![]() |
![]() |
![]() |
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Cossiga. Ne ha facoltà.
GIUSEPPE COSSIGA. Signor Presidente, temo che non potrò essere così brillante come i colleghi che mi hanno preceduto questa mattina ...
PRESIDENTE. Non abbia paura!
GIUSEPPE COSSIGA. Non meriterò neanche qualche interruzione, a meno che le colleghe Deiana e Pisa non mi vogliano interrompere, magari per aprire il dibattito, come io penso sia utilmente accaduto questa mattina. Noi abbiamo un regolamento parlamentare che soffoca un po' l'espressione del pensiero e devo dire che, come parlamentare alla prima esperienza, ogni volta che partecipo alla discussione sulle linee generali mi domando a cosa serva questo rito.
ELETTRA DEIANA. Non lo dire troppo, perché altrimenti Berlusconi ci cancella...
PRESIDENTE. La discussione sulle linee generali, serve a capire quale è il tema in esame. Poi, ogni deputato è libero di ascoltare chi interviene in questa sede.
È la libertà del Parlamento, non siamo impiegati del catasto!
GIUSEPPE COSSIGA. Non siamo impiegati del catasto: quello che diciamo rimane agli atti. Bisogna semmai ringraziare quei cittadini, magari pochi, che ci stanno ascoltando o guardando alla televisione, perché quello che diciamo è un contributo a un dibattito più ampio sul tema di cui stiamo parlando.
Molto spesso i nostri interventi sono di natura politica quando vogliamo affrancarci da problematiche di natura tecnica, giuridica o legale. Credo che ciascuno di noi, quando parla in questa sede svolge un intervento di tipo politico, perché noi siamo qui non perché possediamo scienza, ma perché siamo stati eletti dal popolo. Quindi, pur essendo conscio dei miei limiti - non ho una preparazione giuridica, né costituzionale, ma neanche militare per quello che può interessare -, il mio è un intervento di natura politica, che spero sia utile a far capire ai cittadini le mie posizioni, ma anche alcune differenze tra le posizioni all'interno della maggioranza e anche all'interno dell'opposizione.
Non mi stupisce né mi disturba particolarmente che vi siano posizioni articolate all'interno della maggioranza, così come ve ne sono di evidenti nell'ambito dell'opposizione. Quando mi sono iscritto a parlare, contemporaneamente lo ha fatto anche il mio gruppo, e non è che questo faccia alcuna differenza, perché quando intervengo, per abitudine, parlo sempre a titolo personale, o perlomeno esprimo le mie idee. E sono queste idee, che coincidono in gran parte con quelle del gruppo politico a cui appartengo, che mi permettono di farne parte, e non il contrario; non esprimo le idee del mio gruppo: sono le mie idee ad essere in assonanza con quelle del mio gruppo.
Un primo punto su cui volevo intervenire, sperando di poter dare un utile contributo, riguarda il fatto che, forse, non siamo neanche d'accordo sulla natura, formale e sostanziale, del provvedimento in esame; siamo tutti d'accordo, invece, sul suo significato politico. Tuttavia, penso sia necessario qualche chiarimento in merito alla natura di questo decreto-legge. Si tratta della proroga di una serie di missioni operata attraverso lo strumento del decreto-legge; è evidente, infatti che la proroga ha una sua caratteristica urgenza. Sostanzialmente, siamo di fronte ad un provvedimento che assicura la prosecuzione di alcune missioni, in quanto individua i modi e le risorse finanziarie per coprire le spese che le stesse determinano. Dico ciò forse più per me che per gli altri colleghi, perché il dibattito politico riguarda non tanto questo, quanto il tema «Iraq sì, Iraq no» oppure «guerra sì, guerra no», che, evidentemente, è il tema politicamente più rilevante.
Faccio questa premessa perché mi pare evidente un dato: se questo decreto-legge non venisse convertito, nulla cambierebbe, se non il fatto che i nostri soldati non riceverebbero quanto loro dovuto.
L'impiego di truppe all'estero, infatti, non viene disposto per decreto-legge, bensì con un passaggio parlamentare (una mozione o altro), talvolta prima e talvolta dopo che il Governo ha preso la decisione di impiegare un contingente all'estero. A
mio avviso, ciò dimostra chiaramente qualcosa di cui, forse, parliamo troppo poco. La decisione di inviare truppe all'estero per un impiego diverso dalla guerra (giacché la dichiarazione di stato di guerra è regolata dalla nostra Costituzione in un altro modo) rientra nella responsabilità del Governo, che può ritenere politicamente utile confrontarsi in Parlamento per verificare se, su questa decisione specifica, la sua maggioranza lo sostiene. Ciò nonostante, questa rimane una responsabilità del Governo e non del Parlamento; l'esercizio di tale azione politica è quindi responsabilità del Governo.
Non mi stupisco del fatto che non molti anni fa il Governo D'Alema abbia prima ordinato di impiegare velivoli da combattimento in un'operazione armata (e non uso il termine bellica) in Kosovo e, poi, sia venuto in Parlamento. Non me ne stupisco: in quel momento, il Governo ha ritenuto che ciò fosse necessario e lo ha fatto. È venuto in Parlamento, ha chiesto il voto favorevole in ordine a tale iniziativa e lo ha ottenuto da una maggioranza peraltro diversa, ma non è questo il problema.
Sicuramente, questo decreto-legge non definisce gli orientamenti del Parlamento sulla missione in Iraq o sulle altre; esso stabilisce solo come esse sono regolate dal punto di vista economico. Se il decreto-legge in discussione non venisse convertito in legge, le missioni dei nostri soldati si troverebbero senza copertura finanziaria, ma continuerebbero a rimanere in quei luoghi perché ciò il Governo e la maggioranza hanno affermato di volere.
Anche se venisse abolito il famoso articolo 2 di questo provvedimento d'urgenza, il significato politico sarebbe chiaro a tutti, ma null'altro avverrebbe. E niente sarebbe avvenuto, se fosse stata approvata la questione pregiudiziale. Infatti, la volontà del Governo e della maggioranza di impiegare truppe in alcune zone del mondo a mio avviso rimane chiara.
Un altro punto su cui si è dibattuto molto - e torno ancora al significato politico di questo provvedimento - è se la nostra presenza, in particolare in Iraq (ma qualcuno ha citato anche la nostra presenza in Afghanistan, all'interno dell'operazione Enduring freedom, nonché la nostra presenza in Kosovo) sia legittima, ai sensi della nostra Carta costituzionale, del diritto internazionale, delle deliberazioni dell'ONU e quant'altro.
Sinceramente, non avendo una preparazione giuridica particolarmente approfondita, sono abituato a pensare a due forme di legittimità e mi scuseranno coloro che tecnicamente sono più preparati di me. La prima forma di legittimità è legata all'esistenza di una legge accettata e, da questo punto di vista, la nostra presenza in Iraq può essere valutata in maniera diversa. Infatti, ahimè - e di questo, come cittadino, mi dolgo - evidentemente abbiamo una visione diversa di ciò che afferma l'articolo 11 della Costituzione. Infatti, tale l'articolo stabilisce che l'Italia rifiuta la guerra,...
ELETTRA DEIANA. Ripudia...
GIUSEPPE COSSIGA. ...nel senso che rifiuta di impiegare le Forze armate quando ciò è necessario e ripudia quella forma estrema di relazione tra le nazioni, ossia la guerra (che è cosa assai più vasta e complessa della situazione in cui oggi sono chiamate ad operare le nostre truppe e di ciò che, comunque, è avvenuto nel mondo dopo la seconda guerra mondiale).
Non bisogna aver paura di dire che, sebbene il senso di ciò che è scritto nella Carta fondamentale sia sempre valido, è evidente che le parole usate sono frutto della situazione storica di quel momento e vanno rilette sulla base di un'esegesi che tenga conto del contesto dell'epoca.
Non ho difficoltà a dire che oggi l'articolo 11 della Costituzione, probabilmente, sarebbe stato scritto in un altro modo: il testo è un po' confuso, perché fa riferimento ad un mondo (nel quale o si è bianchi o si è neri, per quanto riguarda la guerra) che non esiste più ed è evidente che lascia la valutazione dei casi, non esplicitamente citati nell'articolo della Costituzione, alla nostra interpretazione.
La mia visione è molto semplice: l'Italia non ha partecipato a questa guerra perché,
a fronte della mancanza di chiarezza dell'articolo 11 della Costituzione, si è ritenuto, correttamente a mio avviso, di non partecipare ai combattimenti che hanno portato alla caduta di Saddam; pertanto, da questo punto di vista non riscontro alcun problema.
Più complessa è la valutazione se questa guerra sia stata legittima o meno. Se guerra legittima significa autorizzata dall'ONU, devo riscontrare che tale autorizzazione non è intervenuta. Se la si vuole intendere come giusta o opportuna, ognuno ha le sue opinioni al riguardo: una guerra, comunque, che si ponga l'obiettivo, prioritario o meno, di rovesciare un regime pericoloso per i cittadini ed il suo paese e per la sicurezza del pianeta in cui tutti viviamo, non mi sembra che si possa considerare illegittima, in particolare, quando affidiamo la definizione di legittimità ad una deliberazione dell'ONU, come se l'organizzazione internazionale fosse il buon Dio o qualcosa al di sopra di noi tutti.
Ma, non è così! L'ONU è formata da paesi, che, come sempre accade e sempre accadrà, deliberano, considerando i propri interessi; vi aderiscono anche quei governi che chiamiamo legittimi perché sono riconosciuti, ma che, magari, non hanno alcuna legittimità intrinseca legata al rapporto che instaurano con la loro popolazione.
Siamo abituati a dire che un governo è legittimo perché democraticamente eletto dal popolo. In sede ONU non è sempre così: può accadere che un governo democratico esprima un voto contrario su un determinato intervento. Ciò, tuttavia, non mi stupisce, perché può accadere per interesse (è avvenuto quando alcuni governi, nostri alleati, la Francia e la Germania, hanno preferito non votare sulla guerra all'Iraq, impedendo all'ONU di deliberare al riguardo)!
Non bisogna stupirsi, perché gli interessi prevalgono; non bisogna, inoltre, stupirsi che qualcuno non abbia visto in quella guerra, in quel momento, la tutela dei propri interessi. Sinceramente, non mi sento di utilizzare le parole «legittima» o «illegittima», come se provenissero direttamente dall'alto quando la discussione riguarda gli interessi. La guerra non ha avuto il «cappello» dell'ONU e, ciò nonostante, è rimasta legittima, considerati i suoi obiettivi.
Si potrebbero citare esempi di guerre intrinsecamente legittime che, però, non hanno ricevuto il «cappello» dell'ONU (né prima, né dopo, né durante) o esempi di interventi dell'ONU che, anche se considerati opportuni o legittimi, non sono stati avviati, perché alcuni paesi hanno avuto al riguardo un interesse diverso.
Questo è un aspetto della questione su cui credo sia opportuno svolgere una riflessione.
Purtroppo, in questo Parlamento si sente parlare poco di interesse nazionale. Capisco che sui mass media faccia più effetto affermare che ci si reca in Afghanistan per aiutare gli afghani o per togliere il burka alle donne, così come capisco che recarsi in Iraq a liberare un popolo sia un argomento politicamente rilevante. Tutto ciò è vero, ma le ragioni per cui ci si reca in Afganistan o in Iraq e non in Birmania è che la situazione internazionale è tale che è interesse del nostro paese intervenire in Afganistan, in Iraq e non in Birmania.
Non credo che abbiamo il dovere di esportare il bene o anche solo la democrazia, ma, invece, ritengo che il nostro Governo abbia il dovere di curare come crede e al meglio delle sue possibilità l'interesse del nostro paese. Da questo punto di vista, mi sembra evidente, oltre ogni necessità di chiarimento, dove risiedeva l'interesse del nostro paese nel momento in cui si è deciso di partecipare ad una missione multilaterale, non unilaterale, in Iraq, una volta realizzata, con una guerra, la debellatio di un regime iniquo e pericoloso, anche per il nostro paese, come quello di Saddam Hussein.
È difficile per me, che non preparo mai gli interventi, non raccogliere la tentazione di reagire ad alcuni degli interventi svolti in precedenza dai colleghi; sicuramente non spetterebbe a me rispondere, dato che il diritto di replica spetta ai relatori e al
Governo; tuttavia, sempre nello sforzo di chiarimento che ritengo debba alimentare tutti noi quando interveniamo, rilevo che sono state fatte, non solo in questa sede ma anche in altre e non solo oggi, alcune affermazioni in ordine alle quali ritengo sia utile chiarire quali siano le differenti posizioni tra i gruppi parlamentari rappresentati in questo Parlamento.
Uno dei punti ai quali si è fatto maggior riferimento concerne l'opportunità di distinguere il voto sulle missioni, adducendo valutazioni - di questo si tratta - sulla diversa natura delle missioni contemplate in questo decreto-legge. La natura delle missioni è sicuramente diversa, così com'è diversa sia la valutazione politica che si dà alle singole missioni sia la valutazione del contesto in cui queste sono state decise. Ma la differenza di valutazione può anche cambiare nel tempo, perché all'interno di questo Parlamento sicuramente c'è qualcuno che all'epoca ha votato a favore dell'intervento in Kosovo ed ora voterebbe volentieri contro, e viceversa. Però, in questo modo, si torna al primo punto che ho già affrontato. Difatti, se è vero che può essere diversa la natura ed il contesto politico di ciascuna missione, altrettanto vero è che non è diversa la natura del provvedimento. Questa, infatti, non è la proroga dell'appoggio che il Parlamento dà ad una scelta del Governo di partecipare alle missioni, ma è un atto formale che serve a coprire i costi di queste missioni. È utile, lo stiamo facendo tutti, parlare dei contesti; però, distinguere com'è pagato un soldato a Nassiriya da com'è pagato un soldato in Kosovo o in Afghanistan risulta un po' più difficile da capire. Ne comprendo il significato politico ma, ancora una volta, non comprendo come possiamo scorporare da questo decreto-legge la sostanza dello stesso: possiamo parlare di politica, ma il decreto-legge rimane tale per sua natura.
Si dice anche che a luglio ci fu la distinzione delle missioni internazionali in due provvedimenti separati e qualcuno sostiene che lo «scorporo» vi è stato perché ci si trovava di fronte ad una situazione diversa. Per quanto mi riguarda, a luglio lo «scorporo» è stato deciso perché ci avvicinavamo alle vacanze estive e perché non si voleva dare vita ad una battaglia parlamentare in quest'aula; conseguentemente, è stata trovata, attraverso lo «scorporo», una soluzione semplificata. Però, poi, le cose sono andate esattamente come volevamo. Sinceramente, avrei preferito un po' più di battaglia, ma all'epoca mi è stato detto che non era il caso di assumersene il rischio. Certo, se avessimo assunto allora quel rischio adesso nulla quaestio e non se ne parlerebbe neanche!
È stato detto che la missione in Iraq si differenzia dalle altre missioni anche perché costituisce di fatto la partecipazione a una guerra ingiusta, che peraltro è una guerra preventiva, priva del «cappello» dell'ONU, condotta senza i nostri principali alleati europei. A quest'ultimo riguardo, è curioso notare che a volte fra i nostri alleati europei vengono annoverati anche la Spagna e il Regno Unito, mentre altre volte sono considerati tali soltanto la Francia e la Germania (non si tratta di un problema di «colore delle maglie», perché i paesi citati, in ciascuna delle due coppie, sono governati l'uno dalla destra e l'altro dalla sinistra).
È stato sottolineato che si tratta di una guerra preventiva. C'è da augurarsi che tutte le guerre siano preventive, perché in tal modo si vincono più rapidamente: se si attende che l'altro si rafforzi e attacchi, l'esito della guerra può essere compromesso (basti pensare ai cittadini del Kuwait, che si sono visti invasi, dall'oggi al domani, proprio dal regime iracheno che ora è stato debellato).
Si è altresì fatto riferimento alle motivazioni addotte a sostegno della guerra - alla quale comunque non abbiamo partecipato - ovvero al rischio costituito dalle armi di distruzione di massa, alla possibilità di attacco immediato, e via dicendo. Non credo che la guerra ci sia stata perché vi fosse il rischio di un attacco con armi chimiche o atomiche da parte di Saddam Hussein, e non ritengo che il fatto che non siano state trovate le armi di distruzione di massa costituisca un grave problema.
SILVANA PISA. Dovevate dirlo al Parlamento!
ELETTRA DEIANA. Perché non lo dici al paese?
GIUSEPPE COSSIGA. Non si tratta di menzogne, ma di argomentazioni che, non avendo l'Italia partecipato alla guerra, possono interessare la curiosità di qualcuno, ma nulla hanno a che vedere con l'azione del Governo, che ha deciso la partecipazione alla missione dopo che il regime iracheno è stato debellato.
Ribadisco che le ragioni che hanno portato dapprima alla guerra, e successivamente alla partecipazione italiana alla missione, attengono all'interesse nazionale (si tratta di un concetto di cui non ci si occupa molto spesso in questo Parlamento), rispettivamente dei nostri alleati (Stati Uniti e Regno Unito) nel primo caso, e del nostro paese, nel secondo caso.
ELETTRA DEIANA. Dovrebbe dirlo Berlusconi in televisione!
GIUSEPPE COSSIGA. Lo dico io, non sono abituato a parlare per conto di altri!
Ho espresso valutazioni che non sono di natura tecnica, perché quando affrontiamo gli aspetti tecnici, c'è chi ha maggiori o minori competenze, è c'è anche chi ritiene di avere maggiori competenze di quante effettivamente ne abbia: le questioni tecniche dovrebbero essere tenute fuori da questa Assemblea.
Ritengo sia strumentale accusare la maggioranza di avere «strozzato» il dibattito in Commissione per non aver consentito di ascoltare i vertici militari: questi ultimi di cosa sarebbero dovuti venire a parlare? Di come si costruiscono i muretti antibomba? Di come viene garantita l'efficacia di un sistema di comando? Non ritengo si tratti di questioni di competenza parlamentare.
L'onorevole Spini, che è stato protagonista di un dibattito acceso - quando ciò accade a volte si trascende, sia dal punto di vista regolamentare sia dal punto di vista personale - ha fatto riferimento alla richiesta, respinta in Commissione dalla maggioranza, di udire i vertici militari. Era stato udito poche settimane prima il ministro della difesa sul complesso delle missioni, nonché i sottosegretari.
SILVANA PISA. Al Senato!
GIUSEPPE COSSIGA. Il ministro della difesa è stato udito al Senato dalle Commissioni riunite, con una metodologia innovativa che viene utilizzata da alcuni anni; i sottosegretari competenti sono stati uditi in Commissione.
Io ricordo una piccola differenza, ovvero che quando il sottosegretario alla difesa fu audito in Commissione, egli poteva esprimersi su tutte le missioni ed invece gli fu richiesto di esprimersi solo sulla missione irachena, che è quella politicamente più rilevante; dopo di che, egli fu ringraziato. Si disse che non c'era interesse sulle altre missioni, perché l'opinione pubblica era meno «calda» e i giornali non avrebbero dato alcuna visibilità. Non fu quindi neanche permesso al rappresentante del Governo di approfondire questa tematica. Fu addirittura chiesto - e i presidenti possono correggermi - di tenere le riunioni delle Commissioni in diretta televisiva. Ora, da cittadino più che da parlamentare, considerato che sono nella stessa condizione, so bene che ciascuno di noi, quando è davanti alle riprese televisive, con un microfono, cambia atteggiamento. Questa è la ragione per la quale in Commissione di solito non viene redatto il resoconto stenografico e non vi sono riprese televisive. In questo modo si lavora, anziché fare cinema! Questa è la ragione per la quale abbiamo evitato che il dibattito utile che vi è stato in Commissione si trasformasse in uno spettacolo.
La maggioranza in Commissione si è anche espressa negativamente su una serie di richieste di audizioni, perché queste sembravano totalmente inutili in quanto è responsabilità del Governo e dei vertici militari, che dal Governo dipendono, stabilire come la missione debba essere gestita. Non è un problema che riguarda il Parlamento: infatti, se quest'ultimo dovesse
occuparsi di tutti i dettagli tecnici di ciascuna azione del Governo, non ne usciremmo! Tecnicamente furono anche richieste audizioni sicuramente poco utili, perché il Capo di stato maggiore dell'esercito, e soprattutto quello dell'Arma dei carabinieri, non hanno nulla da dire su questa missione.
Il Capo di stato maggiore della difesa ha una sua competenza tecnico-operativa, ma dipende dal ministro della difesa. Per questa ragione, se si chiedono audizioni solo per prolungare i tempi, la maggioranza, saggiamente e per abitudine, ritiene che questo non sia utile e nega quindi l'assenso per lo svolgimento di queste audizioni.
Ho svolto una serie di considerazioni, certamente non di carattere tecnico, ma politico, non una dichiarazione di voto perché siamo in sede di discussione sulle linee generali; ritengo tuttavia che i cittadini che leggeranno il resoconto di questa seduta, si potranno fare un'idea di come voterò al termine dell'esame.
Abbiamo ascoltato una serie di osservazioni ulteriori da parte di coloro che mi hanno preceduto. Senza avere la palla di vetro, immagino che ne sentiremo anche altre nel prosieguo di questa seduta. Mi auguro che, dopo le considerazioni che illustrano le posizioni anche dell'opposizione, i cittadini siano in grado di farsi un'idea di cosa accadrà al momento del voto. Io sinceramente non me ne sono fatta una, e mi auguro che essi se la possano fare (Applausi dei deputati dei gruppi di Forza Italia e di Alleanza nazionale - Congratulazioni)!
PRESIDENTE. È iscritta a parlare l'onorevole Pisa. Ne ha facoltà.
SILVANA PISA. Signor Presidente, onorevoli colleghi, oggi discutiamo di un decreto-legge che propone la proroga della partecipazione italiana a operazioni internazionali, mettendo insieme missioni molto diverse sia dal punto di vista formale - autorizzate o meno dall'Onu - sia dal punto di vista sostanziale.
Non insisterei ancora sulla necessità dello scorporo di alcune di queste missioni - sulle quali avevo già parlato in Commissione e sulle quali presenteremo emendamenti - se nell'ultima settimana non fossero accaduti avvenimenti di bruciante attualità (la strage della moschea di Kerbala e quella di Baghdad), e di stringente attualità (come il caso del rimpatrio dei nostri elicotteristi), che ci costringono a chiedere che per le missioni in Iraq ed in Afghanistan sia consentito al Parlamento un voto separato.
È indegno che la politica estera e quella della sicurezza e difesa del nostro paese procedano per proroghe e che i parlamentari debbano decidere su missioni strategiche, assumendosi la responsabilità di inviare militari in zone altamente rischiose sulla base delle scarne relazioni dei sottosegretari e delle notizie apprese dai giornali. Questo è il livello di informazione che abbiamo! La polemica è stata sollevata anche dal collega Cossiga: noi abbiamo chiesto in Commissione le audizioni per saperne di più, e non per avere solo notizie tecniche, circa lo svolgimento dei fatti. Non sono state concesse, cosa francamente sorprendente, perché tale è la gravità e la complessità di alcuni scenari, quello iracheno e quello afghano, che, al confronto, il monitoraggio ed il bilancio di altre operazioni, che pur sarebbe necessario, finisce per scomparire.
Per ora mi limiterò a parlare del merito più scottante: la missione in Iraq. Siamo stati contrari, con il nostro voto, lo scorso luglio e lo siamo a maggior ragione oggi, perché tutte le considerazioni che svolgemmo nei nostri interventi - basta andare a rileggere gli atti - si sono dimostrate vere e le motivazioni del Governo, che già denunciavamo come bugie, si sono dimostrate tali senza ombra di dubbio.
Il Presidente Berlusconi il 19 marzo 2003, alla vigilia della guerra, affermò in aula che l'intervento americano era legittimo perché esistevano le armi di distruzione di massa - anzi disse: non si può fare strame della verità! - e che il sostegno dell'Italia agli Stati Uniti significava il mantenimento di una grande alleanza contro il terrorismo. L'Italia, paese non
belligerante, metteva a disposizione degli Stati Uniti basi e infrastrutture non per attacchi militari diretti. Insomma, in quel discorso si «licenziava» l'ONU (e noi sappiamo che soltanto l'ONU e il diritto internazionale possono autorizzare l'uso della forza) e lo si sostituiva con la coalizione dei volenterosi; si contribuiva a dividere l'Europa rinunciando ad impegnarsi per la promozione della pace; si sosteneva la guerra preventiva e unilaterale di Bush e, pur non facendola, la si giustificava con il pretesto dell'esistenza di armi di distruzione di massa, con la lotta al terrorismo, per esportare libertà e democrazia. In questo modo si forniva la prima tranche del catering italiano (le basi) - l'espressione è di Lapo Pistelli ed io la trovo geniale - a cui sarebbe seguita la seconda tranche a luglio (la missione umanitaria), insensibili al vasto movimento di opinione di questo paese - e non solo - che aveva manifestato contro la guerra e contro l'occupazione illegale dell'Iraq. Ma non si ha credibilità quando si parla di esportare democrazia e legalità se il primo passo per arrivarci è una guerra illegale.
Mi dispiace che il collega Cossiga non sia presente, perché ho seguito con interesse la sua disquisizione sull'illegittimità e l'illegalità, in cui egli ha distinto tra legittimità formale e sostanziale, con il risultato - io temo - che alla legittimità della legge e degli organismi internazionali si sostituisca la legittimità della forza e si arrivi alla legge della giungla: che bel progresso, complimenti allo chef!
Oggi ci sono le prove provate delle vostre bugie e delle nostre ragioni. Le armi di distruzioni di massa non c'erano, anzi, furono inventate false prove per dimostrarne l'esistenza. Su queste gravi falsificazioni, negli Stati Uniti e in Gran Bretagna si costituiscono commissioni di inchiesta. Molti americani, anche nelle Forze armate, si chiedono per chi, per che cosa e perché abbiano combattuto e rischiato la vita e nel Parlamento inglese il liberale Campbell ha sostenuto che, se il Parlamento stesso avesse saputo che le informazioni sulle armi erano false e manipolate, il Governo non avrebbe ottenuto la maggioranza quando vi fu il voto sulla guerra. In Italia, dove i nostri servizi segreti hanno contribuito alla costruzione del dossier yellow cake, non si sente il bisogno doveroso di ricercare la verità, nonostante sia stata proposta la costituzione di una commissione d'inchiesta, fin da luglio, dal collega Folena. Questa è la vostra concezione di democrazia e libertà: avete paura della verità!
Né ha retto la motivazione della guerra al terrorismo; anzi, la guerra ne è stata un detonatore. Questo lo dicemmo fin dalla missione in Afghanistan: affermammo che la sicurezza non è un bene divisibile, non è sicuro un mondo in cui un quarto della popolazione ha tutto e i tre quarti vivono tra gli stenti. La neoglobalizzazione liberista, che dopo la caduta del Muro è diventata pensiero unico, non costruisce argini all'insicurezza dei più, non previene; occorre invece prosciugare i bacini dell'odio, dove si trovano persone disposte a morire pur di uccidere (cito il presidente del mio partito che, in occasione del dibattito sull'Afghanistan, disse questa frase). E prevenire significa contenere, isolare, risolvere le cause a monte; invece non è mai stata tentata una credibile coercizione che portasse il regime iracheno sotto tutela internazionale. Una sorta di «amministrazione controllata dall'interno», come la definisce il generale Fabio Mini, che salvaguardasse gli interessi dei cittadini ostacolando gli orrori del regime di Saddam. Si è preferita per anni la via dell'embargo, che è risultata punitiva solo per il popolo iracheno, mentre ha aumentato il potere di controllo di Saddam, senza contare che il regime di Saddam, come tutti i regimi autoritari e dispotici, esercitava un controllo ferreo sul territorio. Come dice il candidato americano democratico Kerry, è l'intervento militare ad aver creato il terrorismo, perché prima non c'era.
I legami tra Saddam e Al Qaeda, inoltre, non sono mai stati provati: Anthony Cordesman, del Center for strategic and international studies - perché gli americani studiano! -, sostiene che, su 12 mila
sospetti arrestati dagli Stati Uniti, oggi solo una ventina possono considerarsi legati ad Al Qaeda.
La realtà è che, occupando l'Iraq, si è scoperchiato il vaso di Pandora, ed oggi - oggi, non ieri - in Iraq c'è di tutto. Come ho già detto in sede di Commissioni, il generale Odierno, comandante della IV divisione di fanteria, ha affermato che gli ex appartenenti al partito Baath sono in difficoltà, ma altri iracheni hanno deciso di combattere gli americani per nazionalismo.
Così, come accanto alle truppe degli Stati Uniti ci sono squadroni della morte composti da ex fuoriusciti iracheni e cinque compagnie di mercenari americani (la Dyncorp e la Kellog, Brown & Root), per un totale di circa 30 mila persone, accanto agli iracheni insurgentes ci sono anche guerriglieri stranieri, provenienti da paesi arabi. Ciò rende difficile distinguere il terrorismo odioso dei kamikaze, che colpisce anche i civili, dalla resistenza, che è consentita dalla Carta dell'ONU (il diritto a resistere con le armi all'occupazione straniera) e che trova consenso nella popolazione. Ci sono molte organizzazioni, anche diverse tra loro, finanziate dalle comunità locali. Pochissime si rifanno a Saddam, e molte sono intrecciate con forme di resistenza politica religiosa, perché l'occupazione sta spingendo verso i fondamentalismi un paese che era laico: questo è un altro risultato della guerra!
Ma che l'occupazione militare abbia creato un largo scontento è noto. Al momento, c'è un peggioramento generalizzato delle condizioni di vita della popolazione: edifici pubblici bombardati, scuole distrutte, epurazione dagli impieghi pubblici. I contadini, inoltre, che con il Governo precedente erano abituati a pagare cifre simboliche per sementi e fertilizzanti ed avevano la certezza di vendere il raccolto a prezzi stabiliti, oggi si trovano in difficoltà. Insomma, hanno pesato sul dopoguerra errate valutazioni su come avrebbe reagito la popolazione. Avrebbero dovuto essere accolti come liberatori, mentre i nostri soldati a Nassiriya oggi riconoscono - cito tra virgolette - che «qui ci sopportano, ma non sappiamo fino a quando». Hanno pesato anche errori di gestione dell'occupazione anglo-americana, che è stata soprattutto interessata a controllare i pozzi di petrolio a sud e a nord, svelando - se ancora ce ne fosse stato bisogno - il vero motivo della guerra irachena: gli approvvigionamenti energetici ed il controllo geopolitico dell'area.
In una realtà tutt'altro che pacifica e pacificata, la «missione italiana umanitaria» costituisce un ulteriore controsenso. Innanzitutto, non può essere oggettivamente di pace la presenza di un contingente militare in una zona presidiata militarmente da truppe di occupazione, anche se soggettivamente i nostri soldati la vivono come una missione umanitaria, perché così l'ha definita questo Governo, e questa bugia è un'ulteriore responsabilità di questa maggioranza. Le nostre unità militari, inoltre, sono inquadrate nel dispositivo delle forze di occupazione, vale a dire sotto comando britannico, con la confusione di essere forze di occupazione senza averne lo status: come dire, subiscono gli stessi svantaggi e gli stessi pericoli degli altri contingenti senza partecipare alla Coalition provisional authority (CPA).
Come dice il Presidente Cossiga - cito il libretto inviato oggi ai parlamentari, nella loro posta -, tutto questo sarebbe estremamente ridicolo se i nostri figli e fratelli, carabinieri, fanti della brigata Sassari, altri militari e civili non fossero stati uccisi a Nassiriya.
Che non fosse una missione di pace è dimostrato, tra l'altro, dalle stesse cifre stanziate per la missione militare e per quella umanitaria: a luglio erano 230 milioni di euro per la missione di guerra e 23 milioni per quella di pace ed oggi la proporzione è analoga. Ma che gli stessi militari inizino a nutrire dubbi è risultato da una polemica «di nicchia» dei mesi passati sulle onorificenze. I militari, infatti, si aspettavano un'onorificenza pari al rischio della missione, invece hanno ottenuto solamente un'onorificenza minore, da missione di pace.
Un'altra prova è costituita dall'applicazione alla missione del codice di guerra (che non vorremmo trovasse attuazione nei confronti degli elicotteristi), applicato solo per missioni hard, come l'Afghanistan e l'Iraq.
Ma che sarebbe stata una missione rischiosa molti di noi lo sostenevano fin da luglio. Mi ricordo di aver detto in Commissione e in aula: sarà come la Somalia, per questo non devono partire! Ci era stato risposto che si trattava di una operazione a limitata intensità operativa, ossia a basso rischio. Credo che nessuno possa più dirlo - se mai è stato vero - dopo i tanti gravi attentati (tra cui quello di Nassiriya che ci ha colpito direttamente) e dopo la ripresa, nel mese di novembre, dei durissimi bombardamenti dell'operazione Iron Hammer. Anzi (ed è un paradosso), quando alcuni di noi oggi chiedono fortemente il rientro dei militari ci viene risposto: ma non possiamo andarcene, così diventerebbe come la Somalia!
Insomma, non c'è pace in Iraq: si muore tutti giorni; ci sono più di 30 attacchi al giorno; c'è il coprifuoco in molte città. Un'escalation di violenze che ricorda la quotidianità tra Israele e Palestina. Come stabilizzazione del paese, niente male! Ci saremmo aspettati che in questa situazione il Governo venisse in aula per dirci perché, di fronte a questo cambiamento di scenario, i nostri soldati si devono trovare coinvolti in un'occupazione militare senza ragione: perché, per chi e per cosa? Il Governo non se l'è sentita di venire a riferire e di dirci la verità. Nulla, solo questa discussione un po' asettica, apparentemente tecnica: «Proroga delle operazioni internazionali», come se la guerra fosse una cosa normale, di routine. Oggi le difficoltà del dopoguerra - ed è un eufemismo chiamarlo in questo modo - sono sotto gli occhi di tutti e solo Giuliano Ferrara parla di uno straordinario new deal iracheno capitanato dai marines.
Anche Bush, in vista delle elezioni presidenziali di novembre, preme per liberarsi da quella che si è dimostrata una pesante palla al piede: un Iraq riottoso che mira ad un'autentica autonomia. Oggi, gli Stati Uniti vogliono cedere i poteri «formali» (una Costituzione, la creazione di un'Assemblea nazionale cui la CPA passi i poteri civili, elezioni politiche entro la fine del 2005). Ma, a parte che esistono visioni diverse sugli organismi (l'Assemblea nazionale è eletta dai notabili o deve essere eletta a suffragio universale come vogliono gli iracheni?), è certo che gli Stati Uniti mirano a conservare le basi militari (per il controllo geostrategico del territorio) e a controllare direttamente, anche nel futuro, i giacimenti petroliferi. Il che ovviamente non coincide con l'aspirazione degli iracheni, che sono certamente e profondamente divisi tra loro - sunniti, sciiti, curdi -, per motivi sociali, religiosi e politici, ma uniti nel pretendere il superamento dell'occupazione politica e militare attraverso un processo democratico garantito dall'ONU (Al Sistani, sceicco sciita, ha chiesto giorni fa una nuova risoluzione del Consiglio di sicurezza dell'ONU). È all'altezza di questa richiesta ipotizzare invece un futuro intervento della NATO a sostituzione delle coalition willings? E noi cosa faremo a Nassirya se gli sciiti pretenderanno di sostituire il consiglio provinciale provvisorio (la famosa signora Contini nominata dagli Stati Uniti) con un consiglio liberamente eletto?
La richiesta di ritiro delle truppe italiane è nel senso dell'affermazione della legalità internazionale violata (non sanata dalla risoluzione n. 1511, che si limita a prendere atto della situazione) e dell'avvio di quella discontinuità, già invocata in quest'aula, che vede nell'ONU, cui appartengono anche gli iracheni, l'unico organismo in grado di rimettere in moto il paese verso l'autogoverno.
Votare no alla proroga non vuol dire essere contro i nostri soldati; vuol dire tenere molto alla loro vita, perché oggi sono coinvolti in una guerriglia molto pericolosa; su di loro c'è una taglia di 6 mila dollari per ogni morto, in un quadro politico fatto di stop and go continui (basti pensare al rinvio della firma per il testo costituzionale; oggi invece è stato firmato), con una missione incerta: non si tratta di
Peacekeeping né di Peace Enforcement (previsti dall'ONU come azioni di interposizione).
Sono scoperti dal mandato ONU (la risoluzione n. 1511 autorizza una forza multinazionale a comando unificato, che è già una contraddizione perché unisce le forze occupanti ad altre forze, mentre la gestione dei contingenti è affidata alla forza della CPA a guida americana). È una missione nata ambigua e diventata sempre più pericolosa, perché delle due l'una: o la nostra missione con la sua attività impedisce azioni di guerriglia (ma allora è missione di guerra ed è incostituzionale) o, trovandosi in una realtà esposta e drammatica, si concentra «sull'autoproteggersi» come se la guerra non ci fosse (allora è una missione di pace «fuori luogo»). In entrambi i casi, anche se per motivazioni diverse, è necessario il rientro.
I militari italiani vivono e muoiono in Iraq non in base a trattati internazionali. A allora noi chiediamo: in base a quale documento del diritto internazionale sono stati messi a disposizione discrezionale di altri governi? Per l'amicizia di Berlusconi nei confronti di Bush? Per partecipare al business della ricostruzione (che vuole dire ricostruire strade, ponti, scuole, musei distrutti dai bombardamenti di guerra)?
Ai nostri soldati ci avrebbe dovuto legare il patto costituzionale: che il Parlamento non li avrebbe mai mandati a rischiare la loro vita, se non per difendere il loro paese o per proteggere un paese alleato attaccato dal nemico. Invece voi li avete mandati a fiancheggiare un'occupazione illegale in un paese teoricamente in stato di «guerra a bassa intensità» (la guerra light), la cui normalità, che ci fate vedere attraverso la vostra TV faziosa e di parte, controllata dal Presidente del Consiglio, fa entrare nelle nostre case insieme alla partita della domenica, al festival di Sanremo, mentre altra normalità è quella che la CBS e la CNN fa vedere ai loro paesi (soldati feriti che, stufi, vogliono tornare a casa).
Una guerra e una occupazione fatte perché Bush, Cheney e la Halliburton possano esercitare il controllo sulla seconda maggiore fornitura di petrolio del mondo, sulla base di una montagna di bugie.
I soldati americani sono stanchi di questa guerra; lo ripetono alla rivista militare Stars and stripes: il 45 per cento di loro vuole tornare a casa. E come Bush è responsabile della morte dei 500 soldati americani (e più) e del ferimento di tanti altri, così il Governo Berlusconi è responsabile delle morti di Nassiriya, che abbiamo pianto insieme nel giorno del lutto, ma di cui oggi si deve trovare una responsabilità. E al presidente Selva, che vedo rientrare in aula, che ha detto che i caduti ci hanno unificato nel lutto, dico che sono d'accordo; ma poi si imponeva una valutazione, si imponeva una assunzione di responsabilità.
In Parlamento non si giudica del comportamento dei nostri soldati (capaci, con un forte senso del dovere e della responsabilità). Anch'io c'ero alla missione di Nassiriya e li ho conosciuti. In Parlamento si giudica della politica estera e della difesa e sicurezza del Governo italiano che, anche in questa occasione, è stata pessima. Non siamo i soli a dirlo: su queste motivazioni ci ritroveremo con il popolo della pace che il 20 marzo manifesterà nelle grandi città del mondo. Per questo, molti di noi voteranno contro; per questo, molti di noi chiederanno il ritiro (Applausi dei deputati dei gruppi dei Democratici di sinistra-L'Ulivo e di Rifondazione comunista).
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Gerardo Bianco. Ne ha facoltà.
GERARDO BIANCO. Signor Presidente, signori sottosegretari, pochi e volenterosi colleghi, non credo che sia stato molto lungimirante, soprattutto da un punto di vista di maggioranza, respingere la richiesta avanzata dall'opposizione di distinguere decreti e missioni di pace, né mi sono parse molto convincenti le osservazioni or ora avanzate dall'onorevole Cossiga - piuttosto sofisticate - , che, in verità, ha espresso una strana concezione del Parlamento, che non dovrebbe occuparsi
degli aspetti della missione. Piuttosto singolare la sua concezione del Governo, che sarebbe totalmente responsabile dell'intervento in queste missioni di pace. E poi una «chiccha»: la sua concezione della legalità internazionale. Quando ho sentito che il suo principio ispiratore - mi dispiace che non sia presente - era l'interesse nazionale, nella mia mente è immediatamente balzato alla memoria, signor Presidente, il sacro egoismo di ottocentesca e novecentesca memoria.
Credo che oggi dovremmo ragionare in maniera diversa, ed io ragiono - non so se le dispiace, signor Presidente - da vecchio democristiano.
PRESIDENTE. No, non mi dispiace, c'è chi non ha più il coraggio di dirlo, lei invece lo ha.
GUSTAVO SELVA, Relatore per la III Commissione. Anch'io sono un vecchio democristiano, se è per questo!
GERARDO BIANCO. Ragiono da vecchio democristiano, e mi riferisco a quando noi democratici cristiani tentavamo - può darsi che anche all'onorevole Crucianelli non dispiaccia, perché credo che oggi abbia preso coscienza di ciò che eravamo - , pur nella divisione dei blocchi, di aprire spazi per trovare intese, per allargare le basi del consenso alla nostra politica estera atlantica ed occidentale.
Parlo della fine degli anni settanta. Aprimmo, così, varchi e brecce - lei lo ricorderà, onorevole presidente Selva - in quegli anni tra i più duri della guerra fredda il cui sviluppo, poi, è stato la pressoché generalizzata condivisione della politica europeista e, potrei dire in modo più allargato, di quella occidentale ed atlantica.
GUSTAVO SELVA, Relatore per la III Commissione. Può darsi che un vecchio democristiano abbia un'altra possibilità di fare breccia...
GERARDO BIANCO. Siamo arrivati - ricorderà - a quei documenti sottoscritti insieme e, perfino, ad alcuni interventi realizzati nel quadro dell'alleanza atlantica. Avreste dovuto sperare che ci fosse stata maggiore prudenza. Tuttavia, per operare in quel senso - ripeto - democristiano, bisognerebbe avere una visione diversa, strategica e la capacità di utilizzare tutte le risorse disponibili, compresa quella dell'opposizione, per poter presentare un paese al massimo credibile sulla scena internazionale. Questo avrebbe dovuto essere il nostro primo obiettivo.
Confesso che a me sembra incomprensibile il diniego opposto dal Governo e dalla maggioranza ad accogliere tale istanza, perfino elementare, dell'opposizione. Mi riferisco alla distinzione delle varie missioni per assumere su di esse un atteggiamento diverso. Mi domando quale sia lo scopo del vostro rifiuto: non credo che giovi una piccola polemica interna, né vale la pena ottenere l'obiettivo di vedere le divisioni innegabili presenti nel centrosinistra e rinunciare, invece, ad un'ampia convergenza su otto delle nove missioni. In ogni caso, mi domando quale sia il grande respiro, onorevoli relatori, di un indirizzo che privilegia una competizione tutta interna alla possibilità di vedere una vasta intesa che, certo, sarebbe stata gradita anche ai nostri militari che operano in difficilissime situazioni.
Voi, signori del Governo, non potete rovesciare il discorso ed imputare all'opposizione una responsabilità, perché così non è. Non potete, onorevoli relatori, signor presidente di Commissione, pretendere, con il ricatto delle altre missioni, di rovesciare la posizione che il centrosinistra ha assunto - discutibile o meno, ma legittima - sull'intervento in Iraq. Si tratta di una questione che fa discutere non solo in Italia, ma anche in America.
È soprattutto compito di una maggioranza adulta e di un Governo responsabile cercare le convergenze possibili sui nodi internazionali, realizzando quei compromessi accettabili dall'opposizione. Questa è saggezza politica. Ne vedo molto poca, signor Presidente, in circolazione. Probabilmente, non appartiene al Governo né all'attuale maggioranza quella cultura politica
propria delle grandi democrazie e dei Governi che si adoperano sempre per superare i confini di partito, di coalizioni e per dimensionarsi sulla coscienza dell'intero paese. Ecco perché il Parlamento è importante, onorevole Cossiga, assente. Ecco perché è necessario che il Parlamento, espressione della sovranità popolare, venga coinvolto nella sua interezza: di questo diamo atto al Governo, anche se poi ne ha paralizzato la discussione.
Credo di ricordare il motivo del suddetto rifiuto. Quando in una precedente occasione abbiamo votato per le altre missioni, ricordo che il Presidente del Consiglio, alla conclusione del dibattito, diversamente dai suoi ministri che avevano mostrato una qualche apertura intelligente, manifestò una sua infastidita opinione: parlò di inutilità e superfluità del voto delle opposizioni di centrosinistra. Visto che parliamo dell'onorevole Cossiga, ricordo anche la sua dichiarazione di voto piuttosto burbanzosa alla conclusione di quel dibattito.
Se questa è la cultura di Governo, allora c'è molto da apprendere da quella prima Repubblica, signor Presidente, che qualcuno mostra di disprezzare, dopo averne semmai tratto giovamento. Personalmente, non mi è parsa - lo dico con franchezza - una grande idea la presentazione della questione pregiudiziale. Essa era chiaramente strumentale e voleva esprimere, in qualche modo - perché costretti -, un dissenso sulla missione in Iraq. Lo ha detto con chiarezza, e direi anche con grande efficacia, l'onorevole Violante. Sofisticare oggi sul fatto che una sua approvazione, come è stato detto poco fa, possa significare la fine di tutte le missioni è solo un artifizio retorico, poiché è evidente che vi è l'impossibilità di un'approvazione del genere. Quella questione pregiudiziale va considerata per quello che voleva essere: un dissenso sull'intervento in Iraq; un dissenso sul modo con il quale si è intervenuti in Iraq.
Devo dire che anche nella sua relazione, onorevole Selva, che ho seguito con molta attenzione, ho trovato quasi una sottovalutazione del presupposto dell'intervento in Iraq, quello che in fondo gli dà fondamento e che oggi sta turbando la coscienza degli inglesi e degli americani. Se voi foste stati veramente interessati a capire e a costruire qualcosa, insieme con il centrosinistra, anche al fine di ottenere un atteggiamento più comprensivo rispetto ai problemi della missione Antica Babilonia, sarebbe stato molto più proficuo potersi esprimere qui con chiarezza su questo problema, con riferimento al quale - pur considerando noi sbagliata la guerra in Iraq - bisognava comunque discutere; avremmo così potuto trovare posizioni anche più prudenti e più attente sul problema della permanenza o meno dei militari in Iraq, perché di questo si tratta. Sarebbe stato più logico e conveniente per voi provocare un chiarimento delle rispettive posizioni politiche. Separare le questioni, dividere i decreti-legge significava anche poter discutere in modo pacato di questi problemi. Voi lo avete impedito, con un improvvido niet del Governo e della maggioranza, proprio quando abbiamo invece bisogno di analisi spassionate e di prudenti decisioni.
Sembra che voi ragioniate specularmente all'oltranzismo pacifista, «senza se e senza ma», dell'allineamento alla politica del Governo americano. Pertanto, non mi sembra davvero ammissibile da parte vostra che si possa criticare l'intervento militare in Iraq, che pure è oggi ampiamente discusso e ritenuto appunto discutibile anche nella stessa America. Nel vostro diniego a confrontarvi c'è una voglia - che a me sembra molto puerile, per la verità - di nascondere la testa, di non vedere, di stare lì, nella garitta, sull'attenti a credere e ad obbedire al verbo dell'attuale gruppo dirigente statunitense, proprio quando le loro dottrine unilateraliste della guerra preventiva (che è il grande problema di fronte al quale ci troviamo) e della democrazia esportata ad ogni costo sono poste in discussione e lo sono addirittura dagli stessi elaboratori di queste teorie, i quali sono costretti oggi a misurarsi con una realtà più complessa di quanto essi avessero all'inizio immaginato.
Non credo che il Presidente Bush pronuncerebbe oggi, negli stessi termini, con le stesse semplificazioni e con la stessa fiducia missionaria, il discorso che tenne il 26 febbraio 2003 all'American Enterprise Institute sugli obiettivi dell'intervento militare in Iraq. Quella guerra resta un errore, non solo per l'inesistenza del suo presupposto, cioè per l'assenza delle armi di sterminio, ma anche per i processi che essa ha messo in moto; in particolare, per l'indebolimento - questo è il punto sul quale non si può sorvolare e sul quale si deve dare una risposta - dei principi di legalità internazionale, che l'ONU garantisce, laddove l'ONU non è uno strumento qualsiasi di comodo, come ha detto l'onorevole Cossiga, visto che gli stessi Stati Uniti hanno contribuito a costruirlo e l'hanno sempre sostenuto.
Permettete un ricordo storico. A Carlo Marx che, nel 1964, si era felicitato per la rielezione di Abraham Lincoln, Charles Francis Adams - futuro Presidente, allora membro del Governo - così rispondeva: Il Governo degli Stati Uniti - sono le parole del suo messaggio di ringraziamento - è pienamente cosciente che la sua politica non può né potrà mai essere reazionaria. Pertanto dobbiamo salvaguardare sempre quella rotta, che è stata una nostra costante, di astenerci cioè da qualsiasi propaganda o intervento illegale all'estero.
Abbandonare quella concezione, prendere in ostaggio e ignorare l'ONU per sostituirvi concessioni western significa perdere proprio quel magistero democratico che gli Stati Uniti si sono guadagnati combattendo per la libertà dei popoli nel mondo.
Ecco perché la passiva accettazione di una certa politica, impostata sulla base di dottrine ultimative, come quella «o con noi o contro di noi comunque» non significa né amare né aiutare l'America ad essere se stessa. Gli Stati Uniti hanno il diritto alla nostra solidarietà, così come appunto facemmo - lei lo ricorderà, onorevole Selva - con la mozione sugli euromissili del 1979, che all'epoca ebbi la ventura di firmare per conto della coalizione di Governo. Ma quella nostra solidarietà aveva un fondamento rilevante ed importante nel confronto internazionale; oggi invece rischia di essere vacua e perfino controproducente se diventa soltanto solitaria, italiana e non anche europea.
Una politica tutta a stelle e strisce, che non sa coniugarsi con una coerente e prioritaria politica europea, è destinata ad essere fallimentare, a dirottarci su binari diversi da quelli saldissimi che Alcide De Gasperi fissò e che ci hanno positivamente guidato in questi decenni.
Per aiutare l'America - come osservò de Tocqueville - bisognerebbe che l'Europa le stesse sempre accanto e perché ciò avvenga è necessario che ciascun paese sia nel contempo nazionale ed europeo, ma soprattutto europeo più che nazionale nelle relazioni internazionali con le altre aree del mondo e, in particolare, con gli Stati Uniti d'America.
Scendere di gradino in Europa, come sta facendo questo Governo, passando al secondo girone - in serie B, è stato scritto -, significa prima o poi perdere anche valore agli occhi del grande alleato e, quindi, perdere anche gli inviti al ranch.
La furberia di correre per primi - perché questa è stata l'ossessione del Governo - per sedersi in prima fila sa molto di approssimazione, anche perché rischia di alimentare errate impostazioni politiche, come quelle sostenute da alcuni dirigenti americani di coalizioni variabili a seconda degli obiettivi da raggiungere.
Accettare una simile impostazione, come accettare il principio della guerra preventiva, significa uscire dal sistema di alleanze, che invece garantisce la parità, l'ordine e la sicurezza tra i partner, entrando al contrario in una logica diversa dove, appunto, vi è chi decide per tutti e poi aggrega. Questa è la radice di un imperialismo, che riteniamo la grande America non possa accettare!
L'Italia, peraltro, sta già pagando il prezzo di questa cecità, di questa fretta, di questa sua canina fedeltà. L'esclusione dall'incontro di Berlino la dice lunga e, forse, tra qualche mese, Francia e Germania troveranno più ascolto presso l'Amministrazione americana, poiché questo è
sempre il destino di chi acriticamente - lo dico ai sottosegretari che rappresentano il Governo - si subordina ad un padrone.
E di ciò vi sono significativi indizi. La politica di questo Governo non aiuta affatto l'America e la conferma dei propri errori è in primo luogo quella di non ristabilire il ruolo dell'ONU nella gestione del nodo iracheno.
Siamo stati precipitosi perché vi era forse l'illusione di poter cogliere, insieme a Bush e a Blair, il facile e dolce frutto del successo militare, pensando, che la guerra sarebbe finita. Invece, questo dopoguerra è amaro, molto amaro, e sta alterando la natura della nostra missione. Come possono il Governo e la maggioranza pretendere dall'opposizione che essa taccia su questi aspetti, peraltro anche tecnici, come ha documentato in uno splendido intervento il collega Angioni?
LUIGI RAMPONI. Lei pensa?
GERARDO BIANCO. Era opportuno. Non credo, onorevole Ramponi, che adesso il collega Angioni diventi per lei uno sprovveduto dal punto di vista tecnico! Non vorrei che la sua passione politica fosse così forte da sommergere la sua competenza tecnica. Credo che questo non avverrà mai. In ogni caso, chiarire le posizioni è importante.
LUIGI RAMPONI. Non la metta su un piano così antipatico!
GERARDO BIANCO. Credo che lei sia stato un grande generale, da noi apprezzato, ma ritengo anche che il collega Angioni sia stato un grande tecnico, che ha portato onore al paese, così come altri generali ed altri militari.
LUIGI RAMPONI. Non mi coinvolga!
PRESIDENTE. Il passato e le qualità delle persone non sono mai in discussione.
GERARDO BIANCO. Chiarire fino in fondo le posizioni: questo è il punto. Ribadire le ragioni dell'opposizione rispetto alla missione in Iraq, fosse anche per abbattere dittature sanguinarie, significa poter motivare la propria posizione, senza il rischio di equivoci. Sarebbe poco sensato - questo è il punto, lo ammetto - ritirare oggi i nostri militari; sarebbe aggiungere errori ad errori. Ma questa posizione nasce da una situazione diversa, non dall'accettazione, che voi fate, di una guerra sbagliata nei suoi presupposti.
Oggi, a mio avviso, si tratta di un problema di responsabilità, perché siamo tutti interessati alla stabilizzazione dell'Iraq. Un ritiro - su questo posso convenire - non aiuterebbe certo la stabilizzazione, né farebbe fiorire il paese ma, allora, siate pronti a capire, e non a disprezzare con sufficienza le posizioni dell'opposizione e le ragioni altrui!
GUSTAVO SELVA, Relatore per la III Commissione. Chi disprezza? Le proposte sagge vengono accettate, quelle utopistiche no!
GERARDO BIANCO. Abbiamo gli occhi aperti, sappiamo che l'ONU sta riprendendo il discorso, che la Francia e la Germania stanno tentando di ricomporre la frattura degli USA. Questo dato oggettivo, che nasce da una situazione di fatto, è frutto di una responsabilità che noi assumiamo, ma non può certo servire a giustificare errori che il Governo ha commesso e che anche l'intervento degli Stati Uniti ha provocato.
GUSTAVO SELVA, Relatore per la III Commissione. Gli errori del passato li giudica la storia!
GERARDO BIANCO. In ogni caso, abbiamo il diritto di tenere un comportamento diverso e, soprattutto, un differente approccio nei riguardi della questione irachena. Questo è un richiamo alla responsabilità! La presunzione di poter dettare le regole all'opposizione è un'ulteriore manifestazione di scarsa saggezza da parte del Governo e della maggioranza.
Vanno definite meglio le regole di ingaggio (ne parlerà anche il collega Molinari); infatti, non è chiara la strategia (lo ha affermato anche il collega Castagnetti, il quale peraltro non ha ottenuto alcuna risposta). Si tratta di capire dove andiamo. Ci sono troppe ambiguità che si addensano. L'apertura di un vero dibattito significava chiarire tutto questo, andando ben oltre la mediocre soddisfazione di riscontrare delle differenziazioni.
Bisogna essere per la pace, comunque, in ogni caso, anche quando si hanno atteggiamenti irenici. La pace è un sentimento nobile, che dovrebbe essere rispettato anche da chi ritiene - come il sottoscritto - che la via della pace è molto più complessa e più difficile della mera proclamazione pacifista. Questa via può prevedere anche l'uso della forza, ma per ristabilire la forza della legge e non per affermare, come giustamente ha ricordato una collega intervenuta prima di me, la legge della forza: il rischio dell'accettazione di alcuni principi da parte della vostra cultura è esattamente questo!
Ecco perché resta essenziale il ruolo fondamentale, da voi sottovalutato, della legalità internazionale, quindi dell'ONU. Prescindere da questo, sulla base della debolezza e della lentezza dell'ONU, nonché delle sue risposte alle emergenze, come quella terroristica, è un calcolo sbagliato, poiché affidarsi al proprio esclusivo diritto all'autodifesa, decidendo dove e quando si deve colpire, significa sbagliare poiché il nemico non è uno Stato o un bersaglio preciso, ma gruppi invisibili e sfuggenti che vanno isolati ed estirpati come il cancro del nostro tempo.
Al terrorismo occorre togliere l'aureola della dignità politica, ma per poter far questo bisogna anche che gli si tolga quell'aureola di apparire come una resistenza alle ingiustizie del mondo e agli imperialismi di una potenza. Ecco perché per sconfiggerlo occorre che resti fondamentale il diritto internazionale e la soluzione pacifica ed equilibrata di antiche e purulenti fratture, come quella israeliano-palestinese.
Dividersi dalla Francia e dalla Germania sull'ONU è stato un clamoroso errore del Governo, anche perché quei governi, a parte qualche loro errore, avrebbero potuto trovare proprio nell'Italia un soggetto che meglio avrebbe potuto congiungere l'Europa agli Stati Uniti. In realtà, questo Governo ha spostato il baricentro della politica, che per oltre mezzo secolo l'Italia ha seguito, volta a tenere coerentemente insieme, in una logica stretta, europeismo, atlantismo e amicizia con gli Stati Uniti d'America, dirigendo la sua barra su di un certo tipo di «americanismo» che non è quello della realtà molto più vasta, articolata e profonda degli Stati Uniti, ma quello delle dottrine dell'amministrazione Bush, oggi in voga.
La domanda potrebbe essere ben diversa e domani potremmo perfino trovarci di fronte al rovesciamento della linea oggi dominante ed al ritorno, appunto, alla linea della grandezza degli Stati Uniti che fu rivendicata da Adams, ministro di Abraham Lincoln.
Avere eliminato Saddam Hussein è stato certo un fatto positivo, ma se il prezzo da pagare diventa poi, come conseguenza, la perdita di ogni legalità internazionale, si rischia di alimentare il terrorismo e non di distruggerlo, questo è il punto. Non si può scambiare per antiamericanismo, né per fuga dalle responsabilità, la richiesta al Governo, che da tempo l'opposizione sta facendo, di correggere la sua rotta di politica estera che procede a sbalzi, portata dai venti e dalle contingenti opportunità, anziché essere guidata da orientamenti chiari e da percorsi limpidi per precisi e sicuri approdi. In questo senso, l'inizio di questa tendenza può forse risalire alla «liquidazione» del ministro Ruggiero.
La nostra presenza in Iraq è nata dalla errata e passiva accettazione di una politica di intervento militare; ma, ripeto, oggi non possiamo bruscamente interromperla. Non capirebbero gli alleati e la comunità internazionale, non lo capirebbe, credo, la grande maggioranza degli italiani, non lo capirebbero neppure i soldati, i nostri carabinieri, ai quali va - a loro e alle loro
famiglie - la nostra solidarietà per aver pagato un alto tributo di sangue in una missione che ritengono - e noi riteniamo - di pace. Dobbiamo loro rispetto, solidarietà ed affetto, ma occorre collocare la nostra presenza e la nostra azione in un quadro diverso di politica estera e soprattutto di rivendicazione del principio di carattere internazionale. Infatti, solo così possiamo avere maggior voce in capitolo, essendo insieme europeisti e occidentali, per avere voce in Europa e in USA, per non perdere le posizioni che, checché se ne dica, si stanno perdendo.
Questa posizione oggi dovrebbe anche guidare verso quello che mi pare si profili come un fatto positivo, cioè il recupero di un Governo iracheno. Al riguardo, è di oggi la notizia positiva della firma della Costituzione provvisoria.
«Antica Babilonia» è una definizione affascinante ed esprime anche il nostro grande impegno per conservare al popolo iracheno e al mondo i tesori che sono stati in parte depredati e recuperati. È un patrimonio culturale unico che ha fondamento nella nostra civiltà. L'opera dei carabinieri e dei nostri archeologi è stata ed è certamente enorme. Il Ministero per i beni e le attività culturali, la direzione competente, i centri universitari di Gullini e di Pettinato hanno svolto un lavoro eccezionale e prezioso. Ma si rischia ora di lavorare per gli altri, se non si offre ai giovani ed alle donne di quel paese l'opportunità di formarsi per poter guidare i propri musei. È una scelta che deve essere compiuta con grande attenzione. Un gruppo di 23 persone (15 donne e 8 uomini) è già al lavoro nelle università di Pennsylvania e di Santa Fe.
Qual è la scelta del Governo e quali iniziative esso ha promosso in sede europea? Avremmo voluto discutere nel concreto di questi problemi e di come portare la pace, anziché di sterili contrapposizioni cui ci avete costretto. Ma il Governo e la maggioranza, con la pretesa di imporre la loro agenda, hanno impedito questo confronto e un costruttivo dibattito. Questo non va bene.
Vorremmo chiedervi più misura ed equilibrio, meno acritiche difficoltà, più matura consapevolezza e meno festose pacche sulla spalla e confidenziali abbracci, più austera autorevolezza e meno trimalcionesche sontuosità. Ne guadagnerebbe in serietà la nostra politica estera, che va misurata sulle nostre concrete potenzialità, senza la pretesa di essere primi attori, perché si rischia, poi, di diventare patetiche comparse. La lezione di De Gasperi l'Italia non dovrebbe mai dimenticarla (Applausi dei deputati dei gruppi della Margherita, DL-L'Ulivo e dei Democratici di sinistra-L'Ulivo)!
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Crucianelli. Ne ha facoltà.
FAMIANO CRUCIANELLI. Signor Presidente, onorevoli colleghi, vorrei raccogliere la sollecitazione dell'onorevole Gerardo Bianco, non semplicemente per una malinconica rimembranza del passato, ma perché credo vi possa essere qualche elemento utile anche per l'oggi.
L'onorevole Gerardo Bianco invitava amichevolmente ad una riabilitazione post mortem della DC o, meglio, della politica internazionale della democrazia cristiana. Debbo dire che non ho atteso 15 anni per valutare con una qualche obiettività ciò che allora faceva la democrazia cristiana. Quando parlo della politica estera della democrazia cristiana, posso pensare ad una delle sua personalità più significative, che in questo campo molto ha fatto e molto ha dato: mi riferisco all'onorevole Andreotti.
Ho sempre riconosciuto, anche nei momenti in cui lo scontro politico era molto aspro (e io mi trovavo su un fronte particolarmente aspro di questo scontro), che, pur non condividendo i fondamenti di quella politica, vi era però all'interno di quella visione...
GUSTAVO SELVA, Relatore per la III Commissione. Se non si condivide, a che serve?
FAMIANO CRUCIANELLI. Come sarebbe «a che serve»? Non bisogna per
forza essere parte della stessa cultura ideologica: mi sembra che lei ponga la questione quasi in questi termini. Io non condividevo, e a tutt'oggi non condivido, quel tipo di impostazione. Però, onorevole Selva, esiste anche la dialettica; lei mi sembra eccessivamente schematico.
Il pragmatismo che accompagnava le scelte che allora venivano adottate - sia quelle riguardanti i paesi del sud del mondo, nei cui confronti la politica estera italiana assumeva forme originali (anche perché dietro vi era una fortissima ispirazione proveniente dalla Chiesa), sia la politica di distensione nei confronti dei paesi dell'est - l'ho sempre considerato un aspetto interessante.
Non a caso (l'onorevole Gerardo Bianco lo ricorderà), la politica estera, anche quando lo scontro fra maggioranza e opposizione, fra democrazia cristiana e partito comunista era molto aspro, rappresentava uno dei terreni in cui si ricercava sempre l'unità (sebbene, talvolta, non la si trovasse). Si riteneva fosse il terreno fondamentale per ottenere una convergenza, e non a caso, perché in realtà erano presenti alcuni elementi importanti, con riferimento al pragmatismo nella politica internazionale, che permettevano di trovarla. Sotto il profilo del citato pragmatismo (oggi non è più presente), si potrebbe richiamare una serie di episodi, alcuni dei quali videro protagonista l'onorevole Andreotti, proprio quando stava per crollare il muro di Berlino. A tale proposito, non mi pare che l'onorevole Andreotti abbia esultato, perché si preoccupava della possibile e conseguente instabilità del contesto internazionale.
Non condivido e non condividevo allora quest'impostazione, ma non vi è dubbio che in ciò si poteva rinvenire un certo disegno legato al pragmatismo; è ciò che manca del tutto a questo Governo, nonché all'amministrazione Bush.
Voi non avete voluto separare i diversi provvedimenti: la ritengo una scelta colpevole e, al riguardo, non vale l'argomento, abbastanza pretestuoso, che anche il centrosinistra ha voluto tenere insieme le diverse missioni. Credo che allora si trattasse di una pigrizia burocratica, perché vi era una convergenza di tutti (non si evidenziava alcun problema in merito).
Attualmente, con riferimento alle diverse missioni - voi lo sapete -, si avverte un enorme problema ed il decreto-legge sull'Iraq rappresenta un grande problema politico. Perché allora non avete accettato un dibattito aperto e franco, nonché la possibilità di una votazione anch'essa aperta e franca al riguardo, invece di costringere una parte considerevole dei parlamentari dell'opposizione (io non sono tra quelli, lo dico subito) a non votare a causa di questa miscellanea? Sarebbe stato molto più chiaro e trasparente per tutti separare i provvedimenti! La scelta di aver mescolato le cose, volutamente e obbligatoriamente, è politicamente colpevole!
Parlavo di pragmatismo perché una discussione vera su tale provvedimento (che oggi, temo, diventerà un monologo dell'opposizione, poiché vi sono tutti gli elementi in tal senso) doveva trarre origine da una elementare domanda politica: a che punto siamo, non solo con riferimento all'Iraq, ma anche sotto il profilo della strategia che ha portato, prima, alla guerra in Afganistan e, poi, alla guerra in Iraq? Si tratta di una riflessione seria che, forse, in altri tempi avremmo svolto! Forse, ci saremo divisi di nuovo, ma se non altro l'avremmo svolta!
Se riflettessimo seriamente, dovremmo fare i conti con la realtà: cosa sta accadendo in Afganistan? Credo che più di ogni altra cosa valgano le parole dell'ex Presidente Clinton, il quale ha affermato che in Afghanistan, ormai solo a Kabul si possono riscontrare condizioni di sicurezza, perché nel resto del paese la situazione è incontrollabile: sono tornati i signori della guerra ed Al Qaeda, i talebani sono di nuovo in circolazione e l'eroina, ultima questione ma significativa (come testimoniava uno splendido articolo apparso su Il Sole 24 Ore due o tre giorni fa, relativo alla situazione in Afghanistan), è tornata ad essere la madre di tutti gli affari. Il 50 per cento del prodotto interno lordo afghano è collegato all'eroina; circa
1,7 milioni di agricoltori lavorano nel mercato dell'eroina e l'80 o il 90 per cento dell'uso europeo di eroina si registra in Afghanistan.
Dovremo ragionare su cosa resta oggi di quel paese. È questa la riflessione da fare e lo stesso vale per l'Iraq. Cos'è oggi l'Iraq? Riscontro, al riguardo, una certa caduta (successivamente ne esporrò i motivi) anche rispetto alla logica dello stesso pensiero esposto dall'onorevole Gerardo Bianco. Qual è la situazione irachena? Credo che non avremmo difficoltà ad individuare, non uno, ma cinque, sei, sette punti che concorrono a rendere negativo il bilancio della situazione.
Non si sono certo fermati, anzi qualcuno sostiene che la vera guerra è iniziata da quando si è dichiarato che la guerra è terminata. Il numero dei morti militari e civili è enorme rispetto ad una situazione di dopoguerra: siamo, quindi, ancora in un teatro di guerra.
Non si è debellato il terrorismo, anzi, forse possiamo dire che per la prima volta esso si è insediato stabilmente e strutturalmente all'interno dell'Iraq. Siamo di fronte alla possibilità concreta della decomposizione di quel paese, che rischia di disgregarsi in tre componenti che hanno una loro radice territoriale: curdi, sunniti e sciiti. Una decomposizione che avverrebbe non con un accordo ma all'interno di una guerra civile, che comporterebbe sia una catastrofe in termini di vite umane che verrebbero ad essere sacrificate, sia un imbarbarimento culturale dl'Iraq. Di ciò ci sono tutte le avvisaglie.
Non possiamo inoltre sostenere che, essendo ormai finita da lungo tempo la guerra, si sia rimarginata la ferita profonda che ha diviso una parte consistente dell'Europa dagli Stati Uniti. Mi riferisco a quel gruppo importante di paesi europei, che fiancheggiò teoricamente ma non praticamente quella guerra - gli spagnoli e gli italiani si sono aggiunti nella fase successiva -, che ha impedito all'Europa di assumere una posizione unica sulla vicenda.
Non si è nemmeno risolto l'altro vulnus che ha colpito in profondità le Nazioni Unite e la loro legittimità. Le Nazioni Unite hanno compiuto un tentativo adottando la risoluzione n. 1511, ma questa si è rivelata fragile ed è crollata di fronte ai fatti, perché la mediazione che si è tentato di fare con quella risoluzione non ha trovato riscontro nella realtà, tenuto conto che con essa ci si prefiggeva di invitare altri paesi a partecipare alla fase successiva alla guerra. Ma quest'appello è caduto nel vuoto, perché lo hanno raccolto soltanto gli italiani e gli spagnoli, mentre una parte importantissima del mondo islamico, la Cina, l'India e quella parte dell'Europa che non aveva condiviso questa guerra, non lo hanno raccolto minimamente, anche perché il punto fondamentale - dare vita ad un comando unificato fra questi nuovi paesi e gli Stati Uniti, che erano e sono la forza occupante - era inaccettabile.
Pertanto, anche questo passo, che avrebbe potuto invertire la tendenza che aveva condotto ad una delegittimazione delle Nazioni Unite, si è rilevato fragile. Il danno maggiore in questa vicenda è forse la perdita di credibilità delle nostre democrazie di fronte al mondo. Non so se l'onorevole Cossiga (che mi dispiace non sia presente in questo momento, anche perché non mi piace polemizzare con chi è assente) avesse la consapevolezza della gravità delle affermazioni che ha svolto in questa sede. Peraltro, queste affermazioni non sono soltanto sue; lo stesso Bush, infatti, in alcune occasioni ha detto cose non dissimili: ad esempio, quando sostenne che non avrebbe consentito a nessuno di mettere in discussione lo stile di vita del suo paese. E, questo, Bush lo disse in modo minaccioso traducendo in un linguaggio più colorito ciò che in questa sede ha affermato l'onorevole Cossiga, cioè che sono solo ed esclusivamente gli interessi a guidare le grandi strategie mondiali.
Colleghi, badate che su questa strada anche il terrorismo alla fine troverà una sua legittimazione, perché anche i terroristi pretendono di rappresentare degli interessi. E quando questa logica si materializza, anche attraverso una guerra,
noi perdiamo agli occhi di centinaia di milioni di persone credibilità ed egemonia culturale, aprendo così le porte alle catastrofi. Il vero dramma della politica dell'amministrazione Bush è che essa si è trasformata in una politica di pura forza ed ha perso sia la capacità egemonica che il pensiero e la pratica americana hanno avuto in passato, sia la capacità d'attrazione su altre culture e su altri paesi.
Se ci si muove in una logica in cui la politica è ispirata esclusivamente dall'interesse, anche nazionale, tutto diviene legittimo, compresa l'occupazione di altri paesi. In un mondo globale, quale quello in cui viviamo, un futuro positivo può essere garantito esclusivamente dall'equilibrio tra gli interessi dei vari paesi, non certo dallo scontro frontale in cui vince il più forte.
Un'esemplificazione di ciò, passando dal campo militare a quello commerciale, si è avuta con il recente vertice di Cancun, nel quale si è registrato uno scontro inaudito fra gli interessi dei paesi ricchi, messi brutalmente sul tavolo, e quelli dei paesi cosiddetti in via di sviluppo, con il conseguente fallimento del vertice stesso. Infatti, ventuno paesi, guidati dal Brasile, non hanno accettato questo diktat; fra di essi, vi sono i paesi dell'Africa, che pure sono particolarmente ricattabili a causa della condizione di miseria in cui versano. La conseguenza di ciò è stata il fallimento del vertice del WTO. Se la politica è guidata dall'interesse bruto, si va alla catastrofe commerciale ed economica e alle guerre.
Ritengo necessaria una discussione più seria su tali questioni, altrimenti si ha una rappresentazione caricaturale e drammatica delle vicende che abbiamo di fronte. Sarebbe stato serio - e lo sarebbe tuttora - un confronto su quello che è accaduto e sta accadendo. Le scelte, infatti, possono essere legittimate non soltanto dai principi e dall'ideologia, ma anche dall'analisi fattuale: si è detto che sarebbe stata condotta una guerra nei confronti del terrorismo, prima in Afghanistan e successivamente in Iraq, e che ciò avrebbe aperto una nuova fase. Occorre ragionare proprio sulla fase che si è aperta, anche rispetto agli obiettivi che erano stati formalmente indicati (non a quelli subdolamente perseguiti).
Il bilancio non può che essere negativo. Non comprendo cosa stiano tutelando i nostri militari. Infatti, non c'era e non c'è un quadro di legittimità internazionale. Vi sono soldati italiani in un teatro di guerra, senza che ciò sia mai stato discusso dal Parlamento. Ci troviamo in una guerra - si tratta di un elemento che spesso rimuoviamo dalla discussione - nata sulla base di un imbroglio; non ci si pone minimamente il dubbio di quale effetto la dichiarazione di una guerra sulla base di un imbroglio possa avere nei confronti delle grandi masse mondiali e dell'establishment mondiale (se non temessi di essere frainteso, farei ricorso a paragoni storici molto pesanti: altre guerre sono iniziate in tal modo, sulla base di circostanze rivelatesi inesistenti).
Solo Bush deve ancora dirlo, e molti lo invitano a farlo rapidamente, senza attendere il giorno prima delle elezioni: questa guerra è nata da un furto della verità, le armi di distruzione di massa non c'erano! Avevano ragione gli ispettori dell'ONU!
A fronte di tale imbroglio, abbiamo assistito, su scala ridotta, a una menzogna tipicamente italiana, quella per cui i nostri soldati sarebbero andati a compiere una missione umanitaria. Le caratteristiche della missione umanitaria sono completamente scomparse, ma non per responsabilità o per volontà dei militari italiani, bensì perché il teatro di guerra non consente lo svolgimento di una classica missione umanitaria. I nostri militari operano dunque nell'ambito di un contesto internazionale illegittimo, in contraddizione palese con la Costituzione, in quanto si trovano in un teatro di guerra e non possono svolgere alcuna una missione umanitaria.
Per tali motivi, alcuni di noi ritengono che non vi siano ragioni per la prosecuzione di tale missione. Non si tratta, onorevole Gerardo Bianco, di una questione di responsabilità (siamo tutti responsabili), ma di una questione di valutazione.
Come giustamente lei ha sostenuto, con parole molto impegnate e più «brutali» delle mie, oggi siamo di fronte ad una politica degli Stati Uniti d'America che è una politica di potenza e cieca dal punto di vista degli interessi generali del mondo, come peraltro ha sostenuto e sostiene Soros, che non è certo un bolscevico, essendo uno dei più grandi miliardari americani che ha messo a disposizione tutte le sue risorse nella «battaglia» di Kerry e del partito democratico per battere Bush, perché lo ritiene un pericolo per gli Stati Uniti e per il mondo.
Se questa è la valutazione, noi dobbiamo ragionare non in termini di responsabilità, bensì in termini politici. Come possiamo fermare questa politica dissennata dell'amministrazione americana? Chi la condivide non ha questo tipo di problema - si pone infatti solo il problema di fiancheggiarla -; chi invece ne coglie tutti gli aspetti distruttivi per gli Stati Uniti e per il mondo, come può fermare questa politica?
Io credo, e mi sembra un passaggio logico, che l'unico modo per contrastare questa politica sia rappresentato oggi dall'isolamento della politica dell'amministrazione americana e della politica della guerra preventiva che Bush sta portando avanti, nonché, dalla rottura con qualsiasi forma di connivenza con questa scelta. Non lo si capisce, ma oggi l'atto di responsabilità politica che andrebbe compiuto è esattamente la scissione da questa complicità sul campo che, alla fine, si finisce per avere con l'amministrazione americana.
Non credo infatti all'argomento, che anche qui è stato sviluppato, per cui se i nostri militari abbandonano l'Iraq ciò comporterebbe un caos per quel paese. Non lo credo affatto: in primo luogo, perché di caos ve ne è già molto. Non è questo tuttavia il punto: non siamo nel Vietnam, quando ormai gli americani, che erano chiusi a Saigon, scappavano, attaccati, sugli elicotteri. Non è questo il quadro nel quale siamo: siamo invece in un contesto nel quale sarebbe una grande svolta storica se gli Stati Uniti e l'amministrazione americana mostrassero la disponibilità a lasciare il campo. Non siamo in una situazione nella quale vi è una guerriglia e una guerra come allora in Vietnam, per cui gli americani scappavano. Se oggi l'amministrazione americana dicesse che vi è la volontà politica di lasciare il campo per affidarlo alle mani delle Nazioni Unite, non vi sarebbe il caos, bensì soltanto la gestione della fase di transizione. Questo è irrealistico: per questa ragione, io parlo del pragmatismo. Dove si legge una posizione di questo tipo? Non ho mai visto una virgola dalla quale si potesse capire che oggi l'amministrazione americana sarebbe disponibile a ritirare i suoi soldati o a trattare con le Nazioni Unite una sua presenza diversa in Iraq.
Non è questo, anche perché, come è noto, lo scontro più aspro che oggi è in corso tra Washington e Londra non è sulle Nazioni Unite o sulla possibilità o meno di ritirare le proprie truppe, bensì sul chi debba compiere la ricostruzione e su quali aziende debbano occuparsi di questo. Quando si dice quindi che, se i nostri soldati dovessero abbandonare l'Iraq vi sarebbe il caos, si descrive un quadro che non esiste. Sarebbe invece soltanto e semplicemente un atto di responsabilità politica e una scissione dalle responsabilità degli Stati Uniti d'America, nonchè da quella che è oggi la politica dall'amministrazione americana.
Per questa ragione, credo che bene avremmo fatto a svolgere questo dibattito fino in fondo, iniziando dal bilancio delle cose accadute per arrivare a delle conclusioni, invece che svolgere un dibattito surrettizio, come quello che stiamo svolgendo; un dibattito reale, nel quale vi siano maggioranza e opposizione che insieme discutono, invece di trovarci, credo sgradevolmente, almeno per me, ad avere una concezione analoga a quella dell'onorevole Gerardo Bianco, da età dell'oro della politica; una discussione con possibili contrasti, ma anche con possibili punti di convergenza.
Non è così, non sarà così: ci troveremo, mi sembra, di fronte ad un monologo
dell'opposizione, ma questo non ci può impedire di fare la nostra parte. Spero, ed il mio appello è assolutamente privo di fondamento, che il Governo possa sempre decidere di esaminare distintamente le missioni previste nel decreto-legge per fare una discussione più ampia sull'Iraq e su ciò che occorre fare in quel paese (Applausi dei deputati del gruppi dei Democratici di sinistra-L'Ulivo e di Rifondazione comunista).
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Molinari. Ne ha facoltà.
GIUSEPPE MOLINARI. Signor Presidente, il provvedimento che giunge quest'oggi all'attenzione dell'Assemblea ci pone una serie di problemi. Quello che abbiamo di fronte non è una semplice proroga di finanziamenti delle diverse missioni di pace che vedono i nostri militari impegnati nel mondo: il decreto in esame fa emergere in tutta la sua evidenza e per l'ennesima volta l'assenza di un quadro normativo certo per il finanziamento delle missioni.
È assolutamente pleonastico e oltremodo ripetitivo ribadire ancora una volta l'assenza di una legge che regolamenti il finanziamento delle missioni senza che si debba ricorrere alla decretazione d'urgenza. Ovviamente la responsabilità di questo vuoto legislativo, dopo quasi tre anni, è da imputare esclusivamente a questo esecutivo (e lo dico da relatore del disegno di legge insabbiato in Commissione). Nell'ultima legge finanziaria anche l'opposizione ha salutato positivamente l'articolo sulle missioni internazionali, che andava incontro alle nostre richieste e soprattutto alle richieste delle Forze armate e andava rimuovere l'unico vero ostacolo all'emanazione di una legge che, per il parere contrario della Commissione bilancio, era stata rinviata in Commissione per assenza di risorse. Quel disegno di legge è solo una delle tante leggi incompiute di questa legislatura. I soldi ora ci sono, ma ancora una volta siamo stati costretti a prendere atto della volontà del Governo di procedere con la decretazione d'urgenza, in una condizione giuridica ed economica assolutamente provvisoria e approssimativa. È una condizione insostenibile di fronte alla responsabilità che il paese ha nei confronti delle sue Forze armate e dei quasi 10 mila uomini impegnati sui fronti internazionali nella costruzione della pace, che fanno dell'Italia il secondo paese al mondo per invio delle forze militari in missioni di pace.
La discussione sul decreto-legge, che è stata franca e per molti versi aspra anche in Commissione, nel confronto tra maggioranza e opposizione, non porrà mai in dubbio l'affetto, la stima e l'orgoglio del Parlamento, di tutte le sue forze in esso rappresentate - lo dico a nome del gruppo della Margherita - nei confronti dei nostri militari. È un orgoglio per noi ribadire la nostra vicinanza alle Forze armate impegnate in missioni all'estero, perché è bene ricordare che essi appartengono al paese tutto intero, obbediscono alla Costituzione e non alle maggioranze che si alternano. Quindi, nessuna strumentalizzazione su chi è più o meno vicino alle Forze armate. Il nostro ricordo va quindi alle vittime di Nassiryia, ai caduti dell'Arma dei carabinieri e dell'esercito e ai civili che hanno perso la vita in quell'orribile attentato, vile come tutti gli attentati terroristici, che hanno colpito l'intero paese. Noi parlamentari della Commissione difesa, con il nostro presidente, siamo stati in visita proprio in quella sede e abbiamo avuto modo di vedere e apprezzare il loro lavoro, la loro organizzazione e il loro impegno nella ricerca di una strada faticosa e difficile per costruire una pace difficile, in un paese che oggettivamente è ancora in guerra.
Per queste ragioni la Margherita è fermamente convinta che sia stato un errore quello compiuto dal Governo di accomunare tutte le missioni internazionali in un unico decreto-legge di proroga. Non è possibile infatti considerare tutte le missioni allo stesso modo, soprattutto quella in Iraq. Non è l'opposizione che dice questo, ma è la logica e la natura stessa delle missioni a necessitare di provvedimenti diversi. L'opposizione già al Senato
aveva avuto modo di chiedere lo stralcio della missione Antica Babilonia dal resto delle proroghe proprio per la sua specificità e la sua delicatezza e per il suo essere missione ancora indefinita. Come si fa infatti ad ignorare tutti gli elementi di indeterminatezza del quadro giuridico che fanno da cornice ad uno scenario di guerra in corso?
E che sia uno scenario di guerra lo dimostrano gli ultimi attentati a Baghdad: 180 morti e il doppio di feriti. Da quando l'improvvido Presidente degli Stati Uniti, da quella portaerei, ha dichiarato chiusa la guerra dopo la presa di Baghdad nel maggio scorso, non è trascorso giorno senza che vi fossero vittime, attentati, azioni di guerra verso le forze della coalizione e verso gli stessi iracheni. È un teatro di guerra in piena evoluzione. Il governatore Bremer ha dichiarato di non saper dire quando si potranno svolgere le prime libere elezioni in Iraq, comunque non prima di un anno: è l'ammissione di una sconfitta e della consapevolezza della propria insufficienza ad affrontare una situazione del genere senza un autorevole impegno di tutta la comunità internazionale, che non si esaurisce nelle forze della coalizione militare. È quella una consapevolezza subentrata tra i fumi e le polveri degli attentati.
Credo che la discussione sulle linee generali del provvedimento oggi al nostro esame costituisca anche l'occasione per ricordare quanto tutte le premesse che hanno portato al conflitto in Iraq appaiano sempre più pretestuose e prive di fondamento. Sono state forse trovate le armi di distruzione di massa? I dossier «taroccati» e portati all'ONU da Powell possono essere ancora valutati come prove inconfutabili della necessità di muovere guerra all'Iraq? Dove sono finite le prove schiaccianti che lo stesso Presidente del Consiglio Berlusconi aveva annunciato alla Presidenza della Camera, a sostegno della relazione svolta al cospetto di questa Assemblea nella sua informativa? La verità è che nessuna prova è stata trovata: gli stessi sostenitori della guerra, riguardo alla quale abbiamo sempre espresso la nostra contrarietà, oggi appaiono balbuzienti e tentennanti sulle ragioni che hanno condotto all'opzione militare del conflitto.
Quando si apprende dagli stessi ispettori delle Nazioni Unite che non sono state fatte visitare decine di siti, ritenuti sospetti, perché la decisione era già stata presa, allora è chiaro in quali condizioni è stata trascinata l'intera comunità internazionale. Quando si scopre che i servizi segreti britannici spiavano il Segretario generale dell'ONU e che gli uffici della stessa Organizzazione delle Nazioni Unite erano infestati da microspie, ci accorgiamo allora di quale ferita al diritto internazionale ci si è resi protagonisti.
In seguito all'emergere di tali notizie, i Governi degli Stati Uniti e della Gran Bretagna sono stati addirittura costretti ad istituire commissioni di inchiesta: nonostante ne siano stati allora i promotori, è evidente il corto circuito che questa guerra ha portato nel mondo e nel diritto internazionale.
A fronte di tutto ciò, il nostro Governo non sente il bisogno di approfondire, per alcun motivo, le ragioni di una partecipazione a posteriori in un conflitto di tale portata e dagli sviluppi imprevedibili. La decisione di inviare i nostri uomini è apparsa critica e legata a evidenti motivazioni di posizionamento, più che da reale convincimento, come ha sostenuto il collega Gerardo Bianco. Chiediamo alla maggioranza e al Governo se siamo mai stati sfiorati dal dubbio, categoria umana di pensiero, che forse sulla scena internazionale il nostro paese, per la sua storia e per la sua tradizione diplomatica, possa dire e soprattutto fare qualcosa di diverso per restituire alle Nazioni Unite una centralità che si rende necessaria in questa situazione di caos terribile in cui sono stati coinvolti i nostri uomini.
È qui che ci accorgiamo di quanto sia pericolosa la posizione assunta dal Governo Berlusconi. Il senatore a vita Giulio Andreotti, nel corso del dibattito svoltosi presso il Senato, ha testualmente affermato che se la tragedia di Montecassino è stata determinata, come recentemente acclarato, da un errore di traduzione, si
augura che non debbano passare decenni prima di comprendere cosa è realmente accaduto in Iraq.
Oggi che la guerra militare contro il vecchio regime di Saddam Hussein è stata vinta, ancora non si conquista la pace. Baghdad, Nassiriya, Mossul e Kirkuk sono tutte città i cui nomi echeggiano nei nostri telegiornali, portando con sé un triste corollario di morti. Ora che il sanguinario regime dittatoriale è stato destituito e che i responsabili di tale regime, a partire da Saddam Hussein, sono stati catturati, non è solo utile ma necessario lavorare per ristabilire un quadro di diritto internazionale nel quale giudicare i crimini e imprimere al paese una svolta democratica, che non si impone, né tanto meno si esporta, ma si costruisce collaborando, e non violando i principi di cui si asserisce di essere custodi.
La dottrina della «guerra preventiva» resta un vulnus inferto al diritto internazionale, e certamente il terrorismo non è stato ancora sconfitto. La risoluzione ONU n. 1511 ha rappresentato un compromesso della comunità internazionale utile per cercare di imprimere una svolta, ma ancora non se ne avvertono gli effetti. Si è trattato di un lavoro duro, cui le diplomazie sono giunte anche attraverso il coinvolgimento di quelle cancellerie che non hanno partecipato al conflitto e che non hanno neanche partecipato, come l'Italia, ad una fase immediatamente successiva alla caduta del regime di Saddam, come la Francia e la Germania.
Tale risoluzione è stato il primo e unico vero atto che ha ridato alle Nazione Unite la possibilità di esercitare un ruolo imprescindibile nella ricostruzione dell'Iraq, mettendo nell'angolo, di fatto, l'amministrazione Bush, che aveva attribuito all'ONU solamente il compito di smistare gli aiuti umanitari.
Al Senato le forze che si riconoscono nel progetto della lista unitaria hanno presentato un ordine del giorno che recepisce quanto stabilito dalla risoluzione ONU n. 1511 e che il Governo ha accolto. Noi ci siamo adoperati affinché fosse riconosciuto il ruolo centrale nella transizione proprio alle Nazioni Unite, assicurando le opportune e necessarie misure di sicurezza.
Riteniamo che bisogna favorire la configurazione di una forza multinazionale di stabilità e di sicurezza, sotto l'egida dell'ONU, come indicato dalla citata risoluzione. Il nostro ordine del giorno, accettato dal Governo, impegna lo stesso ad agire, in ogni sede, per una piena ed effettiva applicazione della risoluzione n. 1511.
La verità è che il nostro Governo, invece di attardarsi in un grottesco appiattimento sulle posizioni del Presidente degli Stati Uniti solo per essere invitato a svolgere qualche viaggio premio nel Texas, farebbe meglio ad agire in ogni sede internazionale per l'effettiva applicazione della risoluzione. È trascorso un intero semestre di Presidenza italiana dell'Unione europea senza che sia stato mosso un dito sul fronte del multilateralismo, paralizzati dalla volontà di non dispiacere l'amico Bush. Non si è buoni alleati e soprattutto buoni amici se non si dice all'alleato e all'amico quando stanno commettendo un errore. Appartengo ad una tradizione politica e culturale che ha fatto dell'atlantismo una scelta che ha posto l'Italia nel campo occidentale; viene da sorridere quando ci sono certe sensibilità politiche che manipolano la storia in modo così evidente.
Ai libri di storia il lifting non si fa. Per questo, dire all'attuale amministrazione USA che in Iraq ha sbagliato non significa, per uno strano sillogismo, essere antiamericani. L'Europa deve tornare ad essere protagonista della scena internazionale e rendersi capace di parlare con una sola voce, non solo in economia, ma anche nella politica estera. Occorre un contrappeso alleato, sì, ma non subalterno agli USA. Occorre che l'Unione europea, sulla base di quanto sostenuto dal Presidente della Commissione europea, Romano Prodi, provveda alla nomina di un altro rappresentante per l'Iraq, al fine di consentire all'Europa di concorrere in maniera autonoma e da coprotagonista alla stabilizzazione del paese.
Inoltre, è necessario mettere adeguate risorse finanziarie a disposizione delle attività democratiche di quel paese; bisogna definire insieme, anche con la Francia e la Germania, e non affidare all'unilateralismo di Bremer, il percorso costituente dell'Iraq, una data certa per la scadenza elettorale, che consenta agli iracheni di essere protagonisti veri del cambiamento del dopo regime ed autori e fautori del proprio destino istituzionale e democratico.
È di tutto questo, di cui non si è mai discusso in Parlamento, che vogliamo parlare e non del solo finanziamento delle missioni. Tutti sanno - anche voi ne siete a conoscenza - che nessuno vuole lasciare i nostri militari senza risorse. Tuttavia, non è questo il modo di agire sul piano istituzionale e nei lavori parlamentari.
Vogliamo sapere perché non avete distinto le missioni e separato dalle altre quella in Iraq. Perché non avete adottato lo stesso percorso seguito a luglio, quando le missioni furono distinte, affidando ad un disegno di legge la proroga della missione in Iraq, votata nell'arco di una giornata? E non può essere una giustificazione quella addotta dall'onorevole Cossiga, ossia che eravamo alla vigilia di Ferragosto.
Vogliamo sapere in che modo operano i nostri militari e quali sono le reali condizioni in cui si trovano ad intervenire. Quanto è avvenuto in merito all'episodio di quattro elicotteristi non lo ridurrei ad un ammutinamento. Non è questa la sede per accertare responsabilità, colpevolezze o innocenze, in quanto non abbiamo il quadro completo della situazione; ma le parole di commento non sembrano aver colto il vero messaggio che hanno voluto inviare, non tanto per sé stessi, quanto per gli altri colleghi in missione in quel territorio.
Quali sono gli standard di sicurezza reali? Quando dobbiamo sollevato il problema delle regole di ingaggio intendevamo proprio evidenziare che si sarebbe venuta a creare una situazione di guerra non terminata. Una condizione ibrida, a metà tra guerra e missione di pace. Infatti, se analizziamo bene le parole del Capo di stato maggiore, non possiamo certo dire che egli attribuisca ai suoi uomini un compito proprio di militari impegnati in missioni di pace.
Abbiamo sempre evidenziato la necessità di rafforzare il nostro sistema militare difensivo con adeguati investimenti, che non è mai stata presa in considerazione. Il ministro Martino, nel corso dell'esame della prima legge finanziaria del Governo Berlusconi, affermò che l'obiettivo era quello di portare il rapporto PIL-spesa militare all'1,5 per cento, e lo ha ribadito in numerose occasioni pubbliche per un anno. Poi il silenzio. L'imbarazzo è grande per il ministro a fronte di un obiettivo raggiungibile, in quanto sappiamo che l'attuale livello di spesa raggiunge a malapena l'1 per cento.
Dopo la famosa vicenda dell'aereo da trasporto militare A 400M non si è più discusso in Parlamento di investimenti in campo militare; mentre altri partner dell'Unione europea sono pronti a dar vita a forze comuni, noi ne siamo fuori, perché non investiamo proprio nel momento in cui sarebbe importante farlo perché siamo all'avvio della professionalizzazione delle Forze armate.
Vogliamo quindi esprimere il nostro più sincero, assoluto, indiscutibile apprezzamento per l'opera del nostro contingente di stanza in Iraq e rinnoviamo alle famiglie dei caduti a Nassiriya la solidarietà e vicinanza nel dolore e nell'affetto delle vittime, così come nei confronti degli altri militari impegnati in missioni all'estero. Non accettiamo strumentalizzazioni politiche, dicevo prima, e siamo assolutamente convinti delle nostre ragioni. Ci attendiamo un gesto di buona volontà - siamo ancora in tempo; lo dico al sottosegretario -, di sensibilità istituzionale da parte del Governo per separare le altre missioni da quella denominata «Antica Babilonia» e consentire un confronto migliore in Parlamento.
Noi della Margherita esprimiamo pieno sostegno al rifinanziamento delle missioni internazionali operanti nell'ambito dell'ONU o della NATO e di quelle richieste
dal Governo albanese. In Iraq, invece, il Governo ha impegnato le Forze armate, avallando una occupazione - in un paese sovrano unilaterale e giustificata da ragioni dimostratesi infondate -, da parte degli Stati Uniti e del Regno Unito. Oggi, a fronte degli obiettivi della risoluzione n.1511 del Consiglio di sicurezza, la situazione in Iraq è ulteriormente peggiorata: la violenza è cresciuta ed appare ormai chiaro che le forze di occupazione che hanno condotto la guerra non sono in grado di ristabilire l'ordine.
È necessario allora che il comando militare americano faccia un passo indietro e che il controllo del paese venga affidato ad una forza delle Nazioni Unite, come indicato nell'ordine del giorno accolto dal Governo al Senato. Il caos che si è venuto a determinare in Iraq ha bisogno di essere affrontato diversamente da come è stato fatto fino ad oggi. Noi non chiediamo il ritiro del contingente, non perché siamo sostenitori del conflitto, anzi, tutt'altro, ma chiediamo che vi sia un passo indietro delle forze angloamericane, in maniera tale da attribuire all'ONU la sovranità e il compito di ristabilire ordine e condizioni utili alla pacificazione.
Sappiamo che togliere le nostre truppe dall'Iraq potrebbe accrescere il caos e accentuare la violenza degli scontri, che stanno assumendo sempre più i caratteri di una guerra civile. È stato perpetrato un inganno da parte del Governo ai danni del Parlamento nel presentare la missione militare in Iraq come umanitaria, perché tale non è ed è difficile pensare che possa esserlo se i nostri militari devono essere più attenti alla loro stessa incolumità.
Si domanda, inoltre, secondo quali criteri e da quale autorità sia stato recentemente nominato il nuovo governatore di Nassiriya, l'italiana Barbara Contini. Si tratta di un fatto di notevole rilievo politico che attesta un coinvolgimento di primo piano degli italiani nell'amministrazione del dopoguerra iracheno. Ciò avviene, peraltro, senza che si conoscano le esatte modalità con le quali è avvenuta tale nomina e senza che il Governo abbia ritenuto opportuno informare il Parlamento della questione, assumendosi contestualmente la responsabilità politica.
È quindi assolutamente necessario discutere della strategia che i Governi angloamericani e il Governo italiano intendano adottare per uscire da una situazione estremamente critica, quale quella della gestione del dopoguerra iracheno, anche considerati i gravi pericoli cui sono state esposte le truppe italiane in assenza di una definita missione politica.
Chiediamo quindi al Governo meno reticenze nell'informare il Parlamento e lo invitiamo ad assumere precisi impegni temporali, indicando una via chiara per uscire da una situazione di gravissima crisi, che l'Italia vive in prima persona attraverso la presenza dei propri militari. In tale contesto l'Italia non può e non deve abdicare al godimento di condizioni di piena parità rispetto agli angloamericani, ma questo deve avvenire sotto l'egida delle Nazioni Unite.
Siamo davvero convinti che il mondo sia più sicuro dopo la guerra in Iraq? Combattere il terrorismo con la sola forza militare è un errore strategico, il terrorismo è un nemico che si combatte in maniera non convenzionale, è un nemico invisibile che si insinua nella quotidianità, che vince se ti abitua a conviverci. Basta vedere cosa sta accadendo in Francia lungo le linee ferroviarie o negli aeroporti in Inghilterra o negli Stati Uniti d'America: una telefonata, il sospetto di una bomba stravolge i ritmi della nostra vita, della nostra economia, del nostro mondo. È questo l'errore della dottrina preventiva e di chi sostiene che l'opzione militare sia la strada più efficace per contrastare il terrorismo. Dove sono gli impegni sulla cooperazione internazionale, le risorse per aiutare i paesi in via di sviluppo, finalizzate proprio a privare il terrorismo di quel «brodo» nel quale si generano i semi dell'odio contro l'occidente?
Abbiamo gli impegni del G8, dell'Unione europea e degli organismi internazionali. Abbiamo le richieste delle associazioni non governative, di tutto il mondo della cooperazione che chiede all'Italia,
per la sua tradizione e per il suo ruolo, un impegno preciso su questi temi e, invece, «balbettiamo».
Il Presidente del Consiglio ed il ministro degli esteri annunciano, ma non danno seguito agli impegni. Perché non parliamo anche di questo? Non sarebbe, forse, un argomento per rafforzare il profilo realmente umanitario della nostra missione in Iraq? Perché volete ridurre tutto ad un semplice votare «sì» o votare «no» su un decreto-legge quando i problemi sul tappeto sono di così vasta portata?
Abbiamo presentato una serie di emendamenti di merito e non ostruzionistici al provvedimento. Si tratta di emendamenti che, sull'articolo 2, hanno la loro valenza politica perché chiediamo la separazione della missione Antica Babilonia dalle altre contenute nel decreto-legge. Con i nostri emendamenti chiediamo di rafforzare il profilo umanitario delle missioni, di tutelare la salute dei nostri militari, di aiutare i familiari delle vittime del terrorismo. Queste sono le nostre proposte. Tuttavia, in mancanza di una prospettiva temporale certa per il subentro di una forza multinazionale di pace ed avendo il Governo costretto impropriamente, prima al Senato e poi nella Commissione difesa della Camera, ad un solo voto sul rifinanziamento di tutte le missioni italiane all'estero, se non dovesse esservi qualche elemento nuovo nel corso del dibattito, il nostro atteggiamento non potrà che essere coerente con quello già espresso dai nostri colleghi al Senato.
Non si può chiedere il dialogo se non vi è effettivamente una volontà di dialogare e di affrontare insieme problemi che non riguardano solo la maggioranza che governa, ma l'intero paese. Il decreto-legge in questione è uno dei provvedimenti che ha bisogno di dialogo e confronto. La maggioranza ha l'onere della prova se vuole dimostrare che le dichiarazioni hanno una loro pregnanza di merito e non sono l'ennesimo tentativo di prendere tempo perché ci si trova in affanno (Applausi dei deputati del gruppo della Margherita, DL-L'Ulivo).
PRESIDENTE. È iscritta a parlare l'onorevole Deiana. Ne ha facoltà.
ELETTRA DEIANA. Signor Presidente, penso sia veramente straordinario il fatto che gli esponenti del Governo siano in grado di non battere ciglio e restare imperturbabili di fronte alla congerie di disastri e nefandezze che la guerra in Iraq ha prodotto e continua a produrre anche grazie al contributo che il nostro paese ha dato e si accinge a riconfermare con la conversione del decreto-legge di proroga delle missioni militari, come sempre assemblate in un unico contenitore indifferenziato: un pacco dono al Parlamento senza possibilità di discussione specifica, senza assunzione specifica di responsabilità nel voto individuale di ogni parlamentare e nella decisionalità collettiva.
Gli esponenti del Governo, nonostante le chiacchiere che diffondono per nascondere la verità, sanno benissimo che questa guerra è stata pensata, organizzata, sferrata e, oggi, protratta sine die, per nessuna delle ragioni in cui fingono di credere e che continuano ad accreditare come buone contro ogni evidenza dei fatti. In tutti questi mesi il Governo ha continuato a rimestare nel vasto pentolone italico dei buoni sentimenti umanitari con cui ha abbondantemente travestito la missione Antica Babilonia che era, e si conferma, una missione di guerra.
Nascondete, cari signori del Governo, la verità di fondo: tacete sul venire alla luce in modo incontrovertibile del colossale castello di bugie costruito dall'amministrazione Bush per legittimare la guerra di fronte all'opinione pubblica mondiale, che non ci ha creduto un anno fa e continua a non crederci. Anzi, aumenta dappertutto la carica di critiche, obiezioni, perplessità e ci si prepara a tornare in piazza con grande determinazione il 20 marzo prossimo accogliendo l'invito dell'altra America, che pure esiste: quella che non si è messa sul sentiero di guerra e reclama che il proprio paese imbocchi un'altra politica nelle relazioni internazionali.
Non volete dire niente, e niente dite, sull'inesistenza delle armi di distruzione di
massa - insisteremo continuamente su questo tasto - sulle menzogne imbastite dal Presidente Bush per far credere che il regime di Baghdad stesse cercando di procurarsi uranio dall'Africa per i suoi laboratori chimici. Hans Blix, capo degli ispettori della commissione incaricata dall'ONU di verificare se esistessero davvero queste armi, ha ricostruito di recente, in un suo libro, il lavoro del team di ispettori in Iraq, denunciando che furono mesi di lavoro duro, di pressioni estreme, di tranelli e giochi sporchi, perché gli Stati Uniti d'America non gradivano affatto che venisse fatta una vera ed efficace ispezione indipendente. Gli Stati Uniti d'America avevano deciso che quella guerra andava fatta e nulla li avrebbe mai fermati. Blix parla anche dell'incredibile pressione esercitata da Washington affinché gli ispettori accettassero le informazioni passate dai servizi segreti americani e le includessero nelle proprie conclusioni, nonostante che le ispezioni non avessero potuto verificare il benché minimo riscontro.
L'Iraq, poi, dominato certamente da un regime repellente (come però, purtroppo, ve ne sono tanti sul pianeta), ma che aveva potuto radicarsi e legittimarsi nel paese - non dimentichiamolo, anche se voi fingete di esservelo scordato - anche grazie all'aiuto fornito in altri tempi da chi poi (gli Stati Uniti, appunto) lo ha descritto come la metafora di ogni male, non era nemmeno un crocevia della rete internazionale dei gruppi terroristi di ispirazione islamista e Saddam Hussein poteva essere accusato di molte nefandezze, ma non di quella di coltivare alleanze o progetti con Osama Bin Laden: tutto il contrario, anzi, come qualsiasi analista serio è disposto a sottoscrivere.
John Kerry, il candidato democratico alle prossime elezioni per la Presidenza statunitense, una persona che si presenta sulla scena pubblica come veterano della guerra del Vietnam e convinto patriota...
GUSTAVO SELVA, Relatore per la III Commissione. E che ha votato per l'intervento!
ELETTRA DEIANA. ... ha sottolineato questo aspetto di fondo in maniera inequivocabile: siamo andati a fare una guerra contro il terrorismo e abbiamo creato terrorismo dove non c'era. Bisognerebbe parlarne in questa sede. La guerra di Bush - voi lo sapete benissimo - ha altre ragioni, altre radici, altre implicazioni, peraltro niente affatto segrete, né secretate, come il ministro Martino e i suoi sottosegretari vorrebbero che avvenisse per tutto quello che, nel nostro paese, costituisce il pesante fardello della nostra alleanza con gli Stati Uniti d'America, in termini di servitù militari, di limitazione della sovranità territoriale, di rischio per la salute delle popolazioni, di sicurezza ambientale e di disponibilità, quando occorre, ad aiutare le imprese belliche della superpotenza, mettendo a disposizione tutto del nostro paese.
Gli Stati Uniti dichiarano, senza mezzi termini, quello che vogliono fare, come si compete a dei veri padroni, riottosi alla legge, alle regole, alle limitazioni del potere, ai contrappesi dei poteri. Il loro unilateralismo porta a questo target. Fanno quello che vogliono e sono loro - solo loro - la fonte della legittimità e della legalità. Giuliano Ferrara si è impegnato, in questo anno, in tutti i modi e con tutti i mezzi mediatici di cui dispone, per convincere il popolo italiano che le cose stanno così e che è legittimo, per chi ha la potenza della forza, imporre la sua volontà e che ciò è appunto legale e legittimo.
Il documento sulla strategia per la sicurezza nazionale del settembre del 2002 o il discorso sullo stato dell'Unione del gennaio dello stesso anno o, ancora, il discorso tenuto dal Presidente Bush, il 1o giugno 2002, alla cerimonia di fine corso all'Accademia militare di West Point, non sono stati affatto il frutto di una reazione spontanea agli attacchi dell'11 settembre alle Torri Gemelle, al contrario sono stati il frutto di un'abile mossa per sfruttare l'impatto emotivo di quegli attacchi e realizzare un passo decisivo di una strategia pensata in altri momenti e tenuta pronta -
anche di ciò vi sono le prove - sulla scrivania presidenziale della Casa Bianca.
Sapete bene che è così e sapete anche che il Parlamento di un paese libero ed adulto come il nostro dovrebbe discutere non delle buone azioni dei nostri militari, ma dei nodi strategici della politica internazionale e delle ragioni connesse a tali nodi nel ricorso all'uso della forza militare da parte dello Stato. Anche ciò dovreste saperlo bene! Sapete bene che quanto sta accadendo è in contrasto e offende l'articolo 11 della Costituzione o, forse, questo non lo sapete perché molti di voi della Costituzione repubblicana hanno un'idea approssimativa e pressapochista, e il Presidente del Consiglio pensa addirittura che sia un coacervo di lacci e lacciuoli di cui liberarsi.
L'ho detto intervenendo sulla questione pregiudiziale presentata in relazione al decreto-legge in esame e lo ripeto in questa sede: la vostra guerra è costituzionalmente illegittima e costituisce un colpo di maglio alla legalità internazionale. Con essa state legittimando la messa in atto di un'ambiziosa strategia di full spectrum dominance messa in atto da Bush, che costituisce veramente la pietra tombale di ogni possibilità di convivenza tra i popoli del mondo.
Enduring Freedom e la guerra contro l'Iraq sono entrambe all'interno di questa strategia, mirata a fare degli Stati Uniti d'America l'unica superpotenza mondiale, senza rivali che possano sfidarne la supremazia adesso e nell'immediato futuro e, contemporaneamente, di una strategia regionale, secondaria ma non meno importante, mirante ad installare un forte controllo nel teatro centroasiatico e mediorientale, per ragioni di accaparramento delle risorse e di controllo del territorio.
Voglio anche ricordare agli amici del centrosinistra che su tali questioni non si possono fare sconti, non si possono riempire i muri di Roma con un nobilissimo messaggio sul ripudio della guerra, che tuttavia riduce l'articolo 11 ad una sola opzione etica, depotenziandone la forza di vincolo prescrittivo costituzionale.
E, a nostro avviso, non è neanche accettabile il finto realismo di chi, anche nel centrosinistra, discetta sulla inopportunità di ritirare subito il contingente italiano, perché altrimenti in quelle zone non si sa come andrebbe a finire. In quei territori sta andando male e le truppe occupanti, insieme con il castello di trame che il governatore Bremer sta imbastendo per costruire le condizioni di un solido e duraturo controllo degli USA sull'Iraq, favoriscono un drammatico peggioramento della situazione.
Il ritiro immediato dei militari italiani, l'impegno contemporaneo dell'Italia affinché gli angloamericani facciano lo stesso, la richiesta che l'ONU e i paesi arabi siano messi nelle condizioni di studiare, insieme a coloro che in Iraq vorranno farlo, gli strumenti migliori per uscire dalla tragedia e ritrovare le vie della convivenza e della pacificazione costituiscono l'unico modo realistico per contribuire a fornire aiuto a quel popolo.
In quel paese la guerra sta generando mostri, non soltanto per le popolazioni locali ma per il futuro di tutto quanto il pianeta, perché i processi di destabilizzazione messi in atto dalla illimitata volontà di potenza degli Stati Uniti hanno aperto un varco senza precedenti all'acuirsi dell'odio di quella parte del mondo contro l'Occidente.
Voi continuate a parlare del ruolo dei nostri militari nell'opera di aiuto alle popolazioni del luogo. Perché non parliamo, invece, degli interessi economici dell'Italia nell'area - dell'ENI, in primo luogo - e dei progetti del Governo Berlusconi di partecipare alla divisione della «torta» - o del «tortino» - dei subappalti? Forse, non è «politicamente corretto» rispetto al «politicamente conformista» delle vostre scelte (conformista rispetto alla coalizione dei volenterosi in cui avete trascinato il nostro paese).
Di questi interessi e di questi affari parla con grande entusiasmo e con grande chiarezza il viceministro delle attività produttive Adolfo Urso sul Corriere della Sera di ieri, annunciando che domani sarà a Washington per incontrare i personaggi
politici americani legati al processo di ricostruzione irachena o, per dirla con parole più appropriate, allo sfruttamento neocoloniale di quel disgraziato paese. Non si capisce perché non se ne possa parlare in questa sede.
I generali britannici, fino all'ultimo, hanno fatto opposizione alle direttive del loro premier e ritenevano che la guerra fosse illegale - parere di generali, presidente Selva, non mio -, temevano che l'esercito britannico potesse incappare ex post nell'accusa di crimini di guerra. Lo ha rivelato pochi giorni fa, confermando peraltro notizie già trapelate, la stampa di quel paese, che è veramente ineguagliabile nella sfida democratica della libertà di informazione.
Così, abbiamo saputo che sir Michael Boyce, all'epoca capo del personale della difesa, disse al premier Blair che, prima di mandare i soldati a combattere, occorreva un documento firmato dal procuratore generale del Regno o dall'avvocato di Stato, che indicasse in maniera totalmente esplicita che si trattava di un conflitto legale. Non si sa come Blair abbia ottenuto da lord Goldsmith, l'avvocato di Stato, un altro documento che sostituisce quello precedente, in cui lo stesso Goldsmith aveva affermato che, per legittimare la guerra, mancava, fino ad allora, un esplicito consenso da parte delle Nazioni Unite.
È un altro dei tanti imbrogli di guerra su cui è stata costruita la spedizione anglo-americana contro l'Iraq e di cui Blair è stato gran cerimoniere. La guerra, là, continua a devastare tutto, ad alimentare il coagularsi dell'interesse politico dei gruppi terroristici intorno alla questione irachena, a fomentare il rischio della guerra civile tra gruppi religiosi diversi, etnie diverse, gruppi di potere contrapposti, mentre si configura una resistenza alle truppe occupanti e ai progetti di stabilizzazione filoamericani che, qui da noi, appare cieca e senza costrutto, tutta prigioniera nella dimensione «violentista», ma di cui ormai non si può ignorare né l'esistenza, né la verità interna, che il diritto internazionale nomina come diritto di una popolazione occupata ad organizzare la resistenza contro l'occupante. Questo sta avvenendo e si sviluppa a macchia d'olio. Anche di questo, forse, bisognerebbe parlare in questa sede.
La democrazia non si esporta sulle punte delle baionette, soprattutto la democrazia non ha nulla a che vedere con la «foglia di fico» di governi locali, amici degli occupanti, che si prestano a legittimare, oggi in Iraq come ieri in Afghanistan, gli interessi strategici della superpotenza e quelli delle grandi compagnie statunitensi interessate alla ricostruzione.
In Iraq le cose stanno soltanto cosi. Proliferano gli eserciti privati e si rafforza la rete di chi non è disposto ad accettare di convivere in posizione subalterna con gli Stati Uniti. Nessuno si aspettava l'attacco del 12 novembre contro i carabinieri italiani? Se le cose stanno così, come sembra, si tratta di un bell'esempio di incoscienza. Come si fa a mandare dei militari in un contesto come quello iracheno, senza avere chiara la dinamica che la guerra avrebbe suscitato e stava già suscitando? I quattro elicotteristi finiti sotto inchiesta della procura militare per essersi rifiutati di salire sugli apparecchi hanno evidenziato un problema che è di prima grandezza e su cui bisognerà discutere con lucidità, fuori da ogni retorica o strumentalizzazione.
Il problema è questo: esiste o no una non coerenza tra i profili di ingaggio e il contesto operativo in cui quei militari si sono trovati a destreggiarsi? Esiste o no una incompatibilità tra i livelli di rischio previsti e delineati al momento della partenza - missione di pace, missione umanitaria - e quelli riscontrati nel contesto concreto? La tragedia di Nassiriya dice che il gap è enorme: bisogna stabilire se dell'esistenza di questo gap si sapesse qualcosa, se esso è stato mascherato per ragioni di opportunità politica, onde accreditare di fronte al paese e al Parlamento la favola bella della missione umanitaria, oppure chi di dovere non aveva capito nulla di quello che sarebbe successo in Iraq e ha mandato allo sbaraglio i militari italiani. Io non credo che si possa parlare di ammutinamento, ma non è
questa la sede. Io voglio dire che è messo in evidenza un aspetto tecnico-militare che deve essere riportato alla fonte politica, e cioè alle responsabilità, al quadro di conoscenza, al livello di scelta che è stata operata intorno alla missione Antica Babilonia.
Insomma, voglio dire che una cosa è sorvolare un territorio con gli elicotteri al fine di effettuare un controllo di tipo umanitario e anche un'operazione di tipo poliziesco per la sicurezza di quel territorio, altra cosa è salire su un elicottero che è potenzialmente obiettivo di una offensiva ostile e può diventare, quindi, uno strumento di morte per chi c'è sopra.
Protezioni adeguate le reclamano anche i militari statunitensi, per loro e per i loro velivoli, visto che non sono adeguatamente protetti neanche quelli. Pertanto, si tratta di una questione di ordine generale, che riguarda appunto la capacità di capire quello che lì sarebbe successo; del resto, capire quello che succede in un contesto dove è avvenuta una guerra, evidentemente, è l'abbiccì per assumere decisioni relative a contesti simili. Il candidato John Kerry dice che gli elicotteri in Iraq non hanno sistemi antimissilistici adeguati, la guardia nazionale deve blindare il fondo dei veicoli con lastre di acciaio contro gli esplosivi e i genitori mandano ai soldati i giubbotti antiproiettile che non vengono forniti dal Pentagono, mentre, ovviamente, i genitori dovrebbero mandare fotografie e pacchi dono.
Credo che sia veramente scandaloso che il Governo non si sia sentito obbligato a riferire alle Camere su tutti questi problemi prima di riconfermare per decreto-legge la missione, continuando a mentire sulla natura della medesima.
Il ministro Martino - lo voglio ricordare qui in Assemblea - si era impegnato ad una nuova discussione prima della proroga e si era impegnato a sottoporre il complesso di queste problematiche al confronto parlamentare. Tuttavia, nulla è stato fatto, nonostante tutto ciò che è successo e continua a succedere, dall'esplodere vero e proprio di quel paese, all'evidenziarsi del business come barra delle scelte e delle strategie non solo nostre, al coinvolgimento diretto o eterodiretto del nostro paese nelle responsabilità politiche della gestione di ciò che sta accadendo con la nomina della signora Contini. Ne hanno già parlato i colleghi, ma credo si tratti di un punto di grandissima importanza politica, su cui è necessario avere chiarimenti.
Che dire poi della cosiddetta transizione verso la transizione, avviata con una sedicente Carta costituzionale, probabilmente destinata ad accendere altre mine, su cui i ministri degli affari esteri e della difesa ed il Governo tacciono pudicamente?
Credo vi sia una congerie di problemi giganteschi di cui vi è la necessità di discutere (ma di cui il Governo, evidentemente, non ha nessuna voglia di discutere), che ovviamente sarà materia di continue richieste di chiarificazione da parte nostra; al riguardo, continueremo a sottolineare quello che, a nostro avviso, è il punto fondamentale, ossia la richiesta che i soldati italiani rientrino nel nostro paese. Infatti, crediamo che questa sia l'unica scelta saggia per l'Italia, per i militari italiani, per le nostre relazioni internazionali e per la nostra capacità di svolgere un ruolo di civiltà nell'ambito delle stesse, soprattutto perché solo in questo modo sarà possibile costruire in Iraq le condizioni per il ripristino di una situazione di democratizzazione, di pacificazione e di restituzione dell'autogoverno alle popolazioni locali (Applausi dei deputati dei gruppi di Rifondazione comunista e dei Democratici di sinistra-L'Ulivo).
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Bricolo. Ne ha facoltà.
FEDERICO BRICOLO. Signor Presidente, già diversi interventi si sono soffermati su questo argomento, ma spesso si è cercato di portare avanti tesi che, forse, non hanno un collegamento diretto con il provvedimento in discussione e con il voto che dovremo esprimere domani.
Sarebbe forse corretto fare anche il punto della situazione. Stiamo discutendo
di un provvedimento concernente un rifinanziamento delle missioni di pace nel mondo. Se, in ordine a tale rifinanziamento, che è già stato approvato dal Senato, vi sarà un voto favorevole alla Camera, tutte queste missioni - che ci vedono impegnati nei Balcani, in Bosnia, in Macedonia, in Albania, in Kosovo, in Palestina a Hebron, sul confine fra l'Eritrea e l'Etiopia, in Afghanistan e in Iraq - potranno continuare.
Se non si esprimerà un voto favorevole sul provvedimento, queste missioni di pace, di fatto, dovranno essere immediatamente concluse ed i nostri militari dovranno tornare nel nostro paese. Questo è il sunto della situazione.
È chiaro che il centrodestra, forza di Governo, si trova assolutamente unito su questo provvedimento e, di conseguenza, voterà in modo compatto a favore del mantenimento di queste missioni di pace nel mondo: sappiamo quanto siano importanti tali missioni per la stabilizzazione dei Balcani, per la lotta al terrorismo internazionale, per Enduring Freedom in Afghanistan e per il difficile, ma necessario ed importante processo di democratizzazione che sta avendo luogo in Iraq.
Votare contro avrebbe il significato di disimpegnare il nostro paese rispetto agli accordi internazionali concernenti le missioni NATO e le missioni ONU, di riportare a casa tutti i nostri militari, di screditare, di fatto, agli occhi dell'opinione pubblica mondiale la nostra azione di politica estera e di difesa e, soprattutto, di compromettere quella credibilità che, proprio attraverso le missioni di pace, siamo riusciti a costruirci negli ultimi anni. Dunque, il centrodestra è sicuramente compatto.
Il centrosinistra, invece, non si esprimerà favorevolmente. Con la sua decisione, quest'ultimo prende una posizione che, qualora esprimesse la volontà di una maggioranza di Governo, riporterebbe i nostri uomini a casa e determinerebbe la fine di questa missione di pace. Il centrosinistra ha difficoltà ad esprimere il voto: al suo interno, vi sono componenti più o meno moderate che fanno riferimento a diverse aree del paese e che - bisogna riconoscerlo - si stanno inventando, in modo assolutamente ipocrita, soluzioni di voto apposite. Spero che i giornali e le televisioni riescano a raccontare quanto sta per accadere anche a quei cittadini italiani che, con il loro voto, hanno dato fiducia ai partiti del centrosinistra.
Insomma, il centrosinistra non è assolutamente unito, non ha una posizione unitaria. Il partito di Rifondazione comunista, i Verdi ed i Comunisti italiani hanno deciso di esprimere un voto contrario, mentre la nuova lista unitaria dovrebbe esprimersi, in teoria, con un «non voto». All'interno di quest'ultima, però, vi sono grossi problemi a far convergere tutti sull'accennata posizione unitaria: sappiamo, infatti, che il «correntone» DS vorrebbe votare «no», mentre Boselli ed Intini sono per l'astensione dal voto.
Ebbene, la scelta definitiva, quella alla quale il centrosinistra dovrebbe giungere alla fine di questa interminabile discussione al suo interno, sembrerebbe essere quella di un «non voto». Non riescono a scegliere né il «sì» né il «no» né l'astensione, ma opteranno per una nuova forma di espressione di volontà parlamentare: quella di rimanere in aula e di non votare!
Perché sono costretti a tanto? È chiaro: non possono votare «sì» perché, qualora lo facessero, verrebbero contestati da tutte quelle frange costituite, ad esempio, dagli aderenti ai centri sociali, che da sempre li appoggiano e che essi sono comunque costretti a difendere anche quando costoro manifestano le loro idee abbandonandosi alla violenza più bieca e più cieca. Ricordiamo le manifestazioni in occasione del G8 di Genova? Dunque, essendo ricattati da questa piazza intollerante e violenta, che pure si dice pacifista, i colleghi ai quali sto facendo riferimento non possono esprimere un voto favorevole. D'altro canto, non possono astenersi dal voto per non scontentare chi è diversamente orientato, né possono votare «no» perché, nel dibattito interno, Rutelli, la Margherita ed i cosiddetti moderati hanno paura di perdere
quel voto moderato che, invece, cercano in qualche modo di conquistare.
Dunque, la soluzione, l'idea - non so a chi sia venuta - è quella del «non voto», quella di non esprimersi: idea singolare che denota - e dovrebbero capirlo tutti gli italiani - l'incapacità di questo centrosinistra di essere forza di Governo! Su questo tema così importante, relativo al mantenimento o meno delle missioni di pace all'estero e, quindi, al cuore della nostra politica estera e della nostra politica di difesa, la sinistra non solo non ritiene di astenersi, ma addirittura non vota, non si esprime in Parlamento.
Spero che domani sui giornali vi sarà un approfondimento sul tema, perché gli italiani devono chiaramente capire come su certe tematiche così importanti, che in qualche modo condizionano la credibilità del nostro paese, anche l'opposizione dovrebbe responsabilmente esprimere un parere, senza nascondere la testa sotto la sabbia come gli struzzi. Comunque, in questo Parlamento ognuno è libero di fare ciò che vuole, anche di non esprimere il proprio voto, ma vorrei rilevare che all'interno dell'opposizione vi è già chi (in una lista che si vorrebbe unitaria) prende le distanze al riguardo. Oggi, ad esempio, il senatore Salvi, personaggio di spicco dei Democratici di sinistra, vicepresidente al Senato e ministro del lavoro nel Governo dell'Ulivo, prendendo le distanze dalla posizione di non voto voluta dalla parte più importante della sinistra unitaria, afferma che l'operazione del Triciclo è nata all'insegna dell'unità ed invece comporta divisioni; si conferma come un'operazione politicamente sbagliata che sta accentuando divisioni e divaricazioni nel campo del centrosinistra, invece di ridurle, mettendo in difficoltà, soprattutto, i Democratici di sinistra.
Lo dicono loro, non siamo noi ad affermarlo! Non sono solo queste le dichiarazioni che vengono rese al riguardo nel mondo del centrosinistra. Penso anche ad un'altra interessante dichiarazione resa oggi dall'onorevole Di Pietro, il quale non è stato accolto nella lista unitaria (si è manifestato qualche fastidio da parte dell'area più moderata), ma esprime la sua opinione come membro dell'Ulivo, del centrosinistra. Egli afferma quanto segue: chi non prende una decisione netta per il «sì» o per il «no» sulla missione militare in Iraq è un codardo, senza dignità di parlamentare.
È ciò che pensa uno dei leader del centrosinistra nei confronti di ciò che dovrebbe essere la lista guida del centrosinistra: si parla addirittura di codardi, senza dignità di parlamentari, nei confronti dei membri di una formazione politica che vuole diventare forza di Governo, e ciò è grave nel nostro contesto politico. Si insultano a vicenda; non hanno una visione comune non solo in materia di difesa e di politica estera, ma anche relativamente ai temi, discussi in Parlamento, delle pensioni, delle gabbie salariali, di alcune questioni etiche (ad esempio, per quanto riguarda la fecondazione assistita, il centrosinistra si è spaccato in due, perché il gruppo della Margherita ha votato con il centrodestra, mentre gli altri gruppi hanno espresso un voto diverso). Pensiamo, inoltre, ai disegni di legge che prevedono il consumo libero della droga nel nostro paese, portati avanti dalla sinistra, ma contestati dalla stessa Margherita, o ad altre proposte di legge del centrosinistra seppure contestate dal gruppo della Margherita, che prevedono matrimoni gay nel nostro paese o addirittura la possibilità da parte delle coppie gay di adottare figli.
Anche con riferimento al provvedimento in esame, è diventato chiaro che il centrosinistra non potrà mai essere una forza di Governo. Possono raccogliere dei voti, ma, una volta che dovessero arrivare a tenere le redini di questo paese, si scontrerebbero su tematiche così importanti (politica estera o di difesa, in questo caso) senza una maggioranza. È successo nella passata legislatura, quando i cosiddetti pacifisti, quelli che scendono nelle piazze sbandierando la bandiera della pace, decisero di bombardare Belgrado e di entrare in guerra con gli americani senza il voto del Parlamento. Un voto poi ottenuto, dopo aver già scatenato una
guerra con la partecipazione dei nostri uomini, grazie all'appoggio del Polo. Evidentemente, anche in quel caso, se non vi fosse stato il Polo, il Governo del centrosinistra sarebbe caduto.
Questo festival dell'ipocrisia del centrosinistra - le dichiarazioni rese in quest'aula lo dimostrano - ci porta ad una conclusione (è inutile fare discorsi molto lunghi e di merito quando il provvedimento tecnicamente parla di rifinanziamento).
Si può essere favorevoli o contrari. Il provvedimento diventa motivo di discussione politica a causa delle divisioni esistenti all'interno del centrosinistra, che provocano gli equilibrismi e le tattiche nell'espressione del voto cui ho fatto riferimento.
Il centrosinistra si presenta dunque in questa Assemblea con una posizione che vuole essere vicina ai pacifisti e, nel contempo, non vuole deludere i moderati, e dunque non può essere di astensione, bensì di non voto. La parte più radicale del centrosinistra esprimerà voto contrario, mentre la parte più moderata, che fa riferimento ai socialisti, si asterrà.
Il centrosinistra non può dunque essere una forza alternativa di governo, ed è ipocrita e vigliacco, perché non ha il coraggio di votare e di esprimere la propria posizione davanti al paese in una materia particolarmente importante quale quella in esame.
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Rizzo. Ne ha facoltà.
MARCO RIZZO. Signor Presidente, onorevoli colleghi, la guerra all'Iraq è stata fondata su motivazioni reali e su motivazioni false.
Quanto alle motivazioni reali, si tratta di una guerra che è stata intrapresa per il controllo del petrolio da parte degli Stati Uniti e ai fini della ridislocazione delle truppe statunitensi nell'area in questione. Infatti, l'Arabia Saudita non garantisce più in modo affidabile la posizione prevista sia dagli accordi sia dalla realpolitik e il regime dittatoriale di quel paese non offre più le certezze richieste dagli Stati Uniti, in primo luogo per quanto riguarda il terrorismo. Un'ulteriore motivazione reale alla base della guerra - si tratta di una ragione tenuta nascosta, ma è una delle principali - è costituita dall'indebolimento della costruzione dell'unità politica europea.
Quanto alle motivazioni ufficiali, esse sono, a mio avviso, false, a partire dalla lotta al terrorismo, e sono state confutate dagli stessi esponenti dell'amministrazione statunitense, quali il segretario alla difesa, Donald Rumsfeld, che ha dichiarato che la presenza delle armi di distruzione di massa costituiva un «pretesto burocratico» per la guerra, e il segretario di Stato, Colin Powell, il quale ha affermato che, a conti fatti, la guerra non avrebbe dovuto essere dichiarata, in quanto basata su una menzogna, quale appunto la presenza delle armi di distruzione di massa (la cui inesistenza è peraltro avvalorata e comprovata dalle dichiarazioni rilasciate dagli ispettori dell'ONU).
Si è dunque trattato di una guerra basata sulla menzogna e su motivazioni diverse da quelle fornite. Tuttavia, anche stando agli obiettivi ufficiali, essi non sono stati raggiunti.
È stato detto che la guerra era necessaria per restituire la democrazia all'Iraq. Il regime di Saddam Hussein è stato effettivamente rovesciato. I comunisti italiani non possono essere considerati collegati in alcun modo al dittatore iracheno, che è stato foraggiato a lungo dagli Stati Uniti nell'ambito della campagna contro l'Iran.
Vorrei ricordare al riguardo che le prime repressioni compiute dal regime iracheno di Saddam Hussein hanno colpito duramente ( si parla di centomila comunisti uccisi). Per questo vorrei sgombrare il campo da qualsiasi retropensiero nei confronti della nostra valutazione politica. Si diceva: si vuole stabilizzare quel paese e ridare la democrazia, con una valutazione alquanto improbabile. Chi decide infatti quale sia uno Stato democratico? Anche dandolo per acclarato, si è «giocato» con quella famosa lista nera
stilata dal Governo degli Stati Uniti d'America, nella quale si è inseriti o meno molto velocemente: ad esempio, il Pakistan era uno degli Stati presenti nella lista nera, ma quando ha consentito di adoperare le basi per attaccare l'Afghanistan e favorire l'invasione da parte degli Stati Uniti d'America, è stato «sfilato» dalla lista.
Ebbene, al di là di queste valutazioni, si intendeva stabilizzare la democrazia, ma in Iraq la democrazia non c'è ed il paese non è stabilizzato. Si diceva anche che questa rappresentava una battaglia contro il terrorismo. Restiamo ai fatti: il terrorismo in quel paese e in tutte le altre zone del mondo collegate a quel conflitto è diminuito o è aumentato? I fatti sono dinanzi agli occhi di tutti: il terrorismo è aumentato. Pertanto, quegli obiettivi che venivano posti non sono assolutamente stati perseguiti. Anzi, l'unico vero miracolo che è riuscito a compiere l'amministrazione americana è che tutte le masse di diseredati islamiche del mondo si sono «compattate» nei confronti del radicalismo islamico.
Questo è un bel risultato, che può addirittura prefigurare il terribile scontro fra civiltà: da una parte l'Occidente, dall'altro l'Islam. Credo che questo modo di intendere la guerra, in modo cioè preventivo, porti in primo luogo a questi risultati.
Qualcuno dirà: si tratta di una giusta critica, ma voi cosa proponete? Noi proponiamo di ritirare i soldati italiani, non soltanto perché si tratta di una vicenda nazionale e non solo perché i soldati italiani sono stati inviati con una gigantesca operazione di propaganda che ha raccontato al paese che i nostri soldati sono lì per la pace, come missione umanitaria. Ogni tanto viene fuori qualche generale e qualche politico intellettualmente onesto da parte del centrodestra che ricorda che siamo lì con i nostri soldati a far la guerra.
Sono i dati che ci dicono che siamo lì a compiere una guerra ed un'occupazione militare, contravvenendo all'articolo 11 della Costituzione e alla politica estera italiana degli ultimi quaranta anni.
Il nostro corpo di spedizione militare è al 95 per cento a Nassiriya, 600 chilometri più a sud del piccolo ospedalino militare che abbiamo impiantato a Baghdad. Sono lì non per facilitare ponti aerei di medicinali o di aiuti umanitari; sono lì per fare occupazione e stabilizzazione e, quindi, a fare la guerra.
Per questo motivo, con grande senso di responsabilità, anche se ammettiamo la difficoltà di essere coerenti sino in fondo, siamo stati, come forza politica dei Comunisti italiani, gli unici che hanno rimandato immediatamente alle responsabilità del Governo italiano la strage di Nassiriya.
Noi diciamo che oggi occorre ritirare il nostro contingente militare perché soltanto in questo modo potremo dare a quel paese una pace perlomeno più stabile. Non vogliamo soltanto ritirare le truppe e lasciare che si ammazzino fra di loro, questo è chiaro. Ma l'unico progetto possibile è quello di avere l'intervento dell'ONU (qualcuno dirà che l'ONU non conta niente e che occorrono i soldati). Ci devono essere truppe in quel paese ma devono essere di paesi che non hanno fatto la guerra. Truppe di paesi che non hanno partecipato all'occupazione militare; soltanto in quel caso vi sarà un diverso atteggiamento, logico peraltro, da parte delle popolazioni. In caso contrario, il terrorismo continuerà a crescere insieme all'instabilità di quell'area; probabilmente non è questo uno dei risultati che l'amministrazione statunitense intende raggiungere. Si vuole raggiungere invece una diversa collocazione strategica delle proprie truppe, il controllo dei pozzi di petrolio che si compie con qualche decina di migliaia di militari a difesa; per il resto dell'Iraq, che si ammazzino pure! Questo è il pensiero che è dietro la politica della guerra preventiva.
Quindi, il ritiro delle truppe italiane non è soltanto un fatto nazionale volto a tutelare i nostri soldati, la nostra Costituzione, ma anche a tutela del nostro Stato, che in questo modo è in prima fila fra gli obbiettivi del terrorismo.
Il ritiro delle truppe italiane è la condizione necessaria affinché vi sia un cambiamento di direzione della stessa amministrazione americana, perché finché i paesi cosiddetti alleati non segnaleranno questa incongruità politica ed anche morale di una guerra sbagliata, di una guerra illegittima, è chiaro che gli Stati Uniti non cambieranno. Non possiamo aspettare fino a novembre! Noi speriamo che vincano i democratici, che perlomeno prefigurano un atteggiamento diverso su questa guerra, ma non possiamo aspettare fino a novembre! Cosa può succedere da qui a novembre?
Sembra che in Italia adesso siano responsabili soltanto coloro che intendono la risoluzione delle controversie internazionali con la guerra. Sento accuse da parte dei membri del centrodestra - ma devo dire che rimbalzano anche dentro al centrosinistra -, si parla di responsabilità: non possiamo non essere responsabili... Ma perché, la Francia e la Germania, per rimanere nel campo europeo, sono paesi irresponsabili? Non l'hanno fatta questa guerra, non hanno inviato un solo soldato; e sono per questo irresponsabili? Le forze di sinistra o di centrosinistra non governano la Germania? Quindi, anche le battute che vengono fatte, quasi si dovesse associare il termine «responsabilità» al termine «governabilità di un paese», mi paiono del tutto fuori luogo.
Ribadisco, quindi, le motivazioni per cui i Comunisti italiani voteranno «no» a questa reiterata presenza dei soldati italiani. Con un ordine del giorno ne chiederemo l'immediato ritiro, perché è la condizione necessaria affinché in Iraq vi possa essere la pace e facciamo un appello a tutti i deputati delle opposizioni ed anche ai deputati del centrodestra che amano la pace a dire un «no» secco e convinto.
C'è poi la vicenda del voto complessivo, perché questo provvedimento si vota insieme a provvedimenti relativi ad altre missioni di italiani all'estero. È un gioco politico, non so se è voluto solo dal Governo, non si sa. Noi chiederemo il cosiddetto «spacchettamento», cioè che si possa votare liberamente per ogni provvedimento; ma se anche le cose restassero così, dato che il tumore è la guerra in Iraq (e, è quando si ha un tumore, questo - e non i raffreddori - che si deve curare), deve fare premio la politica. Quindi è il voto finale sul provvedimento, cioè l'atto che farà sì che vi siano i finanziamenti per mantenere i nostri soldati in questa sporca guerra, quello che conta. Facciamo allora appello a tutti i deputati delle opposizioni affinché confermino il «no» che già avevano espresso sei mesi fa, perché oggi, rispetto a sei mesi fa, le ragioni per esprimere questo «no» secco contro la guerra sono aumentate, non sono diminuite! Questa è la contraddizione che purtroppo noi constatiamo anche in una parte consistente delle nostre file.
Ribadiamo quindi il «no» convinto alla guerra in Iraq; chiederemo l'immediato ritiro dei soldati italiani e, nel segno del rispetto per i morti italiani, vorremmo esprimere, come Comunisti italiani, tutta la solidarietà ai quattro elicotteristi che, anche come lavoratori delle Forze armate, si sono rifiutati di stare dentro ad un meccanismo che poteva stritolarli.
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Ciro Alfano. Ne ha facoltà.
CIRO ALFANO. Signor Presidente, il provvedimento di legge oggi all'esame è volto - non dimentichiamolo - a prorogare la partecipazione italiana alle operazioni internazionali, prevedendone le modalità e l'impegno economico; non è un decreto con il quale si deve decidere soltanto la presenza dei nostri militari in Iraq o meno.
Non può sfuggire a tutti noi, infatti, la validità e l'importanza di rinnovare, con un atto concreto, la nostra ammirazione e gratitudine, manifestando il sostegno morale, politico e materiale dell'intero paese nei confronti di tutti i nostri coraggiosi militari impegnati in tutte le nove missioni internazionali di pace nelle quali siamo chiamati ormai stabilmente, a pieno titolo, a cooperare fattivamente, nell'ambito e nel rispetto delle istituzioni preposte, per risolvere
situazioni di crisi internazionali e per scongiurare i conseguenti pericoli di conflitti politici, etnici e religiosi che da essi possono derivare.
Tali missioni mirano a garantire il rispetto delle norme di diritto internazionale, la pacifica convivenza tra i popoli e la loro emancipazione, lo sviluppo della democrazia e dell'economia di mercato di fronte alle minacce alla stabilità mondiale ed alla violazione dei diritti fondamentali e dell'incolumità delle popolazioni attuate da regimi totalitari, da movimenti integralisti etnico-religiosi o da organizzazioni terroristiche e criminali.
La strategia di azione, che ha ispirato ogni nostro impegno internazionale su tale fronte, è sempre risultata chiara e condivisa ad ogni livello ed in ogni circostanza, sia parlamentare e governativa, sia di opinione pubblica nazionale ed internazionale. Valida ed inequivocabile testimonianza ne sono le innumerevoli attestazioni di apprezzamento e di stima tributate dalla comunità internazionale in ogni missione nella quale siamo presenti, a cominciare dai responsabili delle organizzazioni internazionali di difesa militare ed umanitarie, sotto la cui egida ci siamo impegnati ad operare, fino alle popolazioni alle quali abbiamo portato aiuto, sostegno e conforto per cercare di alleviare, ed in alcuni casi persino di risolvere, i loro problemi.
I nostri militari ed i nostri civili hanno operato in questi anni, nell'ambito delle numerose missione di pace, con spirito di abnegazione, competenza, intelligenza, tatto e saggezza, nonché con un alto senso di umanità e solidarietà, ponendo in essere azioni coraggiose e lungimiranti, con le quali essi sono riusciti ad interpretare e conciliare i difficili compiti loro affidati e le rigide regole di ingaggio con le esigenze di popolazioni molto variegate tra loro per culture, tradizioni, etnie e credo religioso, avendo cura di rispettare sempre le loro radici storico-culturali ed il contesto politico, sociale, economico ed ambientale nel quale si trovavano, cercando sempre di coinvolgerle nelle scelte e nella condivisione degli obiettivi prioritari.
I brillanti risultati conseguiti da questi nostri uomini costituiscono, quindi, un prezioso patrimonio da difendere, un vanto ed un esempio da emulare anche da parte dei militari appartenenti agli altri paesi europei e nordamericani impegnati nelle stesse missioni. Tali uomini meritano pertanto tutta la nostra concreta riconoscenza, anche perché essi hanno contribuito a farci acquisire maggiore peso e considerazione nel contesto internazionale. Ciò anche nell'ottica di favorire la crescita del ruolo politico e militare che spetta ad un contesto più allargato, quale quello dell'intera Unione europea, affinché ciascun paese membro rinunci, per un obiettivo più alto, alla propria autonomia in tema di politica estera, di sicurezza e di difesa.
Sarà possibile costituire, così, un'unica struttura centrale di coordinamento, cui affidare le scelte strategiche di indirizzo e di attuazione della politica estera e di difesa; tutto ciò mediante l'integrazione, la razionalizzazione e lo sviluppo di strutture istituzionali, logistiche ed operative sempre più integrate ed efficienti, mediante la dotazione di strumenti tecnologici di ultima generazione e di uomini ben addestrati e formati al loro utilizzo, per poter ridurre l'esistenza di ogni eventuale gap tecnologico e di efficienza. Ciò è necessario affinché l'Unione europea possa essere in grado di assumere un ruolo paritario di collaborazione in difesa dei diritti fondamentali dei più deboli, dei valori condivisi e della sicurezza mondiale.
Appare evidente e chiaro il nostro compito di parlamentari, a prescindere dallo schieramento politico, di sostenere, senza tentennamenti e senza riserve, la copertura finanziaria necessaria per la prosecuzione di tutte le nove missioni di pace, stante il fatto che non si tratta di missioni nuove né del venire meno delle ragioni che le avevano motivate fin dalla precedente legislatura, come risulta dagli atti parlamentari.
Tale sostegno risulta essenziale ed indispensabile per fornire il nostro personale apprezzamento e supporto a tutti quei militari che compiono, lontano dal
loro paese e dai loro cari, sacrifici ed azioni coraggiose, insieme con altri giovani provenienti da ogni parte del mondo, per difendere nobili obiettivi, quali quello della difesa dei diritti fondamentali individuali e collettivi e dei valori universalmente condivisi.
In questo contesto, non si comprendono i tentativi attuati da alcuni rappresentanti dell'opposizione, i quali esprimono un consenso ed un giudizio positivo per la prosecuzione di tutte le missioni internazionali nelle quali l'Italia è impegnata, fatta eccezione per quella in Iraq denominata «Antica Babilonia» in merito alla quale essi chiedono lo scorporo dal presente decreto-legge affinché sia esaminata separatamente.
Al riguardo, è opportuno richiamare la loro attenzione sul fatto che tale missione conserva intatte tutte le sue motivazioni in quanto, come era prevedibile ed è di fatto avvenuto, essa non si è esaurita con la caduta del regime di Saddam Hussein e la sua cattura insieme a quella dei suoi maggiori collaboratori; potrà infatti considerarsi esaurita solo con la costituzione di un Governo autonomo iracheno che sia in grado di indire libere elezioni per l'insediamento di un Parlamento democratico rappresentativo delle varie popolazioni ed etnie presenti nel paese e di varare una carta costituzionale, nonché di tutti gli altri organismi democratici.
Il nostro Governo ha peraltro sempre auspicato ed operato in funzione del fatto che fosse l'ONU ad assumere la guida della coalizione delle forze alleate presenti in Iraq per garantire il cammino verso la transizione e l'instaurazione del regime democratico. Tale obiettivo sembra prossimo ad essere raggiunto anche se gli ostacoli sono ancora molti ed il percorso è ancora pieno di pericoli, come dimostrano i continui attentati compiuti dalle frange estremiste, da bande armate appartenenti al deposto regime, da cellule terroristiche di Al Qaeda ed da altre organizzazioni terroristiche straniere di varie matrici.
La presenza in Iraq del nostro contingente di pace, come quella degli altri alleati, ha ricevuto un adeguato riconoscimento da parte delle Nazioni Unite con la risoluzione n. 1511, che legittima la presenza di forze militari in Iraq, conferendo mandato alla forza multinazionale ad agire con ogni mezzo per contribuire al mantenimento della stabilità e della sicurezza in Iraq.
Il nostro contingente militare, del resto, si è sempre attenuto, nell'ambito e nei limiti del mandato autorizzato dal Parlamento, alle regole di ingaggio concordate a livello di coalizione, mantenendo una posizione di paese non belligerante in tutte le missioni di pace alle quali è stato chiamato a partecipare. Nel caso specifico, i nostri contingenti, infatti, sono impegnati a risolvere le emergenze nei vari settori di attività, da quella sanitaria, energetica, idrica e agroalimentare a quella degli approvvigionamenti dei beni di prima necessità, dei servizi educativi e formativi scolastici e della tutela del patrimonio archeologico e museale.
Tutte queste attività, insieme alle grandi opere infrastrutturali, riguardano la ricostruzione del paese dopo i danni provocati dalla guerra e, soprattutto, dopo un trentennio di regime dittatoriale che ha sperperato una ingente quantità di risorse derivanti dai ricchi giacimenti petroliferi del paese; risorse impiegate per dotarsi di una poderosa macchina bellica e di strutture faraoniche destinate a soddisfare solo le ambizioni di un sanguinario dittatore e di tutta la sua struttura gerarchica.
La permanenza del nostro contingente militare in Iraq e l'attività di assistenza e di ricostruzione fino ad ora svolta favorirà anche il consolidamento della nostra presenza e dei nostri rapporti di collaborazione con un paese con il quale vi sono anche prospettive di incremento degli interscambi commerciali per le nostre imprese che, disponendo di un notevole Know how, potranno aggiudicarsi importanti commesse per la ricostruzione del paese. Per entrambe le parti è una concreta opportunità.
Testimoniano chiaramente tali intenti pacifici ed umanitari e non belligeranti le azioni già poste in essere dai genieri e
dagli altri tecnici facenti parte del nostro contingente in Iraq (1800 unità dell'Esercito, 350 Carabinieri, circa 200 unità dell'Aeronautica e delle forze speciali della Marina), la realizzazione di scuole con il coinvolgimento di ditte locali, la realizzazione di una rete fognante per un'intera città di 90 mila abitanti. I progetti vengono elaborati dai vari corpi militari dell'Italian Joint task force e sottoposti al vaglio della CIMIC (cellula di cooperazione civile e militare), che autorizza la disponibilità dei fondi necessari alla realizzazione di tali opere.
Le suddette motivazioni mi inducono ad auspicare che prevalga la coerenza e si approvi la proroga del decreto in esame per assicurare la necessaria copertura finanziaria a tutte le missioni internazionali di pace nelle quali il nostro paese è impegnato, compresa quindi l'operazione Antica Babilonia nei confronti della quale, peraltro, ci sentiamo maggiormente obbligati e vincolati in considerazione del tributo di sangue versato dai nostri carabinieri martiri di Nassiriya e dei sentimenti di profonda commozione che il loro sacrificio ha destato nel paese e in tutta la comunità internazionale.
Come si potrebbe infatti giustificare, di fronte ai familiari di tali vittime ed ai loro commilitoni, un ritiro del nostro contingente proprio ora che la rinascita e la ricostruzione di quel paese è stata faticosamente avviata? Chi avrebbe il coraggio di dire loro e al paese che il sacrificio di quei valorosi ragazzi è stato inutile? Come si può condividere l'assunto di quei colleghi che hanno addirittura condiviso e inneggiato, senza neppure conoscere a fondo, il reale svolgersi degli eventi, appresi solo dagli organi di stampa, strumentalizzando quindi il rifiuto di alcuni elicotteristi di volare? Un nostro disimpegno rischierebbe di far perdere la fiducia dei nostri giovani e degli stessi iracheni nelle istituzioni e nella coalizione che li ha aiutati a liberarsi di un sanguinario dittatore, che li ha spogliati della loro ricchezza e della stessa loro dignità (Applausi dei deputati dei gruppi dell'Unione dei democratici cristiani e dei democratici di centro e di Alleanza nazionale - Congratulazioni).
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Folena. Ne ha facoltà.
PIETRO FOLENA. Signor Presidente, a questo punto del dibattito sulle linee generali molti argomenti sono stati già sviscerati e approfonditi dai colleghi e dalle colleghe del mio gruppo e dell'opposizione di centrosinistra. In modo particolare, si è parlato dello strumento del decreto omnibus che, con ostinazione, il Governo ha voluto proporre in questa occasione senza ascoltare, sinora (se ci fosse un ripensamento sarebbe benvenuto), a differenza di quanto aveva fatto nel luglio scorso, l'invito rivolto da più parti a rendere anche più chiara la dialettica politica nel Parlamento sui diversi aspetti.
Mi riferisco alla proposta del tutto logica, naturale e rispettosa dell'ordinamento costituzionale, di separare il decreto-legge in due provvedimenti diversi. Non voglio, quindi, ritornare su tale aspetto e sul fatto che è davvero molto grave mettere insieme missioni di pace autorizzate dalle Nazioni Uniche e missioni militari di guerra per le quali lo stesso Governo, del resto, prevede l'applicazione del codice militare.
Sarebbe anche nel vostro interesse, colleghi della maggioranza, signori del Governo, avere una discussione ad hoc sulla questione dell'Iraq e di Nassiriya, scevra da possibili fraintendimenti in un senso o in un altro. Non mi riferisco solo alla maggioranza, ma anche a settori dell'opposizione che fanno slittare il centro del tema in discussione dalla questione irachena alla questione delle altre missioni. È fuori discussione il nostro pieno sostegno alle altre missioni. Tale sostegno avrebbe potuto e dovuto essere riconosciuto con un voto parlamentare su un provvedimento che riguardasse le missioni su mandato delle Nazioni Unite, sulle quali vi era un largo consenso.
Vorrei approfittare di questo intervento in sede di discussione sulle linee generali
per tornare sulle ragioni che spingeranno molti colleghi del mio gruppo a votare «no» ed a rimanere in aula durante la votazione finale del provvedimento nell'eventualità in cui non si dovesse accogliere la nostra proposta di separazione delle due materie.
Il primo argomento riguarda un giudizio sulla politica estera del Governo. Credo sia giunto il momento che il Parlamento venga chiamato, a quasi tre anni dall'insediamento del Governo Berlusconi, a fare un esame sulla politica estera del Governo di centrodestra. L'avvio di tale politica estera aveva suscitato qualche speranza durante la guida della Farnesina da parte dell'ex ministro Ruggiero. Poi, sostanzialmente senza grandi differenze, vi è stata una guida diretta da parte del Presidente del Consiglio: prima anche formalmente diretta, quando ha avuto l'interim per un lunghissimo periodo, e poi sostanzialmente diretta, da quando l'onorevole Frattini, con funzione di consulente di staff del Presidente del Consiglio più che di ministro degli esteri, sta proseguendo l'indirizzo che Berlusconi ha voluto imprimere a tale politica.
Ebbene, il punto vero è che Berlusconi ed il vostro Governo, pur con incertezze, gaffes ed oscillazioni, hanno operato uno strappo rilevantissimo nella storia della politica estera del nostro paese a partire alla seconda guerra mondiale. Tale strappo non è tanto relativo alla collocazione atlantica, che non è stata in discussione nei decenni precedenti, quanto al fatto che non sono stati anteposti gli interessi dell'Italia nell'Europa mediterranea e nel rapporto con gli altri paesi della sponda meridionale del Mediterraneo (paesi del nord Africa, del Maghreb, del Medio Oriente).
Si tratta di interessi che tuttavia avevano - pur con oscillazioni, errori ed incertezze - permesso all'Italia di giocare un ruolo assolutamente originale: un ruolo riconosciuto, che ha permesso in momenti difficilissimi di svolgere una grande funzione. Voglio ricordare il significato molto importante della posizione assunta da parte di un Presidente del Consiglio - che per la verità continuo a criticare per tanti altri aspetti della sua politica: mi riferisco a Bettino Craxi -, quando vi fu il noto episodio di Sigonella. In quel momento, non vi fu il prevalere di un antiamericanismo, bensì vi fu un modo di concepire il rapporto con gli Stati Uniti d'America non prono e non subalterno; in definitiva, un modo che, anche oltre Atlantico, da parte di molti ambienti, è ben più apprezzato di quello di chi dice sempre «signor sì» e di chi china la testa.
Ebbene, l'onorevole Berlusconi e il Governo di centrodestra, ad un certo punto della legislatura - liquidato, licenziato, Ruggiero -, hanno impresso una svolta alla politica estera italiana. Tale svolta è stata determinata non da fattori internazionali, non da interessi geopolitici dell'Italia, ma da un problema di legittimazione, legittimazione che il centrodestra italiano è andata a cercare alla Casa Bianca. Il semestre italiano di Presidenza europea è stata una pagina nera. Adesso non se ne parla più: siamo a marzo, e credo sia nell'interesse dell'Europa dimenticare al più presto quel periodo; tuttavia, non dimentichiamoci che il semestre di Presidenza italiana venne preparato da una visita del Presidente Berlusconi al Presidente Bush (era il settembre del 2002), nella quale sostanzialmente venne data carta bianca all'amministrazione Bush per la guerra preventiva, in assenza di qualsiasi preventiva informativa al Parlamento e in assenza di qualsiasi mandato da parte del Parlamento.
Bush sapeva, sin d'allora - lo disse lui, ma anche lo stesso Berlusconi -, che avrebbe goduto comunque dell'appoggio italiano, senza che si guardasse neppure all'opportunità persino propagandistica che Berlusconi avrebbe avuto durante il semestre italiano di Presidenza europea, quando si sarebbe potuto giocare, mantenendo un filo di autonomia ed una parvenza di dignità nazionale, un altro ruolo nel rapporto con gli altri paesi europei. Il semestre italiano di Presidenza europea è nato con questo peccato originale e ciò lo abbiamo pagato molto pesantemente. Ricordo che esso cominciò con la ripetizione,
in questo Parlamento - era proprio un anno fa, precisamente febbraio dello scorso anno -, delle bugie dette da Bush e da Blair (e ripetute da Colin Powell) davanti al Consiglio di sicurezza come fossero verità assolute. Il Parlamento, in quell'occasione, venne rassicurato e mi ricordo di colleghi dell'UDC e della maggioranza (pochi, ma significativi), che nutrivano grandi dubbi sull'opportunità di imboccare la strada della guerra preventiva (ho parlato, l'anno scorso, con alcuni di loro), i quali vennero convinti dalla nettezza con cui venivano date per buone quelle informazioni, a proposito non del fatto che Saddam Hussein fosse un feroce dittatore (perché questo lo sapevamo già e, peraltro, ve ne sono molti altri), ma del fatto che avesse armi di distruzione di massa, in grado di colpire molto rapidamente, e che, qualora non si fosse intervenuti in tempo, il rischio per il mondo sarebbe stato assolutamente terribile: perché quello fu l'argomento utilizzato.
È noto che attorno al tema delle motivazioni della guerra in Iraq è in corso uno scandalo internazionale. Blair ha dato vita alla seconda commissione d'inchiesta che entro pochi mesi dovrà accertare la verità e Bush ha incaricato una commissione d'inchiesta e tende, in qualche modo, a far capire di essere stato ingannato dai servizi segreti.
Tuttavia, almeno una parte di quei servizi segreti - mi riferisco alla CIA - ebbe modo di affermare - così risulta dalla stampa - che le notizie che circolavano già nei mesi precedenti il discorso che Bush rese di fronte al Congresso sullo stato dell'Unione, il 28 gennaio 2003, a proposito di un paese africano che stava per fornire uranio arricchito per costruire la bomba atomica all'Iraq, non erano vere. Si è dato vita dunque ad uno scaricabarile, cercando di scoprire chi abbia fornito tali notizie. Negli Stati Uniti si parla dello «scandalo delle sedici parole», le sedici parole con cui Bush assicurò che un paese africano aveva fornito uranio all'Iraq.
Evidentemente, vi sono aspetti italiani di questa vicenda che non occorre ricordare in questa sede, anche perché in Commissione affari esteri stiamo esaminando la proposta, presentata da tutta l'opposizione, volta ad istituire una Commissione parlamentare di inchiesta a proposito del contributo italiano alla fabbricazione di tali bugie. In tale vicenda sono stati coinvolti a diverso titolo una giornalista di Panorama, la dottoressa Burba, nonché il dottor Carlo Rossella, direttore dello stesso giornale che - come egli stesso ha dichiarato - anziché fornire queste informazioni riservate alla procura della Repubblica, ai servizi segreti o al Presidente del Consiglio, le ha fornite all'ambasciata americana. In ogni caso, si tratta di una guerra nata in questo contesto di bugie.
In quel periodo si sono succedute affermazioni molto impegnative da parte del Presidente del Consiglio e ci sono state anche delle gaffe, come quella con Putin sulla Cecenia e come quella del Vicepresidente Fini quando, prima di recarsi in Israele, difese a spada tratta la costruzione del muro, per la verità poi smentito dal ministro Frattini.
Insomma, queste incertezze e queste oscillazioni di politica estera sono sotto gli occhi di tutti e, alla base, recano il segno di una collocazione, per ragioni di legittimazione internazionale, al fianco di Bush.
Colleghi della maggioranza, penso che qualcuno di voi in questo momento ci stia riflettendo. I sondaggi ci dicono che il candidato Kerry potrebbe vincere le elezioni. Kerry, nel discorso ufficiale, dopo il «super martedì» che ha portato alla rinuncia di Edwards e alla sua incoronazione - usiamo un eufemismo - quale possibile candidato democratico, ha affermato: il nostro obiettivo è riportare gli Stati Uniti nella comunità internazionale.
Onorevole Ramponi, onorevole Selva, non è un comunista che parla, non è l'opposizione - come dite voi - accecata dalla volontà di demonizzare Berlusconi: si tratta di un democratico, di un moderato americano che si propone l'obiettivo di riportare gli Stati Uniti nella comunità internazionale; ciò vuol dire che ne sono usciti!
LUIGI RAMPONI. In campagna elettorale ne sentiamo di tutti i colori!
PIETRO FOLENA. Sappiamo che voi, in Italia, ci avete abituato in campagna elettorale a sentirne di cotte e di crude, ma in ogni caso Kerry ha svolto un discorso di politica estera.
George Soros - che non è un comunista - ha scritto un libro, che viene tradotto in questi giorni, in cui parla della ideologia suprematista - un neologismo un po' forte - affermando: l'ideologia suprematista dell'amministrazione Bush è in piena opposizione ai principi di una società aperta, che riconosce che la gente ha opinioni diverse e che nessuno è in possesso della verità definitiva. L'ideologia suprematista afferma che, proprio perché siamo più forti degli altri, abbiamo più saggezza e abbiamo il diritto dalla nostra parte. Conclude Soros, un finanziere, un capitalista: tutto questo ci ricorda la fattoria degli animali di George Orwell, in cui tutti gli animali sono creati uguali ma alcuni sono più uguali degli altri.
Io non userò queste parole di Soros.
GUSTAVO SELVA, Relatore per la III Commissione. Non è originale!
PIETRO FOLENA. Non è originale, però vede, presidente Selva, lei è un attento osservatore degli Stati Uniti ed è stato per anni, nella sua professione di giornalista, un profondo conoscitore della realtà americana, quindi, sa bene che, quando si muove qualcosa a questo livello, nella finanza, nell'economia, nel mondo politico americano, c'è qualcosa su cui riflettere.
Il problema che noi vi proponiamo, colleghi della maggioranza, proprio perché sta cambiando il clima anche negli Stati Uniti, è se non occorra una correzione di rotta rispetto al modo in cui la politica estera del Governo italiano si è collocata in questi tre anni, in forma subalterna e prona nei confronti della politica degli Stati Uniti.
Ho sentito affermare poco fa da un collega della maggioranza che il centrosinistra è diviso. Sono stati fatti una serie di commenti sulle divisioni interne del centrosinistra sulla missione. Purtroppo è vero; ci sono opinioni diverse nel centrosinistra e, in qualche misura, anche nel mio partito, tuttavia, mi meraviglia vedere che voi siete uniti solo in questo atteggiamento prono nei confronti dell'amministrazione Bush.
Il Parlamento, ogni settimana, rinvia in Commissione, magari su iniziativa dell'onorevole Bricolo o di altri colleghi della Lega (o di altri gruppi che fanno l'ostruzionismo su questo o su quel provvedimento), un disegno di legge dietro l'altro. Voi siete divisi su tutta la politica economica, sociale e via dicendo ma siete uniti su un punto: quando l'Italia, con il cappello in mano, chiede la legittimazione a Bush!
Noi, oggi, purtroppo abbiamo ancora delle divisioni sulla politica estera e spero che riusciremo a superarle (abbiamo un po' di tempo per farlo prima della campagna elettorale per le elezioni politiche).
GUSTAVO SELVA, Relatore per la III Commissione. Glielo auguro, ma mi sembra difficile!
PIETRO FOLENA. Io penso che le nostre idee, i nostri valori, che vogliamo portare in campo, possano contribuire a costruire una visione comune, nel quadro di un centrosinistra che si è dimostrato compatto in Parlamento su tantissime materie e che oggi ha avanzato proposte in molti settori (quello dei salari, quello economico e sociale e via dicendo) rispetto ai quali emergono i problemi del paese.
Vi inviterei, però, ad un uso più sobrio della presenza dei militari italiani a Nassirya. Essi non meritano il trattamento che hanno ricevuto in questi giorni. Non lo meritano perché, onorevole Ramponi - lei che è anche un militare dovrebbe essere particolarmente sensibile a questi argomenti -, quando si usano gli argomenti dei nostri ragazzi ai fini di politica interna, per ospitarli nell'ambito della Domenica sportiva, per chiamarli a Sanremo, pensando che portino un po' di voti e via
dicendo, poi, succede che, per ragioni di audience, perché anche la televisione è mercato, per rialzare magari un festival indecoroso (ma non è questa la sede in cui parlare di questo) si cerca un uomo di spettacolo che faccia un po' di cassetta, un uomo che la gente guarda perché si sa essere un personaggio interessante ma anche eccentrico, che ne dice di cotte e di crude, e si finisce con il recare una ferita profonda al sentimento dei nostri soldati (come ci raccontano i nostri giornalisti che sono a Nassiriya).
Infine, dopo aver argomentato sulla politica estera del Governo italiano e sul fatto che continueremo a votare «no» nei confronti di questo decreto, anche se non dovessimo ottenere lo scorporo, perché siamo convinti che si debba dare un messaggio chiaro perché cambi la politica estera del nostro paese, vorrei spendere qualche parola per motivare il ritiro delle nostre truppe.
Vedete, nel centrosinistra c'è stata una discussione appassionata nei giorni scorsi, come in tutte le coalizioni e le soggettività democratiche, sulle modalità di voto. Personalmente, sono poco interessato a queste discussioni se sono slegate dai contenuti. Io credo che noi dobbiamo decidere di ritirare i militari italiani dall'Iraq ora. Lo dico perché non è vero che si creerebbe un vuoto, non prendiamoci in giro, chiunque lo sa e del resto in questi giorni i giornalisti italiani sono tornati a Nassiriya e hanno avuto modo di scriverlo e di documentarlo. I militari italiani non stanno più a Nassiriya, nella città, e non si occupano di sicurezza dei cittadini; stanno a Tallil, in situazioni fortificate, e giustamente, perché non si debba ripetere quello che è successo qualche mese fa, siamo d'accordo. Ci piacerebbe sapere, lo dico ai signori del Governo, qualcosa di più sul rapporto che il SISMI preparò alla vigilia di quell'attentato, sul perché quel rapporto venne ignorato e anche sulle responsabilità che in qualche modo tutta questa vicenda coinvolge.
Non è vero, dicevo, che si creerebbe un vuoto, sarebbe invece una minore esposizione dei militari che non stanno facendo un'azione di interposizione e di peacekeeping, in condizioni - a Nassiriya - dove noi siamo sovraesposti, dal momento che la signora Barbara Contini è stata nominata responsabile dell'autorità provvisoria a Nassiriya non dall'Italia, ma dagli americani e dagli inglesi e di cui, come ci ha detto la stessa signora Contini, il Governo italiano è stato informato. Noi non abbiamo neppure presentato una interrogazione parlamentare per sapere dal Governo italiano cosa ne pensava, perché il Governo italiano ne sapeva quanto noi: era inutile, non lo abbiamo fatto anche per evitare di far lavorare gli uffici. Il Governo italiano è stato informato, sostanzialmente dai mezzi di informazione, di qualcosa che non ha deciso e che, tuttavia, sovraespone l'Italia.
Inoltre, la signora Contini, insultando Marco Calamai, ex consigliere speciale dell'autorità provvisoria - il quale se ne è andato dall'Iraq polemicamente e che sostiene che bisogna ritirarsi ora dal momento che non si creerebbe nessun vuoto - ha dichiarato che «noi abbiamo 20 miliardi di dollari»: sì, ma stanziati dal Congresso americano.
Sentivo prima il collega Ciro Alfano farci un'orazione a proposito delle grandi opportunità che si aprono per le aziende italiane, grandi opportunità che si aprono per ricostruire quello che è stato distrutto dalle bombe americane e inglesi. Benissimo, collega Ciro Alfano, ho interrogato l'ICE su quanto è successo fino ad ora, ho letto anche una «intervistina» dell'onorevole Urso su Il Corriere della Sera di questa mattina. L'Italia non sa ancora quasi niente e l'ICE ci informa che abbiamo qualche subappalto, gentilmente concessoci dagli Stati Uniti d'America, di cui, guarda caso, la principale beneficiaria è l'ex Fiat Avio. Penso che questa Camera sappia da chi è stata ricomprata la Fiat Avio, vale a dire dal gruppo Carlyle, di cui il padre di George W. Bush, l'ex presidente Bush, è presidente onorario.
Inoltre, sono stati sollevati interrogativi molto forti a proposito del petrolio. Esiste un contratto dell'ENI di qualche anno fa per un possibile sfruttamento del petrolio
nell'area di Nassiriya? È vera questa notizia, su cui alcuni nostri colleghi hanno presentato un'interrogazione in Parlamento? Ed è questa la ragione per cui i militari italiani sono andati a Nassiriya e non a proteggere chi presta aiuti sanitari o umanitari?
Vedete, colleghi, noi abbiamo presentato una serie di proposte emendative per rafforzare l'articolo 1, che è quello che si occupa di interventi umanitari, e per svincolarlo dalla parte militare. Perché questa ostinazione su Nassiriya? Si ripete la logica e l'idea, come era nelle guerre coloniali, come fu per l'Italia in Crimea e in altre circostanze, che è necessario mettere un gettone. E questo gettone sono forse i nostri carabinieri nell'area di Nassiriya per garantirsi uno sfruttamento economico, industriale o petrolifero di quell'area e di quel territorio?
Queste, quindi, sono ragioni che ci suggeriscono di lasciare ora il contesto iracheno, un contesto che sta esplodendo. Forse, ci si arrabatterà nelle prossime ore per la firma su uno stralcio di Costituzione che salta ogni minuto, ma l'Iraq sta andando verso una tripartizione: il Kurdistan per suo conto, la parte sciita in una situazione di quasi annessione con l'Iran ed una parte centrale, quella a maggioranza sunnita, in cui regnerà un caos assoluto.
Tuttavia, anche nel resto dell'area mediorientale abbiamo registrato una degenerazione evidente e l'involuzione reazionaria del regime teocratico e autoritario dell'Iran, che non può avere atteggiamenti di benevolenza da parte nostra. Il ministro Frattini, qualche settimana addietro, è tornato dall'Iran parlando bene di alcuni di questi personaggi neoconservatori iraniani che ora si candidano a gestire tale situazione. No, non possono essere fatti sconti sui diritti umani in quella situazione! Tuttavia, quella deriva reazionaria - come ha detto il premio Nobel Shirin Ebadi in Commissione affari esteri alla Camera - è il frutto dell'involuzione che vi è stata dopo la guerra.
Anche a occidente, verso Israele e la Palestina, la situazione è sotto gli occhi di tutti: quindici palestinesi assassinati ieri a Gaza ed una guerra senza fine. Lo stesso coautore degli accordi di Ginevra Rabbo ha affermato: così, davvero, andiamo alla catastrofe.
Ma anche in aree più lontane, in Afghanistan, il fallimento è evidente: qui non c'è più un alpino e rimane la denominazione Enduring freedom. Allo stesso tempo, l'Afghanistan è diventato il paese in cui si registra di nuovo il record di produzione di eroina che giungerà sui nostri mercati (a proposito di leggi sulla repressione della droga!).
Infine, colleghi, vogliamo lanciare un messaggio molto chiaro all'opinione pubblica americana: sappiamo bene, infatti, che la partita vera si giocherà lì. La partita vera sulla guerra preventiva e sulla possibilità di battere questa dottrina è in mano al popolo americano con le elezioni del novembre prossimo. Oggi intendiamo far giungere al popolo americano, un messaggio di amicizia da parte dell'Italia, e non di subalternità, in cui si dice: noi, a quelle condizioni, in quel contesto, non ci stiamo; siamo pronti a tornare con i nostri soldati, che abbiano però i caschi blu dell'ONU, insieme ad altri paesi terzi che non si sono macchiati le mani di sangue all'interno di quell'area e che possono favorire una rapida restituzione al popolo iracheno del proprio destino e del proprio futuro.
Voglio sperare che anche le diversità di opinioni che si sono manifestate nell'ambito del centrosinistra nel corso di questi giorni possano essere risolte e superate in nome di un'idea di difesa e di affermazione dei diritti umani e della pace, che elimini ogni doppiezza ed ogni relativismo etico.
Si è detto che dopo l'11 settembre non si possono avere due morali e lo penso veramente. Io sono per la pace in Iraq e per ritirare le truppe, con la stessa forza con cui ho presentato in Parlamento una mozione - che è stata approvata - per la libertà e contro le condanne a morte a Cuba, con la stessa forza con cui abbiamo promosso l'intergruppo Italia-Tibet e ci battiamo per i diritti del popolo tibetano,
con la stessa forza con cui eravamo di fronte a palazzo Chigi, insieme ai radicali, a manifestare per il popolo ceceno e con la stessa forza con cui mi batto contro il muro di Sharon.
Si dirà che si tratta di utopie: può darsi che siano utopie o idee lontane. Tuttavia, se la politica non ha la forza di mettere in campo valori molto netti e molto chiari, che ispirino il complesso del proprio agire con la coerenza fra il dire e il fare, allora, essa diventa una cosa molto piccina ed è inevitabile che la gente si disgusti e se ne allontani (Applausi dei deputati dei gruppi dei Democratici di sinistra-L'Ulivo e di Rifondazione comunista).
PRESIDENTE. Non vi sono altri iscritti a parlare e pertanto dichiaro chiusa la discussione sulle linee generali.
![]() |
![]() |
![]() |