Resoconto stenografico dell'Assemblea
Seduta n. 281 del 17/3/2003
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Discussione del testo unificato dei progetti di legge: Mazzuca; Giulietti; Giulietti; Foti; Caparini; Butti ed altri; Pistone ed altri; Cento; Bolognesi ed altri; Caparini ed altri; Collè ed altri; Santori; Lusetti ed altri; d'iniziativa del Governo; Carra ed altri; Maccanico; Soda e Grignaffini; Pezzella ed altri; Rizzo ed altri; Grignaffini ed altri; Burani Procaccini; Fassino ed altri: Norme di principio in materia di assetto del sistema radiotelevisivo e della RAI-Radiotelevisione italiana Spa, nonché delega al Governo per l'emanazione del codice della radiotelevisione (310-434-436-1343-1372-2486-2913-2919-2965-3035-3043-3098-3106-3184-3274-3286-3303-3447-3454-3567-3588-3689) (ore 15,07).

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca la discussione del testo unificato dei progetti di legge d'iniziativa dei deputati Mazzuca; Giulietti; Giulietti; Foti; Caparini; Butti ed altri; Pistone ed altri; Cento; Bolognesi ed altri; Caparini ed altri; Collè ed altri; Santori; Lusetti ed altri; d'iniziativa del Governo; d'iniziativa dei deputati Carra ed altri; Maccanico; Soda e Grignaffini; Pezzella ed altri; Rizzo ed altri; Grignaffini ed altri; Burani Procaccini; Fassino ed altri: Norme di principio in materia di assetto del sistema radiotelevisivo e della RAI-Radiotelevisione italiana Spa, nonché delega al Governo per l'emanazione del codice della radiotelevisione.
Ricordo che nella seduta del 13 marzo sono state respinte le questioni pregiudiziali di costituzionalità Soda ed altri n. 1 e Castagnetti ed altri n. 2.

(Discussione sulle linee generali - A.C. 310)

PRESIDENTE. Dichiaro aperta la discussione sulle linee generali.
Avverto che i presidenti dei gruppi parlamentari della Margherita, DL-l'Ulivo


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e dei Democratici di sinistra-l'Ulivo ne hanno chiesto l'ampliamento senza limitazioni nelle iscrizioni a parlare ai sensi dell'articolo 83, comma 2, del regolamento.
Avverto, altresì, che le Commissioni VII (Cultura, scienza e istruzione) e IX (Trasporti, poste e telecomunicazioni) si intendono autorizzate a riferire oralmente.
Il relatore per la maggioranza per la VII Commissione, onorevole Bianchi Clerici, ha facoltà di svolgere la relazione.

GIOVANNA BIANCHI CLERICI, Relatore per la maggioranza per la VII Commissione. Signor Presidente, prima di cominciare, nel caso in cui non avessi il tempo di svolgere tutta la mia relazione nei quindici minuti a mia disposizione, vorrei chiederle l'autorizzazione a pubblicarne il testo integrale in calce al resoconto stenografico della seduta odierna.

PRESIDENTE. Onorevole Bianchi Clerici, la Presidenza l'autorizza sulla base dei consueti criteri.

GIOVANNA BIANCHI CLERICI, Relatore per la maggioranza per la VII Commissione. Onorevoli colleghi, il testo unificato che le Commissioni riunite VII e IX rimettono all'esame dell'Assemblea, è diretto al riassetto complessivo della disciplina del sistema radiotelevisivo anche alla luce delle garanzie di libertà, di pluralismo, di obiettività e di completezza dell'informazione e della comunicazione di massa su cui si impernia la vita democratica del paese.
Con il provvedimento in esame ci si propone anche di dare seguito all'autorevole intervento del Capo dello Stato, il quale, con il messaggio alle Camere del luglio scorso, ha voluto richiamare alla nostra attenzione l'importanza di questi temi, anche in relazione all'esigenza di adeguarne la disciplina alle profonde e rapide trasformazioni sociali e tecnologiche che investono il settore.
Considerazione prioritaria merita il fatto che l'avvento della tecnologia digitale ed il processo di convergenza tra la radiotelevisione e gli altri settori delle comunicazioni di massa (telecomunicazioni, editoria, anche elettronica, Internet) impongono di aggiornare la disciplina antitrust del settore per quanto riguarda le forme e i limiti di entrata delle risorse finanziarie, al fine di evitare l'insorgere di posizioni dominanti e di garantire la concorrenza e la trasparenza degli assetti proprietari.
È, però, ancora più indispensabile la definizione di un quadro unitario di principi che regoli la fornitura di contenuti e la gestione delle reti di diffusione della comunicazione radiotelevisiva, in quanto pubblico servizio sottoposto all'interesse generale della cittadinanza indipendentemente dal soggetto che la eserciti.
Di pari passo, vi è necessità di ridefinire i compiti, gli obblighi e le modalità di finanziamento della concessionaria del servizio pubblico procedendo ad un generale riassetto della RAI anche alla luce della prevista dismissione, sia pure parziale, da parte dello Stato.
I profili di più diretto interesse della VII Commissione, nell'ambito del testo in esame, sono quelli attinenti ai temi dell'informazione, della cultura, dei contenuti dei programmi, di quanto, cioè, è inerente al diritto dei cittadini, alla trasmissione delle informazioni e delle conoscenze, ai fini della crescita civile e sociale del paese.
Particolare rilievo assumono, in questo senso, le norme attinenti ai principi generali del sistema radiotelevisivo, quelle relative alle peculiarità dei programmi diffusi in ambito regionale e locale e quelle che specificano i compiti del servizio pubblico. In questo contesto, un'autonoma e peculiare rilevanza rivestono le norme relative alla tutela dei minori nella programmazione televisiva che, elaborate sulla base dell'ampio e proficuo lavoro parlamentare condotto in varie sedi nel corso degli ultimi mesi e di alcune proposte di legge di iniziativa parlamentare, costituiscono una delle principali novità del testo unificato all'esame dell'Assemblea rispetto all'originario disegno di legge governativo.


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Negli ultimi anni, nel paese è cresciuta la consapevolezza che le potenzialità, ma anche i rischi del sistema comunicativo investono le nuove generazioni in modo più diretto e più precoce, rivelandosi, talvolta, un danno per la salute psicofisica del bambino invece che un'occasione di crescita culturale e di sviluppo delle capacità critiche della persona.
Come evidenziato in un recente studio dell'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, sono 4 milioni i bambini che guardano la TV ogni giorno, in media per più di quattro ore, spesso in completa solitudine, dedicando ad essa un tempo superiore a quello impiegato in attività scolastiche, sportive e ludiche. Un quattordicenne italiano ha visto per televisione, nei videogiochi o in Internet più di 18 mila omicidi ed un numero difficilmente calcolabile di atti di violenza e sopraffazione anche sessuale. L'età più a rischio di contagio alla violenze è tra i 3 e i 6 anni, ma non si deve sottovalutare l'assimilazione di comportamenti aggressivi negli adolescenti. Viene chiamato il consumo grigio, cioè l'uso privo di controllo che gli adolescenti fanno del televisore, guardando programmi per adulti destinati ad incidere negativamente sul loro equilibrio di crescita. Pur senza voler ricreare la TV pedagogica e didattica degli anni '50 e '60, buona parte dell'opinione pubblica del paese chiede quindi norme e regole più severe.
L'esigenza di una offerta televisiva più rispettosa di questa fascia è stata richiamata anche dal Capo dello Stato nel messaggio dello scorso anno, oltre ad essere uno degli impegni legislativi assunti dalla coalizione di maggioranza durante la campagna elettorale. Va quindi dato atto al Governo ed al ministro delle telecomunicazioni di avere reso onore a tale impegno con l'emanazione del codice di autoregolamentazione TV e minori sottoscritto volontariamente lo scorso anno dalla maggior parte delle emittenti. A giudizio del relatore, vi è però l'esigenza di dare un fondamento legislativo alla materia in modo da evitare ogni scappatoia per chi non la rispetti. Non è quindi un caso che il tema della tutela dei minori sia tra quelli che hanno conosciuto una più ampia disamina da parte delle Commissioni riunite.
Il particolare rilievo che tale materia ha assunto è testimoniato dall'ampio e articolato dibattito, non privo di significativi punti di convergenza tra maggioranza ed opposizione, svolto in sede di esame degli emendamenti. Nelle sue linee generali il lavoro delle Commissioni su questa materia ha condotto alla elaborazione di un testo che si propone essenzialmente di dare piena copertura legislativa al codice di autoregolamentazione sottoscritto presso il ministero il 29 novembre del 2002. È apparso invece opportuno almeno alle forze di maggioranza delle Commissioni accantonare alcuni interventi, in particolare quelli a carattere oneroso che erano stati prospettati nel testo unificato adottato come base al termine dei lavori del Comitato ristretto. Il relatore aveva infatti proposto la predisposizione, a cura dell'autorità per le garanzie, di una sorta di classifica annuale delle emittenti che si distinguono per la qualità della programmazione nel rispetto dei minori. L'idea era quella di concedere finanziamenti a favore delle imprese segnalate finalizzati alla produzione di programmi a carattere educativo rivolti a bambini e a preadolescenti.
Successive e più approfondite verifiche hanno purtroppo segnalato la momentanea carenza di copertura finanziaria per il progetto. Di conseguenza, si è preferito soprassedere, rinviando ad un ordine del giorno, che si spera abbia la più vasta condivisione, la richiesta al Governo di predisporre per la prossima legge finanziaria l'accantonamento dei fondi necessari a sostenere questo premio di qualità dell'offerta televisiva rivolta ai minori.
Passiamo ora ad esaminare nel dettaglio le norme che più direttamente investono le competenze della Commissione cultura. L'articolo 3 individua i principi fondamentali che informano la disciplina del settore radiotelevisivo. A quelli che già compaiono nella legge 223 del 1990 - pluralismo, obiettività, completezza, imparzialità dell'informazione, apertura alle


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diverse opinioni e tendenze politiche, sociali, culturali e religiose, nel rispetto della Costituzione - si aggiungono ora la tutela della libertà di espressione di ogni individuo, incluse la libertà di ricevere e comunicare informazioni o idee senza limiti di frontiere e la salvaguardia delle diversità linguistiche a livello nazionale e locale. L'articolo richiama anche il diritto comunitario, le norme internazionali vigenti come fonti primarie di garanzia dei diritti e delle libertà. I principi a garanzia degli utenti sono elencati all'articolo 4 e attengono sia al contenuto delle trasmissioni radiotelevisive sia alla complessiva organizzazione del sistema.
In particolare, si garantiscono l'accesso dell'utente ad un'ampia varietà di informazioni e contenuti, grazie alle opportunità offerte dall'evoluzione tecnologica, in condizioni di pluralismo e libertà di concorrenza da parte dei soggetti che svolgeranno attività nel sistema delle comunicazioni, ed il rispetto dei diritti fondamentali della persona; sono vietati, quindi, i messaggi subliminali o cifrati, o che contengano incitamenti all'odio basato su differenze di razza, sesso, religione o nazionalità. Sono altresì vietati, anche in relazione all'orario di trasmissione, i programmi che possano nuocere allo sviluppo fisico-psichico dei minori, o che presentino scene di violenza gratuita o pornografiche.
Le trasmissioni pubblicitarie e di televendita devono essere leali ed oneste, non possono essere inserite nei cartoni animati e devono essere riconoscibili come tali attraverso mezzi di evidente percezione; viene prevista, inoltre, la diffusione di un congruo numero di programmi nazionali e locali in chiaro, ivi inclusa la trasmissione di eventi di particolare rilevanza per la società, indicata in un'apposita lista, approvata dall'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni. Il comma 2 dell'articolo 4 del provvedimento in esame prevede che sia favorita la ricezione dei programmi da parte dei cittadini con disabilità sensoriali, prevedendo, a tal fine, l'adozione di idonee misure, sentite le associazioni di categoria, mentre il comma 3 dello stesso articolo stabilisce che il trattamento dei dati personali deve essere effettuato nel rispetto dei diritti individuali e della dignità umana.
All'articolo 5 sono elencati i principi a salvaguardia del pluralismo del sistema radiotelevisivo. Essi si basano sulla tutela della concorrenza nel mercato radiotelevisivo e pubblicitario, sul divieto di posizioni lesive del pluralismo, sulla trasparenza degli assetti proprietari e sulla garanzia di accesso alle reti di comunicazione senza discriminazioni ed in condizioni di parità di trattamento. In particolare, a tale ultimo fine si prevedono distinti titoli abilitativi per lo svolgimento dell'attività di fornitore di contenuti e di servizi e dell'attività di operatore di rete; è fatto anche obbligo di separazione contabile e societaria per i soggetti fornitori di contenuti che siano anche fornitori di servizi. Sono previste, infine, specifiche forme di tutela dell'emittenza in favore delle minoranze linguistiche riconosciute dalla legge.
L'articolo 6 stabilisce che l'attività di informazione radiotelevisiva, da qualunque emittente esercitata, costituisce un pubblico servizio. Essa, comunque, garantisce: la presentazione leale dei fatti e degli avvenimenti, in modo da favorire la libera formazione delle opinioni; la trasmissione quotidiana di telegiornali o giornali radio, da parte dei fornitori di contenuti abilitati, in ambito nazionale o locale; l'accesso di tutti i soggetti politici alle trasmissioni di informazione e propaganda politica ed elettorale, in condizioni di parità di trattamento ed imparzialità; la trasmissione dei comunicati ufficiali degli organi costituzionali; nonché, con disposizione introdotta da un apposito emendamento, approvato durante l'esame svolto dalle Commissioni, l'assoluto divieto di utilizzare metodologie e tecniche capaci di manipolare in maniera non riconoscibile allo spettatore il contenuto delle informazioni. Ulteriori regole e criteri per l'osservanza di questi principi sono fissati dall'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni.
Il comma 4 del medesimo articolo 6 del testo unificato in esame fissa i principi cui la società concessionaria del servizio pubblico


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deve attenersi negli ulteriori compiti e prestazioni che le derivano dall'essere concessionaria del servizio pubblico, e che vengono successivamente puntualizzati all'articolo 18. In via generale, tali principi sono così individuati: favorire l'istruzione, la crescita civile ed il progresso sociale; promuovere la lingua italiana e la cultura; salvaguardare l'identità nazionale ed assicurare prestazioni di utilità sociale. Con un apposito emendamento, si è altresì stabilito che tali principi devono essere perseguiti anche nella produzione di opere audiovisive europee realizzate da produttori indipendenti.
All'articolo 7 si stabilisce che l'emittenza radiotelevisiva di interesse regionale o locale valorizza e promuovere le culture regionali o locali, ferme restando le norme a tutela delle minoranze linguistiche riconosciute, e riservando almeno un terzo della complessiva capacità trasmissiva all'emittenza locale. Si tratta di una disposizione quadro, destinata al legislatore regionale, che dovrà definire gli specifici compiti che la società concessionaria è tenuta ad adempiere nell'orario e nella rete di programmazione destinati alla diffusione di contenuti in ambito regionale.
A tali norme, già contenute nel disegno di legge governativo, si sono aggiunte, sulla base dei lavori del Comitato ristretto e del successivo esame degli emendamenti, ulteriori disposizioni che intervengono più in dettaglio nella materia sintetizzando parte dei contenuti delle diverse proposte di legge sull'emittenza locale.
L'articolo 10 reca le norme, a cui si è già fatto riferimento, per la tutela dei minori. In particolare, si statuisce che le emittenti televisive, in quanto soggetti di pubblico servizio, devono osservare le disposizioni previste dal codice di autoregolamentazione TV e minori. Si prevede poi che le emittenti debbano fare in modo che la programmazione dalle ore 7 alle ore 22,30, pur nella primaria considerazione degli interessi dei minori e delle famiglie, tenga conto delle esigenze di tutte le fasce d'età nel rispetto dei diritti dell'utente adulto e della libertà d'informazione e di impresa ed inoltre si garantisce l'applicazione di specifiche misure a tutela dei minori nella fascia oraria compresa fra le ore 16 e le ore 19 e, comunque, all'interno dei programmi direttamente rivolti ai minori.
Il controllo sull'osservanza di tali disposizioni è affidato alla commissione per i servizi e i prodotti dell'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, in collaborazione con il comitato di applicazione del codice di autoregolamentazione, che può effettuare apposite segnalazioni. Ad eventuali violazioni consegue l'applicazione diretta, non proceduta da diffida, delle sanzioni previste dal comma 3 dell'articolo 31 della legge n. 223 del 1990; tali sanzioni sono, peraltro, elevate, nella misura minima, a 25 mila euro e, in quella massima, a 350 mila euro. Ulteriori norme prevedono che l'Autorità per le garanzie trasmetta al Parlamento una relazione annuale sulla tutela dei diritti dei minori.

PRESIDENTE. Onorevole Bianchi Clerici, il tempo a sua disposizione è scaduto, tuttavia, se lei riesce in pochi minuti a concludere il suo intervento, le consento volentieri di terminare di esporre la sua relazione.

GIOVANNA BIANCHI CLERICI, Relatore per la maggioranza per la VII Commissione. Grazie, Presidente. Inoltre, con esse si introduce, nel codice di procedura penale, il divieto di pubblicare elementi che anche indirettamente possano portare alla identificazione dei minorenni; inoltre, esse includono anche, nelle quote di riserva per la trasmissione delle opere europee di cui all'articolo 2 della legge n. 122 del 1998, le opere specificamente rivolte ai minori, prevedendo che l'Autorità per le garanzie stabilisca un tempo minimo da dedicare alla loro trasmissione.
L'articolo 11 sancisce il principio della tutela della produzione culturale europea. Ulteriori norme che riguardano direttamente le competenze della Commissione cultura sono contenute nell'articolo 18 che delinea con puntualità i compiti del servizio pubblico generale radiotelevisivo affidato per concessione alla RAI Spa la


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quale lo svolge sulla base di un contratto di servizio di durata triennale. In particolare, il servizio pubblico garantisce un numero adeguato di ore di trasmissione dedicate all'educazione, all'informazione, alla formazione, alla promozione culturale, al teatro, al cinema e alla musica - questi programmi devono essere diffusi in tutte le fasce orarie, anche di maggiore ascolto -, nonché l'accesso alla programmazione da parte dei partiti, rappresentati in Parlamento e nei consigli regionali, delle organizzazioni delle autonomie locali, dei sindacati, delle confessioni religiose, dei movimenti politici, degli enti e associazioni politiche e culturali, del movimento cooperativo, dei gruppi etnici e linguistici, nonché la predisposizione di programmi per l'estero destinati alla diffusione della lingua e della cultura italiana, la diffusione di trasmissioni, con riguardo alle zone di confine interessate, in lingua tedesca e ladina, francese, slovena, la trasmissione di contenuti destinati specificamente ai minori, la conservazione e l'accessibilità degli archivi storici radiotelevisivi, la destinazione di una quota, non inferiore al 15 per cento dei ricavi complessivi annui, alla produzione di opere europee, la costituzione di una società per la produzione e diffusione all'estero di programmi di cultura in lingue straniere; infine, le norme prevedono l'articolazione della società concessionaria in una o più sedi nazionali e con sedi in ciascuna regione, l'adozione di misure in favore di portatori di handicap sensoriali e la realizzazione di attività di insegnamento a distanza.
Per realizzare le finalità indicate si dispone l'obbligo di riservare una quota delle ore di programmazione e una corrispondente quota del gettito del canone alla trasmissione di contenuti in ambito regionale.
Da ultimo, si consente alla società concessionaria lo svolgimento di attività commerciali ed editoriali connesse alla diffusione di immagini, suoni e dati.
Onorevoli colleghi, una proposta di legge di riassetto del sistema radiotelevisivo approda oggi all'esame dell'Assemblea, dopo un intenso lavoro svolto dalle Commissioni competenti e preceduto da una nutrita serie di audizioni che hanno visto coinvolti i soggetti interessati ad ogni aspetto della complessa materia.
Un congruo numero di ore è stato dedicato anche all'esame degli emendamenti presentati dall'opposizione in numero tale da far supporre tentativi di ostruzionismo. L'atteggiamento dilatatorio tenuto nelle ultime sedute delle Commissioni, seppure indubbiamente legittimo dal punto di vista delle procedure parlamentari, ha di fatto impedito l'esame dell'intero articolato.
Come relatore per la maggioranza per la VII Commissione debbo, però, segnalare che gli aspetti di competenza specifica sono stati minuziosamente trattati e sostanzialmente esauriti, sia pure nella differenza di opinioni. Non vi è dubbio che il tema in esame sia di assoluta delicatezza in quanto coinvolge direttamente le problematiche fondanti del sistema democratico, in particolare il diritto-dovere al pluralismo ed alla concorrenza. Per questo motivo sarebbe auspicabile un dibattito sereno e scevro da pregiudizi, con l'obiettivo di rendere un servizio al paese aggiornando la normativa radiotelevisiva alle mutate condizioni dovute all'innovazione tecnologica ed alla maggior facilità di accesso all'informazione e alla comunicazione da parte dei cittadini (Applausi dei deputati dei gruppi della Lega nord Padania e di Forza Italia).

PRESIDENTE. Il relatore per la maggioranza per la IX Commissione, onorevole Romani, ha facoltà di svolgere la relazione.

PAOLO ROMANI, Relatore per la maggioranza per la IX Commissione. Signor Presidente, onorevoli colleghi, poco meno di otto mesi fa, in quest'aula, si svolgeva il confronto parlamentare sul messaggio del Capo dello Stato alle Camere, un dibattito che aveva al suo centro l'invito del Presidente della Repubblica ad elaborare una nuova normativa sul settore radiotelevisivo e della comunicazione. Oggi siamo qui,


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dopo aver lavorato per oltre sei mesi nelle Commissioni riunite, proprio per procedere all'esame di una legge di riforma del settore, un obiettivo ambizioso, mancato da molte delle precedenti legislature.
È proprio da quel messaggio che vorrei partire per illustrare la strada imboccata con decisione e serietà dal Governo e dalla maggioranza per dare seguito alle sollecitazioni del Capo dello Stato. L'approvazione di una legge di sistema, il ruolo centrale del servizio pubblico, la disciplina a tutela dei minori, il coordinamento con la riforma del titolo V della Costituzione, l'incremento del tasso di pluralismo e l'imparzialità dell'informazione anche in un quadro di bilanciamento dei rapporti fra maggioranza ed opposizione, l'estensione della vigilanza del Parlamento all'insieme del sistema della comunicazione, una nuova normativa sulle evoluzioni tecnologiche, l'attuazione delle direttive comunitarie: ripercorrendo pedissequamente il messaggio del 23 luglio scorso, erano queste, nell'ordine esatto e senza alcuna omissione, le indicazioni esplicite del Capo dello Stato, sulla base delle quali formulare una nuova legislazione di settore.
Questi sono i medesimi principi che troviamo nel testo che oggi l'Assemblea si avvia ad esaminare, gli stessi identici, allo stesso modo, senza alcuna omissione. Per questi motivi, nell'accingermi ad illustrare i contenuti del testo unificato dei progetti di legge, ritengo opportuno invitare i colleghi deputati a considerare anche la portata istituzionale di questo provvedimento, che troppo spesso è stato ridotto, per motivi di mera contrapposizione politica, a strumento di polemica su alcune questioni, ma che invece deve essere considerato nel suo complesso come un disegno di portata fortemente innovativa dal punto di vista tecnologico, industriale, sociale e informativo e per le conseguenze sistematiche che esso innesta anche sul piano istituzionale.
Tale, dunque, è la portata di questo provvedimento legislativo, che l'Assemblea mi consentirà di non affrontare il mio compito introduttivo di relatore svolgendolo in modo tradizionale, attraverso una semplice elencazione dei contenuti specifici del provvedimento. Vi saranno tempo, modo ed occasione per affrontare sistematicamente in aula le specifiche disposizioni di un testo, peraltro assai articolato e complesso.
Ciò che, invece, mi preme descrivere sono i capisaldi dell'intero provvedimento e, al tempo stesso, formulare alcune riflessioni che ritengo possano essere utili ad individuare, su alcuni temi specifici, punti centrali nelle economie del provvedimento, i termini di un confronto in aula che mi auguro positivo e sereno.
Nell'illustrare gli elementi centrali del provvedimento all'avvio dei lavori delle Commissioni, tre mesi fa, sottolineai che cinque potevano essere considerati i principali elementi sistematici del testo unificato, elementi che hanno continuato a mantenere la loro centralità alla luce del lavoro parlamentare già effettuato e che sono stati ulteriormente arricchiti e valorizzati dalle audizioni effettuate, dal lavoro svolto nel Comitato ristretto e dall'esame nelle Commissioni dei primi 13 articoli del testo. Tali elementi, che rappresentano i veri e propri pilastri della legge, sono: l'impianto sistematico del provvedimento, l'incremento del tasso di pluralismo del sistema, l'aumento della competitività del sistema italiano della comunicazione, l'accelerazione dell'innovazione tecnologica attraverso la rivoluzione del digitale terrestre, la decisa riforma del servizio pubblico radiotelevisivo.
Il primo pilastro riguarda l'impostazione organica del provvedimento che porta ad una riforma complessiva del settore radiotelevisivo, riforma che è stata spesso affrontata e mancata - si pensi al celebre disegno di legge n. 1138 - e che oggi, invece, si presenta come una rivisitazione dell'intero sistema a 360 gradi.
In primo luogo, ciò avviene per l'enunciazione e la riformulazione di tutti i principi che sottostanno al sistema della radiotelevisione e della comunicazione e che pervadono il capo I della legge ed i primi 13 articoli. Si tratta di principi a garanzia degli utenti, a salvaguardia del pluralismo e della concorrenza, in materia di informazione e di pubblico servizio, in


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materia di emittenza locale, a tutela dei minori ed a tutela della produzione audiovisiva europea. Sono tutti principi derivanti dalla legislazione comunitaria accogliendo, dunque, integralmente tutte le direttive quadro nel campo della comunicazione e delle telecomunicazioni. Tali principi rimodellano il sistema radiotelevisivo nazionale e lo pongono all'avanguardia dal punto di vista della legislazione europea.
In secondo luogo, perché coinvolge tutti i soggetti del settore anche in seguito alle significative integrazioni avvenute grazie al lavoro delle Commissioni relative all'emittenza televisiva locale ed all'emittenza radiofonica.
In terzo luogo, perché introduce una riforma fondamentale in merito al ruolo delle regioni individuando con organicità gli ambiti e le modalità dell'esercizio della legislazione concorrente dando così compimento - ed è uno dei primi settori in cui ciò avviene - alla riforma del titolo V della Costituzione, nonostante proprio il settore della comunicazione sia uno di quelli in cui la riforma costituzionale ha fatto emergere elementi di sicura problematicità.
Infine, perché attraverso l'introduzione del codice della radiotelevisione, indicato dall'articolo 17, tenta di dare organicità e sistematicità ad un settore quale quello della comunicazione che ha visto in quest'ultimo decennio una iperproduzione legislativa, spesso di dettaglio, che ha provocato e provoca - ce ne siamo accorti anche in questa ulteriore occasione - confusione e, spesso, contraddizioni.
Il secondo pilastro riguarda l'incremento sostanziale del tasso di pluralismo del sistema radiotelevisivo. Vorrei subito affrontare, senza giri di parole, la questione centrale. La strada intrapresa con decisione su cui è fondata la risposta a quell'esigenza di un sistema più pluralista e sempre più differenziato nelle fonti informative è stata e rimane quella di far crescere e moltiplicare le voci anziché farne tacere alcune. Chiedo: è più pluralista un sistema che fa esiliare una rete sul satellite ed elimina la pubblicità da un'altra rete o un sistema che nel giro di brevissimo tempo moltiplica per quattro o per cinque le potenzialità informative?
Certo, si tratta di una strada nuova ed ambiziosa, ma è indubbio che tale scelta, tale impostazione, non rappresenta e non vuole rappresentare alcuna sanatoria o alcun aggiramento. È una strada nuova, una strada diversa, che rigetta vecchie impostazioni e che indica un percorso per far crescere tutto il settore, è un percorso finalizzato a moltiplicare e differenziare le fonti informative e, così, aumentare le garanzie a tutela degli utenti.
Questo è un modo totalmente nuovo, che si sposa con le inarrestabili evoluzioni tecnologiche e di mercato, di affrontare la questione del pluralismo televisivo nel nostro paese. Si tratta di voltare pagina rispetto a dispute ormai decennali, si tratta di non mortificare e penalizzare le aziende esistenti, ma dare invece ogni possibile opportunità a tutte le imprese, a quelle di oggi ma anche e soprattutto a quelle nuove, di competere in un nuovo ambiente più evoluto e con potenzialità enormemente più grandi rispetto a quell'ambiente analogico ormai destinato ad essere superato. È questo un passaggio centrale del provvedimento.
Una cosa deve essere chiara: se il motivo ispiratore di questa riforma fosse stato semplicemente quello di salvare un'emittente vi sarebbero state modalità assai più dirette ed immediate, vi sarebbero state scorciatoie assai più agevoli. Si è invece voluto, con coraggio, negli articoli 24 e 25 del provvedimento, attraverso l'introduzione di un nuovo sistema antitrust misto digitale-analogico, indicare una prospettiva inedita che raccogliesse la sfida del digitale terrestre e la coniugasse con l'esigenza di conferire maggiore pluralismo al sistema. Si tratta di una prospettiva che porterà, nel giro di due o tre anni la maggioranza degli italiani ad accedere a decine di programmi televisivi nuovi, riformulati ed arricchiti. È una prospettiva assai più forte, convincente, sana e positiva rispetto a quelle vecchie e


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superate di stampo riduttivo e penalizzante sia per il sistema, sia per gli utenti stessi.
Arricchendo il sistema, facendo crescere il numero totale delle offerte, insomma, si è scelto di moltiplicare il pluralismo. Un pluralismo che questo provvedimento incrementa non solo dal punto di vista più immediato della moltiplicazione delle offerte, ma anche della diversificazione dei mestieri.
Da domani, attraverso una nuova impostazione del digitale terrestre, non vi sarà più unicamente il mestiere dell'emittente (al quale siamo abituati oggi), ma vi saranno diverse e separate, distinte funzioni: chi curerà le reti di trasmissione, chi editerà i contenuti, chi gestirà i servizi (quei nuovi servizi associati e quei nuovi contenuti interattivi, che le reti veicoleranno). E con la differenziazione dei mestieri vi sarà la moltiplicazione dei soggetti operanti nel settore televisivo, con il conseguente sostanziale incremento delle opportunità per ogni diverso soggetto di competere in un sistema assai diverso rispetto a quello rigido e schematico che oggi conosciamo.
Un'ultima considerazione, finora a torto sottovalutata e passata in secondo piano anche da parte dell'opposizione, riguarda il principio introdotto nell'articolo 6, con il quale si estende la qualifica di pubblico servizio all'informazione effettuata da qualsiasi emittente, incluse quelle private. Si tratta di un'affermazione di centrale importanza, che dunque ricomprende tutto il complesso dell'attività informativa del sistema radiotelevisivo all'interno di un principio a salvaguardia della collettività, che da domani le istituzioni tutte (il Parlamento in prima istanza) potranno e dovranno contribuire a garantire. Moltiplicazione delle offerte, moltiplicazione dei mestieri e nuove garanzie informative sono dunque gli elementi centrali di questo provvedimento che, al di là di ogni vecchio tentativo di penalizzazione e riduzione del sistema, contribuiscono invece ad accrescere sostanzialmente il tasso di pluralismo del sistema (e che solo impostazioni polemiche e strumentali - persino troppo facili - possono ignorare e rifiutare).
Il terzo pilastro del provvedimento riguarda l'innalzamento della competitività del sistema italiano della comunicazione. Anche in questo caso da alcune parti si è voluta occultare la sostanza reale del provvedimento. L'introduzione di un nuovo sistema integrato della comunicazione, come quello descritto dall'articolo 16, infatti non fa nient'altro che raccogliere e sviluppare le indicazioni legislative che già le cosiddette legge Mammì e legge Maccanico avevano tracciato. Se è già da più di dieci anni che le risorse affluenti alla stampa e alla radio, nonché i diversi ricavi televisivi (quali il canone, la pubblicità e gli abbonamenti della pay-tv), concorrono a formare il monte sul quale si calcola il tetto antitrust teso a tutelare la competitività e la concorrenza del settore, non è forse corretto aggiornare oggi tale indice riconoscendo la diversificazione e l'articolazione attraverso cui le risorse giungono in un sistema della comunicazione che, rispetto al 1990, si è sicuramente modificato (ad esempio attraverso la nascita di nuovi mezzi di comunicazione quali Internet)? È forse sbagliato considerare in modo unitario tutti quei fattori e quei segmenti attraverso cui affluiscono al sistema gli investimenti dello Stato (canone e convenzione), delle aziende (pubblicità e attività promozionali di diversa natura), degli utenti (abbonamenti, acquisti di beni, pagamenti di servizi) e che omogeneamente concorrono a formare i ricavi complessivi del settore della comunicazione? Non è forse davvero innovativa una logica sistematica che affronta in modo integrato gli investimenti che avvengono nel settore della comunicazione nel nostro paese e al tempo stesso considera unitariamente i soggetti che vi operano, eliminando al contempo anacronistiche barriere-limiti?
Stupisce che una delle proposte di legge dell'opposizione trovi tra le sue premesse fondamentali proprio la considerazione sulla scarsa competitività e capacità finanziaria del sistema della comunicazione italiana rispetto ad altri paesi europei e al


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tempo stesso una misura tesa proprio a dare maggiore competitività, dimensione e crescita al complesso del nostro sistema venga invece letta ancora una volta come una norma a favore o contro qualcuno.
La verità è un'altra: attraverso il nuovo sistema integrato della comunicazione si sono volute accogliere quelle spinte ormai provenienti da tutti i paesi avanzati (come è ad esempio il caso della Federal Communication Commission statunitense, che sta eliminando tutti i paletti fra i diversi mezzi), proprio per dare maggiore competitività e crescita non solo ai singoli soggetti ma all'intero sistema della comunicazione, sia in Italia sia al di fuori dei nostri confini nazionali.
Con riferimento alle norme asimmetriche, come si conviene ad ogni normativa a tutela della concorrenza esse proteggono mercati deboli (o comunque più deboli rispetto ad altri) dalla possibile incombenza di operatori potenzialmente più forti. Così come è giusto aver sancito - elemento che (non bisogna dimenticare) la legge Maccanico proibiva esplicitamente - l'ingresso nel settore televisivo di operatori della telecomunicazione con fatturati dieci volte superiori ai soggetti televisivi, proprio attraverso la fondamentale introduzione di una precisa limitazione, sarà altrettanto corretto (durante i lavori dell'Assemblea) riflettere sulla possibilità di introdurre misure asimmetriche a tutela della stampa, al fine di consentire (anche in questo caso innovativamente rispetto a quanto finora stabilito dalla legge Mammì) un ingresso degli operatori della carta stampata nel settore televisivo, introducendo al tempo stesso alcuni elementi di salvaguardia, magari temporali, relativamente al percorso inverso dell'ingresso degli operatori televisivi nel settore della carta stampata.
Il quarto e penultimo pilastro riguarda l'avvento del digitale terrestre. Degli effetti davvero innovativi sul tema del pluralismo ho già riferito. Tuttavia, mi preme sottolineare un aspetto, anche in questo caso sottaciuto ed ignorato tra il fragore di pretestuose polemiche. Si tratta della portata rivoluzionaria che il digitale terrestre avrà sul piano dell'alfabetizzazione tecnologica di massa. Come tutti sappiamo, il passaggio al digitale terrestre non rappresenta una scelta, un'opzione, una possibilità; si tratta di un passaggio inevitabile e irrinunciabile.
Così come in questi ultimi anni abbiamo assistito al passaggio dalla televisione in bianco e nero a quella a colori, alla diffusione delle trasmissioni satellitari e della televisione a pagamento, all'esplosione di Internet, dei telefoni cellulari e alla rapidissima evoluzione degli standard, in un ambiente tecnologico ormai quasi completamente digitalizzato, è ormai inimmaginabile pensare di poter ignorare o, peggio ancora, ritardare l'avvento dello standard digitale anche nelle trasmissioni televisive. Ma ancora più importante è che tale strada obbligata, attraverso la diffusione di servizi e programmi multimediali e interattivi alla totalità delle famiglie italiane, porterà il nostro paese a compiere davvero un salto epocale in termini di alfabetizzazione tecnologica.
Sarà così proprio la cara, vecchia e affidabile televisione generalista a rappresentare lo strumento attraverso il quale si potranno introdurre le famiglie di ogni grado di istruzione, di ogni fascia sociale, in un ambiente tecnologico evoluto consentendo a tutti e in modo sostanzialmente gratuito di entrare nell'universo digitale della interattività; per non parlare degli straordinari potenziali utilizzi di massa di tale strumento, nella chiave di servizi interattivi della pubblica amministrazione, che potranno giungere nelle case di tutti in termini di fisco, pensioni, pagamenti postali, certificati o quant'altro o, ancora, di assistenza medica o domiciliare con la realizzazione di esami ed analisi senza muoversi dalla propria abitazione.

PRESIDENTE. Onorevole Romani...

PAOLO ROMANI, Relatore per la maggioranza per la IX Commissione. Signor Presidente, vi è ancora un punto della mia relazione del quale chiedo l'autorizzazione alla pubblicazione in calce al resoconto stenografico della seduta odierna e poi mi avvio alla conclusione.


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In particolare, avrei allargato il ragionamento in ordine al percorso digitale che ci aspetta e, al punto V, avrei parlato di servizio pubblico, ma chiedo la pubblicazione anche di questa parte.

PRESIDENTE. La Presidenza la autorizza sulla base dei consueti criteri.
Onorevole Romani, comunque le posso concedere ancora qualche minuto.

PAOLO ROMANI, Relatore per la maggioranza per la IX Commissione. No, giungo alle conclusioni in quanto intendo rispettare i tempi.
Quindi, onorevoli colleghi, da quando nel mese di settembre il ministro delle comunicazioni presentò il proprio progetto di legge in Consiglio dei ministri, vi sono stati alcuni interventi che hanno ulteriormente arricchito ed integrato il testo originario.
Vi è stata la presentazione di organici disegni di legge da parte dell'opposizione, vi è stato un dibattito parlamentare svoltosi in Commissioni riunite, sia attraverso ben 39 audizioni di tutti i soggetti operanti sia attraverso 27 sedute e 41 ore di esame da parte del Comitato ristretto e delle Commissioni per l'esame dei primi 13 articoli del provvedimento. Mai, nelle precedenti legislature, era stato dedicato tanto tempo al confronto parlamentare su un provvedimento di questo genere.
Si è trattato di un lavoro che ha portato ad innovazioni significative rispetto al testo di partenza sui principi fondamentali del sistema, sulla regolamentazione del settore dell'emittenza locale e radiofonica, sull'introduzione di una disciplina specifica a tutela dei minori, fondata sul riconoscimento dei codici di autoregolamentazione. Siamo di fronte, dunque, ad arricchimenti positivi e sono certo che ne seguiranno altri, anche attraverso il confronto tra maggioranza ed opposizione, nel corso dei lavori dell'Assemblea, al di là di atteggiamenti di mera contrapposizione o, peggio, di ostruzione: un confronto che, mi auguro, possa facilitare l'esame e la discussione di articoli e di disposizione di grandi rilievo ed impegno.
Quello che ci accingiamo a realizzare e che la maggioranza parlamentare intende effettuare è, dunque, un compito decisivo, volto a dare compimento non solo all'invito del Presidente della Repubblica di qualche mese fa, ma anche e soprattutto per giungere ad un sistema radiotelevisivo e della comunicazione più articolato e pluralista, più moderno e competitivo (Applausi dei deputati dei gruppi di Forza Italia e della Lega nord Padania).

PRESIDENTE. Il relatore di minoranza per la VII Commissione, onorevole Carra, ha facoltà di svolgere la relazione.

ENZO CARRA, Relatore di minoranza per la VII Commissione. Signor Presidente, onorevoli colleghi, la discussione che oggi si apre in aula affronta quello che da tempo viene definito il problema dei problemi italiani, vale a dire quello relativo al pluralismo, alla libertà di espressione, al dovere di offrire reali garanzie di equilibrio in una situazione che, da anni, è fortemente squilibrata.
Non sarà per niente che, in tempi come i nostri, le notizie e le polemiche sull'argomento della comunicazione radiotelevisiva hanno maggior spazio di quelle che riguardano altre grandi questioni. In qualche modo, il problema dell'emittenza riassume le altre crisi. È stato detto e sarà ripetuto che a questo tema è stato dedicato il primo messaggio presidenziale. È stato detto e sarà ripetuto che il peccato originale del provvedimento presentato dal Governo sta nel conflitto di interessi e nell'obiettivo di difendere certi interessi. Cercherò di evitare interazioni e, per quello che è possibile, polemiche. Trattandosi di una legge di sistema, cercherò appunto di guardare al sistema, anche per rispettare in qualche modo la mia veste di relatore di minoranza per la VII Commissione (Cultura).
Il mercato della televisione in Italia è un mercato bloccato da un duopolio chiuso. Il nostro paese è il primo in Europa per quantità di canali generalisti e l'indice di gradimento del pubblico verso questa tipologia televisiva segue la tendenza.


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Infatti, in mancanza d'altro, il mercato è molto forte e la televisione tematica, comunemente definita pay TV, non è riuscita ancora ad occupare uno spazio rilevante. Il pubblico italiano, quindi, è a tutti gli effetti un pubblico generalista. Ma la domanda che bisogna porsi è la seguente: per quanto ancora? Per quanto durerà tale situazione? Hemingway - e non cito Blondel - ha scritto che i cambiamenti accadono prima lentamente e poi improvvisamente. Come non essere d'accordo, alla luce di quanto, ad esempio, è avvenuto solo pochi anni or sono nel mercato dell'informatica? Pensiamo a cosa era IBM e a cosa è invece adesso. Pensiamo a Microsoft che oggi ha un valore superiore rispetto a quella che era la più grande azienda di host computer e via dicendo. Fino a quando resisterà questo mercato televisivo bloccato? Basteranno le vostre leggi, la normativa e l'intervento dello Stato a difendere gli operatori duopolisti?
In quest'ottica, non va assolutamente sottovalutato l'ingresso di un operatore specializzato nel settore della televisione tematica: Sky. Sky di Mr. Murdoch è un gruppo globale, con un marchio forte e riconoscibile in tutti i paesi del mondo dove è presente; ugualmente, sono rilevanti i suoi risultati economici. Si tratta di un gruppo che fa marketing e sa produrre programmi coerenti con l'offerta della piattaforma. Sky riuscirà certamente, come ha già fatto altrove, a fidelizzare un nuovo pubblico. La nascita di Sky Italia provocherà senza dubbio un forte sviluppo del mercato della TV tematica, invertendo radicalmente la rotta. Aumenteranno, dunque, l'uso di videoregistratori e di home video, come del resto è avvenuto in paesi dove la parabola e il cavo hanno avuto grande diffusione. Ora, se il cavo è di fatto assente in Italia, le parabole sono già cinque milioni, come le note baionette. E aumenteranno presto di numero. Probabilmente, aumenterà anche il fatturato di Publitalia, che si è candidata come concessionaria della pubblicità del nuovo mezzo.
E, poi, non possiamo evitare di pensare alla grande trasformazione della televisione da analogica a digitale, con il conseguente aumento delle frequenze e dei canali disponibili. Nel giro di alcuni anni l'attuale assetto televisivo, il piccolo mercato bloccato, subirà grandi cambiamenti che potranno ripercuotersi sui principali player e, in modo particolare, sulla TV pubblica, ancora molto poco avvezza, nonostante le recenti innovazioni organizzative, ad operare e a ragionare in termini di mercato. Il progetto di legge, da questo punto di vista, è poco lungimirante: se, da un lato, esalta ed annuncia come imminente l'arrivo del digitale terrestre, dall'altro, ragiona come se questo non dovesse mai avvenire. Ha un approccio retrovisore. Fa riferimento al passato, a quanto è ed è stato e non a quanto sta per accadere. È un progetto che rischia di diventare immediatamente obsoleto di fronte ai cambiamenti del mercato della televisione.
Colpisce in negativo l'idea di dare alla RAI un riassetto organizzativo e societario fortemente integrato, fondendo per incorporazione RAI con RAI Holding ed aprendo la strada ad una sorta di pubblico azionariato, limitato nelle possibilità di espressione e di estensione, con partecipazione diretta dello Stato. Questo passaggio è del tutto antiquato e finirà per ledere le possibilità di sviluppo dell'azienda e la sua auspicata autonomia manageriale e gestionale. Bisogna sottolineare con forza che, in questo modo, si va verso un doppio depauperamento della RAI. Si tratta di un depauperamento a due livelli per i seguenti motivi: quanto al primo, l'azienda pubblica, senza una holding di governo, sarebbe messa di fatto nelle condizioni di non poter gestire il processo di generazione del valore prodotto dalle sue distinte attività, perché tale valore, nel caso in cui vi fosse, sarebbe trasferito automaticamente ed acriticamente allo Stato; quanto al secondo motivo, l'azienda pubblica, senza una holding di governo, non sarebbe neppure in grado di valorizzare le sue distinte attività, di individuare i processi primari e secondari, i rami di aziende critici e non critici, e, forse, nemmeno di implementare una contabilità separata delle risorse finanziarie.


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Il modello societario e organizzativo al quale la RAI dovrebbe far riferimento è, a nostro giudizio, un altro.
Al vertice del gruppo, perché già oggi di gruppo è necessario parlare in considerazione della teoria di consociate esistenti - SIPRA, RAI 3, RAI Way, RAI-SAT, RAI Cinema, RAInet eccetera -, c'è la holding di Governo e a suo riporto le consociate e la stessa RAI.
Oggi la RAI è un'azienda ipertrofica, con circa 10 mila dipendenti, 1.300 giornalisti e una corporate di quasi mille persone. Il processo di riorganizzazione iniziato alcuni anni fa va portato avanti consentendo di identificare le aree di costo superfluo e valorizzando al massimo lo sviluppo del prodotto e la creazione di contenuti. La RAI di oggi è, quindi, un'azienda che deve essere resa obbligatoriamente più efficiente attraverso un processo di progressiva estrapolazione e possibile societarizzazione di attività diverse dalla televisione: attività gestionali, amministrative, servizi. Insomma, fare dell'outsourcing strategico sempre che vi siano le condizioni per risolvere i problemi sociali sottostanti, come è stato fatto per altri rami d'azienda. In tal modo il gruppo RAI vedrebbe aumentare il suo valore e potrebbero anche essere ipotizzabili iniziative di cessione parziale di rami d'azienda non strategici oppure la parziale cessione di capitale di attività strategiche.
Nel progetto di legge viene poi più volte citato il fornitore di contenuti, quasi fosse scontato che debba essere un fornitore esterno al broadcaster che manda in onda il programma: invece, non è così. Un imprenditore di grande successo nel campo della moda casual ha detto recentemente che bisogna seguire le tendenze del mercato e non tentare di provocarle o di indurle. Il marketing di contenuti segue la stessa corrente, corre dietro alle tendenze e massifica il gusto. Adorno diceva che il gusto è l'equivalente estetico del dominio e aveva ragione solo in parte, perché oggi è una sorta di retrogusto l'equivalente pratico del prodotto di successo, del prodotto che finisce per dominare sugli altri, di vincere la gara degli ascolti. Un retrogusto indefinito, non traducibile, effimero è il retrogusto del dominio dello share, il risultato della messa in onda del prodotto più masticabile e digeribile, l'esaltazione del take it easy. Ecco, questo è il prodotto di mercato, il prodotto che insegue le mode e le tendenze, che fa di tutto per piacere, che non affatica la mente. Si può obiettare che qualche volta a seguire il pubblico si fa anche bene: pensiamo al successo ottenuto da trasmissioni di elevato contenuto morale, se non proprio artistico. Tuttavia, anche messa così la questione, c'è bisogno da parte di chi mette in onda l'intelligenza di creatività strategica e non semplicemente di calcoli di marketing.
Cosa c'entra questo discorso con il tema più generale e strategico dell'assetto societario e organizzativo della RAI? È fortemente interconnesso: il cuore del problema è tra l'altro una delle ragioni forti per cui ha anche senso, ha ancora un senso parlare di servizio pubblico. La RAI che viene fuori dal progetto di legge è ancora purtroppo un corpaccione indistinto nel quale convivono testate e reti, produzioni e gestione immobiliari, corporate con troppe funzioni, teche, gestioni abbonamenti, un corpo molle in cui il prodotto che crea valore è solo il 10 per cento del totale, soffocato oltretutto da burocrazie e veti incrociati delle funzioni di supporto. In tale dimensione il termine «servizio pubblico» rischia di diventare una comoda scusa per nascondere inefficienze di vario genere. Forse è anche a causa di un rinnovato rifiuto di strumenti gestionali nell'ambito della produzione dei contenuti e della centralità del prodotto che si continua ad acquisire format esterni con pochissime e pregevoli eccezioni (penso a RAI educational): ma è questa la ragione per cui si preferisce il fornitore al produttore interno? La televisione commerciale è imperniata sul fornitore esterno di contenuti; la televisione pubblica deve invece privilegiare l'opera del produttore interno. La differenza è sostanziale perché il fornitore esterno insegue le mode; ha in mente modelli che replicano successi facilmente replicabili e offre programmi


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che sono dei contenitori di pubblicità; è un mestiere assolutamente legittimo. Il produttore interno sul quale dovrebbe puntare la RAI crea prodotti di qualità che hanno come obiettivo la crescita culturale della coscienza pubblica. La RAI ripete da anni che il suo bello sta nel darci «di tutto e di più». La RAI deve essere davvero un'altra cosa: darci effettivamente di più del privato; deve sapere indicare anche alle società di produzione esterne linee e modelli, non essere un compratore passivo.
Signor Presidente, onorevoli colleghi, la nostra critica alla legge di riordino è stata spremuta e bloccata dai tempi che la maggioranza si è autoassegnati. C'è un conflitto di interessi all'interno di quel conflitto che non sarà risolto dalla legge che stiamo per discutere, un conflitto per il quale un riordino di un sistema dell'emittenza deve ridursi alla burocratica ragion di Stato, cioè alla conservazione di Retequattro attraverso l'anticipo per legge di una transizione al digitale terrestre che chi sa mai quando avverrà.
Si disse che la legge Mammì fotografava l'esistente; la legge Gasparri è un dagherrotipo, è una costosa retrospettiva, di cui il SIC (sistema integrato delle comunicazioni) rappresenta uno dei suoi dati salienti, il che per noi, ma anche per l'Autorità garante della concorrenza e del mercato, è un dato negativo. Per questo ci opponiamo alla sua approvazione e lo facciamo nella consapevolezza che un altro modo di comportarsi da parte della maggioranza ci avrebbe messo in condizioni di ottenere un migliore risultato per tutti. Un solo esempio: la legge Gasparri è stata sottoposta all'esame del Parlamento senza prevedere nulla al riguardo per le TV e le radio locali e sono previste alcune novità grazie alle nostre proposte di legge e della stessa maggioranza. Si tratta di un piccolo esempio destinato, purtroppo, a rimanere isolato.

PRESIDENTE. Il relatore di minoranza per la IX Commissione, onorevole Bogi, ha facoltà di svolgere la relazione.

GIORGIO BOGI, Relatore di minoranza per la IX Commissione. Signor Presidente, penso si possa convenire con i relatori di maggioranza che pregiudiziali politiche di schieramento ed anche pregiudiziali a difesa di interessi particolari portino in secondo ordine i concreti aspetti tecnici, di mercato e di rapporto con la realtà che il tema al nostro esame dovrebbe avere.
Non credo sia accidentale che sulla stampa si parli in continuazione della modalità di costituzione del Consiglio di amministrazione e che mai vi sia un dibattito pubblico diffuso sul prodotto, cioè programmi ed informazione, che il sistema televisivo ci deve consegnare: ciò che, invece, dovrebbe starci a cuore.
Il primo nodo da sciogliere è quale sarà il significato complessivo dei programmi, comprensivi dell'informazione, che verranno diffusi. Ciò in considerazione, soprattutto, della capacità suggestiva e pervasiva del mezzo e del fatto che esso, conseguentemente, espleta una rilevante capacità di supplenza nella socializzazione, specie dei soggetti più deboli per minore età o per minor possesso di capacità critica. In sostanza, come evitare un'informazione viziata da parzialità e da incompletezza? Come fare in modo che il resto dei programmi non sia troppo povero di elementi di socializzazione corretti ed adeguati alla modernità, alle esigenze di educazione civile e di partecipazione alla vita democratica oltre che all'intrattenimento?
L'altro grande obiettivo è, certamente, lo sviluppo tecnico del sistema ed anche il suo sviluppo economico. Non ho difficoltà ad ammettere - come accennava il relatore Romani - che, effettivamente, il nostro settore radiotelevisivo è finanziariamente fra i settori più deboli in Europa. Dobbiamo domandarci se il duopolio lo ha bloccato così com'era molti anni fa, oppure no, se le caratteristiche di impresa dei due grandi attori del nostro sistema sono moderne o sono di molto invecchiate, se si siano sufficientemente diversificate oppure no.
È chiarissimo che l'introduzione della tecnica digitale nella trasmissione consentirà


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lo sviluppo tecnico del sistema - cosa di cui abbiamo, oggettivamente, bisogno - e, correlativamente ad esso, il suo sviluppo economico.
Non è inopportuno segnalare che l'evoluzione tecnica incidente sul sistema radiotelevisivo non si limita alla disponibilità della tecnica digitale nella trasmissione mediante onde hertziane, ma investe la capacità di trasmissione in fibra ottica ed anche in tecnica DSL nella normale rete telefonica; ciò significa che in un futuro non lontano immagini di buona qualità saranno destinate al terminale televisivo anche mediante rete telefonica. Vi lascio immaginare cosa questo significherà nella capacità di diffusione di nozioni anche mediante Internet. Quindi parlare oggi di riforma del sistema radiotelevisivo è in sé riduttivo: noi parliamo di riforma del sistema complessivo della comunicazione.
Detto questo, se il dato principale si riferisce ai due elementi citati, e cioè sviluppo del sistema e caratteristica del prodotto in programmi, quale è l'assetto di sistema coerente - ed in armonia con la realtà - con questi obiettivi di fondo?
Posso dire che, a mio avviso, non sarà più basato sulla centralità del servizio pubblico, ma su due elementi convergenti nel suo assetto: mi riferisco, in primo luogo, alla garanzia della liberalizzazione e della concorrenza e, in secondo luogo, alla presenza di attività di servizio pubblico. Se così è, l'elemento della normativa antitrust diventa oggettivamente nodale.
Qualsiasi superficialità o trattamento succubo di convenienze particolari di questo aspetto non può che ripercuotersi sulla capacità di evoluzione coerente del sistema nel suo complesso. Devo dire la verità: il relatore Romani accennava all'ipotesi dell'introduzione della tecnica digitale: noi condividiamo l'idea che sia una grandissima occasione. Il Governo, tuttavia, non ci ha chiarito quanto durerà il periodo transitorio, cioè quello relativo alla introduzione della tecnica digitale. Noi sospettiamo che non basterà cambiare l'espressione da «periodo di transizione» ad «avvio del digitale» per modificare l'oggettiva incidenza nel tempo del mantenimento della tecnica trasmissiva di tipo analogico. Sospettiamo, inoltre, che il periodo sarà lungo e che, quindi, sarà un periodo politicamente rilevante che se fosse affrontato superficialmente in termini di provvedimenti antitrust, lederebbe fortemente gli interessi generali del pluralismo e della concorrenza nella comunicazione. Per quanto riguarda gli effetti del calcolo del numero di reti consentito per ogni soggetto se si usa la singolare definizione che è nazionale ciò che non è locale, avremmo motivo di preoccupazione: la norma sembra corrispondere all'interesse di poter assegnare ad un unico soggetto un certo numero di reti, forse tre, mi viene da pensare.
D'altro canto, il sistema integrato della comunicazione, nella descrizione ad opera del ministro ed anche dei relatori, sembra lo strumento più moderno ed armonico; in realtà, l'incidenza che la produzione fonografica ha nel diffondersi della comunicazione ci lascia veramente molti dubbi. Si ha l'impressione che la dilatazione della base di calcolo sulla quale calcolare il limite consentito di risorse economiche sia effettivamente abbastanza artata per consentire l'incremento della soglia attuale. Se questo aspetto è così delicato, la scomparsa delle soglie di settore prevista dalla legge n. 249 del 1997 è pericolosa sotto il profilo della intenzione di procedere contro la dominanza che dovrebbe attenere alle norme antitrust.
Pertanto, il senso dovrebbe essere questo: grande rigore nelle norme antitrust, altrimenti mal capiremmo che liberalizzazione e concorrenza sono uno dei termini fondamentali di costruzione del sistema.
È chiaro che il problema è la molteplicità dei soggetti presenti nel sistema e convengo, onorevole Romani, che le dimensioni economiche del nostro sistema oggi non sembrano ammettere un elevato numero di imprenditori di televisione generalista. Constato, con compiacimento, che il relatore è orientato all'accettazione di una norma asimmetrica rispetto alla facoltà di entrata di imprenditori editoriali nel sistema televisivo, e non di imprenditori televisivi di forte dimensione nel sistema


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editoriale, il che corrisponde oggettivamente ad una proposta esplicitamente presentata dall'opposizione, non accettata in Commissione, ma credo che, se la maggioranza conserverà l'orientamento del relatore, l'Assemblea potrà risolvere la questione, elemento positivo per ciò che attiene alla molteplicità dei soggetti presenti nel sistema. È diffusa la convinzione che non saranno tutti generalisti gli imprenditori che potranno garantire la molteplicità: questa potrà essere garantita da forme diverse di presenza oltre quella generalistica. Questo però non ammette che non si operi, secondo la recente sentenza della Corte costituzionale, per ipotizzare anche la presenza di altri imprenditori di tipo generalistico che vogliano correre, come dire, l'alea dell'intraprendere in un sistema televisivo come il nostro.
Vorrei svolgere un'ultima considerazione sulla questione della molteplicità (il tempo a disposizione suggerisce di toccare gli argomenti, senza svilupparli): gli emendamenti presentati dall'opposizione in Commissione tendono a fare in modo che la sperimentazione del periodo digitale sia possibile anche per soggetti oggi non dotati di titolo a trasmettere, perché l'intenzione è proprio quella di aumentare la molteplicità e la tipologia dei soggetti presenti nel sistema.
I nostri emendamenti tendono a stabilizzare, nel sistema a regime, la presenza di questi imprenditori, come a stabilizzare l'obbligo di concedere, per coloro che hanno la abilitazione per gestire una capacità trasmissiva di rete elevata, l'obbligo di concedere il quaranta per cento di tale capacità trasmissiva a soggetti indipendenti, anche a regime, non solo nella fase sperimentale. Ciò nell'ottica appunto della molteplicità, come sta a dimostrare l'evoluzione del limite di dodici ore per la trasmissione, in collegamento nazionale da parte di emittenti locali, convenuto anche con la maggioranza.
Tuttavia, è opportuno precisare che la concorrenza in sé, per le caratteristiche del sistema radiotelevisivo attuali e, quindi, per l'elevatezza della soglia di accesso in termini finanziari, non garantisce in sé il pluralismo del sistema. Attenti a non immaginare che concorrenza nella situazione data si sovrapponga a pluralismo, perché questo è effettivamente un errore. Qui si colloca il problema, cui i relatori hanno fatto riferimento, dei principi generali del sistema in quanto tale, a garanzia, per così dire, della parità di comunicazione elettorale e politica e della parità di accesso. Ho qualche dubbio circa l'estensione della funzione di servizio pubblico all'attività informativa in quanto tale del sistema televisivo, anche perché, se la maggioranza dovesse scrivere che cosa sia questa attività informativa nel sistema, ne sarei grato. Qui abbiamo il ministro, che ieri era a Domenica in, e che nell'ambito della trasmissione faceva anche informazione oppure no? Come sono specificate le caratteristiche dell'attività informativa nel sistema una volta che noi stabiliamo che qualsiasi attività informativa nel sistema costituisce attività di servizio pubblico? Diverso è il problema, quando, stabiliti alcuni principi generali del sistema per il rispetto della parità nella comunicazione politica ed elettorale, indicati nella recente sentenza della Corte costituzionale e nel messaggio del Presidente della Repubblica, si vada ad individuare con precisione quali siano i vincoli che l'attività di servizio pubblico ha, come fatto stringente, nel garantire anche minuziosamente la rappresentazione pluralistica del nostro paese. Si faccia carico il servizio pubblico anche di attività diseconomiche, se considerate commercialmente, in ordine a questo obiettivo. In questo senso la attività di liberalizzazione e di tutela della concorrenza converge con l'attività di pubblico servizio ed entrambe sono funzionali al pluralismo che la molteplicità dei soggetti non elevata per motivi economici non garantirebbe.
Sembra si sia di fronte ad un'involuzione di questi programmi televisivi, se considerati in relazione ai grandi obiettivi di adeguatezza della consapevolezza e dei comportamenti rispetto all'importanza nodale della sufficiente condivisione di valori comuni, in presenza di parcellizzazione e


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individualizzazione nella società, con una decadenza di riferimenti che consentivano prima facili atteggiamenti condivisi, a volte magari fino al conformismo (mi riferisco al precedente potere dei partiti sul comportamento dei singoli cittadini); emergono anche note di declino del senso civico e del capitale sociale.
L'offerta complessiva di programmi sembra oggi influenzata...

PRESIDENTE. Onorevole Bogi, dovrebbe concludere.

GIORGIO BOGI, Relatore di minoranza per la IX Commissione. Signor Presidente, potrei avere come lei liberalmente...

PRESIDENTE. Onorevole Bogi, ha già avuto. La invito quindi a concludere.

GIORGIO BOGI, Relatore di minoranza per la IX Commissione. Signor Presidente, capisco che sto già fruendo della sua liberalità e la ringrazio. Vorrei dire per inciso, se questo tempo può non essermi computato, che rendere una relazione avendo a disposizione undici minuti di tempo richiede un atletismo concettuale non molto diffuso, e che certamente non è in mio possesso.
Signor Presidente, devo dire la verità: con un tema di questo genere, immaginare di rendere conto della posizione di minoranza in undici minuti è una bella impresa! Tuttavia, riconosco la liberalità del suo comportamento.
Le tendenze principali che influiscono sui programmi sono due: una è la spinta pubblicitaria - elemento connesso per l'entrata finanziaria alla sopravvivenza del sistema; è difficile immaginare che un programma teso ad un audience di quantità e qualità particolari per promuovere un prodotto commerciale possa essere vettore di messaggi di comune valore -; l'altra è una tendenza, con aspetti quasi intimistici, che spinge a misurare la società in termini psicologici, come se contassero quasi solo le circostanze immediate della vita (anche questi programmi sembrano non adatti a trasferire messaggi di valore largamente condiviso). Da tutto questo deriva la oggettiva indispensabilità della attività di servizio pubblico, perché può essere sottratto a queste due tendenze, in quanto finanziato autonomamente.
Però, per assumere questi obiettivi che caratteristiche deve avere il servizio pubblico? Può essere un servizio pubblico così dipendente dal potere esecutivo, come quello che voi descrivete, e peraltro molto simile a quello che oggi vediamo? Per quanto riguarda il potere dell'azionista, potete provare a vendere quante azioni vi sembri opportuno: il Tesoro rimarrà in maggioranza, esso definirà la maggioranza del consiglio di amministrazione. Il canone: è un'entrata certa per la RAI o dipende dall'esecutivo? E questo tipo di dipendenza della RAI dal potere dell'esecutivo è marginale? Il contratto di servizio, senza indirizzi precisi da parte del Parlamento, è un elemento incidente oppure no sull'autonomia del servizio pubblico?
La riforma del 1975 fu fatta con l'intenzione di sottrarre la RAI al controllo del Governo per riportarla nell'alveo parlamentare: signor ministro, bisogna portarcela realmente. Lei ha avuto, secondo me, un'intuizione molto felice: quella della maggioranza qualificata per la nomina del presidente della RAI. Questa concezione va diffusa a tutta l'attività di indirizzo e controllo della RAI, ed affidata appunto al Parlamento.
Credo che, se l'offerta è di una proposta aperta, come lei dice e come i relatori hanno messo in evidenza, allora questo sarà uno dei temi dei quali dovremo discutere con precisione: l'attività di servizio pubblico rientrerà pienamente nella capacità di indirizzo e controllo del Parlamento a maggioranza qualificata, sottraendo la RAI al ritmo del costituirsi delle maggioranze politiche, oppure no? Io, ovviamente, mi auguro che accada. Signor Presidente, chiederei di autorizzare la pubblicazione in calce al resoconto stenografico della seduta odierna di considerazioni integrative alla mia relazione (Applausi dei deputati dei gruppi dei Democratici


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di sinistra-l'Ulivo, della Margherita, DL-l'Ulivo, di Rifondazione comunista e Misto-Socialisti democratici italiani - Congratulazioni).

PRESIDENTE. La Presidenza la autorizza sulla base dei consueti criteri.
Ha facoltà di parlare il rappresentante del Governo.

MAURIZIO GASPARRI, Ministro delle comunicazioni. Signor Presidente, mi riservo di intervenire in sede di replica.

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Guido Giuseppe Rossi. Ne ha facoltà.

GUIDO GIUSEPPE ROSSI. Signor Presidente, risulta evidente come il settore radiotelevisivo rappresenti un punto nevralgico non solo della vita economica del nostro paese, ma anche della sua identità sociale e culturale e della sua rappresentazione collettiva. È inoltre altrettanto chiaro che la logica normativa del settore non può più seguire una politica di tipo emergenziale condotta su scala domestica, quasi autarchica, come è accaduto nell'ultimo periodo, che ha visto il reiterarsi di proroghe e disposizioni transitorie in un clima di deregulation e che ha portato, negli ultimi venti anni, alla produzione di quasi 30 provvedimenti in materia.
La dinamica globale che sottende al rapido sviluppo tecnologico delle comunicazioni impone, infatti, un approccio in grado di impostare la logica del presente in funzione degli scenari del futuro. Il disegno di legge oggi in esame interviene finalmente a dotare la disciplina del settore radiotelevisivo di un assetto sistemico e non più solo meramente prescrittivo, disegnando un sistema integrato che limita le barriere al mercato e che si apre ad una reale liberalizzazione, in linea con le direttive europee e con la normativa internazionale e, insieme, che identifica i principi generali per garantire ed anzi favorire la salvaguardia del pluralismo e della concorrenza dei soggetti.
Con riferimento alle contestazioni sollevate sui limiti antitrust indicati e cioè l'introduzione del concetto di risorse del sistema integrato delle comunicazioni, bisogna considerare che, con il digitale, si passerà da 11 reti televisive analogiche a più di cento canali digitali, con diffusione nazionale.
Quindi, oltre ad una crescita di operatori di rete, si assisterà consequenzialmente ad una forte crescita di produttori e di fornitori di contenuti. La tendenza del settore delle comunicazioni verso la convergenza comporterà, quindi, l'abbattimento dell'attuale sistema di divieto e di incrocio di proprietà.
In merito alle paventate difficoltà di stabilire il valore di questo mercato integrato, è facile obiettare che esiste un'autorità cui gli operatori devono comunicare i propri bilanci e, in ogni caso, esiste sempre la possibilità di perfezionare il controllo dei meccanismi. Il Governo e la maggioranza hanno dimostrato di essere disponibili a valutare diversi suggerimenti, ove costruttivi.
Anche la televisione locale sta per cambiare volto. Questa riforma compie un ulteriore passo verso la pluralità, da un lato, dando alle TV locali la certezza di vedersi legittimate nella fase di passaggio al nuovo regime digitale, anche attraverso una serie di condizioni favorevoli che, nel riconoscimento del valore e della loro funzione al processo democratico dell'informazione, supportino lo sforzo economico richiesto ai piccoli operatori; dall'altro, liberando la crescita delle aziende locali, attraverso la separazione tra la missione editoriale e la dimensione di impresa, eliminando il trucco delle cosiddette zone limitrofe.
Come gruppo della Lega nord, siamo particolarmente orgogliosi dell'apporto fornito in sede di definizione del testo e della stesura dell'articolo sulla tutela dei minori nelle comunicazioni. Si tratta certamente di un obiettivo in linea con la politica dei valori del nostro gruppo; è un obiettivo raggiunto anche grazie ad un clima di sostanziale unanimità che si è dimostrato estremamente costruttivo.


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Grazie al nuovo articolo - introdotto dal relatore, onorevole Giovanna Bianchi Clerici - viene sancita l'efficacia erga omnes, e non più solo di categoria, del codice di autoregolamentazione Tv dei minori con il quale anche gli utenti minori potranno usufruire di una fascia di programmazione protetta dedicata, e si opta finalmente per una stringente normativa sanzionatoria che funga da reale deterrente contro il clima di impunità nel quale, fino ad oggi, si sono svolti i vani tentativi di dare una disciplina adeguata alla materia.
Mi avvio alla conclusione, auspicando che, nel dibattito che si svolgerà in quest'aula, prevalga ragionevolmente la comune esigenza di non perdere l'occasione che ci si presenta, dopo la lunga e ben nota storia di tentativi falliti legata al progetto di riforma del sistema radiotelevisivo, di entrare, in modo competitivo, in un mercato che sempre più rappresenterà una delle principali leve di sviluppo dell'economia internazionale e del nostro paese.

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Giordano. Ne ha facoltà.

FRANCESCO GIORDANO. Signor Presidente, naturalmente, oltre ad affrontare il merito delle questioni del provvedimento in esame, vorrei svolgere alcune considerazioni sulla filosofia generale che sottende a questo testo ed anche sul contesto - scusi il bisticcio di parole - nel quale viene collocato.
Credo non si possa, in alcun modo, ritenere chiusa la crisi istituzionale che si è aperta sulla vicenda riguardante la nomina del presidente del Consiglio di amministrazione della RAI.
Non riteniamo, in alcun modo, chiusa con la nuova nomina quella vicenda (verificheremo, da questo momento in poi, concretamente, le dinamiche reali, il pluralismo di società e culturale). È del tutto evidente che si è aperta una crisi istituzionale che ancora non si è conclusa; essa è stata messa in luce, in maniera inequivoca, dal diniego del fronte delle destre a volere un effettivo pluralismo culturale, pluralismo di società, nel sistema di informazione pubblica.
Le domande che mi pongo sono le seguenti: come mai si ha questa stretta sul terreno dell'informazione e per quale motivo, in questo preciso momento, il sistema informativo diventa il crocevia di questioni così delicate e anche di intolleranze così forti da parte delle forze che sostengono questo Governo?
A me pare evidente che, sul piano strategico, questo Governo, le forze che lo sostengono ed il Presidente del Consiglio, individuano anche nel sistema informativo pubblico, oltre che nella potenza di quello privato, il bandolo mediante il quale ricostruire un sistema di consensi che, invece, come si vede dalle ultime vicende, a cominciare da quella più drammatica della guerra, sta venendo clamorosamente meno.
Io credo ci sia una crisi di consensi molto seria anche per il fatto che la tanto decantata crescita economica, pure con riferimento alla vicenda della guerra, non c'è: non ci sono più dividendi da ripartire e, di conseguenza, le basi sulle quali erano stati costruiti l'alleanza di Governo ed il sistema di relazioni sociali di riferimento cominciano ad essere messe in discussione. Per questa ragione, per questa difficoltà, il controllo, la stretta sul sistema informativo, diventa l'obiettivo da perseguire e da raggiungere per avviare, appunto, un processo di riproduzione di quel consenso. È del tutto evidente che, in questa maniera, con questo provvedimento, si tenta di suggellare istituzionalmente tale disegno.
D'altronde, basta avere riguardo al merito del provvedimento: come ho già rilevato intervenendo in sede di discussione sulle questioni pregiudiziali di costituzionalità, vengono violati i principi del pluralismo e della concorrenza, eliminando ogni limite antitrust. Come poneva in rilievo Bogi, il tetto del 20 per cento imposto all'acquisizione di risorse è determinato in base ad una gamma di variabili il cui calcolo è così difficile da risultare impossibile. A tal fine, con un escamotage intelligente, ma pur sempre visibile, considerate


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l'innovazione tecnologica, la diffusione digitale, equivalente ai network analogici. L'escamotage viene utilizzato per vanificare la recente sentenza della Corte costituzionale che fissa il termine inderogabile del 31 dicembre 2003 per il passaggio di Retequattro sul satellite. Anche in questa maniera impedite un pluralismo effettivo. Salvate un'azienda e, contemporaneamente, negate la pluralità effettiva del sistema informativo.
Chiedendo la delega, non solo vi fate beffe del Parlamento - in una materia così delicata, la delega non solo non è auspicabile, ma è sbagliata in sé -, ma vi assumete anche l'onere della legislazione in solitudine e violate il nuovo titolo V della Costituzione relativamente ai rapporti tra Stato e regioni. Non ho amato quel testo, ma è del tutto evidente che voi lo contraddite!
Attribuite all'esecutivo la nomina del consiglio di amministrazione della RAI - di fatto è così; ed è esattamente il ragionamento che venivo facendo prima - perché, è evidente, il controllo deve essere diretto ed immediato. La stretta autoritaria che interviene sul sistema informativo pubblico attraverso la nomina diretta del consiglio di amministrazione della RAI è sotto gli occhi di tutti!
Noi proponiamo - ve lo proporremo - uno schema radicalmente diverso, anche diverso dalla nomina del consiglio di amministrazione da parte dei Presidenti delle Camere, che pure ha prodotto tensioni. Peraltro, quella nomina è interna al sistema dell'alternanza, mi permetto di dire agli amici dell'Ulivo (mi guardo attorno, ma ce ne sono pochi, anche se sono gli unici superstiti in questo dibattito) i quali, come si vede, quando veniamo al dunque, sul sistema delle regole...
Il sistema di produzione legislativa proposto dal Governo di centrodestra è tale che le regole si fanno a colpi di maggioranza. L'abbiamo constatato con riferimento al conflitto di interessi ed a nodi delicati riguardanti la giustizia; adesso, lo constatiamo anche in relazione alle questioni riguardanti il sistema informativo.
È evidente che il sistema dell'alternanza è in crisi: non regge più!
Il sistema dell'alternanza presuppone la reciproca legittimazione attraverso la condivisione delle regole; voi sulle regole sistematicamente andate a colpi di maggioranza; questo sistema non esiste più. Per questo noi proponiamo ben altro sistema che quello interno alla logica dell'alternanza. Quindi, noi non vogliamo più che i Presidenti delle Camere siano sottoposti ad una pressione - che sicuramente non subiscono - dei due poli, ma vorremmo provare un'altra fonte di legittimazione del consiglio di amministrazione dell'azienda pubblica attraverso il coinvolgimento di operatori ed utenti, così come anche alcune associazioni degli utenti e dei consumatori hanno proposto.
Inoltre, voi proponete la privatizzazione del servizio pubblico. Per noi questa è la sciagura del servizio pubblico del sistema informativo; tra l'altro, lo fate, secondo noi, in netto contrasto con la decisione della Corte (in particolar modo la n. 56 del 1985, confermata nella decisione n. 284 del 2002). In questa maniera, attraverso il processo di privatizzazione dell'azienda pubblica, nei fatti, voi aumentate le disparità sul terreno del pluralismo e lasciate inalterata la situazione di Mediaset. Insomma, il tema decisivo dell'informazione pubblica e dell'azienda pubblica rimane il cuore vero del problema dell'informazione. Per noi, la risorsa dell'informazione è un bene strategico e pubblico ed è per questo che intendiamo promuovere, ritornando sul tema dell'azienda pubblica, una grande operazione culturale che consenta un più ricco ventaglio di conoscenze ed alimenti uno spirito critico, non permeato dalle dinamiche di mercato. Chi è oggi in grado, nell'ambito di un bene così rilevante come quello dell'informazione, di svolgere una funzione a redditività differita? Un operatore privato, che, invece, nella valutazione costi-benefici cerca il ritorno immediato? No, noi vi chiediamo una grande operazione a redditività differita con una centralità


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dell'intervento pubblico; è un'operazione che parla dell'identità e della civiltà culturale di questo paese.
È qui che si colloca, come una trave, la vicenda del conflitto di interessi. Quando voi proponete una legge sul conflitto di interessi che scivola come l'acqua sul conflitto, è del tutto evidente che, in questa maniera, con questa legge, legittimate l'attuale situazione del sistema informativo. Non voglio neanche pensare al fatto che potrebbe andare persino in porto, come proposto da Frattini, una legge sulle authority che propone che le stesse authority, che dovrebbero controllare il Governo, siano di emanazione governativa (insieme al consiglio di amministrazione della RAI, come oggi sappiamo da questo testo di legge). Saremmo veramente al paradosso e alla farsa.
Per questa ragione oggi vi proponiamo un'operazione pulita, semplice, secca, di separazione tra politica ed economia sul tema del conflitto di interessi; nella fattispecie, oggi, in questo caso, di separazione netta tra cultura, diffusione critica del sapere e potere economico. A tal fine, c'è persino un punto - oggi è stato colto su un giornale di sinistra, l'Unità, da Vincenzo Vita (io lo condivido) - che ci inquieta non poco: l'abrogazione dei punti della legge del 97 che permettevano all'Autorità per le telecomunicazioni di accertare le posizioni dominanti. In questa maniera, è del tutto evidente che non si rintracceranno mai le posizioni dominanti nel sistema informativo. Voi, in realtà, per quanto riguarda l'antitrust ed i limiti della potenza dell'impresa privata nel settore informativo, volete che sia il mercato a determinare le regole; avete abdicato a qualsiasi funzione pubblica. Questa è la verità; e lo dimostrate in ogni passaggio.
Una riforma, in realtà, sarebbe necessaria. Io ho provato, sia pure criticando la vostra, a individuare i criteri attraverso cui delineare un'ipotesi di riforma. Quale deve essere il senso? Difendere la sfera pubblica ed allargare la democrazia; ma voi andate nella direzione opposta, ed in sintonia con normative che tendono a negare spazi pubblici di democrazia, per preservare la discrezionalità dei poteri costituiti.
Poteri e democrazia rischiano oggi di entrare in conflitto - oltre a quello di interessi, infatti, esiste anche un conflitto democratico -, e di essere inconciliabili: per dirla con Noam Chomsky, «o con il potere o con la democrazia». Voi difendete i poteri costituiti, noi proveremo a difendere la democrazia (Applausi dei deputati dei gruppi di Rifondazione comunista, dei Democratici di sinistra-l'Ulivo, della Margherita, DL-l'Ulivo e Misto-Verdi-l'Ulivo).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Testoni. Ne ha facoltà.

PIERO TESTONI. Signor Presidente, vorrei ricordare da subito quelli che ritengo, se non i pilastri, almeno i paletti della nuova legge sul sistema della comunicazione. Essi riguardano la centralità del servizio pubblico, una parziale ma progressiva trasformazione della RAI Spa in public company, l'introduzione della tecnologia digitale e, infine (ma si tratta di punti interconnessi tra loro, come sarà approfondito nel dibattito che seguirà nelle prossime settimane), l'abolizione del divieto di incrocio proprietario tra televisione e carta stampata.
Il progetto di legge sull'assetto del sistema radiotelevisivo risponde ad un'esigenza di riforma dell'attuale disciplina nata dai troppi cambiamenti intervenuti nel sistema delle comunicazioni sotto il profilo sia del progresso tecnologico, sia dell'evoluzione normativa della materia. Sotto tale aspetto, si è reso necessario ridefinire le norme che, fino ad oggi, hanno disciplinato la materia, nell'ottica di assecondare la convergenza dei sistemi di comunicazione.
Si tratta, dunque, del primo intervento di riordino complessivo del sistema della comunicazione, definendo i principi fondamentali a garanzia degli utenti e del pluralismo del sistema radiotelevisivo, indicando, ancora una volta, a garanzia del pluralismo come servizio pubblico, tutta l'attività di informazione radiotelevisiva


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sia pubblica, sia privata. In primo luogo, pertanto, si rafforza la centralità del ruolo pubblico assunto dall'informazione radiotelevisiva di qualsiasi emittente, pubblica e privata, esercitata in modo da garantire quel pluralismo interno del sistema informativo, recentemente riaffermato dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 155 del 2002.
In questo provvedimento sono individuati i principi generali che devono sovrintendere all'informazione radiotelevisiva, consistente nella presentazione leale dei fatti e degli avvenimenti nei telegiornali e nei giornali radio, in modo da favorire la libera formazione delle opinioni; a garanzia dell'imparzialità dell'informazione, viene preposto un organo indipendente, quale l'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, che assicura l'effettiva tutela dei diritti fondamentali della persona nel settore delle comunicazioni e detta le ulteriori regole per rendere effettiva l'osservanza dei principi generali nel settore radiotelevisivo.
Nello sforzo teso a dare massima attuazione al principio del pluralismo si inserisce anche l'impulso che si intende dare, attraverso questo provvedimento, all'avvento del cosiddetto digitale terrestre. Alla base vi è il convincimento che la nuova tecnologia di comunicazione rappresenti lo strumento attraverso il quale possa affermarsi un vero pluralismo dei mezzi di comunicazione di massa, sempre in conformità all'articolo 21 della Costituzione.
Non bisogna dimenticare i vantaggi che, sotto il profilo strategico, produrrà tale sistema. Esso, infatti, comporterà la crescita della competitività industriale del paese, lo sviluppo delle infrastrutture in grado di migliorare la produttività e la creazione di ambiti di eccellenze nazionali riconosciute all'estero. Sul versante economico, lo sviluppo del digitale terrestre indurrà, altresì, un incremento del prodotto interno lordo, la creazione di nuovi posti di lavoro e la nascita di nuovi servizi.
A questo proposito, vorrei replicare - anche se in termini generali - ad alcune obiezioni avanzate in merito allo spirito dell'intervento di riforma, delineato dal provvedimento in esame, visto come una semplice fotografia dell'esistente, sostanzialmente diretta a consolidare l'attuale situazione di duopolio televisivo e ad escludere per i nuovi operatori la possibilità di fare il proprio ingresso nel mercato.
La situazione è, a mio avviso, completamente diversa. La principale novità della disciplina prevista dal provvedimento in esame è costituita dall'intento di incrementare sensibilmente il livello di pluralismo del sistema radiotelevisivo attraverso tre interventi fondamentali che, brevemente, mi accingo a riassumere.
Il primo intervento riguarda l'introduzione del digitale - articoli 23, 24 e 25 del provvedimento - che incrementerà di almeno quattro volte il numero dei programmi accessibili a tutti gli utenti con un evidente e proporzionale incremento di opportunità per tutti quegli operatori che vorranno entrare nel mercato. Tale processo di adeguamento tecnologico è, peraltro, decisamente sostenuto anche attraverso l'adozione di opportuni incentivi in grado di fornire sufficienti rassicurazioni circa l'effettiva possibilità di rispettare il termine del 31 dicembre 2003 previsto dalla sentenza della Corte costituzionale.
Il secondo intervento concerne la ripartizione dei compiti tra operatori di reti e fornitori di contenuti e di servizi (articolo 5 del provvedimento) che consentirà una moltiplicazione dei soggetti, una più netta distinzione dei ruoli e la transizione del sistema verso un modello analogo a quello ormai ampiamente sperimentato nel settore delle comunicazioni.
Il terzo intervento, non meno rilevante, è costituito dalla estensione della qualifica di pubblico servizio all'informazione effettuata da qualsiasi emittente, incluse quelle private (articolo 6, comma 1). Si tratta di un'innovazione di fondamentale importanza che aumenterà enormemente il grado di salvaguardia e di garanzia e il cosiddetto tasso di pluralismo interno del sistema radiotelevisivo. Più offerte e più soggetti comportano più possibilità di competere sul mercato, più ruoli e specializzazioni


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e più obblighi informativi per tutti con il conseguente inequivocabile aumento del tasso di pluralismo, interno ed esterno, dell'intero sistema radiotelevisivo.
Desidero concludere questo mio intervento ricordando che, in ordine al nuovo assetto della RAI, il provvedimento prevede accorgimenti atti a garantire il pluralismo, la tutela delle minoranze e l'obiettività della struttura, nonché ad assicurare un controllo istituzionale sull'esercizio dei poteri di competenza dell'azionista pubblico. Più precisamente, faccio riferimento, in primo luogo, alla subordinazione dell'efficacia della nomina del presidente, da parte del consiglio di amministrazione, al parere favorevole espresso a maggioranza di due terzi da parte della Commissione parlamentare per l'indirizzo generale e la vigilanza dei servizi radio-TV; in secondo luogo, alla riserva, alle minoranze assembleari, di una quota di seggi in seno al consiglio di amministrazione e nel collegio sindacale nel caso di presentazione di più liste; in terzo luogo, all'affidamento, ai Presidenti delle Camere, della determinazione in ordine all'esercizio del diritto di voto del rappresentante del Ministero delle comunicazioni in sede di deliberazione sulla nomina, sulla revoca o sulla promozione di azioni di responsabilità nei confronti degli amministratori. Il presidente e il consiglio di amministrazione si connotano, quindi, come organi che, in posizione di accentuata imparzialità, garantiscono il corretto adempimento delle finalità e degli obblighi del servizio pubblico radiotelevisivo.
Da ultimo, è utile ricordare che la fase di avvio, che contribuisce a creare una tutela complessiva del sistema, è necessaria e da essa non si può prescindere perché solo attraverso tale fase si può giungere alla completa attuazione del piano nazionale di assegnazione delle frequenze in tecnica digitale. Tale innovazione tecnologica consentirà un aumento illimitato della disponibilità di radiofrequenze assegnabili in modo da determinare un ampio ed effettivo pluralismo informativo che rappresenta il vero grande obiettivo del provvedimento in esame.

PRESIDENTE. È iscritta a parlare l'onorevole Melandri. Ne ha facoltà.

GIOVANNA MELANDRI. Signor Presidente, non è facile concentrarsi, a seguito delle ben note vicende internazionali, sulla tematica alla nostra attenzione che appare, se confrontata al dramma mondiale che stiamo vivendo in queste ore, molto, molto piccola.
La discussione odierna, tuttavia, concerne una questione cruciale in quanto concerne il rapporto tra potere, democrazia e informazione nella società moderna.
Svolgerò qualche riflessione più politica e meno tecnica rispetto a quelle dei colleghi che mi hanno preceduto e che l'onorevole Bogi ha sintetizzato a nome del gruppo.
Si tratta di un provvedimento infelice, perché mi sembra che in esso vi siano norme che intervengono in uno dei settori cruciali e principali su cui misurare un moderno paese liberale e che vanno in una prospettiva inversa rispetto a quella richiamata anche nel messaggio alle Camere che il Capo dello Stato ha rivolto mesi fa a tutti noi. Vorrei dirlo subito e mi dispiace che non siano più presenti in aula né il ministro né l'onorevole Romani: a nostro giudizio, questo testo unificato dei progetti di legge produce esattamente l'effetto opposto a quella prefigurazione di maggiore mercato, di maggiore pluralismo e di maggiore libertà nel sistema dell'informazione che erano alla base dell'autorevole comunicazione del Presidente Ciampi.
Credo che, se dovessimo misurare il grado di liberalità dell'Italia attraverso la lettura del testo del disegno di legge presentato dal ministro Gasparri, ci collocheremmo probabilmente in fondo ad una graduatoria europea e, forse, addirittura al di fuori della stessa.
Ciò si può dimostrare analizzando diversi articoli di questo testo e su alcuni di essi mi soffermerò. Vorrei dire che questa proposta non è altro che l'etichetta che si


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appiccica su una cattiva bottiglia di vino chiamata conflitto di interessi. È un pessimo vino quello che si trova nelle bottiglie prodotte nelle annate 2001, 2002 e 2003 dal Governo e da questa maggioranza, un vino che è il frutto della spremitura di leggi scritte potremmo dire per sottrarsi anche ai processi e per indirizzare l'economia con provvedimenti di favore per le imprese di proprietà del Presidente del Consiglio.
Il disegno di legge Gasparri è l'etichetta, mentre il disegno di legge Frattini che ci accingiamo analogamente a discutere alla Camera è, forse, il tappo di quelle bottiglie, un tappo messo molto male che corre il rischio di far scoppiare la medesima bottiglia. Credo non si debba dimenticare che questi due provvedimenti stanno giungendo quasi contemporaneamente all'esame della Camera e che politicamente l'analisi dell'uno non può prescindere dall'altro; peraltro, la loro analisi congiunta ci serve per comprendere il contesto politico attuale. Infatti, non vi è ombra di dubbio che è nel quadro di legalizzazione e di normalizzazione del conflitto di interessi operato dal testo Frattini che interviene ad adiuvandum il testo Gasparri.
Si sta rendendo fisiologica una stortura, una devianza nel normale meccanismo di funzionamento delle istituzioni democratiche e liberali che, invece, andrebbe rimossa.
Vorrei soffermarmi sulla prima ed inaccettabile conseguenza dell'insieme di norme che compongono questo provvedimento, ossia il fatto che si risolve in maniera asimmetrica il problema del reale ribilanciamento del duopolio RAI-Mediaset in questo settore. È un ribilanciamento che sarebbe essenziale per aprire il mercato televisivo e pubblicitario ai nuovi operatori e per aprire nuovi spazi a garanzia della crescita del pluralismo; è un ribilanciamento che sarebbe essenziale per ristrutturare la RAI (in merito a ciò svolgerò qualche considerazione) e rilanciarne il ruolo di servizio pubblico, affidando semmai una rete al mercato e focalizzando sulle altre due l'emissione di servizio pubblico.
Tuttavia, il disegno di legge Gasparri e, più in generale, il modo in cui Governo, all'interno di questa normalizzazione del conflitto di interessi, ha trattato il tema dell'emittenza affronta il problema con due obiettivi opposti.
Il primo è quello di assestare un colpo che potremmo ritenere mortale e definitivo all'autonomia della RAI, all'idea del servizio pubblico ed alla sua capacità di competere sul mercato della pubblicità. Il secondo obiettivo è sancire per legge che Mediaset diventa, da oggi in avanti, monopolista indiscusso di questo mercato.
Quanto al primo obiettivo, quello di desertificare la RAI e renderla inoffensiva, si tratta di storia dei nostri giorni, con un Presidente del Consiglio ed un ministro che ridisegnano i palinsesti a loro piacimento. La vicenda del nuovo consiglio di amministrazione ha dimostrato l'insopprimibile voglia di cancellare e scavalcare persino l'autonomia dei due Presidenti delle Camere. Vi è l'idea di una RAI sterilizzata che possa preludere alla sua privatizzazione. Noi vogliamo il contrario: vogliamo difendere la natura pubblica del servizio pubblico.
Signor ministro - e la ringrazio per la sua presenza in aula - come diceva poc'anzi l'onorevole Bianchi Clerici, in Commissione cultura abbiamo condiviso, durante la discussione sulle linee generali, alcune previsioni. Forse è l'unico aspetto di questo testo che mi sento di difendere: mi riferisco alle previsioni che riguardano i minori, alcune delle quali sono il risultato di un confronto tra maggioranza ed opposizione in Commissione. Però, signor ministro, questo fatto non autorizza lei né alcun membro del Governo, in piena violazione di un atto di indirizzo della Commissione di vigilanza approvato anche dalla sua parte politica, a presentarsi in trasmissioni di intrattenimento generaliste e far finta che disquisire del tema dei minori in tali trasmissioni non sia un atto eminentemente e squisitamente politico.
Chiudendo questa parentesi vorrei passare al secondo obiettivo, quello di sancire il monopolio di Mediaset sul mercato della raccolta pubblicitaria. Mi rifaccio a quanto


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ricordato in quest'aula qualche giorno fa dal mio collega Soda: negli articoli 15 e 16, gli articoli più delicati, che trattano delle limitazioni del divieto di costituzione di posizione dominante si costruisce quello che ormai è comunemente denominato il SIC, sistema integrato della comunicazione, che cancella le soglie rispetto alle quali, in questo settore, ci si era mossi per molto tempo. Intanto si tratta - lo voglio sottolineare - di disposizioni che confliggono apertamente con il dettato costituzionale e scrivono con lettere d'oro un altro capitolo nel conflitto di interessi. Nel testo che ci accingiamo ad esaminare è palese la violazione dell'articolo 41 della Costituzione sulla libera concorrenza. Mi chiedo se sia per questo motivo che alcuni esponenti della maggioranza abbiano votato a favore delle questioni pregiudiziali di costituzionalità, che sono state votate, come noto, a scrutinio segreto.
La creazione per legge del SIC è uno strumento ingannatore: vogliamo sottolineare tale aspetto. Si tratta di uno strumento ingannatore volto ad eludere il principio della libera concorrenza e creato su misura per far sì che la posizione monopolistica di Mediaset non sia più tale perché viene annegata e sciolta in un più ampio, diffuso, generico, fluido ed indeterminato sistema di comunicazione integrata. Dunque, si allunga il brodo per far impallidire il monopolio. È come quando certe amministrazioni poco accorte alzano i limiti di sostanze tossiche ammesse nell'aria, nell'acqua o nei cibi per poter continuare a sostenere, a dispetto di ogni evidenza, che esse sono sane e non inquinate.
Pensate quindi al campo della raccolta della pubblicità radiotelevisiva, che rappresenta un settore rilevante, sensibile per l'acquisizione delle risorse del sistema radiotelevisivo (anzi direi la principale fonte di finanziamento) e, dunque, fondamentale per garantire il pluralismo, dove voi avete stravolto le leggi della concorrenza.
Ma ciò che è più grave è che il SIC non è certo frutto delle profonde e insospettabili riflessioni giuridiche del ministro Gasparri, ma è un concetto che appare già dal 1988 in una memoria di Publitalia. All'onorevole Romani vorrei dire che in questo caso non è che si aggiorna il monte o si aggiorna il calcolo, bensì si cancella il monte. Se prendete il testo di una memoria di Publitalia presentata nel 1988 alla Corte costituzionale nel corso di uno dei tanti processi che si sono svolti per garantire un minimo di legalità nel nostro paese e lo sovrapponete al testo della cosiddetta legge Gasparri troverete una perfetta identità. In quella memoria si diceva: per misurare il vero grado di concentrazione del gruppo Fininvest non ci si può limitare a considerare il mercato della pubblicità televisiva; occorre assumere a parametro l'intero mercato della comunicazione commerciale. Ecco il sistema integrato del ministro Gasparri: allungare il brodo per far scomparire il conflitto di interessi! Credo, ministro, che avreste dovuto fare almeno la fatica di cambiargli il nome (glielo dico amichevolmente), a meno che - mi viene da pensare - per questo Governo il conflitto di interessi non rappresenti un vulnus democratico da sanare, ma quasi una spilla da ostentare sul bavero del cappotto. È un testo del 1988, che diventa legge dello Stato con il Governo Berlusconi, nel silenzio di questa maggioranza e di tanti liberal-intermittenti che vediamo apparire o scomparire in aula, a seconda del grado del senso del pudore con il quale devono difendere il loro datore di lavoro.
Ora questa grande area è stata riproposta e il testo all'esame dell'Assemblea prevede l'assemblaggio di tutte le attività economiche nel settore della pubblicità, delle sponsorizzazioni, delle televendite, delle offerte televisive a pagamento, delle vendite di beni, abbonamenti e servizi: in questo modo scompaiono le posizioni dominanti. Ma anche a questo inganno - strumento di violazione non solo dell'articolo 21 ma anche dell'articolo 41 della Costituzione - ha già risposto la Corte costituzionale: il sistema integrato, così come configurato, non ha diritto di cittadinanza nel nostro ordinamento costituzionale; la Corte su questo punto è stata già chiara e perentoria.


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Nella sentenza del 13 luglio 1988, n. 826, della Corte costituzionale, scritta proprio all'epoca in cui il cosiddetto sistema integrato delle comunicazioni fu per la prima volta elaborato da valenti giuristi (alcuni dei quali sono oggi parlamentari della maggioranza) per difendere condizioni e situazioni di monopolio, la Corte affermò: «la futura legge non potrà non contenere limiti e cautele finalizzati ad impedire la formazione di posizioni dominanti in ciascun settore». Fermiamoci, anzi fermatevi, perché questo provvedimento non potrà che trovare la Corte costituzionale italiana di nuovo ferma a garantire e a salvaguardare i principi già enunciati con forza, con delle indicazioni ancora più ferme e più nette rispetto al passato.
Ho voluto dilungarmi in questo mio breve intervento su quella che appare essere la più macroscopica incostituzionalità di questo provvedimento, avendo già in premessa sottolineato l'inadeguatezza di una norma di sistema che non garantirà né più pluralismo, né più concorrenza, né più libertà di informazione. Ma non è la sola incongruenza: penso all'artificiale e artificioso innalzamento del numero delle reti, con un'equiparazione delle reti digitali a quelle analogiche che non sta né in cielo né in terra e che contraddice quanto espresso recentemente dalla Corte costituzionale che ha ribadito il termine «invalicabile» del 31 dicembre 2003 per il passaggio di una rete Mediaset sul satellite, a prescindere dalla scadenza del digitale.
Al riguardo vorrei dire anche all'onorevole Romani, il quale ha riprodotto in quest'aula la retorica per così dire della legge innovativa, della promozione del digitale, che questa legge fa esattamente il contrario: in Italia la pluralità e la moltiplicazione dell'offerta televisiva digitale non decolla (e non è decollata) a causa dell'occupazione della televisione generalista nell'offerta complessiva del sistema. Questo è il motivo per il quale - le rispondo anche direttamente, perché lei prima si chiedeva retoricamente se fosse più innovativa una legge che prevedeva una rete sul satellite o una rete finanziata solo da pubblicità - noi eravamo partiti dall'idea di un riequilibrio bilanciato nell'offerta generalista, che facesse spazio ad una domanda capace di sostenere e di promuovere, nel nostro paese, l'avvio del digitale e dell'altra televisione.
La permanenza di otto reti generaliste, sul cui equilibrio non si interviene attraverso questo disegno di legge, è uno dei motivi per cui quel digitale, quell'innovazione che tanto evocate ma che poco promuovete con questa legge, non è decollato.
Ancora, penso alla delega legislativa concessa al Governo, che è talmente ampia da scavalcare non solo le prerogative costituzionalmente garantite dal Parlamento, ma anche quelle delle regioni, derivanti dalla modifica del titolo V della Costituzione. Su ciò l'onorevole Giordano ha svolto considerazioni che condivido, dunque non ci tornerò su.

PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE FABIO MUSSI (ore 17)

GIOVANNA MELANDRI. Penso, infine, alla facoltà di nomina del consiglio di amministrazione della RAI ricondotta all'esecutivo. Qui vi è un punto sul quale ritengo che l'idea di sterilizzare definitivamente l'autonomia del servizio pubblico attraverso questa norma debba incontrare la forte critica non solo dell'opposizione, ma anche di gran parte dell'opinione pubblica del nostro paese.
Tra l'altro, anche in questo caso, la facoltà di nomina del consiglio di amministrazione della RAI ricondotta all'esecutivo va contro l'indicazione di un numero imprecisato di sentenze della Corte costituzionale e al più generale intendimento di privatizzazione della RAI.

MAURIZIO GASPARRI, Ministro delle comunicazioni. Non c'è scritto questo nella legge! C'è scritto che sono i Presidenti di Camera e Senato! Sì può mentire entro un certo limite!

GIOVANNA MELANDRI. Ministro, immagino che ci risponderà in sede di replica.


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Io sono abituata ad una discussione franca e la ascolterò quando avrà la gentilezza di rispondere in sede di replica.

PRESIDENTE. Ministro, le darò la parola così avrà l'opportunità di dire la sua.
Prego, onorevole Melandri.

MAURIZIO GASPARRI, Ministro delle comunicazioni. Io non mentirò!

GIOVANNA MELANDRI. Dunque, è una privatizzazione concepita ancora una volta al solo fine di favorire il competitore Mediaset.
Sulle riforme di sistema - infatti questa viene definita una riforma di sistema -, compresa quella relativa al conflitto di interessi, ritengo che esse si trovino su un piano di discussione al quale occorre far accedere maggioranza ed opposizione. Ma ciò non sarà possibile fino a quando non saranno cancellate asimmetrie e storture intollerabili, che rendono - almeno dal mio punto di vista - impossibile, in questa fase della vita politica italiana, ogni forma di dialogo.
Il dovere del confronto in ordine alle riforme di sistema sta in capo al Governo e alla maggioranza, ma fino ad oggi vi siete dimostrati refrattari a compiere tale sforzo sia nel provvedimento che regola il conflitto di interessi, che cancella il conflitto e difende gli interessi, sia in questo disegno di legge che fa compiere all'Italia parecchi passi indietro, legalizzando sostanzialmente il monopolio di Mediaset sul mercato della pubblicità e cancellando ogni vera ed autentica norma antitrust (Applausi dei deputati dei gruppi dei Democratici di sinistra-l'Ulivo, Misto-Socialisti democratici italiani e Misto-Verdi-l'Ulivo).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Intini. Ne ha facoltà.

UGO INTINI. Signor Presidente, onorevoli colleghi, signor ministro, svolgerò una breve riflessione di principio di carattere generale non analitica e non tecnica.
Il settore dei media è tradizionalmente il più moderno ed il più avanzato eppure, in Italia, su di esso si è sempre sviluppata una cultura conservatrice, elitaria e antimoderna. Si è guardato soprattutto agli addetti ai lavori, alle lobby e poco ai cittadini comuni e ciò è avvenuto a destra e anche a sinistra.
La notizia della prima trasmissione televisiva, la nascita della televisione nel gennaio del 1954, incredibilmente non ha conquistato la prima pagina di nessun quotidiano. La televisione a colori è stata osteggiata, ritardata, infatti siamo stati gli ultimi in Europa ad averla e ciò ha distrutto un'industria che, in Italia, era importante.
Il pluralismo televisivo è stato osteggiato fino all'ultimo.
Nei convegni, ancora negli anni settanta, i tecnici e gli esperti della RAI spiegavano che non solo era inopportuno ma era tecnicamente impossibile avere il pluralismo televisivo. E la Corte costituzionale lo dichiarava incostituzionale. L'onorevole Melandri ha ragione a proposito dei problemi di oggi. E, però, dobbiamo riflettere, perché la Corte costituzionale, francamente, ha detto tutto e il contrario di tutto in materia televisiva. Ma, la Costituzione è sempre stata la stessa.
Si è detto di «no» alle televisioni commerciali, che pure creavano una nuova e grande fonte di occupazione e rendevano più varie le serate degli italiani. Si è detto di «no» alla pubblicità e, in particolare, alla pubblicità durante i film, che pure è l'alimento per l'industria televisiva e cinematografica ed è il traino per i consumi e per lo sviluppo economico del paese. Si è visto con irritazione come un'industria italiana, Mediaset, colonizzasse televisivamente Francia e Spagna, ciò che è avvenuto felicemente ed incredibilmente negli anni ottanta. Non si è mai capito che la televisione è, innanzitutto, una grande e decisiva industria di produzione. È importante l'hardware, vale a dire i canali, ma è ancora più importante il software, quello che si mette dentro i canali, cioè quello che si trasmette. Oggi,


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la forza dell'America sta anche nel fatto che esporta i suoi prodotti televisivi e la sua cultura in tutto il mondo.
L'Italia, con la sua grande storia cinematografica, esporta meno del Brasile o dell'India. Non ha un'industria culturale. Produce, infatti, storie di carabinieri, di preti, di magistrati e di medici, storie di taglio provinciale e spesso, addirittura, dialettale. Temo che ormai il treno sia perduto. Negli anni ottanta, RAI e Mediaset, unendo le loro forze, avrebbero potuto, forse, essere una delle sette sorelle televisive mondiali. E le sette sorelle del petrolio contano meno delle multinazionali mediatiche. L'Italia è e sarà, soltanto, territorio colonizzato televisivamente. Mentre le grandi multinazionali televisive si contendono il mondo, mentre si lotta tra Tokio e Los Angeles, in Italia, grazie alla Lega nord - ironia della sorte -, si apre il penoso contenzioso provinciale tra Roma e Milano.
Allora, se così stanno le cose, tentiamo almeno di avere una prospettiva. Smettiamo di ragionare come conservatori a destra e a sinistra. Smettiamo di ragionare secondo l'ottica degli addetti ai lavori e delle lobby. Ragioniamo secondo l'ottica del cittadino comune. In primo luogo, il cittadino comune non vede dove sia il servizio pubblico della RAI. Proprio non vede alcuna differenza tra i programmi RAI e quelli Mediaset e, quindi, non capisce per quale motivo debba pagare un canone televisivo. Il cittadino sofisticato fa zapping sui canali satellitari a pagamento e guarda la RAI il meno possibile, e solo per essere informato sull'Italia. Il povero pensionato considera, giustamente, il canone come una gabella pesante ed odiosa. La sola idea che si possa privarlo dei canali RAI perché non paga è una prevaricazione francamente assurda. Perché il cittadino dovrebbe pagare? Per dare 300 mila euro a Sharon Stone, in cambio di pochi minuti al festival di Sanremo? Per consentire ai dirigenti della RAI di prendere, all'anno, 2.800 miliardi di vecchie lire di sussidi, per poi dire che l'azienda è in pareggio e sta sul mercato? Per consentire di guadagnare miliardi agli occupatori urlanti dei nostri schermi, che non meritano miliardi, perché non sono calciatori, o tennisti o attori cinematografici internazionali? Non hanno un mercato mondiale: non dico a New York, ma soltanto a Nizza nessuno sa chi siano.
Il canone, poi, ha un effetto perverso ulteriore. In Italia non c'è il libero mercato. C'è un duopolio quasi perfetto: 100 euro di canone rappresentano 100 euro di pubblicità in meno consentita alla RAI; 100 euro in meno alla RAI sono 100 euro in più a Mediaset, perché la torta della pubblicità televisiva è sempre la stessa e quello che si toglie ad un polo si dà, evidentemente, all'altro. Il canone, dunque, piace a tutti gli addetti ai lavori. Piace e fa contenti i dirigenti della RAI, che incassano e spendono. Piace e fa contenti i dirigenti di Mediaset, che incassano di più in pubblicità. L'unico scontento è il cittadino. Dunque, il cittadino non vuole pagare il canone. Ma il cittadino, con il suo buonsenso, è più avanti di Montesquieu in materia di Stato di diritto. Un tempo si diceva, giustamente, che i poteri legislativo, esecutivo e giudiziario devono essere separati. Adesso, si bada di più - e lo fanno anche i giuristi moderni - ai poteri reali. E i poteri reali, nel mondo moderno, sono i poteri politico, economico e mediatico.
Il cittadino sa che Berlusconi li accentra in sé tutti e tre e ciò non gli piace; sa anche, a differenza degli esperti di ingegneri giuridica, che il Capo del Governo, ovunque e da sempre, inevitabilmente, controlla più o meno direttamente la televisione pubblica. La foglia di fico può essere più grande o più piccola, più bella o più brutta, ma così stanno le cose: stanno così anche nella mitica BBC.
Dunque, la RAI non fornisce servizio pubblico, il canone è difficilmente giustificabile, una concorrenza vera non ci può essere perché il capo del Governo italiano controlla tre reti in quanto proprietario e controlla le altre tre in quanto capo del Governo. Allora? Allora, cominciamo a pensare alla privatizzazione della RAI. Soltanto un imprenditore privato vero che controlli altre reti, che ne abbia la volontà


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e la forza economica può davvero fare la concorrenza alle reti del capo del Governo. Questa non è un scelta ideologica, ma è di buon senso ed è purtroppo obbligata. Non è ideologica, in quanto l'industria pubblica italiana è stata liquidata frettolosamente e questo ha segnato la fine della grande industria in Italia, la colonizzazione tecnologica del paese. L'industria pubblica è stata una grande scuola perché vi si faceva carriera non per diritto ereditario, matrimonio o per appartenenza alle grandi famiglie. L'industria pubblica ha fornito i manager anche a quella privata. Guardiamo al settore dei media di cui ci stiamo occupando: alla Rizzoli c'è Romiti, che viene dall'industria pubblica, alla RAI si voleva mandare Fabiani, che altrettanto viene dall'industria pubblica.
La tanto rimproverata partitocrazia ha dato alla RAI come presidenti grandi intellettuali, da Paolo Grassi a Sergio Zavoli, e politici autorevoli, come Enrico Manca. Si ricordano ancora dirigenti che hanno fatto la storia delle televisione italiana, da Bernabei, a Granzotto, ad Agnes e al compianto De Berti, che ha lanciato personaggi restati popolari per vent'anni, come Tortora e Arbore, come anche i grandi sceneggiati. Nella loro RAI c'erano lottizzazione, errori, degenerazioni: sì, certamente, ma quella lottizzazione si potrebbe anche chiamare pluralismo. Infatti, esistevano allora nel paese tre aree culturali - cattolica, laico-socialista, comunista - e tutte e tre avevano un canale. Soltanto Alleanza nazionale potrebbe legittimamente lamentarsi: ma allora AN si chiamava MSI e aveva certamente meno peso politico. Nella RAI del bipolarismo non c'è mai più stato altrettanto pluralismo come allora: c'è stato invece più settarismo e più prevaricazione, da sinistra e da destra. La RAI della partitocrazia, come si chiama, ha prodotto un pluralismo e anche i professionisti sui quali ancora oggi vive la RAI e vive anche Mediaset: da Mentana a Santoro, da Mimun a Fede, per non parlare dello spettacolo.
Dunque, la privatizzazione non è una scelta ideologica, ma una presa d'atto. D'altronde, i dirigenti della RAI oggi non hanno più la cultura del servizio pubblico e gestiscono un'azienda pubblica come se fosse privata: tanto vale che sia privata davvero, perché una politica di mercato, senza il mercato è sperpero ed arbitrio. Nessuno potrà mai più nominare i vertici della RAI in modo che dopo il totonomine i vincitori della lotteria non siano criticati e criticabili. Alla RAI come a Mediaset si parla solo di mercato, ma i nostri amici liberisti immaginari parlano di un mercato che non c'è, perché c'è il duopolio. Vogliono il mercato? Diamogli il mercato: passiamo dalle parole ai fatti.
Per concludere, certo, non si potrà cancellare il canone domani, certo, non si potrà privatizzare la RAI e non si potrà privatizzarla tutta, perché bisognerà lasciare un presidio di servizio pubblico vero e introdurre dei contrappesi e degli ammortizzatori per evitare danni al grande patrimonio di professionalità che c'è nella RAI. In ogni caso, così non si può andare avanti, come non si può andare avanti con piccoli correttivi come la legge Gasparri. Il cittadino comune lo sa; dovremo saperlo anche noi e preparare saggiamente la strada a una privatizzazione che ormai è inevitabile (Applausi dei deputati dei gruppi Misto-Socialisti democratici italiani, della Margherita, DL-l'Ulivo e Misto-Comunisti italiani).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Carbonella. Ne ha facoltà.

GIOVANNI CARBONELLA. Signor Presidente, nel corso dei lavori svolti in Commissione ho inteso sottolineare la grande importanza che riveste il provvedimento in esame le cui implicazioni valicano i confini settoriali e toccano in modo significativo gli assetti e gli equilibri democratici del paese. Tale convinzione risiede nel fatto che la funzione affidata agli strumenti di comunicazione nella società moderna è così rilevante che gran parte delle dinamiche sociali, economiche e politiche sono ineluttabilmente legate al loro utilizzo.
Non è esagerato affermare che vi è un nesso indiscutibile tra il tipo di sistema


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informativo che vogliamo attuare e la crescita di carattere civile e culturale che intendiamo perseguire e realizzare. Da ciò ne discende la consapevolezza che per rendere un buon servizio al paese non possiamo sbrigativamente liquidare questo provvedimento come se fosse materia di ordinaria amministrazione. Il sapere e la conoscenza rappresentano il sale della democrazia di un paese, il valore del pluralismo e dell'informazione è presupposto essenziale per ampliare gli spazi di partecipazione dei cittadini alla vita democratica del paese.
La libertà di informazione costituisce la migliore garanzia per consolidare e sviluppare la credibilità dei cittadini nei confronti delle istituzioni. Per queste ragioni consideriamo l'iter imposto per l'esame di questo provvedimento assolutamente inadeguato rispetto ai tempi ed alle modalità con i quali è stato portato all'esame dell'Assemblea. Una riforma di questa natura, di questo spessore, di questa valenza non può e non deve essere assoggettata a date, a scadenze e a tempi così limitati e ristretti, rendendo asfittico il dibattito ed il confronto tra maggioranza ed opposizione. Peraltro, così facendo, si è svilito il ruolo e la funzione delle Commissioni, tanto da assistere ad un atteggiamento della maggioranza che non ha apportato contributi significativi al testo del Governo, con quest'ultimo tutto teso a difendere rigidamente lo schema proposto. In tal modo, inoltre, è stato vanificato anche il contenuto del messaggio inviato dal Capo dello Stato alle Camere con cui egli ha inteso richiamare i principi di pluralismo e di imparzialità dell'informazione, quali elementi indispensabili e fondamentali per un paese democratico. Il Presidente della Repubblica, infatti, ha sottolineato con grande puntualità e precisione i riferimenti essenziali da tenere presenti in questa materia: la Costituzione e la sentenza imperativa della Corte costituzionale n. 155 del 2002. Altrettanto potremmo dire per quanto attiene alle indicazioni contenute nelle direttive europee ed alla totale disattesa delle valutazioni e dei suggerimenti emersi nel corso delle audizioni informali svolte nell'ambito delle Commissioni. È bene ricordare che il Parlamento europeo, nelle recenti direttive emanate, sottolinea che è necessario assicurare condizioni di effettiva concorrenza prevedendo, tra l'altro, che il legislatore introduca, entro il prossimo luglio, una disciplina dell'intero settore delle comunicazioni, comprendente anche i mercati delle trasmissioni radiotelevisive.
Per l'opposizione l'introduzione di una seria normativa riguardante il riassetto del sistema radiotelevisivo nazionale deve rappresentare per il paese un passaggio fondamentale per l'affermazione di effettive condizioni di concorrenzialità dei mercati dei media, con il precipuo obiettivo di assicurare una migliore qualità del servizio radiotelevisivo, garantendo lo sviluppo del pluralismo del sistema informativo italiano. Con questo provvedimento, invece, si conferma, nella sostanza, l'alto grado di concentrazione che vede protagonisti i due gruppi televisivi che rastrellano ingenti risorse provenienti dalla pubblicità impedendo, di fatto, ad altri soggetti di avere la possibilità di entrare in tale mercato. Peraltro il meccanismo di assegnazione delle frequenze è destinato a perpetuare l'attuale situazione, compromettendo seriamente il sistema delle regole che governano i meccanismi di selezione legati alla competitività e consolidando, di fatto, la struttura duopolistica determinatasi nel corso di questi ultimi anni.
Non vi è da scandalizzarsi se sorge il sospetto che il tutto favorisce interessi ben noti nel mercato televisivo e che lo stesso limite inerente il cumulo dei programmi nella fase transitoria (prevista dagli articoli 12 e 13 per la durata del periodo transitorio), connessa con l'introduzione del digitale, mira a consolidare i poteri di dominio oggi esistenti. Infatti non è difficile prevedere che il passaggio dall'analogico al digitale non avverrà nei tempi proposti e, quindi, la fase di transizione sarà tanto lunga quanto utile ai fini del potenziamento delle posizioni dominanti, con tutti i vantaggi economici che ne deriveranno.


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Per queste ragioni siamo estremamente critici con i contenuti di questa riforma che, anziché far operare un salto di qualità in termini di dotazioni informatiche e tecnologiche, inchiodano il paese su una linea di preoccupante arretratezza.
Peraltro abbiamo sottolineato, proponendo emendamenti al riguardo, l'importanza che riveste il servizio pubblico che per noi va valorizzato in funzione del ruolo che può e deve svolgere, considerato che la qualità dei programmi delle TV commerciali - finanziati dalla pubblicità - è legata essenzialmente all'audience. Invece il servizio pubblico radiotelevisivo deve assicurare obiettivi di qualità in grado di veicolare valori e di favorire la crescita culturale, sociale e civile, partendo dal presupposto che l'utenza a cui rivolge il servizio è composta dai cittadini, dal popolo e non da semplici consumatori.
L'altro aspetto che abbiamo inteso evidenziare riguarda il problema dell'emittenza locale, considerata marginale da questa riforma. Noi consideriamo l'emittenza locale la vera novità democratica degli ultimi decenni; il ruolo e la funzione svolta è di grande importanza in tema di arricchimento del sistema informativo.
L'emittenza locale rappresenta, senza alcuna ombra di dubbio, un grande patrimonio culturale ed una rete imprenditoriale assai rilevante che va salvaguardata, consolidata e sviluppata, nell'interesse dell'intero paese, altro che la RAI a Milano! Le TV locali hanno dato voce e libertà di espressione; hanno garantito pluralismo di informazione e portato alla luce problemi, potenzialità e vocazioni di ogni singolo territorio ed in ogni singola realtà, pure in condizioni di grande incertezza e precarietà. Per questo motivo, esprimiamo forte preoccupazione riguardo i contenuti dell'articolo 7 che mortificano queste realtà locali, determinandone in alcuni casi la chiusura.
I paladini del federalismo ci devono, inoltre, spiegare come concilino i proclami a favore del decentramento con politiche del tutto centralistiche come in questo caso. Le difficoltà maggiori a cui vanno incontro le emittenti locali sono il passaggio dalla logica del digitale, come si diceva prima. Per questo motivo, vi è la necessità di prevedere incentivi all'innovazione tecnologica per questi operatori, valorizzando, peraltro, il ruolo delle regioni nella disciplina dell'attività radiotelevisiva per supportare lo sviluppo dell'emittenza locale.
Signor Presidente, noi consideriamo questa riforma fondamentale per il futuro del paese. Attraverso quest'ultima potremmo legittimamente pensare di poter accelerare il processo di modernizzazione del sistema Italia; anche per tale motivo esprimiamo forte contrarietà rispetto all'atteggiamento di chiusura mostrato dalla maggioranza in ordine agli emendamenti migliorativi che abbiamo presentato, quasi che questa riforma non riguardi l'intero paese. Abbiamo insistito per migliorarne parti significative, consapevoli come siamo che si può criticare quanto si vuole la televisione (considerata la materia che circola nell'etere è persino doveroso farlo), ma non dimentichiamo che essa è a tutti gli effetti l'unico linguaggio universale che le persone conoscono. Raggiunge la totalità degli italiani; è in grado di parlare con qualsiasi livello sociale e costituisce la pietanza di base di tutte le tipologie di dieta mediatica che si possono immaginare, dalle persone culturalmente più attrezzate (sono circa otto milioni) alle più povere, prive di mezzi culturali (quasi quattro milioni), la cui fonte mediatica è basata sulla televisione che rappresenta per essi l'unico tramite con il mondo.
Le ragioni che ci hanno spinto a premere, a spingere, a sollecitare ed a criticare la maggioranza risiedono nell'estrema consapevolezza che la riforma degna del nome non può avere zone d'ombra o lasciare nervi scoperti.
Abbiamo tentato di migliorare le parti riguardanti i minori; qualcosa è stato fatto, ma non è sufficiente. Abbiamo sottolineato il ruolo e la funzione del servizio pubblico, ma vi è stato diniego e reticenza. Il dato saliente che abbiamo dovuto, purtroppo, registrare è stato quello di vedere il Governo e la maggioranza protesi più a difendere l'esistente che non a realizzare


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una riforma a livello dei tempi e dell'evoluzione che l'innovazione tecnologica ed i nuovi bisogni informativi richiedono. Confidiamo che il dibattito in Assemblea possa recuperare questo palese deficit e migliorare in termini qualitativi la natura del provvedimento medesimo.
Per concludere, signor Presidente, ribadiamo la convinzione che con questa riforma non si sciolgono nodi e vincoli importanti per la libertà di informazione. La filosofia che ispira il provvedimento è contro il pluralismo e, soprattutto, contro le vocazioni liberiste più volte conclamate dall'attuale Governo, salvo recedere repentinamente quando si tratta di difenderne interessi di parte.
Signor Presidente, avvertiamo l'esigenza di attuare una vera riforma, non una riforma virtuale come quella in discussione. Lo abbiamo già detto: per noi questa riforma è fondamentale per lo sviluppo del paese; la ricerca, l'innovazione, la tecnologia, l'informatica ed i sistemi informativi costituiscono ormai la cartina di tornasole per considerare un paese civile democratico ed avanzato. Ebbene, questo passaggio lo consideriamo determinante per far sì che questi elementi facciano parte del sistema Italia.
Per le ragioni che tutti sappiamo, nel campo televisivo e dell'informazione, e non solo, costituiamo un'anomalia nello scenario europeo internazionale. Risolvere, a partire da questa riforma, alcuni pezzi che afferiscono al grande tema del conflitto di interessi potrebbe costituire un positivo salto in avanti nel costruire un modello di società in cui libertà, democrazia e pluralismo assumano corpo e sostanza e si affermino sempre più come valori portanti di questo nostro paese (Applausi dei deputati dei gruppi della Margherita, DL-l'Ulivo e Misto-Socialisti democratici italiani).

PRESIDENTE. Constato l'assenza dell'onorevole Butti, iscritto a parlare: si intende che vi abbia rinunciato.
È iscritto a parlare l'onorevole Giulietti. Ne ha facoltà.

GIUSEPPE GIULIETTI. Signor Presidente, utilizzerò una parte del tempo a mia disposizione perché vorrei accantonare l'intervento che avevo preparato nel merito del provvedimento in esame e soffermarmi su altre questioni, lanciando un appello molto pacato al Governo (contrariamente al mio solito), non in termini provocatori né strumentali. In primo luogo, vorrei ringraziare i relatori per la grande civiltà con cui hanno condotto il dibattito, anche all'interno delle Commissioni in queste settimane.
Ho molto apprezzato, tra l'altro, il riferimento preciso del relatore Romani, se ho ben colto, alla possibilità di introdurre una norma asimmetrica che consenta ai nuovi entranti l'ingresso nei nuovi mercati televisivi e non ai televisivi di entrare nei mercati dell'editoria. Poiché i dissensi saranno ampi e radicali, di metodo e di merito, credo sia positivo «accantonare» tutto quello che è possibile, nell'interesse del sistema industriale italiano, con particolare riferimento alle sue parti più deboli, - l'emittenza, l'editoria -; al contempo, ho apprezzato la grande disponibilità dell'onorevole Bianchi Clerici sulla questione dei minori e ad una riflessione etica sul tema della comunicazione, e della promozione di azioni positive non censorie. Non è questo che ci ha diviso e non è questo che ci dividerà! Non ci divideremo sull'importanza di un intervento sull'emittenza locale; condivido le puntuali riflessioni svolte dall'onorevole Carbonella. Non ci divideremo sul sostegno ampio all'audiovisivo, ai produttori ed al mondo del lavoro in questo settore.
Nel merito, tuttavia, mi associo alle relazioni puntuali, un vero e proprio progetto alternativo, ricco dal punto di vista tecnico e non solo politico, presentate in questa sede dai relatori di minoranza, onorevoli Carra e Bogi e che discendono da un lavoro unitario, intenso e profondo, che vedo accolto, e questo mi fa assai piacere, anche negli emendamenti, nelle proposte e negli interventi svolti da altri colleghi. Penso all'intervento dell'onorevole Intini, e a quello di Giordano, ma anche agli emendamenti e alle proposte che vedo


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presentati dagli amici dei gruppi Misto-Verdi-l'Ulivo, Misto-Comunisti italiani, Misto-UDEUR-Popolari per l'Europa.
Mi riferisco anche ad alcuni emendamenti mirati che provengono da parti della maggioranza e che sono tesi ad «attenuare» alcuni punti di questo provvedimento; non intendo parlare del merito di questo provvedimento (perché ne avremo modo nei prossimi giorni); basti dire che nel merito siamo divisi in modo radicale; vorrei tuttavia parlare del contesto di queste ore che dovrebbe indurre tutti noi, soprattutto il Governo, ad una pausa di riflessione nell'esame dei disegni di legge sul conflitto di interessi e sulle televisioni.
Non vorrei introdurre note stonate, ma penso che in queste ore - le Camere non sono state ancora informate - l'Italia parli della guerra, guardi la televisione, legga le agenzie e voglia sapere cosa sta per accadere. Vorrei anche sapere quando saremo convocati in quest'aula per parlare di questo tema nelle prossime ore, tema che, a mio avviso, ha la stessa rilevanza del conflitto di interessi e delle televisioni. In queste ore si sta decidendo una guerra che vede opporsi una grande parte della popolazione italiana, nonostante le censure e le mancate dirette, senza distinzione di fede o di appartenenza politica. Non è una questione di destra o di sinistra: è una grande questione che «taglia» le coscienze e questo paese.
Signor Presidente, questo dramma richiamerà l'attenzione collettiva ed individuale, richiederà un forte impegno da parte del Parlamento e costringerà il Governo ed i Governi - non si tratta di polemica, perché non vorrei essere nei panni di nessun Governo e perciò non mi interessa una polemica strumentale - ad affrontare questo tema come assillo prioritario. Qualunque sia la posizione che un Governo assumerà, deve avere un forte senso di sé e della dignità nazionale. Ogni gesto che compiremo in quest'aula - maggioranza e opposizione -, dovrà avere un segno molto forte, non condizionato da interessi particolari di altra natura.
Ciascuno di noi dovrà pronunciarsi su questo punto e vi invito a riflettere se davvero questo sia il momento migliore, - il contesto conta quanto il testo in questa vicenda - per insistere nel sottoporre all'attenzione dell'Assemblea, talvolta con atteggiamenti, non di tutti - sarebbe offensivo - da vero e proprio servizio d'ordine, attorno alle proprietà ed agli interessi particolari, il disegno di legge sul conflitto di interessi e quello sul sistema radiotelevisivo.
Si tratta di materie - come ciascuno di noi la pensi -, sulle quali esiste un evidente interesse del Presidente del Consiglio dei ministri. Io penso che non gli giovi avere un mese di discussione in aula su questi temi. Penso sia sbagliato - e che potremmo scontrarci fra tre mesi - e sia un gravissimo errore occupare le aule, arrivare ad uno scontro prolungato, e non potrebbe essere diversamente di fronte al tentativo di aggirare la sentenza della Corte costituzionale e di creare un condono tombale sull'intero sistema radiotelevisivo; penso sia un errore politico e non contesto i singoli punti.
Non pongo un'eccezione ed avrete pur notato con attenzione che la pregiudiziale di costituzionalità su cui molti ridevano ha segnato vaste assenze nella maggioranza ed ha segnato un voto che ha indicato un malessere anche nella maggioranza. Quella pregiudiziale è stata approvata per un soffio!
Tutto ciò conferma che non si trattava di una questione di poco conto. C'è un malessere anche nelle vostre file che andrebbe affrontato politicamente e non come si è fatto con la giustizia, limitandosi ad affermare che si trattava di una priorità del Governo, così chiudendo la questione.
Con la stessa pazienza che i ministri Maccanico e Cardinale e i sottosegretari Vita e Lauria dedicarono a questi temi per arrivare ad un voto largamente condiviso, mentre qui si sceglie la via breve dello scontro e il motivo non è chiaro.
Comunque la pensiate, c'è il legittimo sospetto che questa vicenda non rappresenti un interesse generale. Io penso che


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questa materia debba essere sottratta ad un contenzioso in sede europea. Voi sapete meglio di me che, su tale questione, vi sarà un forte contenzioso in Europa e in Italia, in sede politica e giudiziaria. Ho la sensazione che, alla vigilia della guerra e del semestre di Presidenza italiana, fare di tale questione la grande questione sia un errore, che peserà sulla Presidenza italiana, perché sarà un grande tema di discussione in quel semestre e voi sapete come in Europa la sensibilità sia superiore a quella che c'è in questo paese.
Allora mi domando e chiedo anche al Presidente della Camera: è davvero interesse nazionale - questo lo chiedo al Governo - sovraesporsi oggi su questo tema? È davvero possibile che il Parlamento si preoccupi di questi temi e, soprattutto, senza aver dato una risposta sul conflitto di interessi all'appello del Presidente della Repubblica, portando addirittura in votazione nella giornata di domani la legge sul sistema radiotelevisivo, prima ancora di aver dato qualunque disponibilità su un grande tema come questo? Lo ritengo sbagliato. Ed io vorrei evitare uno scontro in quest'aula, che non potrebbe che essere uno scontro prolungato, determinato, dentro e fuori, nel Parlamento europeo e in quello italiano. È un errore, fermatevi, ritiratelo!
Io non contesto il vostro diritto di decidere, ci mancherebbe altro: io vi invito a liberare le Camere da questo grave impiccio in queste ore, in questi giorni! Non sarebbe un elemento di intelligenza politica, di sapienza, metterebbe in secondo piano anche le eventuali aperture e disponibilità al ragionamento. Sarebbero incomprensibili, in questa fase, rischierebbero di essere travolte dal frastuono. Se davvero c'è un interesse tecnico, estrapoliamo e stralciamo le parti di larga condivisione, che riguardano soprattutto tanta parte del sistema imprenditoriale estraneo al duopolio, e diamo un segnale di forte incoraggiamento a questo mondo. Ma evitiamo di affrontare alcune questioni che io trovo delicate, sbagliate. Sarebbe un gesto di grande sensibilità ed eliminerebbe il legittimo sospetto che la fretta sia consigliata da altri motivi (che non è un legittimo sospetto delle opposizioni, ma largamente diffuso, in Europa e in Italia, anche al di fuori del centrosinistra). Permetterebbe di affrontare questioni di grande interesse industriale ancor prima che politico nel clima giusto, quello affrontato con la consueta pacatezza e serietà dall'onorevole Bogi, ma anche da altri colleghi (e non solo dell'opposizione).
Per queste ragioni, vi chiedo di prendervi una pausa, di prenderla voi, senza uno scontro in aula che, in questo momento, non mi pare interessante. Altrimenti, è evidente che la nostra opposizione sarà adeguata al testo - come hanno detto l'onorevole Bogi, l'onorevole Melandri, come dirà l'onorevole Rognoni e tanti altri -, ma anche ad un contesto, che dovrebbe sconsigliare prove di forza in una materia così clamorosamente segnata dal conflitto di interessi, che, di questo passo, rischia di diventare una «metastasi» istituzionale.
Prima di chiudere - proprio perché il mio era un appello -, vorrei affrontare, se me lo consentirete, un argomento assolutamente al margine, lo dico al Vicepresidente Mussi e agli altri colleghi presenti. Vorrei ricordare insieme a voi una collega giornalista, morta in condizioni tragiche in queste ultime ore: si chiamava Giovanna Baino, dell'Agenzia Italia, una ragazza che la pensava molto diversamente da me, una signora giornalista coraggiosa e rigorosa, che aveva seguito, insieme a noi e a tante persone qui presenti, tutti i lavori della Commissione parlamentare di vigilanza e tutti i lavori relativi alla prima parte della legge della quale stiamo discutendo. Lo aveva fatto con grande onestà intellettuale e con grande rigore professionale, come spesso fanno tanti colleghi delle agenzie, senza i quali molte notizie non vedrebbero neppure la luce. Sono sicuro che Giovanna Baino sarà ricordata con affetto da tutti noi (Applausi dei deputati dei gruppi dei Democratici di sinistra-l'Ulivo, della Margherita, DL-l'Ulivo e Misto-Socialisti democratici italiani).


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PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Bulgarelli. Ne ha facoltà.

MAURO BULGARELLI. Signor Presidente, vorrei ringraziare l'onorevole Giulietti, non solo per il suo intervento, ma anche per il lavoro supplementare in Commissione, al quale lo ho costretto, essendo io stato penalizzato da una sanzione disciplinare che mi ha impedito di partecipare ai lavori parlamentari per 15 giorni di seduta - quindi 21 -, per avere esposto in quest'aula una bandiera della pace. Quindi, l'onorevole Giulietti si è dovuto fare carico anche di quegli emendamenti che avrei presentato in Commissione cultura e di questo gliene sono grato.
Purtroppo, condividendo ciò che ha detto, oggi, l'onorevole Cento su questa guerra imminente, vorrei iniziare ricordando la morte della ragazza ventitreenne americana, uccisa nella striscia di Gaza, in Palestina, schiacciata da un bulldozer, ed il vile assassinio, avvenuto questa volta a Milano, di un ragazzo ucciso con otto coltellate da un suo coetaneo. Questo, purtroppo, è ciò che ammanta, in questo momento, il nostro paese ed il pianeta intero: una violenza che naturalmente riguarda anche l'informazione e, quindi, il dibattito odierno.
La situazione in cui versa l'informazione (e in particolare l'emittenza televisiva) nel nostro paese è drammaticamente nota. Il servizio pubblico radiotelevisivo ha raggiunto probabilmente l'apice della sua crisi, in questo favorito da una pessima legge sul conflitto di interessi che non ha risolto il grave vulnus costituzionale cui doveva porre rimedio e che ha allontanato ulteriormente la speranza di un riassetto realmente pluralistico del settore, problema al quale neppure il presente provvedimento pone alcun efficace rimedio, introducendo, al contrario, nuove opportunità di concentrazione monopolistica.
Questo provvedimento, infatti, che pretende di regolamentare l'assetto del sistema radiotelevisivo alla luce del processo di convergenza multimediale, lascia tutti insoluti i nodi sottesi a questo passaggio epocale: di che diritti reali godranno i soggetti operanti nel nuovo sistema comunicativo integrato? Chi regolerà l'erogazione dei servizi? Con quali garanzie produttive di contenuti? Come sarà assicurato un effettivo pluralismo? Il provvedimento del Governo ignora tutte queste problematiche. La previsione del ruolo del garante per le comunicazioni e le affermazioni di principio sull'accertamento della sussistenza di posizioni dominanti, infatti, sono talmente vaghe da essere pressoché inapplicabili. E il limite del 20 per cento al cumulo dei programmi televisivi o radiofonici in capo ad un unico fornitore di contenuti si traduce, in realtà, in un regalo all'emittenza privata, Mediaset in testa. Il trucco è semplice: innanzitutto, non si chiarisce la natura dei programmi televisivi e radiofonici, ossia se essi siano in chiaro o criptati. Poi, attraverso il concetto distorto di convergenza integrata, si legalizza la possibilità, per il radiodiffusore, di entrare anche nel settore dell'editoria e delle telecomunicazioni - dove, peraltro, essi operano indisturbati da anni -, fissando un tetto (quello del 20 per cento) solo apparentemente basso ma che, in realtà, assume tutte le potenzialità offerte dall'interazione di old and new media.
Grazie alla tecnologia digitale, infatti, i programmi nazionali in chiaro potranno essere quadruplicati ed il possesso del 20 per cento di essi potrà attribuire 10 canali televisivi in capo ad un solo soggetto, senza contare quelli via cavo e via satellite: una concentrazione enorme, ulteriormente accresciuta dalla possibilità di operare nel campo dell'editoria tradizionale e in quella elettronica (Internet). Suona, dunque, grottesco che queste cifre siano accompagnate da un'irritante prolusione sulla tutela della concorrenza del mercato.
Sia chiaro, tuttavia, che non saremo certo noi a contrastare le possibilità offerte dalle nuove tecnologie che vanno anzi adeguatamente valorizzate in sede legislativa. Ma le tecnologie digitali, multimediali ed interattive non garantiscono automaticamente un sistema comunicativo democraticamente evoluto per il semplice


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fatto che pluralismo ed imparzialità dell'informazione non sono conseguenza automatica dello sviluppo tecnologico.
Se, dunque, riteniamo che quello della proliferazione sia un principio teorico da promuovere e difendere - e, come per le prime radio libere, auspichiamo che cento fiori fioriscano - non possiamo, d'altra parte, nascondere che il provvedimento presentato dal Governo non lascia alcuno spazio in questo senso, rafforzando solo le posizioni dei soggetti economici più forti.
Come ciò sia vero si evince chiaramente da quanto previsto all'articolo 7 di questo provvedimento riguardante l'emittenza radiotelevisiva di interesse regionale o locale, laddove, di fatto, si contemplano, come soggetti titolari di capacità trasmissive e di autorizzazione alla fornitura del servizio, soltanto le emittenti commerciali alle quali viene riservato, inoltre, il 15 per cento delle somme che le amministrazioni pubbliche destinano per fini di comunicazione istituzionale a carattere pubblicitario, escludendo tutto il comparto, sempre più cospicuo e vitale, dell'emittenza locale a carattere comunitario e non-profit. Questa è una discriminazione inaccettabile che esemplifica perfettamente lo spirito che informa questo testo unificato nel suo complesso, un provvedimento che penalizza i soggetti più deboli, già vittime da anni di profonde ingiustizie.
Basti pensare, ad esempio, che le radio comunitarie, analogamente a quelle commerciali, sono tenute a pagare un canone annuale di concessione dell'1 per cento sul proprio fatturato, pur non usufruendo né di pubblicità dei privati né di pubblicità istituzionale.
Più in generale, è gravissimo che il provvedimento in esame non tenga in alcuna considerazione il mondo dell'associazionismo, del volontariato e delle minoranze etniche e sociali che, negli ultimi anni, ha dato vita ad esperienze estremamente significative nell'ambito della comunicazione radiotelevisiva autogestita. Penso alle televisioni satellitari comunitarie, che hanno dato voce, negli ultimi mesi, alle grande mobilitazioni contro la guerra o alle lotte degli operai FIAT di Termini Imerese, o alle televisioni di strada e di quartiere, espressioni di comunità urbane - fatte di condomini, di bar, di marciapiedi, di muretti - capaci di giocare la televisione contro la televisione e di costruire una formidabile opportunità di democrazia dal basso.
In molti paesi europei, sono operanti, già da tempo, numerose televisioni comunitarie di nuova generazione - le cosiddette community access television - organizzate, gestite e prodotte dai soggetti e dalle comunità che, allo stesso tempo, ne costituiscono il target di riferimento. Molte di esse, come in Olanda, sono state capaci di esercitare una funzione di pressing democratico talmente efficace da ottenere, dallo Stato, un riconoscimento ufficiale ed un adeguato finanziamento.
Questa è, probabilmente, la vera televisione pubblica; e sarebbe stato opportuno che una parte degli introiti derivanti dal canone televisivo fosse stata destinata alla costituzione di un fondo per la comunicazione al quale potessero attingere televisioni di servizio, comunitarie, di base, così come sarebbe stato doveroso riservare a queste una quota protetta delle nuove frequenze che si libereranno con l'introduzione del digitale. Riservare, per legge, una serie di frequenze alla televisione di base significherebbe anche cogliere appieno le potenzialità del digitale, le cui possibilità di interattività potrebbero essere valorizzate proprio per stimolare la partecipazione della società civile alla vita pubblica, per semplificare l'interazione tra cittadini ed amministrazione, per dare spazio alla ricerca artistica e culturale indipendente, per potenziare l'informazione e la divulgazione scientifica e per valorizzare il territorio e la dimensione locale.
Ma il Governo dimostra di volere andare in una direzione totalmente opposta, deciso com'è a smantellare quel che rimane del servizio pubblico e pretendendo di regolamentare secondo le leggi del mercato un bene - la comunicazione - ormai assimilato al concetto di merce. Il progetto di trasformare la stessa RAI in società per azioni risponde a questa medesima logica


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che, già di per sé discutibile, diventa inaccettabile persistendo intatto il gigantesco conflitto di interessi in atto.
Può rappresentare un'alternativa democratica alla deprecabile pratica della lottizzazione la prospettiva di una vera e propria dittatura mediatica?
In realtà, sarebbe stato necessario affrontare il problema dell'indipendenza del servizio pubblico in un contesto di cultura costituzionale e, finalmente, rendere partecipi i cittadini utenti della gestione del bene comune dell'informazione stendendo una carta dei diritti comunicativi e predisponendo un sistema di tutela e di controlli sulla qualità e sull'efficacia del servizio. Purtroppo, le cronache di questi giorni dimostrano che la politica continua a ritenere il sistema radiotelevisivo suo riservato dominio: un'estensione impropria e strumentale dell'esercizio del potere.
Solo attivando le energie della società civile e garantendo gli spazi affinché essa possa esprimersi ed avere parola sarà possibile restituire la comunicazione ai suoi unici, legittimi proprietari: i cittadini (Applausi del deputato Bellillo).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Meroi. Ne ha facoltà.

MARCELLO MEROI. Signor Presidente, perviene, oggi, all'esame dell'Assemblea, dopo uno dei più lunghi passaggi in Commissione di questa e delle precedenti legislature, il disegno di legge Gasparri (in tema di assetto del sistema radiotelevisivo e della RAI Spa, nonché delega al Governo per l'emanazione del codice della radiotelevisione), un atto su cui esprimerò una convinta e positiva valutazione poiché esso ha saputo identificare un concreto intervento di sostanziale riforma della materia che si attendeva da molto tempo.
Si tratta di un disegno di legge che si è reso ancor più fondamentale a seguito di due avvenimenti di grande interesse: le indicazioni espresse dal Presidente della Repubblica nel messaggio alle Camere del 23 luglio 2002, ribadite anche in altre, più recenti circostanze (esse hanno fortemente richiamato la necessità di un sistema radiotelevisivo improntato a principi di pluralismo e di imparzialità dell'informazione, di attenzione per i minori, di verifica e controllo sulla realizzazione dei programmi presentati) e la sentenza n. 466 del novembre 2002, con la quale la Corte costituzionale ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'articolo 3, comma 7, della legge n. 249 del 1997, nella parte in cui non prevede la fissazione di un termine finale, certo e non più prorogabile e che, comunque, non oltrepassi il 31 dicembre 2003, entro il quale i programmi irradiati dalle emittenti eccedenti i limiti di cui al comma 6 dello stesso articolo 3 debbono essere trasmessi esclusivamente via satellite o via cavo.
Analizzato in dettaglio, l'impianto strutturale della nuova normativa si sviluppa in cinque capi, relativi rispettivamente: alla definizione di principi generali dell'intera materia; alla riforma dell'attuale normativa in tema di concorrenza e mercato; all'indicazione dei principi ispiratori della delega relativa al codice della radiotelevisione; all'identificazione dei compiti del servizio pubblico e alla riforma della RAI; e alla formulazione della disciplina transitoria regolante la fase di conversione dal sistema analogico a quello digitale. La disciplina in esame mira poi in concreto a due fini primari, entrambi ambiziosi, ma certamente necessari. Il primo è quello di favorire ulteriormente lo sviluppo della nuova ed affascinante tecnologia digitale, le sinergie tra radiotelevisioni e altre forme di comunicazioni di massa, la definitiva e capillare diffusione di Internet.
L'avvento della cosiddetta tecnica digitale, che andrà a sostituire quella analogica attualmente predominante, garantirà maggiore efficienza nell'uso dello spettro delle frequenze, migliorerà la qualità dei segnali offerti, amplierà, ancor più virtuosamente di oggi, la già vasta gamma delle programmazioni trasmissibili, favorendo quanto mai opportunamente nuovi ingressi in un sistema ad oggi duopolistico, riuscendo a sviluppare un vero regime di concorrenza con obiettivi incrementi di un


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mercato di rilevante importanza apertosi ai contigui settori editoriali e musicali. Ma le nuove dinamiche di competizione all'interno conseguiranno l'ulteriore e primario risultato di far crescere anche la qualità dei prodotti offerti da una nuova gamma di reti, il cui ingresso in una piazza non più impermeabile potrà portare infine ad una valorizzazione delle diverse culture locali diffuse sul territorio.
In questa situazione non può certo essere dimenticato che il mutamento del sistema e la rapida evoluzione delle procedure atte alla trasmissione necessitano conseguentemente di una disciplina di settore che, benché proiettata nel futuro, fissi però i limiti temporali di messa a regime del medesimo al contempo individuando principi di natura transitoria che ne possano regolamentare lo stato attuale. Tale disciplina quindi sarà certamente proiettata verso un domani che vedrà inevitabilmente cadere i limiti angusti di una divisione settoriale tra sistemi di comunicazione e di editoria, quest'ultima caratterizzata da un'ampia pluralità di soggetti, e che ci porterà a condividere modalità e sistemi di diffusione dell'informazione facilmente integrabili all'interno di un sistema più vasto e complesso. Non si tratta, quindi, come qualcuno ha affermato, di una riforma che comporti in questo specifico ambito la deregolamentazione del sistema, ma di una disciplina che ridefinisca gli spazi utilizzabili da reti radiotelevisive e soggetti operanti nel campo dell'editoria, fissando regole, ponendo obiettivi, verificando gestioni pubbliche, supportando virtuosamente chi saprà essere produttore di qualità.
Tutto questo, lo ribadiamo come concetto che non potrà certo non essere condiviso da osservatori obiettivi e scevri da pregiudizi, porterà ad una crescita diffusa sia in termini economici sia in termini di contenuti del prodotto offerto. Ecco allora la necessità, prevista dalla normativa in esame, di prevedere limiti all'intero sistema integrato delle comunicazioni, verificando i ricavi (diretti o provenienti indirettamente) derivanti da canone, pubblicità, sponsorizzazioni, televendite, attività promozionali, convenzioni, provvidenze, offerte a pagamento, vendite differenziate e prestazioni di servizi. L'applicazione, di fatto, di regole antitrust da verificare su giudizi a posteriori che possano concretamente basarsi su dati e parametri certi. È una scelta di correttezza, di trasparenza, ma soprattutto di certezza nell'interesse dei singoli operatori e dell'intero mercato.
Il secondo fondamentale obiettivo della normativa in esame è poi quello di ridisegnare i compiti del sistema pubblico radiotelevisivo. Alla luce delle linee guide elaborate in materia dalla commissione di Bruxelles, la legge Gasparri definisce e attua le principali indicazioni europee: gli impegni da adempiere in base ai quali viene erogato il canone, indicazione di un organo indipendente cui affidare il controllo sugli adempimenti e l'erogazione delle eventuali sanzioni, separazione tra introiti derivanti da attività commerciali e introiti relativi a prestazioni di pubblico servizio. Un sistema che deve sentire fortemente la necessità di riqualificarsi e di offrire informazioni ampie, corrette e di qualità, di essere punto di riferimento imparziale ma anche fonte di crescita e di promozione delle culture. Per poter essere definito veramente innovativo, il nuovo sistema necessita di rispondere a principi di obiettività, di essere sottoposto ad obblighi individuati con chiarezza al fine di mantenere entro un'area di elevata professionalità ed indipendenza la diffusione di notizie, cronache, opinioni, nonché la gestione di spazi elettorali e l'informazione politica.
La disciplina in esame fissa quindi criteri certi per addivenire ad un servizio di fatto non inquadrabile in schieramenti di parte ma, al contrario, condivisibile da tutti coloro (utenti, istituzioni e addetti ai lavori) che ne siano i reali e legittimi fruitori e controllori.
Ma il servizio pubblico radiotelevisivo non può semplicisticamente identificarsi con l'aspetto rappresentato dalla cronaca e dalla politica, certamente più visibile e seguito e che, di fatto, accentra su di sé il maggior numero di critiche e polemiche,


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ma anche e soprattutto con quello più propriamente culturale. Si sente il bisogno, quasi la necessità, di una televisione pubblica diversa dall'attuale, certamente di maggiore qualità; di programmi non certo di nicchia o per target limitatissimi, ma di un livello di più elevata e doverosa qualificazione; di promozione istituzionale dell'identità nazionale; di progresso sociale; di attenzione ai giovani e alle categorie svantaggiate; di conoscenza e diffusione della lingua italiana e delle tradizioni locali: sono questi i temi al centro di una grande sfida di rinnovamento e di sistema.
Un servizio pubblico, infatti, non può in alcun modo rispondere a mere esigenze di mercato, al pari di strutture di carattere privatistico che pongono al centro delle proprie strategie economiche la raccolta del maggior numero possibile di quote pubblicitarie. Una normativa di profonda riforma per una televisione di qualità, che produca e stimoli interesse su argomenti di grande respiro, e che catturi l'attenzione degli utenti su temi condivisi deve prevedere anche l'opportunità di applicare norme concernenti la possibilità di concedere aiuti di Stato, sotto l'attenta verifica dell'adempimento degli obblighi previsti per il servizio pubblico, non al fine di poter preventivamente verificare i contenuti dei palinsesti, ma allo scopo di monitorarne l'effettiva qualità, il livello raggiunto ed i risultati ottenuti, al fine di erogare, mantenere, o anche estinguere la destinazione di risorse pubbliche.
Va posta attenzione, quindi, al rispetto di codici e di norme di autoregolamentazione, alla difesa del mondo dell'infanzia, alla correttezza dei messaggi pubblicitari e promozionali e alle fasce più deboli. D'altra parte, su questi temi l'esecutivo in carica, ed in particolare il Ministero delle comunicazioni, ha già compiuto notevoli passi in avanti, provvedendo a disciplinare principi di riferimento a tutela dei minori e sottoscrivendo convenzioni e protocolli aventi ad oggetto la difesa dei teleutenti più giovani.
Ma un sistema televisivo che intenda profondamente rinnovarsi non può certo non ritenere essenziale la ridefinizione delle procedure dei meccanismi tecnico-giuridici di nomina, di controllo e, come precedentemente ricordato, di verifica dei risultati prefissati. Ecco, allora, la previsione del completamento del processo di armonizzazione delle procedure sull'amministrazione e sulla gestione dell'azienda televisiva; la nuova disciplina societaria; le diverse regole dettate per la nomina dei componenti del consiglio d'amministrazione; la dismissione delle quote azionarie detenute dallo Stato, da destinare ad una nuova e costituenda società, il tutto nella logica di un indirizzo improntato all'autonomia delle scelte redazionali, ma nel pieno rispetto del pluralismo parlamentare, da identificarsi, finalmente, come concetto concreto, e non di semplice indicazione teorica; l'azionariato diffuso, a tutela dei proprietari di quote percentuali di minoranza; scelte di voto dell'azionista pubblico rese esecutive da determinazioni assunte dai Presidenti delle Camere; nomina del presidente del consiglio d'amministrazione effettuata dal consiglio stesso ed efficace solo se ratificata con parere favorevole, espresso da un quorum qualificato della Commissione di vigilanza.
Si tratta certamente di un insieme di scelte e di indirizzi innovativi che mirano a sottrarre il servizio pubblico radiotelevisivo ai pressanti controlli sin qui esercitati da soggetti non legittimati, perché di fatto esterni ed estranei a valutazioni aziendali ed istituzionali. Ma la stesura definitiva del disegno di legge Gasparri non poteva non tenere nella massima considerazione anche l'aspetto connesso alla riforma del Titolo V della Costituzione, in ordine alle ripercussioni da questo immediatamente riconducibili alla materia del riordino radiotelevisivo. Da qui, una programmazione in ambito regionale regolata da principi ispirati ad un sistema integrato, ma fortemente permeato da pluralità di fonti e di riferimenti locali. Questa scelta che, al contrario di quanto da alcuni affermato, non vuole disgregare o polverizzare l'unità del sistema, ma mira essenzialmente a promuovere le valenze localistiche, e non per questo minori, partecipando


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ad aree più vaste di pubblico, interessi culturali, tradizionali, popolari ed etnici di grande valenza; tutto ciò, come d'altra parte già previsto, si riferisce alla tutela ed al potenziamento dell'emittenza cosiddetta locale, che in questi mesi ha saputo apprezzare l'operato del Ministero a sostegno di un servizio fondamentale per l'informazione e la crescita del territorio. Si tratta di una fitta rete di network locali per troppo tempo costretti a svolgere ruoli marginali, e quasi sempre oggetto di pressanti ostacoli di stampo economico, riconducibili alla difficoltà di reperire in loco risorse sufficienti non alla crescita, ma alla semplice sopravvivenza.
Ecco perché definiamo questo testo una legge completa, profondamente innovativa e sicuramente in linea con una profonda riforma della situazione attuale. Si tratta di una proposta che, forse proprio per queste sue connotazioni, e come purtroppo spesso è accaduto in questa legislatura, ha riscontrato un totale ed immotivato dissenso da parte delle forze di opposizione, che sin dalle prime riunioni nelle Commissioni permanenti hanno spostato il nucleo del dibattito su motivazioni di esclusiva connotazione politica: iniziale disponibilità a collaborare, in cambio del totale rinnovo dell'allora ridotto consiglio d'amministrazione della RAI; volontà di dialogare, previo ritiro del disegno di legge in esame, e sostituzione dello stesso con un testo ampiamente condivisibile da tutte, o quasi, le forze parlamentari; possibilità di aprire scenari di sereno dibattito se preceduti da aperture in ordine a nuove scelte redazionali in azienda; quasi che, come correttamente accennato anche da qualche autorevolissimo relatore di minoranza, un accordo sul «politico», magari a tempo determinato o poco più, potesse portare non solo a ridimensionare ma persino a trovare una soluzione al «tecnico».
Di fatto, si tratta di un atteggiamento fortemente dilatorio e poco marcato da reali intenzioni collaborative; tra l'altro, in totale controtendenza con gli impegni assunti in ogni circostanza dal ministro Gasparri, il quale ha sempre ricordato come l'impianto generale del provvedimento non costituisse un testo immutabile, ma rappresentasse una base di dialogo certamente perfettibile dal contributo dell'opposizione. Inoltre, come poter negare che l'amplissimo dibattito articolatosi nelle competenti Commissioni (oltre 60 ore, tempi mai raggiunti precedentemente in analoghe occasioni) abbia ampiamente dimostrato l'apertura della maggioranza a recepire emendamenti migliorativi?
Certo è che un atteggiamento collaborativo e improntato al reciproco rispetto parlamentare non può confondersi con la volontà della minoranza, legittima ma ovviamente irrealizzabile, di stravolgere totalmente il testo del provvedimento, di depotenziarne gli aspetti più qualificanti, di svuotarne i principi ispiratori e caratteristiche primarie. Conseguentemente, la decisione di dare corso ad una chiusura totale, eventualmente sostenuta da atteggiamenti di tipo ostruzionistico, renderebbe palese la dimostrazione di una scelta politica tesa ad evitare qualsiasi reale volontà di costruttivo dialogo. Solo questa chiave di lettura potrebbe, infatti, giustificare la circostanza che l'opposizione abbia potuto indifferentemente definire il provvedimento in esame liberista o monopolista, meramente accentratore di competenze al contrario delegabili o troppo federalista, difensore di interessi di duopolio o marcatamente aperto verso un mercato che di fatto diverrebbe indeterminabile ed incontrollabile. È certo, infatti, che il trattare l'obiettivamente centrale tema del conflitto di interessi con toni estremamente tesi e pregiudizialmente vincolati a valutazioni di profilo più politico-elettorale (tra l'altro risultate ampiamente perdenti) che tecnico, non ha permesso di trovare, almeno nelle competenti Commissioni, quel clima di costruttivo dibattito, che tutti si auspicavano in occasione del varo di una riforma di amplissime proporzioni e potenzialità.
Il dato comunque finale e caratterizzante è che oggi il Governo, con il pieno sostegno della sua maggioranza, interviene sul sistema integrato delle comunicazioni e pone, per la prima volta, indirizzi innovativi.


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Si fissano, infatti, quote di mercato non superabili in ordine alla raccolta pubblicitaria, al fine di non poter ulteriormente realizzare pericolose situazioni di nuove concentrazioni in capo a pochi monopolisti; si definiscono, inoltre, strategie di crescita qualitativa, con l'intenzione di ridisegnare una gestione virtuosa ed abbandonare i criteri di merito, assai scarsi per la verità, di un passato da dimenticare; si determinano anche le procedure di garanzia per la parte relativa alla composizione del consiglio di amministrazione, rovesciando vecchi e non certo rimpianti metodi; infine, si interpreta con puntualità il messaggio del Presidente della Repubblica, evidenziando il grave difetto di chi ne denunciava il mancato recepimento all'interno della normativa, trascurando dolosamente che nella decorsa legislatura nulla sia stato fatto in ordine al rispetto ed alla tutela dei valori e degli obblighi richiamati, non certo solo oggi, dal Capo dello Stato.
Si fa, in concreto, chiaro riferimento ad un clima di responsabile collaborazione, che l'opposizione sempre cita, peraltro correttamente ritenendolo essenza della democrazia ed imprescindibile elemento del divenire politico, dimenticandosi però lo stesso richiamo ed i medesimi impegni quando la minoranza è rappresentata dagli altri e i ruoli parlamentari risultano invertiti.
Chiediamo, quindi, di rimuovere atteggiamenti di preventivo ed assoluto dissenso, di sottrarsi al ripetitivo e sterile appello ad una non meglio precisata «ampia condivisione» delle normative di riforma, richiami questi che paiono identificare l'unilaterale difesa di rendite di posizione acquisite e di trovare invece la capacità di interpretare al meglio un testo di legge di forte rinnovamento.
Non potrà l'adozione di un metodo diverso ed improntato ad un'antitesi globale, convincerci ad un mutamento di strategia o di scelte. Crediamo fermamente nella validità del progetto di legge Gasparri e nella vera essenza riformista dello stesso: è un provvedimento che vuole rendere reale lo sviluppo del digitale terrestre, che intende rilanciare il mercato, che contiene indicazioni pressanti per collegare sinergicamente i mezzi di informazione (con la disponibilità di prevedere norme di natura asimmetrica); si tratta inoltre di un provvedimento chiarissimo ed intransigente nel voler rivitalizzare l'intelligenza sopita di un servizio pubblico purtroppo incapace per troppo tempo di crescere e di far crescere, e che comprende la necessità di garantire professionalità, indipendenza dell'informazione e qualità del servizio.
Per questo motivo, con la certezza di esprimere una vera scelta di convinto rinnovamento, guardiamo con attenzione e fiducia al provvedimento attualmente all'esame della Camera, comunque ancora disponibili a discutere serenamente eventuali proposte di miglioramento che non ne snaturino un fondamento che crediamo del tutto positivo (Applausi dei deputati dei gruppi di Alleanza nazionale, di Forza Italia e della Lega nord Padania).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Cardinale. Ne ha facoltà.

SALVATORE CARDINALE. Signor Presidente, prendo la parola, così come ho fatto in Commissione, in sede di discussione sulle linee generali per svolgere alcune riflessioni su un progetto di riforma che, anche alla luce dell'esperienza che ho direttamente vissuto nella passata legislatura, a me appare lontano dalle domande e dalle esigenze che avvertiamo emergere dalla società italiana. Perché lontano? Credo di poter dire per tre ragioni evidenti ed oggettive.
Innanzitutto, perché il testo che approda in Assemblea conserva i limiti, neanche temperati dalle nostre osservazioni di merito sollevate in Commissione, di una mera razionalizzazione e, direi, ottimizzazione dell'esistente. Da questo punto di vista, non sarebbe improprio parlare di una riforma mancata. Non potrebbe, d'altra parte, essere diversamente in un sistema che tende a consolidare la struttura oligopolistica dell'informazione con la specifica aggravante di


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essere dominata da interessi sempre più sussidiari tra di loro. Quello che ormai nel linguaggio comune viene definito conflitto di interessi non rappresenta che la forma esasperata di una triste anomalia italiana che tende a consolidarsi e a divenire endemica man mano che la storia procede.
Una seconda ragione di insoddisfazione viene dall'orizzonte chiuso nel quale la proposta del Governo ed oggi della maggioranza della Commissione si mantiene. In luogo di tentare una regolazione generale del sistema della comunicazione, che in tempi di multimedialità deve tradursi in un approccio globale con i temi dell'intreccio fra telecomunicazioni, TV e carta stampata, si è scelta la strada di amministrare la cittadella della televisione, una cittadella domestica nella quale, come con un bilancino, si gestiscono e si tutelano le posizioni dominanti e le rendite esistenti, curando che anche le grandi deliberazioni normative, vuoi della Corte costituzionale vuoi dell'autorità, trovino strumenti e occasione di elusione.
Valga per tutti la previsione assolutamente realistica, secondo la mia opinione, del nostro ingresso nel digitale entro il 2004. Ne parlo perché appare fin troppo evidente la forzatura che, attraverso l'apposizione di una data virtuale, si tende ad imprimere ad un processo che avevamo immaginato al servizio dello sviluppo industriale del nostro paese. Per preparare l'avvenire dell'Italia, infatti, avevamo tentato nella scorsa legislatura di costruire un via nazionale alla multimedialità, proprio nella prospettiva di governare la transizione dall'analogico al digitale.
Tutto ciò, favorendo contestualmente la crescita di attori in grado di accedere alle nuove trasmissioni, se non nella fase della sperimentazione, almeno in quella a regime. Infatti, la legge n. 66 del marzo 2001 consentiva, sia ai soggetti concessionari sia a quelli autorizzati, di avviare non solo le trasmissioni digitali terrestri sulle proprie frequenze, ma anche la possibilità, per il triennio 2001-2004, di acquisire nuove frequenze al fine di assicurare le condizioni del simulcast, nonché di avviare nuovi programmi e conservare relazioni societarie fra il nuovo operatore di rete e l'editore dei programmi stessi. Ciò a causa della scarsità delle frequenze disponibili anche alla luce delle proroghe in regime di autorizzazione stabilite per Retequattro e Telepiù Nero.
Lo spirito della legge n. 66 era, quindi, costruttivo e realistico. Se la si fosse utilizzata secondo le inclinazioni che le avevamo inferito, la sperimentazione avrebbe potuto ricevere un'accelerazione ed i grandi operatori avrebbero potuto mettere a frutto le opportunità che avevamo predisposto nell'interesse del paese e del nostro sistema delle telecomunicazioni. Invece, è accaduto che il senso della legge è stato via via snaturato. Il regolamento del piano nazionale delle frequenze ha subito ritardi nell'iter di approvazione ed, in più, sono stati assunti provvedimenti a pioggia in favore delle TV locali senza, tuttavia, vincolarli alle sperimentazioni digitali terrestri. Si è, così, sanzionato il rinvio sine die di un processo che, invece, adesso si vorrebbe urgente ed improcrastinabile.
Il riferimento che il progetto del Governo assume al 2004 appare, quindi, come una mera illusione ottica. Si pone come una scorciatoia che tenta di equiparare la nostra transizione al digitale terrestre a quella di altri paesi dove, peraltro, il digitale terrestre è certamente meno incoraggiante perché vi si sono sviluppate da decenni altre reti come quelle via cavo ed il satellite. Che senso ha, quindi, utilizzare, se non per fini di comodità fin troppo evidente, una data così ravvicinata ed irrealistica quando è evidente che potrà parlarsi concretamente di digitale terrestre solo quando, al culmine della sperimentazione, saremo in grado di assicurare un accesso universale all'utilizzo delle nuove tecnologie? Si vuole, forse, non so se consapevolmente, contribuire a creare una frattura digitale, una diversità dei livelli e della qualità del consumo a secondo delle diverse aree del paese.
Si replica, dalle parti del Governo e della maggioranza parlamentare, che anche la data del 2006 prevista dal centrosinistra


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nella legge n. 66 sarebbe stata ugualmente irrealistica se fossero fondate le nostre argomentazioni. In realtà, eravamo ben coscienti che il 2006 era un terminus a quo e non un terminus ad quem. Era, in effetti, una data-obiettivo assunta per fini promozionali e per incentivare gli investimenti. Serviva a scuotere un sistema ingessato e duopolistico mentre sapevamo che per completare lo spegnimento ed il passaggio al digitale secondo una logica di servizio universale sarebbero stati necessari almeno dieci anni, come in effetti avvenne per il passaggio dalla TV in bianco e nero alla TV a colori. Tutto ciò presupponendo anche l'utilizzazione delle frequenze di Retequattro e di Telepiù nero.
Se questo è il quadro, appare chiaro che rimangono aperte di fronte a noi questioni che non potranno non pesare nella definizione del nuovo sistema integrato delle telecomunicazioni. Vi sono scogli tecnici e politici tutt'altro che risolti. Mi riferisco a nodi di natura tecnologica che riguardano le aree di illuminazione del segnale, gli standard e le modalità di trasmissione ed a nodi di natura economico-finanziaria poiché tenderanno a crescere esponenzialmente i costi generali degli investimenti riferiti alle attrezzature ed al reperimento sul mercato delle frequenze occorrenti a sostenere il simulcast. Senza contare che andrebbe chiarita la figura giuridica del servizio pubblico radiotelevisivo mediante la ridefinizione della sua missione, del perimetro di azione del suo piano editoriale, l'organizzazione e le modalità del finanziamento.
Si tratta di questioni che l'iniziativa dei Governi di centrosinistra avevano affrontato attraverso la predisposizione di proposte che ci auguravamo trovassero quelle condizioni di concordia nazionale e di consenso allargato che devono accompagnare sempre i grandi processi di riforma dei settori chiave sui quali regge la democrazia dei moderni.
Non starò qui a fare la storia dei procedimenti legislativi, che per cicli e per stagioni ha regolato una materia che è oggetto di controversie passioni e che chiama in causa fondamentali questioni di libertà, di pluralismo e di civiltà del nostro paese. Osserverò soltanto che siamo passati, nel tempo, da un regime di monopolio, che pure in sé regolava i temi della coesistenza e della competizione fra culture diverse, ad un regime duopolistico nel quale comunicazione e intrattenimento sono andati via via rispondendo ad un modulo omologatorio e ad una cultura del consumo dominata dall'audience.
La RAI - è la terza osservazione critica - non si è sottratta ai richiami di una competizione trainata dal consumo corrente, uniformandosi al modello di un pensiero unico nel quale assai difficilmente è stato possibile individuare le tracce di un autentico servizio pubblico, sicché, anche oggi alla luce degli avvenimenti ai quali assistiamo, appare arduo comprendere se vi sia (e dove) una missione editoriale della RAI adeguata al ruolo di pedagogia civile, di libertà, di innovazione dei linguaggi e di rappresentazione unitaria delle tante sensibilità territoriali e culturali del paese.
La stessa grottesca soluzione federalista, inventata recentemente con il trasferimento di RAI 2 a Milano, è la prova concreta ed evidente dell'incapacità di pensare il federalismo in termini organici, reimmergendo il servizio pubblico nella trama delle tante verità della società italiana, riformulando i palinsesti in questa chiave e strutturando per questi fini l'organizzazione del servizio pubblico radiotelevisivo. Diversa era e rimane la nostra impostazione: con la terza rete, sussidiata solo dal canone, definita come rete delle realtà regionali con il linguaggio e la cultura del territorio e con la missione di rompere la cappa di conformismo, complicità e reciproca sussistenza che hanno finora governato il rapporto tra i due massimi e pressoché esclusivi operatori nazionali della comunicazione; e con due reti affidate al mercato, al fine di alimentare un autentico pluralismo.
Queste sono le tre osservazioni di fondo che muovo al testo che stiamo esaminando. Non mi sembrano osservazioni da poco, dato che esse sono da tempo al


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centro del dibattito: un dibattito tra sordi, che finora non ha trovato utili sponde e persuasive soluzioni (e non certo per l'irragionevolezza delle nostre critiche). In questo quadro non può stupire che la prospettiva di modernizzazione mediante il digitale terrestre, considerata in astratto come «la Mecca» di tutte le future libertà, tenda a divenire sempre più eventuale.
Mi chiedo e vi chiedo: quali concrete possibilità si offrono agli operatori nazionali e locali in termini di frequenze e di incentivi? Come si pensa di affidare alla RAI un ruolo di battistrada nella sperimentazione che precede e accompagna ogni normale messa a regime delle nuove tecnologie, se non si affronta il nodo delle risorse di cui essa dispone attualmente e di quelle che sicuramente verranno richieste per un'avventura così onerosa e impegnativa? Inoltre, qualora il progetto del Governo disponesse di utilizzare il satellite per il digitale terrestre, come si ritiene che possano essere equiparati i programmi così irradiati a quelli trasmessi mediante i canali analogici terrestri? Il fatto è che siamo di fronte a una legge virtuale che sposta in avanti i problemi, mentre avvicina le soglie temporali e le scadenze, per ragioni fin troppo evidenti.
Il quadro non è incoraggiante e lo è ancor meno - suppongo - per gli operatori, al cui ruolo ho sempre guardato con rispetto e con interesse. Con la legge n. 66 del 2001 avevamo introdotto nuovi titoli abilitativi per abbassare la soglia di ingresso per i nuovi entranti, anche se poi il regolamento di attuazione aveva lasciato zone d'ombra, come ad esempio per ciò che attiene all'obbligo per la RAI di fornire servizi e programmi di informazione in ambito locale, nonché per quanto riguarda i ruoli dei vari soggetti della catena del valore. Con riferimento al sistema delle imprese, individuavamo nella legge n. 66 due titoli abilitativi diversi: la licenza agli operatori di rete e ai fornitori di servizi e l'autorizzazione ai fornitori di contenuti, in sostituzione dell'attuale regime concessorio attribuito ai radiodiffusori.
È un problema che rimane aperto, poiché nell'universo digitale terrestre occorrerà intervenire con provvedimenti distinti nei confronti di queste tre figure, chiarendo altresì il ruolo del gestore del multiplex.
Mi pare si sia compreso perfettamente che i problemi rimangono e che occorre affrontarli con chiarezza e con coraggio. Vi è un problema di pluralismo e di servizio pubblico per evitare posizioni dominanti e vi è un problema di abuso di posizioni dominanti per le TV commerciali e per le pay-tv, mentre vi è un problema opposto di razionalizzazione dell'emittenza locale.
A tutte queste questioni le proposte del Governo non rispondono che in maniera parziale, in quanto si pongono l'obiettivo di assicurare una reale concorrenza sui mercati, di favorire la crescita di nuove risorse e un maggiore pluralismo dei soggetti, una maggiore articolazione dell'offerta di TV generalista e di TV tematiche tra i vari soggetti e di riqualificazione della pubblicità alla luce dei desueti vincoli antitrust imposti dall'editoria radiotelevisiva e della carta stampata nel mercato televisivo nazionale ad accesso libero.
Priva di un autentico respiro industriale, priva di frequenze, priva di significative realistiche previsione relative ai tetti pubblicitari, carente nella definizione delle possibilità di incrocio tra carta stampata, TV e telecomunicazioni, ambigua nelle asimmetrie che sembrano premiare gli attuali detentori del sistema, che riforma potrebbe mai essere quella che stiamo discutendo?
Sono queste le domande che, come cittadino e come politico, mi sono posto e continuo a pormi, ben sapendo che discutiamo di una legge che, se davvero fosse ispirata agli interessi del paese, potrebbe aiutarci a compiere un decisivo passaggio di civiltà.
La civiltà - come la definiva Toynbee - non è un grumo o un sedimento, ma un complesso organico di interessi e valori, la trama del percorso civile dell'umanità, un sentiero stretto lungo il quale filtra la saggezza del tempo e l'intelligenza dei popoli. Ricavo sempre più netta la convinzione che stiamo perdendo questa importante


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occasione (Applausi dei deputati dei gruppi della Margherita, DL-l'Ulivo e dei Democratici di sinistra-l'Ulivo)!

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Rognoni. Ne ha facoltà.

CARLO ROGNONI. Signor Presidente, signor ministro, signor sottosegretario, colleghi, la riforma organica del sistema radiotelevisivo è una delle leggi più attese e più importanti di questa legislatura e dovrebbe essere anche una delle riforme più condivise, oggi si dice bipartisan. Tuttavia, temo che gli interessi di parte impediranno all'interesse generale di affermarsi. Attenzione, però, in gioco c'è la qualità della nostra democrazia!
Non è un caso che il primo - e per ora unico - messaggio alle Camere del Presidente della Repubblica affermi con solennità che la garanzia del pluralismo e dell'imparzialità dell'informazione costituisce strumento essenziale per la realizzazione di una democrazia compiuta.
Insomma, non dimentichiamo mai che, a causa dell'assenza di pluralismo nel mercato della televisione, in Italia, abbiamo finito per convivere con una democrazia dimezzata. Dal controllo monopolistico della televisione commerciale nazionale passa uno dei nervi scoperti e più malati del nostro sistema: il conflitto di interessi, che ammorba i rapporti politici, condiziona la vita economica e la libertà imprenditoriale, falsa gli equilibri democratici, falsa il confronto elettorale, fa dell'attuale Premier italiano un caso di anomalia mondiale, una gravissima ferita alla quale tutte le democrazie occidentali guardano con preoccupazione.
Ebbene, per sintetizzare il senso del provvedimento al nostro esame, anticipo il giudizio che poi svilupperò e ripeterò nel mio intervento. Se la legge Mammì - come si disse allora - fotografava l'esistente, cioè il risultato di dieci anni di Far west dell'etere, la legge Gasparri mette una pesante ipoteca sul futuro, mette le mani sui prossimi dieci anni della televisione, tutto ciò a vantaggio - temo - di casa Arcore.
I primi a sostenere l'urgenza di una profonda riforma - la legge tuttora in vigore, che porta il nome di Oscar Mammì, risale al 1990 - fummo noi del centrosinistra nella passata legislatura.
L'ostruzionismo - forse dovrei dire le barricate - e la minaccia di paralizzare tutti i lavori parlamentari da parte di Forza Italia ci permisero di approvare soltanto uno dei due provvedimenti su cui era imperniata la proposta del ministro Maccanico. Potemmo decidere la nascita dell'Autorità garante delle comunicazioni, necessaria alla liberalizzazione del mercato delle TLC, ma ci fu impedito, nella maniera più assoluta e determinata, di legiferare sul duopolio RAI-Mediaset, la cui difesa fu più forte di qualsiasi spinta al cambiamento. Non dimentichiamo, poi, che per dare via libera alla nascita della legge 31 luglio 1997, n. 249, che istituisce l'autorità, Forza Italia si impegnò in un braccio di ferro con il Governo per mantenere lo statu quo e, comunque, per ottenere che le norme antitrust previste slittassero a tempi indefiniti. Fu il compromesso sull'aggettivo «congruo» a consentire di sbloccare la legge.
Solo quando ci sarà un numero congruo di parabole satellitari, Retequattro andrà sul satellite e Mediaset tornerà in regola rispetto alla legge antitrust con la proprietà di due reti anziché di tre. Contemporaneamente - questo era l'altro aspetto del compromesso -, la RAI toglierà tutta la pubblicità dalla terza rete che vivrà di solo canone. Oggi, gli effetti di quel «congruo» sono stati definiti incostituzionali. Sentirsi dire, come qualcuno ha fatto in Commissione, che in fondo la Corte ha bocciato una legge del centrosinistra, fa un po' sorridere. La Corte ha bocciato il compromesso che tanto piaceva a Mediaset, perché le consentiva di conservare la roba e di rimandare alle calende greche il rispetto delle norme antitrust.
Ora, una buona legge di riforma del sistema radiotelevisivo deve affrontare alcuni nodi non risolti che, in parte, ci trasciniamo da lustri e, in parte, sono legati agli ultimi sviluppi dell'information and communication technology, vale a dire


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delle tecnologie dell'informazione e delle comunicazioni. In primo luogo, occorre garantire il pluralismo del sistema, creando le condizioni perché esso non resti ingessato nel duopolio esistente, soprattutto attraverso forti regole antitrust riferite ai singoli mercati della comunicazione, pur tenendo conto del processo di convergenza in atto nel settore della multimedialità. In secondo luogo, è necessario agevolare il passaggio alle nuove tecnologie digitali, essendo questa la strada del futuro e la strada per la creazione del nuovo mercato della multimedialità. Per fare questo, bisogna agire sulla risorsa delle frequenze, di cui l'Italia è particolarmente povera. È necessario che l'autorità sia messa nelle condizioni di presentare davvero un piano per l'assegnazione delle frequenze in digitale terrestre. Questo vuol dire, prima di tutto, recuperare frequenze e ridistribuirle. Vuol dire consentire anche a nuovi soggetti imprenditoriali affidabili di entrare nel nuovo mercato del digitale, evitando che soltanto i concessionari attuali possano crescere attraverso la sperimentazione. Inoltre, la tecnologia digitale non è solo terrestre, ma è anche via cavo e via satellite.
Un Governo responsabile, dunque, deve avere una sua politica industriale che sia tecnologicamente neutrale, tale da tenere conto di tutte le possibili piattaforme tecnologiche: non deve favorirne una a dispetto dell'altra.
In terzo luogo, occorre riformare il sistema pubblico radiotelevisivo meglio precisando i criteri di organizzazione della RAI. Dobbiamo avere la forza politica di staccare la spina, il cordone ombelicale che sembra legare in modo perverso ed infantile - direi - la RAI alle segreterie di partito e, soprattutto, al Governo, ridando centralità al Parlamento e alla Commissione di vigilanza.
La RAI non ha più bisogno di tutele e deve essere lasciata libera di crescere. Deve essere messa alla prova di responsabilità aziendali. Occorre poi meglio precisare: l'autonomia finanziaria attraverso il canone, il cui ammontare non può essere lasciato alla discrezionalità del Governo o al suo buon cuore; va comunque definito ed assegnato in base a contratti che puntualizzino le finalità, gli scopi e gli obiettivi del servizio pubblico. La separazione contabile tra servizio pubblico in senso stretto e parte commerciale è necessaria per dare trasparenza al lavoro della RAI e può anche essere propedeutica alla privatizzazione futura di una parte dell'azienda. Inoltre occorre ridefinire la missione del servizio pubblico, anche in funzione della rivoluzione tecnologica digitale. Le ragioni per il mantenimento di un servizio pubblico vanno cercate nelle radici culturali europee, che puntano a mantenere comunque, anche in presenza di una liberalizzazione di tutti i mercati, un servizio pubblico che sia sensibile alla formazione e all'informazione non vincolate al successo pubblicitario. Oggi, almeno fino a quando le nuove tecnologie non avranno cambiato radicalmente il mercato della multimedialità, può benissimo rientrare nella missione del servizio pubblico l'impegno a velocizzare il passaggio alle nuove tecnologie digitali.
Su questi punti ruota gran parte della proposta dell'onorevole Maccanico del gruppo della Margherita, DL-l'Ulivo. Signor ministro, su nessuno di questi punti-chiave viene una risposta convincente dal disegno di legge Gasparri. Si tratta di un provvedimento che promette un futuro radioso e imminente di tecnologie digitali, mentre, in realtà, difende gli interessi costituiti. Il sogno ingannatore è fare intravedere agli italiani un futuro radioso di tecnologie avanzate e promettere loro che saranno i primi in Europa nella televisione digitale terrestre, ma in cambio di cosa? Ebbene, l'importante è che oggi non cambi nulla e che tutti coloro che occupano l'etere - in modo legittimo o illegittimo, non interessa - continuino a trasmettere grazie a un altro condono tombale.
A 13 anni dalla legge Mammì, la nuova grande riforma del sistema radiotelevisivo nasce, dunque, all'insegna di un mostruoso conflitto di interessi. Se la Mammì, ripeto, fotografava l'esistente, la Gasparri ipoteca il futuro. L'obiettivo è chiaro: portare a casa la legge prima dell'estate, magari


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prima del semestre di Presidenza italiana dell'Unione europea. Poche settimane fa la Corte costituzionale ha decretato che Mediaset con tre reti viola la leggi antitrust. Ora è comprensibile che il Governo del cavaliere si mobiliti e soprattutto mobiliti i suoi avvocati affinché fatto l'inganno si trovi la legge. Posso, dunque, anche capire che l'idea di perdere Retequattro stia spingendo Mediaset a inventare l'inimmaginabile pur di salvare l'unità dell'azienda.
Se poi l'Autorità garante delle comunicazioni, dopo mesi e mesi di indagine, sta per decidere che Publitalia, la concessionaria di pubblicità di Mediaset, è anch'essa fuori dalla legge perché supera il 30 per cento del mercato, capisco pure che il Governo veda in questa nefasta circostanza un'altra buona ragione per intervenire e introdurre un comma ad hoc.
Capisco tutto, capisco perfino che un cittadino qualunque, all'idea che gli tolgano una rete TV, faccia fatica a spiegarselo, ma non capisco perché, per difendere l'attuale assetto radiotelevisivo in barba a tutte le sentenze della Corte costituzionale, si debba ancora una volta ingannare il paese e danneggiare il sistema Italia. Sì, perché il capolavoro di questa legge è quello di ammantare la difesa degli interessi di casa Arcore con la promessa di portare l'Italia all'avanguardia delle tecnologie digitali terrestri quando, in realtà, la legge serve per mettere le mani non solo sul presente ma, ripeto, sul futuro della televisione.
Non c'è dubbio che si possa dire con il senno di poi che un primo errore lo ha compiuto il centrosinistra quando nel 2000 scrisse in una legge che entro il 2006 tutto il sistema radiotelevisivo da analogico sarebbe dovuto diventare digitale: allora, sembrava possibile; oggi decisamente no. Oggi è dimostrato e dimostrabile che è un obiettivo del tutto irrealistico. Allora, c'erano gli esempi di Stati Uniti, Gran Bretagna e Spagna: l'idea era, dunque, davvero molto ambiziosa, ma sembrava realistica. A tre anni di distanza, con alle spalle alcune sperimentazioni partite in altri paesi - in Italia nessuna - e alcuni fallimenti, c'è la certezza che quella data è assolutamente irrealistica e che per arrivare al giorno in cui tutti i nostri apparecchi saranno in grado di ricevere segnali digitali ci vorranno dai 7 ai 10 anni ancora. Quell'errore di valutazione del centrosinistra nasceva anche dall'impossibilità di approvare una qualsiasi legge di riforma che spezzasse il duopolio RAI-Mediaset, visto l'ostruzionismo durissimo di Forza Italia in Commissione al Senato e viste anche le divisioni all'interno dello stesso centrosinistra fra il partito RAI e chi avrebbe voluto privatizzare parte del servizio pubblico, così da mettere in campo almeno un nuovo concorrente.
Un sistema più pluralista non era allora possibile? Ci si consolò puntando sul futuro. Le nuove tecnologie digitali, si pensò, permettono la moltiplicazione dei canali e dunque finiranno con il rompere il duopolio RAI-Mediaset. Da qui l'idea di una corsa al 2006. Quell'errore - come definirlo? di ingenuità, di generosità, di cattiva valutazione? - è diventato per Gasparri la zattera a cui aggrapparsi per giustificare la legge. Il Governo ne approfitta per far finta che il digitale sia comunque imminente e, dunque, per ragionare come se la transizione dall'analogico al digitale fosse davvero questione di pochissimi anni. E voi per due, tre anni vorreste colpire al cuore un'azienda sana e importante come Mediaset privandola di Retequattro? Già. Peccato che oggi si possa tranquillamente sostenere che prima del 2010 o del 2012 non ci sarà alcuno switch off, alcun passaggio al tutto digitale e la transizione diventa un'eternità.
Su questo tema l'Unione europea delle radiotelevisioni, un organismo indipendente che raggruppa 71 radio e televisioni di 52 paesi, con sede a Ginevra, ha fatto pervenire un contributo che io considero decisamente illuminante per i nostri lavori in sede di indagine conoscitiva. Non ve lo leggo, per farvi risparmiare tempo, ma vi invito ad andarvelo a leggere. In esso si conclude che, in realtà, prima del 2010 o del 2012 non succederà nulla.
Consentire poi - come propone il disegno di legge Gasparri - che nella transizione non cambi nulla vuol dire salvare


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il duopolio, magari ancora per due legislature. Eppure, signor ministro, la Corte costituzionale questa volta è stata perentoria: se entro il 2003 non vi sarà una legge che garantisca il pluralismo, Retequattro, dal 1o gennaio 2004, deve, comunque, liberare le frequenze che oggi occupa. Come cautelarsi? Le due geniali invenzioni degli avvocati del Premier finite nella legge stabiliscono, in primo luogo, che una rete digitale che copra con i suoi ripetitori il 50 per cento della popolazione - non importa se non la vede nessuno - ha diritto di essere considerata nazionale e, come tale, conteggiata insieme a tutte le reti nazionali analogiche. Si tratta di una prima ed apparentemente innocente furbizia contenuta nell'articolo 2 dove si raccolgono le definizioni e si sostiene che nazionale è una televisione non locale, quando oggi è nazionale solo una rete che copra almeno l'80 per cento della popolazione. Una rete digitale significa avere dai quattro ai sei canali televisivi, che sommati a quelli analogici esistenti, risolvono il problema dell'antitrust. Nessuno può avere più del 20 per cento delle reti? Dunque oggi che le reti riconosciute sono undici - di fatto dieci, visto che Europa7 non ha mai avuto le frequenze per trasmettere sul territorio nazionale (diventando così l'unico caso nella storia mondiale della televisione di un broadcaster che vince la concessione ma non attiene alle frequenze) - Retequattro è fuorilegge. In ogni caso, con un investimento di un centinaio di miliardi, entro l'anno, si possono mettere in campo dai quattro ai sei canali nuovi, che sommati agli undici fanno quindici o diciassette. Mediaset con le sue tre reti torna nella legalità, l'antitrust è rispettato, Retequattro è salva.
In secondo luogo si stabilisce che l'antitrust non si calcola più sui singoli mercati come oggi, per cui, per esempio, non si può avere più del 30 per cento delle risorse pubblicitarie del mercato radiotelevisivo; non sarà più così poiché dalla legge Gasparri in poi si calcolerà sul totale del sistema integrato delle comunicazioni, il famoso SIC. Si costruisce un paniere nel quale entra di tutto, così ampio da non riuscire neppure ad immaginare a quanto ammonti. Ebbene basterà stare sotto il 20 per cento del SIC - cioè di chissà che cosa - per essere in regola. È imbarazzante scoprire che il SIC è un'invenzione che risale almeno a quindici anni fa. Rileggendo i testi che portarono alla sentenza della Corte costituzionale del 1988 si scopre che furono proprio gli avvocati di Publitalia a propagandare davanti ai giudici della Corte questo sistema di calcolo dell'antitrust. Se poi si vuole sapere chi furono gli avvocati di quella causa, l'onorevole Soda li ha citati: Cesare Previti e l'avvocato Bonomo. Fa impressione leggere le loro parole e metterle a confronto con il testo del disegno di legge Gasparri: sono le stesse, uguali. Fa altrettanto impressione andarsi a rileggere le memorie che i numerosi soggetti auditi dalle Commissioni riunite della Camera ci hanno lasciato; si tratta di parole aspre, dure, se non addirittura sarcastiche, provenienti perfino dalla federazione degli editori. La FIEG scrive: il disegno di legge appare estremamente impreciso sia perché nelle risorse complessive del settore integrato delle comunicazioni sono inserite voci che non appaiono rilevanti ai fini della costituzione di una posizione dominante sia perché le voci stesse sono difficilmente quantificabili nella loro entità.
Più argomentate le perplessità e l'opposizione delle due autorità indipendenti e vi risparmio anche in questo caso la lettura dei loro pareri, ma vi invito ad andarli a rileggere se ancora non l'avete fatto: si tratta di una condanna senza appello del sistema integrato delle comunicazioni.
Durante le molte ore dedicate alle audizioni abbiamo raccolto più di trenta testimonianze autorevoli. Colleghi, pensate forse che il Governo e la maggioranza ne abbiano tenuto conto? Per ora non è stato preso in considerazione neppure l'appello della Telecom a riconsiderare una norma che finisce con l'essere punitiva solo per La7 e Videomusic. Fin qui si potrebbe dire che il Governo fa gli interessi dell'azienda di famiglia e pazienza per il pluralismo e la democrazia dimezzata evocata dal Presidente


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Ciampi nel suo primo messaggio alle Camere. Dov'è il danno per il sistema Italia di cui ho parlato? Semplice: dal momento che in Italia, praticamente, non vi sono frequenze libere, nella legge si sono scritte regole che non consentono ad un nuovo soggetto imprenditoriale di entrare nel mercato del digitale terrestre: infatti se non è già un concessionario, non ha titolo. Inoltre per garantire, comunque, tanti canali digitali si impone per legge alla RAI di fare due blocchi di canali - da otto a dodici nuove televisioni - senza dire con quali risorse, con quali frequenze: questo è un bel problema per il nuovo presidente Lucia Annunziata.
Ma vi è di peggio: ottenuto con un investimento modesto di mettere in campo un canale digitale che risolva i problemi dell'antitrust, non ci sarà più bisogno di correre a completare il tutto digitale. Passare, infatti, da una copertura del 50 per cento ad una del 90 per cento vuol dire passare da 100 a mille miliardi di investimenti e chi avrà più interesse a farlo? Invece di accelerare l'innovazione, la legge finirà con il ritardarla. In merito, è illuminante andare a rileggere quanto ci ha lasciato l'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni in una scheda tecnica allegata alla sua memoria. Vi si legge tra l'altro: «Con tale impianto legislativo la migrazione del sistema televisivo attuale verso un sistema digitale che rispetti le caratteristiche di un piano elaborato nel rispetto delle prescrizioni di cui alla legge n. 66 del 2001 nonché di quanto stabilito da questo stesso disegno di legge appare tecnicamente problematica. La transizione è realizzabile solo a fronte della possibilità di disporre di frequenze libere o liberarabili». Già, peccato che il provvedimento Gasparri non preveda nulla se non la compravendita, e che la nota concluda affermando che il protrarsi del regime di gestione temporanea dello spettro per un periodo che potrebbe durare molti anni potrebbe essere un freno all'effettiva possibilità di realizzare una transizione al digitale in tempi brevi (sono parole dell'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni). E dire che noi avevamo proposto un emendamento sul futuro delle reti analogiche, oggi occupate da Telepiù, che avrebbe consentito, anche rivisto, di poter comunque affidare all'autorità un potere decisionale al fine di mettere davvero in campo un nuovo e vero piano nazionale di assegnazione delle frequenze digitali.
Ancor più illuminante, forse, è mettere a confronto, signor ministro, il testo originario del Governo, depositato il 25 settembre, con quello trasmesso in Assemblea. Ebbene, se prima il Governo ipotizzava di consentire la diffusione di apparecchi utilizzabili con la ricezione di segnali televisivi in tecnica digitale (almeno questo affermava il provvedimento nella sua prima formulazione) nel 40 per cento delle famiglie entro il 31 dicembre del 2004 e almeno nel 70 per cento delle famiglie entro il 31 dicembre 2005, oggi, nel testo finale che ci viene sottoposto, si parla molto genericamente di incentivi, senza fissare alcun obbiettivo temporale. Più chiaro di così il messaggio non potrebbe essere: non ci sono i soldi e, comunque, non si intende trovarli per accelerare il passaggio al tutto digitale.
Inoltre, se prima alla RAI si ordinava di investire in modo da arrivare entro il 1o gennaio 2005 all'80 per cento della popolazione, con l'inclusione di tutti i comuni con più di diecimila abitanti, adesso, nell'ultima versione, ci si ferma ad una generica copertura del 70 per cento entro il 1o gennaio 2005. Anche questo è un bel segnale sulla reale intenzione di questo Governo.
Avviare, sì, il digitale, di gran carriera, perché serve a salvare Mediaset, ma poi lasciare che tutto vada come Dio, pardon, come Berlusconi vorrà. Davanti ad un caso così macroscopico di bulimia mediatica, chi sa che questo Governo non rischi di esplodere come la rana che voleva diventare toro!
Signor Presidente, signor rappresentante del Governo, onorevoli colleghi, il clima politico tra maggioranza e opposizione nel quale abbiamo cominciato il nostro lavoro, prima in Commissione e adesso in Assemblea, non è certo dei migliori; troppi problemi aperti, troppi


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problemi gravi non risolti non contribuiscono a creare ed a mantenere rapporti sereni di confronto. Vi è prima di tutto il conflitto di interessi di cui ho già parlato. Sono trascorsi 600 giorni da quando Berlusconi è al Governo: sono 500 in più di quelli che il premier aveva indicato come necessari per risolvere il suo problemino e quel che è peggio è che la proposta Frattini è ben lontana dal risolvere alcunché.
Vi è poi quel brutto pasticciaccio di via Mazzini: si può ottimisticamente pensare che i Presidenti di Camera e Senato abbiano messo un dito nella falla, ma ci vuole altro per garantire un futuro di equilibrio e di rispetto del pluralismo, anche interno, del servizio pubblico. Ora, è difficile pensare che questi due bubboni aperti non condizionino i nostri lavori.
Per quanto tempo pensate di poter continuare come se tutto rientrasse nella normalità e come se non vi fossero, invece, profonde ferite aperte nel tessuto della nostra democrazia? Questa è la domanda che vi pongo e spero che qualcuno mi risponda. Riflettete su quanto ho avuto modo di sottolineare: se la legge Mammì è stata la fotografia del far west dell'etere, il provvedimento Gasparri è una grave ipoteca del futuro.
Vi chiedo di riflettere sul danno che si farebbe al paese pur di favorire una sola azienda. Grazie per l'attenzione (Applausi dei deputati dei gruppi dei Democratici di sinistra-l'Ulivo, della Margherita, DL-l'Ulivo e Misto-Comunisti italiani).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Lusetti. Ne ha facoltà.

RENZO LUSETTI. Signor Presidente, signor ministro, signor rappresentante del Governo, onorevoli colleghi, come è noto, stiamo discutendo non soltanto del cosiddetto disegno di legge Gasparri, ma anche del conseguente testo unificato predisposto soltanto dalla maggioranza, perché non abbiamo avuto la possibilità di concludere il lavoro in sede di Comitato ristretto e nemmeno di concludere l'esame degli articoli in Commissione perché il passo d'alpino - cito un'espressione del ministro -, che il Governo e la maggioranza ci hanno imposto, non ci ha consentito di proseguire e di discutere, in maniera analitica ed articolata, il provvedimento, così come, in qualità di opposizione avremmo voluto. Tuttavia, siamo alla fase dell'esame in Assemblea e speriamo che il passo da alpino sia più lento, tale da consentirci di discutere con pacatezza e serenità nel merito e sui contenuti.
Questo testo unificato presentato dai due relatori vorrebbe essere una proposta che guarda in avanti per favorire l'innovazione tecnologica e «spingere» l'onda del cosiddetto digitale televisivo. Si tratta di una proposta organica ed innovativa che tuttavia disciplina un mondo che oggi non esiste, come l'onorevole Innocenzi sa molto bene, ovvero il mondo dei media, oltre la frontiera dell'analogico per radio e TV, oltre le barriere settoriali di supporti e mezzi tradizionali - mi riferisco alla carta, alla radio, alla televisione, al cinema, al satellite, cavi ed Internet; un mondo che, secondo la legge n. 66 del 2000, - lo hanno ricordato i colleghi Cardinale e Rognoni -, dovrà esserci nell'anno 2006. Una data, come spesso il ministro ribatte in ogni occasione, che ha voluto il centrosinistra, che oggi è all'opposizione.
Sarebbe assai facile ribattere al ministro, che mi sta ascoltando in questo momento, che l'attuale Governo, come lei sa, sta vanificando, con la sua politica del «si può fare tutto», tutte le battaglie e le conquiste ottenute dal centrosinistra nella passata legislatura. Si possono non pagare le tasse e commettere abusi; si può compiere il reato di falso in bilancio e spostare i processi; tuttavia, l'attuale Governo si ostina a mantenere soltanto una semplice data, fissata dal centrosinistra, il 2006, per il passaggio al cosiddetto sistema digitale terrestre. Il collega Cardinale è stato molto esplicito, nel senso che allora vi erano le condizioni per poter puntare sul 2006; abbiamo, o meglio, avete perso due anni - sono ormai due anni che siete al Governo - e non avete «liberato» le frequenze, o meglio i due blocchi di frequenza, mandando


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Rete 4 e Telepiù nero su satellite; in tal modo non si è potuta compiere nè la sperimentazione, da un lato, né il simulcast, dall'altro. Questo ovviamente ci porta a dover modificare la data che voi vi ostinate a mantenere.
Leggo testualmente i pareri resi dalle Autorità indipendenti quando scrivono «la data del 2006 per il passaggio totale delle trasmissioni televisive terrestri dall'attuale tecnologia a quella digitale, tenuto conto dei ritardi nella relativa sperimentazione, appare assai poco realistica». Il presidente relatore Romani sa molto bene tutto ciò, perché ha ascoltato queste parole quando l'Antitrust le ha rese in sede audizione in Commissione.
Io rivolgo una proposta al ministro o all'onorevole Innocenzi, perché la riferisca al ministro: ci attribuisca nuovamente questa data del 2006, perché noi non avremo nessun problema oggi a prorogarla al 2010 o anche oltre, se necessario. È una proposta che faccio perché questo disegno di legge, così come è stato modificato in pochissime parti, mentre disciplina il nuovo, lascia il vecchio e resistente mondo allo stato in cui è. A noi non sta bene!
Come farà ad attecchire e a prosperare l'innovazione in un settore dove la concentrazione RAI-Mediaset della raccolta pubblicitaria raggiunge il tasso del 96,8 per cento? Mi sembra un po' tanto.
Per quanto riguarda l'innovazione, signor ministro, credo si tratti di un valore che deve essere associato alla competizione: senza competizione, non esiste l'innovazione e non esiste il mercato. Ma non eravate voi che in campagna elettorale dicevate a tutti gli italiani: il mercato deve essere liberalizzato? Non vedo grandi atti del Governo che vadano in questa direzione. Soprattutto, lo dicono i fatti e la storia di 15 anni di televisione in Italia. Oggi, ministro e colleghi, vi sono già i canali televisivi nazionali, vi sono già 12 concessioni nazionali eppure non c'è pluralismo e non c'è nemmeno il mercato. Anzi, se nel 1992 l'audience share di RAI e Mediaset era pari all'89 per cento, a fine 2001 questo ha raggiunto il 90,2 per cento. Questi dati parlano molto chiaro. Il disegno di legge Gasparri non fa distinzione, all'interno degli operatori televisivi, tra canali finanziati con pubblicità o con abbonamento e pone il vincolo sul numero di canali televisivi del 20 per cento indistintamente. Per non parlare poi, signor ministro, dello sbarramento del 20 per cento non più legato alla percentuale di autorizzazioni, ma alla massima quota di mercato in termini di fatturato che un singolo operatore può raccogliere.
Per quanto riguarda quello che viene definito il sistema integrato delle comunicazioni, vorrei far rilevare una semplice contraddizione, anzi, una finezza semantica molto abile, come sa l'onorevole Innocenzi. All'articolo 2 si parla del sistema integrato delle comunicazioni e all'articolo 15 si parla del settore integrato delle comunicazioni. Non svolgerò questo argomento nel merito, perché vi sarà tempo domani, quando esamineremo gli emendamenti ed io non ho fretta, però vorrei sottolineare in maniera molto precisa e puntuale la finezza semantica tra «sistema» e «settore» integrato delle comunicazioni, e vorrei capire quale sia la dietrologia che ha animato il Governo e la maggioranza.
In conclusione - almeno per quanto riguarda questa prima parte, poiché ho ancora qualche minuto a disposizione -, le preoccupazioni per gli assetti concentrati nel settore delle comunicazioni non sembrano trovare una risposta adeguata in questo testo unificato che i relatori hanno illustrato. Dietro un linguaggio moderno troviamo molti cancelli, ma tutti rigorosamente aperti. In Commissione, come sanno il ministro e il sottosegretario, abbiamo cercato di stringere le maglie di questa legge, ma abbiamo avuto poca udienza; anzi, sul piano concreto, a volte, sembrava quasi di discutere di una legge costituzionale.
Prendo atto che il relatore Romani ha manifestato qualche apertura - se ho ben capito la sua relazione - sui limiti asimmetrici per la proprietà congiunta di radiotelevisioni e quotidiani. Devo anche dire - non so quanto serva, ma speriamo che serva - che c'è un'ovvia considerazione


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da fare: la sproporzione tra i mezzi che occorrono per l'esercizio dell'attività editoriale e di quella televisiva rende assai più probabile che l'abolizione dei limiti di cui il ministro si è fatto vanto in più occasioni favorisca l'ingresso degli operatori televisivi nel settore della stampa che non l'inverso. Quindi, prendo atto che c'è un'apertura in questo senso, anche rispetto alla cosiddetta norma ad hoc, meglio definita norma anti-Telecom, perché questo progetto di legge non trascura di predisporre strumenti per impedire che determinati soggetti, che già occupano posizioni dominanti in specifici mercati, rafforzino tale posizione con l'ingresso nel settore integrato delle comunicazioni, così come dice il comma 3 dell'articolo 15.
Potremmo continuare a lungo su questo tema, però vorrei utilizzare il tempo che mi rimane per fare due osservazioni che finora non sono state considerate in maniera abbastanza definita. La prima riguarda le televisioni e le radio locali. So che si tratta di un tema sul quale il ministro è molto sensibile, non solo da quando è ministro, ma anche da prima. Mi attendo una risposta da lei, signor ministro, durante il corso di questo lungo dibattito che andrà avanti nei prossimi giorni, nelle prossime settimane e nei prossimi mesi.
Questo testo unificato di riforma del sistema radiotelevisivo delinea scenari fortemente penalizzanti per il pluralismo, l'autonomia e la concorrenzialità delle imprese televisive locali. Il disegno di legge Gasparri, infatti, contiene norme finalizzate ad una drastica riduzione del numero delle emittenti operanti e, in ogni caso, ad una marginalizzazione delle piccole e medie imprese del settore.
Mi preoccupa, inoltre, che questo disegno di legge non preveda norme di principio anche per l'emittenza comunitaria che, proprio perché espressione di particolari istanze culturali, religiose, politiche o etniche, rappresenta una forte caratterizzazione di pluralismo informativo (salvo poi far passare qualche proposta emendativa del gruppo della Lega, com'è accaduto un paio di leggi finanziarie fa, che magari serviva per qualche televisione di proprietà di qualcuno, ma ovviamente ci siamo capiti molto, molto bene).
Inoltre, la normativa antitrust, introdotta da questo testo unificato, non offre alcuna garanzia rispetto alla possibilità, per le grandi reti televisive, di controllare, attraverso la raccolta pubblicitaria, anche il settore televisivo locale. Anche qui le prospettive per il passaggio al digitale da parte delle emittenti televisive locali appaiono assolutamente incerte, perché, come ho sempre affermato, non si favorisce la sperimentazione.
Infine, l'emittenza locale rappresenta un importante ed insostituibile patrimonio per il nostro paese, come il Governo sa, e, dunque, merita di essere valorizzata ed incentivata attraverso un complesso di norme che garantiscano effettivamente il pluralismo, l'autonomia e la concorrenzialità. In questo senso, abbiamo predisposto tante preposte emendative che illustreremo (o illustrerò) opportunamente in fase di esame dell'articolo 7 o degli articoli riguardanti l'emittenza televisiva locale.
Vorrei svolgere alcune osservazioni sulla radiofonia. Colleghi, nonostante alcuni correttivi della Commissione - il collega Romani lo sa molto bene -, il disegno di legge risulta fortemente carente per quanto riguarda gli aspetti radiofonici. Si parla spesso dell'importanza della radio, ma, alla prova dei fatti, come nel caso di questo provvedimento, la si relega ai margini del sistema e si tende a disciplinarla come un omologo inferiore della televisione.
La radiofonia pubblica e privata svolge un ruolo insostituibile nella nostra società e credo colleghi che anche voi, che girate spesso in automobile per l'Italia, per i collegi elettorali, sappiate quanto sia importante il sistema radiofonico per il nostro paese; infatti, poco meno di 36 milioni di cittadini ascoltano ogni giorno la radio (onorevole Elio Vito, vedo che è sorpreso, ma è un dato che ha qualche legittimazione scientifica). Credo che, con certa vivacità, la radio sia a portata di mano proprio perché è l'unico mezzo di comunicazione mobile e gratuito e ci intrattiene


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durante tutte le fasi della nostra vita quotidiana. Ecco perché gli italiani l'ascoltano mediamente per oltre tre ore al giorno e, a volte, molto più della televisione.
La radio rappresenta un importante settore dell'editoria e della comunicazione e, secondo stime attendibili, oltre seimila sono gli addetti diretti, senza contare quelli che si occupano della parte tecnica e l'indotto. Si tratta, in genere, di figure professionali molto importanti: giornalisti, artisti, informatici e quant'altro. La radio è fortemente radicata nel paese, non solo attraverso emittenti commerciali, locali e nazionali, ma anche attraverso le emittenti comunitarie di cui ho parlato precedentemente. Ecco perché chiediamo che il settore della radio sia disciplinato con maggiore attenzione per dare un futuro a questo mezzo così importante.
Per questo, signor ministro, abbiamo predisposto una serie di proposte emendative che devono indurci a considerare la radiofonia come un aspetto molto importante, quasi fondamentale (come quello della televisione) per lo sviluppo ed il riordino del settore radiotelevisivo.
Concludendo sul tema della RAI, credo che la cosiddetta privatizzazione della RAI - o, meglio, quella che viene presentata come tale, ma che, in realtà, vuole mantenere tutto com'è per un tempo indefinito - sia, in questo provvedimento, una falsa privatizzazione: si crea un mostro pubblico-privato...

PRESIDENTE. Onorevole Lusetti...

RENZO LUSETTI. ...di gestione societaria, con un consiglio di amministrazione nominato dal Governo e con un presidente che potrebbe non essere mai nominato.
In sostanza, credo non si possa approvare il testo così com'è. Mi auguro che, in questo Parlamento, nel corso dell'esame delle proposte emendative presentate agli articoli, vi sia un confronto reale e non viziato da pregiudizi ideologici. Se questo confronto leale vi sarà, allora riusciremo a fare una buona legge per il paese (Applausi del deputato Cardinale).

PRESIDENTE. È iscritta a parlare l'onorevole Bellillo. Ne ha facoltà.

KATIA BELLILLO. Signor Presidente, signor ministro, onorevoli colleghi, non è un caso che il provvedimento sul riassetto del sistema radiotelevisivo pervenga all'esame dell'Assemblea in parallelo con una delle crisi più gravi che il sistema pubblico abbia mai conosciuto.
Solo pochi giorni fa, Lucia Annunziata - una donna ed una grande professionista, su questo non v'è alcun dubbio - è stata nominata presidente della RAI. Tuttavia, permane un pesante squilibrio all'interno dei vertici del servizio pubblico, per cui il presidente, per quanto autorevole, rischia di restare prigioniero di un blocco dirigenziale che fa riferimento, tutto, alla maggioranza di Governo.
Il clima in cui si colloca questa discussione non favorisce un confronto costruttivo. È impossibile discutere su chi e come debba guidare la televisione pubblica quando il conflitto di interessi tra il Premier e le sue televisioni incombe come un macigno sulla vita democratica del paese. Ma quelle del pluralismo e della democrazia nel sistema dei media sono questioni che, andando anche oltre lo stesso conflitto di interessi, riguardano il perno di una moderna democrazia post-industriale: la libertà di informazione.
Ormai, dobbiamo chiederci se, in Italia, si possa ancora parlare di democrazia perché se questa si fonda sulla divisione dei poteri, ma anche sulla rigida distinzione tra l'economia, l'insieme della magistratura e l'informazione, è il caso, forse, di cominciare a parlare di nuovo regime considerato che tutti i poteri sono nelle mani del Presidente del Consiglio, che lo stesso Parlamento è stato svuotato delle sue funzioni di controllo sull'esecutivo e che anche la Costituzione viene svuotata in modo sistematico: tutto per salvaguardare interessi di parte e potere personale, mentre si vuole far credere agli italiani che questo Governo sta lavorando per loro!
Oggi, discutiamo di un provvedimento che, come di consueto, viene presentato esaltandone il carattere innovativo: esso


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promuoverebbe un vero rivolgimento nel campo dell'informazione; in realtà, la filosofia che lo ispira è quella di cambiare tutto per mantenere le cose come stanno, anzi per rafforzare l'unico vero padrone dell'informazione: il Presidente del Consiglio.
Intanto, Freimut Duve, rappresentante dell'OSCE per la libertà di stampa, apprestandosi a dare battaglia, sul conflitto di interessi, nel semestre di Presidenza italiana dell'Unione europea, rileva, con grande preoccupazione, che il 90 per cento dei media, in Italia, è controllato dal Premier: una situazione analoga a quella bulgara!
Guardando in direzione della futura Costituzione dell'Europa, Duve ci dice che, naturalmente, si deve pensare ad un orientamento comune dei paesi membri. Il Governo italiano viola non solo l'articolo 21 della costituzione, ma anche l'articolo 7 del trattato di Maastricht!
Si discute di un testo che vuole riordinare il sistema radiotelevisivo in Italia e, tuttavia, ci si dimentica che tale sistema costituisce una anomalia così pesante da rischiare di mettere in discussione i principi della dialettica democratica. Infatti, il Presidente del Consiglio è proprietario del principale gruppo televisivo italiano (e questo lo sanno tutti) e detiene un ampio controllo del sistema dell'editoria (settimanali, periodici, libri) e della distribuzione cinematografica.
Non è con una presidenza, seppure autorevole, della RAI che si risolve il conflitto di interessi, né tantomeno con una legge come quella sul conflitto di interessi che non si capisce se è ridicola o offensiva, tale è la sua inutilità di fronte al problema che dovrebbe affrontare.
La legge sul sistema televisivo sulla quale stiamo discutendo non affronta i problema di un monopolista privato che, di fatto, chiude da decenni qualunque possibilità di espansione del settore privato dell'informazione. Come ha detto bene il Presidente della Repubblica Ciampi nel suo messaggio alle Camere dello scorso anno sull'informazione, esiste un pluralismo esterno ed uno interno. Il pluralismo esterno è quello della molteplicità dei soggetti che operano nelle comunicazioni, della possibilità che vi siano tante voci a fornire informazioni, intrattenimento, modelli culturali. In Italia questo non accade: abbiamo il servizio pubblico da una parte, il monopolio di Mediaset dall'altra. Chi come La 7 ha provato ad entrare dall'ingresso principale del mondo della comunicazione TV si è ritrovato pesantemente ridimensionato. Oggi la raccolta pubblicitaria televisiva continua a nuotare in gran parte nella galassia che fa capo alle società del Presidente del Consiglio, e questo è uno dei grandi nodi che vengono elusi dalla proposta del Governo.
Con questa legge rimane lo statu quo, viene introdotta la definizione di sistema integrato delle comunicazioni, ma si tratta di un escamotage per allargare a dismisura i parametri di riferimento per l'applicazione della soglia antitrust definita in un indeterminato 20 per cento del totale. In esso si fa confluire di tutto: proventi dell'editoria libraria, fatturati di vendita di dischi e film, raccolta pubblicitaria. Sono settori diversi per mercati diversi con dinamiche assolutamente diverse. Servono invece dei precisi limiti antitrust per porre un preciso freno alle posizioni dominanti. Sono queste che soffocano la libertà degli altri soggetti e che costringono l'Italia in regime ventennale di duopolio televisivo.
La cappa di piombo del conflitto di interessi agisce come un maglio anche sul pluralismo interno, il termine con cui il Presidente Ciampi definiva l'autonomia e l'indipendenza delle redazioni, di coloro che materialmente devono garantire il pluralismo dell'informazione. Chi lavora in un clima di monopolio sente il fiato del padrone sul collo; quando il padrone è uno solo e controlla in modo diretto e indiretto anche il servizio pubblico allora è facile che scattino le censure e le autocensure. Una democrazia moderna non può vivere senza una libera informazione, senza un sistema delle comunicazioni aperto e plurale.
Il Governo con questa legge annuncia la riforma della RAI; per la prima volta viene stabilito il coinvolgimento dell'esecutivo


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nella nomina dei vertici aziendali. Altro che pluralismo! Altro che liberismo! La parola libertà viene usata solo quando lo chiedono le esigenze del marketing politico. Noi crediamo nel servizio pubblico, crediamo occorra un'azienda pubblica moderna, forte, competitiva, e, al tempo stesso, non subalterna alle logiche del mercato.
Abbiamo avanzato una proposta per la riforma della RAI: una fondazione pubblica che garantisca l'autonomia di gestione e allo stesso tempo il rispetto delle funzioni pubbliche e la garanzia del pluralismo. Il Governo risponde con una sorta di falsa privatizzazione che gli consente di mettere sotto il suo diretto controllo i vertici dell'azienda pubblica.
Questa legge interviene anche su alcuni punti apparentemente condivisi. Anche il centrosinistra lavorava per il superamento del divieto di incroci tra stampa e TV, ma a chi possiede tre televisioni non può essere concesso di scalare la proprietà di quotidiani, grandi o piccoli che essi siano.
Infine, l'innovazione, la transizione del sistema delle comunicazioni alla tecnologia digitale, con tutte le rivoluzioni tecnologiche, può essere occasione di sviluppo, di democrazia, di partecipazione, oppure, se mal governata, può diventare un buon boccone per affaristi di vecchi e nuovi monopoli. Se l'avvento del digitale deve essere opportunità di sviluppo e crescita democratica del sistema allora serve una politica che guidi i processi di innovazione e non dei provvedimenti che mettono al riparo le grandi aziende monopolistiche dai rischi della modernizzazione per poi accedere facilmente senza rischi ai benefici delle nuove tecnologie.
Per noi Comunisti italiani questa legge è inaccettabile. È costruita su misura per garantire e perpetuare gli interessi delle aziende che fanno capo al Premier e va nella direzione opposta alle esigenze di libertà e pluralismo di cui il nostro paese ha un disperato bisogno. È un'altra di quelle leggi che ci fanno scivolare lentamente (forse non tanto lentamente) verso una nuova e inedita forma di regime.

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Tidei. Ne ha facoltà.

PIETRO TIDEI. Signor Presidente, onorevoli colleghi, il periodo che stiamo vivendo è ricco di colpi di scena relativi alla RAI, tanto che il dibattito appena iniziato sulla cosiddetta riforma Gasparri si inserisce in un clima agitato e certamente non tranquillo.
Le responsabilità politiche della maggioranza al riguardo sono pesanti: si deve, infatti, soprattutto ai «falchi» del centrodestra se Paolo Mieli, alta personalità di garanzia designata a presiedere il consiglio d'amministrazione della RAI, è stato costretto a dimettersi, fatto bersaglio di una ruvida campagna offensiva. Le idee liberali che lo animano e gli intenti dichiarati di restituire a Biagi e Santoro la loro collocazione in RAI, da cui erano stati estromessi perché sgraditi al Presidente del Consiglio, hanno infastidito e turbato i disegni del Governo, circondando Mieli di difficoltà ed inducendolo, ovviamente, ad andarsene. Questo è stato l'ultimo episodio di una strategia di assalto alla RAI pubblica, che si è deliberatamente voluto sottoporre alla gestione indiretta di Berlusconi, a sua volta padrone di tre reti televisive.
Mi sia consentito di esprimere, tuttavia, i miei auguri di buon lavoro alla dottoressa Annunziata - di cui riconosciamo la notevole professionalità, l'autonomia di pensiero e la forza di carattere -, designata presidente del consiglio d'amministrazione della RAI dai Presidenti delle Camere, su proposta dell'onorevole Casini. Si tratta di una professionista che, seppur estranea alla rosa di candidati formulata dall'Ulivo, possiede le qualità per assolvere al prestigioso compito che le è stato assegnato, e mi auguro che i fatti lo possano confermare. Sono altresì convinto che la dottoressa Annunziata non solo saprà resistere alle pressioni governative e di parte, ma si adopererà per ripristinare un clima interno di apertura e di collaborazione verso tutti, riconoscendo le capacità di ognuno ed assicurando a tutti la libertà di opinioni e di confronto.


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È ripetutamente detto che oggi l'Italia ha un regime di duopolio nel quale il proprietario di Mediaset, anche nella sua condizione di Presidente del Consiglio, interferisce sulle scelte e la programmazione della RAI. Si tratta di una situazione scandalosa - anche questo è stato detto -, unica in Europa e nel mondo, frutto del perdurante conflitto di interessi, esempio sbalorditivo di arroganza e di prepotenza senza eguali, che colpisce al cuore l'articolo 21 della Costituzione repubblicana, il quale deve assicurare e garantire la libertà di opinione, informazione e critica.
Nelle sue dichiarazioni postelettorali, l'onorevole Berlusconi aveva annunciato al Parlamento che nei primi 100 giorni di Governo avrebbe avviato a soluzione alcuni fondamentali problemi, tra cui il conflitto di interessi; ma i giorni sono diventati mesi, e tra poco saranno trascorsi due anni dal voto di maggio, ed il conflitto di interessi non è stato né risolto, né sanato, continuando a costituire uno scoglio che intralcia la vita democratica, che ostacola un reale pluralismo e che impedisce il pieno rispetto della Costituzione. Il tempo, in verità, non è mancato; è mancata, invece, la volontà e la disponibilità del Presidente del Consiglio e del centrodestra di dare soluzione a questo delicato e nevralgico problema, sorgente di continue contrapposizioni in Parlamento e nel paese.
La vicenda della RAI rappresenta una questione nazionale di libertà e di democrazia, trattandosi della più grande centrale di informazione e di cultura, nella quale devono essere assicurate il pluralismo, le diversità di pensiero ed il confronto delle posizioni, senza preclusioni o pregiudiziali, attraverso la qualità del prodotto. Per questo motivo, abbiamo espresso il nostro apprezzamento al Presidente della Repubblica, che ha inviato il suo unico messaggio al Parlamento scegliendo come argomento il pluralismo dell'informazione radiotelevisiva ed il corretto adempimento dei doveri previsti dall'articolo 21 della Costituzione.
Concordiamo, dunque, con la necessità di procedere ad una riforma del sistema radiotelevisivo che realizzi i valori indicati dal Capo dello Stato e che sia possibilmente condivisa da tutte le forze politiche. Una tale riforma - per memoria di chi dimentica facilmente, o ha l'abitudine a mistificare i fatti - si sarebbe potuta discutere ed approvare nella passata legislatura se il centrodestra, come è stato già detto, non avesse armato un'ostinata opposizione ed un ostruzionismo che ostacolarono e fecero fallire la proposta del centrosinistra.
La riforma Gasparri a quali finalità corrisponde? È in sintonia con i principi ed i valori esaltati dal Presidente della Repubblica nel suo messaggio? La bandiera della concentrazione delle frequenze verrà demolita per aprire il mercato ai vari soggetti imprenditoriali, ed il contesto competitivo sarà finalmente dilatato?
Andremo al superamento del duopolio? Il processo che si aprirà quanto durerà? Quali saranno i tempi? L'Italia - e questa è una domanda che molti si pongono - potrà finalmente avere un sistema informativo rispettoso delle direttive europee e coerente con la concezione riformata dello Stato come emerge dal nuovo titolo V della Costituzione?
Il ministro Gasparri non sembra preoccuparsi più di tanto del presente; la sua riforma guarda al futuro che è ipotizzato con ricchezza di canali e di reti e rimanda a questa futura stagione le regole antitrust e la soluzione della carenza vigente del pluralismo. Bisogna quindi capire bene che cosa è la transizione, il passaggio cioè dal regime esistente a quello futuro fissato ipoteticamente al 2006, quando il sistema radiotelevisivo dovrebbe essere tutto digitale.
Esiste sicuramente un problema di accelerazione dei processi di innovazione del sistema al fine di impedire che a prevalere possano essere ancora gli interessi aziendali consolidati; ma le innovazioni tecniche che tutti vogliamo, il progresso tecnologico, che è indispensabile per un traguardo di sostanziale mutamento del sistema dell'informazione, esige un progetto ben definito nei tempi di transizione, nei


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passi che vanno compiuti e nella creazione di condizioni migliori per la gestione transitoria.
Questo, dunque, è un punto da approfondire che non può essere recepito con superficialità, come quella che si percepisce nel provvedimento Gasparri, tenendo conto di quanto sta avvenendo in tutti i paesi europei e sta emergendo dalle statistiche illuminanti pubblicate che indicano che sono pochi i paesi che ritengono di potersi rinnovare tecnicamente entro il 2006.
È bene a questo punto ricordare che il contesto nel quale si colloca questo dibattito non solo è mutato politicamente ma è condizionato da avvenimenti di grande importanza che si sono verificati e che incidono sulla regolamentazione del sistema radiotelevisivo. Innanzitutto, le nuove direttive dell'Unione europea, a cui ci si deve richiamare affinché il provvedimento in discussione sia con queste coerente; il decentramento legislativo previsto dal nuovo titolo V della Costituzione, nonché l'avvio del passaggio verso le tecniche di trasmissione in digitale terrestre.
Preliminarmente è, quindi, necessario verificare se il progetto di legge in esame corrisponda al nuovo quadro determinato dai tre eventi prima ricordati; al riguardo vi sono alcune osservazioni pertinenti, mosse dal presidente dell'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, che devono farci riflettere perché con esse si fa cenno ai dubbi che suscita il provvedimento Gasparri, all'opportunità di effettuare verifiche, a profili che non convincono, ad approfondimenti ulteriori da compiere e così via, fino a ritenere tecnicamente problematica la migrazione del sistema televisivo attuale verso un sistema digitale.
È una posizione autorevole ed inquietante quella che viene espressa, che frena molto l'ottimismo del ministro e ci richiama ad una lettura attenta e responsabile di questa parte nevralgica dell'intero impianto del sistema. Non vorrei che il ministro Gasparri non avesse preso troppo sul serio queste osservazioni, limitandosi a considerare le forme in cui sono espresse anziché la sostanza che contengono. Non si tratta, infatti, di dettagli ma di punti qualificanti.
Noi riteniamo quindi che queste osservazioni vadano prese sul serio e che possano essere oggetto di emendamenti nell'auspicio che il ministro, accogliendoli, ne riconosca la fondatezza dando così al provvedimento in esame una sicurezza e una forza maggiori. Tanto più è vero questo nostro giudizio se alle opinioni, espresse dal presidente dell'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, si aggiungono quelle dell'Antitrust, ascoltate con fastidio dal ministro e liquidate bruscamente come estranee alla competenza dell'Autorità garante della concorrenza e del mercato.
Onorevole Presidente, nel merito, la riforma Gasparri, a giudizio di molti costituzionalisti, viola il principio del pluralismo informativo, contenuto nell'articolo 21 della Costituzione e nell'articolo 10 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo, eliminando ogni limite alla concentrazione, depotenziando i limiti dell'Antitrust, abolendo per la televisione i limiti settoriali del 30 per cento del mercato ed introducendo un mercato di riferimento più ampio - il SIC, cioè il sistema integrato delle comunicazioni - a cui si dovrà applicare il limite del 20 per cento.
Con il provvedimento in esame, i soggetti che già godono di una posizione dominante potranno crescere ancora, mentre per il servizio pubblico si prospetta la soppressione della funzione riequilibratrice del pluralismo informatico con la promessa, lontana e futura, di un maggiore pluralismo una volta che sarà introdotto il sistema digitale terrestre. Due pesi e due misure, come si vede: a chi subito, e a chi domani.
Il ministro Gasparri, poi, per assicurare agli editori di giornale di entrare nel settore della televisione - che è una scelta giusta da condividere - consente, altresì, senza alcuna differenziazione, che i grandi e i piccoli imprenditori televisivi possano entrare senza alcun bilanciamento nel mercato dei quotidiani. Che fine hanno fatto, a tal proposito, le indicazioni contenute


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nelle sentenze della Corte costituzionale, in particolare, nella decisione n. 420 del 1994 sulla necessità di porre limiti settoriali e intersettoriali totalmente dimenticati?
Onorevole Presidente, il progetto in discussione rischia di rimanere velleitario, propagandistico o, peggio, strumentale, se non si scioglie, in primo luogo, il nodo delle frequenze, che oggi non ci sono. Senza frequenze, infatti, il Governo come potrà sostenere le sfide del 2006, della trasformazione digitale e della dilatazione della competizione pluralista? La politica degli acquisti previsti dalla legge n. 66 del 2001 non può certamente bastare, per cui il ministro prospetta la compravendita delle frequenze su base nazionale. Sarà, quindi, Murdock a vendere Telepiù, Stream, una o ambedue le reti? E a chi? Ad un solo soggetto? Su questo punto va fatta chiarezza in Parlamento per sapere come stanno effettivamente le cose, se in merito esistano già gli accordi con Mediaset e se sarebbe la preferita in caso di vendita di queste reti.
Ormai, siamo abituati a tutto e, pur volendo escludere un disegno già concordato di questo tipo, non possiamo ignorare né dimenticare che in altre circostanze, purtroppo, siamo stati sorpresi dalla realtà. Riteniamo che il Parlamento debba contrastare e combattere ipotesi come questa, stabilendo il criterio che i soggetti che detengono e controllano reti analogiche non possono essere destinatari di altre reti e, comunque, semmai di non più di una sola.
Se, infatti, il passaggio dall'analogico al digitale deve aprire il mercato al pluralismo, a nuovi soggetti, non si può consentire che Berlusconi e la Mediaset ingrandiscano il patrimonio delle loro frequenze. Sarebbe assai grave se in fondo questa legge, come già altre, fosse funzionale agli interessi di una famiglia, a salvare Retequattro, cambiando il meno possibile e lasciando inalterati gli equilibri attuali.
Se così dovesse accadere, la battaglia sarà lunga ed accanita e penso che non vi sarà facile asservire, ancora una volta, la funzione legislativa del Parlamento agli interessi privati di Berlusconi.
L'altro nodo da sciogliere - e concludo - è il costo della trasformazione digitale. Quanto costerà l'operazione e chi dovrà pagare? Lo Stato, ad esempio, che è interessato a questo progetto di modernizzazione, resterà a guardare o assumerà nei modi da definire una parte degli oneri necessari? O dovrà essere, come sembra, solo la RAI a sopportare la spesa della trasformazione digitale che interessa 35 milioni di apparecchi TV? E Mediaset rimarrà estranea? Non interverrà con le sue risorse a fare la sua parte?
La legge su questi punti è evasiva, non dice quasi niente e si limita a ripetere che l'esperienza digitale sarà garantita dalla pubblicità. Francamente, secondo noi, questo è troppo poco.
Chiediamo al ministro di mettere il Parlamento nella condizione di essere consapevole di tutti gli aspetti di questo processo.
Concludendo, onorevole Presidente, con questo intervento ho segnalato all'Assemblea alcuni aspetti di un tema complesso sul quale molti saranno i contributi dei colleghi.
Insisto sull'esigenza che la Camera dei deputati dia al paese una legge organica di sistema dell'informazione e della comunicazione, per consentire adeguati ed equilibrati flussi di informazione e di opinioni, come indicato - lo ripeto - nel messaggio del Presidente della Repubblica. Mi riferisco ad una legge che garantisca il principio della par condicio all'intero circuito mediatico pubblico e privato sotto la vigilanza del Parlamento e delle autorità indipendenti (Autorità per le garanzie nelle comunicazioni ed Autorità antitrust).
Una legge, per corrispondere alle esigenze di libertà e di democrazia del popolo, deve essere spogliata di ogni interesse personale o di parte, deve resistere a pressioni che possano provenire da più parti del sistema e disegnare il nuovo in base agli interessi generali del paese e di tutte le sue espressioni.


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PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Sanza. Ne ha facoltà.

ANGELO SANZA. Signor Presidente, signor ministro, signor sottosegretario, onorevoli colleghi, il provvedimento di riforma del sistema radiotelevisivo risultante dall'esame congiunto di numerose proposte di legge, primo fra tutti il disegno di legge Gasparri, ha un impianto normativo assolutamente innovativo che guarda al futuro ed alla rivoluzione digitale in un'ottica di avanzato federalismo. I principi fondamentali su cui si basa, infatti, sono costituiti da sostanziali novità di metodo volte alla tutela degli utenti, alla concorrenza, alla garanzia del pluralismo ed al divieto di posizioni dominanti.
Pertanto, è un provvedimento che coglie appieno la sostanza del messaggio rivolto alle Camere lo scorso 23 luglio dal Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi che ha costituito, tra l'altro, un ulteriore stimolo per varare con più rapidità il progetto sul quale la Casa delle libertà stava già lavorando da tempo. Infatti, l'invito del Capo dello Stato a definire una nuova disciplina in materia di radiodiffusione non è stato disatteso in quanto vengono tutelati al massimo grado i principi della garanzia, della libertà di espressione, dell'obiettività, della completezza, dell'imparzialità dell'informazione, nonché della tutela della concorrenza e del mercato e della salvaguardia dei minori. Proprio su quest'ultimo tema vorrei plaudire al lavoro svolto dalla collega Giovanna Bianchi Clerici che, portando in Commissione un contributo serio, ha innovato significativamente il provvedimento originario.
Nel corso dell'esame presso le Commissioni lo spirito con il quale la maggioranza ha portato a termine l'iter del provvedimento è sempre stato di massima apertura e di dialogo accogliendo, infatti, diverse proposte emendative dell'opposizione e dimostrando, pertanto, ampia disponibilità nella formulazione di un testo che non è mai stato considerato blindato dalla maggioranza se non con riguardo ad alcune contestazioni, che consideriamo eccessive, per posizioni preconcette assunte dall'opposizione. Se, come la maggioranza ed il Governo hanno più volte detto, la discussione sulla proposta di legge non è blindata ma aperta al confronto con l'opposizione ed alle diverse osservazioni non si devono porre posizioni di principio precostituite quali quelle che abbiamo ancora una volta ascoltato questa sera in aula.
Mi sembra che da parte dell'opposizione si voglia ancora una volta sottilmente insinuare una tesi: attraverso il digitale terrestre volete salvare la situazione esistente, tanto il digitale non si svilupperà mai o, almeno, avrà tempi di realizzazione talmente lunghi da perpetrare, di fatto, la situazione esistente. Questo non è vero: lo diciamo con forza, lo abbiamo detto in tutte le sedi, lo ha ripetuto più volte il relatore di questo provvedimento nelle tante riunioni delle Commissioni congiunte. Mi sembra che lo abbiamo spiegato bene tutti gli operatori del settore ascoltati nelle audizioni. Si rischia di affossare una legge relativa alle più significative innovazioni tecnologiche che possono avvenire nel nostro paese per mera speculazione politica.
A me sembra - lo voglio dire con franchezza - di assistere ad un paradosso, come ha denunciato, a volte, anche il ministro.
Chi vuole davvero l'innovazione del sistema attraverso la rapida e decisa introduzione del digitale viene accusato di voler conservare l'esistente e, al contrario, chi sostiene che il digitale non si può realizzare (e quindi nella sostanza lascia la situazione immutata) lo fa adducendo di essere il vero sostenitore del cambiamento del sistema. Il paradosso è ancora più grottesco dato che appena 18 mesi fa chi oggi dichiara scetticismo sul digitale cantava vittoria all'indomani dell'approvazione della legge n. 66 del 2001, quale passo decisivo per la trasformazione tecnologica del sistema. Si è detto più volte in questi giorni (è stata accusata la maggioranza e anche il Governo) che con la favola del digitale si vuole rendere definitiva una situazione transitoria sull'analogico, ignorando tutte le indicazioni della


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Corte. Anche questo non è vero, se si considera che la stessa Corte, nella sua recente sentenza, ha affermato che un anno (l'anno iniziato) è più che sufficiente al legislatore per determinare le modalità della definitiva cessazione del regime transitorio. Ed è proprio questo l'intento del disegno di legge governativo - se non si usa, come al solito, malafede e pregiudizio -, cioè quello di indicare le modalità attraverso le quali si possa il più rapidamente possibile, con determinazione ma anche con realismo e obiettività, esaurirsi il regime transitorio, attraverso il passaggio dall'analogico al digitale. Si tratta quindi di una legge che vuole inviare un segnale deciso, proprio per superare quell'indicazione che la Corte ha espresso su un corpo normativo - è bene non dimenticarlo - approvato da una maggioranza diversa da quella attuale, approvato da quelli che sono sembrati in qualche modo fare il tifo affinché la Corte dichiarasse incostituzionale quella stessa legge da essi sostenuta.
Ritengo purtroppo che ancora una volta le contrapposizioni politiche e le speculazioni ideologiche rischino di compromettere un confronto sereno sul merito del provvedimento e che dimostrino quindi di non voler condividere un quadro di vero e reale cambiamento. Ma come - ci chiediamo -, ci viene prospettata una situazione in cui, nell'arco di tre o quattro anni, vi sarà una moltiplicazione di soggetti e di offerte (e quindi verrà sensibilmente ampliato il pluralismo e si articoleranno le diverse vocazioni dell'emittente, con la nascita di nuovi operatori di rete e di servizi e con milioni di italiani che saranno coinvolti in una straordinaria alfabetizzazione telematica ed interattiva) e di fronte a tale prospettiva si sente dire: no, perché così rimane la situazione odierna, una situazione immutata. Ma davvero - ci chiediamo - qualcuno ritiene che il prezzo del salto tecnologico di un intero paese sia sacrificabile sull'altare del mantenimento o meno delle trasmissioni di un'emittente, Retequattro (che peraltro in questi anni ha meritato tutto il pubblico che ha)? Ma davvero - ci chiediamo ancora - si ritiene che il miglior modo possibile di cambiare e innovare il sistema televisivo italiano sia quello di ostinarsi a spegnere un canale televisivo anziché di farne nascere altri cento e di operare con essi un'innovazione tecnologica radicale del nostro sistema radiotelevisivo? Perché allora questo non è stato fatto quando l'attuale opposizione disponeva di una maggioranza per modificare in questa direzione l'articolazione del sistema? Al riguardo, devo apprezzare l'onorevole Rognoni, il quale poc'anzi ha fatto questa autocritica. Allora, se autocritica deve essere, deve esserlo fino in fondo e deve portare seriamente, con senso di responsabilità, all'approvazione di un testo che sia un testo di servizio per il paese.
Con molta serenità, riteniamo che esso risponda ad una esigenza complessiva di riforma, fornendo tutte le risposte che ci siamo posti in questi anni, sia sotto il profilo del progresso tecnologico sia sotto il profilo dell'evoluzione normativa della materia.
Per quanto concerne il progresso tecnologico, assistiamo a due fenomeni collegati fra loro e di fondamentale rilievo per lo sviluppo della nostra società: il processo di convergenza tra i vari settori delle comunicazioni di massa (quali la radiodiffusione, le telecomunicazioni, l'editoria, Internet) e l'avvento della tecnologia digitale terrestre, che permette di raggiungere un numero di canali ipotizzabile tra 130 e 150, tale da consentire la piena formazione della concorrenza e del principio del pluralismo dei mezzi di comunicazione.
Sotto il profilo normativo, poi, l'adozione di nuove norme europee in materia di telecomunicazione, con l'approvazione del pacchetto di direttive comunitarie sulle reti di servizi di telecomunicazione, per il cui recepimento il Governo ha già ottenuto una delega legislativa nell'ambito della legge n. 166 del 2002, non può non far sentire i propri effetti anche nel settore della radiodiffusione, principalmente per quanto attiene alla distinzione tra reti, servizi e contenuti.


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Sempre dall'Europa giunge la richiesta, rivolta agli Stati membri con il protocollo sul sistema di radiodiffusione pubblica allegato al Trattato di Amsterdam, di definire con precisione i compiti del servizio pubblico radiotelevisivo in ragione dei quali soltanto si giustifica il finanziamento pubblico.
A nostro avviso, quindi, il testo che giunge all'esame dell'Assemblea - vista la sua elaborazione, il concorso e il contributo che vi è stato nelle diverse audizioni, il lavoro svolto dai relatori, l'apporto anche dell'opposizione - rappresenta un intervento di riordino complessivo della materia.
In particolare, la prima parte, è dedicata alla salvaguardia del pluralismo e ad una serie di principi fondamentali tra i quali, oltre a quelli già enunciati e ugualmente importanti, ricordiamo: l'apertura alle diverse opinioni e tendenze politiche, sociali, culturali e religiose; la salvaguardia delle diversità linguistiche; la tutela dei minori (ho già detto del lavoro svolto sull'articolo 9); la trasmissione di messaggi pubblicitari e di televendite leali nonché l'adozione di misure idonee per la ricezione dei programmi da parte di portatori di handicap e così via.
Principi generali, come vedete, che devono sovraintendere l'informazione radiotelevisiva, che devono consistere nella presentazione leale dei fatti e degli avvenimenti nei telegiornali e nei giornaliradio, in modo da favorire la libera formazione delle opinioni, l'obbligo di effettiva trasmissione dei notiziari e la garanzia del diritto di accesso a tutti i soggetti politici alle trasmissioni di informazione e di propaganda elettorale e politica in condizioni di parità di trattamento e di imparzialità.
L'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni è chiamata a garantire l'effettiva tutela dei diritti fondamentali della persona nel settore delle comunicazioni e a dettare le ulteriori regole per rendere concreta l'osservanza dei principi generali del settore radiotelevisivo.
Vi è poi il capitolo sul mercato e la concorrenza, con i nuovi criteri per calcolare la soglia antitrust e una terza parte nella quale si prevede un nuovo codice della radiotelevisione per armonizzare in un testo unico tutte le norme attuali in tema di radio e televisione, unica parte in cui vi è la richiesta di delega da parte del Governo.
Particolare rilievo rivestono, poi, le modifiche del titolo V della Costituzione, che ha assegnato l'ordinamento della comunicazione alla competenza legislativa delle regioni e che, pertanto, esige la definizione dei principi in base ai quali tale potestà legislativa va esercitata, conferendo un preciso ruolo all'emittenza regionale e locale.
Strettamente collegato al tema del pluralismo è il capitolo connesso con la tutela della concorrenza. Il provvedimento si muove dalla constatazione che esiste, ormai, un sistema integrato della comunicazione, un insieme, quindi, di settori che compongono il mercato. Le nuove prospettive di sviluppo del mercato, determinate dalla possibilità di disporre delle risorse tecniche derivanti dall'impiego delle trasmissioni in tecnica digitale, che incrementa in modo significativo il numero dei canali disponibili, hanno imposto la definizione di nuovi limiti antitrust. Il pluralismo e la tutela della concorrenza e del mercato radiotelevisivo possono, pertanto, essere garantiti attraverso meccanismi antitrust completamente nuovi.
Avviandomi alla conclusione, la disciplina del progressivo avvio della tecnologia di trasmissione in tecnica digitale, senza trascurare la definizione delle regole da applicare nella fase di transizione, contribuisce a rendere qualitativamente rilevante l'intero impianto normativo. A proposito di quanto detto, ricordiamo come la fase di transizione, costituita dal graduale abbandono delle trasmissioni in tecnica analogica, è diretta ad assecondare il processo di convergenza dei sistemi di comunicazione, favorito dal ricordato progresso tecnologico.
È fuor di dubbio, ormai, che ci avviamo verso una confluenza di mezzi tecnologici sempre più diffusa, favorita da un processo di globalizzazione inarrestabile e


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positivo. È per questo motivo che bisognerà abbattere le barriere, consentendo, ad esempio, all'editore di giornali di entrare nelle televisioni. Il provvedimento, quindi, si muove proprio in questa direzione, in un'ottica moderna, innovativa e globalizzata. Aprendo l'era della televisione digitale, si consente un'enorme moltiplicazione di canali, avvertendo la necessità di editori e di imprenditori in grado di diventare editori televisivi, che, all'interno del tetto fissato, possano operare nel mercato con la loro offerta su giornali e televisioni. Quanto detto significa guardare avanti senza incertezze e rendere più moderno efficiente ed avanzato il nostro paese, considerando tra l'altro il giovamento della crescita occupazionale, derivante non soltanto in maniera diretta ma anche attraverso l'indotto che sarà coinvolto. Non bisogna, infatti, ignorare l'opportunità che il digitale costituisce in termini di ritorni per il sistema paese sotto tre diversi aspetti: strategico, economico e sociale.
Sotto il profilo strategico, esso comporta la crescita della competitività industriale del paese e lo sviluppo delle infrastrutture, che non possono che migliorare la produttività e la creazione di ambiti di eccellenza nazionale riconosciuti anche all'estero. Dal lato economico, lo sviluppo del digitale terrestre induce un incremento del prodotto interno lordo; la creazione, come detto, di nuovi posti di lavoro per lo sviluppo di nuovi servizi; la nascita di nuove piccole imprese in aree specifiche, in ragione dei servizi, dei contenuti innovativi e delle tecnologie abilitanti. Infine, dal punto di vista sociale il digitale comporta un miglioramento della qualità della vita sotto il profilo della diffusione della cultura e dell'istruzione, del miglioramento dei servizi offerti dalle pubbliche amministrazioni, specialmente per quel che riguarda comunicazione, condizioni e modalità di lavoro, dell'eliminazione del digital divide tra le diverse aree territoriali del paese. Vi è, in sostanza, alla base del provvedimento la convinzione che la nuova tecnologia della comunicazione sia realmente uno strumento attraverso il quale possa affermarsi un vero pluralismo dei mezzi di comunicazione di massa.
Infine, il capitolo RAI. Vorrei intanto cogliere in questa sede l'occasione, anche a nome dei colleghi del nostro gruppo, per rivolgere i nostri auguri al suo nuovo presidente Lucia Annunziata. Siamo convinti che saprà fare bene e che la sua sarà una gestione di successo che certamente darà una prospettiva di crescita e di sviluppo alla realtà RAI. Per quanto riguarda la normazione della RAI, a nostro avviso il testo del ministro si apre a un dialogo e a un confronto portando dati innovativi, che sarebbe giusto cogliere, sia per quanto riguarda l'assetto strutturale e organizzativo che quello gestionale, e la cui procedura di privatizzazione - questo è bene ricordarlo - comincerà dal 2004. In questo senso, si è tenuto conto dell'esigenza di garantire maggiore aderenza alla disciplina generale delle società per azioni senza trascurare la necessità di introdurre specifiche regole dirette a salvaguardare i principi in materia di pluralismo e di assicurazione del rispetto della tutela delle minoranze. Una public company, signor ministro, che dovrà continuare a svolgere il suo ruolo di servizio pubblico garantendo molte ore della sua programmazione all'educazione, all'informazione, alla formazione, alla diffusione di opere teatrali e di cinema, anche in lingua originale, in tutte le fasce orarie. Fino al 2005 non si potranno vendere rami d'azienda, il che vuole dire che dal 2006 si darà il via libera a una parte della cessione. In altre parole, una effettiva privatizzazione, che in maniera chiara e netta, fissa un termine facendo ricorso a procedure trasparenti: è importante, è bene ricordarlo, come i tre quarti dei proventi andranno alla riduzione del debito pubblico e un quarto a finanziare il processo di digitalizzazione sostenendo i costi delle diverse famiglie.
Altro aspetto innovativo è legato alla nomina dei membri del Consiglio di amministrazione, del collegio sindacale e dello stesso presidente, guardando al superamento della figura del direttore generale, nonché alla predisposizione di specifici congegni a tutela delle minoranze e,


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lo ripetiamo, a garanzia del pluralismo. La nomina del presidente sarà ratificata dalla Commissione di vigilanza con una maggioranza qualificata dei due terzi, anche per garantire una scelta non di parte. Si tratta di proposte frutto dello sforzo posto in essere dal ministro anche alla luce di quello che è accaduto in questi giorni nel paese. Mi sembra comunque da apprezzare questa volontà di trovare una via di uscita per quanto riguarda gli organi della RAI.
In definitiva, per noi questo provvedimento - lo voglio dire qui in aula: per la maggioranza certamente lo è; speriamo anche di trovare un'intesa con i colleghi dell'opposizione - interpreta le esigenze di innovazione e di trasparenza, si prepara a reggere la sfida con gli operatori internazionali e apre, come si è compreso, l'era della televisione digitale consentendo una moltiplicazione di canali, come più volte richiamato. Per concludere, si tratta di un provvedimento di riforma del sistema radiotelevisivo basato sul pluralismo e la concorrenza, il cui intento è creare più qualità nei contenuti e in tutte le sue forme di comunicazione (Applausi dei deputati del gruppo di Forza Italia).

PRESIDENTE. Non vi sono altri iscritti a parlare e pertanto dichiaro chiusa la discussione sulle linee generali.

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