglio regionale della Puglia; Chiaromonte ed altri; Cabras ed altri; Mantini; La Malfa; Briguglio ed altri; Franceschini; Pisapia; Costa; Perrotta ed altri; Fiori.
Ricordo che nella seduta di ieri è proseguita la discussione sulle linee generali.
PRESIDENTE. Riprendiamo la discussione sulle linee generali.
È iscritto a parlare l'onorevole Franceschini. Ne ha facoltà.
DARIO FRANCESCHINI. Signor Presidente, signor sottosegretario, avevamo il sincero desiderio che, dopo il lavorio di questi mesi e questo susseguirsi di annunci e di proclami, i cosiddetti saggi della Casa delle libertà avessero veramente intenzione di rimediare al disastroso disegno di revisione della Costituzione approvato dal Senato. Ci siamo sforzati di sperare che, anche a seguito dei rilievi mossi da forze politiche e da esponenti della Casa delle libertà e soprattutto dei pareri critici ricevuti dalla stragrande maggioranza, praticamente la totalità, dei tecnici e dei costituzionalisti anche a loro più vicini, almeno avrebbero cercato di risolvere i problemi più vistosi che il loro progetto porrebbe al paese, ove venisse approvato.
L'intervento con cui ieri, in quest'aula, il ministro Calderoli ha illustrato le modifiche che intende proporre insieme alla maggioranza di Governo ci ha tolto ogni illusione ed ogni speranza. Vi è l'intenzione di sostituire i gravi errori e le storture presenti nel testo approvato dal Senato con nuovi errori e nuove storture. Il risultato purtroppo rimane sempre identico: uno stravolgimento della Carta fondamentale, che metterebbe in ginocchio le nostre istituzioni, creando pericolosi squilibri tra le stesse oppure paralizzandole in conflitti tra di loro insostenibili ed insolubili.
No, noi non intendiamo condannare il nostro paese al disastro. Non vogliamo, in nome di slogan, sui quali neanche voi della maggioranza siete d'accordo, disfarci con tanta leggerezza dell'eredità che i nostri padri costituenti ci hanno tramandato. Non vogliamo accettare, insomma, questa specie di mela avvelenata che oggi ci offrite: una riforma che non solo è inaccettabile in via di principio, per gli squilibri che crea nel paese, ma che soprattutto, come dimostrano i ceti produttivi del paese, come Confindustria, riuscirebbe nel «capolavoro» di creare un sistema che funziona di meno e che, al tempo stesso, costa di più agli italiani.
Noi ci opporremo con tutte le nostre forze e con tutti gli strumenti che i regolamenti parlamentari ci offrono per evitare questo disastro. Tuttavia, se questo non fosse sufficiente, se non prevarranno le critiche, che meritevolmente anche alcuni esponenti della vostra maggioranza stanno avanzando a questa proposta, e se i pur evidenti dissidi all'interno della maggioranza di questo Governo non serviranno ed andrete avanti, allora noi ci rivolgeremo, come Margherita e come Ulivo, al paese e chiameremo i cittadini a pronunciarsi con un referendum su questa nefandezza, sicuri che gli elettori bocceranno questo disegno, decretando la sconfitta politica delle forze che lo sostengono e che ne hanno fatto - alcune malvolentieri - una bandiera.
Elencare tutte le incongruenze e i danni che il progetto oggi in discussione è in grado di produrre alle istituzioni sarebbe troppo lungo. Ormai c'è una letteratura vastissima ed è inusitatamente unanime la valutazione di condanna di questo progetto. Per questo vorrei limitarmi soltanto
ad alcune notazioni, evidenziando in particolare alcuni degli elementi che sono emersi dall'intervento di ieri del ministro Calderoli, che di fatto dimostrano come purtroppo l'estate non abbia portato consiglio.
Innanzitutto, nel disegno del Governo si prevede l'istituzione di un Senato federale della Repubblica. Peccato però che, come hanno da subito denunciato i rappresentanti delle regioni e delle autonomie locali (appartenenti ad ogni parte politica, anche al centrodestra), tali Camere di federale hanno soltanto il nome, essendo infatti il legame con le realtà regionali affidato, con una stupefacente ingenuità, soltanto alla semplice contestualità tra l'elezione dei senatori e quella dei consigli federali, nonché al cortese invito a mantenere rapporti di reciproca informazione e collaborazione (insomma, se credono, i senatori federali sono caldamente invitati ogni tanto a parlarci o a prenderci un caffè insieme: questa sarebbe la soluzione dei problemi di coordinamento!).
Resasi conto del ridicolo di questa proposta, come peraltro ha ammesso ieri lo stesso ministro in quest'aula, dicendo che la contestualità del vecchio disegno era imperfetta, tanto da prometterne ora una vera, sulla spinta delle critiche che sono venute prima di tutto dai rappresentanti regionali della stessa Casa delle libertà, la maggioranza oggi ci presenta la soluzione, tanto attesa, di questo problema: niente di meno nel Senato, oltre ai senatori eletti, contestualmente siederanno anche due rappresentanti delle regioni, i quali, come ha voluto sottolineare il ministro, potranno addirittura votare, però soltanto in particolari materie attinenti agli interessi specifici delle regioni del mondo delle autonomie!
Immaginiamoci che esercizio nell'interpretare la genericità di questa norma e di queste indicazioni! No, noi vogliamo un Senato federale che sia degno di questo nome, nel quale i rappresentanti delle regioni e delle autonomie non debbano accontentarsi di sedere su di uno «strapuntino», di passeggiare nei corridoi, ma vi siedano a pieno titolo, portando al centro le istanze e le richieste delle periferie.
Il modello che teniamo in considerazione è quello del Bundesrat tedesco con opportuni adattamenti, al fine di introdurre una rappresentanza effettiva anche dei comuni, delle province e delle città metropolitane che fanno ricca la cultura istituzionale del nostro paese, evitando così il neocentralismo regionale verso cui il vostro disegno minaccia di andare.
Su un altro punto, signor ministro e signor sottosegretario, avete poi finto di voler indicare una via, ma, in realtà, avete confessato di non sapere dove andare. Una delle critiche che, quasi unanimemente, erano state mosse al disegno di legge era quella di attribuire al cosiddetto Senato federale una serie lunghissima di competenze incidenti direttamente sull'indirizzo politico, slegandolo contemporaneamente dal rapporto fiduciario con il Governo, che viene riservato soltanto ad una Camera. Ciò, evidentemente, con il brillante risultato di impedire al Governo di portare avanti il suo programma, rischiando di condannarlo alla paralisi.
In ordine a tale problema, il ministro ieri ha ammesso che il progetto, approvato dal Senato, crea diversi problemi di funzionamento (finalmente ve ne siete resi conto!), ma non è stata presenta una proposta al riguardo ed è stato lanciato un appello alla Camera perché individui qualche meccanismo di ingegneria parlamentare in grado di tappare i buchi che sono stati aperti. Così non funziona! Non vi sono artifici da inventare!
Il sistema che avete costruito non funziona, perché è debole nelle sue fondamenta. Le crepe che oggi voi stessi vedete e ci chiedete di aiutarvi a riparare con un po' di stucco sono destinate a diventare sempre più grandi non appena la casa dovesse venire abitata. Non vogliamo mettere gli italiani sotto un tetto pericolante che, da un momento all'altro, franerà sulle loro teste, portando scompiglio e danni alle istituzioni.
Il Governo ieri ha poi preannunziato di intervenire sull'articolo 117 della Costituzione
con riferimento alla ripartizione della potestà legislativa tra Stato e regioni, senza fornire, anche in questo caso, elementi precisi o nuovi. Naturalmente, ci riserviamo di valutare le proposte di modifica che saranno formalizzate negli emendamenti.
Per ora, come è stato possibile desumere dal dibattito, si deve, purtroppo, riscontrare una confusione nella direzione da prendere (è del resto uno specchio delle divisioni che su tale tema contrastano e animano il centrodestra). La nostra paura è che da questa sorta di regolamento di conti interno, da questa verifica continua di Governo derivino riforme pasticciate e che le vostre tensioni si scarichino sulla riscrittura della Costituzione; invece di diminuire la conflittualità tra Stato e regioni, le nuove norme potrebbero accrescerla, scaricando sulla Corte costituzionale tensioni politiche che rischiano di minarne l'indipendenza, oltre a metterne a dura prova la capacità di funzionamento.
Un altro dei difetti più evidenti del sistema è poi quello di avere attribuito al primo ministro, chiunque esso sia, di centrodestra o domani di centrosinistra, un potere senza controlli e bilanciamenti, mortificando la figura di garanzia, esercitata nella nostra Costituzione dal Presidente della Repubblica.
Da quel poco che è dato comprendere sulle modifiche sintetizzate ieri dal ministro in aula, si ha l'impressione che i problemi che vi erano rimangano e addirittura si aggravino. All'investitura di un premier onnipotente (addirittura viene rafforzato il suo potere di indirizzo, obbligando il Parlamento ad occuparsi di ciò che vuole il premier) parrebbe che si aggiunga una minuziosa casistica sulle possibili vicissitudini del Governo che, paradossalmente, dietro l'obiettivo dichiarato di evitare i cosiddetti ribaltoni, in realtà, finisce per legare le mani al premier stesso ed alla maggioranza, mortificando la dialettica parlamentare e facendo definitivamente uscire il nostro paese dal novero di quelli a forma di Governo parlamentare.
Il ministro, inoltre, ci ha promesso piccoli ritocchi, del tutto insufficienti a tenere insieme un disegno che mostra ogni giorno di più le sue insufficienze e le sue mancanze, su tanti altri aspetti e nodi problematici denunciati a gran voce da costituzionalisti di tutti gli orientamenti che ripeteremo in questo dibattito in quest'aula. Invece, il ministro ha taciuto. L'elenco sarebbe troppo lungo per il tempo che abbiamo a disposizione.
Qui mi limito a richiamare il caso della Corte costituzionale che, nel vostro disegno, è pericolosamente destinata ad una politicizzazione strisciante e ad una conseguente perdita di indipendenza e di imparzialità.
A questo problema, già accennato, si aggiunge quello dell'inaccettabile spoliazione di poteri perpetuata anche ai danni del Presidente della Repubblica e della spoliazione di poteri perpetuata di fatto a carico della Corte costituzionale nonché quello relativo ai pericoli insiti nelle funzioni di un ministro onnipotente, capace di mortificare non solo le opposizioni ma anche la propria maggioranza. In tal modo si fa venir meno ogni controllo, ogni bilanciamento e quindi l'essenza stessa di ogni ordinamento democratico.
Ieri il ministro ci ha detto di essere disposto ad ascoltare le opposizioni e a raccogliere i loro suggerimenti. Ebbene, vi chiediamo ancora una volta di abbandonare il vostro disegno, di ricominciare a discutere su un progetto che voi stessi vi rendete conto di non poter far funzionare.
Se la vostra offerta è sincera, noi siamo pronti ad assumerci le nostre responsabilità, a dimenticare l'arroganza e l'autosufficienza che finora hanno caratterizzato il vostro atteggiamento in materia di riforme della Costituzione - che dovrebbero sempre essere scritte insieme da maggioranza e opposizione - e a ricominciare a discutere, ricercando un autentico spirito costituente per trovare le soluzioni istituzionali che possano meglio rispondere alle esigenze dei cittadini e del paese.
Se invece insisterete nel proporre le soluzioni pericolose che finora avete sostenuto, se continuerete in nome della vostra superiorità numerica in Parlamento a voler far scempio dei più basilari principi
democratici e anche del buonsenso, allora non ci resterà che appellarci al vero titolare della sovranità nel nostro ordinamento, quello che i nostri padri hanno individuato nel popolo. Dunque, saranno i cittadini a decidere e a respingere con il loro voto il disegno di smontare la Costituzione repubblicana (Applausi dei deputati dei gruppi della Margherita, DL-L'Ulivo e dei Democratici di sinistra-L'Ulivo)!
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Patarino. Ne ha facoltà.
CARMINE SANTO PATARINO. Signor Presidente, signor sottosegretario, questo disegno di legge costituzionale d'iniziativa del Governo, riguardante le modifiche agli articoli della parte II della Costituzione, già approvato in prima deliberazione dal Senato il 25 marzo 2004, scaturisce da una effettiva e largamente diffusa esigenza di dar vita ad una riforma federale dello Stato che agevoli concretamente il funzionamento delle istituzioni e sia in grado di costruire un sistema democratico che risponda appieno alle esigenze dell'intero paese.
Il ministro per le riforme istituzionali, senatore Calderoli, al quale va riconosciuto il merito di aver svolto un grande, delicato e paziente lavoro, fatto di confronto serio e di intelligente mediazione, nel suo primo intervento tenuto qui alla Camera, ha ricordato che la stagione delle riforme istituzionali, dopo una serie di fallimenti se non di controriforme accentratrici, aveva dato qualche segnale di movimento già alla fine della scorsa legislatura con la riforma del Titolo V della Costituzione ad opera del Governo e della maggioranza di centrosinistra.
Con questo provvedimento - ha aggiunto poi l'onorevole ministro - si vuole procedere ad un ulteriore passaggio per adeguare l'organizzazione e il funzionamento delle nostre istituzioni alle esigenze di una moderna democrazia, capace di rappresentare le istanze della società e di trasformarle in deliberazioni responsabili e tempestive.
Pur apprezzando la signorilità del ministro e pur comprendendo le ragioni del suo fair play, non riusciamo a farci contagiare dal suo eccesso di generosità, con il quale ha voluto riconoscere all'attuale opposizione di centrosinistra - ieri maggioranza - se non proprio dei meriti quantomeno dei titoli, che non possono in alcun modo essere riconosciuti e non solo per motivi di forma. Non mi riferisco soltanto alla posizione assunta da tutto il centrosinistra con riferimento al provvedimento in esame, ma ai tantissimi episodi che da sempre caratterizzano l'azione del centrosinistra ovunque svolga il ruolo di opposizione, rifiutando in modo sprezzante il dialogo e ricorrendo continuamente all'uso della criminalizzazione e della delegittimazione dell'avversario che governa, sia esso il Presidente del Consiglio, il presidente di qualsiasi regione o provincia o il sindaco del più piccolo comune d'Italia.
Ma soprattutto, non può esservi alcun riconoscimento di meriti al centrosinistra per i contenuti di quella riforma del Titolo V della Costituzione, che l'intera Casa delle Libertà non ha mai condiviso in nessuna delle sue parti e che nulla ha a che vedere con questo disegno di legge che presenta, rispetto alla scelta fatta nella scorsa legislatura, profonde e fondamentali differenze.
Mi limiterò per ragioni di tempo a soffermarmi solo su alcune differenze, che, a mio modesto parere, sono da sole più che sufficienti a dimostrare la grande importanza della riforma al nostro esame, gli aspetti positivi ed i vantaggi di cui godranno tutti gli italiani, grazie alla maggiore funzionalità di un sistema che, di fatto, riconduce ad unità, non a caso insieme al recupero anche formale del concetto di interesse nazionale, una ritrovata gerarchizzazione dei vari livelli dello Stato.
La prima di tali differenze si riferisce alla razionalizzazione del riparto delle competenze tra Stato centrale, regioni ed autonomie locali, nella cui ottica non si pone soltanto la cosiddetta devoluzione, peraltro ridotta grazie ai decisivi limiti, di cui dirò avanti, nelle materie della sanità, dell'organizzazione scolastica e di un'ipotetica
polizia regionale, ma anche il recupero da parte dello Stato di fondamentali ed irrinunciabili competenze in materia, ad esempio, di grandi reti, a partire da quella dell'energia.
Per quanto riguarda le suddette materie da devolvere, è bene procedere con alcune precisazioni. La sanità è già competenza delle regioni, che in materia da tempo legiferano e programmano. Questo progetto di riforma chiarisce che la competenza sulla salute, ovvero su quel diritto primario, eguale per tutti gli italiani e fondamento principale di ogni Stato sociale, ritorna allo Stato centrale, creando di fatto le condizioni per un opportuno riequilibrio tra le regioni più ricche e quelle più povere, in questa materia ritenuto giustamente più necessario e doveroso ai fini di un'autentica equità complessiva del sistema. Tale equilibrio era stato invece pesantemente messo in dubbio dalle politiche della sinistra, come gli assurdi criteri di riparto del fondo sanitario nazionale, o il federalismo fiscale, ossia le più antimeridionali tra le scelte compiute a Roma, dall'unità d'Italia in poi.
Inoltre, la competenza da devolvere in materia di istruzione non investe l'ordinamento scolastico, che resta invece di competenza dello Stato, come dimostrato peraltro dalla riforma Moratti, ma l'organizzazione scolastica, che è molto meno e che oggi è già pressoché del tutto decentrata, fino ai rilevanti spazi di autonomia già concessi alle singole scuole.
Infine, le ipotetiche polizie regionali non si sostituiranno alle forze dell'ordine nazionale, le cui competenze restano inalterate, ma le coadiuveranno, rafforzando le garanzie della legalità e della sicurezza, in un migliore controllo del territorio.
La seconda delle differenze decisive tra la riforma dell'Ulivo e quella al nostro esame, soprattutto in direzione di una reale unità dello Stato italiano, risiede nella parte, che non a caso nella prima mancava, relativa alla forma di governo e alle norme antiribaltone. Una parte che, da un lato, costituzionalizza il bipolarismo, consegnando alla sovranità popolare la scelta del premier e mettendola al riparo dalle congiure di palazzo, già sperimentate attraverso trascorsi ribaltoni, mentre dall'altro costituisce, mediante gli accresciuti poteri del Presidente del Consiglio, il più concreto presidio dell'unità del paese, attraverso la concretizzazione di una nuova forza centripeta, capace di contenere e neutralizzare quella centrifuga, rappresentata da un più penetrante federalismo. Al Capo dello Stato, che non è espressione della sovranità popolare, bensì garante supremo del rispetto delle regole, vengono contestualmente ridotte le competenze politiche ed intensificate quelle di garanzia.
Una scelta, quella del premierato, che sarebbe di fatto vanificata qualora venisse sottratta al premier la possibilità di determinare, in caso di sfaldamento della coalizione o di sopravvenuta ingovernabilità, lo scioglimento anticipato del Parlamento e la conseguente restituzione della parola decisiva al popolo sovrano, e che rappresenta già un punto di mediazione rispetto all'originaria ispirazione presidenzialista della coalizione. Una scelta che riproduce, a livello più alto, la grande e positiva rivoluzione che è stata rappresentata, nelle regioni e negli enti locali, dall'elezione diretta dei vertici, che ne ha garantito ad un tempo la governabilità e l'efficacia dell'azione di governo, legittimandoli anche ai ruoli più impegnativi successivamente meritati, contribuendo così a dare al Governo centrale l'autorevolezza necessaria per reggere il confronto con quella conferita, dalle riforme già attuate, ai governi locali, e velocizzando l'intero sistema su performance complessivamente più elevate. Una scelta su cui, non a caso, si incentra l'ostilità dei settori più conservatori della politica italiana e dei poteri forti di questo paese, che hanno ottime ragioni per temere un premier forte, e pertanto anche capace di cambiare la nazione, e per preferirgli invece la riedizione di un pallido re travicello esposto a tutti i venti e a tutti i ricatti.
Con questa riforma federalista e presidenzialista, che era nei programmi della Casa delle libertà perché rispondente alle esigenze ineludibili di modernizzazione del
sistema Italia, costruiamo finalmente, come ha detto il presidente del gruppo di Alleanza nazionale al Senato, Nania, una grande democrazia italiana e non una piccola democrazia all'italiana. Una grande democrazia italiana che, al di là di molti feticci polemici, garantisce la salvaguardia degli interessi sacrosanti del Mezzogiorno, in relazione ai quali plaudiamo all'onestà politica e intellettuale del ministro Calderoli, che ha dichiarato pubblicamente di condividere i forti rilievi critici espressi dai «governatori» del Sud, e soprattutto dal presidente Fitto, in ordine alle gravi sperequazioni ai danni della parte più debole del paese, contenute nel decreto legislativo n. 56 del 2000 in materia di federalismo fiscale, riconoscendo apertamente che il sud nel suo complesso è sottorappresentato negli equilibri politici nazionali.
Letta così, ovvero dalla parte della verità, la grande riforma costituzionale in cantiere - che si potrebbe conciliare anche con una diversa legge elettorale che, fermo restando l'assetto bipolare del sistema, garantito dall'elezione diretta del premier e da un adeguato premio di maggioranza, rafforzi la sovranità popolare anche nella definizione dei rapporti interni alle condizioni - rappresenta una straordinaria chance per cambiare una volta per tutte una forma di Stato e di Governo obiettivamente superate.
Una riforma storica, dunque, che coronerebbe nel migliore dei modi una legislatura di svolta speciale, alla quale già dobbiamo riforme che sembravano impossibili, come quelle delle procedure per la velocizzazione e la concreta realizzazione delle grandi opere (la cosiddetta «legge obiettivo»), della scuola, del mercato del lavoro e della previdenza, alle quali si può aggiungere anche quella che riduce e semplifica la pressione fiscale, sia sulle persone sia sulle imprese, che è già operativa per i redditi più bassi e che con la prossima legge finanziaria deve entrare nel vivo della fase operativa, insieme ad un forte rilancio delle politiche di privatizzazione e di liberalizzazione, anche esse parte integrante del programma vincente nel 1994 e nel 2001.
Questa stagione politica parlamentare, pur difficile e tra le più sfortunate del dopoguerra, se riuscirà a condurre in porto la riforma dell'intera parte II della Costituzione, raggiungerà uno dei punti più alti dell'azione svolta in questi tre anni, perché avrà saputo onorare fino in fondo gli impegni assunti, avviando nei fatti la nuova Italia del XXI secolo.
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole De Franciscis. Ne ha facoltà.
ALESSANDRO DE FRANCISCIS. Signor Presidente, molti anni fa ebbi la ventura di leggere ampie sintesi del dibattito che si tenne in quest'aula nell'ambito dell'Assemblea costituente. Essendo cresciuto secondo gli ideali politici della Democrazia Cristiana - in un paese retto da un sistema parlamentare che ha raggiunto l'unità da poco più di un secolo - mi trovo ad avere un senso di smarrimento in questa particolare stagione che il paese sta vivendo. Ci siamo inchinati di fronte alla storia di uomini appartenenti a diverse tradizioni politiche e culturali - laici e cattolici, comunisti e liberali - che, innanzitutto, hanno assicurato a questo paese la stagione costituente e che hanno vissuto, al servizio della politica e seduti ai vertici della Repubblica, il rilancio e la crescita del paese, nel quale sono nato, dopo l'unità e il disastro della guerra.
Sedendo nei banchi dell'opposizione ci tengo a dire che non condivido il voto a maggioranza sulla riforma del Titolo V della Costituzione, né il dibattito che dura ormai da due anni, frutto di un accordo mercantile tra i contraenti della coalizione di maggioranza, ed avverto delusione e sgomento nella consapevolezza - soprattutto dopo gli interventi di ieri e quelli di oggi - della assoluta inadeguatezza di questa discussione in materia costituzionale.
Nei pochi minuti che ho a disposizione proverò a sottolineare tre questioni; lo farò a nome di quei pochi elettori - circa
500 mila - che seguono le iniziative del nostro gruppo politico popolari nell'UDEUR, i quali hanno anche cercato di mettere a fuoco in questi mesi alcune idee sulla stagione che stiamo vivendo. Noi conveniamo sul fatto che questo è un periodo nel quale, a fronte di ulteriori contributi in materia di welfare, di politica estera e di politica per la famiglia, è ormai tempo di rilanciare in Italia una seria stagione di politiche istituzionali come se si trattasse di una nuova stagione democratica. Ebbene ieri pomeriggio il ministro Calderoli, in un intervento dai toni irriconoscibili - per chi lo ha visto provocatore e provocante durante gli interventi di questi ultimi anni -, ha sostenuto che egli è aperto ai suggerimenti e presenterà emendamenti al termine della discussione sulle linee generali del provvedimento in esame. In primo luogo debbo dire che si registra l'impossibilità di discutere e deliberare in materia di riforma costituzionale a causa del meccanismo infernale che si è avviato; ciò perché solo un'Assemblea costituente può modificare in maniera così radicale la Carta costituzionale, la legge fondamentale di tutti gli italiani, dell'una o dell'altra opinione politica. In quella sede avremmo potuto introdurre le questioni che ci stanno a cuore come, ad esempio, la rimozione delle attuali incompatibilità tra i diversi tipi di cariche, il rapporto tra le assemblee elettive ai diversi livelli, il governo dei comuni, delle province, delle regioni e della stessa Repubblica. Avremmo potuto occuparci anche della caratteristica presidenzialistica che poco fa il collega di Alleanza nazionale ha salutato in maniera così gioiosa e di come non introdurre il nome del candidato a premier sulla scheda elettorale, affinché sia ancora il Parlamento a designare la persona indicata per guidare la politica e il Governo del nostro paese. Si sarebbe potuto discutere in maniera produttiva e feconda di proporzionalismo e dei suoi meccanismi che una parte, ancorché piccola, dell'attuale legittima coalizione di Governo ha portato negli ultimi mesi all'attenzione del dibattito politico nazionale.
La prima questione che volevamo sollevare riguarda dunque l'incongruenza del dibattito che si è aperto. Si tratta, infatti, di un dibattito dietro le quinte, con alcune punte di apparente, drammatica spettacolarità che tendono ad accontentare le varie parti contraenti, nel quadro dell'accordo che sostiene il Governo Berlusconi. Sostanzialmente, però, si tratta solo di un rafforzamento delle prerogative del primo ministro con una singolarità - per quello che può comprendere un pediatra che siede in Parlamento - che non è data in nessuna delle grandi democrazie di questo tempo.
Il secondo aspetto che volevamo sollevare, in considerazione del fatto che la questione del potere in democrazia è questione di vita, riguarda le risorse, aspetto che ieri non è stato né richiamato né illustrato dal ministro per le riforme istituzionali.
Siamo di fronte ad una prospettiva di riforma che prevede un irresponsabile trasferimento di poteri ad organismi politici ed enti, ai vari livelli della Repubblica, senza che si sia provveduto ad affrontare la questione della risorse finanziarie.
Faranno bene a riflettere i colleghi di maggioranza che le parti della riforma che non comportano oneri, attinenti ai poteri della Presidenza del Consiglio dei ministri, diventeranno probabilmente le sole più rapidamente efficaci.
Se guardiamo alla grande stagione che ha portato alla costituzione delle regioni italiane nei primi anni Settanta e ai lunghi tempi che sono stati necessari per mettere in qualche modo questi enti a regime - e non tutte le regioni lo sono ancora - ci rendiamo conto come dall'intuizione del costituente alla prassi, ossia alla realizzazione di quella intuizione, possano passare lunghi decenni, con enormi costi finanziari.
Davanti al problema delle risorse sarà bene che il Governo e la maggioranza ci dicano con quale animo intendano procedere per coprire le spese che rischiano di portare ad uno sconquasso della finanza pubblica; infatti delle due l'una: o la finanza pubblica con questa vostra proposta di riforma salta, oppure la vostra
stessa riforma si rivelerà un boomerang mostruoso, perché negli anni a venire, davanti alla difficoltà di doverla realizzare, se ne constaterà non solo la sua inadeguatezza politica e costituzionale, ma anche il fatto che essa ha comportato costi che il paese non poteva sostenere. La terza ipotesi è evidentemente quella più verosimile, cioè che questa riforma ed i suoi costi si scaricheranno in imposizioni fiscali sui cittadini italiani, ovviamente non al termine di questa legislatura ma nel futuro. Dunque, le tasse dovranno essere aumentate.
Il terzo aspetto che vogliamo sollevare è la richiesta al Governo e al ministro per le riforme istituzionali di una parola di chiarimento su una questione ormai divenuta insopportabile, quella del federalismo.
Su questo punto, come ho avuto modo di sottolineare nella dichiarazione di voto svolta in occasione della discussione delle mozioni riguardanti l'Iraq, ho una qualche dimestichezza con gli Stati Uniti d'America ed a me pare che, in realtà, nel sistema contemporaneo del nostro Occidente esistano solo due grandi sistemi federali: uno in Europa, cioè la Germania e i suoi lander, l'altro nel nord America, cioè gli Stati Uniti d'America.
Non è difficile, leggendo la storia della Costituzione, la storia delle solidarietà e dei bilanciamenti di poteri tra gli Stati e i lander contraenti gli accordi federali negli Stati Uniti d'America e nella Germania, capire che si tratta di storie e sistemi completamente diversi dal nostro.
In sostanza, sia nella Germania federale, a noi più vicina, sia negli Stati Uniti d'America, si tratta di organizzazioni di Stati nazionali che hanno avuto una formazione, una strutturazione e un ordinamento federale a tutti livelli di quelle democrazie: questo non è accaduto in Italia.
In Italia, dove l'unità del paese è stata raggiunta solo un secolo e mezzo fa, un paese piccolo geograficamente, densamente abitato, ricchissimo di storia e tradizioni prevalentemente municipali, che rappresentano le nostre principali identità, la struttura dello Stato centrale e la devoluzione - lo dico in italiano - dal basso verso l'alto della sovranità ad un Parlamento nazionale hanno fondato lo sviluppo e la crescita di questo nostro paese che oggi siede tra gli otto paesi più industrializzati e più progrediti del mondo.
Noi, che non abbiamo alcuna intelaiatura federale, procediamo, invece, sempre per una motivazione originariamente mercantile, che vede la possibilità dell'utilità marginale di alcuni partiti di diventare un «ricatto» per la maggioranza della quale fanno parte; vediamo utilizzare un termine inappropriato, il federalismo, a una devoluzione di poteri costosa e pasticciata che porterà questa Repubblica, come già appare oggi, ad avere meno evidente il senso dello Stato unitario e, qui lo dico da cristiano, a vedere evidentemente scomparire quel senso di solidarietà che era stato l'elemento principale che aveva visto uniti insieme, in uno sforzo straordinario, la cultura cattolica, quella liberale, quella socialista e marxista dare a questa Repubblica e in quest'aula una Costituzione che oggi noi vorremmo ancora difendere come un riferimento alto e solenne.
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Battaglia. Ne ha facoltà.
AUGUSTO BATTAGLIA. Signor Presidente, signor ministro, colleghi, com'è noto, sono molteplici le ragioni che ci inducono ad essere contrari a questo disegno di legge costituzionale che modifica significativamente la seconda parte della Costituzione. Non toccherò tutti gli aspetti rilevanti perché non ho la necessaria competenza, ma mi limiterò a svolgere alcune osservazioni concernenti le modifiche all'articolo 117 della Costituzione.
Con l'articolo 34 del provvedimento al nostro esame viene attribuita alle regioni la potestà legislativa esclusiva in una serie di materie: assistenza e organizzazione sanitaria; organizzazione scolastica; definizione di una parte dei programmi scolastici e formativi; polizia locale; ogni altra materia - così recita il disegno di legge - non espressamente riservata alla legislazione dello Stato.
Indubbiamente, quello di decentrare e di attribuire maggiori competenze ed una più forte autonomia alle nostre regioni è un obiettivo condiviso: al di là dell'individuazione degli strumenti, sull'obiettivo indicato vi è consenso trasversale di tutte le forze politiche, tant'è che il centrosinistra, nella scorsa legislatura, ha approvato la nota legge di riforma del Titolo V della Costituzione che ha già attribuito alle nostre regione una serie di poteri reali, in parte anche su materie che costituiscono oggetto del disegno di legge di riforma in esame.
Cosa ci differenzia? Sostanzialmente, la nostra ipotesi si basa sulla ricerca di un punto di equilibrio adeguato tra le competenze statali e le competenze regionali. Ad esempio, nella materia sanitaria, nessuno pensa di togliere alle regioni autonomia e competenze. Si tratta di capire, però, che l'attribuzione alle regioni della competenza esclusiva in tale materia toglierebbe al nostro sistema sanitario quella uniformità di programmazione e quella definizione di regole fondamentali che sono necessarie per mantenere il Servizio sanitario nazionale come tale e per evitare che, attraverso alcune scelte, si arrivi ad uno spezzettamento che, ad onta della tradizione del nostro paese, rischierebbe di produrre discriminazioni tra cittadini e cittadini, i quali si vedrebbero garantite determinate prestazioni e servizi sulla base dell'appartenenza territoriale, della tipologia del sistema sanitario adottato e, in definitiva, sulla base dell'entità dei finanziamenti.
Credo e mi auguro che, all'interno del Governo, non vi sia una malcelata volontà di spezzare l'Italia. Del resto, anche la stessa Lega ha abbandonato lo slogan dell'indipendenza della Padania (che pure ogni tanto viene riproposto nella polemica politica). Se l'obiettivo non è quello dell'indipendenza della Padania, come tutti noi ci auguriamo, è importante soffermarsi a riflettere sui meccanismi che vengono in rilievo: dobbiamo arrivare a definire un rapporto corretto tra Stato ed autonomie locali; dobbiamo creare le condizioni per una reale sussidiarietà che veda protagonisti, nell'organizzazione della cosa pubblica, le comunità locali - i comuni, le province, le regioni - e lo Stato, nella diversa articolazione delle responsabilità.
Certamente, stiamo lavorando per attuare il decentramento, ma l'Italia è e deve rimanere uno Stato nazionale moderno, decentrato, con l'attribuzione di poteri reali, forti alle nostre regioni e ai nostri comuni, ed inserito nel grande patto dell'Unione europea.
Ritengo che il riferimento all'interesse nazionale sia debole e non adeguato rispetto all'obiettivo che ci poniamo e che avrebbe suggerito un percorso diverso: più che un disegno di legge che stravolge l'attuale assetto, forse sarebbe stato più opportuno seguire un'altra strada a partire dalla riforma del Titolo V; tale riforma, che certamente è stata approvata con una procedura parlamentare che oggi solleva perplessità nell'attuale maggioranza (perplessità per certi versi comprensibili), è stata confermata dal referendum popolare e credo abbia già prodotto alcuni risultati.
Sicuramente, sulla riforma del Titolo V si può e si deve tornare per analizzare più a fondo i meccanismi e le procedure, per definire meglio alcune norme, ma in un quadro in cui si tenga conto dei risultati ottenuti utili per il paese: un maggiore livello di responsabilità delle regioni, una maggiore autonomia. Alcuni risultati conseguiti sono la dimostrazione che è stata una riforma buona ed utile.
Certamente vi sono alcune incongruenze. Infatti, sono stati presentati tanti ricorsi in sede costituzionale dalle regioni che, in qualche modo, si sono sentite lese dalle iniziative del Governo nell'ambito di alcune loro competenze. In questa sede ci proponente la devolution (come la chiamate voi) con attribuzione di poteri esclusivi alle regioni in alcune materie, ma concretamente il Governo cosa fa? Vorrei ricordarvi alcuni atti del Governo. Con la legge finanziaria avete previsto (ed ora lo state realizzando) un dipartimento sulle tossicodipendenze che accentra le decisioni, le convenzioni, le regole e i finanziamenti nelle mani del Vicepresidente del
Consiglio. Non mi sembra che tale iniziativa vada nella direzione della devolution e dell'autonomia nazionale. Tale scelta, fatta da questo Governo, da questo Parlamento e dalla vostra maggioranza non più di qualche mese fa durante l'esame della legge finanziaria, ha sottratto alle regioni competenze che prima le erano state attribuite e che per tradizione sono regionali, da prima della riforma del Titolo V della Costituzione.
Nella Commissione affari sociali, in sede di discussione di un provvedimento di legge sulla psichiatria, la vostra parte politica, ma in particolare il gruppo di Forza Italia, ha proposto un dipartimento sulla psichiatria che sottragga competenze e responsabilità tradizionalmente attribuite alle regioni fin dalla legge 23 dicembre 1978, n. 833, pretendendo di costituire un dipartimento centralizzato che indichi alla regione il modo in cui organizzare il servizio di assistenza, di ricovero e cura di persone afflitte da problemi psichici.
Ancora qualche mese fa - due, tre mesi fa - questo Parlamento ha approvato un decreto del Governo e si è data attuazione ad una norma, che, ledendo profondamente la competenza regionale, per esempio in materia di personale del Servizio sanitario nazionale, ha stabilito che il medico, rispetto alla questione dell'esclusività del rapporto di lavoro, nell'ambito della dirigenza del Servizio sanitario nazionale, possa assumere, pur non avendo un rapporto esclusivo, livelli di alta responsabilità...
GIACOMO BAIAMONTE. Lì è una questione di capacità, non di legge! Se è capace, perché non deve farlo?
AUGUSTO BATTAGLIA. ...«fregandosene» - scusate il termine - di quello che pensavano in materia le regioni, che hanno competenza sul piano organizzativo.
Pertanto vogliamo denunciare la schizofrenia di questo Governo e di questa maggioranza, che predicano la devolution più spinta e poi quotidianamente ci propongono leggi, norme, decisioni e orientamenti che vanno esattamente nella direzione contraria, perché tendono ad accentrare competenze e responsabilità nelle mani dei ministri, del Governo, precludendo invece la possibilità per le regioni di disciplinare la materia.
Le contestazioni in sede costituzionale e i ricorsi derivano soprattutto da queste decisioni - potrei fare un elenco molto lungo, ma il ministro lo conosce molto meglio di me, perché, per la funzione che svolge, egli deve poi «sorbirsi» tutta questa partita -, così come gli interventi dello Stato nei confronti di decisioni regionali.
Quindi, probabilmente, al di là degli aspetti specifici, c'è da rivedere qualche cosa in quei meccanismi, così come credo che sia importante ridefinire meglio anche gli aspetti finanziari del decentramento amministrativo.
Le ipotesi che voi però ci proponete, perlomeno nelle materie di cui sto parlando, conducono evidentemente su un'altra strada: non quella che porta a lavorare sull'equilibrio tra Stato e regioni, ma quella che conduce a determinare le condizioni per uno «spezzettamento» del sistema paese. Ora, forse quello della sanità è l'esempio più evidente. Infatti, se attribuiamo alle regioni esclusiva competenza su tutti gli aspetti dell'assistenza sanitaria, evidentemente diamo alle regioni la possibilità di scegliere percorsi diversi. Potremmo avere regioni che mantengono l'attuale ispirazione universalistica e solidaristica del sistema del Servizio sanitario nazionale, che garantisce - al di là dei limiti, delle cose che noi tutti dobbiamo migliorare e del percorso ancora da fare - su tutto il territorio nazionale, a tutti i cittadini italiani, nelle stesse condizioni, prestazioni sanitarie (naturalmente con la libertà del cittadino di scegliere tra servizi diversi, tra operatori diversi), oppure regioni che, per esempio, legittimamente, se questa è la legge, possono pensare di fondare il servizio sanitario, non più su un sistema solidaristico - per il quale tutti noi versiamo, sulla base dei nostri redditi, una certa quota e per il quale tutti noi usufruiamo dello stesso livello dei servizi (i livelli essenziali di assistenza che le regioni devono garantire su tutto il territorio nazionale)
- ma, per esempio, su un sistema a base assicurativa. Per carità! È legittimo anche il sistema su base assicurativa, però sappiamo che esso, come tutte le assicurazioni, premia e fornisce un tipo di risposta a chi ha risorse per garantirsi una buona assicurazione e dà un po' meno a quelli che non se la possono permettere valida e si devono arrangiare con quello che trovano, penalizzando notevolmente, attraverso un servizio sanitario pubblico residuo, quei cittadini che, non avendo risorse si devono accontentare di quello che passa il convento. E quello che passa il convento è sempre meno e sempre peggio, se quello è il quadro di riferimento. Ci possono anche essere regioni che spingono di più verso la privatizzazione dei servizi; i modelli possono essere molteplici, come sono molteplici nel mondo.
Ora, in un'ottica solo regionale, ci si può anche chiedere: cosa c'è di scandaloso in tutto questo? E si può anche dire: noi attribuiamo competenza esclusiva, ogni regione si organizza il suo servizio e poi il cittadino giudicherà il modello. Sulla base del suo gradimento, si regolerà di conseguenza quando va a votare.
No, non è così semplice, perché sia per le caratteristiche di una sanità moderna, sia per le peculiarità del nostro paese, credo che l'attribuzione alle regioni della competenza esclusiva in questa materia non possa che creare danni. Affermo ciò in base non ad un principio teorico, ma all'esperienza concreta, ed anche ispirandomi a quella che dovrebbe essere la sanità nel futuro.
Qual è il modello di sanità del futuro, ad esempio? Il settore sanitario sta cambiando profondamente, la scienza medica sta aprendo nuove frontiere di ricerca e ci stiamo indirizzando, sempre più, verso una sanità ad altissima specializzazione. La sanità del futuro, allora - come delineata, ad esempio, dal professor Veronesi, già ministro della sanità -, sarà costituita sia da una serie di strutture di eccellenza, ad altissima specializzazione (quelle che effettueranno la «revisione del cuore», quelle che rigenereranno le cellule malate di un organo e via dicendo), sia da una struttura territoriale che punti da una parte alla prevenzione e dall'altra a disporre, quanto più possibile, di sofisticate apparecchiature diagnostiche, in grado di individuare la malattia e di offrire successivamente l'opportunità (in tempi che garantiscano, possibilmente, una cura adeguata ai cittadini) di ricorrere, almeno per le grandi patologie, a tali centri di alta specializzazione.
Vorrei portare un esempio al riguardo. È pensabile realizzare un'unità spinale in ciascuna delle regioni italiane? In altri termini, è necessario avere un'unità spinale in Puglia, in Basilicata, una in Calabria, una in Campania, una in Molise e via dicendo? Credo di no, poiché ritengo che vi debba essere - come sa chiunque abbia un po' di dimestichezza con questi temi - una programmazione nazionale, che provveda alla definizione di alcuni obiettivi, con l'allocazione di tale tipo di servizi (penso, ad esempio, ad un servizio di grande specializzazione nel campo della cardiologia o delle terapie genetiche, e così via), distribuiti in maniera equilibrata in varie parti del paese, ma non necessariamente a livello di singola regione. Non credo, infatti, che dovremo realizzare, ad esempio, un'unità spinale in Basilicata.
Vi saranno pertanto cittadini che, per quanto concerne tali strutture di grande specializzazione...
PRESIDENTE. Onorevole Battaglia, concluda!
AUGUSTO BATTAGLIA. ...dovranno avere la possibilità di usufruire dei servizi offerti da altre regioni.
Tuttavia, se il sistema sanitario non è omogeneo, poiché una regione sceglie di intraprendere una strada, mentre un'altra opta per il sistema assicurativo, e non vi è una adeguata programmazione regionale in grado di coinvolgere le regioni stesse, in rapporto con lo Stato, nell'ambito della Conferenza Stato-regioni, tale sistema non sarà realizzabile.
Un altro esempio potrebbe essere rappresentato dalla politica del farmaco. La
farmacologia, infatti, costituisce una parte importante della medicina moderna; in tale ambito, ad esempio, dobbiamo far convivere gli aspetti curativi con quanto attiene ad un settore importante per lo sviluppo economico del nostro paese, poiché si tratta di un comparto industriale ad alto valore aggiunto e con un alto tasso di ricerca.
Allora, le politiche che perseguiamo nel riconoscimento di un farmaco piuttosto che di un altro, nella definizione di un prezzo piuttosto che di un altro e nella scelta di una confezione piuttosto che di un'altra presentano un'influenza diretta sulle strategie di sviluppo economico di un settore importante per il paese. Come pensiamo di implementare tali politiche, se invece ogni regione potrà stabilire come dovrà essere la confezione del farmaco, quale dovrà essere il suo prezzo, quali medicine saranno offerte gratuitamente e quali a pagamento? Credo che non sarà possibile, e ritengo altresì che, attraverso scelte di questo tipo, creeremo da una parte condizioni di diseguaglianza per i cittadini nell'ambito del sistema sanitario, mentre dall'altra rischieremo di arrecare danni notevoli alla nostra economia.
Non sono soltanto io ad affermarlo, perché è quanto le imprese farmaceutiche, la settimana scorsa, hanno rappresentato al Presidente del Consiglio dei ministri e al ministro della salute, che li hanno convocati. Vorrei precisare che li hanno convocati perché li avevamo convocati noi, e quindi hanno dovuto cercare, di corsa, di recuperare il tempo perduto, perché sappiamo che, in materia di politica farmaceutica, le critiche nei confronti del Governo sono state mosse da più parti. Si è trattato, infatti, di una politica inadeguata, con otto provvedimenti in materia varati in tre anni, che cambiano le regole ogni settimana.
Quindi, vi è l'incapacità di sviluppare una strategia in un settore importante per la nostra economia e per la nostra sanità. Credo pertanto che una legge di questo genere non possa che creare difficoltà.
Noi non vogliamo che questo paese sia spezzato, ma che sia gestito in maniera moderna, con una responsabilizzazione delle autonomie locali, in un sistema vero di sussidiarietà in cui, tuttavia, non si spezzi l'unità. L'unità non si difende a chiacchiere: lo dico ai colleghi di Alleanza nazionale, che vanno in giro con la bandiera dell'Italia! L'unità non si difende a chiacchiere per poi venire in questa sede a votare questo tipo di devolution. L'unità si difende attraverso norme giuridiche che garantiscano un equilibrio tra le esigenze di sviluppo di una politica nazionale nell'interesse generale del paese, che guardi all'Europa e che valorizzi le autonomie locali. Questo è equilibrio. Questo provvedimento è squilibrato e, pertanto, non può che recare danni al paese (Applausi dei deputati del gruppo dei Democratici di sinistra-L'Ulivo).
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Tabacci. Ne ha facoltà.
BRUNO TABACCI. Signor Presidente, onorevoli colleghi, signor ministro, le riforme costituzionali rischiano di divenire il principale terreno di scontro politico tra maggioranza e opposizione. La Costituzione repubblicana, come è noto, rappresenta l'eccellente risultato di un confronto estremamente positivo e fecondo tra tre filoni culturali e politici sicuramente eterogenei, ma che hanno saputo dare vita ad un sistema coerente, in grado di garantire all'Italia oltre mezzo secolo di pace, di sviluppo e di prosperità.
Oggi che le distanze, se non altro sotto il profilo ideologico, appaiono infinitamente più ridotte, il prevalere di un clima di contrapposizione e di scontro appare del tutto irragionevole. Ad alimentare la contesa, e ciò è il fatto più grave, è che all'interesse costituzionale del paese sembrano concorrere interessi politici contingenti, sovente di basso profilo. In questo modo, il dibattito sulle riforme rischia di risultare di livello estremamente scadente e di fare arrossire di vergogna chi ricorda la passione civile, lo spessore del confronto che animò l'Assemblea costituente. Un errore grave fu l'approvazione della riforma del Titolo V, nella scorsa legislatura.
Si trattò di una grave rottura rispetto ai principi che avevano prevalso nell'Assemblea costituente. È grave che il centrosinistra continui a minimizzare tale responsabilità!
Per quanto ci riguarda, non dovremmo ripetere l'errore commesso da chi era maggioranza allora, promuovendo una riforma che possa apparire di parte e che, soprattutto, rischi di far prevalere posizioni rigide, non sufficientemente meditate, e di non affrontare compiutamente alcuni nodi attraverso scelte chiare, pagando così un pesante tributo alla volontà di approvare comunque una riforma per segnare un punto politico a proprio favore.
Non si deve ripetere, su scala tra l'altro più ampia, il grave errore compiuto nella scorsa legislatura. Una simile scelta avrebbe riflessi estremamente negativi per la credibilità e la tenuta del sistema politico-istituzionale. Quando si mette mano alla Costituzione, non vi sono avversari politici da sconfiggere, e le riforme, quelle vere e durature, nascono sempre dal vissuto collettivo di un paese, interpretato dal complesso delle forze politiche e culturali. Il confronto ed il dialogo sono, quindi, il presupposto indispensabile di riforme costituzionali valide ed efficaci.
Nel 1948 i costituenti seppero definire soluzioni di compromesso alte e, nel contempo, complesse e difficili. Oggi, le posizioni di partenza sono oggettivamente assai più ravvicinate e raggiungere un'intesa di fondo su punti fondamentali è un obiettivo sicuramente alla portata delle forze politiche, oltre che conforme agli interessi generali del paese. Occorre, a mio avviso, a questo punto, operare un distinguo: sul federalismo e il Titolo V della Costituzione vi è la necessità di correggere, da un lato, e completare, dall'altro, un lavoro già avviato nella scorsa legislatura. Tra l'altro, vi è una sentenza della Corte costituzionale del luglio 2003 che ci induce a fare ciò. Al riguardo mi sembra che il testo prodotto dal Senato possa e debba essere approfondito sotto taluni aspetti e non vi è dubbio che vi sia la necessità e l'urgenza di agire nei due sensi che ho appena indicato. Aggiungerei che, sul punto, il centrodestra ha tutto il diritto di intervenire e il centrosinistra, d'altro canto, avrebbe tutto l'interesse a prestare la sua piena collaborazione.
Assai meno maturi mi sembrano gli altri due capitoli della riforma che ci giunge dal Senato, sia il premierato che il Senato federale. Ciò malgrado le aperture, che ho segnato con grande compiacimento, che ieri ha portato in quest'aula il ministro Calderoli, in termini di stile e direi anche in termini di atteggiamento complessivo.
Anche in questo caso non si tratta di scelte di fondo che possono essere ampiamente condivisibili e condivise, ma della struttura complessiva della riforma che risente di troppe disparate sollecitazioni. È il frutto, da un lato, di una contaminazione di una pluralità di modelli europei e, dall'altro, di input politici diversi, scarsamente filtrati e organizzati sotto il profilo costituzionale. Non è, ad esempio, positivo il fatto che si sia lasciato intendere che ad un pezzo della coalizione andava il meccanismo A, ad un altro pezzo il meccanismo B e ad un terzo pezzo il meccanismo C. Non è così, io credo, che si può procedere.
Su questa materia occorre, a mio avviso, svolgere una riflessione più approfondita, interrogandosi sull'efficacia e sulla coerenza di alcune scelte. Soprattutto su questa materia mi sembra occorra un forte impegno per definire un'architettura costituzionale equilibrata e convincente, in grado di conquistare un consenso parlamentare ampio.
Cercherò ora di illustrare meglio le due opzioni che, a mio giudizio, abbiamo di fronte. Per quanto riguarda il federalismo, che io più volentieri chiamerei regionalismo (ma non è un fatto nominalistico), questo appare come il terreno più facile da arare, rispetto al quale non sarebbe affatto scandaloso limitare per il momento l'intervento riformatore. Mi sembra che le cose da fare su questo punto siano fondamentalmente tre. In primo luogo, occorrerebbe fare chiarezza in merito agli elementi costitutivi della Repubblica come definiti nel testo del primo comma dell'articolo
114. A tal proposito, è inutile che il centrosinistra si ritragga, perché quel testo l'ha scritto e l'ha voluto così. Non so, poi, chi volesse inseguire, ma è un fatto che così è scritto. Tale disposizione identifica nello Stato un elemento costitutivo della Repubblica al pari degli altri enti territoriali. È una scelta che non ha eguali nel costituzionalismo contemporaneo, a cominciare proprio dagli Stati federali. Il federalismo, infatti, è un tratto costitutivo dello Stato che presenta una struttura articolata e riconosce dignità costituzionale alle minori unità territoriali. Lo Stato nel caso italiano è anche una Repubblica democratica, ad indicare la forma di Governo prescelta che - come è noto - non può essere oggetto, in questo suo nucleo essenziale, di revisione costituzionale.
Se vogliamo, come fanno altre Costituzioni, attribuiamo espressamente allo Stato italiano la qualifica di federale, ma dobbiamo convincerci della necessità di correggere un'acrobazia linguistica senza precedenti.
La Repubblica, quindi, si identifica sostanzialmente con lo Stato. Se smarrisce il suo collegamento con lo Stato, la Repubblica diviene un concetto privo di contenuti. Quali sono i suoi organi, quali i suoi poteri, in che forma manifesta la sua volontà? Vi è di più: l'articolo 5 della Costituzione prevede tuttora che la Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali; attua nei servizi che dipendono dallo Stato il più ampio decentramento amministrativo; adegua i principi ed i metodi della sua legislazione alle esigenze dell'autonomia e del decentramento. Qui chiaramente la Repubblica si identifica con lo Stato e non è un mero contenitore di enti territoriali, come sembra fare intendere l'articolo 114 nel nuovo testo. Potremmo dire che, mentre per l'articolo 5 il federalismo - o il regionalismo che dir si voglia - è un attributo positivo dello Stato e ne determina il modo di essere e di operare, per l'articolo 114 il federalismo sembra divenuto quasi un'imposizione, un limite, un vincolo esterno al quale lo Stato si deve sottomettere e che, peraltro, non si sa bene chi dovrà far valere. Per l'articolo 5 lo Stato, proprio perché federale, può essere un garante credibile dell'unità e dell'indivisibilità della Repubblica; per l'articolo 114 il garante di tali valori non sembra più esistere e tutto è affidato alla libera dialettica tra i poteri territoriali e autonomi, con le conseguenze che sono all'attenzione della Corte costituzionale e che rendono assai problematico qualsiasi percorso riformatore. Negli Stati federali il garante dell'unità giuridica ed economica della nazione e, ancora prima, del valore dell'uguaglianza di tutti i cittadini è lo Stato, al quale la Costituzione riconosce, a tal fine, specifiche prerogative.
La riforma del 2001 ha attribuito alle regioni numerose competenze sulla base di valutazioni frettolose, in parte determinate dal clima politico del momento storico, che in alcuni casi hanno portato a concedere troppo, mentre in altri hanno portato a concedere troppo poco.
Vengo al secondo intervento fondamentale in materia di federalismo: dalla premessa discende che la devoluzione, ossia l'attribuzione di competenze ulteriori alle regioni, può sicuramente avvenire e non è di per sé un fatto negativo. D'altro canto, riguardo ad alcune materie, tutti, a partire dalle stesse regioni, ci rendiamo conto di come si sia proceduto in modo avventato ed incauto. Mi riferisco ad esempio alla materia dell'energia, a quella delle grandi reti e alle professioni, ambiti per i quali allo Stato deve essere riconosciuta la competenza esclusiva, salvo, come è ovvio, il rispetto di alcune prerogative regionali, ad esempio in materia di gestione del territorio. Vorrei dire che un paese come il nostro, che vuole adottare grandi riforme, ma che non riesce neanche a localizzare gli impianti di termovalorizzazione, non va molto lontano!
Questo comporta che, quando si parla di sussidiarietà, si debba affiancare a tale concetto il principio della responsabilità (non vi è soltanto Acerra, ma anche Viterbo); mandiamo in Germania i rifiuti, così pagheremo due volte: una prima per mandarli, una seconda per importare energia!
C'è infine una disposizione che considero necessaria al fine di allentare la tensione e dirimere la conflittualità che caratterizza in questo momento la discussione in ordine alle competenze regionali. È indispensabile introdurre una clausola di flessibilità che consenta in ogni caso allo Stato di legiferare quando sono in gioco valori costituzionali unitari e fondamentali: mi riferisco all'uguaglianza dei cittadini, ai diritti fondamentali e all'unità giuridica ed economica del paese. Legiferare, si badi bene, non contro le regioni, ma, nella stragrande maggioranza dei casi, per rafforzare e completare le politiche regionali.
Ciò comporta un'assunzione di responsabilità che porta a considerare il potere regionale non come una sorta di opposizione rispetto al potere centrale; questa in qualche modo è una condizione nella quale in parte il centrosinistra ed in parte il centrodestra si sono trovati. È tuttavia una condizione da evitare perché soltanto attraverso la collaborazione istituzionale è possibile compiere passi in avanti. Nell'ottica di un federalismo competitivo una simile clausola non viene compresa, ma in una visione cooperativa e collaborativa del federalismo ne diviene, al contrario, una vera e propria architrave.
L'esperienza ci ha insegnato come l'applicazione del principio di sussidiarietà richieda grande flessibilità e grande elasticità: non è possibile «tagliare» le materie con il coltello e regioni e Stato non possono esimersi dal coordinare le rispettive attività. Questo, a mio avviso, richiederebbe in sintesi una corretta riforma federalista ed è un esito al quale, con un po' di buona volontà, si può arrivare rapidamente nel corso di questa sessione di lavori.
In ordine al premierato, il discorso è assai più complesso: attualmente, il modello difetta soprattutto di chiarezza ed appare il frutto della contaminazione di esperienze diverse, senza un vero filo conduttore.
La forma di governo è stata oggetto di interventi - nel tentativo di rafforzare la stabilità dell'esecutivo - che, attraverso la valorizzazione della figura del premier, hanno individuato meccanismi di razionalizzazione ispirati a diverse esperienze europee, nonché hanno introdotto un'assoluta novità. Mi riferisco all'idea che occorra vietare espressamente, con un intervento di livello costituzionale, un cambiamento di maggioranza in corso di legislatura, il cosiddetto «ribaltone». In nessun paese europeo esistono garanzie antiribaltone, anche se in tutti i maggiori paesi europei un cambio di maggioranza in corso, ovvero di premiership, è visto con evidente sfavore e rappresenta comunque ipotesi eccezionale che presuppone un ricorso ravvicinato al giudizio dell'elettorato.
Non è pertanto il fine, quanto i mezzi utilizzati, a risultare anomali e tali da alterare, anche in chiave europea, gli ordinari rapporti fra il premier, la maggioranza e la Camera politica, a tutto vantaggio del primo, ma con un'utilità assai dubbia per l'efficienza e la stabilità complessiva del sistema. Il rischio è quello di perdere di vista il delicato equilibrio di poteri e di responsabilità che caratterizza la generalità delle forme di governo parlamentari o neoparlamentari.
Alla base della riforma vi sarebbe il rispetto della volontà elettorale, ma di tale volontà viene esaltato un aspetto, trascurandosi gli altri.
L'elettore, ai sensi del vigente sistema elettorale, la cui filosofia si vorrebbe sostanzialmente confermare, anche se rafforzandone gli effetti, sceglie un singolo candidato al Parlamento, al quale affida un mandato politico pieno e non condizionato o limitato (senza vincolo di mandato, per l'appunto), una maggioranza politica - allo stato, o almeno nell'immediato futuro, immagino si tratterà di una maggioranza pluripartitica - dando tra l'altro il proprio voto ad una singola e distinta forza politica all'interno della coalizione; sceglie infine un programma di governo elaborato dall'intera coalizione e un capo del Governo, ovvero dell'opposizione, in caso di sconfitta della coalizione prescelta.
Il voto sottende, quindi, una scelta plurima che deve essere integralmente rispettata
in corso di legislatura. In particolare, l'impegno di attuare il programma è assunto nei confronti dell'elettorato da tutte le forze della coalizione e da tutti i singoli esponenti che la compongono e non si risolve in un rapporto esclusivo e diretto tra premier e corpo elettorale (a tale proposito, credo che entrambe le coalizioni soffrano, in questo momento, della difficoltà di individuare politicamente il punto di equilibrio). Quest'ultima condizione - è bene ricordarlo - si realizza solo nei regimi presidenziali, dove il Governo è potere del tutto distinto ed autonomo dal Parlamento, e viceversa. Il Presidente ha i suoi poteri, ma il Parlamento ne ha di altrettanto penetranti e può condizionare fortemente l'azione dell'esecutivo. Come è noto, il Presidente americano ha un programma e viene eletto, ma quante cose il Presidente Clinton o l'attuale Presidente Bush non riescono a portare avanti quando trovano l'ostacolo insormontabile del Parlamento americano!
Se rimaniamo nella logica dei regimi parlamentari, il Parlamento non può essere considerato semplicemente un terzo incomodo la cui volontà deve sistematicamente cedere il passo a quella del premier, ma un attore vivo della dialettica istituzionale in grado di condizionare l'azione del Governo. In materia occorrerebbe, nel confermare gli obiettivi della riforma, realizzare un maggiore equilibrio, attenuando talune forzature che talvolta rischiano di risultare controproducenti per lo stesso Capo del Governo. In primo luogo, è giusto sancire la competenza del primo ministro a nominare e revocare i ministri, ma perché non prevedere che l'atto venga formalmente adottato dal Presidente della Repubblica al fine di rafforzare la natura istituzionale di tali adempimenti e di attribuire al premier un maggior margine di manovra? Così avviene in Germania, in Austria, in Spagna, per fare alcuni esempi a noi più vicini, senza che ciò determini alcun inconveniente.
Si prevede, inoltre, che il primo ministro determini la politica generale del Governo (articolo 29) nel presupposto, evidentemente, che il compito di dirigerla che la Costituzione attualmente gli assegna risulti inadeguato. Diversamente, non vi sarebbe ragione di mutare anche terminologicamente tale elemento. Dunque, mentre il programma di Governo sottoposto al corpo elettorale si configura come espressione di un accordo di coalizione realizzato con il concorso di tutte le componenti della maggioranza, la politica generale del Governo, che deve tradurlo in pratica, diverrebbe il prodotto di una solitaria decisione del premier. È la logica del bi-leaderismo a cui spesso ho fatto cenno criticando gli eccessi della cosiddetta seconda Repubblica. Inoltre, il Governo sembra in tal modo perdere il carattere di organo politico venendo ridotto ad organo esecutivo chiamato ad attuare una linea politica determinata esclusivamente dal premier. È proprio necessaria una simile sottolineatura delle prerogative del premier? È proprio necessario lasciarsi affascinare da una formulazione introdotta nella Costituzione tedesca e che appare, peraltro, tutt'altro che determinante ai fini dell'assetto di quella forma di Governo? Come si concilia una simile scelta con il principio di collegialità, che rappresenta un elemento costitutivo dei governi di coalizione e, per immergerci nell'attualità, con la giusta rivendicazione di collegialità che caratterizza la discussione interna allo stesso Governo in carica? È uno dei termini che un giorno sì e l'altro pure viene ricordato.
La disposizione che più accentua il primato del premier nei confronti della sua maggioranza e della Camera è rappresentata dall'articolo 23, che sostituisce l'articolo 88 della Costituzione. L'incongruenza non è rappresentata dalla previsione relativa allo scioglimento (l'attribuzione di un tale potere al premier può rientrare nella fisiologia delle forme di Governo neoparlamentari, anche se dovremmo guardare in maniera molto critica all'esperienza dei consigli regionali ed a quella fatta dai cosiddetti governatori), ma dalla pesantezza e dalla rigidità della procedura con cui la Camera può opporsi allo scioglimento. Prevedere, infatti, che la mozione in cui si indica il nome di un nuovo
primo ministro debba essere presentata da deputati della maggioranza in numero non inferiore alla maggioranza dei componenti della Camera rappresenta una scelta censurabile sotto più aspetti. Nega, innanzitutto, implicitamente in radice la possibilità di governi di minoranza o, comunque, rende irragionevolmente inapplicabile a tali governi la procedura di sostituzione del primo ministro. Attribuisce una valenza diversa alla volontà, e perfino al voto, dei deputati della maggioranza e dell'opposizione rappresentando un precedente assoluto nel diritto parlamentare. Sottrae, di fatto, il primo ministro al controllo della sua stessa maggioranza, essendo infatti sufficiente che il premier controlli un manipolo di deputati (circa venticinque-trenta), per definirlo di fatto inamovibile, salvo l'ipotesi di contestuale scioglimento della Camera.
Quest'ultimo è un aspetto importante, perché il potere di scioglimento riconosciuto al premier può rappresentare un importante deterrente volto a garantire l'unità della maggioranza. Ciò tuttavia, nei paesi nei quali è previsto (a cominciare dalla Gran Bretagna), non pone il premier al riparo dal giudizio della sua maggioranza, perché quando nel partito della maggioranza prevale un orientamento favorevole alla sostituzione del premier, questa diviene legittima e possibile (è accaduto anche alla signora Thatcher). Tale scelta è compiuta nell'interesse della stessa maggioranza, che si persuade della necessità di cambiare il proprio leader, per non andare incontro ad un insuccesso elettorale. Il premier in questi casi normalmente si adegua - se è una persona che ha acume politico - e cede il passo, ma soprattutto, in considerazione di una simile eventualità, è indotto al confronto costante con la maggioranza che esprime. Tutta questa vicenda dell'uomo solo al comando (che, intendiamoci, riguarda tutti)!
L'idea che il premier debba solo poter usare la frusta per domare una maggioranza riottosa ed essere in grado di soffocarne ogni velleità politico-programmatica rappresenta una distorsione del corretto funzionamento dei regimi parlamentari e non corrisponde nemmeno alla realtà dei regimi presidenziali, quasi che nei paesi a democrazia parlamentare la governabilità poggi non sulla capacità di persuadere, bensì sulla coercizione delle volontà. Blindare il premier ad ogni costo, prevedendo per la sua sostituzione una procedura del tutto anomala e assai difficile da esperire, rappresenterebbe una scelta senza precedenti nelle democrazie parlamentari, in grado di determinare situazioni confuse e incerte e, in ultima analisi, tutt'altro che a favore della governabilità. La soluzione più semplice sta nel prevedere che la mozione in questione venga presentata da un determinato quorum di deputati (un decimo, come prevede la Costituzione spagnola, o un terzo, se si vuole rendere più onerosa la procedura), senza distinzione di schieramenti politici. Le garanzie nei confronti del trasformismo parlamentare vanno ricercate nelle convenzioni costituzionali, nella formazione di un'etica pubblica e, in ultima istanza, nel giudizio degli elettori. Pensare di imporle per via costituzionale rappresenterebbe un tentativo vano e controproducente per quanto riguarda l'equilibrio e la funzionalità della forma di Governo. Tra l'altro, con riferimento alla cosiddetta «transumanza parlamentare», per citare un termine caro al presidente Biondi, devo ricordare che nell'arco di cinquant'anni sono stati solo undici i parlamentari che hanno cambiato casacca. Le centinaia di parlamentari che hanno imparato a cambiare casacca sono un costume della seconda Repubblica, non della prima!
Altra scelta da approfondire appare quella relativa all'introduzione del cosiddetto voto bloccato, sul quale si innesta anche la questione di fiducia (articolo 28). Si assemblano, quindi, introducendo una possibilità di deroga sostanzialmente illimitata alle ordinarie procedure parlamentari, due istituti diversi. Non solo il premier può chiedere alla Camera dei deputati di esaminare prioritariamente, esprimendo un voto conforme, le sue proposte, ma tale richiesta equivale alla posizione di un voto di fiducia. Pertanto, senza alcuna
garanzia e limitazione, il dibattito parlamentare può venire drasticamente circoscritto e la stessa maggioranza sarebbe sollecitata ad un'adesione acritica per scongiurare il proprio scioglimento. Senza bisogno di ricorrere all'artificio dei maxiemendamenti, il Governo disporrebbe di una formidabile scorciatoia per far passare, al riparo dal confronto parlamentare, le proprie proposte legislative. In luogo di tale previsione, appare decisamente preferibile disciplinare separatamente i due istituti: la posizione della questione di fiducia, che deve configurarsi come un'ipotesi eccezionale (e non la via ordinaria per l'attuazione del programma di Governo), e la previsione di effettive corsie preferenziali per i disegni di legge del Governo, con possibilità di voto bloccato, che non escludano tuttavia un minimo di confronto parlamentare e l'esercizio, sia pure circoscritto, del diritto di emendamento. Anche in questo caso, ridurre il Governo e la figura del premier appare come un'inutile forzatura, priva di corrispondenza con gli effettivi equilibri politici interni ai Governi ed in particolare ai Governi di coalizione.
La composizione e le prerogative del Senato federale, nonché le modifiche alla disciplina delle competenze legislative regionali si prestano a rilievi che attengono all'impostazione complessiva della riforma e all'equilibrio che viene in tal modo a realizzarsi tra istanze statali e istanze regionali. Il Senato federale, com'è noto, è stato fatto oggetto di critiche, tanto penetranti quanto ampiamente condivise, e ciò ha indotto la Commissione affari costituzionali a modificarne in maniera non trascurabile i poteri. Non è stata tuttavia corretta la composizione dell'organo, che ne rende per molti aspetti incerta la natura.
In particolare, appare dubbio che il Senato possa ritenersi effettivamente rappresentativo delle realtà regionali, poiché si è rinunciato sia a renderlo espressione dei consigli o delle giunte regionali sia a renderlo comunque rappresentativo delle regioni su di un piano di tendenziale parità.
La discussione al riguardo sarebbe troppo lunga. È noto anche dalle audizioni che si sono tenute che il problema è stato sollevato in tutta evidenza.
Un'anomalia che andrebbe sicuramente eliminata è la prevalenza del Senato nel procedimento legislativo; circostanza che non si verifica in alcun ordinamento federale e lo dico non come deputato - ci mancherebbe altro -, ma come legislatore, mi auguro responsabile.
Vi è un'altra esigenza da non trascurare, quella di non complicare e diversificare eccessivamente i procedimenti legislativi. La questione rileva, in particolare, nella determinazione dei principi fondamentali nelle materie di competenza concorrente. La Commissione affari costituzionali ha individuato una soluzione di mediazione che sembra, tuttavia, presentare ancora un'eccessiva farraginosità. Costruisce un elemento con tre attori, nel quale il Governo svolge, in sostanza, un ruolo autonomo e rischia di generare contrapposizioni, piuttosto che favorire la conciliazione delle posizioni.
Su tali questioni mi si dice che è stato compiuto qualche ulteriore passo in avanti, ma non ne sono a conoscenza e mi auguro che i passi in avanti siano in coerenza con le indicazioni auspicate. A questo punto la soluzione preferibile sembra quella di ridurre a due i procedimenti alternativi: uno a prevalenza Camera ed uno paritario, salvo affidare, nella seconda ipotesi, in caso di mancato accordo, la decisione definitiva alla Camera, con facoltà, come accennato, per il Senato di opporsi a maggioranza qualificata, salvo che alla Camera non sia stata già raggiunta una simile maggioranza.
Desta, inoltre, rilevante contrarietà la scelta di affidare al procedimento legislativo paritario, che, allo stato, assegna al Senato una sorta di diritto di veto, la tutela della concorrenza. Secondo la sentenza della Corte costituzionale n. 14 del 2004 ed altre pronunce conformi, la regolazione della concorrenza costituisce una delle leve della politica economica
statale comprensiva di tutti gli strumenti di politica economica che attengono allo sviluppo dell'intero paese.
Il Senato viene in tal modo posto nella condizione di vincolare l'intera politica economica dello Stato, senza essere la Camera di fiducia politica del Governo. Quindi, in qualche modo, può diventare il punto di tenuta dell'attuazione della politica economica del Governo. Credo che la materia debba essere senz'altro assegnata al procedimento a prevalenza della Camera che esprime la fiducia al Governo.
L'ultima rilevante questione sulla quale riflettere riguarda la valorizzazione dell'opposizione. L'introduzione di elementi di uno statuto dell'opposizione (bisogna sempre guardare in avanti nella vita!) avrebbe la funzione di riequilibrare un sistema caratterizzato da un complesso di meccanismi di razionalizzazione dell'organo di Governo e da un debolissimo riconoscimento della funzione oppositoria.
Non si comprende, infatti, perché, mentre dal lato del Governo non si riscontrano esitazioni nel rafforzarne il premier, fino a configurarlo, come ho tentato di dimostrare evidenziando un disaccordo, nei termini di un organo monocratico, ricorrendo ad un mix di suggestioni tratte dal diritto comparato (premier all'inglese, scioglimento di tipo spagnolo, voto bloccato alla francese), nei confronti del capo dell'opposizione della coalizione che esso rappresenta non si sia operato con una logica analoga, in modo da configurarlo nei termini di un interlocutore autorevole e qualificato del premier, in grado di impegnarlo nella dialettica parlamentare e di assicurare un alto livello del confronto politico ed istituzionale.
Credo che un candidato alternativo che vuole allenarsi a diventare il premier di un paese è bene che lo faccia nel crogiolo, nella durezza del dibattito parlamentare e non aspettando chi non c'è. In tal modo, verrebbe valorizzato il ruolo di tutte le forze di opposizione, evitando il rischio della marginalizzazione del confronto parlamentare.
Sul piano delle garanzie si dovrebbe assegnare alla Corte costituzionale l'ultima parola in materia di verifica dei poteri e di cause di incompatibilità e di ineleggibilità, al fine anche di sfatare il mito dell'insindacabilità degli interna corporis che danno poi vita ad alcune situazioni davvero un po' aberranti, come è accaduto anche in questa legislatura. Non è che compete a noi decidere se le schede siano dieci od otto (lo si potrebbe fare in prima istanza); altrimenti, nel nuovo sistema il problema rischia di risolversi nell'esclusiva tutela delle ragioni della maggioranza, consentendo all'opposizione di impugnare le leggi dinanzi alla Consulta per vizi in procedendo.
Tra l'altro, in questo caso, si valorizzerebbe ancor di più il ruolo del Presidente della Camera, la cui funzione verrebbe rafforzata in una posizione di garante di un'imparziale applicazione del regolamento, venendo sottratto, in tale ambito, al rischio di subire condizionamenti eccessivi da parte della sua maggioranza.
Credo - ed ho concluso - che, per garantire la trasparenza dell'azione di Governo e l'esercizio della facoltà di criticane l'azione e di rappresentare le possibili alternative, consentendo la formazione di un'opinione pubblica politicamente consapevole, appare essenziale valorizzare il ruolo del Parlamento, quale sede privilegiata del dibattito politico.
Se vogliamo che vi sia un controllo effettivo su chi governa e se crediamo nella dottrina sui limiti del potere da chiunque interpretato, occorre non relegare le Camere ad un ruolo marginale e prevalentemente simbolico. L'opposizione deve essere visibile, dotata di risorse e in grado di provocare il confronto sui temi politici fondamentali dinanzi all'opinione pubblica. Da tale circostanza dipenderà in misura non trascurabile la qualità della nostra democrazia.
In conclusione, in questa situazione si possono seguire due strade e forse in questa fase bisognerebbe essere in grado di progettare e sostanziare con proposte concrete entrambi i percorsi.
Il primo percorso è quello di seguire la normale strada del procedimento bicamerale.
Il Senato ha fatto la sua parte svolgendo i temi fondamentali; la Camera svolge la sua introducendo tutti i possibili correttivi maturi a questo punto, sottoponendoli nuovamente al Senato, che li assesterà e li ritrasmetterà alla Camera. Il dibattito, se non sarà costretto all'interno di artificiose strettoie di tempi ed impensabili blindature con assurde imposizioni ad una Camera o all'altra, potrà nel frattempo maturare ed estendersi al paese, giungendo a soluzioni equilibrate e condivise. Infatti, se in questa vicenda vi è un convitato di pietra, è che l'opinione pubblica non ha assolutamente partecipato a questa fase di dibattito, alla quale attribuiamo grande importanza.
Il secondo percorso è quello di anticipare la discussione e l'approvazione della modifica della riforma del Titolo V, cominciando dunque a discutere gli emendamenti dall'articolo 114 all'articolo 117 e di prospettare la possibilità di una norma transitoria di rango costituzionale che formuli un principio finalizzato - che obblighi a completare la riforma entro un tempo determinato - e definisca nel contempo una procedura speciale per l'elaborazione della riforma al Senato e con essa della forma di governo nazionale. Tale procedura speciale dovrebbe puntare sull'elezione di un'assemblea costituente e sulla convocazione di una convenzione del tipo di quella europea con poteri redigenti.
Questa è l'interpretazione politica che fornisco al dibattito svoltosi finora, ovviamente nei limiti in cui ciò è consentito ad un deputato. Infatti, tutti i discorsi svolti in queste settimane e in questi mesi, dai saggi di Lorenzago in poi, non ci hanno visti protagonisti (Applausi).
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Caldarola. Ne ha facoltà.
GIUSEPPE CALDAROLA. Signor Presidente, signor ministro, colleghe e colleghi, a mio avviso, il bilancio di quasi due decenni di dibattito e di iniziativa politica e legislativa sul federalismo non si sta rivelando esaltante.
Ci sono stati momenti anche importanti: in qualche stagione è sembrato affacciarsi un clima costituente, molte intelligenze si sono cimentate e molte altre sarebbe stato meglio che si fossero dedicate ad altre attività anch'esse utili.
Il bilancio non apre al sorriso e il tema delle riforme ha ormai le rughe, ma non quelle provocate da una vita molto vissuta, ma da una vita molto dissipata; il tira e molla di queste ore conferma tale giudizio.
L'approdo cui stiamo giungendo con il voto delle prossime ore sulla devolution conferma la sensazione che si stia sprecando una grande occasione. Tornare indietro e correggere sarà complicato, sarebbe meglio lasciar perdere e iniziare daccapo.
Dobbiamo sapere che il tema della riforma è già uscito dall'immaginario collettivo e rischia di restare solo materia del teatrino della politica. In questo clima disincantato e di angoscia, in cui tutti ci interroghiamo su altre cose e su altre emergenze, si sta preparando per il paese una stagione di «ferite istituzionali» (mi scuso, non riesco a trovare una definizione diversa).
Parlo, per essere chiari, di ferite che non vengono direttamente causate da un'intenzionalità maligna, bensì prodotte dall'approssimazione, dal verticismo, dalla mancanza di respiro storico. La realtà, purtroppo, è quella di una discussione sulla nostra Costituzione, che è diventata parte integrante e pressoché esclusiva della revisione dei rapporti di forza dentro il centrodestra, tema su cui far esercitare la passione e l'arguzia dei nostri notisti politici, piuttosto che la scienza dei costituzionalisti. Si parla di Costituzione, ma si è volato troppo basso e tuttora si continua a stare a pochi centimetri dal suolo.
Partiamo dal principio, o, perlomeno, propongo una lettura di tale genere. La forma federale può essere il dato costitutivo dell'organizzazione di uno Stato, oppure può essere un faticoso processo che modifica le originarie strutture statali. In questo secondo caso, l'obiettivo è quello di decentrare, di allargare il campo dei decisori, di assumere come valore generale
quanto più si può dalla ricchezza che c'è nell'anima profonda del paese. Generalmente, siamo stati posti di fronte a Stati che nascevano federali; tuttavia un recente esempio europeo ci ha dimostrato che è possibile avviare un processo assai profondo di revisione della struttura dello Stato verso forme federali.
È il caso della Gran Bretagna, dove si ebbe una lunga stagione di duro confronto fra gli unionisti, guidati dalla signora Thatcher, e i sostenitori dell'autonomismo, e mi riferisco in particolare alla spinta che veniva dal Galles e dalla Scozia. Questo scontro ebbe inizio negli anni Settanta e fu nel 1997 che Tony Blair, con il referendum tenuto in Scozia in un 11 settembre - poi divenuto diversamente tragico - aprì la strada a due provvedimenti riguardanti Scozia e Galles, che prevedono l'istituzione di assemblee legislative, per la Scozia e, sia pure con una formula simmetrica e con poteri minori, anche per il Galles.
L'esperienza scozzese e gallese trovò un'eco immediata in Italia, in quanto dette alla Lega nord la via di uscita dal dilemma secessionista, proponendo una sorta di terza via - che personalmente credo illusoria -, che avrebbe comportato la rinuncia alla propaganda secessionista - ricordate i proclami? Governo del nord, guardie padane, eccetera -, e propose una parlamentarizzazione dell'idea separatista. Come ha notato acutamente Luciano Vandelli in un bel libro pubblicato dal Mulino, dal punto di vista culturale l'approccio leghista, scomparse le suggestioni esclusivamente indipendentistiche di Gianfranco Miglio, si imbeve di un'idea comparativa, perché la Scozia viene considerata un interessante caso di stateless nation, nazione senza Stato, sicché il richiamo alla Scozia - scrive Vandelli - può avvicinare la Padania al riconoscimento di quella condizione di territori che, pur privi di sovranità statuale, ne ricoprono i presupposti sostanziali, essendo dotati di una propria e riconosciuta identità.
Il tema del federalismo, così come l'aveva originariamente proposto la Lega, si libera apparentemente dalla pulsione immediatamente secessionista e cerca un'altra strada e anche un'altra cultura di riferimento: per l'appunto, si parlamentarizza. Un'altra strada e un'altra cultura che portano, tuttavia, verso territori altrettanto immaginosi e concretamente pericolosi. Accantonata la secessione e il furore iconoclasta di Miglio, il concetto di nazione senza Stato, una nazione denominata Padania, andava affermato come tale e aveva altresì bisogno del riconoscimento istituzionale per iniziare un cammino che l'avrebbe portata - e la porterà, a mio parere -, in un altro tempo storico, a riproporre il tema della secessione. Siamo di fronte ad una lunga e corrosiva marcia nelle istituzioni, fatta di strappi successivi che avevano e hanno bisogno di modificare sia la Costituzione materiale, sia quella formale.
Ha bisogno, innanzitutto, del vulnus primordiale, dell'affermazione di esistenza della nazione senza Stato. L'accanimento con cui si sta cercando di portare a casa comunque una legge che contenga il dato, magari solo il titolo, la denominazione di devoluzione, non significa soltanto che la Lega ha bisogno di dire ai suoi elettori che ha dato un senso alla sua permanenza nel Governo e un risultato ai tanti prezzi, anche di immagine, che ha pagato alla convivenza con il centrodestra. Vuol dire anche che, nella prospettiva strategica - che a mio avviso resta separatista -, questa modifica costituzionale, anche a prezzo di qualche rinuncia, resta il primo passo. Affermato il principio, vi sarà un secondo tempo, poi un terzo, e poi il caos. Bisognava che l'intero sistema politico-istituzionale dicesse coralmente «no» a questo disegno.
Su questo punto essenziale tuttora la riflessione e la battaglia politica non mi sono sembrate all'altezza della sfida proposta allo Stato unitario. Cari colleghi, bisogna ancora partire dal dato iniziale: la Padania non esiste.
Non c'è alcuna motivazione storica, culturale, antropologica, che dia sostanza a questa idea bislacca. È persino singolare che la Lega di Governo, per molti aspetti così diversa dalla Lega di movimento rivoluzionaria,
sia portatrice dell'idea più distruttiva e più corrosiva, usando un concetto blando.
È bene ricostruire, dal lato della storia recente della politica italiana, la nascita di questa idea. Padania e secessione sono state inizialmente soprattutto un'idea politica, figlia di un progetto di disarticolazione della struttura politica esistente, con una forte e non interamente negativa spinta alla distruzione del sistema politico della cosiddetta Prima Repubblica. Non vi è alcun dubbio che Umberto Bossi colse con genialità, fra i primi, un punto di sofferenza forte del vecchio sistema politico. Mi riferisco al rapporto fra il Nord e lo Stato, e non è piccolo merito, al di là delle motivazioni, sempre al limite della xenofobia antimeridionale (il Sud del mondo, il Sud d'Italia), l'aver posto al sistema politico il tema del Nord. Vi è forte, fin dal principio, la traccia della rivolta antifiscale di un Nord liberatosi da lacci e lacciuoli che può fare da sé: un'idea romantica, in un tempo storico in cui la globalizzazione indica l'assenza di futuro per tutti quelli che vogliono far da soli.
Non dimentichiamo, tuttavia, che Bossi dà vita al suo movimento e raccoglie in poco tempo così grandi consensi proprio al culmine della degenerazione della vecchia organizzazione della politica. Centralismo, partito della spesa pubblica, blocco di ogni ipotesi di ricambio danno a Bossi l'occasione per aprire una strada a un nuovo movimento e danno a una parte degli elettori del Nord delusi dal vecchio mondo lo strumento per esprimere la propria protesta e per pretendere un diverso assetto della politica nazionale. È il Nord che si ribella. La questione - mi si consenta la civetteria - era stata posta - anche se mai sviluppata a fondo, per la verità - dal settimanale del PCI Rinascita, che pubblicò un importante articolo di un noto economista, Silvano Andreani.
Il nordismo nasce quindi come espressione politica della rivolta contro il partito della spesa pubblica, contro la stagione del pentapartito, contro il rischio di un sistema che appare vieppiù bloccato, non solo dalla persistenza del «fattore K». Molti degli obiettivi di questa rivolta e molti dei protagonisti politico-culturali contro cui essa si esercitò sono ora nella maggioranza di centrodestra, a cominciare dal Presidente del Consiglio.
Non è tuttavia questo il tema che intendo sottolineare. Ritengo invece utile ricordare come la protesta del Nord abbia avuto indubbiamente un ruolo di scardinamento del vecchio sistema politico, messo poi in crisi definitiva prima dal crollo del muro di Berlino, che cancellò, fino all'avvento di Berlusconi, il tema del nemico interno, e successivamente dalla vicenda di Mani pulite, su cui si esercitarono l'entusiasmo della Lega, di Alleanza nazionale e dei giornali e delle televisioni di Mediaset. Qui cambia qualcosa: la protesta politica di una parte del Nord diventa movimento politico di massa che, in concorso con altri fattori, scardina il vecchio sistema politico, assume immediatamente una connotazione sistemica e si imbeve di un tentativo identitario incline a trovare le motivazioni storiche, culturali e antropologiche non più per la liberazione del Nord dalla vecchia politica e dalle degenerazioni stataliste, ma per l'affermarsi dell'irredentismo di un'inesistente Padania.
Solo una parte del mondo politico di destra ha fatto muro. Lo hanno fatto con coraggio Domenico Fisichella e Gennaro Malgieri, e ieri ho letto un bell'articolo sul Corriere della sera di Egidio Sterpa; essi si oppongono alla deriva secessionista. Perché mi interessa questo riferimento alla sovrapposizione di una battaglia politica in favore del Nord e la deriva identitaria e tendenzialmente secessionista in nome della Padania? Perché nella mancata rottura di questo intreccio c'è tutta la storia del fallimento non solo delle ipotesi riformatrici alte, ma soprattutto di questo tentativo confuso, pasticciato e per ciò stesso pericoloso, che è di fronte al paese in queste ore. La rottura di questo intreccio non poteva farla la Lega: doveva imporglielo il sistema politico, dando una risposta alla rivolta del Nord e spegnendo i focolai esplicitamente secessionisti, prima, e confusamente devoluzionisti, ora.
GIUSEPPE CALDAROLA. Doveva farlo soprattutto il centrodestra, che con la Lega ha voluto creare un asse che costituisce l'anima di questo Governo. Della vicenda di cui ci stiamo occupando colpiscono diversi aspetti.
In primo luogo, la contraddittorietà delle proposte contenute nelle successive riedizioni dello stesso progetto di legge: si conferma la mia idea che la metafora per cui non importa di che colore sia il gatto, purché acchiappi il topo, possa tradursi, nel dibattito di queste ore, nella formula: non importa come cambiamo la Costituzione, purché passi l'idea che è iniziata la stagione della devoluzione; non importa quello che accade, purché si capisca che si sta smontando qualcosa, che pure dovrebbe essere considerato dalla maggioranza di noi prezioso.
Colpisce inoltre il legame che si è voluto stabilire fra la tematica devoluzionistica e la tematica ipercentralista, che fa perno sul primato del Governo sul Parlamento.
Infine, la cancellazione - in un dibattito che viene pomposamente definito di riforma istituzionale - di un chiarimento sul senso della missione cosiddetta riformatrice; trascuro invece, poiché è materia di informazione politica quotidiana, quanto sia degradante il tema dello scambio politico fra partiti in merito a questo od a quel passaggio della riforma.
In questa stagione viene avanti un'idea dello scambio politico che è la peggiore che si possa immaginare, perché non riguarda la legislazione ordinaria ma investe direttamente al cuore la legislazione alta, quella che decide il nostro stare assieme come italiani; in questo quadro, colpisce l'ulteriore decadimento del dibattito che accompagna le proposte.
Il ministro Calderoli si è impegnato volenterosamente e ha proposto anche un diverso clima di discussione, che appare una novità perché non è questa la regola seguita in questi anni. In verità, lo stesso Calderoli è stato propagandista di un clima di rissa nei mesi scorsi; ora si è convertito: speriamo che duri.
Parlo di decadimento e immiserimento del dibattito perché vedo venir meno in ogni intervento dei proponenti - non pronunciato in quest'aula ma scritto sui giornali - ogni specificazione sulla mission. Mi ha colpito una lunga intervista rilasciata dal ministro Calderoli - peccato non sia presente - alla Gazzetta del Mezzogiorno. Si è trattato di un'intervista datata - come tutte le cose rovinose - 11 settembre e rivolta ad un pubblico di meridionali. Il ministro Calderoli rivela l'obiettivo di questo ambaradan legislativo, parlando della riforma che ha come scopo finale lo sfoltimento dei ranghi della pubblica amministrazione. Si riforma lo Stato per licenziare un po' di dipendenti pubblici e forse bastava un contratto: Reagan e la signora Thatcher, infatti, non hanno cambiato l'assetto dello Stato per licenziare. In ogni caso, se così posso dire, la furbizia del ministro sta nel fatto che egli ha parlato - rivolgendosi ad un pubblico meridionale - di riduzione dell'apparato pubblico, salvo poi chiedere - nella stessa intervista che ho citato - il rigido blocco delle assunzioni per la pubblica amministrazione. L'unica valvola che il furbissimo ministro concede consiste nelle assunzioni che saranno dislocate sul territorio: il ministro sembra dire che con la devolution assumerà a valanga meridionali negli stati del sud.
Ci voleva un ministro leghista per parlare lo stesso linguaggio clientelare delle vecchie classi dirigenti del Sud che non davano sviluppo ma promettevano pubblico impiego? Per questo la riforma in oggetto, in qualunque modo verrà riformulata, è nata male e vivrà peggio. Vorrei vi fosse un comitato di salvaguardia delle parole nobili: infatti, perché chiamare riforma una cosa così? Tale riforma viene imposta in nome di un concetto inesistente - la Padania - e che vive sulla base di una rigida logica di scambio fra i partiti della maggioranza, e infine invoca non una mobilitazione per
un nuovo Stato, ma ripropone e tira fuori dagli inferi le vecchie tentazioni clientelari dello Stato sprecone.
Sarebbe opportuno lasciar perdere, fermarsi tutti e ricominciare a partire dall'idea che abbiamo sul destino di questo paese, se pensiamo che quest'ultimo debba ancora averne uno (Applausi dei deputati dei gruppi dei Democratici di sinistra-L'Ulivo e della Margherita, DL-L'Ulivo).
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole De Mita. Ne ha facoltà.
CIRIACO DE MITA. Signor Presidente, onorevoli colleghi, certo il rituale di questo dibattito è singolare e la stessa assenza del rappresentante del Governo, più che un difetto, riproduce plasticamente un dato oggettivo. La discussione, infatti, avviene non su una proposta, ma su un qualcosa in corso d'opera, per cui ogni rilievo, obiezione, suggerimento rischia di non incrociare il corrispettivo.
Non utilizzerò il tempo che mi è stato concesso per addentrarmi in una osservazione analitica sulla quantità di norme che, da quello che si legge, sembra una disciplina di condominio. Mi sforzerò, invece, di interloquire con il presidente della Commissione - istituzionalmente l'intelligenza più rilevante nel dialogo su tale questione - e di riflettere sulle ragioni delle norme.
Infatti la prima differenza, onorevole Bruno, tra la proposta che il Governo avanza e le osservazioni che si possono fare è che le norme messe insieme hanno una razionalità contraddittoria.
Le norme non sono mozioni di partito; le norme, soprattutto quelle costituzionali, non possono essere rinchiuse dentro forme di compromesso non spiegate, soprattutto quando il compromesso avviene non a livello di una qualità tecnica raffinata, ma attraverso la rozzezza della necessità dello stare insieme perché diversamente tutto si sfascierebbe.
Dico queste cose - vorrei mi credeste - non con l'alterigia di chi dà un giudizio sulla parte opposta, ma con preoccupazione, perché le cose di cui stiamo discutendo coinvolgono tutti, non solo la maggioranza o l'opposizione.
Noi stiamo discutendo di come dare risposta ad una domanda che ha radici antiche - soprattutto per quanto riguarda l'ordinamento del governo delle autonomie - ma ha anche radici profonde più recenti nel grande sconvolgimento che la realtà del nostro paese ha attraversato: il non essersi fermati ad analizzare con molta serenità le ragioni della rottura dell'equilibrio politico, l'atteggiamento con il quale tutti, da destra a sinistra - dico questo con molta serenità senza la presunzione di dare giudizi -, siamo arrivati alla semplificazione delle soluzioni più nella logica del conflitto tra le parti, anziché con la preoccupazione di trovare la norma condivisa. La democrazia, la convivenza all'interno di una comunità, se non recupera valori e norme condivise, difficilmente uscirà dalle difficoltà.
Perché le norme devono essere condivise? Non ha senso che debbano avere l'unanimità del voto; infatti, chi ha letto, chi ricorda, chi ha seguito i lavori della Costituente, sa che molte norme furono votate con lo scarto di qualche voto. Ad esempio, ricordo che la norma sull'indissolubilità del matrimonio passò per soli tre voti e con l'assenza involontaria di alcuni parlamentari della Democrazia cristiana, tra i quali c'era Giorgio La Pira, e quindi non si può immaginare che l'orientamento di La Pira su questo argomento potesse essere incerto. Ma non ci fu dramma perché i Costituenti non ricercarono l'accordo sulla soluzione che, essendo tecnica, è opinabile, ma l'accordo, la convergenza sull'individuazione della questione.
L'unità passa non attraverso il voto unanime, ma attraverso la convinzione che la questione da affrontare è quella, mentre nella proposta che si avanza la questione non viene definita, ma è un miscuglio di cose.
Non a caso, un parlamentare di Alleanza nazionale - che, fra l'altro, io stimo -, il senatore Nania, un giorno, in televisione, spiegò con molta semplicità che la soluzione era il compromesso tra il presidenzialismo
che vuole Alleanza nazionale, ma, non potendolo avere, si accontenta del premierato, la devolution che vuole la Lega, che affronta un problema vero solo che lo risolve in maniera sbagliata, e la proporzionale che è l'ultimo fortino dell'UDC sulla battaglia, molto alta, iniziata sull'incongruità della norma, che poi si è chiusa con il dovere di tenere insieme la maggioranza.
Questa unità non c'è; il ministro mi ha sorpreso per i toni, il modo e la gentilezza con cui si è presentato alla Camera, ma ha richiamato alla mia memoria la favoletta di «Cappuccetto rosso» che si presenta con grande disponibilità, pur trattandosi di una disponibilità basata sul niente.
Voi, in realtà, che fate? Fate un compromesso disdicevole - disdicevole per la qualità delle proposte e per il modo in cui pensate di risolverlo; il giorno in cui i costituzionalisti veri, quelli che hanno il senso delle istituzioni, non i politologi, si occuperanno della congruità di queste norme, udremo critiche feroci, non di poco conto! - e pretendete che il rapporto con l'opposizione si svolga secondo la seguente logica: «Noi abbiamo deciso; se voi ci suggerite di migliorare la decisione, noi siamo pronti a discutere». Non è questo!
Né questo conflitto e questa incomunicabilità tra maggioranza ed opposizione possono trovare spiegazione nel fatto che esse sono su posizioni diverse. Nella mia memoria, onorevole Bruno - ritengo che lei sia molto più giovane di me, sebbene faccia fatica a stabilire la differenza sulla base dell'apparenza -, vi è un ricordo: quando si ruppe la solidarietà dei governi del CLN, nel corso dell'elaborazione della Costituzione, i lavori qui dentro continuarono come se nulla fosse, non per un pasticcio, ma perché l'oggetto, sul quale la convergenza si realizzava, riscontrava un comune interesse.
Voi vi muovete per fare una Costituzione della maggioranza. Provate a riflettere che, se passasse questo principio, daremmo vita ad un processo di disordine e non di ordine. Oggi avete vinto voi e, probabilmente, vincerete anche la prossima volta (non me lo auguro, ma non lo escludo); però, verrà un momento in cui andrete all'opposizione (mi auguro presto, ma la decisione sarà rimessa agli elettori). Ma con questa logica dove si va? Onorevole Bruno, il costituzionalismo moderno nasce per frenare il potere del re; nella logica della vostra proposta, l'ordinamento è tutela del sovrano, che non è neanche sovrano, ma maggioranza. Il collega Tabacci è stato molto attento nell'analisi della questione, anche se non mi pare che il discorso complessivo vada oltre la lamentela.
Nella storia politica del costituzionalismo europeo - e, quando parlo di costituzionalismo europeo, vi includo anche quello degli Stati Uniti - si conoscono due vie. Una, quella che io condivido e che è stata richiamata dal mio amico Bressa, quando ha citato Bagehot (che non era un costituzionalista, ma un giornalista), dimostra che le norme costituzionali sono la politica che si fa regola, non la tecnica giuridica che si sovrappone alla realtà. Affrontare le questioni ed introdurre una norma per regolarle: è questo che riassume la politica. Rispetto alla realtà, la politica è l'ambizione di regolarla.
Non a caso, onorevole Bruno, coloro che hanno fondato la tecnica giuridica, cioè i Romani, affermavano: ex facto oritur ius. Ricordo di aver perso la lode all'esame di diritto romano perché dissi: «I Romani definivano...». Non l'avessi mai detto! In realtà, le norme giuridiche romane non definivano: erano dentro i processi; erano, insieme, la capacità di cogliere gli eventi ed il tentativo di regolarli.
Esiste anche un'alternativa a questo procedimento. Nella Storia del liberalismo europeo, opera pregevole di De Ruggiero, soprattutto nella parte iniziale, le due vie sono descritte con grande efficacia. Una è quella che potrebbe apparire meno ambiziosa, più pragmatica e più modesta, quella che caratterizza il pragmatismo inglese (che non è l'accoglimento delle cose come sono, ma la capacità di identificarsi con gli eventi come sono). L'altra, figlia dell'Illuminismo e della storia politica
francese, è quella che ha l'ambizione di imporre, sugli eventi, una realtà che prefigura il futuro.
La proposta del Governo non fa riferimento né all'una né all'altra cosa: è un pasticcio!
Mette insieme un presidenzialismo alla siciliana, una devolution a livello di desiderio e non di cultura, e la legge elettorale per la parte marginale della coalizione, la legge elettorale proporzionale.
Io, proporzionalista da sempre, attento a tale metodo elettorale per il fine che aveva, ossia misurare le opinioni, non ho alcuna difficoltà a affermare che, nel momento in cui il quadro politico le opinioni le ha perse e le grandi motivazioni vengono meno, l'utilizzo del metodo proporzionale mi parrebbe una scelta inadeguata. Il problema è come recuperare il pluralismo dal punto di vista sia della cultura e della proposta sia della registrazione. Desiderare che ciò accada senza che sia accaduto mi parrebbe un errore.
La proposta del Governo non si misura con l'ambizione di ipotizzare un riordino istituzionale da imporre alla complessa realtà per ordinarla entro regole definite. In questa mia riflessione sollevo alcune questioni riguardanti la parte più corposa della riforma, ossia quella del Governo.
Voi proponete, almeno nelle dichiarazioni, la conservazione del Governo parlamentare, ma il Governo parlamentare assume come rilevante il ruolo dell'Assemblea. Onorevole Bruno, la democrazia rappresentativa nasce, si consolida, cresce e si arricchisce con la valorizzazione di quest'organo. Forme diverse di organizzazione della democrazia rappresentativa, culturalmente e storicamente, non ne conosciamo. Le forme di Governo espresse dalla moderna democrazia rappresentativa sono due: quella del Governo presidenziale, che, per la verità, si è realizzato solo negli Stati Uniti (ovunque è stato esportato si è rivelato un disastro), e quella dei Governi parlamentari, che caratterizza la vita delle democrazie europee.
È opportuno ricordare che quello del Governo nella politica italiana non è un problema reale. Abbiamo discusso prevalentemente di Governo e di legge elettorale e poi commettiamo l'errore di immaginare che il problema siano il Governo e la legge elettorale. Il Governo e la legge elettorale in realtà sono stati assunti dal dibattito politico perché la non stabilità del Governo non consentiva al Parlamento di affrontare il problema delle riforme, ma le riforme vere che la comunità italiana reclama non sono quelle delle istituzioni rappresentative, sono altre e riguardano la garanzia dei diritti; la trasformazione della nostra società nell'ultimo secolo - che non è un secolo breve - attraverso un percorso contraddittorio - il che conferma l'umiliazione della superbia e dell'intelligenza umana -, che le culture ottocentesche avevano immaginato dovesse concludersi in un'epoca in cui il diritto fosse più garantito, paradossalmente è pervenuta ad un risultato che probabilmente nessuno aveva immaginato. Dopo un secolo, i diritti delle persone sono cresciuti, le persone sono più libere, più istruite, garantite nella tutela della salute; esse devono essere garantite in un minimo di protezione sociale. Dopo un secolo, siamo in presenza di un arricchimento del diritto di cittadinanza. I sociologi americani, Marshall in maniera particolare, nella storia del diritto di cittadinanza individuano tre epoche: il diritto civile, che avviene con la Rivoluzione francese, sostanzialmente si traduce nel fare l'anagrafe, nel registrare l'identità delle persone (non a caso, sono individui che si enucleano dalla massa); il diritto politico, che si ha con il voto, e il diritto sociale, che si ha con la riforma dello Stato sociale.
La riforma vera da fare, da una parte, è questa; dall'altra, è la riscoperta del governo delle comunità. Le due questioni, che la società moderna ha di fronte, sono: da un lato, individuare un governo della comunità, senza sovrastrutture ideologiche; dall'altro, la protezione del diritto di cittadinanza. Voi avete puntato sulle riforme, prevalentemente sul Governo, immaginando non di definire un meccanismo. Il problema del Governo nel sistema parlamentare è la stabilità, onorevole
Bruno, non l'inamovibilità; è una norma flessibile, come del resto tutte le norme.
Le norme non sono sostitutive - tanto più quelle costituzionali - dei comportamenti umani, ma sono sollecitatrici dei comportamenti. La funzione del diritto è questa! Voi ci state proponendo un impianto che è una specie di «protesi» dei comportamenti (sul ribaltone, sulla stabilità, sulla omogeneità del Governo, tutte cose che rappresentano questioni politiche). Lo dico anche a Tabacci: la coalizione è un fatto politico; se si rompe la coalizione, il problema non è risolvibile con la norma tecnica. Voglio vedere chi rimane a governare nel momento in cui la maggioranza del Parlamento non lo sostiene! Voi volete «imbalsamare» il sistema. Lo dico anche a chi ha riletto la storia italiana dal 1948 al 1968 in maniera frettolosa e incomprensibile.
Noi abbiamo avuto, dal 1948 al 1968, una mobilità dell'equilibrio politico italiano impressionante. Mica è rimasta la condizione di equilibrio politico dal 1948 al 1968! Mica sono state cambiate le norme! Si è tanto deriso sulla teorizzazione di Moro delle convergenze parallele; in realtà, si trattava dell'intelligenza di cogliere e dominare gli eventi, orientandoli verso la forma dell'allargamento del consenso democratico nel nostro paese.
Voi, viceversa, siete presi dalla paura! Siccome il Presidente del Consiglio non ha più l'autorevolezza che aveva con il fanatismo del primo momento delle elezioni, pensate di dargli il potere eleggendolo a riferimento unico. Di questo passo dovreste arrivare ad ipotizzare il governo di una persona. Ma attenti che, quando e se - lo dico in termini paradossali - si arrivasse al governo della persona, poiché questa deve governare delle persone, entrerebbe in conflitto con esse e allora voi dovreste distruggere le persone.
Onorevole Bruno - lo dico in termini un po' paradossali -, spesso la logica deve forzare gli eventi per rendere comprensibile il fenomeno, ma in realtà io colgo in questo movimento disordinato una logica che purtroppo prevale dentro il dibattito politico, nella realtà italiana, sia nel centro-sinistra sia nel centro-destra. Lo dico con molta serenità. Rispetto alle difficoltà che incontriamo, inavvertitamente, stiamo spostando l'attenzione dalle condizioni della partecipazione - la domanda oggi è di maggiore partecipazione, non di maggiore rigidità dei centri di governo - a quelle del sistema di potere, ipotizzando che esso sia una soluzione, solo che è in contrasto con la democrazia! È machiavellica la soluzione! Con la differenza che Machiavelli descriveva quel fenomeno, ma non escludeva il resto. Voi, viceversa, vi fermate a cristallizzare soltanto una soluzione, nella quale il tutto si riduce dentro la razionalità del potere, e nella razionalità del potere recuperate in maniera astratta la tutela dell'interesse generale, sapendo che storicamente non è così. Infatti, il potere razionalizzato c'era prima dell'avvento della democrazia partecipativa e poi si è scoperto che non funzionava.
La motivazione che è al fondo della vostra proposta ha una qualche logica: si candida il premier, egli riceve il voto, governa e poi torna dagli elettori per avere un giudizio. Badate bene, questo meccanismo c'era nell'Ottocento, e non funzionò! Sulla crisi di questo meccanismo sono sorti da una parte il nazifascismo e dall'altro il socialismo e il comunismo. Su queste difficoltà sorse e si alimentò, con riflessioni di grande rilievo - mica erano cose banali! -, la costruzione di una soluzione che risolvesse questo problema.
Voi volete tornare a quella condizione, ma senza neppure tentare una riflessione che ipotizzi come un meccanismo del genere possa recuperare la tutela dell'interesse generale.
La proposta che avanzate è mostruosa: eleggete il Presidente del Consiglio, e chiunque viene eletto non può essere sfiduciato. Giuridicamente, le basi di legittimazione sono diverse, perché il Presidente del Consiglio è eletto - non a caso, voi affermate che ha la «fiducia presunta» del Parlamento, ed in questo avete il pudore di nascondere l'imbroglio -, mentre dall'altra parte c'è il Parlamento. Ma nel governo parlamentare, nella democrazia
moderna, l'alimento della vita del Governo è data dal Parlamento! Quella che voi ritenete incertezza, lentezza, impazienza del decidere, è invece la ricchezza della democrazia. Le Assemblee elettive, infatti, sono sorte per fermare l'impazienza del sovrano! Voi, viceversa, immaginate ciò perché lo impongono i problemi moderni, ma vorrei osservare che i problemi sono stati sempre così! Io, insomma, non sono parmenideo, ma questa impostazione, che si incontra spesso, per cui il cambiamento impone comportamenti disinvolti, sul piano dell'agire politico, non la trovo condivisibile.
Il Parlamento, pertanto, andrebbe rafforzato in questo ruolo di «rallentatore», perché solo il «rallentatore» consente l'approfondimento della decisione; lo stesso bicameralismo è funzionale, ma non alla ripetitività del rito! Noi, purtroppo, abbiamo adottato un bicameralismo perfetto (ciò andrebbe precisato, ed onestamente lo avevano notato i costituenti, poiché nessuno ha immaginato che si trattava di un sistema perfetto).
Voi, viceversa, ipotizzate una sorta di parlamentarismo rituale, un po' come Forza Italia - me lo consentano i colleghi del gruppo di Forza Italia -, dove nelle assemblee si parla, ma la conclusione è che poi decide uno. No: la democrazia è fatta, evidentemente, di scontri di opinione, di misura delle opinioni che si contrappongono e, alla fine, la leadership è conquistata da chi riesce a ricomporre, in un disegno comune, le soluzioni proposte. Quella che volgarmente viene liquidata come la mediazione rappresenta la nobiltà della politica: si tratta, infatti, dell'attenzione della politica alla ricomposizione dei diversi interessi che si amministrano. Voi pasticciate e non fate nessuna scelta, come ad esempio a favore della forma di governo parlamentare, che è quella più seria, anche se vi sono alcuni problemi da risolvere.
Per quanto concerne l'unità di indirizzo, a differenza delle opinioni che ho ascoltato, espresse anche da alcuni amici, non escluderei la possibilità che il Primo ministro nomini e revochi i ministri. Vorrei rivolgermi all'onorevole Tabacci: la pluralità, infatti, è altro dalla frammentazione. Il Governo deve avere una unitarietà di indirizzo politico, ma ciò va recuperato politicamente, non stabilendo che parla uno solo!
Per quanto concerne il cambio di maggioranza, vorrei far presente che i cambi di maggioranza avvengono o con le elezioni o tra un'elezione e l'altra: non si può certo stabilire che avvengono solo durante le elezioni! Nel sistema tedesco, il solo modello che registra la possibilità che si verifichino cambiamenti di maggioranza, viene utilizzato un istituto di grande raffinatezza: la «sfiducia costruttiva». In tale sistema ciò è avvenuto di fatto, senza bisogno di una norma!
Noi potremmo introdurre nel nostro ordinamento questa norma: se nasce in Parlamento una maggioranza diversa, legata al mutamento di equilibrio politico nella realtà, si potrebbe allora stabilire che la «sfiducia costruttiva» sia accompagnata da due ipotesi. La prima è che il premier sfiduciato si appelli al popolo, perché potrebbe essere un ribaltone: allora, la verifica viene data dal corpo elettorale. Diversamente, si potrebbe prevedere che, dopo il mutamento di maggioranza, il passaggio elettorale debba svolgersi entro breve tempo: in altri termini, il riscontro dell'orientamento della pubblica opinione potrebbe avvenire così. Voi, tuttavia, non avete fatto niente di questo!
L'altra forma di governo è il presidenzialismo. Bisogna fare attenzione: nel presidenzialismo non vi è maggioranza parlamentare, come ha ricordato anche l'onorevole Tabacci; il Presidente è stabile ed inamovibile, ma il rapporto con il Parlamento è dialettico ed il ruolo del Parlamento stesso è salvaguardato.
Voi, invece, ipotizzate una forma in cui il Presidente è eletto abbastanza «all'italiana» ma la maggioranza è disciplinata, non ha nessuna possibilità di articolare il rapporto dialettico del Governo, pena il rischio dello scioglimento del Parlamento. Come si fa ad immaginare che vi sia la
libertà del Parlamento, fondamento della democrazia rappresentativa, con tale sistema?
Ho letto che gli amici dell'UDC si gloriano - in verità, non solo loro, ma anche altri - che in tale tipo di riforma vi è devolution. La devolution è un sistema, discutibile, ma un sistema che, per la sua funzionalità, presuppone il trasferimento di quote di potere tra il Governo centrale e quello periferico. In realtà, essa va in direzione opposta al processo reale che dovremo governare, però è un fenomeno. Voi introducete il principio di sussidiarietà. Il principio di sussidiarietà va in una logica esattamente opposta: la sovranità non è esercitata dallo Stato, ma dalla comunità, che, a mano a mano che organizza istituzioni sovracomunali, delega i poteri. Per cui, non vi è conflitto. Vi state disperdendo attorno ad una farraginosa regolamentazione perché le logiche sono contraddittorie.
Molto semplificativamente, per utilizzare il poco tempo che mi rimane, mi avete ricordato un episodio: un tempo facevo l'assistente a Milano e lavoravo a Roma e, quindi, viaggiavo frequentemente in treno. Un giorno d'estate, nel vagone ristorante, a fianco a me vi era una coppia di sposini che chiesero il Barolo. Il cameriere portò una bottiglia di Barolo e gli sposini chiesero il ghiaccio. A quel punto, il cameriere disse: «mi dispiace, signora, o il ghiaccio o il Barolo». A voi dico: «o la sussidiarietà o la devolution». Non potete ipotizzare norme contraddittorie. Altrimenti, esse produrranno un'esplosione e non vi sarà nessuna soluzione che vi potrà salvare.
Signor presidente, onorevoli colleghi, parlo a mio nome, pur rappresentando gli amici del gruppo della Margherita, e dico «no» a questa procedura che, prima della riforma, cancella il ruolo del Parlamento come presidio della democrazia.
Il giorno in cui la stampa, anziché raccogliere battute e pettegolezzi, riflettesse per descrivere la condizione del Parlamento, nel momento in cui si è impegnato in un processo di riordino della convivenza, essa dovrebbe scoprire che esso è un luogo ormai finito. Non discutiamo tra noi: vi sono i «saggi», che si riuniscono da qualche parte e decidono.
Voi non avete avuto neppure il pudore di rinviare - sarebbe stato già un aspetto di qualche decenza - ma ci avete comunicato: «discutete, perché noi vi comunicheremo in seguito le nostre decisioni». In questa procedura, l'istituzione più alta della democrazia, il Parlamento, è delegittimato e reso squallido. Riflettiamo su ciò.
Diciamo «no» alla proposta, perché essa mette insieme esigenze contrapposte: onorevole Bruno, non funzionerà! Voi le ordinate con il desiderio, ma le norme hanno una loro razionalità. La logica dei processi istituzionali, l'intelligenza umana la può prevedere e organizzare, ma non la può sostituire. Voi, invece, introducete un meccanismo che non funzionerà o, se funzionerà, farà saltare il sistema della democrazia rappresentativa.
Diciamo «no» - l'ho accennato in precedenza - perché il problema oggi non è il rafforzamento del Governo - quando parlo del Governo, parlo in termini generali - ma la domanda di partecipazione.
Questo problema ha messo in crisi le istituzioni della democrazia liberaldemocratica nel nostro paese e le ha rimesse in crisi oggi. La Lega, che alla fine del Novecento è stato il fenomeno più rilevante nei comportamenti sociali del nostro paese, ha registrato un dato e l'ha letto male. Il movimento della Lega è una grande domanda di partecipazione che non può essere ricondotta soltanto al voto. La partecipazione, onorevole Bruno, è la possibilità di consentire all'elettore di contare anche dopo che ha votato, perché il sistema che riduce il potere del cittadino al momento del voto non funziona. Le istituzioni liberaldemocratiche nell'Ottocento saltarono per tale ragione.
Questa è la domanda e la vostra proposta di riforma non solo non risponde a questa domanda, ma la ignora. Io sono preoccupato che, se dovesse permanere (mi auguro di no) questa cecità assoluta nell'osservazione dei fenomeni, incontreremo grandi difficoltà. Ma guardando alla storia della democrazia italiana, soprattutto
nel dopoguerra, ho la sensazione che vi sia un'intelligenza straordinaria dei cittadini e degli elettori. Dico questo a chi mi ascolta adesso, ma questa valutazione l'ho espressa anche quando, nel 1983, gli elettori non premiarono la Democrazia cristiana. Non è una valutazione di comodo, è una valutazione oggettiva. Se voi andate avanti con la vostra arroganza, noi coinvolgeremo il popolo, essendo sicuri che quest'ultimo vuole un arricchimento della democrazia e non un impoverimento del potere (Applausi dei deputati dei gruppi della Margherita, DL-L'Ulivo, dei Democratici di sinistra-L'Ulivo, Misto-Comunisti italiani, Misto-UDEUR-Alleanza Popolare - Congratulazioni)!
PRESIDENTE. La ringrazio, onorevole De Mita. L'ho lasciata parlare cinque minuti in più del previsto perché l'ho ascoltata molto volentieri. Lei sa che ho anche questo vezzo di ascoltare volentieri coloro che si esprimono avendone le capacità.
È iscritto a parlare l'onorevole Armani, che pure ascolterò volentieri. Ne ha facoltà.
PIETRO ARMANI. Signor Presidente, onorevoli colleghi, sulla riforma della parte II della nostra Costituzione il dibattito è ormai aperto da tempo, quanto meno da quando, al termine della precedente legislatura, la maggioranza di centrosinistra, che esprimeva il secondo Governo Amato, volle approvare tale riforma con una forzatura palese dei tempi e, in definitiva, della stessa volontà prevalente nel Parlamento. Ricordo che la riforma fu approvata - com'è noto - con quattro voti di maggioranza in ultima lettura al Senato, anche a seguito di alcune astensioni o non partecipazioni al voto nell'ambito, oltre che dell'opposizione, anche della stessa coalizione di maggioranza dell'epoca. In definitiva, violando e forzando la volontà prevalente del Parlamento, fu varata una riformulazione di alcuni articoli della parte II della nostra Costituzione.
Il successivo referendum confermativo, celebrato poco dopo le elezioni della primavera del 2001, ossia poco dopo la vittoria della coalizione di centrodestra, venne assai colpevolmente sottovalutato nella sua determinante importanza dalla nuova maggioranza e consentì alla riforma costituzionale di essere approvata - come del resto è previsto dalla legge - senza alcun quorum e, quindi, con una modestissima partecipazione al voto da parte dei cittadini elettori.
Così il nuovo Governo di centrodestra - che pure aveva nel proprio programma la riforma dello Stato in senso federalistico e che, pertanto, aveva considerato assai criticamente la riforma del titolo V varata dal centrosinistra sostenendo che essa appariva confusa e inadeguata - fu costretto a gestire le modifiche al testo costituzionale divenute legge dopo il referendum. Quasi subito, però, emersero le tante contraddizioni ed ambiguità del nuovo testo costituzionale, specie per quanto riguarda gli articoli 117 e seguenti, relativi al riparto delle competenze tra lo Stato, le regioni e gli enti locali, divenuti anche questi ultimi soggetti costituzionalmente rilevanti (mi riferisco a comuni, province e città metropolitane), in quanto titolari di particolari poteri autonomi rispetto allo Stato posto, a mio avviso, inspiegabilmente al fondo della catena dei soggetti dotati di potestà costituzionali nel territorio nazionale.
Io sono firmatario di un emendamento presentato dal collega Landolfi che elimina giustamente questa assurda stortura. Come dicevo, infatti, lo Stato deve essere alla base dell'ordinamento di una Repubblica di stampo federalista; lo stesso rilievo critico vale per l'articolo 11 del testo licenziato dal Senato, nel quale, con riferimento all'articolo 67 della Costituzione, si distingue inspiegabilmente fra la nazione e la Repubblica, come se fossero due cose separate.
Furono presentati perciò ad opera delle regioni a maggioranza di centrosinistra, ma non solo di quelle, tutta una serie di ricorsi dinanzi alla Corte costituzionale avverso determinate leggi statali, con particolare riferimento a molte leggi approvate dalla nuova maggioranza di Governo in materia di infrastrutture e di valutazione
ambientale ed aventi valenza per i territori amministrati dalle predette regioni. Ci furono anche ricorsi da parte dello Stato contro particolari leggi ritenute lesive dei poteri statali.
La Corte costituzionale, in particolare con le sentenze nn. 303 e 307 del 2003 in materia di legge-obiettivo e di inquinamento elettromagnetico, nonché con le pronunce n. 27 (nomina dei presidenti dei parchi nazionali) e n. 196 (condono edilizio) del 2004 ha lodevolmente, lo devo sottolineare, cercato di fare ordine nelle competenze statali e regionali in molte materie concorrenti, spesso restituendo allo Stato funzioni ed autonomia decisionale negate dalle interpretazioni filo regionaliste precedentemente rivendicate dai governi regionali ricorrenti.
Tuttavia, la materia delle competenze concorrenti è troppo complessa e delicata per essere lasciata interamente all'interpretazione, pur autorevole, della Suprema magistratura costituzionale. Di qui l'esigenza di introdurre alcune ulteriori modifiche al titolo V, innovato dalla maggioranza di centrosinistra nella precedente legislatura, per evitare ulteriori conflitti circa il regime delle competenze concorrenti ex articolo 117, comma terzo, della Costituzione.
In questo senso vanno gli emendamenti presentati dal sottoscritto all'articolo 34 dell'atto Camera n. 4862, contrassegnati con i numeri 22, 23, 20, 21, 24 e 25, e all'articolo 35, contrassegnati con il numero 5, in parte riferiti peraltro all'articolo 118.
Con questi sette emendamenti miro, in sostanza, ad intervenire nelle competenze concorrenti in materia di infrastrutture, ambiente, appalti ed urbanistica. Per quanto riguarda la materia infrastrutturale, ho cercato di farmi carico, con gli emendamenti nn. 20 e 21, all'articolo 34, e n. 5 per l'articolo 35, anche a seguito della mia esperienza di presidente della VIII Commissione della Camera, delle critiche pressoché unanimi che la dottrina ha indirizzato, con riferimento al terzo comma dell'articolo 117 tuttora vigente, nei confronti di alcune materie rimesse alla legislazione concorrente delle regioni, previa determinazione dei soli principi fondamentali da parte della legislazione statale.
Le materie sono le seguenti: le grandi infrastrutture, il trasporto e la navigazione, la produzione, il trasporto e la distribuzione nazionale dell'energia. Invero, con la riforma approvata dal Senato, che ora esaminiamo in seconda lettura parlamentare, si prevede, all'articolo 35, un intervento tendente ad introdurre in questa materia un rimedio, sia pure parziale, per consentire in tali specifici comparti, che pure restano riservati alla competenza concorrente di Stato e regioni, la possibilità che la legge statale disciplini forme di intesa e coordinamento tra lo Stato e le regioni.
L'intento di tale modifica sembrerebbe quello di recuperare allo Stato la competenza legislativa affidata alle regioni, in quanto tali materie, di grande rilievo, erano state troppo frettolosamente rimesse alla competenza regionale concorrente.
Tuttavia, tale soluzione risente ancora della scelta di fondo implicita nel testo licenziato dal Senato, consistente nel tentativo di migliorare la riforma costituzionale del Titolo V senza toccare minimamente gli elenchi di materie di cui all'articolo 117. Invece, la soluzione che sembra inevitabile per superare i problemi lasciati aperti dalla riforma del 2001 è proprio quella di modificare detto elenco riservando alla competenza statale alcune delle materie comprese nel terzo comma. In particolare, come la citata sentenza della Corte n. 303 del 2003 ha ampiamente dimostrato ed argomentato, la mancata previsione di competenze statali nelle materie delle grandi opere di trasporto e di navigazione, nonché della produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell'energia, risulta di fatto in conflitto con alcuni valori generali di tenuta dell'intero sistema (articoli 5 e 118 della Costituzione) e non trova l'equivalente in nessun sistema federale. I miei emendamenti all'articolo 34 sono tra loro connessi in quanto hanno la finalità di sopprimere la competenza legislativa concorrente delle regioni in materia
di grandi reti infrastrutturali e di energia di interesse nazionale, attribuendo alle regioni la sola competenza in materia di reti di interesse regionale (ricordiamo che l'originario articolo 117 manteneva tale distinzione) pur se in armonia con i principi fondamentali validi per l'intero territorio nazionale.
L'altra mia proposta emendativa all'articolo 35 in materia infrastrutturale, con riferimento all'articolo 117, secondo comma, ha la finalità di attribuire alla competenza legislativa esclusiva dello Stato anche il settore delle reti di telecomunicazione che vanno assumendo un crescente rilievo strategico, come si evince dalla stessa citata sentenza n. 307 del 2003. Così, il rimedio introdotto dall'articolo 35 del testo approvato dal Senato (forme di intesa e coordinamento fra Stato e regioni) verrebbe a questo punto mantenuto svolgendo una funzione di garanzia per le stesse regioni.
Per quanto riguarda poi la materia ambientale ho presentato un emendamento all'articolo 34: alla luce dell'evoluzione della legislazione regionale a partire dal 1970 (la prima legislatura regionale) appare non più proponibile una sottrazione dell'intera materia della tutela ambientale alla competenza legislativa delle regioni. Tale sottrazione sarebbe, d'altronde, in stridente contrasto con l'ampia assegnazione di funzioni amministrative in materia ambientale sia alle stesse regioni, sia agli enti locali operata dal decreto del Presidente della Repubblica n. 616 del 1977 e, successivamente, dal decreto legislativo n. 212 del 1998, in attuazione delle leggi Bassanini. La mia proposta emendativa ha lo scopo di sottrarre alla competenza legislativa esclusiva dello Stato la materia della tutela dell'ambiente e dell'ecosistema, rimettendola nelle sue linee generali alla competenza legislativa concorrente delle regioni e lasciando alla sfera della legislazione statale esclusiva soltanto la disciplina degli standard di protezione ambientale uniformi a livello nazionale, nonché la tutela dell'ecosistema e dei parchi nazionali e delle riserve naturali. In quest'ultimo caso, quindi, il mio emendamento, qualora fosse approvato, consentirebbe probabilmente di superare in via definitiva i conflitti tra Governo statale e regioni in materia, ad esempio, di nomina dei presidenti dei parchi nazionali, conflitti non certo risolti dalla citata sentenza della Corte costituzionale n. 27 del 2004. D'altra parte, la modifica del testo costituzionale da me proposta recepirebbe quanto suggerito da due altre sentenze della Corte: la già citata n. 307 del 2003 e la n. 407 del 2002 che, di fatto, ha già declassificato l'ambiente a materia di legislazione concorrente.
Per quanto riguarda, infine, il settore degli appalti pubblici e quello dell'urbanistica (altra competenza della mia Commissione) ho presentato due emendamenti all'articolo 34 del testo del Senato.
Con il primo emendamento, si propone di inserire tra le materie a legislazione concorrente (ex articolo 117, terzo comma) anche la disciplina degli appalti pubblici, in stretta connessione con la già esistente competenza statale esclusiva in materia di tutela della concorrenza. Ciò in quanto non appare pensabile che ciascuna regione abbia una propria legge in materia di appalti pubblici, senza che lo Stato fissi i criteri uniformi della normativa applicabile sull'intero territorio nazionale e i principi generali per l'esercizio della potestà regionale negli spazi lasciati alla propria competenza. Questa modifica ha, dunque, la finalità di tutelare il mantenimento di un quadro stabile ed unitario per le imprese edilizie che partecipano sul territorio nazionale come concorrenti nelle gare d'appalto - ecco il rilievo della tutela della concorrenza - poste in essere dalle varie stazioni pubbliche appaltanti, sia statali, sia regionali, sia locali. Si tratta di un'esigenza sentita come molto vitale dalle imprese del settore.
Con il secondo emendamento da me presentato all'articolo 34 si propone di inserire fra le materie a legislazione concorrente (disciplinate sempre dall'articolo 117, terzo comma) anche l'urbanistica, recependo tra l'altro un'indicazione in tal senso già contenuta nella citata sentenza costituzionale n. 303 del 2003 con riferimento
all'applicazione della legge obiettivo. Tale modifica ha, infatti, la finalità di garantire allo Stato la possibilità di dettare norme di principio su una materia che, per il rilievo degli interessi economici coinvolti, sia pubblici, sia privati, richiede la fissazione di standard generali uniformi sul territorio nazionale, come nel precedente caso degli appalti. Inoltre, in quanto collegata anch'essa agli interventi emendativi precedentemente illustrati in materia di infrastrutture e reti energetiche, telecomunicazioni, tutela ambientale, appalti ed urbanistica, va considerata come necessaria - insisto su questo aggettivo - una proposta emendativa in materia di clausola di supremazia, da inserire nell'articolo 34 del testo approvato dal Senato, con riferimento sempre ai vigenti articoli 117 e 120 della Costituzione, ma quale comma aggiuntivo dopo il quarto (si tratta dell'emendamento 34.26, sempre da me presentato). La clausola di supremazia, mutuata dal sistema tedesco (articolo 72, comma 2, del Grundgesetz) e presente anche nell'ordinamento degli Stati Uniti (articolo IV, clausola 2, della Costituzione), rappresenta una norma di chiusura tipica di tutti gli ordinamenti federali. Come viene sottolineato dalla dottrina prevalente, essa costituisce la garanzia di uno sviluppo pieno delle competenze decentrate, proprio in quanto fissa il confine oltre il quale la coerenza interna dell'ordinamento e quindi della stessa struttura federale sarebbe messa a rischio. Questa disposizione avrebbe poi un forte impatto di riduzione del contenzioso, riequilibrando l'intero sistema. Infatti, qualunque elencazione di materia è necessariamente carente, data la ben nota interconnessione fra differenti settori di intervento dell'amministrazione e fra differenti ambiti del diritto. Le materie rappresentano una traccia e non possono definire confini rigidi. In qualunque ambito materiale assegnato alla competenza delle regioni o a quella concorrente tra Stato e regioni, possono darsi singoli elementi che richiedono una disciplina giuridica unitaria, senza la quale è minacciata l'unità dell'ordinamento o la coerenza delle politiche macroeconomiche.
La più volte citata sentenza n. 303 del 2003 della Corte costituzionale dimostra come questo fattore sia insopprimibile e come la Corte stessa non possa non ricavarlo, ricorrendo anche ad interpretazioni sistematiche prive di agganci testuali. Eppure, anche in presenza di esigenze di tenuta dell'ordinamento, talmente fondate da essere autoevidenti, il contenzioso può essere sempre attivato (anche in funzione di interdizione nei confronti dell'attuazione di un determinato programma di Governo) in mancanza di una chiara disposizione costituzionale che rechi il principio che viene appunto affermato con il mio emendamento 34.26.
Esso, pertanto, non rappresenta un elemento di compressione di spazi a danno delle regioni, ma piuttosto un tassello indispensabile per un'efficace sistema generale che sia improntato alla governabilità, una delle esigenze, tra l'altro nel quadro della globalizzazione, più essenziali di una nazione moderna.
Infine, la norma relativa al principio di supremazia ha lo scopo di contribuire al riequilibrio delle competenze legislative fra Camera politica e Senato federale o delle autonomie, non soggetto a scioglimento, in quanto le leggi emanate ai sensi del comma, che qui si propone di introdurre, sarebbero di competenza della Camera dei deputati, come emerge anche dai miei emendamenti all'articolo 13, di cui parlerò successivamente.
La mia proposta emendativa, del resto, quella concernente la clausola di supremazia, ricalca in modo esplicito l'attuale formulazione che l'articolo 120, comma 2, della Costituzione prevede per l'attivazione dei poteri sostitutivi da parte dello Stato, peraltro estendendola anche alle materie di competenza specifica o concorrente delle regioni, di cui all'articolo 117 che il citato articolo 120 non ha specificatamente previsto. Il tema della clausola di supremazia, come si è visto, va ad intrecciarsi perciò, oltre che con la competenza...
PRESIDENTE. Onorevole Armani, ha parlato per più di quattro minuti rispetto al tempo che le è stato concesso. Le attribuisco lo stesso tempo che ho concesso all'onorevole De Mita. Può parlare ancora per un minuto.
PIETRO ARMANI. Mi scusi, Presidente, ma vorrei sottolineare, per quanto riguarda la clausola di supremazia, che la suddetta si collega con l'articolo 13 del testo approvato al Senato riguardante la formazione delle leggi, al quale ho dedicato tre blocchi di emendamenti (dal 13.1 al 13.8). Si tratta, in particolare, di emendamenti che intendono riscrivere l'articolo 70 della Costituzione, come risulta nel testo approvato al Senato, e che si preoccupano della questione ancora aperta della formazione delle leggi. Il problema della competenza specifica della Camera politica rispetto al Senato federale non è ancora ben definito.
La Commissione mista paritetica che, a mio avviso, dovrebbe avere una composizione proporzionale (ho presentato una proposta al riguardo) in relazione alle maggioranze politiche che emergono nelle due Assemblee non rappresenta una soluzione definitiva. Basti pensare ai tempi che si prevedono (10, 30, 60 giorni). È un meccanismo che si impone nel caso di conflitto, in particolare per aspetti che riguardano il programma di Governo, tra le due Assemblee parlamentari.
Si dice che la maggioranza si sia accordata su un complesso di interventi emendativi relativi anche a questo problema e che offrirà soluzioni concrete, chiare e serene in ordine ai rapporti tra le due Camere che devono svolgere funzioni diverse. Non dobbiamo far passare il mantenimento del bicameralismo perfetto attraverso un meccanismo surrettizio che mantiene al Senato certi poteri di interdizione nei confronti della Camera, specialmente con riferimento al programma di Governo, in merito al quale la Camera è addirittura assoggettata allo scioglimento, qualora vi sia un conflitto con il Governo...
PRESIDENTE. Onorevole Armani, ha battuto l'onorevole De Mita per un minuto.
PIETRO ARMANI. Ne sono onorato, perché è un ex Presidente del Consiglio. Penso che la maggioranza debba intervenire sull'articolo 13 in modo molto significativo, per evitare che si aprano conflitti devastanti per la struttura costituzionale del nostro paese.
PRESIDENTE. La ringrazio, onorevole Armani. Mi dispiace interrompervi, colleghi, - l'argomento è talmente importante che non riesco a non seguire chi parla nelle sue elaborazioni - ma bisogna rispettare le regole.
È iscritto a parlare l'onorevole Marone. Ne ha facoltà.
RICCARDO MARONE. Signor Presidente, vorrei fare un piccolo passo indietro, alla luce delle dichiarazioni del ministro Calderoli espresse ieri.
A fine luglio, abbiamo condotto una lunga battaglia, sostenendo che la pretesa di concludere i lavori in Commissione a fine luglio e di svolgere la relazione agli inizi di agosto era sbagliata, in quanto si sarebbe discusso di un testo che poi sarebbe stato molto diverso. Come vedete, abbiamo avuto perfettamente ragione!
Inoltre - sempre alla luce di quanto affermato dal ministro Calderoli, in quanto non disponiamo di alcuna documentazione - anche il comportamento del presidente della Commissione a fine luglio mi pare sia stato meno saggio di quanto lo sia stato poi nel mese di agosto. Infatti, i nostri emendamenti non solo sono stati tutti respinti, ma sono stati ritenuti anche non accettabili nel merito. Poi, leggendo le dichiarazioni del ministro Calderoli, noto che tutte le modifiche al testo del Senato derivanti dal lavoro dei saggi di questa estate riproducono sostanzialmente i nostri emendamenti. Allora, ci vorrebbe un minimo di coerenza!
Se invece di far lavorare i saggi nei primi giorni di settembre - con risultati migliori dei saggi dell'anno scorso, ai quali
forse il sole di agosto aveva fatto qualche scherzo -, creando una sede extraparlamentare assolutamente sbagliata, si fosse lavorato - come previsto dal nostro ordinamento - nella sede naturale, vale a dire nella Commissione, probabilmente si sarebbe prodotto qualche risultato migliore.
La discussione di questa mattina è la testimonianza di come in quest'aula si possa svolgere, pur nella diversità delle opinioni, un dibattito elevato. Invece, ci si è chiusi completamente rispetto ai contributi dell'opposizione.
Detto ciò, non mi sembra che l'impianto complessivo da voi proposto possa essere condiviso. Infatti, si ha l'impressione che non abbiate nella vostra testa un disegno complessivo! La vostra riforma non è nient'altro che un puzzle in cui ognuno inserisce le proprie tessere, cercando di far incastrare quelle della Lega, di Alleanza nazionale e dell'UDC.
Tuttavia, il secondo elemento del puzzle che manca è la composizione della figura complessiva. Infatti, per realizzare un puzzle, non è sufficiente incastrare le tessere, in quanto alla fine deve apparire un'immagine complessiva della riforma che qui non emerge. Ciò ci induce a ritenere che a voi non interessa una riforma costituzionale, ma portate avanti la bandiera politica che avete realizzato una riforma costituzionale, quale essa sia.
Stiamo assistendo alla stessa posizione politica adottata con riferimento al problema della riduzione delle tasse. Avete la necessità politica di ridurre le tasse, non sapete come farlo - probabilmente lo farete ad ogni costo, anche con conseguenze molto gravi sui servizi sociali e sui cittadini -, però dovete farlo. E, in questo caso, è la stessa cosa: avete la necessità di affermare che realizzerete una riforma costituzionale, pur senza aver chiaro a quali risultati possa condurre.
Inoltre, non vorrei che, di fronte alla debolezza del vostro disegno istituzionale, ci fosse la nostalgia di ritenere che non sia necessaria alcuna riforma.
Stiamo attenti, perché è sempre presente la nostalgia di affermare la bontà del sistema e negare la necessità di una sua modifica. Troppe volte la nostra memoria è assai corta e ci dimentichiamo quanto è successo, comprese le crisi di sistema avvenute in questo paese e la necessità di operare una serie di riforme istituzionali. Il rischio è che oggi siamo di fronte a un quadro complessivo che non soddisfa nessuno, né la maggioranza - abbiamo ascoltato l'intervento dell'onorevole Tabacci, che avrebbe potuto essere sostanzialmente pronunciato da un esponente dell'opposizione, visto che da quanto ho capito non gli piace nulla della riforma - né ovviamente l'opposizione, ma che soprattutto non soddisfa complessivamente la necessità di fare riforme istituzionali.
Non vorrei, quindi, che si arrivasse fino al punto di affermare che una riforma non è comunque necessaria. Non è vero, ed è invece importante che si discuta seriamente di una riforma che fornisca risposte istituzionali ad una crisi di sistema, cominciata ormai più di dieci anni fa e rispetto alla quale non si trova uno sbocco complessivo. In Italia si è vissuto per cinquant'anni in una democrazia bloccata, con una sostanziale unicità di potere da parte di un partito e con un solo altro partito forte all'opposizione. Questo sistema è crollato, ma in questi dieci anni non abbiamo ancora stabilito quale riforma istituzionale fosse necessario fare.
Le cosiddette aperture del ministro Calderoli, certamente apprezzabili perché vengono incontro ad una serie di osservazioni da noi formulate, colgono però aspetti dei nostri emendamenti non di fondo, recependo altresì le critiche rivolte alla riforma uscita dal Senato forse più facilmente condivisibili da parte del centrodestra. L'opposizione avanza invece critiche ben più profonde, rispetto alle quali ci auguriamo che venga compiuta un'ulteriore riflessione.
Vorrei a questo proposito procedere argomento per argomento. Credo che ormai siano due i principali nodi di fondo: il Senato federale e il procedimento legislativo. La mia analisi fa riferimento alle dichiarazioni rilasciate dal ministro Calderoli, visto che non sono stati ancora sottoposti alla nostra attenzione gli emendamenti,
che comunque avremo modo di leggere e valutare, comprendendo a fondo quanto hanno modificato lo schema originale.
Per quanto riguarda il Senato federale, si parla ora di una vera contestualità e non della cosiddetta «contestualità affievolita», di apertura ai rappresentanti delle regioni e si elimina l'assurdità costituita dalla rappresentanza estera in un Senato federale, rappresentanza che non stava né in cielo né in terra e senza alcuna logica complessiva. Si parla, inoltre, di abolizione dei senatori a vita, dal momento che tali cariche dovrebbero costituire la massima espressione politica che, in quanto tale, dovrebbe trovare migliore collocazione presso la Camera dei deputati piuttosto che al Senato.
Al di là di tali miglioramenti che ritengo condivisibili, non state però costruendo un vero Senato federale, perché un Senato è federale quando è rappresentativo dei territori, quando rappresenta le loro istanze, a prescindere dall'entità della popolazione che vi risiede. Non si dica che non è possibile realizzare tale principio, perché in Italia già ne esiste un esempio. Molti obiettano, infatti, che la Lombardia non può avere la stessa rappresentanza della Basilicata. Ricordo, a questo proposito, la Conferenza Stato-regioni, così pensata in quanto deve rappresentare le esigenze dei territori. Voi invece costruite un Senato federale con le stesse caratteristiche della Camera politica, con modalità sostanzialmente uguali di elezione, anche se finalmente introducete la contestualità con le elezioni dei consigli regionali.
L'unico elemento di rappresentanza dei territori è dato dal requisito di eleggibilità costituito dall'aver ricoperto la carica di amministratore locale. Fin qui si potrebbe essere d'accordo; tuttavia, tale previsione diviene assurda nel momento in cui l'amministratore locale si può candidare in un altro territorio, anziché nel proprio. L'amministratore locale siciliano può dunque farsi eleggere in Piemonte, e a quel punto non comprendo quale territorialità rappresenti: quella in cui ha ricoperto la carica di amministratore locale o quella in cui è stato eletto dai cittadini nel Senato federale?
Sono questi gli elementi di fondo sulla base dei quali si caratterizza un Senato federale, e tali elementi di fondo, stando a quanto dice il ministro Calderoli, non mi pare siano stati oggetto di modifica. Continuiamo dunque ad avere un sistema confuso: questo, a mio avviso, è ciò che emerge. Non siamo soltanto preoccupati da alcune modifiche che possono creare gravi problemi, bensì dalla confusione della riforma, alla quale contribuisce - passo ad occuparmi del procedimento legislativo - la struttura istituzionale e costituzionale introdotta dal Senato, ovvero la prevalenza del Senato stesso, che non si può che giustificare con la volontà dei senatori di contare di più: non è infatti previsto in alcun sistema federale del mondo che il Senato federale abbia prevalenza sulla Camera politica. Il paese è governato dalla Camera politica, indipendentemente da come la si chiami, mentre la rappresentanza dei territori e delle loro istanze spetta all'organismo federale. Nel sistema costruito dal Senato si ha invece il paradosso che il Senato federale prevale, nel procedimento legislativo, sulla Camera politica, con una serie di intromissioni di competenze tra Senato e Camera che non hanno davvero alcuna logica.
Non siamo oggi in grado di affrontare tale discussione, perché non disponiamo del risultato dei «saggi». Ciò, peraltro, sempre sulla base di quanto leggiamo sui giornali, anziché negli atti parlamentari: oggi dovremmo discutere del testo approvato a luglio dalla Commissione, mentre stiamo discutendo di altro, ovvero delle dichiarazioni del ministro Calderoli o di bozze. Leggo che si discute nella Casa delle libertà se sia prevalente la bozza 3 o la bozza 4: non so chi abbia ragione tra il ministro, D'Alia e il «saggio» nostro presidente...
DONATO BRUNO, Relatore. Le bozze sono tre!
RICCARDO MARONE. Meno male, dunque non c'è la bozza 4, ma non conosciamo neanche la bozza 3!
Non sappiamo, dunque, come abbiate risolto il problema del procedimento legislativo. Mi sembra che non lo abbiate risolto: dalla lettura dell'intervento del ministro Calderoli si comprende come abbiate ancora problemi al riguardo. Si tratta tuttavia di una questione reale, non soltanto di tecnica legislativa (che sarebbe risolvibile), ma riguardante i ruoli che intendiamo attribuire alla Camera politica e al Senato federale, le competenze e chi debba decidere in ultima istanza, nel momento in cui viene abolito il bicameralismo perfetto.
Tutto questo lo avete risolto? È possibile iniziare a votare il testo senza che tali nodi di fondo siano stati risolti? Questo mi chiedo, e ha ragione chi è intervenuto prima di me osservando che non avete un disegno complessivo. Non è infatti possibile passare giovedì alla votazione degli emendamenti senza conoscere come siano stati affrontati i nodi fondamentali di questa riforma, ovvero la struttura del Senato federale e il procedimento legislativo, e dunque avendo ancora dubbi su come risolvere questo problema di fondo del nostro sistema istituzionale. Discuteremo ed analizzeremo i nostri emendamenti, e speriamo di trovare soluzioni che non siano devastanti per il nostro sistema. Vi ricordo che sulla base del progetto del Senato il 40 per cento delle leggi approvate nel 2003 non si sarebbero potute approvare.
Stiamo attenti perché nel tentativo di incastrare le tessere nel vostro puzzle per accontentare i quattro partiti della coalizione state facendo il pasticcio di bloccare l'attività legislativa di questo Parlamento. Se ritornassimo a discutere in Assemblea e in Commissione invece che nelle vostre riunioni di saggi, forse potremmo ottenere qualche risultato migliore.
Infine vorrei soffermarmi su un argomento che fino ad ora è stato solamente sfiorato e cioè la composizione della Corte costituzionale; infatti, bisogna stare attenti nel modificare la sua composizione e gli equilibri che la caratterizzano. È molto rischioso toccare un meccanismo che fino ad oggi ha dato ottimi risultati consentendo alla Corte costituzionale di svolgere un ruolo neutro rispetto alle maggioranze politiche del paese. Lo ripeto: bisogna stare attenti a toccare il meccanismo che regola la nomina dei giudici costituzionali perché l'ultima delle storture che possono capitare a questo paese è quella di avere una Corte costituzionale influenzabile politicamente. Sostengo tutto ciò segnalando che oggi state governando voi, anche se noi ci auguriamo che ciò finisca il più presto possibile; comunque è ovvio, è nella natura delle cose che prima o poi vi sia alternanza nel governo di un paese, quindi bisogna salvaguardare gli organismi che debbono garantire la neutralità dei giudizi sulle nostre leggi.
Concludo il mio intervento e mi riservo di completare il mio ragionamento nei prossimi interventi che, certamente, non mancheranno. Vorrei solamente segnalare l'anomalia che oramai si sta costruendo tra devolution ed interesse nazionale. Voi vi trovate ancora nella necessità di mantenere un equilibrio di maggioranza e nella necessità di rendere compatibili posizioni e politiche assolutamente incompatibili tra loro: mi riferisco alle posizioni e alle politiche della Lega e di Alleanza nazionale. State costruendo un mostro giuridico costituito da questa antitesi tra devolution ed interesse nazionale, rispetto alla quale non so come un successivo interprete potrà ricavarne una qualche logica (Applausi dei deputati del gruppo dei Democratici di sinistra-L'Ulivo).
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Maran. Ne ha facoltà.
ALESSANDRO MARAN. Signor Presidente, signor sottosegretario, onorevoli colleghi, nessuno sa esattamente quale sarà il destino di questa ennesima proposta di riforma. Come testimonia l'avvicendarsi di bozze di proposte, ancora una volta il dibattito appare tutto interno all'attuale compagine di governo, tesa a garantire complicati equilibri politici e a
soddisfare esigenze elettorali piuttosto che ad affrontare problemi reali; a ciò valga il fatto che aspettiamo ancora di conoscere il testo predisposto in questi giorni dal tavolo tecnico presieduto dal ministro Calderoli. Eppure non vi è mai stata come oggi una larga concordanza di vedute sulla necessità di ulteriori adattamenti del disegno costituzionale; sto parlando di riforme che accrescano cioè stabilità ed efficacia di governo, che rafforzino l'opposizione parlamentare e che realizzino una più ampia distribuzione di poteri dal centro alla periferia. Infatti la nostra Repubblica non è più quella di prima, è già cambiata magari in modo involontario, imprevisto e, il più delle volte, al di là e nonostante i progetti. Oggi essa risulta incompiuta - a metà -, al punto che Ilvo Diamanti l'ha definita argutamente una Repubblica preterintenzionale. Infatti, non è un mistero per nessuno che la modifica del sistema elettorale da proporzionale a maggioritario richiede di ripensare a tutto il sistema di checks and balances tra poteri ed istituzioni dello Stato. Inoltre, il nuovo Titolo V della Costituzione ha introdotto una modifica nei rapporti politici e finanziari tra livelli di governo che il nostro attuale sistema istituzionale non è in grado di gestire efficacemente. Infine la gran parte degli elettori ha ormai interiorizzato la logica di fondo della democrazia maggioritaria e anche l'ipotesi di un rafforzamento delle autonomie territoriali.
La legge di riforma costituzionale approvata dal Senato rappresenta, a suo modo, una risposta alle suddette esigenze. Si tratta, però, di una risposta sbagliata e contraddittoria sotto molti profili. Inoltre, a giudicare dalle puntualizzazioni e dagli aggiustamenti anticipati dal ministro, comincia a farsi strada la consapevolezza che molti dei nostri rilievi critici, e persino molte delle nostre proposte emendative, non erano del tutto campati in aria.
A mio modo di vedere, se davvero volessimo discutere di riforme, dovremmo provare, anzitutto, a riportare l'attenzione sul federalismo non come ideologia, come una specie di grido di battaglia da affermare nella lotta contro lo Stato, ma come progetto riformista, ovverosia come strumento funzionale ad affrontare i nuovi problemi dello sviluppo ed a dare risposte alle domande reali di cambiamento.
Oggi che il federalismo non gode più di grandissima popolarità e sembra diventato un problema, non sarebbe male tenere a mente che quella di nuove regole ed istituzioni è una strada difficile, che ci è stata imposta da emergenze e fratture e che abbiamo scelto proprio per sanare il contrasto tra società e Stato e tra società e politica, contrasto che non è risolto per il solo fatto che ora c'è Berlusconi, che di marce sul Po non se ne fanno più e che i giornali e persino le associazioni degli industriali hanno smesso di parlare del Veneto come se fosse l'Ulster o del Friuli come se fosse la Catalogna.
La riforma non può essere pensata come una mera operazione di trasferimento di funzioni: essa dev'essere, invece, l'occasione di un generale ripensamento del rapporto tra cittadino ed autorità nel nostro sistema costituzionale. La cosa più importante non sono i cambiamenti istituzionali, ma quello che gli americani chiamano empowerment of individuals, una cosa che, anche in inglese, tutti, dal Piemonte alla Puglia, capiscono molto bene, perché il cittadino vuole e deve diventare il vero soggetto decisionale. Persino la maggior parte degli elettori che oggi sostiene Silvio Berlusconi non domanda un'autorità più forte; al contrario, vuole maggiore libertà e meno regole per poter raggiungere i propri obiettivi personali (si tratta di quella domanda di partecipazione di cui ha parlato l'onorevole De Mita poco fa).
Il testo in esame è criticabile, ed è stato criticato, anche alla luce delle considerazioni cui ho appena accennato. Infatti, la proposta appare molto debole per quel che riguarda le garanzie a salvaguardia dei poteri - che debbono essere mantenuti neutrali rispetto alle due coalizioni - e le prerogative da riservare all'opposizione.
Quello indicato è soltanto uno dei vizi di fondo del disegno di legge costituzionale in esame. Un altro, sul quale voglio soffermarmi, chiama in causa la riforma del
Titolo V della parte seconda della Costituzione. Essa risultava fondamentalmente carente sotto il profilo dell'assenza di una Camera parlamentare rappresentativa del mondo delle autonomie territoriali: un assetto federalista della Repubblica, posto che si voglia davvero perseguire la strada della riforma federalista e regionalista, rende necessario il coinvolgimento degli enti di governo territoriali, attraverso le loro rappresentanze, nelle scelte legislative nazionali che vengono ad incidere sull'esercizio delle funzioni ad essi assegnate. Soltanto attraverso tale coinvolgimento decisioni di rilevanza nazionale possono essere condivise dai governi regionali: il contenzioso istituzionale e politico, che oggi è tanto diffuso, sarebbe evitato perché le scelte verrebbero adeguate alle necessità proprie di un assetto federale, di un Governo federale. È questa l'esigenza che rende necessaria la trasformazione di una delle due Camere da Camera rappresentativa del popolo italiano a Camera rappresentativa delle regioni e degli enti territoriali, composta, cioè, di rappresentanze in qualche modo rapportabili, direttamente od indirettamente, agli enti territoriali.
La soluzione più chiara e, secondo molti studiosi, più efficace è rappresentata da una seconda Camera composta dai membri degli esecutivi regionali (come in Germania). Ovviamente, le forme e le modalità tecniche di tale rappresentanza possono anche essere diverse, anche perché la resistenza comprensibile dei senatori in carica e la pressione degli amministratori locali escludono l'opzione per una sorta di Bundesrat.
Realisticamente, l'ipotesi più percorribile, che sfugge all'alternativa tra rappresentanza degli elettorati, dei governi o dei consigli regionali, consiste nel collegare l'elezione diretta dei senatori all'elezione degli organi regionali. Ma il collegamento con il territorio deve essere garantito, come abbiamo ripetuto più volte, da un'effettiva contestualità.
Il testo in discussione costruiva il Senato federale (l'uso dell'imperfetto deriva dalla necessità di tenere conto delle anticipazioni del ministro) come una Camera eletta a suffragio universale e diretto da tutto il popolo italiano, senza alcun rapporto di rappresentanza né alcuna connessione strutturale e funzionale con le regioni e con gli altri enti territoriali. Ciò si risolve in un vizio di fondo perché, se si prende atto dell'impossibilità di trasformare composizione e funzioni del Senato - e si parte da lì -, si finisce inevitabilmente per pretendere di risolvere tutto con la ripartizione prestabilita, per materia, delle competenze legislative tra Parlamento nazionale e regioni.
Ma, come è naturale, le dighe che si pretende di erigere per prestabilire le rispettive prerogative di Parlamento e regioni inevitabilmente fanno acqua da tutte le parti. L'alternativa non consiste nell'eliminare le competenze concorrenti che rappresentano ovunque il cuore degli Stati federali - quindi nel rinunciare agli elenchi di materie -, ma nel creare un Senato rappresentativo degli interessi regionali che possa intervenire nella disciplina dei confini, che inevitabilmente sono mobili, tra Governo centrale e sistema regionale. Perfino la devolution leghista incorporata nel testo in esame, pur largamente criticabile e criticata (anche se ormai sembra del tutto priva di contenuto sostanziale) si limita a modificare a favore delle regioni l'elenco delle materie. In questo modo, si scrivono e si riscrivono i rapporti, come se il problema essenziale fosse quello di separare le competenze anziché indicare - è questo il problema - le istituzioni della cooperazione. Inevitabilmente di questo passo riemerge l'esigenza di introdurre nel testo una clausola che consenta allo Stato di riappropriarsi delle competenze delle regioni. Da qui deriva la reintroduzione dell'interesse nazionale e dunque di un controllo di merito fortemente centralista, discrezionale e unilaterale.
La soluzione più consolidata e di gran lunga preferibile è quella della Legge fondamentale tedesca che stabilisce una frontiera orizzontale mobile dentro le materie concorrenti, ma una clausola che consenta allo Stato di riappropriarsi di molte delle competenze delle regioni è accettabile se,
e soltanto se, le regioni sono rappresentate nel Parlamento nazionale, ossia se sono le regioni stesse ad autolimitarsi, riportando o mantenendo al centro le decisioni.
Sulla questione delle regioni ad autonomia speciale è intervenuto l'onorevole Olivieri e avremo modo di sottolineare ancora la debolezza del procedimento previsto per la definizione degli statuti di autonomia e del rafforzamento del loro carattere pattizio. Tuttavia, voglio ricordare a proposito di clausole invasive che persino negli statuti delle regioni ad autonomia speciale, adottati ed approvati con leggi costituzionali, il riferimento alle norme fondamentali delle riforme economico-sociali della Repubblica è stato usato ed è entrato proprio come limite alla potestà legislativa esclusiva e primaria attribuita a quelle regioni in alcune materie. Figuriamoci cosa potrà fare la reintroduzione dell'interesse nazionale! Il punto è che tanto rispetto alla composizione quanto rispetto alle competenze della seconda Camera è emersa la tentazione di concedere alle comprensibili resistenze dei senatori più del dovuto, più del necessario. Sul primo aspetto adesso si intravede, almeno stando alle dichiarazioni del ministro, un ragionevole punto di equilibrio, una contestualità vera e non affievolita (e qui staremo a vedere). Sul secondo rimane invece piuttosto consistente il rischio che un'assemblea svincolata dal rapporto fiduciario possa paralizzare anche buona parte delle leggi ordinarie essenziali all'azione di Governo. La proposta in esame, nel tentativo di preservare la pari dignità tra Camera e Senato, distingue tra materie nelle quali deciderebbe in via definitiva la Camera, materie nelle quali prevarrebbe la deliberazione finale del Senato (un caso unico al mondo, in alcun modo giustificabile per una Camera svincolata dal rapporto di fiducia, che si trasformerebbe in una sorta di fulcro di tutto il sistema) e materie perfettamente bicamerali, aprendo la strada ad un inevitabile contenzioso sulla classificazione delle specifiche proposte di legge com'è stato documentato dal Servizio studi. Può funzionare un sistema così congegnato? Il problema è che esiste una forte interdipendenza tra le decisioni che dovrebbe prendere la prima Camera e quelle che dovrebbe prendere la seconda e viceversa e non si capisce come le due potrebbero prendere decisioni diverse, potenzialmente contraddittorie, sulla stessa materia. Su questo punto il ministro non ha detto nulla, salvo manifestare una disponibilità al confronto. Vorrei richiamare un esempio riguardante la sanità. Sulla base della legge, la Camera politica determina i servizi essenziali (articolo 117, lettera m, della Costituzione). Il Senato federale determina i principi generali della tutela della salute. Le regioni determinano la legislazione di dettaglio e hanno competenza esclusiva sull'organizzazione del sistema sanitario grazie alla devolution e Camera e Senato determinano insieme le risorse. Chi ci garantisce che le prime due decisioni, servizi essenziali e principi generali, siano coerenti tra loro e come si fa a determinare i principi generali di tutela della salute se gli standard relativi ai servizi li decide un'altra Camera e viceversa?
E cosa si deve finanziare poi con la perequazione? I principi generali o gli standard? Il rischio è che questo modello, invece di rimediare al conflitto tra Stato e regioni e tra le stesse regioni, introduca un altro conflitto, e questa volta all'interno dello Stato. Naturalmente in questo pasticcio non si parla mai di risorse da decentrare, senza le quali tutta la discussione è pura retorica. Infatti, come e più di altre disposizioni del Titolo V, l'articolo 119 della Costituzione è rimasto finora sulla carta.
All'evidente incoerenza dell'impianto, che è un po' il peccato mortale di questa proposta, si cerca di porre rimedio puntando tutte le carte sul rafforzamento del premier. Anche in questo caso non c'è dubbio che occorra puntare su riforme che accrescano la stabilità e l'efficacia del Governo, ma il vecchio slogan «un re per una terra» poteva andar bene all'epoca di Excalibur, dei cavalieri della tavola rotonda o nella fase di costruzione degli Stati nazione; oggi è troppo semplicistico, oggi le politiche di sviluppo non sono più
alla portata di un unico decisore e qualsiasi pretesa di imporre comportamenti virtuosi in una logica dall'alto al basso, in cui si incastrano le istituzioni dal locale al globale, non corrisponde più alla realtà. In un'epoca di trasformazione è necessario assicurare il massimo possibile di flessibilità e di pluralismo, perché è l'unico modo per assicurare il massimo di innovazione. Basta dare un'occhiata ai dati - forniti periodicamente da Eurostat - relativi al PIL pro capite delle oltre 200 regioni dell'Unione europea, calcolati a parità di potere d'acquisto, che confermano lo spostamento a nord dell'economia europea. Nelle prime dieci posizioni non c'è nessuna regione dell'Europa del sud e nelle 46 regioni sotto il 75 per cento della media europea non c'è nessuna delle regioni del nord Europa e c'è la quasi totalità delle regioni del nostro Mezzogiorno. Quel che più colpisce ancora una volta è che le ricette del successo si assomigliano tutte; in tutte le storie di successo, da Londra ad Amburgo, da Vienna a Darmstrad, ricorrono alcuni vantaggi competitivi, e fra questi, ad esempio, un'alta qualità delle risorse umane, che si spiega anche con la presenza di università di eccellenza, un elevato potenziale di attrazione per l'insediamento di imprese, determinato, fra le altre cose, da infrastrutture sofisticate e funzionanti, da sistemi fiscali più efficienti, da sistemi di welfare funzionanti. In altre parole, in Europa vincono quelle regioni che in anni recenti hanno potuto e saputo reagire in modo rapido alle sollecitazioni del nuovo quadro competitivo.
Ciascun territorio deve perciò costruire la propria geoeconomia, rafforzando i fattori di competizione. Il problema, come sappiamo, non è soltanto delle imprese, ma dei territori nel loro complesso, perché richiede risposte coerenti e convergenti da parte di una pluralità di soggetti, forze economiche, governi locali, università, e così via. Il federalismo - poi la si può mettere come si vuole - resta la forma più indicata a dare risposte rapide e flessibili a territori tra loro molto differenziati. Nessun'altra nazione europea, con l'eccezione forse della Germania riunificata, manifesta infatti così grandi differenze tra l'uno e l'altro dei suoi territori.
Questo è il nodo - altro che la devolution! - con il quale noi dovremo fare i conti, in modo da favorire la responsabilità, la cooperazione, il dinamismo e la flessibilità dei contesti, una autonomia sostanziale, e non soltanto per i territori e per i cittadini più ricchi - o che ricchi sono già -, ma per tutti; non per i pochi, ma per i tanti che compongono la nostra nazione.
La proposta in esame non risponde a questa domanda, ma la ignora completamente. Infatti il vero rischio è che il federalismo tanto declamato sia in realtà un'occasione sprecata, ed è questo il vero costo che il paese rischia di pagare (Applausi dei deputati del gruppo dei Democratici di sinistra-L'Ulivo - Congratulazioni).
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Loiero. Ne ha facoltà.
AGAZIO LOIERO. Signor Presidente, se non fosse che comunque quello che discutiamo è un testo costituzionale, che quindi ha a che fare con la vita dei cittadini, nel senso che può drammaticamente modificarla in meglio, ma più verosimilmente in peggio, sarei tentato di non intervenire in questo dibattito; tanto l'impressione che si ricava è che, malgrado i tentativi di apportare il nostro contributo alla riforma del paese, malgrado gli impegni, le promesse avanzate sulla stampa e offerte nel tentativo di temperare l'impatto con una opinione pubblica che comincia a ridestarsi dal suo torpore, le riforme restano sostanzialmente quelle della Lega Nord e di questa maggioranza.
Si tratta di quelle riforme che tutti i settori della vita associata del nostro paese, nessuno escluso, vorrebbero segnate da una riflessione più problematica, ed anche - se posso dirlo, signor Presidente - più sofferta.
Faccio da sempre fatica a credere che un nodo così delicato per gli italiani venga affrontato in un frivolo clima di improvvisazione
e facendo una corsa forsennata contro il tempo, al punto che, ancora ieri, il nostro ineffabile ministro per le riforme istituzionali, dopo il suo intervento in aula, si è precipitato dal Vicepresidente del Consiglio per illustrare gli ultimi ritocchi del progetto legislativo, ed al punto che nulla si sa ancora delle proposte emendative che dovrebbero modificare il testo stesso.
In assenza del tema stesso del contendere, dunque, nel mio intervento mi occuperò del contesto costituzionale all'interno del quale la riscrittura delle regole che appartengono a tutti, sia alla maggioranza, sia all'opposizione, dovrebbero vedere la luce. Si tratta di un contesto che è quello che è, e che non induce all'ottimismo. Compio tale scelta per contribuire a lasciare traccia, anche negli atti parlamentari, della rissa che sull'argomento, all'interno della maggioranza, ha avuto luogo in questi mesi, specie sui media.
In questi tre anni di discussioni interminabili, infatti, la Casa delle libertà, con le sue frange più radicaleggianti, non ha fatto che alimentare scontri e risse senza fine, ed addirittura su un tema che dovrebbe essere improntato alla massima serenità di giudizio. Si badi: gli scontri e le risse si sono registrate non solo nei confronti dell'opposizione (la qualcosa costituirebbe già di per sé, su di un tema tanto delicato, una anomalia istituzionale), ma all'interno della stessa maggioranza, che ha sfiorato la crisi di governo più volte negli ultimi mesi.
Veniva francamente da sorridere ieri quando, ascoltando il suo intervento in quest'aula, il ministro per le riforme istituzionali ci raccontava con candore che, dopo tre anni di dibattito, la maggioranza aveva pure il diritto di chiudere la discussione sulle riforme. Senonché si dà il caso, signor Presidente, che, al di là del rapporto con l'opposizione - che è stato sempre improntato al massimo della conflittualità possibile -, la discussione più lacerante sul disegno di legge costituzionale si è registrata all'interno della maggioranza, nella quale, per soffermarci solo sui ricordi di questo eroico triennio che affiorano alla mente, non si sa quante volte il testo del provvedimento sulla devolution (costituito da sole due righe) è stato portato in Consiglio dei ministri, nel quale un ministro per le riforme è giunto a votare contro una proposta di legge costituzionale presentata da un suo collega.
Ciò per non parlare degli altri innumerevoli conflitti, sempre per gli stessi motivi, che hanno ridotto la credibilità politica della maggioranza e fortemente ridimensionato la leadership del Capo del Governo, che nel 2001 sembrava l'unica risorsa in mano ad una squadra improvvisata e dilettantistica. Svolgo questo tipo di intervento, dunque, perché oggi il maggiore obiettivo del centrosinistra è di far capire agli italiani ciò che il centrodestra vuole propinargli. Fino ad oggi il grande vantaggio della coalizione di governo è consistito nel fatto che gli italiani, in genere, si disinteressano del tema delle riforme: si tratta, infatti, di un argomento intriso di asperità tecniche, che non fanno audience quando se ne occupa la televisione.
Tratterò, pertanto, pochissime questioni, cercando di mutuare, in assenza al momento di documenti ufficiali, dai giornali, ma soprattutto dall'esperienza disastrosa di questi anni, ciò che la maggioranza ha in mente, cominciando dalla devolution.
Ho l'impressione che ciò debba restare intoccabile nella stesura originaria, esattamente com'è nata nella mente della Lega. Non si capirebbe, diversamente, la fretta del ministro e l'entusiasmo manifestato ieri da Bossi, dalla Svizzera. I colleghi in quest'aula, soprattutto i deputati del sud, hanno capito cosa potrebbe rappresentare per il loro territorio l'applicazione della devolution? Una semplice constatazione: le regioni più fortunate, attraverso le compartecipazioni previste dall'articolo 119, potrebbero costruirsi, solo per rimanere in tema di sanità, una propria sanità d'eccellenza, una sanità che va non fino alla copertura dei livelli essenziali nazionali, ma fino alla copertura dei livelli essenziali definiti per la propria
regione. Un'operazione del genere finirebbe per far venir meno, in tutto o in parte, le risorse indispensabili al fondo di perequazione previsto per i territori più svantaggiati. Ci troveremmo di fronte ad un disastro, che renderebbe più forti le regioni già forti e debolissime quelle deboli, spingendo una parte del paese verso forme di lotta oggi imprevedibili.
Voglio, a tale proposito, ricordare un episodio eloquente, capitato negli ultimi anni all'interno della compagine governativa. Nell'estate del 2003, nell'indifferenza generale, si dimetteva un sottosegretario all'economia del Governo in carica: tale personaggio, uno tra i pochi uomini veramente autorevoli dell'esecutivo, si chiama Vito Tanzi, uno degli italiani che lavora all'estero dando prestigio al nostro paese. Tanzi, infatti, insegna economia all'università di Washington e guida il Dipartimento di finanza pubblica del Fondo monetario internazionale, oltre a svolgere il ruolo di consulente al Senato americano ed alla Casa Bianca. Insomma, il collega di Micciché non è l'ultimo arrivato. Egli, che è suo corregionale, onorevole Bruno, dimettendosi, concesse un'intervista a L'espresso, del 3 luglio 2003, in cui fece alcune affermazioni, che ripeto testualmente: «Sono preoccupato per la devolution, perché vedo il pericolo che ci si lavi le mani delle regioni più povere. Come si fa a dare autonomia fiscale» - è sempre Tanzi che parla - «alla Calabria e, poi, aspettarsi che ci sia una spesa per alunno pari a quella della Lombardia? Non accadrà mai, se non pensiamo a come livellare la capacità di spesa su tutto il territorio nazionale. Ma non sembra che questo sia l'obiettivo della Lega e del Governo». Dette queste cose, egli rimise il suo mandato e tornò in America.
Stiamo attenti, onorevoli colleghi: le disparità già esistenti potrebbero diventare incolmabili e favorire un clima di guerra civile nel nostro paese. Il federalismo fiscale, che avrebbe potuto essere la premessa di un sano federalismo è un tema rinviato sine die. Sapete perché? Tale tema fa paura perché evidenzierebbe l'enorme differenza tra aree ricche ed aree povere del paese.
Ritorna, a tal proposito, con forza, il tema dei diritti. Un tema che sembra esplodere a livello planetario e che ci spinge a tutelare con energia alcuni nostri istituti di garanzia, primo fra tutti la Presidenza della Repubblica e la stessa Corte costituzionale. Un grandissimo sociologo, Baumann, ha affermato di recente, sul tema dei diritti, un concetto semplicissimo ma di grande fascino: la portata di un ponte - afferma Baumann - non si misura dalla forza media dei suoi piloni, ma dalla forza dei più deboli tra loro. Lo stesso vale per la portata della società, in altre parole, per la sua qualità umana. Una società è tanto più umana, quanto più sono decenti e dignitose le condizioni di vita dei suoi territori e dei suoi membri più deboli.
Sotto tale aspetto, le Corti costituzionali di tutti i paesi democratici diventano un usbergo indispensabile. Sono tra quelli che ha molto apprezzato la recente posizione della nostra Corte costituzionale, che ha invalidato due norme della legge Bossi-Fini sull'espulsione amministrativa e sull'arresto per i clandestini rimasti tra noi malgrado il foglio di via. Lo dico sapendo che il problema clandestini è molto complesso e va regolamentato; e non è facile farlo.
Ciò nondimeno, esiste un nucleo di diritti che appartiene ad ognuno come persona e che gli deve essere riconosciuto indipendentemente dalla nascita in questo o in quello Stato. E deve essere una Consulta salda, non sottoposta a logiche territoriali di parte a garantirlo.
D'altra parte - vi si faccia caso - in questa difficile stagione politica sono ovunque nel mondo le Corti costituzionali ad imporre il governo delle leggi al governo degli uomini, che tende sempre a conferire un che di arbitrario ai propri gesti. Capita in Israele, dove una recente sentenza della sua Corte costituzionale dichiara illegittimo il modo in cui si va costruendo il muro per bloccare i palestinesi. Capita alla Corte suprema degli Stati
Uniti, quando afferma i diritti dei prigionieri di Guantanamo. Se le cose stanno così sull'intero pianeta, dobbiamo tenerci cari tutti gli organismi di garanzia esistenti nel nostro paese.
Anche per questo motivo, diciamo «no» ad un premier forte, che diventa tale spogliando delle sue prerogative il Presidente della Repubblica. Per questo motivo, domani guarderemo con grande attenzione agli emendamenti del Governo. A tale proposito, signor Presidente, mi permetto di chiedere qualche ora in più per poterli valutare al meglio. Guarderemo con attenzione a quegli emendamenti, indicando agli italiani il pericolo che potrebbero correre se questa riforma venisse approvata, e lo faremo producendo una grande battaglia sull'intero territorio nazionale. E, per una volta, non sarà una battaglia a favore solo della propria parte politica, ma a favore di tutti gli italiani, specie di quelli più deboli (Applausi dei deputati dei gruppi della Margherita, DL-L'Ulivo e dei Democratici di sinistra-L'Ulivo).
PRESIDENTE. È iscritta a parlare l'onorevole Pistone. Ne ha facoltà.
GABRIELLA PISTONE. Signor Presidente, il disegno di legge presentato dal Governo propone in 42 articoli di modificare radicalmente la seconda parte della Costituzione con particolare riferimento alla forma di Stato e alla forma di governo, incidendo sugli articoli relativi al Parlamento, al Presidente della Repubblica, al Governo, alla magistratura, alle regioni e agli enti locali e alle garanzie costituzionali.
I principi cardine che caratterizzano le profonde trasformazioni apportate al testo costituzionale vigente possono essere così riassunti: la trasformazione dell'attuale Senato in Senato federale; il rafforzamento delle autonomie regionali con il cosiddetto testo sulla devolution, fortemente voluto dalla Lega, già esaminato in prima lettura dalle due Camere e incardinato nel disegno di legge governativo in esame; l'introduzione del cosiddetto premierato forte, che rafforza il ruolo ed i poteri del Primo ministro; la regionalizzazione della Corte costituzionale attraverso un nuovo meccanismo di elezione dei giudici costituzionali; la limitazione del ruolo e dei poteri del Presidente della Repubblica quale garante del corretto funzionamento del sistema istituzionale.
Nel dettaglio, il provvedimento smonta la Costituzione, la stravolge, crea squilibri insopportabili e, se approvato, produrrebbe un sistema che funziona di meno e che costa di più. Un grande pasticcio, un grande monstrum, un monstrum giuridico, come hanno avuto a dire in maniera assolutamente autorevole famosi costituzionalisti. Ne cito uno per tutti: Sabino Cassese.
Il disegno di legge in discussione è frutto di un compromesso pasticciato. Vi è un'enorme confusione nel disegno di legge, che è la cartina di tornasole dello stato della maggioranza, della Casa delle libertà.
Le riforme costituzionali devono essere dettate da una logica, un disegno ed una strategia alti e non di parte: una riforma della Costituzione non può essere il minor male possibile, frutto di compromessi, ma deve essere il risultato di un confronto ampio, alto, condiviso, ma soprattutto coerente portatore di valori utili ad accrescere le forme di democrazia e di partecipazione.
Con la vostra devolution si scardinano i valori di universalità dei diritti, l'uguaglianza di tutti i cittadini, che sono i valori fondanti della nostra Carta costituzionale. La sanità regionalizzata, la scuola regionalizzata creano disparità fra cittadini dello stesso Stato soltanto perché appartenenti a regioni diverse. È come se, e sarebbe molto meno grave, all'interno del Parlamento singoli parlamentari, a seconda delle regioni di provenienza, percepissero indennità differenziate.
Vi è poi un'alterazione grave del rapporto fra l'esecutivo ed il Parlamento: concentrare ed accrescere i poteri del Presidente del Consiglio è per noi inaccettabile; è l'esaltazione del cesarismo, la demonizzazione del confronto, della partecipazione
democratica ed infine lo svuotamento e lo svilimento del Parlamento! Quest'ultimo non conta più nulla!
Forse, in un momento nel quale parliamo di Europa unita, di legislazione europea, e quindi si comincia a ragionare, sia pure in ritardo, con un respiro più ampio e meno particolaristico, è quasi antistorico - è la mia sensazione - discutere di «frammentare» il nostro paese, di dare risposta ad una Padania che non esiste. Non vogliamo introdurre la Padania nella nostra Costituzione; non vogliamo spendere 460 mila euro in quattro anni per festeggiare il capodanno celtico, come già è successo nella regione Lombardia.
La riforma del Titolo V della Costituzione è ancora sulla carta ed è foriera in ogni caso di enormi difficoltà e contestazioni; le grandi reti - telecomunicazioni, energie ed infrastrutture - sono di competenza regionale o affidate alla concorrenza legislativa fra Stato e regioni; per i beni culturali e le attività culturali vale lo stesso discorso. Questi temi, in termini di scelte fatte e di soluzioni adottate, stanno aprendo enormi problemi e contraddizioni che lacerano e non uniscono!
Si discute molto di competenze regionali, ma non si parla di come e quanto siano attrezzate le regioni per svolgere tali funzioni; si moltiplicano già oggi i funzionari e le spese «sforano» i limiti consentiti per rispondere molto spesso ad esigenze che non sono propriamente a sfondo sociale ed economico, ma che sono dominate dal particolarismo e dal clientelismo.
In ogni caso, alle regioni non si sono trasferiti uffici, mezzi, personale e risorse, che, probabilmente, rappresentavano i cardini posti a garanzia dei diritti; la deburocratizzazione della pubblica amministrazione e la semplificazione della sua attività sono obiettivi assolutamente non perseguiti.
Inoltre, le regioni registrano già oggi un debito complessivo di 21 miliardi di euro: secondo le stime fatte, la riforma in discussione costerebbe uno «sproposito» e con le finanze già in stato di affanno mi sembra del tutto incredibile procedere.
Chi pagherà e con quali risorse? Lo si farà attraverso i «tagli» ai servizi essenziali, attraverso gli aggravi fiscali, e quindi con l'esaltazione delle differenze che rafforzeranno sempre di più i più forti e indeboliranno sempre di più i più deboli.
Il vostro è un liberismo antiliberale. Il vostro è un liberismo non soltanto per noi non condivisibile, ma dal chiaro stampo autoritario, portatore di soluzioni che contrastano con la democrazia partecipata.
Sarebbe molto utile, non per qualcuno di noi, ma per il nostro paese ed i suoi cittadini compiere una pausa di riflessione, senza voler arrivare ad ogni costo all'approvazione di una pagina che non ha elementi esaltanti, ma assai deludenti e laceranti rispetto agli alti principi ispiratori e costitutivi della nostra Carta costituzionale.
Non mi voglio rifugiare nell'istituto referendario come fosse un'ancora di salvataggio. Mi piacerebbe che potessimo fermarci ora, tornare indietro a riflettere e non mettere «pezze» peggiori del buco. Dovremmo cominciare a ripensare a cosa è meglio per il nostro paese, per il bene supremo dei nostri cittadini e della nostra democrazia.
Giovedì prossimo ci troveremo in quest'aula ad esaminare e votare questioni pregiudiziali di costituzionalità presentate da tutte le componenti dell'opposizione. Potrebbe essere l'occasione utile per iniziare tale pausa di riflessione.
PRESIDENTE. È iscritta a parlare l'onorevole Amici. Ne ha facoltà.
SESA AMICI. Signor Presidente, onorevoli colleghi, le argomentazioni dei colleghi dell'opposizione hanno tutte un filo conduttore: tentare di dar conto alla Camera ed a chi ci ascolta che l'opposizione non si pone di fronte al testo del Governo con un atteggiamento pregiudiziale. Abbiamo tentato di portare avanti - ne è testimonianza il lavoro svolto, finché siamo stati presenti, nella I Commissione - una seria riflessione sul merito. Si tratta - come ricordava poc'anzi la collega Pistone - di una mole veramente enorme di
modifiche: 42 articoli sugli 80 che compongono la seconda parte della Costituzione.
Vi è l'esigenza di capire se il processo di riforma sia stato veramente generato dalla necessità. Leggendo il testo e le argomentazioni apparse sui quotidiani e seguendo i dibattiti pubblici, si è avuta la sensazione di non trovarsi di fronte ad una necessità di riforma quanto, piuttosto, ad una condizione necessitata da esigenze non istituzionali delle forze politiche e, in particolare, dei partiti.
Questo paese ha visto, in anni molto lontani, nascere la propria Costituzione all'interno di ragionamenti molto liberi e trasparenti tra forze antagoniste che avevano anche opinioni diverse. La forma costituente era slegata dalle forzature e dalle logiche partitiche dei Governi: mai il Governo interferì con quella discussione nella fase costituente. Ciò avvenne perché la Costituzione è fondamentalmente un patto di comune sentire, di regole condivise, di capacità di costruire un itinerario che delinei l'identità di un popolo, di una nazione. L'articolazione della statualità avveniva in quel contesto storico-politico, ma è stata anche capace - questa è la sua ricchezza e la sua modernità - di vederne forme di flessibilità.
Mi piace ricordare, anche per amore della storia, che vi sono punti della Costituzione ancora non attuati. Passarono molti anni dall'approvazione della Costituzione prima che si desse vita alle regioni. Queste ultime sono state istituite nel 1970 ed alcuni aggiustamenti sono avvenuti nel tempo.
La Costituzione è una forma di condivisione di un patto dei cittadini e delle cittadine. Si tratta di un patto che potremmo definire sociale: la prima parte della nostra Costituzione interferisce in maniera decisiva nell'articolazione della forma dello Stato. Il disegno di legge del Governo, pur attenendo alla formazione del Governo, ai rapporti tra Stato e regioni, alle forme transitorie, alla costituzione del Senato federale, interferisce evidentemente con i principi della prima parte della Costituzione. Mi riferisco, in particolare, all'articolo 3 sull'uguaglianza dei cittadini ed all'articolo 5 sulle autonomie ed il pluralismo delle istituzioni.
Credo però ci sia ancora un punto sul quale è necessario soffermare la nostra attenzione (entreremo poi nel merito della discussione, oltreché degli emendamenti, che aspettiamo vengano formalizzati da parte del Governo). Contrariamente a quello che si potrebbe immaginare, noi non abbiamo un atteggiamento di chiusura di fronte alla modifica fattuale della realtà. Infatti, nella storia delle Costituzioni, ciò che le rende durature sono i punti di principio e la cornice che ne delinea gli elementi di identità e di condivisione tra i cittadini che la vivono. Del resto, nella storia delle Costituzioni, è proprio la realtà dei fatti, quella che si snocciola nel corso degli anni, a testimoniare la necessità di modifiche e di aggiustamenti, ma mai di stravolgimenti. Si tratta di aggiustamenti derivati fondamentalmente dall'evolversi della situazione storico-politica, a cominciare soprattutto dalla formazione dello Stato unitario sino agli anni Novanta, in cui si è verificata la crisi dello Stato unitario e si è messa anche fortemente in discussione la concezione dello Stato-nazione. Siamo stati spinti a questa crisi dello Stato-nazione proprio dall'insorgere di un'Europa, che in qualche modo rappresenta l'esempio forse più recente di federalismo (un insieme di tanti Stati, che sottraggono a loro stessi una serie di poteri per attribuirli ad un'entità completamente nuova, che è la Costituzione europea).
All'interno di quella crisi dello Stato-nazione avanzava un processo che richiedeva ai partiti e alle forze politiche una nuova visione delle politiche pubbliche. Pertanto, l'entrata in crisi dello Stato e della sua funzione, nelle sue articolazioni, metteva in discussione uno dei punti più efficaci dell'agire governativo. Proprio a partire dalla difficoltà di risolvere le grandi questioni pubbliche - penso al welfare, al nuovo concetto di cittadinanza -, questa idea del territorio, e quindi del venire avanti di spinte che assumano quelle politiche non più in una visione
localistica, è diventata il punto centrale di una transizione politica, che tuttora permane, ma che addirittura, con il testo del vostro disegno di legge, continuate a trasferire dal piano politico al piano di una transizione infinitamente istituzionale.
Da qui la necessità di una riflessione di merito. Da questo punto di vista - lo voglio ricordare pubblicamente -, ho apprezzato moltissimo il collega Sterpa, non solo per lo stile, ma soprattutto perché non lascia in un alcun modo intravedere elementi di ribaltoni o di passaggi diversi, bensì resta fermamente ancorato alla sua concezione di democratico liberale di destra. Egli, in una sua lettera inviata e pubblicata ieri sul Corriere della Sera, ha evidenziato gli elementi del dissenso profondo rispetto a questo disegno di legge costituzionale. Lo ha fatto con uno stile pacato, riflessivo, evidenziando all'interno di tale questione un concetto che è assai importante quando si vuole mettere mano ad una Costituzione di principi: il richiamo alla responsabilità, nel senso che occorre agire responsabilmente quando si manovra una materia così complicata. Ciò in quanto, oltre a mettere in discussione gli elementi dell'«antico», si mette in discussione un'idea stessa della modernità e dell'innovazione istituzionale, che deve essere legata a grandi questioni di principio e mai piegata, invece, a questioni che attengono semplicemente a difficoltà dei partiti di ieri o delle coalizioni di oggi, che non possono essere risolte al proprio interno. Del resto, questo richiamo ad un principio di responsabilità è legato alla storia della genesi di questo disegno di legge costituzionale oggi al nostro esame. Noi, negli ultimi anni, a partire dal Governo di centrosinistra, abbiamo avuto la riforma del Titolo V della Costituzione (ed anch'io, come molti altri colleghi, ritengo che aver votato tale riforma con una risicata maggioranza sia stato un errore di metodo).
La discussione in merito a tale riforma presentava una serie di elementi positivi, poiché teneva conto di una sorta di fattualità reale, del cambiamento che stava intervenendo nei rapporti tra centro e periferia e del fatto che, a parte le esigenze poste da una forza politica, quale la Lega, governare da parte dello Stato i processi di territorializzazione avrebbe comportato un'assunzione maggiore di responsabilità.
Dopo la riforma del Titolo V della Costituzione, all'inizio di questa legislatura nella Camera per ben due volte si sono svolte discussioni sulla questione delle riforme. Mi riferisco al progetto di devoluzione del collega Bossi, con riferimento al quale vi è stata una discussione, a volte formale, altre volte stancamente rituale e nominalistica, circa la possibilità da parte delle regioni di attivare alcune competenze su grandi tematiche relative alla Costituzione materiale (scuola, sanità e polizia locale). Successivamente è intervenuto, con la contrarietà del ministro delle riforme, il decreto La Loggia, che le Camere non hanno mai approvato, con il quale ci si è accorti di un problema che stava emergendo fortemente, vale a dire il contenzioso di molte regioni con la Corte costituzionale con riferimento al problema della elencazione delle materie. La potestà legislativa esclusiva dello Stato e quella concorrente avevano determinato quello che si chiama in termini tecnici una sorta di ingorgo istituzionale. La Loggia nel suo disegno di legge superava il problema della elencazione.
Dagli atti delle audizioni che la I Commissione ha svolto in vista di questa discussione, emerge che gran parte degli studiosi della materia ritengono che l'elencazione in sé non riesca a dar conto del profilo di esclusività sia da parte dello Stato sia da parte delle regioni. Pertanto, è stata seguita la logica della ripartizione. Tuttavia, la ripartizione non era semplicemente un aspetto tecnico, in quanto ha implicato l'introduzione di un altro elemento nell'articolo 117, quello della leale collaborazione tra Stato e regioni.
Ebbene, di questi elementi di discussione e di fatica (quanto sciupio di discussioni si nasconde dietro l'enfasi delle riforme!) non vi è più traccia nel disegno di
legge; rimane l'attivazione da parte delle regioni di alcune competenze di tipo esclusivo.
Vi è un'idea falsamente federalista, perché il punto vero della discussione è il seguente: cosa c'è di federalista in questo provvedimento? Sicuramente è una questione nominale e mi riferisco al cosiddetto Senato federale, la cui formazione (vedremo se anche in ordine a tale questione saranno presentati emendamenti) si ispira ad un principio assai singolare. Mi riferisco, per quanto riguarda l'elezione dei senatori, al rapporto con le regioni, alla necessità di averne la residenza al momento della elezione o di aver svolto una funzione pubblica in quella regione ed al fatto che nel momento primario dell'attività della seconda Camera vi è solo l'obbligo di sentire i presidenti dei consigli regionali. Quasi a dire un legame ante ed un legame post che, invece, viene rimandato al semplice sentire; si determina un elemento, su cui vi abbiamo incalzato anche con emendamenti sul processo legislativo affidato al Senato, che testimonia non tanto il pregiudizio sul Senato federale, quanto l'impossibilità, per come lo avete designato, che quel Senato possa funzionare sul serio in un nuovo rapporto tra Stato e regioni.
Ma non è solo questo. In quest'ultima parte della legislatura vi ha contraddistinto una sorta di ossessione, in quanto le riforme istituzionali non vengono intese come tali, posto che esse devono dare alla coalizione di cui voi siete maggioranza nel paese la possibilità di risolvere, attraverso alcune forzature sul piano ordinamentale, dei regolamenti e delle funzioni, difficoltà che sono tuttora di carattere meramente politico.
Cos'è del resto il premierato, così come l'avete concepito, se non quel rapporto strano volto al rafforzamento non del Capo del Governo, ma del capo della maggioranza, che può determinare addirittura lo scioglimento delle Camere?
Ancora, in questo strano rapporto tra le due Camere, non si dà conto di un principio di territorialità. Del resto, la norma di buonsenso che vi avevamo suggerito, in ordine all'elezione dei senatori delle circoscrizioni estero, testimonia la confusione esistente nel vostro progetto di riforma.
Non viene dunque delineata l'idea che si possa governare un processo della realtà fattuale in continuo cambiamento, che fornisca ai territori risposte di merito che li pongano in condizione di esercitare non il federalismo astratto, ma il federalismo vero, solidale e soprattutto che tenga conto del fatto che si può essere federalisti in tanti modi.
Non siamo più di fronte allo scenario che la Lega aveva concepito, costituito dalle macroregioni che imponevano un processo di vera e propria successione e, quindi, di allontanamento di parti del territorio dallo Stato centrale.
Non siamo dunque all'interno di questa aspirazione federalista, anzi riteniamo che stiate inserendo in questa discussione elementi che hanno più il sapore della propaganda, e non quello dell'atteggiamento serio di chi sta affrontando problemi assai complessi.
Il ministro Calderoli, attraverso i quotidiani nazionali, ha introdotto un elemento che sarebbe interessante disarticolare. La devolution, il potere delle regioni di esercitare competenze esclusive su quei tre grandi comparti, ha o no un costo? Il ministro Calderoli - e, prima di lui, l'onorevole Bossi - afferma che i costi vengono dopo. No, i costi sono contestuali all'efficacia di quanto stiamo scrivendo; infatti, i costi indotti dalla riforma del titolo V della Costituzione non solo sono certificati dai grandi istituti economici, ma testimoniano che nei processi devolutivi non è vero che vi è un risparmio.
Come vedete, colleghi, l'intreccio è molto profondo; non si tratta di tecniche istituzionali, ma di un ragionamento politico che ha conseguenze notevoli, le quali, proprio perché corrispondenti ad un principio, dovrebbero formare oggetto di una discussione molto più seria e fattiva.
Occorrerebbe guardare alla necessità di ridisegnare regole e forme di governo in nome e per conto dei cittadini e delle cittadine italiane e non delle parti politiche
che si rappresentano, in quanto in tal modo non si è innovatori, ma si resta conservatori e fuori dai contesti concreti che danno senso ad una Costituzione che, per essere moderna, deve essere duratura e non piegata alle esigenze partitiche (Applausi dei deputati dei gruppi dei Democratici di sinistra-L'Ulivo, della Margherita, DL-L'Ulivo e Misto-Verdi-L'Ulivo).
PRESIDENTE. Sospendo la seduta che riprenderà alle 15,30.
La seduta, sospesa alle 13,35, è ripresa alle 15,35.
TEODORO BUONTEMPO. Chiedo di parlare per un richiamo al regolamento.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà
TEODORO BUONTEMPO. Signor Presidente, ho chiesto la parola solo per conoscere le decisioni della Presidenza relativamente ai tempi concessi ai deputati per la presentazione dei subemendamenti. La stampa - per ora non abbiamo avuto notizie da altre fonti - parla di emendamenti presentati dalla maggioranza o dal Governo, senza che siano ancora chiare le modalità.
Quali sono, quindi, i tempi concessi per la presentazione di subemendamenti, visto che quelli previsti dal regolamento risultano estremamente ristretti? Il mio intervento è un invito alla Presidenza affinché proceda ad una riflessione e conceda, vista anche la materia che ci accingiamo a trattare, tempi congrui, in modo che tutti i deputati siano messi nelle condizioni di poter svolgere al meglio il proprio ruolo.
PRESIDENTE. Onorevole Buontempo, non c'è dubbio che, trattandosi di una materia di così rilevante importanza, la Presidenza concederà termini tali da consentire a tutti i parlamentari di valutare in maniera adeguata gli emendamenti che venissero eventualmente presentati dal Governo, come fra l'altro è stato già annunciato. La voglio, quindi, tranquillizzare: lei, come tutti i colleghi, sarà messa in grado di valutare in maniera completa gli emendamenti. I termini non saranno quindi strettamente legati alle norme del regolamento, ma certamente idonei.
Le ricordo, comunque, che l'articolo 86 del regolamento, al comma 4, prevede che i subemendamenti possano essere presentati sino ad un'ora prima dell'inizio della seduta nella quale saranno discussi gli articoli. Faremo in modo che questo comporti un'agevolazione e maggior tempo per i parlamentari, piuttosto che una riduzione dei termini.
È iscritto a parlare l'onorevole Pacini. Ne ha facoltà.
MARCELLO PACINI. Signor Presidente, onorevoli colleghi, il disegno di legge costituzionale che la Camera sta esaminando costituisce il punto di arrivo di un percorso ormai ultradecennale.
È poco più di un decennio, infatti, che il dibattito politico italiano affronta il tema dell'introduzione del federalismo nel nostro paese. Nei primi anni Novanta l'unica forza politica che parlava di federalismo era la Lega nord, mentre nella società civile e nel mondo della cultura era solo la Fondazione Giovanni Agnelli, di cui ero allora direttore, che studiava e propagandava la riforma dell'ordinamento italiano in senso federale.
Era l'epoca dei pionieri e del sapore eversivo del federalismo in Italia. Devo confessare che provo una grande soddisfazione, unita anche ad una certa emozione, per essere oggi qui, presso la Camera dei deputati, ad analizzare e discutere una Costituzione che dà forma e sostanza alle speranze e ai sogni di quegli anni. Mi fa piacere pensare che gli sforzi e le fatiche di allora non sono stati inutili e che il tempo di raccogliere i frutti di tanta fatica nel seminare è ormai vicino.
L'Italia sta per darsi una costituzione federale; quello che nel 1992 sembrava eversivo diventa oggi Costituzione della Repubblica. L'epoca dei pionieri, peraltro,
fu molto breve perché fu facile innestare gli studi e le proposte di riforma federale, che si andavano conducendo con la collaborazione di eccellenti studiosi, nel solco di tutte le grandi tradizioni politiche italiane, ad iniziare da quella risorgimentale, ritenuta a torto convintamente centralista, mentre la scelta strategica della commissione Minghetti del 1862, quella di proporre uno Stato centralizzato sul modello francese, era stata considerata da subito un compromesso subottimale, imposto dalla realtà profondamente diversificata nelle varie aree di un'Italia appena unificata. Lo stesso Cavour avrebbe preferito un ordinamento basato sulle autonomie locali, «scentralizzato», come ebbe a scrivere.
La riforma federale aveva necessità di avere radici storiche solide, e non bastava il richiamo, sovente di maniera, a Cattaneo, ma andava innestata in tutte le grandi tradizioni politiche della storia italiana. Si pensava, giustamente, che la trasformazione dello Stato italiano in Stato federale potesse avere successo solo se accettata e condivisa dalla larga maggioranza degli italiani e se il federalismo diventava un valore condiviso di ogni grande famiglia politica.
La proposta federale ha trovato in Italia un terreno fertile, e dopo pochi anni - perlomeno nelle dichiarazioni pubbliche - la gran parte delle forze politiche italiane si dichiarava federalista. La fortuna del termine ha nascosto sovente calcolo politico, opportunismo elettorale o mera superficialità, ma l'adesione vi è stata, ampia e diffusa, e nell'opinione pubblica italiana è passata un'idea del significato e dell'utilità del federalismo immaginato come la grande risposta strategica alle sfide della globalizzazione, la via maestra per realizzare in tempi brevi obiettivi quali la riforma della pubblica amministrazione, la riconciliazione fra i cittadini e la politica, la modernizzazione della governance dei territori. Il federalismo è stato visto dalla maggioranza degli italiani non in termini ideologici, bensì come la soluzione istituzionale più adeguata ad introdurre nel nostro ordinamento, e quindi nella vita degli italiani, più efficienza e più efficacia dell'azione pubblica.
Questa fiducia non era e non è mal riposta, perché effettivamente il federalismo può essere uno strumento istituzionale e geoeconomico che aiuta i sistemi economici territoriali a vincere la sfida della competizione internazionale. È quindi nell'interesse di tutti, degli imprenditori e dei lavoratori. Lo Stato federale è sempre stato immaginato come uno Stato più amico del cittadino comune. Questa motivazione concreta del sentirsi federalisti, così poco ideologica, va tenuta presente dalla dirigenza politica, perché se questo disegno di legge sarà sottoposto a referendum il criterio di giudizio degli elettori sarà basato su tali aspettative. Il federalismo italiano, inoltre, è nato e cresciuto con una forte connotazione regionalista. Vi sono stati, nel corso del tempo, alcuni richiami alla tradizione delle cento città, ma sono stati largamente minoritari. Le regioni sono sempre state ritenute la risposta istituzionale più adatta a realizzare il federalismo, con la precisazione che esse stesse non dovevano essere centraliste, bensì tese a valorizzare il tessuto delle autonomie locali.
Possiamo chiederci se il testo che viene proposto all'esame dell'Assemblea è coerente con la storia breve e recente del federalismo italiano e con le aspettative che ha suscitato tra i cittadini. Purtroppo, le forze politiche italiane non hanno avuto l'intelligenza di scegliere la strada dell'Assemblea costituente, ma hanno preferito la strada, apparentemente più facile, dell'articolo 138, ritenendo che anche le grandi modifiche istituzionali potessero seguire l'iter del bicameralismo e delle doppie letture e che fosse possibile far convivere la riflessione costituzionale con la vita ordinaria, sempre accentuatamente conflittuale. La scelta, purtroppo, non si è rivelata felice. I problemi legati all'immagine delle forze politiche e alle loro necessità di marketing elettorale hanno assunto un ruolo rilevantissimo ed eccessivo,
così come la difesa degli interessi corporativi della pubblica amministrazione e delle stesse assemblee parlamentari.
La fretta nell'approvare le modifiche dell'articolo 117 nella precedente legislatura fu dettata chiaramente da calcoli elettorali, ed ebbe come risultato non solo un federalismo incompleto, ma, soprattutto, un federalismo astratto ed estremizzato, giacobino: esattamente il contrario di quanto sarebbe stato opportuno fare. La riforma del centrosinistra, probabilmente andando anche al di là delle intenzioni di chi l'ha voluta, ha determinato l'instaurazione di un federalismo che non è né cooperativo né solidale, come era, invece, negli auspici di tutti, ed ha, soprattutto, creato i presupposti per l'avvio di dinamiche sociali ed economiche che nel medio periodo potrebbero anche determinare nuove divaricazioni fra Sud e Nord del paese.
Questo federalismo incompleto, oggi vigente, deve inoltre essere considerato una vera e propria sconfitta della politica e della democrazia, come dimostra quanto è accaduto in tema di condono edilizio.
La Corte costituzionale, in una recente sentenza, ha rilevato che si è trovata a svolgere un ruolo, non richiesto né gradito - sono queste le parole pronunciate lo scorso aprile dal suo presidente -, di supplenza nell'attività di mediazione politica fra diversi livelli di territorio e di Governo. Quindi, è interesse di tutte le forze politiche completare l'assetto federale in tempi brevi, restituendo alla politica gli spazi che gli competono in ogni sana e matura democrazia. Purtroppo, il dibattito costituzionale recente non ci aiuta perché non è stato né chiaro né approfondito, a cominciare dal dibattito fra gli studiosi (ma soprattutto mi riferisco a quello che si è svolto negli ambienti politici). Per esempio, giudico strumentale l'eccessiva enfasi posta dentro e fuori il mondo politico nel criticare la cosiddetta devolution, mettendo in luce possibili rischi di fratture nel paese, quando i veri rischi di riaprire fossati fra il sud e il nord d'Italia sono insiti nelle modifiche introdotte dal centrosinistra all'articolo 117.
È difficile trovare un testo di riforma tanto faticoso e con un iter tanto controverso e complesso; a mio parere, le difficoltà sono insite nella scelta della via emendativa dell'articolo 138. Modificare una Costituzione postula la capacità di vedere un grande orizzonte proiettato in un futuro che va ben oltre gli interessi che le forze politiche debbono tutelare e curare. Le Costituzioni, almeno quelle tradizionali cui siamo stati educati a credere, debbono durare cinquant'anni. Le forze politiche hanno il concreto e legittimo problema - lo ripeto, legittimo - di conservare e conquistare il potere, quindi hanno un orizzonte appena pluriennale e questo spiega gran parte delle difficoltà e delle incertezze dell'iter di riforma. Basta ricordare che il testo approvato dopo il difficile travaglio del Senato fu subito criticato dal Presidente Pera e dall'allora vicepresidente Calderoli.
Desidero riconoscere al ministro Calderoli il dono della coerenza, poiché appena ieri ci ha annunciato modifiche di grande rilievo al testo - approvato nel luglio scorso dalla I Commissione della Camera - che, sostanzialmente, riproduceva quello del Senato. Il ministro ha anche dichiarato di essere desideroso di dialogo ed aperto ad accogliere ulteriori modifiche. Si tratta di un segnale molto positivo perché potrebbe portare all'allargamento della maggioranza che approverà questa nuova Costituzione italiana. Infatti, il buon senso dovrebbe consigliare l'approvazione della nuova Costituzione con una maggioranza parlamentare dei due terzi, così da evitare la prospettiva di un referendum popolare e, soprattutto, anche per ridare prestigio di fronte agli italiani al nuovo testo costituzionale. Le Costituzioni, infatti, non dovrebbero nascere coinvolte nel conflitto politico quotidiano, ma nella concordia e nella fraternità nazionale. Solo un'Assemblea costituente poteva garantire un clima adeguato alla nascita di una nuova Costituzione.
Prima di scendere ad un esame più analitico di alcuni problemi desidero sottolineare il ruolo benefico e proficuo svolto dal ministro Calderoli. Prima del
suo arrivo, la situazione politica, con riguardo al disegno di legge di riforma costituzionale che stiamo esaminando, era ingessata e dentro la maggioranza vi era un permanente, caldo e pressante invito a non modificare il testo approvato dal Senato se non in punti marginali: la prudenza vinceva sul coraggio. Con l'arrivo del ministro Calderoli, la situazione è radicalmente cambiata perché le modifiche che sono state annunciate ieri hanno fatto fare un salto di qualità alla riforma. Permangono alcuni punti che sarebbe opportuno emendare ulteriormente, ma a mio parere il testo che si profila appare credibile, proponibile ai cittadini italiani perché capace di regolare la vita di una grande e complessa società democratica.
Nella discussione generale in I Commissione avevo formulato alcuni rilievi critici al testo approvato dal Senato che oggi risultano, almeno dalle dichiarazioni rese ieri in aula dal ministro, condivise dal Governo e in procinto di divenire emendamenti. In primo luogo, l'abolizione della circoscrizione estero per mancanza palese del requisito della territorialità; l'abolizione dei senatori a vita e la parallela introduzione del deputato a vita, in considerazione dell'opportunità di far sedere gli ex Presidenti della Repubblica e cittadini emeriti nella Camera politica. Infine, avevo espresso riserve sulla composizione del Senato federale ed avevo presentato alcune proposte di modifica al testo approvato dal Senato che i colleghi della maggioranza, cui era affidato il compito di predisporre emendamenti concordati tra le forze politiche della Casa delle libertà, non ritennero allora di accettare. Il ministro ha annunciato significativi cambiamenti in ordine alla composizione del Senato federale che, sebbene risultino insufficienti - ciò mi spingerà a riproporre all'attenzione del ministro e dei colleghi dell'Assemblea una soluzione più coerente riguardo al ruolo che il Senato dovrebbe avere nella nuova Repubblica italiana -, migliorerebbero sostanzialmente il primitivo modello elaborato dal Senato.
La soluzione teoricamente prevedibile sarebbe stata - a mio parere - la trasformazione del Senato in un collegio di rappresentanti degli esecutivi di ogni regione, con il vincolo del voto unitario, secondo il modello del Bundesrat tedesco.
Questa soluzione avrebbe avuto il pregio di far sì che il Senato rispecchiasse effettivamente la volontà delle singole regioni e rappresentasse una sede autorevole per l'eliminazione dei conflitti fra gli enti territoriali; sarebbero state assorbite anche le Conferenze Stato-regioni e si sarebbe ottenuta una semplificazione istituzionale ed amministrativa. Sarebbe stato anche opportuno distinguere ruoli e competenze di un Senato federale dalla Camera politica, anche con benefici effetti sul processo di formazione delle leggi.
Questo, però, è stato giudicato da una larga maggioranza lontano dalla nostra tradizione e del nostro ordinamento e così innovativo che solo all'interno di un'Assemblea costituente avrebbe potuto essere approvato.
Il testo che il Senato ha approvato, e che è stato sostanzialmente riproposto alla Commissione affari costituzionali della Camera, aveva scelto - come è noto - una strada molto diversa, riproponendo un Senato analogo alla Camera senza alcuna legame serio con il territorio. Ma un Senato federale deve avere al centro della sua identità e del suo ruolo la rappresentanza dei territori, dei loro interessi e delle loro identità culturali e politiche. In caso contrario, avremmo un Senato che non sarebbe federale e l'ordinamento italiano risulterebbe caratterizzato da un federalismo incompiuto; è necessario, quindi, un intervento correttivo che rafforzi i legami con il territorio.
Ciò che ha annunciato ieri il ministro Calderoli, cioè un'apertura per la partecipazione ad alcuni lavori del Senato federale di rappresentanti delle regioni, va - a mio parere - nella direzione giusta, ma è ancora insufficiente perché si tratta di una partecipazione non piena, ma settoriale e parziale, da meglio definire in futuro.
Una valutazione a parte merita la partecipazione - anch'essa annunciata dal ministro - di rappresentanti degli enti locali prevista in posizione simile a quella
dei rappresentanti delle regioni. È già stata avanzata da più parti la soluzione di inserire come membri di diritto i presidenti di regioni o loro delegati, che sarebbe una soluzione migliorativa, ma a mio parere ancora insufficiente.
In uno schema che ho avuto modo di illustrare a luglio ad alcuni colleghi della maggioranza che stavano studiando degli emendamenti che potevano essere utilmente introdotti come coalizione, avevo proposto un modello che, restando lontano da quello del Bundesrat, seguiva, però, la strada di un modello di Senato a composizione mista, con una parte di senatori elettivi e una parte di veri rappresentanti dei governi regionali non eletti, ma designati.
Quella resterebbe - a mio parere - ancora la via migliore per poter avere un Senato federale realisticamente agganciato alla realtà territoriale; infatti, ogni regione potrebbe essere rappresentata da un minimo di uno a un massimo di cinque senatori non eletti in base a un sistema di ponderazione. Ciascuna delegazione regionale potrebbe disporre di un voto unitario, nel senso che i voti di ogni delegazione sarebbero espressi unitariamente secondo le direttive dei governi regionali di provenienza; solo i senatori a suffragio universale diretto sarebbero liberi dal vincolo di mandato.
Questa soluzione permetterebbe di rafforzare la connotazione territoriale del Senato federale, perché si introdurrebbe all'interno di quest'ultimo una rappresentanza effettiva delle regioni, che verrebbe identificata con l'organo titolare della funzione di indirizzo politico, cioè la giunta.
Il ministro Calderoli ha annunciato una partecipazione di rappresentanti delle regioni e anche delle autonomie locali. Su questo punto intendo fare una precisazione: personalmente ritengo che si debba restare coerenti con la tradizione, recente ma consolidata, del federalismo italiano, che ha sempre avuto un forte e chiaro orientamento regionale; infatti, sono le regioni che rappresentano i territori e ne interpretano gli interessi.
Le aspirazioni e le rivendicazioni delle grandi città, delle province e di altri livelli istituzionali sono culturalmente e umanamente comprensibili, ma non possono essere - a mio parere - accettate perché metterebbero ulteriori elementi di confusione in un sistema già ora troppo complesso.
Oggi, in Italia, si pensa che sia non solo giustificato, ma addirittura obbligatorio esercitare la difesa corporativa delle istituzioni rappresentate; al contrario, occorre fare un passo indietro e comprendere che è nell'interesse di tutti avere un sistema istituzionale efficace ed efficiente. Credo anche che sia l'ora di riproporre un dovere di generosità e di comprensione degli interessi regionali anche da parte di chi guida importanti istituzioni pubbliche o ne fa parte.
È ottima, invece, la decisione, che era nell'auspicio di tutti, di introdurre una contestualità piena ed idonea a valorizzare la dimensione regionale. Infatti, in caso di scioglimento di un consiglio regionale, decadranno dal mandato anche i senatori eletti nella regione interessata; in tal caso, contestualmente al rinnovo del consiglio regionale, si procederà all'elezione di nuovi senatori, i quali resteranno in carica fino alle successive elezioni regionali. Se è questa l'intenzione del ministro Calderoli, mi pare che si tratti di un grosso arricchimento al provvedimento in esame.
Il ministro ha anche preannunciato novità sulla seconda grande questione nata dalla modifica dell'articolo 117 della Costituzione attuata nella precedente legislatura. Ho già avuto modo di esprimere la mia opinione sulla necessità di rimediare agli squilibri gravissimi che derivano dall'attuale ripartizione delle competenze. In proposito, nel gennaio del 2003 ho presentato un'apposita proposta di legge costituzionale volta proprio alla modifica del riparto delle competenze legislative tra Stato e regioni. In particolare, sono convinto della necessità di rimuovere il carattere estremizzato della riduzione delle competenze dello Stato e di trovare un nuovo equilibrio connotato da una corretta interpretazione del principio di sussidiarietà,
secondo la quale il livello istituzionale al quale attribuire ruoli e funzioni non sia sempre il più basso, ma il più adeguato al loro corretto esercizio. In concreto, serve emendare l'attuale articolo 117 ampliando le materie in cui lo Stato esercita una competenza esclusiva e procedendo ad una corrispondente, parziale riduzione delle materie oggetto di potestà legislativa ripartita tra Stato e regioni.
Il ministro Calderoli ha annunciato che sarà proposto il ritorno tra le competenze esclusive dello Stato di materie quali: grandi reti di trasporto e navigazione; ordinamento della comunicazione, produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell'energia. Concordo pienamente, ma ritengo che altre due materie meritino di tornare tra le competenze esclusive dello Stato: in primo luogo, la ricerca scientifica e tecnologica, attualmente considerata tra le materie concorrenti, con il risultato che solo le regioni più ricche potranno attivarla concretamente. In tal modo, si corre il rischio che si rimettano in moto processi di allargamento del divario tra le regioni e, in particolare, che vengano penalizzate le regioni del sud. Per questo motivo, l'interesse nazionale esige che la ricerca sia inclusa tra le materie di competenza esclusiva dello Stato, fatta eccezione per quella a sostegno dell'innovazione nei settori produttivi, che potrebbe rientrare nella competenza esclusiva delle regioni, per meglio calare i concreti interventi nelle specifiche realtà dei sistemi produttivi territoriali.
La seconda materia - sulla quale mi permetto di insistere - è il commercio con l'estero. Il nostro sistema economico dipende dal commercio con l'estero. Il futuro anche prossimo accrescerà il ruolo degli scambi economici e, con l'affacciarsi sulla scena mondiale di nuovi grandi soggetti di scala continentale, come la Cina e l'India, la nostra penetrazione nei mercati esteri diventerà più difficile. Intelligente e lungimirante è stata la scelta del Governo di dare una missione di promozione del sistema Italia alle nostre rappresentanze diplomatiche. Perché, allora, lasciare il commercio con l'estero tra le materie concorrenti in cui lo Stato potrà solo statuire principi generali? La contraddizione tra le due politiche è evidente.
A mio avviso, il descritto rafforzamento dello Stato potrebbe essere declinato insieme ad un parallelo rafforzamento delle regioni, da realizzare mediante l'allargamento delle materie devolute alla loro competenza esclusiva. Potrebbero essere utilmente devolute alle regioni materie quali il commercio con l'estero nell'ambito dell'Unione europea, ormai da considerarsi un mercato interno, il sostegno all'innovazione nei settori produttivi ed i rapporti delle regioni con gli enti delle autonomie locali dell'Unione europea. Il concetto di devoluzione non ha, infatti, il significato eversivo che gli ha attribuito il centrosinistra nel dibattito politico, ma costituisce un valido aiuto per scorporare e per meglio definire, nel quadro di materie complesse, alcuni specifici aspetti che rientrerebbero utilmente nell'ambito delle competenze esclusive delle regioni.
Infine, desidero richiamare l'attenzione sulle conseguenze negative che vi potrebbero essere se non si cogliesse l'occasione di questa revisione costituzionale per introdurre una certa flessibilità nella forma di governo delle regioni. Il nuovo quadro istituzionale esalta il ruolo e l'importanza delle regioni. Occorre chiedersi quindi se non sia questa l'occasione opportuna per dare una soluzione al complesso problema consistente nell'attenuare gli automatismi legati al principio simul stabunt, simul cadent, previsti dall'articolo 126 della Costituzione. Si tratta di un tema che ha egemonizzato il dibattito politico all'interno di tutte le regioni che sono da più di due anni impegnate ad approvare nuovi statuti. Ora, dopo la nota sentenza della Corte costituzionale che ha deliberato in merito allo statuto della regione Calabria, si ha un'alternativa secca: o si segue il modello normato dall'articolo 126 con l'applicazione integrale il principio simul stabunt, simul cadent o si adotta un governo di tipo sostanzialmente assembleare.
L'esperienza degli ultimi anni dimostra che vi è una diffusa esigenza all'interno delle regioni di superare la contrapposizione
fra presidenzialismo rigido e sistema di governo consiliare, adottando forme di governo presidenziale diverse da quelle regolate dall'attuale articolo 126 della Costituzione. Una strada percorribile per introdurre elementi di flessibilità può essere quindi individuata in una parziale modifica dell'articolo 123 della Costituzione già prevista in parte nel testo approvato dal Senato e che ritengo debba essere allargata ad altri casi, lasciando la possibilità al consiglio regionale di scegliere con grande autonomia i casi in cui intende applicare il principio del simul stabunt, simul cadent, permettendo negli altri casi la rielezione di un altro presidente. A mio parere, la forma del governo delle regioni ha necessità di flessibilità. È questa l'occasione per introdurla.
Mi avvio a conclusione, signor Presidente, onorevoli colleghi, ricordando che il lavoro che stiamo svolgendo avviene nel rispetto della prima parte della Costituzione, che resta invariata e che rappresenta lo sfondo di permanente continuità con la storia nazionale e con i valori che l'intero nostro popolo condivide. Tuttavia, dobbiamo anche essere consapevoli che le modifiche che stiamo introducendo nella parte seconda sono così incisive che possiamo parlare di dar vita ad una Costituzione nuova. Scrivere ed adottare una Costituzione è una grandissima responsabilità ed insieme un alto e raro privilegio. La Costituzione della Repubblica del 1946 ha assolto egregiamente il suo compito e ha dato una risposta grandemente positiva alle attese e alle speranze dei cittadini italiani di quel lontano dopoguerra in cui gli italiani ritrovarono la libertà e la democrazia. Le sue regole hanno saputo disciplinare i processi della società italiana che maturava, che diventava ricca, che mutava la sua cultura; hanno saputo regolare il passaggio da una società ancora prevalentemente agricola ad una società postindustriale.
Oggi abbiamo il gravoso compito di scrivere le regole che dovranno permettere al nostro paese e al nostro ordinamento di vivere con successo in un mondo globalizzato dove i conflitti politici, economici e culturali saranno più numerosi che non nel passato. Sarà un mondo diverso, probabilmente più difficile. Questa consapevolezza deve indurre la maggioranza ad avere la saggezza di accettare i suggerimenti di tutti, in primo luogo dell'opposizione, perché tutto è sempre migliorabile, ma insieme deve renderla convinta che l'introduzione piena e coerente di un sistema federale è ormai indifferibile e non più rinviabile (Applausi dei deputati dei gruppi di Forza Italia e di Alleanza Nazionale).
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Violante. Ne ha facoltà.
LUCIANO VIOLANTE. Signor Presidente, ieri abbiamo ascoltato l'intervento del ministro con attenzione ed interesse. Eravamo fortemente preoccupati per le incongruenze e le assurdità del testo uscito dalla Commissione. Eravamo assai perplessi per la quantità e la qualità delle tesi riformatorie che si sono succedute durante tutta l'estate. Eravamo desiderosi di conoscere dalla viva voce del ministro le ipotesi di riforma concordate nel centrodestra. Ma dopo l'ascolto dell'intervento del senatore Calderoli ci siamo sentiti come i mugnai di cui parla Cervantes.
Don Chisciotte, in una delle sue peregrinazioni, si imbatte in un gruppo di mugnai e chiede loro, minacciandoli con la lancia, di riconoscere che Dulcinea del Toboso è la più bella dama del reame. Uno dei mugnai - che deve essere un illuminista - replica che è perfettamente disponibile, ma vorrebbe prima vedere il viso della dama, almeno in un ritratto. Ma Don Chisciotte replica che sarebbe troppo facile. Bisogna riconoscere la bellezza di Dulcinea senza vederla, con un atto di fede.
Ecco, noi, a differenza di quel che accadde con i mugnai di Cervantes, intendiamo esaminare con la necessaria attenzione i testi che il Governo e la maggioranza presenteranno. La nostra laicità costituzionale non ci ha impedito di apprezzare la decisione del ministro Calderoli di accogliere la nostra richiesta di intervento,
ma ci impedisce di corrispondere a quell'intervento con atti di fede.
Il primo organico progetto di riforma costituzionale, come i colleghi sanno, fu costruito proprio nella scorsa legislatura, durante gli anni del centrosinistra. Quel progetto non fu portato a termine per principale responsabilità del centrodestra, che, dopo aver approvato in Commissione bicamerale il testo di riforma, e dopo aver approvato in Assemblea la parte relativa alla riforma federale dello Stato, si ritirò unilateralmente dall'impegno riformatore. L'allora capo dell'opposizione non aveva ottenuto ciò che sperava sul terreno della giustizia, e temeva di consegnare al centrosinistra la palma della riforma costituzionale.
Noi non abbiamo pregiudizi (e qui rispondo all'invito rivolto dal ministro ieri), non abbiamo interessi privati da difendere, non temiamo di misurarci, anche dall'opposizione, con il grande tema della modernizzazione della Repubblica e delle sue istituzioni.
Ma, come insegna l'iter assai travagliato del tentativo che state mettendo in atto ormai da tre anni e mezzo, la revisione costituzionale contemporanea di forma di Stato, forma di governo e forma del Parlamento comporta concatenazioni e connessioni reciproche così profonde da richiedere un esame attento tanto delle singole parti quanto del tutto. Può darsi, in questa materia, che le singole parti, una per una, possano funzionare in astratto, ma che, contemporaneamente, il funzionamento complessivo del sistema resti bloccato.
Noi siamo convinti, da tempo, che il sistema costituzionale italiano abbia bisogno di un robusto intervento riformatore, ed indico quelli che, a nostro avviso, sono i difetti più gravi. Il bicameralismo perfetto è un residuo storico. I controlli ed i contrappesi vanno rivisti, alla luce del sistema maggioritario, affinché possano mantenere la loro funzione di garanzia.
Il federalismo introdotto nella scorsa legislatura va condotto a compimento e corretto in parti non secondarie che, alla prova dell'applicazione, hanno dimostrato la loro inadeguatezza. Occorre impedire cambi di maggioranza, nel corso della legislatura, che vanifichino la volontà popolare. Il Presidente del Consiglio deve avere poteri di nomina e di sostituzione dei ministri.
Il Governo e il Parlamento devono vedere rafforzato il proprio peso nel sistema politico. Uno degli errori più frequenti è pensare che ad un Governo forte debba corrispondere un Parlamento debole, o viceversa. Una consolidata democrazia, quella americana, ha un Governo forte ed un Parlamento forte, ed è consolidata proprio per questo.
Occorre costruire una coerenza tra forma di governo regionale e forma di governo nazionale, ferma l'elezione diretta dei presidenti di regione. Non è stato saggio, nella scorsa legislatura, attribuire ad ogni regione il potere di costruirsi il proprio sistema elettorale, con l'effetto di moltiplicare, spesso irragionevolmente, i sistemi politici ed il rischio di indebolire il funzionamento della democrazia e la forza del paese.
La sfera della politica deve riprendere nelle proprie mani il compito di rendere concreti i diritti ed efficiente il principio di responsabilità. Dobbiamo uscire tutti dal circuito ristretto, in cui spesso ci chiudiamo, della composizione degli interessi volta a volta rilevanti sulla scena pubblica.
Al centro della nostra idea di riforma costituzionale che serve al paese c'è la critica ad un sistema che è diventato non il motore, ma il freno dell'Italia, della sua competitività, della sua creatività, della sua sicurezza e delle sue libertà.
Al centro della nostra idea di riforma c'è l'esigenza di evitare che la Repubblica parlamentare continui a sciogliersi in una sorta di Stato giurisprudenziale, le cui regole, i cui indirizzi, il cui stile di vita e di comportamento siano dettati da corporazioni di custodi, dovunque essi siano e comunque essi si chiamino, nella società, nel mercato e nelle istituzioni.
Al centro del nostro progetto ci sono la sovranità, la legge, la rappresentanza e la
responsabilità, che sono le quattro grandi categorie della democrazia dei contemporanei.
Proprio in attuazione di questi criteri, di queste preoccupazioni e di queste aspirazioni, i colleghi dell'opposizione che unitariamente hanno lavorato in Commissione affari costituzionali, hanno presentato proposte che disegnano un organico progetto di moderna ed efficiente riforma costituzionale. Ne discuteremo nei prossimi giorni.
Intendo in questa sede richiamare all'attenzione del Governo e della maggioranza i principi politici fondamentali che ispirano le nostre proposte. Innanzitutto la Camera che non esprime l'indirizzo politico non può esprimere il voto definitivo sulle leggi, di qualsiasi natura. Conseguentemente non vi possono essere leggi approvate definitivamente dal Senato. Le leggi, o sono approvate definitivamente dalla Camera o sono sottoposte ad un processo bicamerale perfetto, a seconda dei casi.
Il Presidente del Consiglio dei ministri è sempre designato dal Capo dello Stato, sulla base dei risultati elettorali; se sfiduciato, deve dimettersi e la Camera viene sciolta soltanto se non dà la fiducia, entro tempi brevi, ad un altro Presidente del Consiglio, espressione della stessa maggioranza uscita vincitrice dalle urne. La Camera approva il programma del Governo. Le proposte che sono espressione del programma di Governo hanno un iter garantito.
Il Senato deve essere eletto contestualmente ai consigli regionali.
Alle regioni devono essere trasferiti contemporaneamente poteri e risorse.
I cittadini non possono essere discriminati nell'esercizio dei loro diritti fondamentali, in relazione alla regione nella quale vivono (ieri, l'onorevole Giordano si è soffermato con particolare forza su tale punto).
Il ricorso ai decreti-legge deve essere disciplinato. Nel procedimento di costruzione delle leggi delegate il Parlamento deve avere potere di intervento.
La distinzione delle competenze tra Stato e regioni deve essere inequivoca.
Nessuna legge può essere sottratta al sindacato di costituzionalità della Corte.
Le norme devono avere la sobrietà e la duttilità proprie di un testo costituzionale, che è per sua natura destinato a durare nel tempo.
Per evitare equivoci, tali qualità non vi erano nel testo approvato nella scorsa legislatura.
Non riteniamo, naturalmente, che le nostre siano verità indiscutibili, ma vorremmo discuterle, appunto. Cosa che sinora non è stato possibile fare.
Giustamente, ieri l'onorevole Montecchi si chiedeva come mai oggi è possibile quel confronto che ieri, in Commissione e, prima, al Senato che ci è stato negato e come mai oggi ci si dice favorevoli a proposte che ieri non sono state neanche prese in considerazione.
In realtà, sinora la maggioranza ha proceduto con il criterio dell'autosufficienza e dello scambio politico interno. La vostra riforma - quella approvata dalla Commissione - non serve a ridisegnare l'ordinamento costituzionale, ma a cementare un patto politico nella maggioranza, per poter proseguire la legislatura, sotto la frusta della Lega. Ma ciò che vale per il patto politico si è rivelato non idoneo a ridisegnare il profilo della Costituzione. E viceversa.
La Lega può vantare la devoluzione, Forza Italia il premierato, Alleanza nazionale l'interesse nazionale, l'Unione dei democratici cristiani e dei democratici di centro uno smussamento delle punte e la promessa della legge elettorale proporzionale. Se le cose stanno così, è evidente che la riforma non è negoziabile. Non si può discutere con l'opposizione un patto che riguarda la stabilità della maggioranza, perché a quel patto l'opposizione è, per sua natura, estranea. Ma quando siete andati a verificare la funzionalità complessiva del progetto, vi siete accorti del disastro. È a questo punto che avete aperto all'opposizione, non sappiamo se con spirito mutato - che sarebbe un dato positivo - o al fine di avere, volta a volta,
alleati nuovi in questa o quella modifica - che sarebbe un dato negativo -, ma lo sapremo nei prossimi giorni.
Le ferme parole pronunciate dal presidente Castagnetti ieri sera sul testo del Senato e su quello uscito dalla Commissione sono da noi condivise.
La Camera ha perso ogni autonomia.
Il Senato è trasformato in un organo del tutto irresponsabile, che può bocciare i progetti di legge sui quali il Presidente del Consiglio ha ottenuto la fiducia alla Camera, senza che vi siano conseguenze né per il Senato, né per il Presidente del Consiglio.
Se mi permette, signor Presidente, potrei ripetere che il Presidente del Consiglio ha nella Camera una colf e nel Senato una badante.
I Presidenti delle Camere possono bloccare l'iter delle leggi e possono discrezionalmente adottare procedure che impediscono l'intervento della Corte costituzionale. Le regioni vedono immediatamente trasferiti i poteri, ma i principi per il loro esercizio e le risorse vengono determinati con leggi successive (se e quando ci saranno), che sono sottoposte a quel diabolico meccanismo sopra accennato.
Si aggiunga lo scandalo dei molteplici sistemi di sanità, di scuola e di polizia locale, espressione questa che nessuno ha sinora spiegato cosa significhi. Il potere sostitutivo dello Stato e l'interesse nazionale, che tanto entusiasmano alcuni colleghi di Alleanza nazionale, sono tremule foglie di fico su queste vergogne, che non funzionano perché assoggettati anch'essi a leggi successive.
La rottura dell'unità nazionale è duplice e profonda.
Il funzionamento dello Stato centrale è paralizzato a causa dello squinternato procedimento legislativo e degli anomali poteri del Senato nei confronti del Governo. La devoluzione rompe in due il paese.
Quando questi nodi vengono al pettine - e questo è un merito anche dell'UDC, di cui diamo volentieri atto - il Governo con l'intervento di ieri si dichiara aperto al contributo dell'opposizione. Qui si pone un altro problema. C'è qualcuno che può ragionevolmente pensare in quest'aula che i tempi imposti a luglio siano compatibili con un confronto serio, come noi chiediamo da tempo e sul quale ieri ci sono state apprezzabili aperture, anche di merito, da parte del ministro?
Dico di più: il procedimento seguito non è idoneo a costruire una riforma così ambiziosa e di così vasto respiro. Chiunque governi, è inevitabile che i patti di maggioranza (sia Governo di centrodestra sia Governo di centrosinistra) tendano a soffocare lo spirito e la finalità costituente. Perciò nella scorsa legislatura tentammo di individuare una strada nuova, quella della Commissione bicamerale, nella quale maggioranza e opposizione, divise in Assemblea e nelle altre Commissioni, lavorassero insieme al riparo dal legittimo conflitto quotidiano. Anche quell'esperienza non ha avuto esito felice, per ragioni politiche, non per ragioni istituzionali.
Allora, mi chiedo se non ci si debba rapidamente interrogare sui limiti intrinseci di un potere autodefinitosi costituente in un'Assemblea eletta con il sistema maggioritario e, quindi, con lo scopo precipuo di garantire la governabilità e non la riforma costituzionale.
Insomma, a mio avviso, un Parlamento eletto con un sistema maggioritario può correggere alcuni aspetti della Costituzione, può certamente approvare leggi costituzionali, ma quando si tratta di correggere insieme forma di Stato, forma di Governo e forma del Parlamento occorre pensare a procedure che riportino alla sovranità popolare il potere di intervenire su aspetti così profondi della Costituzione. Già Dossetti aveva detto cose assai profonde sulla natura del potere costituente, citate ieri dal capogruppo della Margherita. D'altra parte non esistono, che io sappia, casi di Assemblea costituente eletta e funzionante in costanza del funzionamento regolare del Parlamento.
Mi chiedo, allora, se non bisogna riflettere su altre ipotesi. Ad esempio, si potrebbe riprendere il processo costituente attraverso l'istituzione di un'Assemblea
con un numero limitato di componenti, un centinaio circa, eletta dai cittadini con voto proporzionale e con mandato limitato alla proposta di un organico progetto di riforma della forma di Stato, della forma di Governo e della forma del Parlamento. La proposta verrebbe poi approvata o bocciata dal Parlamento, con limitati poteri di intervento correttivo.
Mi rendo conto delle obiezioni che potrebbero essere sollevate in particolare in caso di bocciatura da parte del Parlamento di qualche proposta chiave. Ma tutte le vie sinora seguite si sono rivelate inidonee allo scopo; quindi, è opportuno pensare ad altre strade.
Si tratta, colleghi, non solo di trovare soluzioni idonee a risolvere il problema storico della modernizzazione costituzionale del paese, ma anche ad individuare forme e modi che non riproducano quasi meccanicamente la tradizionale divisività italiana, la identità costruita per opposizione e delegittimazione reciproca più che per solidarismo civico, per lealismo costituzionale, per senso di appartenenza ad una comunità nazionale.
Sentiamo il dovere politico di concorrere ad un processo di costruzione di una nazione unita, che abbia fiducia nelle proprie forze, che sappia costruire il proprio futuro sviluppando sinergie e non contrapposizioni pretestuose utili a conservare recinti ideologici nei quali coltivare private utilità e pubbliche carriere.
Il limite maggiore del centrodestra, a nostro avviso, è avere proposto la parte come tutto, di avere alimentato odi politici e territoriali, di avere usato strumenti parlamentari come arma di criminalizzazione degli avversari politici.
Mentre in tutti i sistemi democratici le regole servono a disciplinare l'esercizio del potere, nella vostra pratica politica l'esercizio del potere ha lo scopo di disciplinare l'applicazione delle regole. A questo anomalo principio avete ispirato alcune vostre riforme.
Il fallimento di questa politica è sotto gli occhi di tutti. L'Italia è più debole, più povera e meno competitiva. Ma non ci limitiamo alla denuncia: noi ci proponiamo come futura classe di Governo e poi gli italiani decideranno. Ma, a differenza di voi, vogliamo farlo con un progetto che unisca e fortifichi il paese; a questi criteri corrispondono le nostre proposte (Applausi dei deputati dei gruppi dei Democratici di sinistra-L'Ulivo, della Margherita, DL-L'Ulivo, di Rifondazione comunista e Misto-Verdi-L'Ulivo - Congratulazioni).
PRESIDENTE. È iscritta a parlare l'onorevole Mascia. Ne ha facoltà.
GRAZIELLA MASCIA. Signor Presidente, onorevoli colleghi, gli annunci espressi dal ministro nella giornata di ieri ed anche la disponibilità dichiarata dal ministro stesso, nonché quella da sempre mostrata dal presidente della Commissione, non mutano, come emerge dalle dichiarazioni dei colleghi, il giudizio politico delle opposizioni.
Non muta il giudizio politico su un impianto che, a mio avviso, desta un allarme sul piano democratico, in particolare, per il pesante ridimensionamento che subirebbe il Parlamento e per le pesanti conseguenze sociali che produrrebbe la cosiddetta devolution. Nessuno degli annunci fatti, ed anche le piccole correzioni apportate al testo, possono inficiare un tale giudizio.
La preoccupazione è tanto più forte se collocata in un contesto nel quale lo stesso Trattato per la Costituzione europea, che verrà sottoposto alla firma a Roma il prossimo 29 ottobre, sottrae potere ai Parlamenti nazionali senza che, contestualmente, il Parlamento europeo acquisisca alcun ruolo.
Anzi, continueranno ad essere i Governi a decidere sulla testa dei cittadini europei, con l'ausilio dei soggetti tecnocratici come la Banca centrale europea. Saranno loro a decidere se tagliare le spese sociali nei singoli paesi.
Non è un caso se dovunque, dalla Francia alla Germania, fino al nostro paese, si stanno moltiplicando iniziative, manifestazioni e proteste dei lavoratori e di tutti coloro che avvertono maggiormente lo stato di perenne precarietà nel
quale le politiche neoliberiste, decise a Maastricht, li stanno trascinando.
Un vero allarme democratico dunque: da una parte, un Trattato europeo che potrebbe determinare produzioni legislative europee immediatamente applicabili, senza che il nostro Parlamento possa verificare la congruenza con i nostri principi costituzionali, e, dall'altro, una riforma della seconda parte della Costituzione che pone nelle mani del premier poteri di interdizione inaccettabili e che propaganda per federalismo la creazione di nuove centralità a livello regionale. Non siamo solo noi a bocciare i contenuti del disegno di legge S. 2544 di revisione della nostra vigente Costituzione ed oggi in discussione: il giudizio degli opinionisti indipendenti che abbiamo letto e quello di illustri costituzionalisti auditi in Commissione è pressocché unanimemente negativo.
Anzi, dalla gran parte della dottrina giuridica si sono levate vere e proprie grida di allarme per la preoccupazione che le modifiche annunciate finiscano per «sfigurare» il sistema costituzionale. Ci si è persino tornati ad interrogare su un problema di grande rilievo: da sempre infatti la dottrina costituzionalista si chiede sino a che punto si possa considerare legittimo un disegno che tenda non soltanto alla revisione del testo costituzionale, ma che addirittura miri ad una sua profonda alterazione.
Come la Corte costituzionale ha ricordato in tempi non sospetti, i principi supremi dell'ordinamento non possono venire modificati neppure utilizzando la procedura stabilita per la revisione della Costituzione. La domanda è quindi volta a sapere se il disegno di legge in esame infranga alcuni di questi principi.
Diversi ed illustri costituzionalisti hanno risposto positivamente, ragionando proprio sulle linee portanti e sul senso complessivo, nonché rispetto agli obiettivi di fondo cui il testo mira, al di là delle specificità delle proposte relative ai singoli articoli.
Il professor Ferrara, ad esempio, sostiene che il termine giusto non sarebbe neanche quello di una revisione della seconda parte della Costituzione, ma di modificazioni delle norme costituzionali sottolineando, tra l'altro, come l'introduzione del cosiddetto premierato si annunci come inventore e produttore prima ancora che come prodotto della figurazione della Carta costituzionale. Si tratta di una figurazione aggravata con la devolution, con un bicameralismo non si sa di che tipo, ma pessimo, e con la modifica della composizione della Corte costituzionale, che snaturerebbe il ruolo di tale organo di garanzia.
È possibile, allora, con un'unica legge di revisione modificare parti diverse della Costituzione costringendo il Parlamento - e poi il corpo elettorale, cui spetta il giudizio definitivo sulla riforma costituzionale nel caso in cui sia richiesto un referendum ai sensi dell'articolo 138 della Costituzione - ad esprimersi su materie così eterogenee? Il problema si pone anche sulla scorta di una giurisprudenza costituzionale in materia di referendum abrogativo di leggi ordinarie perché si ritiene che la volontà popolare rischierebbe di essere solo retoricamente chiamata in causa venendo messa, in realtà, nell'impossibilità di dare un giudizio distinto sulle singole parti. L'essere costretti a dire «sì» o «no» ad un pacchetto di riforme senza potere, invece, distinguere tra ciò che piace e ciò che non si vuole, non pare trovare cittadinanza nella nostra democrazia costituzionale.
Va aggiunto, inoltre, che se è vero che parliamo di modifiche alla seconda parte della Costituzione queste avranno conseguenze oggettive sulla prima, quella relativa ai diritti ed ai doveri dei cittadini. Ciò non vale soltanto per la cosiddetta devolution che determinerà oggettivamente cittadini di serie A e di serie B anche su base territoriale. Infatti, alla Camera dei deputati spetterà di decidere in via definitiva sulle leggi che la Costituzione attribuisce alla potestà esclusiva dello Stato - tra cui, appunto, la disciplina della gran parte dei diritti costituzionali - ma su quella Camera potrà agire il potere di ricatto attribuito al premier in un contesto, peraltro,
molto diverso anche rispetto ad altri equilibri, come nel ruolo delicatissimo della Corte costituzionale.
Dunque, al di là della nostra contrarietà di merito, che rimane, sarebbe come minimo opportuno da parte della maggioranza rinunciare a determinare forzature e, quanto meno, articolare le proposte in diversi disegni di legge a seconda delle materie o degli organi costituzionali che si vogliono modificare. Per quanto ci riguarda non solo siamo contrari al merito delle singole proposte, oltre che all'impianto complessivo, ma sottolineiamo il valore dell'attuale Carta costituzionale, la pariordinazione in essa riconosciuta ai poteri dello Stato, il garantismo insito nell'esercizio collettivo della potestà legislativa di Camera e Senato, il pluralismo politico e culturale presupposto in tante sue norme e la capacità di sviluppo insita in esse.
Ciò non significa necessariamente che non vi è nulla da toccare, in particolare per quanto riguarda il bicameralismo perfetto, a maggior ragione dopo la riforma del Titolo V della Costituzione. Tuttavia, un conto è rivedere qualche articolo, un altro è stravolgere l'impianto della Costituzione intervenendo su 42 articoli.
Il testo che voi proponete sta in una logica tutta interna ad una mediazione nel Governo e nella maggioranza che nulla concede ad un confronto sereno e rigoroso come dovrebbe essere in materia costituzionale. Lo dimostra perfino il percorso istituzionale che precede la discussione di questi giorni: un dibattito in Commissione in cui gli esponenti dell'opposizione hanno parlato spesso al vento perché non vi era una disponibilità al dialogo; l'annuncio del ministro che la maggioranza avrebbe cercato la mediazione ultima fuori dalle aule del Parlamento e le modifiche che oggi ci troviamo ad esaminare senza alcun altro passaggio in Commissione. Si tratta di modifiche annunciate che ancora, peraltro, non sono nelle nostre mani.
Verificheremo anche le cifre che vorrete fornire a proposito dei costi del tanto propagandato federalismo per quantificare se lo stesso comporterà effettivamente un incremento di spese locali del 40 per cento, come appare dai dati apparsi sulla stampa. Già sappiamo che la preoccupazione dei presidenti di regione è forte e trasversale, visto che già oggi i tagli prodotti ai servizi ai cittadini nonché al lavoro dei dipendenti pubblici sono allarmanti e, in ogni caso, sono già certi i costi sociali e democratici di tale riforma.
Infatti, al di là dei numeri, va da sé che una riforma che nasce sull'impianto della cosiddetta devolution produrrà danni alla democrazia e nuove diseguaglianze sociali. Questa icona del federalismo, che sembra l'ultima ragione di esistenza della Lega - e certamente lo è, per giustificare la sua permanenza nel Governo, visto che le altre bandiere, persino quella delle pensioni, si sono perse per strada! -, va detto subito che non c'entra nulla con il federalismo; essa si tradurrà semplicemente in nuove centralità fra lo Stato e le regioni, con buona pace per gli enti locali. Il nuovo Senato federale, come cercheremo di dimostrare in sede di esame dei nostri emendamenti, di «federale» non ha che il nome. Dov'è sta, infatti, il collegamento tra i senatori federali e il territorio? Già oggi l'articolo 57 della Costituzione prevede che l'elezione del Senato debba avvenire a base regionale. La cosiddetta rappresentanza territoriale dei senatori, come proposta dalla maggioranza e dal Governo, risulta non solo indeterminata, ma persino ridicola, laddove si introducono requisiti come l'aver ricoperto cariche pubbliche elettive in enti territoriali. Da una parte, si introducono requisiti che non offrono alcuna garanzia rispetto all'obiettivo dichiarato; dall'altra, gli stessi si presentano in palese contrasto con il principio supremo dell'eguaglianza dei cittadini.
Certo è che il Senato federale che voi disegnate non corrisponde a nessuno dei modelli di bicameralismo federale di cui si abbia notizia. Anche le modifiche che sono state prospettate ieri dal ministro e gli accenni all'introduzione di due nuove figure, espressione del consiglio regionale e dell'ente locale, a mio avviso non fanno che aggiungere altri pasticci ad un progetto che è già pasticciato di suo. La
previsione che il Senato federale debba essere eletto a suffragio universale e diretto ne escluderebbe ogni parentela con il Bundesrat, che è espressione dei soli esecutivi delle entità alle quali si pretenderebbe di assimilare le nostre regioni. La composizione dell'organo, visto che verrebbe confermata quella prevista dal vigente articolo 57, al di là del numero, peraltro lievemente ridotto, escluderebbe anche una qualche derivazione dal modello del Senato federale degli Stati Uniti, dal momento che nel Senato americano, pur essendo eletto a suffragio universale dagli elettori dei singoli Stati, a ciascuno degli Stati spettano due soli senatori, qualunque sia la rispettiva popolazione.
Il Senato che voi proponete si collocherebbe invece in posizione sostanzialmente paritaria alla Camera dei deputati, laddove si determinerebbero competenze prevalenti differenziate, ma nei fatti, dal percorso legislativo prefigurato, è facile prevedere persino una subalternità sostanziale della Camera dei deputati, all'interno di un contesto di empasse parlamentare perenne in cui in ultima analisi conterrebbe solo l'Esecutivo o meglio il suo premier. Viceversa, la proposta che noi avanziamo, prevede una vera rappresentanza territoriale e di genere, prefigurando un Senato delle regioni, i cui membri sarebbero eletti con sistema proporzionale dai consigli regionali stessi, dando dunque risposta alle istanze proposte dai rappresentanti degli enti locali, che potrebbero così essere parte di questi eletti. Si tratta di una proposta che risponde davvero all'esigenza di un confronto ravvicinato tra i diversi livelli istituzionali, superando l'attuale contrattazione tra esecutivi e determinando invece un luogo di composizione delle diverse istanze. Sarebbe un vero superamento del bicameralismo perfetto, che negli anni Settanta e Ottanta ha comportato, tra le altre cose, una media di 260 giorni (in quel periodo) per approvare le leggi e che ha prodotto, come effetto distorto - è diventato persino un alibi! -, un intervento legislativo del Governo con i decreti-legge, che è stato poi corretto solo successivamente nel 1988, sanando gli eccessi; ciò testimonia di come da sempre si fosse posto il problema del superamento di questo bicameralismo perfetto. Dunque noi lavoriamo su questa ipotesi, ma all'interno delle storie e delle esperienze conosciute di questi modelli.
La nostra, inoltre, è un'ipotesi che andrebbe in parte a sanare le conflittualità già esistenti, dopo l'approvazione del Titolo V, che meriterebbe altri approfondimenti in merito alle competenze tra Stato e regioni, come viene peraltro dimostrato dagli interventi fin qui svolti dalla Corte costituzionale relativamente all'energia, alle grandi reti, alle infrastrutture, al turismo ed allo sport, materie che dovrebbero essere attribuite allo Stato. Un'ipotesi soprattutto tesa a valorizzare il ruolo del Parlamento che voi, invece, modificate.
Voi decidete di non toccare il Titolo V, anche se, forse, così mi è parso di comprendere dagli annunci del ministro, qualche ritocco almeno per quanto riguarda le sentenze della Corte si vorrà approntare; sostanzialmente, però, decidete di non toccare il Titolo V, rispetto al quale avete, anche giustamente, accusato il centrosinistra per averlo approvato da solo ed in fretta e furia. Invece di ragionare insieme e serenamente, di mettere a posto quei meccanismi che dovrebbero essere corretti, decidete di intervenire, moltiplicando i danni e le controversie.
Infatti, se passasse l'operazione devolution, come ha scritto brillantemente un altro illustre costituzionalista, si innescherebbe un effetto di demolizione dei diritti e della politica. Da una parte, avremo il problema del principio di unità dello Stato, che verrebbe profondamente minato, e, dall'altra, la necessità comunque di attribuire nuovi poteri ai consigli delle regioni e degli enti locali, a fronte di quell'idea che si va alimentando da qualche anno a questa parte, cioè che una carica monocratica, eletta dal popolo, incarni il bene assoluto, mentre, al contrario, partiti ed assemblee legislative sarebbero le fonti di tutte le nefandezze e di tutti i mali delle democrazie moderne.
Non solo così non è, ma, recentemente, vi sono state alcune interpretazioni sui
dati inerenti alle opinioni della società italiana e dei cittadini. Il Censis, infatti, in recentissime indagini conferma che il leaderismo è morto e che i cittadini italiani chiedono valori e programmi nelle regioni ed a livello nazionale.
Nonostante ciò, qualcuno pensa di insistere nel soffocare la democrazia, attraverso le elezioni plebiscitarie dei presidenti o assegnando loro poteri smisurati. È il caso del premierato assoluto che vorreste introdurre non più solo come rafforzamento dei poteri del primo ministro, come molti da tempo sollecitano, ma quale figura che deforma l'attuale configurazione, basata su equilibri tra i diversi poteri, intaccando pesantemente la cultura dei contrappesi.
Il potere del primo ministro è solo falsamente sottoposto a limiti ma, in realtà, ne è privo e neanche quelle piccole modifiche che avete annunciato vanno ad interferire con questa valutazione. È questa l'antitesi stessa del costituzionalismo e della sua esigenza essenziale di sottoporre il potere a regole per limitarlo e limitarne l'esercizio arbitrario. La combinazione automatica, sfiducia su un provvedimento e scioglimento della Camera richiesto dal primo ministro che ne assume la responsabilità (in diritto costituzionale responsabilità denota potere), significa mettere nelle mani di una sola persona un potere di ricatto senza uscita.
Leopoldo Elia l'ha definito premierato assoluto, un ibrido anomalo, estremamente pericoloso. È l'antitesi del costituzionalismo, come scritto da qualche altro costituzionalista, che si colloca in quelle concezioni tutte interamente dalla parte del potere e non dalla parte dei cittadini, e non vale sostenere che attraverso quei meccanismi stabilizzanti si terrebbe fede al mandato degli elettori.
In realtà, se esistono tante forme indirette da parte dei cittadini, a partire dal conflitto sociale, per segnalare il proprio scontento verso determinate politiche governative e se è possibile che, in una democrazia parlamentare, taluni scontenti possano determinare una modificazione negli equilibri politici delle istituzioni, è certo che tali anomale costruzioni determinerebbero un deterrente preventivo per mantenere in piedi Governo e legislatura a tutti i costi.
Nessuna maggioranza disastrosa e nessuna esperienza governativa profondamente deludente potrebbero essere messe in discussione. La decisione sarebbe tutta nelle mani del premier, che ha gli strumenti per rimanere fedele a tutti costi all'iniziale mandato.
Se la preoccupazione fosse quella di mantenere una coerenza con la volontà espressa dall'elettorato, sarebbe sufficiente, come noi indichiamo, attingere dall'esperienza tedesca, sistema che garantisce rappresentanza e governabilità.
Nella scelta del Presidente del Consiglio si tiene conto del mandato elettorale, ma il Governo mantiene un carattere parlamentare attraverso lo strumento della sfiducia costruttiva, respingendo l'eccessivo irrigidimento del sistema che deriverebbe da eventuali norme antiribaltoni, come quelle che, peraltro, sono state in questa sede annunciate.
Da parte nostra non ci sono invece contrarietà di principio alla nomina dei ministri da parte del Presidente del Consiglio, cosa che peraltro già indirettamente avviene seppure in un contesto in cui il Presidente della Repubblica ha potuto dialogare e intervenire, stanti le proprie competenze e responsabilità in materia. E le osservazioni pervenute a tali proposte costituiscono l'espressione dello spirito che dovrebbe caratterizzare un sistema parlamentare democratico, evitando di concentrare i poteri in un solo organo ed evitando qualsiasi irrigidimento del sistema.
Ciò vale in particolare se parliamo di forma di governo parlamentare, che ha il suo pregio maggiore nel fatto di accompagnare l'evoluzione delle situazioni sociali e politiche. Se invece si procedesse ad un irrigidimento, con un eccesso di norme formali che non sono previste quasi in nessun sistema, si rischierebbe, di fronte all'evolversi delle situazioni, la presenza di una forma di governo non rispondente alla realtà.
Se l'estromissione del Capo dello Stato dallo scioglimento anticipato è un'ulteriore conferma di voler liberare il potere, nella figura del premier, da ogni possibile limite, l'obiettivo complessivo di voler rafforzare i poteri dello stesso ha naturalmente un'incidenza sui poteri del Presidente della Repubblica, accentuando la mancanza di un equilibrio complessivo del sistema.
Infatti, prevedere che una serie di atti del Presidente della Repubblica non richiedano più la controfirma del Presidente del Consiglio dei ministri o dei ministri competenti appare, a nostro avviso, come un dono avvelenato, proprio nella logica di un equilibrio di sistema che viene destrutturato.
Si è discusso molto circa l'inserimento nella Costituzione di nuove garanzie dopo l'avvento del sistema maggioritario; in particolare, si è parlato di statuto delle opposizioni. Siamo contrari a qualsiasi meccanismo volto a formalizzare la logica dell'alternanza e lo statuto delle opposizioni, non solo il leader delle stesse, sta proprio in questa logica.
Allo stesso tempo, siamo contrari all'istituzione di vincoli costituzionali relativamente a norme proprie dei regolamenti parlamentari, a proposito dei quali la stessa Corte costituzionale ha già manifestato la volontà di non voler interferire.
Gli argomenti che intendiamo approfondire da questo punto di vista riguardano, invece, la possibilità di ricorso alla Corte relativamente alla convalida degli eletti, l'istituzione delle Commissioni di inchiesta parlamentare, vista l'esperienza di questa legislatura, nonché il quorum per l'elezione del Presidente della Repubblica, che perderebbe il suo ruolo super partes se eletto con i soli voti della maggioranza di governo.
A proposito di garanzie, c'è un punto che consideriamo particolarmente importante e delicato, non tanto per le opposizioni, quanto per tutti i cittadini e le cittadine italiane, che riguarda la composizione della Corte costituzionale.
Come è stato sottolineato nel corso di diversi convegni, il triplice meccanismo di nomina dei giudici costituzionali ha lo scopo di far confluire nella Corte esperienze e tendenze diverse, che le consentano di esercitare nella maniera più adeguata le attribuzioni demandatele, conciliando la duplice esigenza di mantenere un collegamento dell'organo con gli istituti della democrazia rappresentativa e di assicurarle garanzie di indipendenza analoghe a quelle proprie del corpo giudiziario.
Fortunatamente, il testo al nostro esame corregge quello originario, che prevedeva persino una modifica nel numero dei componenti (gli attuali quindici), frutto anche questo di rigorose valutazioni, come la positiva esperienza insegna.
Inoltre, il passaggio in Commissione ha tentato di porre rimedio - a mio avviso, non risolvendo comunque il problema - ad un altro grave errore relativo alle nomine, proponendo che tre giudici siano nominati dalla Camera dei deputati e quattro dal Senato federale. Noi, invece, siamo assolutamente convinti che l'articolo 135 della Costituzione debba rimanere invariato in tutti i suoi aspetti, prevedendo cinque giudici nominati dalle supreme magistrature ordinarie e amministrative, cinque dal Presidente della Repubblica e cinque dal Parlamento in seduta comune.
Solo così si ha infatti la certezza di garantirne l'alto grado di unità e di rigore, non di parte, sapendo che proprio la sua composizione preclude che, nel suo ambito, si confrontino interessi giuridicamente rilevanti, impersonati da poteri in conflitto. La Corte deve dirimere tali conflitti, non riprodurli al suo interno, come accadrebbe in una logica di pretesa rappresentanza regionale; qui risiedeva la logica dei sette giudici espressi dal Senato, all'origine della proposta, che determinerebbe soltanto un processo di politicizzazione di un organo di giustizia costituzionale.
Affronteremo dettagliatamente i diversi aspetti dei 42 articoli al nostro esame e abbiamo già detto sulla valutazione politica di fondo a proposito della cosiddetta devolution; durante l'esame degli emendamenti
approfondiremo non solo il giudizio sugli elementi di disgregazione dal punto di vista sociale che si determinerebbero sul piano dei diritti fondamentali come la salute, l'istruzione e la sicurezza, ma persino gli interrogativi e le incongruenze che un tale provvedimento determinerebbe.
Come il lavoro in Commissione ha dimostrato e nonostante i numerosi emendamenti presentati dall'opposizione, il nostro sforzo è stato quello di contestare e proporre alternative nel merito del disegno di legge. Anche i numerosi emendamenti soppressivi sono infatti il frutto di ragionamenti approfonditi, nella convinzione che la nostra Carta Costituzionale conservi una straordinaria attualità e vada quindi salvaguardata nella sua sostanziale interezza. Tuttavia, la riforma del Titolo V e le nuove competenze, nonché la conflittualità che ne deriva, pone certamente il problema di correggere determinati aspetti, che tengano conto delle sentenze della Corte, ma non soltanto. Naturalmente su tutti gli aspetti da me citati, ma anche su altri richiamati in quest'aula, siamo pronti ad un confronto, ma riteniamo che sia quantomeno doveroso riuscire a circoscrivere le materie e soprattutto offrire un terreno di confronto rigoroso di democrazia «democratica», ciò che a mio avviso manca in questa sede per le modalità e il percorso seguiti.
Daremo, dunque, battaglia in Parlamento e lavoreremo anche all'esterno per far conoscere ai cittadini quale è effettivamente la posta in gioco. Nella malaugurata ipotesi in cui il provvedimento in esame dovesse essere approvato in Parlamento, sarà il referendum a determinarne l'approvazione definitiva. Noi naturalmente faremo di tutto per bocciarlo.
Sono temi difficili e forse non particolarmente attraenti per cittadini e cittadine già obbligati a lottare per arrivare alla fine del mese, facendo quadrare i conti, e che assistono pressoché impotenti ad uno scenario mondiale di guerre e di miseria. Ma proprio per affrontare un quadro tanto drammatico è necessario restituire la politica ad una vera partecipazione popolare e che lo straordinario movimento, soprattutto di giovani, resosi visibile per contrastare la guerra, possa incidere sulle tante precarietà imposte dalle vostre politiche, di cui è intriso anche il Trattato della Costituzione europea.
L'autunno che ci aspetta porta nella sua agenda tutti questi temi, perché la quotidianità della nostra vita, anche quella materiale, è strettamente connessa al grado di democrazia garantito. Non è un caso se il movimento dei movimenti ha costruito un consenso così ampio sul pianeta, proprio a partire dalla contestazione dei luoghi a-democratici e tecnocratici, guidati da pochi potenti della terra che pretendono di decidere le sorti di tutti. La nostra difesa dei principi costituzionali in questa sede ha la pretesa di avere anche questo respiro strategico. (Applausi dei deputati dei gruppi di Rifondazione comunista, dei Democratici di sinistra-L'Ulivo e della Margherita, DL-L'Ulivo).
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Carrara. Ne ha facoltà.
NUCCIO CARRARA. Signor Presidente, onorevoli colleghi, è fin troppo ovvio che ogni parlamentare porta con sé, nell'aula del Parlamento, il proprio bagaglio culturale, le proprie esperienze e le proprie aspirazioni. Potremmo quindi dire che, se fosse affidata ad ogni singolo parlamentare la redazione di un testo costituzionale, ogni deputato scriverebbe una Costituzione diversa dagli altri colleghi. In sintesi, voglio dire che dentro di noi c'è sempre una Costituzione ideale e ognuno propone soluzioni che ritiene essere le migliori. Ma ogni uomo politico ha il dovere di confrontarsi con il proprio tempo, con il contesto in cui agisce e con il proprio senso di responsabilità. Dovrebbe, quindi, mettere da parte le soluzioni ideali e cercare quelle possibili.
Tali soluzioni vanno cercate, ovviamente, anche in collaborazione con le forze di opposizione, qualora esse dimostrino volontà di collaborare e dimostrino di volere un assetto costituzionale nuovo. Va, infatti, sottolineato un ulteriore aspetto: in questa fase, non siamo chiamati
a scrivere la Costituzione definitiva, destinata a valere per secoli e millenni; siamo chiamati a scrivere una Costituzione che modernizzi lo Stato, che risponda alle esigenze e alle istanze della società civile e al mandato elettorale che è stato conferito alle forze di maggioranza e che corregga i guasti della Costituzione vigente. L'unico termine di paragone è infatti dato dalla Costituzione vigente. Il testo che andiamo ad esaminare non va dunque paragonato con il testo che ciascuno di noi ha nella propria mente, ovvero con il testo perfetto, ma va rapportato e confrontato con la Costituzione vigente.
Mi rivolgo non soltanto ai colleghi dell'opposizione, ma anche a quelli della maggioranza. Infatti, circola - non si comprende bene come - una certa vulgata che trova sensibili anche alcuni parlamentari di maggioranza. Con riferimento, ad esempio, al mondo che sottolinea giustamente il valore dell'unità nazionale, qualcuno pone il dubbio che ci si trovi di fronte alla disgregazione dello Stato e dell'unità nazionale, quasi si fosse all'anno zero delle riforme. Come tutti sappiamo, in Italia si parla di riforme da oltre vent'anni, e ne sono state realizzate poche. Va tuttavia sottolineato che nella precedente legislatura è stato modificato il Titolo V della Costituzione, e oggi siamo chiamati a confrontarci con tale riforma. Dunque, con riferimento all'unità nazionale, va sottolineato in primo luogo che non vi è alcun rischio di disgregazione dello Stato: al contrario, il rischio di disgregazione dello Stato è presente nel testo vigente, a norma del quale vi sono regioni a statuto ordinario, regioni a statuto speciale e regioni che possono, se lo richiedono, appropriarsi di particolari poteri, diventando anche esse speciali o, forse, anche più speciali di altre regioni.
L'articolo 117 nel testo vigente prevede che lo Stato possa normare alcune materie e che le regioni possano normare altre materie, e si prevede anche che sulle materie non espressamente indicate la competenza spetti alle regioni. Ci troviamo di fronte a una devoluzione - perché di devoluzione si tratta - abborracciata e confusionaria, che ha prodotto moltissimo contenzioso, e che, se resterà in vigore, continuerà a produrre contenzioso.
Come legislatori, facendo appello al nostro senso di responsabilità, dobbiamo porci il problema, correggendo le sfasature del testo vigente, riducendo il contenzioso presso la Corte costituzionale e salvaguardando l'unità della Stato. Al riguardo, bene ha fatto il Senato a prevedere la soppressione del comma 3 dell'articolo 116.
Il comma sostiene esattamente che alla regione richiedente possono essere concesse ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia, concernenti le materie di cui al terzo comma dell'articolo 117. Traducendo, si tratta di tutte le materie a legislazione concorrente; queste ultime - non sono poche - sono di grande rilievo. Mi riferisco addirittura al commercio con l'estero, all'istruzione, alla tutela della salute, all'alimentazione, alle grandi reti di trasporto e di navigazione, all'ordinamento della comunicazione e alla produzione, al trasporto e alla distribuzione nazionale dell'energia; tutte materie che oggi hanno prodotto un grande contenzioso. Ecco, queste materie - e non solo queste - possono già essere affidate alla competenza di una regione che ne faccia richiesta. La regione richiedente, inoltre, può anche espropriare un po' lo Stato delle sue competenze; mi riferisco, per esempio, alla lettera l), che riguarda la giurisdizione e le norme processuali, l'ordinamento civile e penale, la giustizia amministrativa. In questo caso, però, la possibilità di appropriarsi di poteri da parte della regione è limitata al solo giudice di pace. Se si fa riferimento alle lettere l) ed s), ad una regione può essere concessa una particolare autonomia per legiferare in ordine a norme generali sull'istruzione; infatti, quest'ultima è già compresa nelle materie a competenza concorrente. Stiamo parlando quindi di una grande sfasatura che ha prodotto un grave allarme nell'ambito delle forze che compongono l'attuale maggioranza e l'attuale opposizione, che hanno presentato tantissimi emendamenti.
A questo punto va sottolineato il senso di responsabilità del ministro e della maggioranza perché - come abbiamo appreso ieri - molte di queste proposte verranno accettate, anche sulla falsariga del lavoro fin qui svolto dalla Corte costituzionale. Quindi, per il futuro un'enorme mole di contenzioso potrà essere evitata, e sostengono il falso coloro i quali pensano che la devoluzione porterà ad una ulteriore crisi dell'unità dello Stato. Va sottolineato, infatti, che la devoluzione non traumatizza il principio di unità, ma razionalizza - in ordine al potere delle regioni - alcune materie che già oggi sono di competenza regionale, ma comprese in un contesto normativo poco chiaro e farraginoso che ha già prodotto e potrà produrre ampio contenzioso presso la Corte costituzionale.
Quindi, ci troviamo di fronte ad un processo di razionalizzazione e non di ulteriore spinta verso la crisi dell'unità dello Stato. Voglio sottolineare tutto ciò affinché vengano fugati i dubbi e si abbia coscienza di tutto quello di cui si sta discutendo.
Un'altra norma da porre all'attenzione dei colleghi - e che il Senato ha giustamente modificato - riguarda la possibilità per le regioni di creare organi comuni, senza specificare nulla circa la loro natura. Ciò, tradotto in termini più semplici, significa che con questa Costituzione alcune regioni, qualora lo volessero, potrebbero - tra virgolette - «consorziarsi», creare una macroregione con poteri - perché no? - anche legislativi; infatti non vi è un esplicito divieto in questa direzione o una perimetrazione precisa dei poteri delle regioni. Ebbene, il Senato ha deciso di privilegiare le forme associative, anche se gli organi che si andrebbero a costituire possono semplicemente avere funzioni amministrative e non legislative. Quindi, si tratta di un ulteriore recupero che va nella direzione dell'unità e non della disgregazione del tessuto nazionale. In ogni caso, altre cose vanno aggiunte a ciò che ho sin qui detto. Il testo predisposto attraverso la disponibilità del ministro, la collaborazione del tavolo politico e del tavolo tecnico - che noi speriamo di poter approvare in quest'aula - reintroduce e migliora, per esempio, l'interesse nazionale.
Nella Costituzione previgente, cioè quella in vigore prima della riforma del Titolo V, quando i poteri delle regioni erano minimi, ci si era preoccupati di sottolineare che i poteri delle regioni non potessero travalicare l'interesse nazionale.
Guarda caso, nella riforma dell'Ulivo l'interesse nazionale è scomparso, creando seri problemi interpretativi alla Corte costituzionale. Laddove si è resa conto che alcune funzioni non possono non essere esercitate dallo Stato, per necessità di unitarietà anche organizzativa ed amministrativa, la stessa Corte ha dovuto fare ricorso al principio di sussidiarietà e non anche all'interesse nazionale.
Ebbene questa norma, molto positiva, contenuta nel testo del Senato, viene ulteriormente migliorata e semplificata nell'ambito del tavolo tecnico, resa più agevole e più comprensibile e, speriamo, anche più efficiente.
Quindi, c'è già un paletto in questa riforma che si vuole realizzare, cioè l'interesse nazionale, rispetto al quale devono arretrare tutti gli altri poteri, tutte le autonomie, perché quando è in gioco l'interesse nazionale è giusto che questo prevalga su altre istanze, anche se legittime.
Altro punto che va sottolineato, e che ci tranquillizza ulteriormente sulla tenuta del sistema è la cosiddetta clausola di flessibilità o, come noi preferiamo definirla, la cosiddetta clausola di supremazia, che esplicita più compiutamente un principio già contenuto nell'articolo 120 della Costituzione, a cui la Corte costituzionale ha fatto ricorso anche attraverso dei funambolismi - quasi arrampicandosi sugli specchi, lo voglio dire con tutta chiarezza - e, forse, anche interpretando il sentire dell'italiano medio.
Ebbene, l'articolo 120 della Costituzione in questo punto è stato riscritto, per cui è stato chiarito che, in casi ovviamente particolari, quando è in discussione la sicurezza nazionale, quando bisogna garantire l'unità dell'ordinamento ed i diritti minimi civili e sociali, lo Stato può appropriarsi
della funzione legislativa senza tenere conto dell'ambito territoriale delle singole regioni.
Questo è uno strumento che nell'attuale Costituzione non c'è: ci sarà - lo speriamo - nella prossima Costituzione, quella che noi ci auguriamo di approvare; allora, fate il confronto! Fate il confronto, voi che avete a cuore l'unità dello Stato, fra quello che noi vogliamo realizzare e quello che c'è; perché, se non realizzeremo questa riforma - è inutile farsi illusioni - resterà in vigore il testo vigente, un testo che non va bene a nessuno. Anzi, non si riesce a capire chi abbia prodotto questo testo, perché si tratta di una riforma di una maggioranza ulivista, ma se si chiamano ad uno ad uno i deputati ed il leader dell'Ulivo nessuno si assume la paternità di questa riforma.
Allora l'invito è il seguente: ripensiamo questa riforma, accettiamo le modifiche che il ministro si è dichiarato disponibile ad apportare, che sono modifiche di peso perché tengono conto di emendamenti che sono venuti, soprattutto direi, da deputati dell'opposizione.
Nel nuovo articolo 117 della Costituzione, se dovesse essere approvato così come sarebbe nelle intenzioni delle forze di maggioranza, la tutela della salute, ad esempio, che è un di più rispetto alla sanità, sarà materia di esclusiva competenza dello Stato, come anche la sicurezza alimentare e poi altre materie che, si è detto giustamente, non sono del tutto riconducibili, soprattutto quando assumono una valenza nazionale, al potere delle regioni.
Mi riferisco alle grandi reti strategiche di trasporto e di navigazione di interesse nazionale - in questa materia, le norme le detterà soltanto lo Stato -, all'ordinamento della comunicazione, all'ordinamento delle professioni intellettuali, alla produzione, al trasporto e alla distribuzione nazionale dell'energia. Quindi, l'articolo 117 della Costituzione è stato, per così dire, asciugato, migliorato alla luce dell'esperienza sin qui maturata e soprattutto alla luce delle sentenze della Corte costituzionale.
Vogliamo rinunciare alle predette modifiche sostanziali per lasciare le cose così come stanno? Noi riteniamo che occorra andare avanti e che sia necessario correggere le distorsioni fin troppo evidenti del testo vigente.
Passiamo ad un secondo argomento che a noi di Alleanza nazionale sta particolarmente a cuore e sul quale l'opposizione ha quasi aperto un fuoco di sbarramento: il premierato. Qui va fatta una premessa: noi di Alleanza nazionale, chi vi parla in particolare, siamo sempre stati sostenitori - non è una novità - dell'elezione diretta del Capo dello Stato. Voglio ricordare a me stesso che nel programma elettorale della Casa delle libertà figuravano al secondo punto dell'elenco, tra le cinque grandi missioni per cambiare l'Italia, la riforma dell'architettura istituzionale dello Stato, l'elezione diretta del Capo dello Stato, la devoluzione alle regioni delle responsabilità per scuola e sanità e per la difesa dei cittadini dalla criminalità urbana.
Ora, abbiamo il dovere di rispettare il mandato elettorale: siamo stati eletti per realizzare le riforme indicate nel programma e non per stare qui a perdere tempo od a rinviarle sine die, secondo il costume di una vecchia, obsoleta e superata classe politica. Abbiamo ricevuto un mandato elettorale in tal senso!
Si è detto che, quando si tratta di realizzare una riforma istituzionale, bisogna tenere conto delle istanze delle opposizioni. Ebbene, per senso di responsabilità, abbiamo fatto qualche passo indietro. A tale proposito, può essere utile leggere le proposte che l'Ulivo ha messo per iscritto nel suo programma elettorale.
Al secondo punto - guarda caso, anche nel programma dell'Ulivo si tratta del secondo punto! - si parla di modernizzazione dello Stato, a partire dall'istruzione e dai servizi pubblici, fino alle istituzioni ed alla costruzione del federalismo: parole chiarissime! Le istituzione riformate prevedono - prosegue il programma - una Camera federale (quella che noi ci apprestiamo a realizzare), più snella dell'attuale Senato (infatti, abbiamo
diminuito il numero dei senatori), ed una legge elettorale che affidi agli italiani la scelta della maggioranza di governo e del Primo ministro.
Vi domando cosa significhi affidare al corpo elettorale la scelta del Primo ministro e del Governo. Evidentemente, significa che alle forze politiche ed ai parlamentari non è consentito di sentirsi affrancati dal voto elettorale, di sentirsi liberi di fare ciò che vogliono in quanto destinatari di un mandato in bianco. No, il mandato è preciso perché debbono essere gli italiani - e soltanto loro - ad indicare il Primo ministro ed il suo Governo! Nel programma dell'Ulivo è anche previsto lo scioglimento delle Camere se viene meno la fiducia al Governo: lo scioglimento tout court!
Quindi, l'Ulivo si proponeva di realizzare una riforma che, probabilmente, era più forte rispetto al premierato che sta venendo fuori dal testo che noi stiamo elaborando. Allora, perché ci accapigliamo se, sostanzialmente, vi siamo venuti incontro su posizioni «più deboli» rispetto a quelle che pure piacevano quando è stato scritto il programma elettorale dell'Ulivo?
A questo punto, dovrebbero essere concordi gli intenti di tutte le forze politiche, nessuna esclusa. Invece, sul premierato sento proporre argomentazioni assolutamente pretestuose. Esse provengono, anzitutto, dai laudatores temporis acti, da quelli che lodano quel «glorioso passato» in cui non si riuscì mai a dare all'Italia i Governi stabili che la gente sostanzialmente vuole, da quelli che non riuscirono mai ad individuare il luogo sicuro della decisione.
Ebbene, vi è ancora chi loda il bel tempo passato quando tutto era frutto di «inciucio», ogni partito riteneva di essere affrancato dal voto popolare e di poter creare tutte le maggioranze che voleva all'interno del Parlamento partendo dal presupposto che la sovranità era nel Parlamento. Per noi invece la sovranità del Parlamento è sovranità delegata! La vera sovranità sta nel corpo elettorale!
Sebbene, purtroppo, non si proceda verso una riforma che prevede l'elezione diretta del Capo dello Stato, possiamo ritenerci soddisfatti nel dare al corpo elettorale la sovranità nella scelta del primo ministro e del Governo. È il popolo che sceglie il primo ministro e il Governo, anche sulla base di un programma. In primo luogo, occorre informare gli italiani sulle azioni da intraprendere. Successivamente, occorre rispettare tale programma; è tenuto a farlo sia il primo ministro sia il Governo. Queste cose quindi devono stare insieme.
La Camera dei deputati, che nella prossima riforma sarà l'organo politico, sarà legittimata tanto quanto lo è il premier e il rapporto di fiducia non può essere messo in discussione. In tal caso, infatti, non ci sarebbero più i presupposti del mandato elettorale. Quando si rompe il rapporto di fiducia tra gli eletti e gli elettori, tra il premier e la sua maggioranza, bisogna dare nuovamente la parola al corpo elettorale. Non mi si dica che in questo contesto intendiamo indebolire un organo di garanzia quale il Presidente della Repubblica. Non si capisce se i «difensori» del Presidente della Repubblica siano tali perché credono realmente in ciò che affermano o perché, essendo ormai difficile contrastare questa riforma sulla base dei fatti e dei ragionamenti, cercano di trovare un appiglio per dire «no».
Noi invece abbiamo rafforzato i poteri del Presidente della Repubblica come organo di garanzia. Negli accordi che sono stati raggiunti è previsto che il ribaltone non possa essere fatto né dalla maggioranza né dal premier. Il Presidente della Repubblica è garante del rispetto del voto popolare. Dunque, se il premier, stanco di una forza politica che lo sostiene e che con lui si è presentata di fronte al corpo elettorale, volesse attingere ad una o più forze politiche dell'opposizione snaturando la maggioranza uscita dalle urne, il Presidente della Repubblica lo inviterebbe alle dimissioni e, qualora non si adeguasse, potrebbe sciogliere la Camera che è organo politico ed ha un rapporto fiduciario con il premier. Vi sembra poco questo potere del Presidente?
È stato altresì previsto che il premier possa chiedere il voto di fiducia su una materia di competenza del Senato, ma solo se la materia o la norma è strategicamente funzionale all'attuazione del programma. Se invece sostenere che tale norma è funzionale all'attuazione del programma dovesse rivelarsi un pretesto, di fronte ad un pretesto del Primo ministro il Presidente della Repubblica ha il potere di intervenire e di invitare il Primo ministro stesso a rispettare la Costituzione. Ciò che si chiede deve essere essenziale per l'attuazione del programma di Governo.
Nelle norme che si vogliono approvare, dunque, vi sono pesi e contrappesi. È una riforma equilibrata nel rapporto premier-maggioranza, premier-maggioranza-programma di Governo e premier-Presidente della Repubblica.
L'ultima osservazione che vorrei svolgere, sul filo di una polemica anch'essa del tutto pretestuosa, è relativa al costo del federalismo.
Signor Presidente, onorevoli colleghi, è giusto che vengano posti dei paletti e che venga ripristinata la verità storica. La polemica in questione è partita, giorni fa, da alcuni articoli pubblicati sul Corriere della Sera, allarmistici e allarmanti. Mi domando, allora: ma gli studi in materia sono stati condotti sul federalismo che ci sarà o potrebbe esserci, oppure su quello già vigente? È questo l'interrogativo, perché elaborare studi sul federalismo che potrebbe esserci mi sembra piuttosto arduo, poiché bisognerebbe avere la sfera di cristallo! Allora, chiariamoci: tali studi sono stati svolti sul federalismo esistente, e neanche sul federalismo che è stato avviato con la riforma del Titolo V della parte II della Costituzione, nel 2001, bensì sul federalismo che è stato varato, nel 1997, con la prima legge Bassanini!
Vi ricordate, onorevoli colleghi, quando la sinistra si vantava di aver prodotto una riforma federale «a Costituzione vigente»? Vi ricordate, onorevoli colleghi, quando la sinistra affermava che, prima di modificare la Costituzione, avrebbe tolto allo Stato tutti i poteri che sarebbe riuscita a sottrargli per attribuirli alle regioni, poiché doveva valere il principio per cui lo Stato avrebbe dovuto svolgere poche funzioni, mentre tutto il resto avrebbe dovuto essere assegnato dalle regioni?
Da quell'epoca, vale a dire dalla legge n. 59 del 1997, ha inizio la riforma federalista, in ordine alla quale dobbiamo calcolare i costi. E non lo sostengo solo io! Ciò non sfugge neanche a Giovanni Sartori, il quale ha sì affermato quello che sappiamo (vale a dire che, con l'introduzione in Italia del federalismo, i costi sono lievitati del 40 per cento, e via dicendo), ma ha sostenuto altresì, con riferimento allo studio elaborato dall'ISAE, che il federalismo avviato nel 1997 ha comportato un aggravio per i conti dello Stato di almeno 61 miliardi!
Vorrei evidenziare come ci si riferisca al federalismo che parte dal 1997; allora, anche in questo caso, vediamo quali costi comporterà il nuovo assetto federale dello Stato rispetto a quelli dell'attuale assetto federale! Vorrei evidenziare da subito che, con il trasferimento di alcune materie dalle regioni allo Stato, sempre sulla scorta delle indicazioni avanzate dalle opposizioni...
PRESIDENTE. Onorevole Carrara, concluda!
NUCCIO CARRARA. ...nonché da alcuni deputati della maggioranza, si semplificherà ad esempio il contenzioso, alcuni poteri resteranno al centro (perché si dovranno diffondere su tutto il territorio nazionale in maniera uniforme), e già ciò comporterà un risparmio per i conti pubblici.
Signor Presidente, non intendo dilungarmi in ulteriori considerazioni; tuttavia vorrei formularne una: infatti, abbiamo esplicitamente inserito una clausola di salvaguardia, la quale prevede che il federalismo che vorremmo realizzare non dovrà comportare aggravi di spesa.
Infine, mi sia consentita un'osservazione che intendo svolgere quasi da «uomo del popolo», perché vorrei che anche la gente comune si appassionasse a questa materia: vi sembra poco alleggerire
di 195 parlamentari il prossimo Parlamento? Centonovantacinque parlamentari in meno rappresenteranno un risparmio per lo Stato o no? Ebbene, se farete qualche conto, vi accorgerete che 195 parlamentari in meno comporteranno un risparmio per legislatura che oscillerà tra i 600 e i 1000 miliardi di vecchie lire. È poco? Scusateci, ma comunque non si potrà parlare di aggravio di costi (Applausi dei deputati dei gruppi di Alleanza nazionale e di Forza Italia - Congratulazioni)!
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Merlo, al quale ricordo che ha a disposizione sette minuti. Ne ha facoltà.
GIORGIO MERLO. Signor Presidente, conterrò il mio intervento nei sette minuti a mia disposizione, anche perché ciò che è stato detto in questi giorni è stato già molto e credo che avremo modo di articolare meglio il confronto nel momento in cui conosceremo anche gli emendamenti del Governo.
Vi è, tuttavia, una domanda cui non si riesce, a tutt'oggi, di trovare una risposta convinta e convincente da parte del Governo, malgrado gli incontri e la complessa composizione dei vari interessi e delle varie convenienze all'interno del centrodestra. La domanda è questa - non c'è il ministro, ma anche il sottosegretario credo abbia l'autorevolezza di poter dare una risposta -: qual è la necessità stringente, impellente, inderogabile, la motivazione vera per cui noi oggi dovremmo riformare la Costituzione? Quali sono le buone leggi che non si sono potute varare per colpa della Costituzione? Sono domande semplici, banali, ma alle quali - a tutt'oggi - i propugnatori, a parte la riduzione del numero dei parlamentari, non sono riusciti a dare una risposta convincente. Qui, infatti, è in questione un elemento molto più importante rispetto ai singoli emendamenti che ieri, in modo un po' abborracciato, il ministro ci ha illustrato. È in questione il disegno fondamentale della Repubblica e, dunque, la qualità della nostra vita democratica. Su ciò è doveroso riflettere, prima di decidere.
Il primo aspetto della riforma che la Camera è chiamata a discutere, come tutti sappiamo, è la cosiddetta stravagante devoluzione, ovvero l'attribuzione di nuove competenze legislative alle regioni in materia di sanità, di istruzione e di polizia. Se verrà attuata, la riforma aggraverà i conflitti e la confusione, come molti osservatori ci hanno detto, di prerogative tra Stato e regioni, già aperti, purtroppo, dalla frettolosa riforma del Titolo V della Costituzione del 2001. Essa favorirebbe - è bene che tutti cittadini lo sappiano - gravi diseguaglianze delle libertà fondamentali e dei diritti sociali dei cittadini, in evidente contrasto con il principio dell'uguaglianza democratica sancito nella prima parte della Costituzione.
Spendere milioni di euro, oltre quelli già spesi, per creare nuovi conflitti e nuove diseguaglianze non è davvero un capolavoro di saggezza politica. A questa domanda né Brancher, né il ministro, né la maggioranza offrono risposte convinte e convincenti.
Mentre è molto chiaro il danno, non si vede, ancora una volta, il vantaggio di questo cambiamento. Il buon governo non è il risultato del potere, bensì della saggezza politica, della capacità di dialogare con l'opposizione e di realizzare ragionevoli compromessi, tre elementi non ricercati dal centrodestra. La Costituzione, è bene ricordarlo - ieri Castagnetti lo ha ripetuto -, è la legge fondamentale dello Stato che definisce le regole per l'esercizio del potere sovrano ed ha una sua coerenza. Nella politica italiana tutti, persino voi della destra, si ritengono e si qualificano come riformisti. Noi crediamo che, di fronte alla riforma costituzionale, bisognerebbe avere, invece, il coraggio di essere un po' più conservatori e dire apertamente che la migliore di tutte le riforme è procedere con prudenza, con senso dello Stato, con rispetto delle istituzioni e rispettare e realizzare soprattutto i principi della Costituzione - che, per fortuna, abbiamo - attuando una riforma capace di non stravolgere l'impianto complessivo del nostro Stato.
Del resto, pur avendo un rispetto profondo delle istituzioni, noi abbiamo cercato di perseguire l'obiettivo di riformare l'organizzazione dello Stato e abbiamo cercato di fare ciò negli ultimi anni attraverso una revisione profonda dell'ordinamento che, ci rendiamo conto, va completata. Sotto tale aspetto, però, non si può affermare che siamo all'anno zero delle riforme, né per quanto concerne la forma di governo, né per quanto riguarda la forma dello Stato. Sappiamo che la riforma elettorale non può esser sufficiente a risolvere i problemi di governabilità e di stabilità di una democrazia governante. Si riconosce, quindi, che innovazioni e stabilizzazioni di natura costituzionale sono necessari per garantire maggior forza al Presidente del Consiglio e maggiore stabilità al Governo, ma ciò non può avvenire che in due modi: o si cambia la forma di governo, per avvicinarla a quella semipresidenziale - o presidenziale -, ma con i contrappesi e le garanzie proprie di tale forma di governo, o si rimane fedeli al sistema parlamentare, adottando le indispensabili misure di consolidamento del Governo e del Presidente del Consiglio.
Le norme riguardanti la forma di governo contenute nel disegno di legge costituzionale - è stato detto, ma è bene ripeterlo - sfuggono interamente all'uno e all'altro modello e danno vita a un sistema indefinibile contenente forzature e incongruenze che snaturano di fatto il sistema parlamentare e avviano l'ordinamento verso il puro arbitrio incontrollato.
Ciò che più sorprende in una riforma così ampia della seconda parte della Costituzione - e faccio riferimento all'unico esempio concreto, su cui mi soffermerò brevemente - è la completa assenza di norme di garanzia e di contrappesi efficaci al rafforzamento dell'istituto del Governo e del Presidente del Consiglio. Quella delle garanzie è una questione importante: tutto il costituzionalismo moderno è fondato sulla novità delle Costituzioni rigide e sui limiti da porre alle maggioranze per evitarne la tirannia.
Signor Presidente, concludo dicendo che il comportamento politico concreto della maggioranza conferma ancora una volta, a nostro giudizio, la sostanziale indifferenza nei confronti di un metodo democratico che resta decisivo per poter riscrivere le regole fondamentali dello Stato, e cioè il metodo della comune condivisione dei principi e delle regole che presiedono alla nostra Repubblica. È un errore - concludo veramente - che può avere effetti devastanti per il rafforzamento della nostra democrazia e il consolidamento delle nostre istituzioni. Noi ci batteremo per impedire questo (Applausi dei deputati dei gruppi della Margherita, DL-L'Ulivo e Misto-Popolari-UDEUR).
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Cusumano. Ne ha facoltà. Ricordo all'onorevole Cusumano che ha dieci minuti di tempo a disposizione.
STEFANO CUSUMANO. Signor Presidente, onorevoli colleghi, onorevole rappresentante del Governo, il tentativo testardo di porre mano alla revisione di un testo che in questi ultimi cinquant'anni si è progressivamente arricchito di significati che nel suo disegno complessivo lo rendono sempre vivo ed attuale suscita dubbi e, soprattutto, preoccupazione.
La modifica della Carta costituzionale non può essere una partita che si gioca nel perimetro della sola maggioranza, perché tutto ciò cancella maldestramente il grande lavoro fatto da grandi costituzionalisti e da grandi leader politici sulla linea dell'equilibrio tra i poteri, sulla visione unitaria dello Stato senza straripamenti di alcun tipo. Insomma, è una Costituzione che ha retto per un lungo cinquantennio a tutela delle istituzioni democratiche e repubblicane. Ciò che è mancato è stata una sorta di condivisione responsabile verso un percorso di riforme che avrebbe richiesto l'abbattimento di steccati di comoda convenienza e l'esaltazione di un unico comune denominatore: far rivivere la nostra Carta costituzionale con degli opportuni aggiustamenti, mirati a renderla sempre più attuale rispetto alle sfide che ci stanno davanti e rispetto alle condizioni geopolitiche che hanno segnato la vita e la
democrazia del mondo occidentale, prima fra tutte la nuova Europa.
Oggi ci troviamo a discutere di una proposta costituzionale mal fatta, squilibrata nella sua struttura di fondo, perché non ha neppure tentato di risolvere, tra l'altro, gli effetti negativi che si sono creati nel nostro ordinamento in seguito all'introduzione della legge elettorale maggioritaria. È una riforma federale che penalizza e impoverisce il sud con il solo fine di soffocarne potenzialità e risorse. La separazione di competenze tra Camera e Senato potrà dare origine a duri conflitti e potrà compromettere il funzionamento del sistema stesso. Il processo legislativo appare complicato, la forma di governo, così com'è, appare assolutamente in controtendenza e il rafforzamento della posizione costituzionale del Primo ministro è eccessiva. In particolare, sul federalismo voluto dalla Lega una larghissima maggioranza di costituzionalisti ha sempre manifestato non poche riserve.
In realtà, si tratta di un federalismo di classe che accentua le differenziazioni tra i ricchi e i poveri e la sua attuazione potrebbe provocare un eccessivo aumento della spesa pubblica.
Alle regioni andrà la potestà esclusiva in materia di sanità, istruzione e polizia locale. Il Senato federale altro non sarà che un'emanazione delle stesse regioni. Tutto ciò comprometterà la prestazione dei servizi essenziali, causerà gravi disparità nei trattamenti e favorirà la proliferazione di burocrazie inefficienti.
Per di più, questo potrebbe mettere a rischio le garanzie di tutti i cittadini circa le prestazioni sociali essenziali. Saranno le regioni meridionali che, con una minore capacità finanziaria ed impositiva, saranno costrette a subire il maggior contraccolpo derivante dalla riduzione dei trasferimenti finanziari.
Il Senato che scaturirà dal progetto di riforma non avrà nulla di federale, perché sarà eletto a suffragio universale e ciò potrà facilmente far evolvere dal punto di vista istituzionale i caratteri del parlamentarismo in un monocameralismo imperfetto; per di più, il Senato appare mal disegnato, in modo tale da non essere mai un buon punto di collegamento fra lo Stato e le regioni.
Venendo ad un altro punto cardine della riforma costituzionale, ovvero il cambiamento della forma di governo, questo fa del primo ministro una sorta di leader onnipotente, al quale è obbligatorio sottomettersi sino alle elezioni successive, anche se nel frattempo questi si riveli inadeguato.
È una forma di governo unica al mondo, basata sulla dittatura elettiva di un solo uomo che, anziché rafforzare il sistema delle garanzie democratiche, le indebolisce drammaticamente. Insomma, si vuole passare da una situazione nella quale è il Parlamento ad avere il potere di sfiduciare il Presidente del Consiglio ad una nella quale sarà il premier che potrà sfiduciare il Parlamento. Si creerà in questo modo sicuramente un sistema nel quale il Parlamento non conterà nulla, sino a perdere qualsiasi autonomia, ed il potere massimo sarà trasferito tutto nella persona del primo ministro.
Così come sta procedendo, la riforma conduce alla frammentazione e alla disgregazione della Repubblica e verso una nuova forma di unità che ridistribuisce garanzie ed autonomia.
In poche parole, tale riforma non approda da alcuna parte e l'unico obiettivo che emerge pare essere un forte indebolimento delle garanzie dei diritti e delle libertà costituzionali. È impensabile che si possa modificare in un solo colpo parte della nostra Costituzione, senza cercare un punto di incontro, un consenso e per di più in un'ottica distruttiva e frettolosa, che invece caratterizza la coalizione di centrodestra.
Le riforme si fanno insieme e la revisione della Costituzione deve essere frutto di un percorso di riflessione in grado di recuperare al meglio l'unitarietà dello Stato.
Il Governo non può pensare di cambiare la Costituzione al solo fine di mantenere l'equilibrio interno alla maggioranza (è quello che sta avvenendo in queste settimane).
Poi, in un momento delicato come quello attuale, esigenze nazionali ed internazionali ci chiedono di adottare riforme che migliorino e non peggiorino l'efficienza del nostro sistema. Accingendomi a concludere, vorrei ribadire che questa riforma ridisegna un assetto istituzionale che non è in grado assolutamente di funzionare, e che, se approvata così com'è, produrrebbe soltanto una profonda confusione ed un conflitto istituzionale costante.
A questo punto è il caso di chiedersi se valga la pena stravolgere la Costituzione repubblicana che, nel bene e nel male, in tutti questi anni ha garantito la coesistenza democratica, la certezza dei diritti e delle libertà fondamentali.
Dalle riforme istituzionali dipende il futuro del nostro paese: il nostro obiettivo sarà quello di puntare ad un progetto che ci renda disponibili ad aprire un dialogo costruttivo e sincero con quelle forze, movimenti ed associazioni che sentono il bisogno di affrontare una sfida in una dimensione bipolare, perché è di una democrazia garantita da percorsi costituzionali chiari e netti che l'Italia ha bisogno (Applausi dei deputati dei gruppi Misto-Popolari-UDEUR e della Margherita, DL-L'Ulivo - Congratulazioni)!
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Michele Ventura. Ne ha facoltà.
MICHELE VENTURA. Signor Presidente, onorevoli colleghi, questa mattina ho ascoltato con grande interesse l'onorevole De Mita, il quale ha tratteggiato classicamente il percorso e la evoluzione politico-istituzionale avvenuta fra il 1948 e il 1968 nel nostro Paese.
Non vi è dubbio che egli abbia parlato di un periodo in cui il sistema politico era sostanzialmente bloccato e, quindi, gli aggiustamenti e le modifiche avvenivano in fasi successive senza produrre un dibattito organico relativamente all'esigenza di un ammodernamento complessivo dello Stato.
Rispetto alle interessanti considerazioni svolte dall'onorevole De Mita questa mattina desidero aggiungere che siamo pervenuti al sistema regionale soltanto nel 1970 e che non è stato mai risolto il punto riguardante la sfiducia nei confronti delle classi dirigenti locali. Una delle cause del collasso avvenuto sul finire degli anni Ottanta è anche da ricercarsi in una volontà di affrancamento rispetto ad un sistema burocratico ed eccessivamente centralizzato. Colleghi, non siamo fra coloro che negano l'esigenza di un ammodernamento istituzionale, l'esigenza di una riforma che sia corrispondente alle problematiche ed alle grandi questioni di fronte alle quali ci troviamo. Il nostro, dunque, è un dissenso di merito: il testo al nostro esame non è condivisibile perché non risolve la questione delle responsabilità, non risponde in termini positivi alla domanda di partecipazione, non è in grado di rispondere in termini di efficacia e di efficienza alle tematiche relative allo sviluppo locale.
Mi riconosco pienamente negli interventi svolti ieri dall'onorevole Montecchi ed oggi dall'onorevole Violante per quanto riguarda l'impianto complessivo della nostra proposta. Nel mio intervento desidero soffermarmi sugli effetti finanziari alla base delle polemiche di queste settimane. Si tratta dei costi del federalismo: potrei dire, affinché non vi siano dubbi, che si tratta dei costi del Titolo V riformato, perché non possiamo separare la proposta che ci troviamo a discutere oggi da ciò che abbiamo fatto alla fine della scorsa legislatura.
La dimensione finanziaria del decentramento, vale a dire l'insieme di spese che la pubblica amministrazione locale deve coprire con nuove risorse autonome, è molto elevata. Ipotizzando il mantenimento degli standard dati dalla spesa storica della pubblica amministrazione, le autonomie locali nel loro insieme si approprierebbero di una quota molto ampia delle entrate complessive del settore pubblico pari - è stato sottolineato da molti - al 40 per cento. Stiamo parlando, ovviamente, della spesa decentrata e non di aumento dei costi. Sembra una cifra estremamente elevata, ma vorrei ricordare che
attualmente la spesa alla quale si fa riferimento è pari al 34 per cento. Ponendosi da tale punto di vista bisogna, dunque, discutere dell'efficacia e dell'efficienza del modello più che dei costi in termini astratti.
Nell'ultimo decennio, la tassazione locale ha registrato un vero e proprio boom. Nel 2003, rispetto al 1993, le entrate fiscali degli enti locali sono aumentate del 178 per cento, passando da 31 ad oltre 88 miliardi di euro (con una media di aumento annuo pari al 12 per cento). Questo dato dell'aumento della pressione fiscale a livello locale va confrontato con ciò che è avvenuto sul piano della fiscalità generale (quindi dell'amministrazione centrale). Nello stesso periodo le entrate da tassazione dello Stato sono passate da 290 miliardi di euro (nel 1993) a 281 miliardi di euro nel 2003 (il 3,1 per cento in meno). Ciò vuol dire che dalla fine degli anni Ottanta in poi, quando la finanza locale era molto contenuta, vi è stata ad opera del decentramento e della nuova offerta di servizi da parte degli enti locali, e in generale da parte degli enti territoriali, una significativa espansione.
Se confrontiamo i dati che evidenziano l'incremento della pressione fiscale locale con quelli che evidenziano il decremento di quella fiscale centrale, troviamo un aumento netto della pressione fiscale. Il che significa - e questo problema continua a permanere - che, a fronte di un decentramento di funzioni a regioni e autonomie locali, non si ha un corrispondente abbattimento della spesa centrale. Quindi, se vogliamo fare una discussione obiettiva, a me sembra che l'allarme dovrebbe riguardare eventualmente la trasformazione di alcuni tributi locali in tariffe. L'esempio più calzante è quello relativo allo smaltimento dei rifiuti: un fenomeno che permette aumenti maggiori e garantisce ulteriori introiti allo Stato con l'applicazione dell'IVA. Il normale contribuente è così doppiamente beffato dall'aumento e dall'impossibilità di detrarsi l'IVA.
Non siamo in grado, oggi, di valutare esattamente la portata di questo costo; diversi centri di studio vi si sono gettati a capofitto, raggiungendo le cifre più varie e disparate, circolate recentemente, ma è possibile ovviamente intravedere i rischi di un inasprimento della tassazione locale, al fine di reperire le risorse necessarie alla piena autonomia. Fummo noi, nella scorsa legislatura, a dare un impulso forte verso il decentramento. Ne conosciamo dunque gli aspetti, anche quelli problematici. Ciò che ora rende la spinta federale più problematica è lo stato dei nostri conti pubblici e la china che essi hanno disceso negli ultimi tre anni. Mi soffermo sui nodi delle competenze in materia di finanza pubblica, che il provvedimento non solo non scioglie, ma provvede ad aumentare, delineando una probabile matassa non facilmente districabile. Quei dati, ai quali prima facevo riferimento (che non sono quindi polemici verso qualcuno in particolare), dimostrano quanto segue.
In questo paese cioè non è automatico che il trasferimento di materie - quando poi si tratta, come emerge anche da questo testo, del mantenimento di una serie di materie non precisamente definite dal punto di vista della competenza e della responsabilità - possa provocare la proliferazione dei centri decisionali in materia di entrata e di spesa, soprattutto in relazione agli equilibri di bilancio della pubblica amministrazione. Il rischio è quello di pregiudicare fortemente la governabilità del sistema della finanza pubblica, ove ogni livello di Governo diventi responsabile delle proprie entrate e delle proprie uscite e senza che vi sia traccia della volontà di creare un luogo di cooperazione e concertazione in materia di programmazione economica e finanziaria.
L'onorevole Carrara ha affermato che vi è una clausola secondo la quale vi sono paletti che non comportano nuovi ed ulteriori oneri, ma non spiega il fatto che quest'ulteriore necessità potrebbe scaricarsi interamente sui livelli territoriali locali (è un problema che mi sembra non sia stato affatto affrontato).
Non vi sono ovviamente (è una questione che ha riguardato il dibattito di agosto) teorie univoche sulla superiorità o meno di un sistema decentrato nei confronti
di uno accentrato dal punto di vista del controllo sul bilancio pubblico (mi riferisco ovviamente al bilancio pubblico). Nel nostro paese, la questione diventa particolarmente delicata: da una parte, lo Stato, tramite il Governo centrale, continua ad essere il responsabile in sede internazionale dell'andamento dei conti pubblici e, dall'altra, lo stesso Governo è chiamato ad una non facile supervisione della gestione finanziaria delle autonomie locali. Permane, inoltre, la necessità da parte del centro di un controllo efficace sui risultati di bilancio della periferia.
Quando poniamo tali questioni, colleghi, crediamo di sollevare questioni vere su cui è indispensabile riflettere, se ragioniamo in termini di tenuta del sistema. Il paradosso, tra l'altro, insito anche nella fortissima spinta federale che viene evocata in questo testo, è una pratica concreta, nel corso di questi anni, di accentramento continuo e di un controllo difficilissimo sugli andamenti della spesa pubblica.
Non so in che altro modo possiamo dare una spiegazione in ordine all'attivazione del cosiddetto decreto taglia spese.
Il provvedimento in esame genererà fortissimi contenziosi (anche il Titolo V riformato ne ha prodotti), stante la confusione che regna nella distribuzione delle competenze e nelle norme che stabiliscono il procedimento legislativo.
È un punto interrogativo, inoltre, quanto accadrà con la fine dei lavori dell'alta commissione per il federalismo fiscale (questione del tutto rinviata).
Infine, appare possibile, nel caso di discordanza tra le due Camere su un medesimo testo, che provvedimenti di tale natura e portata - mi sto riferendo alla finanza pubblica - siano affidati ad una commissione per un estremo tentativo di accordo? La sua messa a regime dovrebbe comportare primariamente la piena controllabilità dei conti dello Stato e delle autonomie, per la quale sono necessari un'armonizzazione dei criteri di redazione dei bilanci, un monitoraggio dell'andamento delle entrate e delle spese più tempestivo ed accurato, ma, soprattutto, la definizione di un luogo di cooperazione in materia di programmazione economica e finanziaria tra Stato, regioni ed autonomie. Di tali intenzioni non vi è traccia nell'articolato ed io, su tale aspetto, inviterei i colleghi della maggioranza ad una riflessione, perché è un punto non secondario.
Colleghi, mi appare oscura la modifica apportata al primo comma dell'articolo 81 della Costituzione, riferito all'approvazione dei bilanci e del rendiconto consuntivo presentati dal Governo, nel quale è sparito il riferimento al fatto che siano specificamente le Camere ad approvare tali provvedimenti. Infatti, mi è sorta la maliziosa idea che tale taglio fosse un primo surrettizio colpo inferto alla sessione di bilancio, che tante noie provoca al Presidente del Consiglio e a numerosi ministri.
MICHELE VENTURA. A ben guardare, soppresso il riferimento specifico dell'approvazione da parte della Camera, soppressa la dizione anche annuale dei provvedimenti di natura finanziaria da esaminare collettivamente (comma terzo, articolo 70), menzionati solo i provvedimenti in materia di bilanci e rendiconto nella procedura legislativa affidata prioritariamente alla Camera, non rimane traccia sostanziale della legge finanziaria così come l'abbiamo conosciuta. Né questa può essere identificata con i citati provvedimenti di perequazione finanziaria o con le materie di cui all'articolo 119 o con il principio dell'armonizzazione dei bilanci e della finanza pubblica.
È anche ipotizzabile - se questa è la lettura corretta - che la legge finanziaria non venga più presentata. Su tali aspetti e su tali nodi occorre fare chiarezza.
Non vi trovate di fronte ad un'opposizione indisponibile ad un confronto, ma ci aspettiamo che questo confronto possa manifestarsi su questioni sostanziali e non solo su aspetti esclusivamente formali (Applausi
dei deputati del gruppo dei Democratici di sinistra-L'Ulivo).
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Taormina. Ne ha facoltà.
CARLO TAORMINA. Signor Presidente, onorevoli colleghi, questo dibattito è iniziato con la forte sottolineatura del nostro Presidente Casini sull'importanza dell'iter legislativo che andiamo consumando.
È la prima volta, infatti, che il Parlamento della Repubblica si occupa di riscrivere la Costituzione negli elementi fondanti dello Stato, toccandone praticamente tutti i poteri. Non si tratta soltanto di una grande riforma, ma anche dell'occasione per disegnare una grande Costituzione, fatta di ciò che concepirono i nostri padri costituenti intorno alla regolamentazione dei rapporti tra individuo e autorità - per utilizzare il titolo di un magistrale volume di Giuliano Amato - e di una moderna configurazione dell'apparato statale imposta dalle molteplici complicazioni applicative della vigente Costituzione e indotte dai tempi attuali e dal mutamento del quadro politico-elettorale internazionale.
Credo si tratti di un compito esaltante al quale tutti dobbiamo fornire un contributo, a cominciare dalle forze politiche di opposizione, le quali non possono dimenticare che uno degli aspetti più rilevanti della riforma in corso, la dimensione federalista dello Stato, ha costituito l'oggetto di un'iniziativa intrapresa, attuata, ma non completata nella precedente legislatura. È dunque insostituibile il contributo costruttivo di chi, nello spirito delle cose, ha già dato prova di condividere questo percorso di ammodernamento dello Stato.
Da questo profilo è complicato comprendere le ragioni del linguaggio accidioso o derisorio che non pochi interventi dell'opposizione hanno palesato, giacché quanto meno poco consapevole dell'alto tasso «suicidiario» in essi racchiuso. Dunque, ad un componente della maggioranza quale io sono spetta solo di esprimere la certezza della episodicità di simili atteggiamenti.
Era fatale - signor Presidente, onorevoli colleghi - che l'attenzione riformatrice ed anche il relativo dibattito si concentrassero su alcuni temi, quali il federalismo e il premierato, per l'alto livello di impatto politico degli stessi. Tuttavia, vorrei permettermi di evidenziare che specialmente un testo costituzionale è fatto di frammenti che, ove non ricondotti ad unità sistematica, possono rischiare di trasformarsi in schegge impazzite.
Il progetto di riforma, invero, interviene su moltissimi aspetti, dalla disciplina dell'iter di attuazione delle leggi al ruolo del Presidente della Repubblica, dalla composizione della Corte costituzionale a quella del Consiglio superiore della magistratura, ma su di essi è doveroso che io raccomandi un supplemento di riflessione, sotto il duplice aspetto contenutistico e sistematico.
Vi sono poi non pochi temi connessi con quelli espressamente trattati, che non risultano nemmeno sfiorati dal disegno riformistico e non so se questo sia possibile o se invece possa implicare rischi, dunque, nemmeno prefigurabili. Penso ancora una volta alla struttura del Consiglio superiore della magistratura ed ai relativi compiti, memore come sono dell'estrapolazione della giurisdizione disciplinare che la Commissione bicamerale, presieduta da Massimo D'Alema, attribuì ad una distinta Alta corte di giustizia. Ma penso anche alla questione dell'immunità parlamentare, che le molteplici novità contenute nel progetto, dal diverso ruolo della Camera dei deputati alla novità assoluta del Senato federale, avrebbero - secondo me - più che consigliato, imposto di prendere finalmente in esame. Mi rendo conto che si sarebbe messa e si metterebbe troppa carne al fuoco, ma ho anche il grande timore che difficilmente una nuova e massiccia revisione, almeno della portata di quella attuale, potrà essere posta facilmente in cantiere. Da ciò potrebbe derivare un ulteriore pericolo per quella frammentazione alla quale dovrebbe essere invece ovviato e della quale parlavo in precedenza.
Con tutto ciò, signor Presidente, onorevoli colleghi, manifesto, per quanto poco possa valere, una mia adesione di fondo all'impianto riformistico. Devo dire che le innumerevoli audizioni inserite dall'ottimo presidente della I Commissione affari costituzionali, Donato Bruno, nei lavori della Commissione, fino a renderle un aspetto predominante di essi, non hanno fatto registrare contrasti di principio, salvo qualche faziosa posizione, da considerare solo pseudodottrinale, di personalità, più che accademiche, di destra e di sinistra, ancora più accese delle nostre partizioni parlamentari. Ed anche oggi, per espressa dichiarazione dei leader politici, il testo licenziato dalla I Commissione, come quello che caratterizza il maxiemendamento, per quanto ne sappiamo, di fonte governativa, non sono - come si suol dire - blindati; se lo fossero stati, trattandosi di riforma costituzionale, contrariamente a quanto accaduto nella precedente legislatura, non sarebbe stata cosa buona e giusta. Da ciò la mia posizione di aperta condivisione del progetto, in unione al tentativo di fornire suggerimenti migliorativi, pronto peraltro a ricredermi, laddove ciò risultasse conseguenza del dibattito in aula.
Signor Presidente, onorevoli colleghi, considero aspetto qualificante l'aver utilizzato questo passaggio riformistico per lanciare le linee parlamentari portanti dello statuto dell'opposizione. L'organizzazione strutturale dell'opposizione è condicio sine qua non del confronto con la maggioranza, nell'ineluttabile esigenza di individuazione di termini soggettivi e strutturali affinché il dialogo possa esplicarsi. In un sistema bipolare ciò costituisce una premessa essenziale per l'attuazione della democrazia e la mancanza di una simile provvidenza può certamente essere additata come causa non secondaria della conflittualità che la politica italiana ha fatto registrare in questi anni.
In un mio scritto, giustamente poco letto, immaginificamente pensai a Palazzo Ferrajoli, notoriamente dirimpettaio di Palazzo Chigi, come alla sede del capo delle opposizioni, nell'ottica, cara al mondo anglosassone, dei governi-ombra. Penso, infatti, che solo così, nella democrazia dell'alternanza, possa realizzarsi il ruolo propositivo dell'opposizione ed il suo controllo sull'operato dei governi. Al di là di questa rappresentazione, credo comunque che l'ottima idea che compare nel testo di riforma possa essere migliorata, attraverso innanzitutto la previsione in Costituzione della figura del capo dell'opposizione, piuttosto che delegare il tutto ai regolamenti parlamentari. Questo non già per un fatto formale, ma perché solo così può efficacemente costituirsi una pari rilevanza tra capo dell'opposizione e capo di Governo. Credo poi che spetti alla Costituzione, soltanto nell'ambito della quale può essere conseguita una reductio ad unum, sciogliere il nodo del raccordo di questa figura con la pluralità delle opposizioni, giacché ritengo in linea con il bipolarismo e con l'eventuale prospettiva di bipartitismo l'istituzione di un unico capo delle opposizioni.
Considero molto cauta la cifra federalista che la riforma impone alla struttura del nostro Stato. Condivido questa cautela ed è merito di alcune forze della maggioranza, a cominciare dall'UDC, aver sottolineato tale esigenza.
Mi sembra di poter dire che i resoconti di stampa di questi giorni ed il preannunciato maxiemendamento governativo diano atto del rispetto di questa impostazione. Ritengo tuttavia di grande importanza il mantenimento della norma di chiusura di cui al quarto comma dell'articolo 117, secondo cui appartengono alle regioni le materie non espressamente riservate allo Stato. Intendo tale previsione nei termini di una riserva di legge costituzionale, e non ordinaria. Se così non fosse, converrebbe riflettere sulla necessità di precisarlo. Sono queste, comunque, le condizioni all'interno soltanto delle quali può trovare attuazione la tutela dell'interesse nazionale nei termini dinamici e preventivi di cui ha parlato l'onorevole Follini nell'intervento dello scorso 3 agosto, unitamente all'esigenza di garantire gli «interessi unitari ed incomprimibili, interessi non elastici e non relativi».
Riguardo all'articolo 117, osservo come un adeguato approfondimento possa svolgersi in questa Assemblea circa l'opportunità di prevedere la competenza delle regioni anche in materia di organizzazione e servizi giudiziari. Si tratta di materie di pertinenza ministeriale, ed è francamente noto a tutti quanto indispensabile sia l'interpretazione delle esigenze locali per determinare una corrispondenza di strutture e moduli organizzatori alle specifiche necessità. Del resto, onorevoli colleghi, dopo questa riforma dovremo riscrivere il sistema giudiziario italiano, nonché quello connesso alle funzioni di polizia. Mi riferisco, per esemplificare, all'esigenza di introdurre la distinzione tra fatti penalmente rilevanti di natura federale, in quanto corrispondenti all'interesse dello Stato nazionale, e fatti di rilevanza regionale. Ma ogni cosa a suo tempo.
Non si può interloquire sulla questione del Senato federale, strettamente connessa alle modifiche all'articolo 117, se la messa a punto non riguarda preventivamente la disciplina dell'iter di formazione delle leggi.
Signor Presidente, onorevoli colleghi, l'attenzione deve essere qui massima, e non casualmente, per quanto mi risulta, la questione non avrebbe trovato alcuna soluzione finale negli incontri tecnici e politici di questi giorni, e nemmeno, a mio parere, nel preannunciato maxiemendamento governativo. Ed è bene che sia così, perché su questo punto meglio del Parlamento nella sua complessività nessuno può e deve dire l'ultima parola. Ritengo che la disciplina prescelta per i casi di bicameralismo attenuato o, se si preferisce, di monocameralismo cauto, si segnali per la bontà delle soluzioni, ed è quindi possibile, con qualche ulteriore accorgimento, raggiungere un risultato suscettibile di essere largamente condiviso.
Rimarco, in particolare, la farraginosità degli interventi correttivi della Camera alla quale non appartiene la specifica competenza per la materia su cui ha deliberato l'altra. Non è comprensibile la ragione per la quale, dopo aver stabilito che a conclusione del percorso l'approvazione definitiva spetti comunque alla Camera competente per materia, venga chiamata ad interloquire, nel mezzo dell'iter, quella non competente. Molto più semplicemente, a meno di stabilire, con un pizzico di coraggio in più, che nessuna legittimazione spetti alla Camera non competente per materia, può ragionevolmente pensarsi alla mera indicazione, da parte di quest'ultima, dei punti non condivisi, sui quali la Camera competente in via diretta nuovamente deliberi.
Ancor più complicato, se possibile, è il meccanismo deliberativo quando sulla materia di competenza del Senato federale venga posta la questione di Governo. La problematica si aggancia al controverso ruolo che il Senato federale dovrebbe assumere, e che deve assumere ineludibilmente all'esito di questo percorso riformistico, se si vuole imprimere allo Stato uno stampo realmente federalista. Non penso che la proposta di Follini di eliminare dalle competenze del Senato federale la materia delle leggi di indirizzo politico possa essere integralmente seguita, giacché si tratta proprio di un momento di riequilibratura del sistema attraverso il quale il Senato federale resta agganciato alla logica della maggioranza (il che, peraltro, è assolutamente da ribadire, non foss'altro perché esso partecipa del potere legislativo in tutta la sua pienezza, nelle materie rispetto alle quali l'iter legislativo rimane improntato al bicameralismo perfetto).
Lungi dal dover ridurre il Senato - come sostenuto ancora una volta dall'onorevole Follini nel già menzionato discorso - ad organo di raccordo con il sistema delle autonomie, proprio la condivisione degli strumenti normativi determinatori l'indirizzo politico anche da parte del Senato federale deve far riflettere sulla possibilità di sganciare questo organismo dalla logica di maggioranza e di governo.
Tornando alla questione di governo, nulla della specificità del Senato federale verrebbe toccato - ed è giusto che sia così - laddove si ipotizzasse che la disciplina dettata dal progetto, per le modalità di intervento della Camera dei deputati - ove la questione stessa sia posta -, debba
valere anche per quest'ultimo. Come la Camera dei deputati si troverà di fronte alla fiducia di nuovo conio, così potrebbe accadere - solo in questo caso - per il Senato federale. Resterebbe da stabilire se, per effetto della sfiducia votata dal Senato, scatti l'obbligo di dimissioni del primo ministro - opinione che appare preferibile - oppure se, a cagione del voto di fiducia espresso dalla Camera dei deputati, questa conseguenza non debba prodursi. Soluzione alternativa, peraltro, potrebbe essere quella del passaggio per la Commissione paritetica di cui al terzo comma del novellato articolo 70; eventualità dalla quale non deriverebbe l'obbligo di dimissioni per il premier. In ogni caso a me sembra impraticabile il percorso per cui di fronte ad una questione di governo il Senato federale, in dissonanza sistematica con ogni altra cosa, possa esercitare un potere paralizzante le cui conseguenze - si badi - non risultano considerate e disciplinate dal progetto.
Quanto al problema dell'interesse nazionale, cioè del contrasto con esso delle leggi regionali, credo che il Senato federale debba rimanere l'unico organo legittimato a procedere alla relativa valutazione: so bene che diverse sono le direzioni ultime sotto questo profilo. Penso che l'idea della Commissione paritetica bicamerale che appare dal testo del maxiemendamento governativo - per come risultante da alcuni resoconti di stampa - dove è configurata come organo di ultima istanza possa racchiudere l'espropriazione di competenze di Camera e Senato federale; ciò in una situazione fortemente simile alle ipotesi in cui il progetto conferma un iter legislativo improntato al bicameralismo perfetto. Pur corrispondendo al vero, va però notato che qualora si preveda l'intervento di una Commissione paritetica bicamerale in caso di contrasto tra Camera e Senato il testo da essa elaborato deve essere infine approvato, pur nel divieto di emendamenti della Camera e del Senato federale. Alternativamente ad un così forte ed innaturale ruolo della Commissione bicamerale paritetica - alla quale spetterebbe addirittura di stabilire se la legge regionale debba essere annullata e di imporre questa decisione al Presidente della Repubblica - potrebbe, forse, essere il caso di uscire da questo sistema che attribuisce al Capo dello Stato un così stravagante, quanto formale potere di annullamento delle leggi regionali. Al contrario bisognerebbe impegnarsi su un ruolo pregnante del Senato federale cui competa però un potere insindacabile di rimettere la questione alla decisione della Corte costituzionale. Non varrebbe obiettare che questo coinvolgimento della Consulta nella procedura in esame è sconsigliato dal ruolo di giudice delle leggi in futuro esercitabile anche sulla specifica materia. Infatti, diverso sarebbe il compito della Corte in questa evenienza rispetto alla valutazione di conflittualità tra leggi regionali e statali.
Signor Presidente, onorevoli colleghi, va preso atto con soddisfazione del giusto punto di equilibrio - condiviso infine anche dall'onorevole Follini - nei raccordi tra primo ministro e Presidente della Repubblica attraverso l'intervento della Camera dei deputati in materia di scioglimento delle Camere. Fermi restando i poteri del premier in tutte le ipotesi diverse dalla presentazione di una mozione di sfiducia nei suoi confronti e fermi restando gli automatismi dell'intervento del Presidente della Repubblica - privo, dunque, di qualsiasi spazio valutativo -, questa seconda ipotesi ben si accorda con il caso di maggioranza diversa da quella originaria sulla base della quale il premier dovesse aver superato lo scoglio della mozione di sfiducia. Per quanto questa soluzione debba essere in qualche modo avallata, tuttavia essa costituisce certamente un vulnus rispetto all'impostazione originaria uscita dalla Commissione affari costituzionali che rendeva ancora più rilevante il ruolo del premier.
In un sistema federalista, l'accentramento dei vari poteri nella persona del Primo ministro, accanto al ruolo di garanzia extra ordinem del Capo dello stato, è condizione ineliminabile di attuazione del centralismo, necessaria al controllo
delle autonomie, tanto più quando queste siano ampie come nel progetto in esame.
C'è, infine, signor Presidente, onorevoli colleghi, il settore limitrofo, ma, come ho detto, non meno importante, dei ritocchi apportati, in conseguenza della struttura federale dello Stato, agli organi di garanzia della Corte costituzionale e del Consiglio superiore della magistratura. Si tratta di organi troppo rilevanti, per dirla in maniera molto sintetica, per avallare una spartizione dell'elezione dei relativi componenti tra Camera dei deputati e Senato federale, con riferimento all'elezione dei componenti secondo la misura indicata dalla Costituzione. La diversa provenienza degli eletti dalla Camera ovvero dal Senato federale è, peraltro, diretta a scomparire in seno a ciascuno degli alti consessi, dove essi svolgeranno tutti esattamente le stesse funzioni. Io credo che, quanto più ampio sia il consenso in virtù del quale i componenti dei due organi andranno a svolgere il loro ruolo, tanto più essi saranno attinti da imparzialità e da autorevolezza istituzionale. Non sembra, in buona sostanza, che per le nomine di competenza parlamentare ci si debba allontanare dal sistema attuale, che certo non è il migliore, ma che rimane sicuramente più garantista di quello che si vorrebbe introdurre.
Con specifico riferimento, poi, alla Corte costituzionale, osservo - ovviamente a titolo esclusivamente personale - che non risulta comprensibile la ragione per la quale le magistrature ordinaria e speciali debbano avere loro rappresentanze in seno all'Alto consesso. La confusione di poteri è evidente. Queste postazioni, in passato, non hanno dato buona prova di indipendenza dei giudici costituzionali dalla magistratura di provenienza. Si potrebbe pensare, al riguardo, ad un accrescimento del numero dei giudici di nomina presidenziale (ad esempio, cinque) e di elezione parlamentare (ad esempio, dieci) in proporzione di quelli oggi provenienti dalla magistratura.
Con riguardo sempre alla Corte costituzionale, il progetto prevede, infine, la persistenza, con alcune modificazioni, dell'attuale disciplina della giurisdizione per le responsabilità penali del Presidente del Consiglio e dei ministri. Segnalo soltanto che questo sistema ha dato pessima prova, si è tradotto in una dispersione di interventi ed in un nulla dal punto di vista dei risultati, salvo situazioni eccezionali non casualmente rimaste impresse nella nostra memoria.
Il contrasto della previsione con il rinnovato intendimento di sganciare la politica dalla giustizia non ha bisogno di alcuna sottolineatura. Con opportune modificazioni rispetto al precedente regime, che rappresentava, poi, l'originaria volontà del costituente, sembra opportuno restituire alla Corte costituzionale la giurisdizione sui reati ministeriali e presidenziali sulla base della messa in stato d'accusa da parte dell'Assemblea della Camera, con la quale massimamente persiste il rapporto di fiducia, previo lo svolgimento di indagini da parte di una Commissione bicamerale da istituire e disciplinare con legge costituzionale.
Questo riferimento mi permette di prendere posizione sulla questione delle Commissioni parlamentari d'inchiesta, sul cui regime bisognerà certamente tornare e legiferare con apposita legge, ovviamente di rango costituzionale, con particolare riguardo alle maggioranze necessarie per il compimento degli atti di indagine ed alla determinazione delle relative tipologie.
È difficile da condividere, peraltro, la proposta formulata dal maxiemendamento governativo (per come pubblicizzato dagli organi di stampa) secondo cui tutte le presidenze delle Commissioni d'inchiesta dovrebbero essere di pertinenza delle sole opposizioni. A parte l'originalità di disciplinare una simile materia in Costituzione ed a parte il limite che, per tale tramite, si imporrebbe alla libertà di voto del parlamentare, vale la pena di osservare che una tale opzione, ove si consideri che dovrebbe postularsi come arricchita delle presidenze tradizionalmente spettanti alle opposizioni, pur non trattandosi di Commissioni d'inchiesta (vigilanza RAI, servizi di sicurezza, e via dicendo), rischia l'apprestamento di un sistema camuffato da esercizio di funzioni parlamentari, in
realtà capace di integrare un parallelo congegno dotato di poteri da esecutivo, ad onta della collocazione nominalistica. Lasciare alla prassi questo settore risulta, oggi, ancor più incongruo in un quadro istituzionale che assicura forti poteri al capo delle opposizioni.
Anche con riferimento al Consiglio superiore della magistratura, a parte la questione, pure da considerare, della cifra di partecipazione dei non togati all'organo di autogoverno, non vanno ripetute le ragioni per le quali essi debbono essere espressione dell'elezione di Camera e Senato federale congiunti secondo il sistema attuale.
Soggiungo, forse a futura memoria, che intervenendosi, come fa il progetto in esame, sulla composizione, non dovrebbe sfuggire l'occasione per meditare nuovamente sulle quote di partecipazione di togati e non togati, in guisa da configurare una presenza numericamente paritaria al fine di evitare ogni vena di corporativismo. Analogamente può dirsi con riferimento alle problematiche della giurisdizione disciplinare: in una parità numerica tra componenti togati e non togati si colloca molto armonicamente la previsione in Costituzione di un organismo disciplinare composto da soli membri laici del Consiglio superiore della magistratura, ai quali sia impedito per la durata della funzione specifica l'esercizio di altre competenze.
Signor Presidente, onorevoli colleghi, anche prescindendo dai suggerimenti qui formulati, il progetto di riforma sul quale stiamo lavorando merita condivisione. Mi auguro anzitutto di essere stato capace di stimolare qualche riflessione, ma anche di poter discutere nel prosieguo di taluno dei temi qui trattati (Applausi dei deputati del gruppo di Forza Italia - Congratulazioni).
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Duilio, al quale ricordo che ha a sette minuti di tempo a sua disposizione. Ne ha facoltà.
LINO DUILIO. Signor Presidente, signor rappresentante del Governo, onorevoli colleghi, in questo mio breve intervento vorrei prendere spunto dall'apertura (almeno così è sembrata) da parte del ministro per le riforme, che mi auguro segni una autentica disponibilità al confronto, direi una gentilezza democratica sostanziale, che ritengo sia assolutamente necessaria nel momento in cui il potere costituito diventa potere costituente, peraltro in una situazione, quella di un sistema maggioritario, che rischia di portare ad una Costituzione della maggioranza piuttosto che ad una Costituzione dell'intero Parlamento.
Una prima osservazione riguarda l'idea sottesa a questo progetto, peraltro non molto organico, quella di fronteggiare la complessità sociale che noi oggi abbiamo con una personalizzazione del potere e con una redistribuzione funzionale delle competenze tra lo Stato e le regioni secondo un criterio efficientista, che la dice lunga sulla tendenza ormai diffusa di assumere anche in politica quella razionalità strumentale propria dell'economia che oramai orienta anche l'agire politico, sottovalutando le implicazioni sul necessario equilibrio tra i poteri dello Stato, oltre che le implicazioni surrettizie sulla natura stessa della nostra Costituzione e della nostra Repubblica.
Una sottovalutazione che spicca ancora di più, come dicevo poc'anzi, nell'Italia del maggioritario, dire nell'epoca del maggioritario, un'epoca che esalta il momento della decisione rispetto a quello della rappresentanza, ma che proprio per questo richiede pesi e contrappesi - com'è stato detto con una felice espressione -, richiede la costituzionalizzazione di una zona non maggioritaria e riguarda le autorità indipendenti, le supreme magistrature, le regole parlamentari, se vogliamo costruire una democrazia autentica in cui abbia ancora un significato l'esistenza di un'opposizione.
La prima questione che vorrei richiamare rapidamente riguarda il tema delle garanzie, che non sembrano molto presenti in questo progetto. Basti pensare al ruolo della Corte costituzionale, al quorum per l'elezione del Presidente della Repubblica, al discorso del referendum e dello
stesso regolamento parlamentare, che toglie all'opposizione quel residuo di possibilità di iscrivere all'ordine del giorno le proposte dell'opposizione.
Il discorso delle garanzie rappresenta un presidio democratico per la tutela della democrazia e per l'affrancamento da tutti i rischi che oggettivamente, al di là delle intenzioni, esistono per una deriva involutiva e neoautoritaria del nostro sistema democratico.
La seconda questione che vorrei richiamare riguarda quella che, emblematicamente, rappresenta una forma surrettizia di mutazione - quasi genetica - del nostro sistema costituzionale e della nostra forma repubblicana, vale a dire lo strapotere del Primo ministro. Si tratta di uno strapotere caratterizzato dal fatto che il Primo ministro riduce il Parlamento ad una propria appendice. Ma c'è proprio bisogno di questo progetto per capire che cosa significhi lo strapotere del potere esecutivo? Basti guardare come è ridotto già oggi il Parlamento: abbiamo già realizzato, di fatto, un trasferimento del potere legislativo verso l'esecutivo.
Con ciò che si realizzerebbe con il disegno di legge costituzionale in esame, acclareremmo e formalizzeremmo la trasformazione del nostro Stato in una Repubblica, di fatto e di diritto, presidenziale, con un Parlamento che può essere licenziato dal premier, da questo «uomo solo al comando», che incontra il momento democratico solamente nel «giorno del giudizio», vale a dire il giorno delle elezioni. Ciò sulla base di un'idea di democrazia che, come è stato già affermato, anche in quest'aula, consegna al popolo la sede, il deposito dell'idea di sovranità in una forma di democrazia diretta che, come sappiamo, storicamente presenta molti rischi e molti pericoli.
L'ultima questione che vorrei affrontare concerne la cosiddetta devoluzione. Essa è ben altra cosa da quello «Stato delle autonomie» contenuto nella mia tradizione culturale e politica, che viene dal municipalismo sturziano e che giunge fino ad oggi attraverso le figure di Moro, di Bachelet e di Ruffilli, che consideravano le autonomie il cuore dell'organizzazione delle comunità, ma erano ben lungi dal prevedere che la questione delle autonomie locali dovesse condurre ad un'idea di Stato che mortificava il tema dello Stato nazionale come grande comunità, costruita in via sussidiaria rispetto alla comunità locale. Tale idea di devoluzione presenta già l'originalità di inserire, all'interno della Costituzione, le differenziazioni su alcune materie, come la scuola, la sanità e la polizia locale, senza nemmeno precisare, peraltro, cosa si intenda per polizia locale.
Credo che la via maestra - che potrebbe, peraltro, fare tesoro della lunga esperienza double face di un regionalismo di regioni senza regionalismo nel nostro paese - debba guardare alle autonomie territoriali come alle tessere di un mosaico che, in via sussidiaria, si allarga ai livelli superiori, arriva allo Stato nazionale e va oltre lo Stato nazionale stesso, secondo un'ottica di condivisione, e non di divisione localistica.
Su tali questioni sostanziali, riteniamo che, se sono vere le aperture fatte, nella solennità di quest'aula, dal ministro Calderoli, si debbano mettere da parte le proprie certezze; ci si deve basare certamente sulle proprie convinzioni, ma per dar vita ad un confronto che porti ad organizzare le regole di quella che rimane «la casa di tutti». Se così non fosse, vale a dire se le nostre proposte emendative, che sono proposte di buonsenso, non dovessero essere accolte, non ci resterebbe che rivolgerci al paese, e siamo certi che, se così dovesse essere, il paese capirà (Applausi dei deputati dei gruppi della Margherita, DL-L'Ulivo e dei Democratici di sinistra-L'Ulivo).
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Sinisi, al quale ricordo che ha 15 minuti di tempo a disposizione. Ne ha facoltà.
GIANNICOLA SINISI. Signor Presidente, onorevoli colleghi, signor rappresentante del Governo, è un amaro privilegio essere in quest'aula a discutere, in
quest'epoca, di principi costituzionali affermati nel nostro paese non soltanto all'indomani di una guerra rovinosa, ma con uno spirito costituente che non stava soltanto nel nome di quella Assemblea, bensì essenzialmente nell'animo di chi voleva costruire l'unitarietà del nostro paese.
Signor Presidente, onorevoli colleghi, è uno strano percorso quello che stiamo disegnando in Italia. Ci stiamo avviando, da qualche anno, sulla strada del federalismo, anche sulla base della spinta politica di un partito rappresentato in Parlamento; tuttavia, ci stiamo avviando con un percorso contrario rispetto a quello che è stato tradizionalmente seguito dai paesi che hanno intrapreso tale strada e voluto questa scelta. Negli Stati Uniti d'America, infatti, si è giunti al federalismo unendo le nazioni; anzi, come recita la Costituzione americana, per rendere più forte l'unione di quel paese.
Da noi, si giunge al federalismo dividendo l'unica nazione, separandone geograficamente i confini, rafforzando i poteri regionali e separandone anche i cittadini, rendendoli diseguali. Ciò su cui bisognerebbe interrogarsi - ed è la domanda che voglio porre in quest'aula a ciascuno di noi - è se esiste la possibilità di coniugare unità e federalismo, perché questa è la sfida che noi abbiamo il dovere di realizzare. Per stare insieme dentro l'unità nazionale non bastano regole comuni, ma ci vuole una cultura comune, che ci deve assimilare e farci sentire impegnati verso tale obiettivo comune.
Signor Presidente, onorevoli colleghi, se vi è un elemento rivelatore di una cultura della divisione, che certamente contrasta con l'esigenza di tenere insieme unità e federalismo, è già nel metodo scelto dalla maggioranza e dal Governo nel portare in quest'aula una proposta assolutamente non condivisa.
Signor Presidente, onorevoli colleghi, faccio parte ormai da due legislature della Commissione affari costituzionali ed ho già sentito la retorica dell'aver già compiuto questo strappo nella scorsa legislatura, approvando il federalismo soltanto da parte della maggioranza. Ma la replica è assai facile, se pensiamo all'esperienza della Bicamerale, ed al fatto che quel federalismo, voluto dal centrosinistra, non era altro che la riproposizione di temi dibattuti e condivisi all'unanimità all'interno della Commissione bicamerale, che aveva appunto trovato assoluta condivisione sui temi e sugli argomenti: soltanto una furbesca azione politica dell'ultimo tempo mandò a monte il lavoro prezioso svolto dal presidente D'Alema.
Signor Presidente, onorevoli colleghi, sulla teoria o sull'impegno verso l'unità vorrei richiamare la vostra attenzione. Se vi fosse, infatti, solo la questione del federalismo a dividerci, forse potremmo trovare anche un'intesa. In realtà, ciò che ci divide sono l'impostazione e la cultura profonda che stanno alla base di tali scelte. Noi riteniamo che il centrodestra, in questa stagione, abbia inaugurato la politica che divide; che divide l'Italia attraverso questo tipo di federalismo; che mette il nord contro il sud, attraverso le sue leggi sullo sviluppo; che mette gli anziani contro i giovani, con la precarizzazione del lavoro giovanile; che mette i ricchi contro i poveri, togliendo il reddito minimo di inserimento agli uni e regalando la tassa di successione agli altri; e che mette gli italiani contro gli stranieri, attraverso la sciagurata legge Bossi-Fini, censurata da tutti e a difendere la quale sembra ormai vi sia rimasto solo qualcuno. È questa politica che divide che c'inquieta e non ci fa aderire alle proposte che sono portate avanti.
Signor Presidente, anche l'etimologia della parola ci dovrebbe far riflettere sulla politica sbagliata, o malvagia; e dico malvagia anche con riferimento alla parola dalla quale deriva lo stesso epiteto di demonio: demonio viene dalla parola διαβάλλω, ciò che divide. Per noi è, quindi, facile ispirarsi alla politica che unisce. La politica che unisce,
συνβάλλω, è esattamente contraria al διάβαλλω, che è la politica del demonio. Dunque, noi, anche sotto l'aspetto etimologico, sappiamo che non è questa la strada da seguire.
Signor Presidente, onorevoli colleghi, personalmente non voglio assolutamente
insinuarmi nelle divisioni che vi sono state all'interno del centrodestra su questa vicenda, ma proprio in virtù di tale distinzione tra la politica che unisce e la politica che divide vorrei dire a coloro che condividono tali sentimenti di rimanere con noi in questa battaglia politica. Così dico, altrettanto modestamente e con molta umiltà, che noi siamo disposti a stare con coloro che nella maggioranza condividono questi sentimenti, perché non c'è indifferenza, non c'è una volontà di primogenitura, bensì solo una voglia di difendere questi valori.
Signor Presidente, vi è un'esigenza di rendere più moderna la Costituzione, dando una risposta alla domanda di semplicità che proviene dal paese, dai cittadini strangolati da una società troppo complessa.
A questa domanda di semplicità si risponde con il decentramento e si risponde anche con la chiarezza delle competenze e dei ruoli, assegnando allo Stato ciò che spetta allo Stato, assegnando alle regioni ciò che spetta alle regioni ed assegnando alle province, ai comuni, ai singoli cittadini ciò che spetta loro e che non va collettivizzato né burocratizzato. Quello che contestiamo è che vi è un regionalismo che strangola il Parlamento e l'unità nazionale. Vi è un'interferenza nelle questioni nazionali da parte delle regioni, che è assolutamente inaccettabile.
Signor Presidente, voglio essere assai chiaro su questo aspetto e abbiamo presentato, al riguardo, anche alcuni emendamenti. Forse, il lavoro che venne compiuto nella scorsa legislatura in questa materia fu un po' confuso, ma certamente meno confuso delle procedure legislative che si vogliono introdurre con questa riforma costituzionale, che renderanno impraticabile lo stesso iter legislativo. L'interferenza delle regioni si può constatare in alcuni punti assai significativi di questa proposta di riforma costituzionale. Un Senato federale in questa formazione assai confusa, che governa temi di interesse nazionale come la nomina dei giudici costituzionali, la nomina dei componenti del Consiglio superiore della magistratura, argomenti che sono di esclusiva competenza dello Stato, sta a testimoniare come questo Senato federale sia un ibrido assurdo, un sopravanzare del regionalismo fino a strangolare l'unità nazionale.
Anche la tanto decantata difesa degli interessi nazionali assegnata al Senato federale come verifica delle leggi regionali che interferiscono o addirittura pregiudicano l'interesse nazionale è una clamorosa violazione di questo principio. Non può essere un Senato eletto su base regionale, che non può nemmeno essere sciolto per iniziativa del Capo dello Stato, a determinare la scelta dei componenti di taluni organismi e a determinare le valutazioni in ordine ad interessi di esclusiva competenza nazionale. Questa è un'inversione logica assolutamente inaccettabile, che si trasforma anche in alcune diseguaglianze clamorose tra regioni e Stato: se muore o ha un impedimento assoluto il Capo del Governo, si scioglie la Camera; se muore o ha un impedimento assoluto il presidente della regione, il consiglio regionale ne nomina altro. Un principio di continuità affermato per un organismo legislativo come quello regionale; un principio di non continuità affermato, invece, per quanto riguarda il nostro Parlamento, la Camera deputati.
Introduco gli ultimi due argomenti, signor Presidente; lei mi richiamerà qualche minuto prima di terminare, in modo da consentirmi di completare il mio ragionamento.
Vorrei fare riferimento alla cosiddetta devolution, al conferimento di politiche di sicurezza, sanità e scuola a livello regionale. Abbiamo contestato e contesteremo con fermezza questa scelta, perché essa porterà inevitabilmente ad avere diritti diseguali e cittadini diseguali nella nostra nazione. In un momento in cui l'Europa si impegna non soltanto a garantire diritti eguali in Europa, ma addirittura a far affermare quei diritti universali su tutto il pianeta, faremmo sì che l'istruzione, la sicurezza e la salute possano diventare appannaggio dei cittadini delle regioni ricche
e possano determinare addirittura un'ulteriore mancanza di opportunità per i cittadini delle regioni più povere.
Un filosofo ha detto che compito della politica è dare opportunità a chi non ne ha. Noi, in questo modo, togliamo opportunità a chi già è pregiudicato in questo senso. Ho una qualche dimestichezza con i temi della sicurezza. Una polizia nazionale, che abbiamo difeso anche nel processo di democratizzazione portato avanti dalla legge n. 121 del 1981, ha la sua ragion d'essere proprio nel fatto che, da Bolzano a Trapani, a tutti viene garantito il diritto di sentirsi sicuri nelle proprie città.
Questo meccanismo volto a separare le politiche della sicurezza e ad attribuire ad organismi regionali la competenza di promuovere le funzioni della polizia locale - un'espressione equivoca che certamente non ci può trarre in inganno, perché essa indica una polizia che ha competenza generale all'interno del territorio - crea ulteriore confusione in tema di coordinamento.
Una sanità che viene divisa anche nella sua organizzazione tra le regioni significa che le regioni che hanno meno risorse chiuderanno gli ospedali, e questo comporterà la mobilità verso le regioni più ricche. Una scuola che sarà anch'essa organizzata su base regionale si troverà a non avere più un luogo per la difesa dei valori costituzionali di autonomia e di libertà dell'insegnamento.
Signor Presidente, onorevoli colleghi, a proposito della scuola, provo la sensazione di essere un privilegiato nel poter difendere le nostre ragioni discutendo e ragionando in quest'aula. Devo tuttavia ricordare che esiste una responsabilità di tutti noi, che deriva dai tempi di Cavour e dei suoi contemporanei, che pure hanno calcato questi banchi in maniera assai più prestigiosa di quanto, purtroppo, non stiamo facendo noi in questa epoca.
Nei sussidiari della scuola è scritto quali furono i promotori dell'unità nazionale: non sarà scritto nei sussidiari che verranno quali sono i protagonisti ed i responsabili della divisione del nostro paese, perché non ci saranno nemmeno i sussidiari nella scuola. Anche questa è un'interferenza grave del principio della libertà di insegnamento.
Un ultimo argomento è quello relativo alla Corte costituzionale: si tratta di un presidio di garanzia per tutti noi. È entrata nel mirino di questa maggioranza e di questo Governo per sentenze non gradite: la storia delle sentenze non gradite riempie la cronaca di questi giorni ma anche, ahimè, la cronaca di tutti quei paesi che hanno abbandonato la strada della democrazia e della libertà.
Una sentenza ingiusta si contesta nelle forme e nei modi che sono previsti dallo stesso ordinamento. Noi invece cerchiamo di punire questo organismo, insultandolo, ma soprattutto cercando di delegittimare le sue decisioni.
Qual è la forma di delegittimazione più subdola per un magistrato? L'interferenza della politica nelle decisioni dell'autorità giudiziaria!
Ebbene, quest'indipendenza ed autonomia dei magistrati, che vengono tanto decantate, vantate ed invocate, soprattutto quando vi sono sentenze che non piacciono, diventa addirittura un sistema attraverso l'ampliamento dei componenti di nomina politica, ed anche qui in parte addirittura maggiore, da parte del Senato federale, passando da cinque a sette componenti. Ce ne vorrà soltanto uno per acquisire la maggioranza al fine delle decisioni e per far sì che le decisioni della Corte costituzionale potranno dirsi con chiarezza decisioni politiche, non foss'altro perché la sua maggioranza sarà costituita da uomini e donne di espressione politica del Parlamento.
Lo si potrà allora dire con chiarezza: sarà una decisione rispetto alla quale i nostri giornali, così come si fa in America secondo una teoria sportiva, dichiareranno «chi sta di qua e chi sta di là», magari auspicando, come pure accade negli Stati Uniti d'America, che qualcuno si ammali o si ritiri, in modo da essere temporaneamente sostituito per cambiare le maggioranze e conseguentemente anche le decisioni.
Signor Presidente, penso che questo sia il vulnus più grande, ovvero questa interferenza volgare della politica nelle decisioni del supremo consesso posto a tutela della nostra libertà e dignità costituzionali. Credo sia una delle maggiori violazioni che vengono previste all'interno di questo disegno costituzionale perverso e certamente non moderno!
Concludo dicendo che vi è un bisogno di modernità nel nostro paese, perché occorre superare le teorie collettivistiche, così come occorre superare le teorie individualistiche. Teorie del passato che hanno agitato le nazioni in Europa, sino a costituire l'una e l'altra le ragioni dei gravi disastri del nostro continente.
Deve esserci la strada per promuovere le persone nella solidarietà, in una visione più globale ed aperta della società. Una Costituzione che divide è per sé stessa una Costituzione che prevarica: noi contro questa prepotenza avremo il dovere di reagire.
Riapriremo la questione delle garanzie e delle libertà nel nostro paese verso un riformismo positivo e solidale. Credo che abbiamo superato definitivamente la fase in cui eravamo arroccati a difendere i diritti conseguiti nei decenni passati, quasi scambiandoci per nuovi conservatori. Oggi siamo impegnati sì sulla strada dei valori da difendere, ma soprattutto su quella dei principi da affermare.
Su tale terreno realizzeremo le nostre proposte, che porteremo agli elettori nella vicenda referendaria, se ve ne sarà bisogno, ma soprattutto nelle prossime elezioni.
Lo faremo per vincere, per governare bene - siamo convinti di poterlo fare meglio di questa maggioranza e crediamo di averlo già dimostrato - e per portare finalmente l'Italia nel suo futuro (Applausi dei deputati dei gruppi della Margherita, DL-L'Ulivo e dei Democratici di sinistra-L'Ulivo).
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Bielli. Ne ha facoltà.
VALTER BIELLI. Signor Presidente, onorevoli colleghi, il tema delle riforme costituzionali non solo è complesso, difficile, delicato ed importante, ma attiene alle regole della democrazia e, come tale, dovrebbe essere affrontato con metodologie, tempi e comportamenti atti ad evidenziare che la materia di cui si tratta è assai scottante. Si affronta il tema dei principi di libertà, delle basi su cui si fonda lo Stato democratico.
C'è voluta la guerra di Resistenza, un sommovimento straordinario, per gettare le basi della nostra convivenza civile. La promulgazione della Costituzione repubblicana è frutto di una grande unità nazionale fatta di valori e di principi condivisi. Oggi si pretende di concludere la riforma della Costituzione con una discussione in quest'aula di tre giorni.
Il testo presentato dalla maggioranza e discusso in Commissione era blindato. Dunque, si è perso tanto tempo perché non sono state discusse nel merito le questioni che avevamo posto. Appare paradossale che, riguardo ad un tema tanto delicato ed importante, rispetto al testo discusso in Commissione sia stato raggiunto dalle forze di maggioranza un accordo estivo. Tale accordo ha un merito: come la testa di Berlusconi, è coperto da una bandana e non è dato sapere esattamente cosa vi sia sotto.
A ciò si unisce il nuovo ministro per le riforme istituzionali, il senatore Calderoli, che nelle dichiarazioni alle agenzie di stampa tuona frasi che sembrano preludere alla secessione. Poi viene in aula, attua un confronto serio con la minoranza e si fa portavoce di aperture che fino a ieri considerava bestemmie. Inoltre, annuncia che presenterà emendamenti significativi, con il risultato che non sappiamo bene su quale testo saremo chiamati a votare nei prossimi giorni.
È serio questo? Qual è il ruolo del Parlamento, se non quello di poter discutere a carte scoperte? Su temi così delicati le posizioni non possono essere presentate all'ultimo minuto. Serio sarebbe stato confrontarsi in Commissione in modo aperto e responsabile e venire in aula, ripeto, a carte scoperte.
Ho l'impressione, anzi sono convinto, che ciò che avete concordato in maggioranza fuori dal Parlamento sarà un ibrido incredibile. Più che una visione organica vedo una specie di bricolage in cui ognuno di voi ha messo qualcosa di suo: manca una visione unitaria. Mi viene in mente un tema che sembrava tanto caro al nostro primo ministro quando diceva che mai avrebbe utilizzato la vecchia politica.
Voi avete aggiunto qualcosa in più alla vecchia politica. Siete riusciti a dimostrare che fate peggio di quello che prima consideravate una cosa da non fare, nel senso che riuscite, rispetto alla vecchia politica, a fare una cosa: ne prendete solamente i difetti! Quello che fate è grave, perché all'Italia non viene dato nulla di serio, bensì un boccone amaro e irricevibile. Il centrosinistra non è pregiudizialmente contrario a grandi riforme istituzionali. Occorre affrontare i nuovi problemi imposti in particolare dalla globalizzazione, i problemi che derivano dai cambiamenti in atto e quelli del come governare meglio questo paese. Al riguardo, il centrosinistra è aperto e disponibile. Vi è il bisogno di riforme. La globalizzazione, il nuovo ruolo dell'Europa, il problema odierno della guerra, impongono a tutti noi di non stare arroccati sulle posizioni del passato.
Quindi, da parte nostra c'è disponibilità ed apertura per un confronto serio. Tuttavia, il testo che ci presentate, quello che voi chiamate riforma della seconda parte della Costituzione, è altro. Esso non chiude in alcun modo la transizione istituzionale, non pone le basi di un moderno Stato federale, né garantisce le regole per una moderna democrazia dell'alternanza. Anzi, esso minaccia l'unità del paese ed incredibilmente - ma tutto ciò è frutto di quel pateracchio che avete costruito - mescola derive secessionistiche con il ritorno al vecchio centralismo, che umilia e vanifica le tante aperture a quelli che sono considerati i rami bassi del sistema.
Parlate di poteri ai comuni, ma solo sulla carta, perché per avere potere bisogna avere anche risorse, mentre voi non le date ed avete introdotto anche controlli di vecchio tipo. Tutto ciò è funzionale all'idea vera che sta dietro alla vostra impostazione, quella che per governare siffatto stato di cose ci vuole poi al centro chi abbia un potere straordinario ed unico. Si delinea, quindi, attraverso la vostra proposta, quella che io chiamo una moderna dittatura elettiva di un solo uomo. La filosofia che ispira la vostra proposta non pare essere correggibile, in quanto proponete un sistema di Governo impraticabile, con veri e propri rischi di paralisi istituzionale: un primo ministro con poteri assoluti, un affievolimento del ruolo di arbitro e di garanzia del Presidente della Repubblica e quella strana cosa che è il nuovo Senato. A tutto ciò - su cui ritornerò -, si deve aggiungere che si mette a rischio l'universalità dei diritti e delle libertà costituzionali, a partire dal diritto all'istruzione, alla salute e alla sicurezza.
Si delinea una forma di Governo unica al mondo. Il disegno istituzionale che avete proposto non può essere ricondotto a nessuno dei modelli delle moderne democrazie. Ne risultano indebolite le garanzie democratiche ed istituzionali e si intravedono, anzi sono evidenti, derive autoritarie di tipo peronista, senza al contempo garantire stabilità, efficienza ed efficacia nell'azione di Governo. Si tende a liquidare la Costituzione repubblicana, che sicuramente andava e va aggiornata, ma non va e non deve essere scardinata. Una Costituzione scardinata genera insicurezza ed oggi voi spargete nel paese nuove insicurezze, in un tempo in cui l'insicurezza è già tanta. Viviamo oggi in un mondo in cui si espande la guerra e cresce il terrorismo. Se penso, ad esempio, alla vicenda delle due italiane rapite, le due Simone in mano ai terroristi iracheni, capiamo quanto sia grande il rischio del terrorismo e come tutti noi si debba avere la consapevolezza di quello che va fatto con riferimento ad alcune questioni che riguardano la comunità nazionale e al modo con cui andare avanti assieme. Ma voi questo non lo fate!
Ma vi è tanta insicurezza anche su altri versanti. Il potere di acquisto dei salari è basso (si sta riducendo) e vi è un ridimensionamento dello Stato sociale. Vi è, inoltre, insicurezza per quanto riguarda il
tema del risparmio (l'insicurezza è cresciuta!). I cittadini chiedono alla politica certezza e sicurezza, mentre voi della maggioranza oggi state mettendo in discussione persino le regole della civile convivenza, le libertà ed i diritti sanciti dalla Carta costituzionale.
Voi affermate che la riforma riguarda la seconda parte della Costituzione, per cui non si incide sulla prima; voi, tuttavia, sapete meglio di me che i principi fondamentali della prima parte della Costituzione esigevano nella seconda la necessità di definire i compiti ed i contenuti concreti di quei principi. Siamo, pertanto, di fronte ad un qualcosa che riguarda l'intero impianto costituzionale.
Il Presidente del Consiglio ha sempre detto che avrebbe cercato di mettere in atto una politica in cui i partiti avrebbero dovuto avere meno ingerenze per quanto riguarda il funzionamento di parti delicate dello Stato.
Voi mettete persino in discussione l'indipendenza della Corte costituzionale, che ne uscirà ancor più politicizzata rispetto alla situazione attuale per l'accresciuto peso della componente di designazione politico-parlamentare. Da questo punto di vista, chiederei al nuovo ministro Calderoli (avete sempre parlato di una politica troppo invasiva) cosa ne pensa di questa politica che interviene anche sulla Corte costituzionale.
In ordine alle derive plebiscitarie autoritarie di cui parlavo, cos'è questo potere straordinario di scioglimento delle Camere che viene attribuito al Presidente del Consiglio? Sono fra coloro i quali sono favorevoli ad introdurre norme antiribaltone, ma siamo di fronte a qualcos'altro, perché, accanto al potere di scioglimento delle Camere, in verità si delinea anche un esproprio della funzione legislativa del Parlamento; infatti, con il potere di scioglimento delle Camere, in cui l'unico arbitro è il Presidente del Consiglio, si ricatta la maggioranza e si delinea la possibilità di elezioni anticipate, senza per questa via pensare, come oggi, al ruolo di garante espresso dal Presidente della Repubblica.
Voi, con il vostro provvedimento, mettete anche in discussione le prerogative del Presidente della Repubblica, che perde il potere di decidere sullo scioglimento delle Camere, e, nello stesso tempo, autorizzate un iter legislativo in cui, in verità, potrebbero essere approvati solamente i disegni di legge presentati dal Governo. Cos'è questo se non un esproprio del ruolo del Parlamento? Alla centralità del Parlamento si sostituisce la centralità dell'esecutivo e del suo Presidente del Consiglio. Questo è il motivo per cui parlo di deriva autoritaria.
In questa situazione, non si poteva pensare, in un sistema elettorale maggioritario, di intervenire sul sistema di pesi e contrappesi, in una sorta di bilanciamento, come in altri modelli costituzionali? Il tema dello statuto delle opposizioni come viene preso in considerazione con la vostra proposta? Con il vostro provvedimento non viene presa in considerazione neppure la necessità di rafforzare gli istituti della partecipazione democratica.
In verità, si pensa al fatto che si vota ogni cinque anni e per cinque anni chi ha ricevuto quel voto può fare tutto quello che ritiene giusto ed opportuno. Questa, tuttavia, non è democrazia! Questa è una nuova forma di autoritarismo, che è inaccettabile e che nulla ha a che fare con la storia del nostro paese. Ecco perché non si può essere d'accordo con l'impostazione che voi date al tema delle riforme costituzionali.
Oggi non esiste democrazia in cui non si tratti del tema relativo alla libertà di informazione e, all'interno del nostro ordinamento, registriamo che il Capo del Governo possiede tutti i mezzi di informazione. Sicuramente in ciò siamo i primi, ma non lo siamo per quanto riguarda le garanzie democratiche. Ecco perché siamo di fronte alla personalizzazione della politica, ad una perdita del ruolo del Parlamento e della partecipazione democratica nonché ad una trasmigrazione del potere legislativo.
Siamo dunque contrari a tale impostazione in quanto vogliamo un moderno Stato federale, unito da alcuni principi che
valgano per tutte le regioni. Riconoscendo la competenza esclusiva delle regioni nel campo dell'assistenza e dell'organizzazione sanitaria, nel campo dell'organizzazione e della gestione degli istituti scolastici e nel campo della polizia locale, in verità create le premesse per dividere il paese.
Avete perfino previsto la crescita delle cosiddette microregioni. In una situazione in cui vi è la necessità di riconoscere più poteri alle regioni, introducete il principio della realizzazione di nuove microregioni. State lavorando per dividere, attribuendo al Capo del Governo poteri inusitati; ecco perché non siamo d'accordo con la vostra impostazione!
Pensate ad uno Stato federale a fisarmonica, caratterizzato da un forte centralismo, promettendo tuttavia a livello decentrato di realizzare una disarticolazione dei principi che apparivano riconosciuti una volta per tutte.
Se penso al problema della scuola e alle posizioni assunte dalla Lega in tale settore con riferimento ad altre culture e ad altre religioni, l'apertura straordinaria riconosciuta alle regioni in campo scolastico può essere prodromica per ottenere ciò che la Lega sicuramente non vuole. Infatti, attraverso questa apertura, si potrebbe anche addivenire alla creazione di scuole islamiche, scuole confessionali, scuole di tipo religioso.
Proprio perché non avete consapevolezza di ciò che state realizzando, non vi rendete conto che potreste attuare un qualcosa che vi può sfuggire di mano; per tale motivo trovate la nostra opposizione.
Un altro aspetto della vostra riforma riguarda la polizia locale. Cos'è la sicurezza in un paese moderno, se non la capacità di agire e di interagire per contrastare fenomeni dalle dimensioni inusitate? Oggi si parla di grandi operazioni finanziarie, di una delinquenza che va oltre l'ambito comunale e regionale e, anche quando si parla di terrorismo, ci si riferisce ad una criminalità che non ha confini. E a tutto ciò voi rispondete con la polizia locale!
Perché non vi rendete conto che occorre guardare in grande, con la consapevolezza dei problemi esistenti? Con la vostra riforma non fornite risposte ai problemi del paese, ma create un paese per molti versi diviso, nel quale si può aprire a fenomeni pericolosi.
Allora, vi chiedo di ripensare e di fermarvi perché il paese non può accettare un'impostazione di questo tipo. C'è bisogno di più unità e maggior spirito civile, c'è bisogno di avere la consapevolezza di volere un'Italia più unita e più libera. È possibile fare questo; fermatevi in tempo rispetto all'impostazione che state portando avanti perché il vostro progetto divide e crea situazioni di illibertà. Da questo punto di vista non garantite la democrazia, ma perseguite un disegno autoritario cui ci contrapporremo con tutte le nostre forze.
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Burtone. Ne ha facoltà. Le ricordo che ha a disposizione sette minuti.
GIOVANNI MARIO SALVINO BURTONE. Signor Presidente, le norme varate dal Senato e il dibattito sviluppatosi, le modifiche programmate da uno pseudotavolo tecnico della maggioranza, pur nell'incertezza di un quadro normativo - si è parlato e si parla di diverse bozze - ci danno la consapevolezza di essere davanti ad una riforma che tocca la parte istituzionale della Carta costituzionale. Una riforma, quindi, radicale: nuovi poteri al premier, fine del bicameralismo paritario, devolution.
Non sarebbe, dunque, necessario ricorrere al mito della Costituzione per sostenere la necessità dell'elezione di un'Assemblea costituente come unica sede idonea ad affrontare modifiche che incideranno nella vita democratica del nostro paese. La maggioranza, invece, ha raccolto l'alibi della riforma del Titolo V della Costituzione, varata dal centrosinistra nella passata legislatura, per avviare un percorso riformatore tanto ampio quanto confuso, incerto e contraddittorio.
Voglio ricordare che nella passata legislatura la riforma riprendeva la bozza redatta dalla Commissione bicamerale,
fortemente condivisa non solo trasversalmente dalle forze politiche, ma anche dall'ANCI, dall'UPI, dalle regioni. Soprattutto, quella riforma ridefiniva tre livelli di competenze legislative: una esclusiva dello Stato, una esclusiva delle regioni ed una concorrente tra Stato e regioni. Si trattava di scelte innovative dell'ordinamento costituzionale, ritenute soddisfacenti per le regioni e per le autonomie locali, che ritrovavano l'attuazione del principio di prossimità e l'avvicinamento del rapporto tra cittadini e istituzioni.
Invece, il progetto di riforma costituzionale avanzato dalla maggioranza persevera nel suo difetto di origine e riflette lo scambio politico tra le forze del centrodestra. Un pezzo a ciascuna forza politica: a Forza Italia e Alleanza nazionale il premier con poteri al di fuori di ogni ragionevole misura, alla Lega la devolution. Il progetto uscito dal Senato non ha quindi un disegno unitario, non ha una logica di sistema per un ordinato funzionamento delle istituzioni, non va incontro ad un patto costituzionale. È un contenitore in cui inserire una nuova forma di Governo, finalizzata non alla stabilità ed all'efficienza delle nostre istituzioni, ma all'aumento spropositato dei poteri del premier, con una limitazione degli organi di garanzia costituzionale come il Presidente della Repubblica e la Corte costituzionale. Un contenitore, quindi, in cui marginalizzare il Parlamento, in cui prevedere, sotto il pretesto delle presunte lentezze e farraginosità riconnesse al vigente bicameralismo, la nascita di un Senato, a parole federale, finalizzato a configurare un bicameralismo asimmetrico, con la presunzione di creare una sede idonea alla concertazione preventiva della legislazione tra lo Stato e le regioni.
Tante, troppe le scelte operate con superficialità o strumentalità, senza i dovuti approfondimenti, senza la necessaria ricerca di un sistema di garanzia, con la possibile conseguenza di un capovolgimento del nostro assetto costituzionale, specie se aggiungiamo la tanta declamata e reclamata devolution.
Infatti, nel testo approvato dalla maggioranza troviamo la straordinaria evenienza di due potestà esclusive coincidenti nella stessa materia: alla legge statale continua a spettare l'esclusiva determinazione delle prestazioni dei diritti sociali e civili, e alla legislazione concorrente la materia della tutela della salute. Ma la riforma pone anche la potestà legislativa esclusiva regionale nelle materie strettamente connesse ai diritti dei cittadini: l'organizzazione sanitaria, la scuola, la polizia locale.
Non è difficile, quindi, immaginare la nascita di sicuri conflitti fra lo Stato e le regioni e anche, con l'utilizzo dei nuovi poteri esclusivi delle regioni, lo scardinamento di un sistema di servizi universali che oggi sostengono diritti di cittadinanza e di eguaglianza sociale: potremmo avere venti nuovi sistemi sanitari regionali e una frantumazione del sistema scolastico; non meno rischioso è il tema della sicurezza. Qualcuno ha cercato di mettere una toppa, ma il rimedio è stato peggiore del male: il richiamo all'interesse nazionale. Basta leggere attentamente l'iter procedurale previsto al riguardo per sostenere con amarezza che ci troviamo davanti un vero guazzabuglio. L'unica cosa certa che emerge è che a garantire l'interesse nazionale non sarà il Parlamento, ma il Governo.
Ma quanto costerà la cosiddetta devolution agli italiani? A Bari, il Presidente del Consiglio ha anche chiarito che il federalismo ridurrà la spesa pubblica. Importanti centri di ricerca economica dicono il contrario, ovvero che vi sarà un'impennata della spesa. Inoltre, la devoluzione acuirà la polarizzazione dei trasferimenti tra le regioni del nord e quelle del sud, che oltre ad avere bassi consumi, e quindi limitati gettiti IVA, dovranno scontare una carenza infrastrutturale di partenza. Si determinerà, quindi, una forte discontinuità territoriale, se non si prevederà un fondo di riequilibrio per le aree più deboli.
Vi è infine, signor Presidente, una forte preoccupazione per la norma transitoria che introduce una serie di violazioni all'autonomia
delle regioni a statuto speciale, prevedendo la diretta e automatica applicabilità di tutte le disposizioni introdotte con la riforma, in assenza di qualsiasi dignitoso confronto con le assemblee legislative regionali. Pertanto, al di là delle formali assicurazioni che diversi ministri hanno fornito, saranno presentati dall'Ulivo alcuni emendamenti, affinché nessuna delle scelte costituzionali che verranno compiute possa pregiudicare il mantenimento delle prerogative autonomistiche della Sicilia e delle altre regioni autonome, frutto dei sacrifici di quanti hanno creduto in un impegno autonomistico fortemente intrecciato al sentimento di unità nazionale (Applausi dei deputati dei gruppi della Margherita, DL-L'Ulivo e dei Democratici di sinistra-L'Ulivo - Congratulazioni).
PRESIDENTE. È iscritta a parlare l'onorevole Sasso. Ne ha facoltà.
ALBA SASSO. Signor Presidente, le modifiche già apportate all'articolo 117 della Costituzione dalla legge costituzionale n. 3 del 2001 prevedono che restino di competenza esclusiva della legislazione statale la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale, e le norme generali sull'istruzione. Sono invece materia di legislazione concorrente quelle relative all'istruzione, salva l'autonomia delle istituzioni scolastiche e con esclusione dell'istruzione e della formazione professionale.
Inoltre, tale riforma costituzionale ha stabilito che spetti alle regioni la potestà legislativa in riferimento ad ogni materia non espressamente riservata alla legislazione dello Stato. Le modifiche proposte dal disegno di legge costituzionale in esame sostituiscono quest'ultima disposizione.
Spetta alle regioni la potestà legislativa esclusiva nelle seguenti materie: assistenza ed organizzazione sanitaria, organizzazione scolastica, gestione degli istituti scolastici e di formazione - salva l'autonomia delle istituzioni scolastiche -, definizione della parte dei programmi scolastici e formativi di interesse specifico della regione. Il mio intervento verterà soprattutto sul tema della devoluzione del sistema scolastico, quindi non mi soffermerò sulle altre questioni.
Per quanto riguarda la definizione di organizzazione scolastica e gestione degli istituti scolastici e di formazione, sicuramente si potrà discutere a lungo, come già si comincia a fare. Qualcuno potrà sostenere che tali formule non riguardano le norme generali sull'istruzione - è questo il nodo -, le quali restano di competenza legislativa esclusiva dello Stato. In ogni caso, ciò può anche significare - mi sembra sia questa l'intenzione del disegno di legge costituzionale in esame - che ogni regione potrà finalmente darsi l'ordinamento scolastico che preferisce, in deroga a quello vigente a livello nazionale. Infatti, quando si parla - e le parole come sappiamo, signor Presidente, sono pietre - di istituti scolastici e di formazione, cosa si intende? Sicuramente si intende - credo - parlare di istituti di istruzione e di formazione, cioè le due articolazioni di cui oggi si compone - secondo la legge n. 53 del 2003 - tutto il sistema scolastico nazionale.
Pensate cosa potrebbe significare tutto ciò (la questione, tra l'altro, è stata richiamata anche da altri colleghi): venti sistemi scolastici differenti in un paese che ha costruito la sua unità e la sua unificazione linguistica proprio sul sistema scolastico unitario, dove scuola e carabinieri rappresentavano - persino nei piccoli paesi - lo Stato unitario.
Per quanto riguarda l'altro punto della norma, cosa si intende dire con la formula programmi scolastici e formativi di interesse specifico della regione? Ci si riferisce a tutto il sistema scolastico, oppure il termine «formativo» non è compreso fino in fondo? È ovvio, infatti, che i programmi siano formativi, chi lo mette in dubbio? Ci mancherebbe altro! Forse, si intendeva richiamare il sistema della formazione professionale, ma poi ci si è accorti che
quest'ultimo ormai è già di competenza esclusiva della regione. Cosa vuol dire allora questa formula?
Credo che ci troviamo di fronte ad un pasticcio incredibile, foriero di discussioni interminabili ed anche di un contenzioso tra Stato, regioni, comuni e scuole autonome. Continua quella incredibile illegittimità già creata dalla legge n. 53 del 2003. Non era mai successo che nel nostro sistema scolastico venisse attribuita per Costituzione a questo o a quel soggetto statuale la facoltà di definire con legge i programmi scolastici.
Vi è di più. Si sa, infatti, a cosa ci si riferisce quando si parla di programmi scolastici, di autonomia scolastica? La dizione «programmi» era già sparita dalla nostra scuola e si era arrivati ad un concetto più avanzato, costituito dalle indicazioni curriculari definite a livello nazionale e utilizzate dalle scuole per costruire i curricula tenendo conto delle loro competenze e della situazione locale; tutto ciò sempre sulla base di indicazioni e di obiettivi definiti a livello nazionale. Si tratta di quegli obiettivi formativi che fanno l'unità del sistema scolastico, pur nel rispetto delle autonomie delle scuole sancite dalla modifica del Titolo V della Costituzione.
Vi è però un'altra contraddizione che mi permetto di sollevare.
Il primo decreto legislativo emanato in base alla legge n. 53 del 2003 ha scelto di non definire la quota parte regionale dei programmi prevista dalla stessa legge. Da cosa deriva questa dimenticanza? Forse dal fatto che c'era l'imbarazzo di stabilire quale parte degli stessi restasse all'autonomia scolastica?
In realtà, il punto è che la legge n. 59 sull'autonomia scolastica ha già definito che c'è una quota parte dei programmi o delle indicazioni nazionali che viene coniugata dalle scuole, per rafforzare le competenze dei ragazzi, per sviluppare altre materie di studio e via dicendo.
L'articolo 21 della legge n. 59 non è stato abrogato dalle modifiche proposte; come si deve organizzare allora il lavoro della scuola?
Nella legge n. 53 del 2003 non è stata definita la quota parte dei programmi sui quali le scuole devono comunque articolare il loro lavoro; ciò perché si voleva forse attendere la definizione della competenza legislativa costituzionale delle regioni in materia?
Oggi si decide di emanare programmi, facendo un passo indietro rispetto alla cultura della scuola, con un decreto legislativo e, domani, con un regolamento di Governo oppure della regione. Credo che ci troveremo di fronte ad un testo costituzionale pasticciato e contraddittorio che, come dicevo prima, aprirà enormi conflitti di competenze. Qui c'è, però, un elemento, un filo rosso, un trait d'union fra le politiche in materia scolastica e quelle che questa modifica costituzionale sembra avviare. C'è un punto in comune; in primo luogo, l'attacco all'autonomia delle scuole, che non sembra essere gradita a questo Governo, ma ciò era prevedibile perché non è di questo Governo la volontà di potenziare un sistema scolastico che veda una gestione integrata sul territorio tra soggetti alla pari: le strutture decentrate dell'amministrazione, le autonomie locali e le scuole autonome.
L'azione legislativa e politica del ministro Moratti è andata, in questo primo anno e mezzo di Governo, nella direzione opposta, cioè in quella di riaccentrare competenze, bloccando un processo di dislocazione di poteri già avviato da tempo, ricreando gerarchie e subalternità nel governo del sistema: basti pensare ai dirigenti regionali nominati con la logica della fedeltà alle scelte amministrative, alla modifica del contratto per i dirigenti scolastici e ad altro ancora.
In tale contesto l'autonomia è stata soffocata attraverso la riduzione di risorse previste dalle ultime finanziarie. Tutto questo sembra riproporre un'idea vecchia, vecchissima di scuola, non moderna, non aperta al confronto con le culture, con i territori, con le diverse culture che entrano nella scuola attraverso i bambini; sembra riproporre la vecchissima idea di una scuola terminale ultimo di decisioni prese altrove, da Stato o regione che sia.
Il secondo elemento comune è rappresentato dal fatto di ritornare ai programmi calati dall'alto. Il ministro Gentile diceva di essere in grado di sapere in ogni momento, in ogni ora della giornata, che cosa si stesse facendo in tutti i licei del Regno; adesso, dovremmo, invece, ragionare in maniera diversa.
La legge n. 53 del 2003 stabilisce che i piani di studio contengano un nucleo fondamentale omogeneo su base nazionale che rispecchia la cultura e le tradizioni e prevede una quota riservata alle regioni relativamente agli aspetti di interesse specifico delle stesse. Si parla dunque di interesse specifico. C'è una contraddittorietà tra i due testi; una volta fissata una quota regionale da un decreto legislativo emanato in attuazione della proposta Moratti, cosa succederebbe se una regione attivasse la propria competenza esclusiva modificando la quota di programmi regionali, riducendola o incrementandola?
Credo che ci troviamo di fronte - mi scuso per la ripetizione - ad un grande pasticcio, ad un grosso conflitto di competenza.
Come dicevano alcuni colleghi che mi hanno preceduto, stiamo sfuggendo alla sfida vera, quella di un federalismo solidale e cooperativo, di una sussidiarietà che non può essere intesa in chiave di abbandono, di dismissione, di rinuncia ad ogni intervento statuale. Sembra che si pensi all'intervento dello Stato nel campo dell'istruzione come ad un'intrusione, all'espressione di un monopolio sgradevole.
Ha ragione Michel Crozier a proposito dell'equazione tra «Stato moderno» e «Stato modesto»? Noi non siamo d'accordo: lo «Stato leggero» è quello che definisce le regole fondamentali.
Secondo questo disegno di legge costituzionale, e già secondo la legge nota con il nome del ministro Moratti, l'istruzione diventa un'altra cosa e sembra spostarsi verso l'idea di un servizio privatistico: si lega ad una domanda soggettiva e non più al protagonismo dei cittadini associati. In quest'ottica sembra doversi interpretare il forte richiamo ai diritti di libertà e di scelta in materia di istruzione dei singoli che pervade la proposta di nuova riforma degli ordinamenti scolastici, fino alla scomparsa dell'obbligo, visto come intrusivo ferro vecchio dell'Ottocento, sostituito dalla più dinamica dialettica tra diritto e dovere all'istruzione ed alla formazione.
Allora, potremo aspettarci che, da qui in avanti, questo diritto-dovere sarà tutto contenibile in un buono scuola regionale, in quanto parte commerciabile e negoziabile di un diritto civile e sociale? Questo disegno di legge sembra voler liberalizzare, sembra voler liberare la scuola da lacci e lacciuoli; in realtà, le nega autonomia, a differenza persino della Costituzione del 1948. Nella Costituzione dei padri fondatori c'era un forte respiro autonomistico ed aperture su un'inedita idea di regionalismo, di decentramento e di autonomia: nel campo dell'istruzione, queste sono garanzie fondamentali! I primi articoli della Costituzione del 1948 rappresentano una vera e propria piattaforma pedagogica ancora capace di indicare prospettive di sviluppo e di crescita della nostra scuola: la scuola del «non uno di meno»; la scuola che garantisce uguali diritti alla formazione a tutti.
La riforma del Titolo V sull'assetto dei poteri locali, attuata nel 2001, è stata il frutto di un'idea di regionalismo che dava il suggello alla compartecipazione delle regioni alle scelte legislative, sebbene - occorre pur dirlo - attraverso un oggetto un po' misterioso quale le competenze concorrenti, che invitano alla connessione, ma che potrebbero aprire la strada ad insanabili conflitti in caso di mancata individuazione delle sedi e delle ragioni dell'integrazione e della compensazione.
Invece, il testo in discussione introduce un principio di federalismo - come dire? - a geometria variabile, nel senso che viene riconosciuta alle regioni la possibilità di appropriarsi di fette di legislazione esclusiva in alcuni settori limitati, ma strategici (sanità, istruzione, polizia locale). Tutto ciò crea un pericolo vero anche sul terreno dell'istruzione, da indicare nella possibile diversa velocità dei processi anche dell'autonomia scolastica: le regioni più forti sembrano anche quelle più pronte a staccarsi dalle comuni fatiche della solidarietà nazionale.
L'assunzione di più forti prerogative legislative regionali potrà avvenire anche senza il consenso del Parlamento (previsto, oggi, dalla legge n. 3 del 2001), con il semplice «via libera» di singole leggi regionali, appena «vidimate» dalla Corte costituzionale. Nel campo dell'istruzione, dunque, la legislazione esclusiva sull'organizzazione e gestione delle scuole e sui programmi di interesse locale distrugge dalle fondamenta, a mio modo di vedere, le competenze ancora fresche che, proprio in tali materie, con decreto del Presidente della Repubblica n. 275 del 1999, sono state attribuite alle scuole autonome in fatto di autonomia organizzativa e didattica e di potestà sul curriculo locale, oggi previsto nella misura del 15 per cento.
Inoltre, il termine «gestione» può assumere un significato più o meno esteso a seconda delle diverse interpretazioni. Per alcuni, si dovrebbe spingere fino alla gestione del personale docente in appositi ruoli di pertinenza delle regioni, con connessi contratti di lavoro regionali, almeno integrativi di quelli nazionali. Per altri, questo evento dovrebbe essere scongiurato (e io sono tra questi), pena l'instaurarsi di un localismo inaccettabile anche sul terreno del profilo culturale della scuola. Così pure la possibilità di adottare diverse forme di gestione, partecipazione e governo delle situazioni potrebbe portare ad una diversa configurazione di diritti civili fondamentali a seconda dei territori di residenza. Non sarebbe, quindi, garantita l'uguaglianza del diritto all'istruzione a tutte le ragazze e a tutti i ragazzi, perché questo dipenderebbe non solo, come si dice oggi, dalla classe di provenienza, ma anche dal luogo in cui si è - ahimè, senza colpa - nati.
Credo che, comunque, non possiamo ignorare che rimane una legge dello Stato, la legge n. 59 del 1997, non a caso definita di federalismo amministrativo, che introduce il concetto di norme generali in materia di istruzione, intuendo anche nella Costituzione del 1948 la necessaria distinzione tra aspetti essenziali e fondamentali dell'ordinamento scolastico e normazione secondaria di contesto, di dettaglio, meritevole forse di essere delegificata ed affidata a fonti più specifiche. Ma oggi - è questo il punto sul quale dobbiamo interrogarci - a chi spetta custodire e far rispettare le norme generali? Da dove dedurre queste norme? Come verificare che, nelle leggi concorrenti regionali, nella tutela di interessi territoriali non si oltrepassi questa zona di rispetto?
E ancora: quando si parla di livelli essenziali delle prestazioni in materia di diritti civili e sociali, non siamo più....
PRESIDENTE. Onorevole Sasso...
ALBA SASSO. Sto per concludere, signor Presidente, le chiedo scusa.
Come dicevo, siamo in presenza non più di una pura enunciazione, bensì di una previsione di diritti da garantire a tutti, in eguale misura.
Ma, se non c'è più l'obbligo dello Stato, - poiché il decreto attuativo della legge n. 53 del 2003, in via di approvazione, sostituisce al concetto di obbligo il concetto di diritto-dovere e dispone che la Repubblica non è più tenuta a fornire un servizio omogeneo sul territorio nazionale -, allora vorrei osservare che vi sono dei diritti delle persone, dei diritti di cittadinanza e delle responsabilità sociali nei confronti dei più deboli, e che oggi vi è anche l'esigenza di rispondere alla sfida della multiculturalità. Ebbene, tutte siffatte questioni non possono subire limitazioni dovute alla dimensione territoriale.
Pensiamo che il testo in esame deprima la possibilità di costruire, come oggi sarebbe necessario, una visione di sistema, nell'ambito della quale mettere a valore la sinergia tra nuove responsabilità, nuove competenze e capacità di gestire i nuovi spazi giuridici, amministrativi e organizzativi che si sono aperti con le innovazioni legislative varate in questi ultimi anni; occorre far funzionare, inoltre, un raccordo tra le scuole autonome, l'amministrazione scolastica, le regioni, le province ed i comuni, con le competenze già attribuite dal decreto legislativo n. 112 del 1998.
La legge n. 59 del 1997 non aveva scelto di regionalizzare, provincializzare e municipalizzare la scuola, bensì aveva definito
compiti e dislocato poteri, più che decentrarli. Allo Stato spetta la garanzia dei livelli essenziali ed alle politiche locali territoriali sussidiarie, invece, è affidata la capacità di tradurre i livelli essenziali in livelli ottimali, come ci ricordano le indicazioni europee sulle politiche pubbliche.
Si tratta, dunque, di un sistema - e sto veramente per concludere, signor Presidente - fondato su una forte democrazia governante. Il rischio che intravediamo nel testo oggi in discussione è di tornare indietro su questo terreno e di trasformare quel principio, nobile e antico, ma fecondo di modernità, vale a dire il federalismo di Cattaneo, in un principio debole, povero e infecondo: quello di separazione e di secessione. Si tratta di un colpo per la scuola, per la democrazia e per il futuro del paese (Applausi dei deputati del gruppo dei Democratici di sinistra-L'Ulivo).
PRESIDENTE. La ringrazio, onorevole Sasso, e vorrei ricordarle che ha avuto a disposizione un tempo maggiore per completare il suo interessante intervento.
Il seguito della discussione è rinviato ad altra seduta.
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