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PRESIDENTE. Dichiaro aperta la discussione congiunta sulle linee generali delle mozioni.
È iscritto a parlare l'onorevole Cento, che illustrerà anche le mozioni Boato ed altri n. 1-00001 e n. 1-00005, di cui è cofirmatario. Ne ha facoltà.
PIER PAOLO CENTO. Signor Presidente, le mozioni che i Verdi hanno presentato - la prima a firma Boato e una seconda firmata anche da altri colleghi dell'Ulivo, in particolare dai colleghi ambientalisti, che in qualche modo ne ricalca i contenuti e anche la struttura propositiva - hanno l'obiettivo, credo raggiunto positivamente anche con questa discussione in Assemblea, di aprire un confronto in Parlamento come sede naturale e decisiva per la preparazione del G8 sia per la parte del vertice dei Capi di Governo sia per quanto riguarda la complessa discussione che in queste settimane si è aperta intorno a questa struttura e alle forme di mobilitazione che si stanno organizzando in vista del vertice.
La nostra mozione di indirizzo impegna il Governo su alcuni punti - da noi considerati decisivi - che si trovano in sintonia con le argomentazioni che le associazioni non governative, che si riconoscono all'interno del Genoa Social Forum, hanno proposto ed avanzato in queste settimane.
La prima questione riguarda la legittimità del G8; credo che mai come in quest'occasione il crescere di una moltitudine di uomini e di donne, di associazioni di diverso orientamento politico-culturale ed anche religioso, abbia posto al centro dell'attenzione dell'opinione pubblica, delle forze politiche e del Governo - non solo italiano, ma anche degli altri otto paesi che parteciperanno al vertice di Genova - il nodo democratico-istituzionale relativo alla legittimità di una struttura, come quella degli otto paesi più ricchi del pianeta, a riunirsi e ad assumere decisioni vincolanti per l'insieme del pianeta, dell'umanità e, aggiungiamo noi Verdi, dell'equilibrio dell'ecosistema. Si tratta di un nodo non facilmente risolvibile e che certamente non pretendiamo debba essere risolto in occasione del vertice che si aprirà tra qualche settimana a Genova.
All'origine della critica al vertice del G8 di Genova, ed all'origine dei movimenti che stanno accompagnando in maniera significativa, da Seattle in poi, tutte le occasioni d'incontro dei potenti del mondo, vi è una domanda che, credo, anche in questo dibattito parlamentare debba trovare una risposta ed essere spunto per l'inizio di una riflessione, di un'elaborazione comune: quali sono le sedi, gli organismi, gli strumenti di un governo sovranazionale - ritenuto da noi necessario - che sia democratico, che includa i paesi definiti in via di sviluppo - che chiamiamo paesi poveri - e che trovi legittimità sia in un nuovo ruolo dei Parlamenti nazionali e sovranazionali - pensiamo, ad esempio, al Parlamento europeo - sia in una nuova definizione dei poteri e degli strumenti di intervento dell'ONU, attraverso anche quelle riforme necessarie affinché l'ONU stessa diventi sede capace di intervenire e di regolamentare gli effetti della globalizzazione, nonché di indicare strade attraverso cui i singoli Stati possano adottare scelte uniformi di politica nazionale in maniera non distruttiva per il resto del pianeta?
Nella premessa delle mozioni parlamentari offriamo tale spunto di riflessione, perché diversamente avremmo perso un'occasione in questo dibattito parlamentare, soprattutto per le discussioni che hanno caratterizzato questi giorni di preparazione al G8 e che caratterizzeranno le mobilitazioni a Genova in occasione del
vertice. In merito ormai si sono pronunciati, e si stanno pronunciando, autorevoli esponenti politici internazionali, e anche la riflessione e l'elaborazione degli stessi Stati e degli stessi organismi sovranazionali sta cogliendo la necessità di superare il G8 così come è stato strutturato; sarebbe, ripeto, un'occasione persa se tutto questo dibattito su Genova non ci consentisse, per il futuro, di indicare strade innovative, più democratiche, capaci di realizzare un governo sovranazionale degli effetti della globalizzazione e di ciò che la stessa determina nel rapporto tra nord e sud del mondo, tra paesi ricchi e paesi poveri.
A questa premessa si collega il motivo per cui abbiamo indicato nelle mozioni parlamentari come punto importante il riconoscimento politico del Genoa Social Forum e delle istanze che quest'ultimo sta intelligentemente ed unitariamente ponendo all'attenzione dell'opinione pubblica nazionale, internazionale e del Governo. Si tratta di istanze - va dato atto al Governo - che hanno trovato accoglimento anche da parte dell'attuale ministro dell'interno e del ministro degli affari esteri con l'accettazione di quel tavolo di confronto sulle regole del gioco. Il confronto deve avere una base di regole comuni che permettano di manifestare e di organizzare il dissenso e la critica nei confronti del vertice del G8. In questo difficile passaggio politico si deve considerare la grande vittoria - e sarebbe sbagliato non sottolinearne il valore - di soggetti che non sono uniformi, che sono differenti al loro interno, che hanno storie, identità, radici diverse, ma che hanno ottenuto dai ministri del Governo il risultato politico dell'apertura di un confronto serrato in merito all'organizzazione e al diritto di manifestazione dell'evento di Genova.
Come si è detto in questi giorni, non avrebbe dovuto essere necessario un negoziato per affermare diritti costituzionali previsti dal nostro ordinamento, quali la libertà di riunione, di associazione e di manifestazione all'interno della città di Genova. Certamente, in queste settimane, il Governo ha alternato la politica della carota a quella del bastone, che ha portato nelle giornate passate a perquisire tutte le abitazioni del centro storico di Genova. Da una parte, si sono enunciati i principi del dialogo, del confronto, del diritto di manifestare, messi in discussione solo per alcune zone limitate (anche se non riusciamo a capire con quale fondamento giuridico si neghi, ad esempio, alla manifestazione delle organizzazioni sindacali di base prevista per il 20 luglio la possibilità di attraversare alcune parti della città); tuttavia, un dialogo si è aperto. Dall'altra parte, invece, si continuano ad attuare interventi di carattere preventivo-repressivo completamente spropositati rispetto all'entità, alla forza e alla dignità dei movimenti che manifesteranno a Genova dal 19 al 22 luglio.
Mi auguro che il Governo non abbia la tentazione di dividere il movimento del Genoa Social Forum in buoni e cattivi. Da parte di chi ha aperto un terreno di dialogo e di confronto sarebbe un errore miope pensare che la soluzione politica delle questioni poste da questo movimento al vertice del G8 possa trovarsi nella distinzione dei diversi soggetti in buoni e cattivi.
Mi auguro che tale errore non venga commesso dal Governo Berlusconi e, in particolare, dai ministri dell'interno e degli affari esteri che hanno, invece, l'obbligo politico di garantire, nel rispetto dei diritti di tutti, la possibilità di manifestare e di affermare anche il diritto alla disobbedienza civile che è cosa diversa dall'uso della violenza contro persone e cose. Infatti, la disobbedienza civile è stata riconosciuta da questo movimento come pratica caratterizzante la propria identità, da Seattle in poi; essa deve essere valorizzata in quanto diversa dalle forme tradizionali di manifestazione di violenza, che, a volte, una parte minoritaria è tentata di mettere in atto.
Veniamo ai contenuti che noi crediamo siano importanti. Per quanto riguarda il vertice di Genova - l'abbiamo detto - un atto politico forte da parte del Presidente del Consiglio Berlusconi e di questo Governo sarebbe quello di dichiarare, al
meno, che è l'ultimo incontro di questo genere e che ci si pone nella necessità di superare, per le ragioni che dicevo in premessa, questo tipo di organizzazione e di decisione sovranazionale che penalizza i paesi poveri del pianeta. Ma se proprio il vertice del G8 si terrà a Genova, crediamo che il Parlamento debba fornire alcune indicazioni al Governo e che quest'ultimo debba rappresentare alcune posizioni per noi irrinunciabili.
Innanzitutto, la conclusione di un nuovo accordo sul debito che possa giungere alla cancellazione integrale dei crediti della Banca mondiale e del Fondo monetario internazionale nei confronti dei paesi poveri maggiormente indebitati ed all'estensione del negoziato per la cancellazione del debito ai paesi a medio reddito; l'impegno all'elaborazione di un sistema di tassazione e di regole per controllare le transazioni finanziarie di carattere speculativo e per prevenirne gli effetti negativi sull'economia dei paesi poveri, sull'ambiente e sul rispetto dell'ecosistema; la conferma degli impegni presi nel protocollo di Kyoto e, per quanto riguarda l'Italia, l'adesione alla posizione dell'Unione europea.
Non nascondo in questa discussione (ricordando che altre mozioni più specifiche, sulle quali interverranno altri colleghi, sono state presentate rispetto all'accordo di Kyoto) la politica equivoca che il Presidente del Consiglio Berlusconi ed alcuni suoi ministri hanno annunciato nelle settimane scorse. Da una parte, vi è la denuncia dell'accordo di Kyoto, l'allineare l'Italia alle posizioni americane rispetto ad un protocollo che rappresenta un punto di equilibrio, condizione essenziale per mettere in campo nel pianeta opere ed interventi di riduzione dell'inquinamento in tempi ragionevoli. Tale accordo, infatti, non è stato firmato in un controvertice del G8 delle associazioni e dei movimenti ambientalisti ed ecologisti, è stato fatto dai ministri, da Governi in pieno mandato, a pieno titolo ed è stato tecnicamente ribadito anche nel vertice di Trieste, nel G8 sull'ambiente. Allora, questo è un punto essenziale che va posto ed a proposito del quale il Governo deve chiarire, una volta per tutte, quale sia la sua posizione: il rispetto per l'accelerazione della verifica applicativa di quegli accordi o, invece, un allineamento dell'Italia alle posizioni degli Stati Uniti escludendo il nostro paese dalle decisioni e dagli impegni già assunti nell'ambito dell'Unione europea.
Vi è, poi, un problema relativo alle necessità di promuovere, in relazione all'accordo di Kyoto, una nuova politica sulle fonti energetiche rinnovabili e su piccola scala compatibili con i territori e con le economie locali. Ho letto su qualche agenzia, non l'ho trovata qui in aula, un'ipotesi molto equivoca di mozione, di risoluzione da parte della maggioranza di centrodestra su questo punto. Non vorrei (è stato detto anche questo nei giorni e nelle settimane scorse) che qualcuno pensasse di utilizzare le difficoltà poste dagli Stati Uniti nell'applicazione dell'accordo di Kyoto per riaprire in Italia la pagina del nucleare. Su questo chiedo al ministro degli affari esteri ed agli altri ministri competenti, rispetto agli impegni che andrà ad assumere il Governo Berlusconi nell'ambito del G8, parole chiare e decisive affinché nel nostro paese non venga riaperta la pagina del nucleare per evitare che l'Italia diventi protagonista, insieme agli Stati Uniti, di un rilancio di una politica energetica fallimentare, non solo dal punto di vista ambientale, ma anche dal punto di vista sociale ed economico.
Vi è la necessità, poi, di garantire un nuovo negoziato sul commercio internazionale capace di non mettere in contrapposizione la libera circolazione delle merci con i diritti del lavoro e con le economie locali. Queste ultime devono trovare nei processi di globalizzazione un'occasione di valorizzazione del proprio radicamento specifico, territoriale, non invece, come spesso accade, un'occasione per essere spazzate via dagli effetti concreti dell'invasione delle multinazionali e delle grandi aziende capaci, in poco tempo, di conquistare mercati e di distruggere tutto ciò che a livello locale si frappone alla conquista di questi ultimi.
Vi è poi la necessità di introdurre regole, per quanto riguarda non solo la
circolazione delle merci, ma, anche la produzione. Troppo spesso, infatti, la globalizzazione ha significato la chiusura di attività produttive nelle zone ricche del pianeta e la loro esportazione nelle zone povere, dove non vi sono vincoli ambientali e sociali e dove, addirittura, spesso vengono utilizzati i bambini. Su questo punto non ce la possiamo cavare con qualche petizione di principio rispetto ad una realtà che conosciamo e che influenza negativamente gli stessi equilibri di mercato, che tanto stanno a cuore e che tanto ideologicamente, a volte, vengono valorizzati in occasione di questi vertici e quando si parla della globalizzazione.
Allora, quali regole introduciamo e di quali regole l'Italia si fa portatrice all'interno del consesso internazionale, affinché su questo punto vi sia l'affermazione di una nuova civiltà, di diritti e di regole, capace di tutelare le fasce sociali e i paesi più deboli dentro al sistema di economia internazionale che viviamo?
Queste sono le questioni di merito che devono essere poste all'attenzione di un dibattito non rituale sul G8 e che devono essere affrontate dal Governo con una consapevolezza nuova.
Noi crediamo, e concludo, che in occasione del G8 di Genova si giocherà una partita importante per quanto attiene alla capacità del nostro paese di consentire una rappresentazione democratica alle diverse forme di critica che in quell'occasione si manifesteranno a Genova, dimostrando che è possibile affermare diritti che dovrebbero essere scontati nell'ambito della nostra Costituzione e per l'espressione dei quali non avrebbero dovuto essere necessari una discussione e un tavolo di trattative durato giorni. Ma ai Verdi interessano gli obiettivi concreti e non solo la capacità di espressione di un movimento che riteniamo innovativo, che nessuno può pensare di cavalcare...
PRESIDENTE. Onorevole Cento, la prego di avviarsi alla conclusione.
PIER PAOLO CENTO. ...ma al quale tutti dobbiamo guardare con interesse per la forza dei temi che pone al centro della discussione politica e culturale del nostro paese e del mondo.
Su questi temi anche la nostra parte politica - il centrosinistra, l'Ulivo - ha in questi mesi accumulato ritardi nella comprensione dei fenomeni che da Seattle in poi si stavano manifestando e della forza dirompente in termini di contenuti culturali e politici che questi movimenti pongono all'attenzione dei Parlamenti e delle forze politiche. Questa può essere anche l'occasione per far sì che l'Italia sia portatrice di una politica innovativa, capace di rovesciare il sistema delle priorità.
All'agenda dei paesi ricchi noi vorremmo sostituire l'agenda dei paesi poveri: mettendole insieme, si può creare uno sviluppo equilibrato e sostenibile per il nostro pianeta. Questa è la sfida che ci viene da Genova e a questa sfida noi chiediamo al Governo di corrispondere con senso politico e con la capacità di superare di un modo di decidere che oggi non rappresenta più gli interessi del pianeta.
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Burlando, che illustrerà anche la sua mozione n. 1-00008. Ne ha facoltà.
CLAUDIO BURLANDO. Signor Presidente, credo sia stato utile ed importante che il Parlamento abbia deciso, con il consenso del Governo, di sviluppare oggi i temi di queste mozioni, in modo che l'esecutivo possa essere presente a Genova dopo un dibattito parlamentare per raccogliere le opinioni della massima Assemblea elettiva del paese.
È importante anche perché il G8 promosso da un precedente Governo viene svolto, oggi, da un diverso e nuovo Governo, quindi, credo sia molto utile raccogliere le opinioni di questa Assemblea su un vertice di così grande importanza.
Il tema che si discuterà a Genova è un tema di grande rilievo, non facile. Le tensioni che si sono accumulate, le opinioni diverse che sono state raccolte, dimostrano certamente l'attenzione e anche la difficoltà di un tema che divide l'opinione
pubblica e che porterà a Genova non l'opinione di minoranze sparute. Si tratta, infatti, di un tema che sta rappresentando un elemento di discussione in tutto il consesso internazionale.
Volevo partire da una testimonianza. Nel 1997, in occasione di una visita a Pechino, ho avuto modo di discutere di questi fenomeni con il mio omologo di allora, il ministro dei trasporti della Repubblica popolare cinese, il quale mi riferì la sua definizione di globalizzazione che mi impressionò molto. Egli mi disse che in Cina, in questo momento, di 1 miliardo e 200 milioni di abitanti, il 95 per cento può mangiare, ha una buona alimentazione, il 5 per cento ha ancora problemi di alimentazione (sono pochi in percentuale, ma in realtà sono tanti, in quanto equivalgono al numero degli italiani, vale a dire circa 60 milioni). Il ministro ha, comunque, precisato che il suo popolo ha risolto in gran parte il problema dell'alimentazione in quanto produce per noi. Si tratta di una lettura della globalizzazione non di un potente paese occidentale, ma di un paese che fino a pochi anni fa aveva un grande piano di alimentazione e che, appunto, costituisce una riserva manifatturiera enorme per il pianeta, che produce una notevole quantità di beni di consumo, non solamente di bassa qualità ma che comincia a produrre anche prodotti di media qualità e, in qualche caso, anche di alta qualità e discreto valore aggiunto, e che è divenuto un fornitore di manifattura per buona parte del mondo occidentale, insieme alla Corea e ad altri paesi asiatici.
Dico questo perché, sviluppando un intervento che sarà molto attento ai difetti e alle storture della globalizzazione, credo sia anche molto utile ragionare sulla diffusione di tale fenomeno per gli effetti che ha avuto in termini di mercato del lavoro ed anche per i problemi che nascono dal mancato inserimento nel processo di globalizzazione di interi continenti. C'è da chiedersi quanto l'Africa si trovi in questa situazione non a causa della globalizzazione, ma in ragione del fatto che tale continente non è entrato affatto in un circuito di globalizzazione.
Naturalmente, accanto a ciò, occorre riflettere anche molto sui danni, sulle storture, sui limiti, sui drammi che un certo tipo di globalizzazione ha prodotto, quindi, occorre portare in questa discussione un atteggiamento di grande equilibrio, di grande apertura, di grande attenzione perché è al tempo stesso evidente che è accaduto un fatto di grande rilievo: tutto un insieme di regole di difesa degli interessi più deboli, introdotte in decenni di battaglie politiche all'interno di paesi nei quali anche i settori più deboli hanno avuto la rappresentanza in questi ultimi anni, hanno difficoltà ad essere mantenute nel momento in cui i meccanismi finanziari travalicano in ogni occasione e in qualsiasi modo le leggi nazionali, consentendo uno sviluppo e una crescita al di fuori di ogni capacità regolativa.
Queste mi sembrano le due questioni da affrontare. I due pericoli che si presentano sono: da una parte, che la globalizzazione rappresenti la forma estrema di un grande processo di crescita industriale, economica e anche sociale e civile, per certi aspetti, che l'industrializzazione ha certamente rappresentato; dall'altra, che questo oltre a produrre esclusione - il caso dell'Africa è certamente il più evidente - produca anche effetti incontrollati, non regolati e, perciò, riproduca tutta una serie di emarginazioni e di esclusioni che le leggi e l'avanzamento della società civile verso la difesa dei settori più deboli hanno escluso, almeno in una parte significativa del pianeta.
Quali sono gli effetti più rilevanti di questo processo di crescita senza regole? Quali sono i conflitti che il mercato globalizzato di per sé non risolve?
Il primo è certamente il conflitto tra sviluppo ed ambiente, tra profitto ed ambiente; è chiaro che il mercato non regola di per sé questo conflitto; non lo regola, è abbastanza chiaro, è dimostrato: non c'è un potere di regolazione in sé di questo conflitto. E si afferma uno sviluppo, un processo che cresce anche a scapito della difesa di valori ambientali molto importanti; tale difesa potrebbe dare stabilità e futuro a questa crescita.
Il secondo problema che lo sviluppo (o la crescita) non risolve in sé è quello del rapporto tra accumulazione e redistribuzione; è evidente che lo sviluppo, la crescita, il mercato non hanno in sé meccanismi e strumenti redistributivi, chi detiene la possibilità di sviluppare le proprie aziende, l'economia, le attività finanziarie a livello internazionale non ha dentro di sé strumenti automatici di redistribuzione di quanto viene accumulato.
Questi due contrasti sono stati risolti all'interno dei paesi in cui si è affrontata questa vicenda con equilibrio, in particolare all'interno dei paesi europei, attraverso lotte politiche, lotte sindacali, lotte sociali, lotte parlamentari, lotte democratiche e si è arrivati a norme, leggi, anche accordi tra le parti sociali - non necessariamente, semplicemente e sempre a leggi parlamentari - che hanno trovato punti di equilibrio fra questi due grandi conflitti: il conflitto tra lo sviluppo e la salvaguardia dell'ambiente, il conflitto dell'accumulazione che di per sé non garantisce nessun processo redistributivo.
A me sembra che il tema che dobbiamo porci oggi sia in sintesi - poi concluderò con alcuni esempi concreti - il seguente: come facciamo a ristabilire a livello internazionale, mondiale, regole che possano garantire redistribuzione e, quindi, coesione sociale e solidarietà e come possiamo garantire rispetto ed anche difesa di un enorme patrimonio ambientale che sta per essere compromesso o che già, per buona parte, è stato compromesso, nel momento in cui quelle regole che abbiamo faticosamente stabilito in Italia, in Francia, in Germania, nel Regno unito e così via, vengono in buona parte bypassate da logiche finanziarie che trascendono i singoli livelli nazionali? Questo, credo, sia il tema.
Quali sono, quindi, gli indirizzi che questo Parlamento deve fornire al Governo, possibilmente anche attraverso una logica che coinvolga un rapporto positivo tra maggioranza ed opposizione - come spesso è accaduto in politica estera, in questi ultimi anni -, in modo che il Governo possa farsene portavoce nel summit di Genova, nel G8 di Genova?
Io non credo che il vertice sia illegittimo; credo sia legittimo che Capi di Stato e di Governo, eletti dalle loro popolazioni, possano incontrarsi per coordinare politiche in questo campo. Ovviamente, sarebbe illegittimo pensare che questi otto capi di Stato e di Governo possano ritenere di assumere decisioni che valgano anche per le centinaia di paesi che non sono rappresentati nel vertice; ma questa è cosa diversa dal definire illegittimo il G8. Credo che i contenuti del summit di Genova debbano essere, possano essere discussi - credo che sia legittimo e giusto - anche al di fuori delle sale del Palazzo ducale di Genova e mi pare giusto ed anche importante che le nuove generazioni, i popoli di questo mondo, gli intellettuali, le organizzazioni non governative e religiose abbiano deciso di dire una parola, di far sentire una voce su un processo di enorme importanza, che non può essere solo di Governi, di Capi di Stato o anche di Assemblee elettive come queste. Mi pare un fatto molto importante.
Credo sia stato giusto che il Governo, dopo qualche tentennamento, abbia deciso di aprire con forza la strada al dialogo e fare di questa occasione, non solo un momento di incontro tra Governi, ma anche tra i Governi (specialmente quello italiano, che ospita la riunione) e l'opinione pubblica internazionale.
Credo che da questa vicenda nascano sostanzialmente due indicazioni: la prima di carattere generale, la seconda specifica. Quella di carattere generale è molto chiara ed evidente. Nel momento in cui perdono ruolo i Governi nazionali per affrontare e dirimere queste grandi vicende e questi processi, non possono che assumere un diverso ruolo le organizzazioni internazionali che presiedono e che devono occuparsi di tali fenomeni. Quindi il WTO, la World Bank, il Fondo monetario internazionale e le Nazioni Unite non possono che essere investite dai Governi e dai Parlamenti nazionali di diversi e maggiori
compiti, altrimenti gli argomenti di cui stiamo parlando saranno espressione di sentimenti.
In secondo luogo, è possibile assumere in questo incontro a Genova decisioni ed orientamenti importanti che riguardano, oltre questo tema, anche argomenti specifici. A tale proposito, prima di concludere, vorrei premettere, con alcune indicazioni operative, una questione di fondamentale importanza. Sono dell'opinione che sia molto importante ascoltare la voce di movimenti, in particolare di quelle centinaia di movimenti (quasi 800), che si sono riuniti nel Genoa social Forum, ma credo però che sia anche importante ricordare che il G8 di Genova non discuterà di scudi spaziali e di armamenti, ma di debito, di povertà, di malattie, perché questo hanno deciso i Governi, in particolare quel Governo che l'ha promosso, mi pare anche con la condivisione dell'attuale Governo.
Credo sarebbe sbagliato, da parte dei Governi, escludere la voce di centinaia di associazioni da temi come questo, ma credo che un Parlamento debba anche rivolgersi a tali associazioni, valorizzando il fatto che il suo, il nostro Governo, abbia messo al centro questi temi. Credo che le grandi questioni di cui stiamo parlando non possano appartenere solamente ai potenti, ma ritengo sia importante che di queste vicende si occupino anche i Capi di Stato e di Governo, che, appunto, hanno deciso non di occuparsi di armamenti ma di debito, di povertà e di malattia. È importante che l'agenda sia questa e credo si possa creare anche un rapporto positivo tra quello che si deciderà fra poche persone, all'interno di quel palazzo - il Palazzo ducale di Genova - e quello che discuteranno decine, forse centinaia di migliaia di persone, al di fuori di quel palazzo. Non credo sia giusto decidere di contrapporre, pregiudizialmente, per principio, i temi che si discuteranno fuori e quelli che si discuteranno dentro, indipendentemente dalle decisioni che verranno assunte in quella sede, perché penso che orientamenti e decisioni positive possano essere anche utili per una battaglia più generale di associazioni e di popoli volta a raggiungere quei risultati.
Concludendo, veniamo agli obiettivi specifici e concreti. Il primo è, certamente, quello del debito: come si sa, si è deciso di avviare un'operazione per cancellare in parte, o del tutto, i debiti dei 23 paesi più poveri del mondo, cancellando debiti pari a 53 miliardi di dollari, pari a oltre 100 mila miliardi di lire. Come è noto, l'Italia ha deciso di andare oltre questo obiettivo, cancellando integralmente, e non parzialmente, i debiti dei paesi più poveri: questo non è un proponimento, questa è una decisione, un risultato ottenuto. Credo si possa utilizzare l'occasione di Genova per rivendicare che tale risultato venga raggiunto anche da paesi più ricchi dell'Italia, che sono più indietro di noi rispetto a quell'obiettivo.
La seconda questione molto rilevante è relativa alla lotta contro le malattie. A questo proposito si apre un conflitto tra profitti e salvaguardia della vita umana. Se vogliamo dirci le cose come stanno, dobbiamo riconoscere che vi è un problema sulla logica dei brevetti, sul fatto che essa debba riguardare anche i farmaci salvavita.
Penso che, pur senza voler punire industrie che hanno fatto ricerche, che hanno investito e che hanno diritto di rientrare dei loro investimenti, il tema dei brevetti per i farmaci salvavita non possa valere come per altri prodotti. Ventisei o ventisette anni fa un intelligente imprenditore danese inventò giocattoli come i Duplo e i Lego che tutti i nostri bambini hanno usato in questi anni; per venticinque anni ha potuto produrli guadagnando un'infinità di soldi poiché li aveva brevettati e nessuno poteva costruire oggetti simili. Non penso che la stessa logica possa essere applicata ad un farmaco che combatte l'Aids in Africa. La battaglia fatta dal Sudafrica - ed in parte vinta - è una battaglia in qualche modo emblematica che va estesa diffondendo risorse ai grandi gruppi farmaceutici e chimici attraverso l'utilizzo della solidarietà internazionale. Credo non si possa stabilire il principio
per il quale un farmaco salvavita può essere sottoposto ad una logica di brevetto stabilendo prezzi inaccessibili per la stragrande maggioranza dei popoli del mondo.
Il terzo punto che vorrei sottolineare riguarda le barriere doganali. Se noi condanniamo il debito e poi mettiamo barriere doganali per i prodotti dei paesi più poveri verso i paesi più ricchi, compiano un'azione di corto respiro, poiché questi paesi torneranno ad indebitarsi. Credo sia necessario fissare tre priorità: in primo luogo, stabilire quali sono i paesi poveri che pensiamo debbano essere aiutati in una logica di sviluppo e non di assistenza; in secondo luogo, verificare quali sono i paesi ricchi che debbono abbattere completamente ogni barriera ed, infine, stabilire quali sono i prodotti - non tutti, ma solamente i più significativi e qualificanti - che devono essere esclusi da politiche di questo genere.
Si tratta di obiettivi concreti che, naturalmente, incidono in qualche modo sul profitto di alcune grandi aziende di grandi paesi. È chiaro che alcune aziende chimico-farmaceutiche guadagneranno di meno e alcuni prodotti dei paesi poveri - costruiti anche dai paesi ricchi - arriveranno sui mercati dei paesi sviluppati creando concorrenza. È evidente che bisognerà rinunciare ad alcuni crediti con la conseguente cancellazione di alcune voci attive nei bilanci di alcuni paesi. Tuttavia, se noi ci comportassimo in questo modo, potremmo collegarci ad un grande movimento che non credo sia costituito solo da minoranze violente ma anche da una spinta giusta che talvolta si rivolge contro la globalizzazione. Ricordo che in questo modo più di due secoli fa nacque un movimento, il movimento luddista, che si rivolse contro l'industrializzazione.
Tuttavia, credo che, depurato da queste frange, il movimento ponga questioni che hanno un certo fondamento; anche il cardinale di Genova Tettamanzi ha usato uno slogan che a me sembra molto efficace: «globalizziamo la solidarietà». È evidente che si apre un problema molto serio. Al convegno di Genova, al quale hanno partecipato Gorbaciov, De Klerk, Rifkin, il professor Petrella dell'università di Lovanio ha detto: «Qui stiamo assistendo ad un paradosso, l'Europa ha creato il welfare quando era povera ed ora si vorrebbe sostenere che il welfare non può più essere mantenuto ora che siamo ricchi».
È evidente che non è questo il punto, ma è altrettanto evidente che le imprese europee sono entrate in una competizione molto aspra con imprese asiatiche e americane le quali, essendo i loro paesi meno coesi, risultano essere molto più agguerrite. Se vincerà la logica della competizione sfrenata, l'Europa diventerà meno coesa; se, invece, dovesse vincere la logica di una certa coesione sociale - che mi pare un modello francamente più avanzato di quello asiatico o di alcune spinte estreme americane -, penso che possa vincere l'idea di estendere, di sviluppare, socializzare e di globalizzare logiche di coesione e di solidarietà.
Penso allora che si dovrà trovare un nuovo equilibrio appunto tra competitività e questione sociale. L'Europa che sta nascendo - l'Europa dei quindici, dei venti, dei venticinque, che ha dentro di sé il problema dell'equilibrio tra competitività e coesione - potrà rappresentare un punto di riferimento importante nel mondo dopo cinquant'anni di guerra fredda, se saprà mettere in discussione il punto di equilibrio del sistema di Stato del benessere - come è stato chiamato - senza mettere però in discussione la conquista in sé dello Stato del welfare che invece è molto importante. Essa potrà inoltre rappresentare un punto di riferimento e di traino rispetto ad un modello in cui competitività e coesione possano raggiungere un nuovo punto di equilibrio, valorizzando fino in fondo la questione sociale, la solidarietà, i diritti, le garanzie e le tutele.
Si tratta di conquiste che l'Europa deve essere capace di esportare e di globalizzare perché anche sistemi meno solidali e più competitivi hanno bisogno di acquisire tutele, diritti, garanzie e solidarietà. Se porteremo a Genova questi punti di vista - mi auguro largamente condivise anche da questo Parlamento - si potrà aprire un dialogo positivo molto importante con chi,
sia pure in maniera esasperata e talvolta anche sbagliata, pone a noi un problema giusto che è davanti agli occhi di migliaia di persone nel nostro pianeta (Applausi dei deputati dei gruppi dei Democratici di sinistra e della Margherita, DL-l'Ulivo).
PRESIDENTE. È iscritta parlare l'onorevole Bandoli, che illustrerà anche la mozione Calzolaio ed altri n. 1-00003, di cui è cofirmataria. Ne ha facoltà.
FULVIA BANDOLI. Signor Presidente, onorevoli colleghi, vi sono, a mio parere, differenze piuttosto marcate tra la concezione dello sviluppo che ha avuto l'Ulivo governando questo paese, varie città e molte regioni (voglio ricordare la manutenzione dell'edilizia, il piano dei trasporti, la legge per il recupero di rifiuti, le bonifiche dei siti inquinati e, soprattutto, il grande lavoro svolto in merito ai temi del riassetto idrogeologico e della lotta all'abusivismo) e le culture o i riferimenti politici che paiono animare - dico «paiono» perché sono trascorsi solo pochi giorni e non voglio esprimere giudizi definitivi - il nuovo Governo. Tali culture però animano sicuramente alcune giunte regionali e comunali gestite dal centrodestra. Cito per tutti il condono dell'abusivismo edilizio sulle coste della Sicilia che costituisce per noi un fatto gravissimo perché la tutela delle coste è un elemento fondamentale per un territorio, come il sud, che ha nel turismo di qualità forse la sua più importante risorsa.
Credo si possa discutere di grandi opere pubbliche senza partire sempre dalle autostrade, ma dal dissesto e dalla lotta all'abusivismo. Penso non sia vero che la cultura dell'ambientalismo delle varie formazioni che compongono l'Ulivo sia fondamentalista o abbia pronunciato in questi anni solo dei «no».
Siamo un po' preoccupati di certi orientamenti emersi anche nell'ultimo disegno di legge enunciato dal Governo e non perché contrari allo snellimento delle procedure, dal momento che anche noi ci siamo posti il problema del miglioramento di iter burocratici che, a volte, sono infiniti. Tuttavia, per esempio, lo slogan apparentemente simpatico «padroni in casa vostra di fare ciò che volete», se posso comprenderlo per piccole modifiche, in realtà mi preoccupa per ciò che può significare cambiare, senza chiedere alcun permesso od autorizzazione, anche mettendo a rischio la stabilità dei palazzi, che non è vero non cadano mai, perchè a volte cadono!
Desidero inoltre sottolineare la forte priorità che vi orientate a dare alla modalità di trasporto su gomma, quando l'Italia, rispetto agli altri paesi d'Europa, porta su ferro soltanto l'11-12 per cento delle merci contro il 25 per cento degli altri paesi europei.
Noi ambientalisti dell'Ulivo, insomma, non siamo fondamentalisti, come semplicisticamente ci chiama ogni tanto qualche vostro ministro; in particolare, non lo sono io che sono tuttavia molto preoccupata, come tanti, che le ragioni dell'ambiente - che, se rispettate, danno maggiore qualità alla vita, alle imprese e al lavoro - siano poste da voi un po' in secondo piano. Mi piacerebbe, ve lo dico sinceramente, essere smentita su questo punto ed aspetto i fatti. Per noi la qualità ambientale non è soltanto necessaria per rispettare la limitatezza delle risorse, bensì anche per migliorare l'insieme dei fattori di vita dei cittadini.
Il documento che presentiamo oggi, sottoscritto da oltre cento parlamentari dell'Ulivo, affronta un tema specifico ma assai strategico per lo sviluppo dell'insieme dei paesi e della terra. Dopo la conferenza di Rio del Janeiro nel 1992 e gli accordi sul clima, la biodiversità e la desertificazione, ricerche unitarie in vari paesi del mondo hanno evidenziato e riconosciuto la necessità di ridurre in modo drastico le emissioni di gas di serra.
Non vi è ormai più nessuno che possa negare che i cambiamenti climatici sono cosa reale in molti paesi e anche nel nostro: chi non ricorda l'aumento notevolissimo di piovosità in certe aree del paese? E la sempre più avanzante siccità in altre aree, soprattutto nel centrosud?
Il protocollo di Kyoto del 1997 e i suoi obiettivi sono obiettivi realistici: questo, intanto, andrebbe detto. Poche volte ci si confronta nel merito dei numeri: non è un libro dei sogni, quei parametri non sono irraggiungibili; anzi, alcuni ricercatori dicono che essi siano al di sotto del minimo che sarebbe necessario. Perché questo protocollo entri in vigore, voi sapete che serve la firma e la ratifica di un certo numero di paesi, un certo numero di paesi che ancora non c'è.
L'Unione europea ha maturato in questi anni una posizione unitaria, importante perché condivisa da tutti gli Stati membri. Si tratta di un fatto importante, perché, in questo modo, l'Europa è stata trainante rispetto ad altri Stati che resistevano più di noi, ma soprattutto, essa è riuscita ad essere un vero interlocutore - che non vuol dire essere sempre in opposizione - anche per gli Stati uniti d'America, paese che, non c'è dubbio, sta faticando moltissimo nell'approssimarsi ai parametri di Kyoto con una logica, diciamo, globalizzata. Per una volta, vogliamo utilizzare questa parola in un altro modo, per indicare una logica che tenga conto non solo delle loro esigenze e dei loro parametri di consumo energetico, bensì, della situazione delle materie prime energetiche nel mondo, della loro limitatezza e della necessità di regolare i consumi energetici in altro modo, anche per consentire un maggiore accesso ai paesi in via di sviluppo.
L'Italia dal 1992 ad oggi ha avuto atteggiamenti coerenti e più volte - voglio ricordarlo soprattutto agli esponenti della maggioranza - questo nostro Parlamento unitariamente, con il voto di tutti, ha condiviso quell'impegno.
Siamo lieti che i momenti di tentennamento avuti nei primi giorni dalla maggioranza siano rapidamente rientrati, anche se nella mozione che avete presentato su questi stessi temi leggo che il compito del Governo sarebbe quello di «favorire presso altri partner europei un più stretto e proficuo dialogo con gli Stati Uniti d'America per una comune ricerca sull'ambiente». Vorrei dire che questa comune ricerca sull'ambiente esiste già all'interno dell'Europa e negli Stati Uniti d'America e le sedi di sintesi di queste ricerche ambientali sono state in questi decenni proprio le grandi sedi che hanno visto uniti tutti i Governi del mondo: Rio de Janeiro, in primo luogo, la firma del protocollo di Kyoto, ma anche tutte le altre importanti sedi internazionali nelle quali sono stati ratificati importanti trattati sull'ambiente.
Di fronte alla battuta d'arresto avvenuta a L'Aia, dove gli Stati Uniti d'America hanno fatto in qualche modo marcia indietro, non abbiamo pensato con soddisfazione che l'Europa fosse più avanti degli Stati Uniti, anzi, ci siamo molto rammaricati per il fatto che, rispetto all'amministrazione democratica, quella repubblicana abbia deciso di non rispettare gli impegni sottoscritti da Clinton insieme agli altri Governi europei.
Chiediamo e ci auguriamo che, dopo i primi momenti di tentennamento, questo Governo sostenga tre impegni in particolare. In primo luogo, che ratifichi l'accordo di Kyoto così come è - sottolineo, così com'è - affinché entri in vigore prima della Conferenza delle Nazioni Unite sull'ambiente e lo sviluppo che si svolgerà a Johannesburg nel 2002 perché sarebbe un segnale di grande importanza.
In secondo luogo, ci auguriamo che questo Governo sostenga ed incentivi in Italia la riduzione delle emissioni e non stravolga le politiche energetiche e trasportistiche messe in atto dai Governi precedenti: politiche energetiche volte al risparmio, politiche dei trasporti e della mobilità volte all'aumento del trasporto di merci su ferro, del cabotaggio (che è il vero modo di diminuire drasticamente le emissioni nell'atmosfera).
Auspichiamo, infine, che il Governo promuova la cooperazione italiana ed europea allo sviluppo sostenibile dei paesi poveri, anche attraverso i meccanismi flessibili previsti dallo stesso protocollo di Kyoto. Questi tre impegni precisi consentirebbero di non rompere il positivo quadro europeo (una rottura di questo quadro sarebbe grave) e permetterebbero all'Italia
di continuare a svolgere un ruolo spesso centrale per quanto attiene i temi ambientali.
Vorrei citare soltanto l'ultima ricerca commissionata dal Presidente degli Stati Uniti d'America George Bush, che ha dato esiti - non avevo dubbi su questo punto - del tutto simili a ciò che da molti anni affermano gli scienziati europei: l'effetto serra c'è - dicono gli scienziati americani -, la temperatura del pianeta è aumentata, i cambiamenti climatici ci sono e sono giganteschi.
Spesso accade che i Governi pieghino quei dati agli interessi di grandi società petrolifere - come rischiano di fare gli Stati Uniti d'America - oppure a modelli di mobilità arretrati, e sicuramente il nostro ancora in parte lo è, ma sarebbe necessario non farlo arretrare ulteriormente e, quindi, andare avanti nella logica del piano nazionale dei trasporti, che mi auguro non venga stravolto nei prossimi mesi.
I cambiamenti climatici, vedete, mettono a rischio non solo la vita ma anche le produzioni, a volte industriali, sicuramente agricole, d'interi paesi e continenti. Abbiamo fatto bene, ha fatto bene il Presidente della Camera, ad unificare la discussione delle mozioni sul G8 e su Kyoto, perché vi è un legame stretto tra i cambiamenti climatici e i temi della povertà. Vorrei richiamare l'esempio del Bangladesh, il paese del mondo più colpito da stravolgimenti ambientali dovuti ai cambiamenti climatici. Si tratta di un paese che, negli ultimi dieci anni, ha costruito, e si è visto demolire per ben sei volte, due terzi delle abitazioni, se così possiamo definire quelle che si trovano in uno dei paesi poveri del mondo.
Gli esperti ci dicono che forse il cambiamento delle temperature e del clima è uno dei principali responsabili di tale situazione. Pensiamo che cosa significa la desertificazione in gran parte dei paesi africani. Anche su tale fenomeno incidono i cambiamenti climatici e la povertà. Tra cambiamenti climatici e povertà c'è un legame sempre più stretto. Non si può discutere sui temi della povertà senza discutere su ciò che la determina: una divisione ingiusta delle risorse, una non democraticità degli organismi internazionali che decidono le regole del commercio, mancate opportunità e condizioni climatiche sempre peggiori che oggi penalizzano parte del mondo ed impediscono il sorgere di produzioni primarie - come l'agricoltura - che potrebbero risolvere sicuramente in parte il problema dell'alimentazione.
L'accordo di Kyoto apre una strada verso uno sviluppo più sostenibile in tutto il pianeta. Auspico che il Governo Berlusconi non voglia compiere una marcia indietro proprio iniziando dai temi ambientali.
Auspico, dunque, che la mozione, come altre in passato, sia approvata con il voto favorevole di tutte le forze politiche di maggioranza e di opposizione. Credo che sul protocollo di Kyoto dobbiamo dare un segnale di civiltà al nostro paese e all'Europa che si aspetta da noi il mantenimento degli impegni che abbiamo assunto in molte sedi internazionali. Vi ringrazio (applausi dei deputati dei gruppi dei Democratici di sinistra-l'Ulivo, della Margherita, DL-l'Ulivo e Misto-Comunisti italiani).
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Vendola, che illustrerà anche la mozione Giordano ed altri n. 1-00004, di cui è cofirmatario. Ne ha facoltà.
NICHI VENDOLA. Signor Presidente, non si tratta di una cupa fantasia apocalittica o della demagogia visionaria dei nostalgici dell'età premoderna. Non si tratta della propaganda enfatica e delle ossessioni allarmistiche di un certo ambientalismo fondamentalista e primitivo. Lo scenario che ci si presenta, al saldo degli incrementi costanti di emissioni di anidride carbonica nell'atmosfera, suggerisce l'uso scientifico della nozione di catastrofe. Certo, una catastrofe annunciata, in corso d'opera, che disegna lo schizzo di un mutamento qualitativo del rapporto tra condizioni climatiche e sviluppo di tutti gli ecosistemi planetari, dalla foresta alla metropoli, dal ciclo dell'acqua
alla morfologia dei territori. La nuova consapevolezza di ciò che l'effetto serra sta determinando ad ogni latitudine carica la politica di immense ed inedite responsabilità.
L'angoscia crescente per il consolidarsi di questa straordinaria ipoteca sulla vita e sulla salute del genere umano non ci consente atteggiamenti di pigrizia culturale. Consapevolezza e angoscia sono sentimenti che si misurano con un'immagine davvero poco virtuosa della globalizzazione capitalistica. Brucia sulla pelle dell'opinione pubblica un'inquietudine critica e carica di domande cruciali. È un'inquietudine che lambisce i Governi e che provoca il monito severo della comunità scientifica e la mobilitazione dell'ecologismo in ogni parte del mondo.
Kyoto, con i suoi protocolli tanto modesti quanto eversivi di un certo teologico primato del sistema d'impresa, nasce come prima parziale risposta, come iniziale messa a punto del mutamento di clima conseguente all'effetto serra. Si tratterebbe, in realtà, di tradurre Kyoto in vincoli ancora più precisi e cogenti all'emissione di gas serra, in politiche attive per la riconversione dei modelli energetici, investendo finalmente sulle energie alternative; si tratterebbe di porre mano a progetti di risanamento territoriale e di riforestazione; si tratterebbe di governare con criteri di programmazione pubblica il ciclo dell'acqua. Insomma, si tratterebbe di andare oltre Kyoto, oltre le timidezze e le angustie di chi, sempre a Kyoto, non ha inteso recare oltre un certo limite troppo disturbo al «manovratore», cioè alle potenti lobby industriali, che considerano il pianeta solo come fonte illimitata di merci e di ricchezza privata.
Da questo punto di vista, signori del Governo, signor Presidente, c'è perfino chi spinge per tornare a prima di Kyoto, tanto grande gli dev'essere sembrato l'azzardo di quelle carte un po' generiche, di quel blando protocollo, che intesseva una prima possibilità di interventi strategici sul nodo del surriscaldamento del pianeta. Il neopresidente nordamericano, George Bush junior, in perfetta continuità con George Bush senior, non tollera che il suo vero «grande elettore» - le potenti holding dell'industria - possa subire le interdizioni e i divieti ecologici della comunità internazionale.
L'insensibilità delle oligarchie capitalistiche e delle loro rappresentanze politiche al destino del mondo pone problemi teorici e pratici di non poco rilievo a chi si impegna per introdurre segnali di controtendenza nel ciclo dissennato dell'economia globale. In questi giorni, tanto per metterla sull'attualità, in Italia si parla, con una retorica «sviluppista» che ha un certo sapore dannunziano, di ulteriori 64.000 megawatt da aggiungere al nostro parco energetico mediante la costruzione di centinaia di nuovi megaimpianti: già vi sono, credo, 208 richieste relative all'installazione di altrettante centrali, termovalorizzatori ed altro. I «padroni del vapore» - e, ahimè, ormai anche «padroni del calore» - giocano ad occultare, sotto le tabelline delle loro promesse occupazionali e delle loro architetture un po' futuriste, lo strappo che chiedono al nostro ambiente: un ulteriore strappo, una nuova e insopportabile somma di impatto ambientale e di inquinamento.
Forse, in questa chiave - per così dire - energetica, si può intendere meglio la ricollocazione, prima politica e poi industriale, del gruppo Agnelli, il quale, avendo avuto dal centrosinistra la liberalizzazione del settore chiave dell'energia, può ora cooptarne il mercato e conquistarne il comando. Questo inciso mi serve per chiarire - lo dico a me e lo dico a tanti colleghi di quest'Assemblea - la ragione profonda, direi materiale, che rende difficili convergenze - come si dice - bipartisan su un tema che non può suggerire effimere unità di facciata, visto che riguarda interessi che, in verità, dividono profondamente la società e che dovrebbero dividere e segnare le identità politico-programmatiche degli schieramenti.
L'effetto serra, si sa, sta cambiando il clima del pianeta, con la conseguente crescita dei fenomeni di siccità e la perdita dei raccolti agricoli. Le cronache dei giornali ogni giorno ci raccontano questi scenari
davvero apocalittici: aumentano gli incendi che ogni anno divorano un pezzo rilevante dei polmoni verdi del mondo; i ghiacciai vedono ridotta la propria superficie, si ritirano, cominciano lentamente a sciogliersi; si modifica la temperatura dei mari, con conseguenze devastanti sugli ecosistemi acquatici e sul clima; si innalza minacciosamente il livello dei mari, si distruggono le barriere coralline, aumentano a dismisura il fenomeno alluvionale e quello delle tempeste; l'aumento delle temperature incentiva la diffusione epidemica di importanti patologie, a cominciare dalla malaria, e non vorrei che ne parlassimo come di un fatto esotico: cento milioni di africani sono ora, attualmente, malati di malaria (Applausi del deputato Volontè); si crea un clima favorevole all'espansione, alla diffusione, appunto, di animali portatori di malattie, come i ratti, le zanzare-tigre ed asiatiche; aumentano le infestazioni dei parassiti; insomma, questo è il quadro, questa è la cornice.
Alcuni scienziati dicono che stiamo vivendo il più grande disgelo dall'epoca dell'ultima glaciazione, avvenuta circa diecimila anni fa.
Dico che questo fatto, signori del Governo, ci sta dinanzi drammaticamente, anche con i suoi costi economici; solo nel 1999 gli uragani e le ondate di caldo hanno provocato danni stimati in cento miliardi di dollari. Ma al costo economico, che le compagnie assicuratrici cominciano a considerare insopportabile, come si può vedere nella vicenda degli Stati Uniti d'America dove non c'è più una compagnia che stipuli una polizza relativa ai rischi di catastrofi ambientali, bisogna aggiungere il costo ambientale, sociale, umano. Per questo, non basta la ricerca di qualche rimedio tampone; sarebbero cerotti messi su una cancrena dilagante. Occorre un mutamento radicale di politica economica e persino di mentalità, ma io dubito, francamente, onestamente, che il nuovo Governo possa battere questa pista di autentica innovazione.
Voi chiamate innovazione e modernità la reiterazione dello «stupro ambientale», per la maggior gloria del sistema di impresa; noi, viceversa, chiamiamo innovazione il primato della qualità ambientale e della qualità sociale, la difesa del pianeta e la promozione della vita, della salute e della dignità di ogni essere vivente (Applausi dei deputati dei gruppi di Rifondazione comunista e dei Democratici di sinistra-l'Ulivo)!
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Crucianelli, che illustrerà anche la sua mozione n. 1-00009. Ne ha facoltà.
FAMIANO CRUCIANELLI. Signor Presidente, signori rappresentanti del Governo, la mozione che illustrerò è meno suggestiva, un po' più prosaica; tuttavia le cose che sono state dette fin qui, sia da chi ha illustrato la mozione sul G8 sia da chi ha illustrato quella su Kyoto, fanno da sfondo umano ad un ragionamento un po' più prosaico ma essenziale sul quale attendo una risposta del Governo anche perché, già nella passata legislatura, abbiamo avuto delle discussioni a tale riguardo.
Nel corso degli ultimi anni, in molti paesi, si sono moltiplicate le iniziative, anche parlamentari, tese a formulare proposte per porre un freno alla speculazione finanziaria internazionale, per prevenire i rischi di destabilizzazione delle valute e delle economie e società nazionali, per affrontare contestualmente gli squilibri ambientali e sociali mondiali. Tra le proposte più note, più discusse, anche in modo controverso, figura quella avanzata da James Tobin, premio Nobel per l'economia nel 1981. La sua proposta nel corso degli anni è diventata un po' l'emblema, il simbolo della volontà di riconquistare alla democrazia gli spazi ad essa confiscati dall'espandersi del dominio della sfera finanziaria su scala planetaria e della volontà di operare una ridistribuzione della ricchezza tra il nord ed il sud del mondo, fornendo importanti risorse per finanziare la cooperazione allo sviluppo, la lotta alla povertà e l'ambiente.
A partire da quel contributo si è sviluppato un ampio dibattito a livello scientifico
internazionale che ha approfondito la concreta praticabilità della Tobin tax (cito soltanto due tra i più esimi esponenti in questo dibattito come Rodney Schmidt e Paul Bernd Spahn). Si tratta di un dibattito, lo ripeto, molto complesso, ma credo sia importante cogliere, anche in questa nostra discussione - e il mio augurio è che il Governo questo colga -, il nucleo di verità presente in questa ipotesi.
La Tobin tax ovviamente non esaurisce, né potrebbe esaurire, il dibattito sulla regolazione dell'economia su scala globale, sulla mondializzazione e sulle relazioni nord-sud, ma può costituire un passo in avanti verso la costruzione di una economia mondiale nella quale la crescita sia messa al servizio di uno sviluppo cooperativo e della riduzione delle ineguaglianze.
Questa proposta, com'è noto, solleva vari altri problemi: quello dei «paradisi fiscali» utilizzati da molte grandi aziende per sfuggire agli impegni di solidarietà sociale non contribuendo adeguatamente al proprio dovere fiscale; quello della tassazione dei movimenti di capitale in generale; quello del controllo dei fondi speculativi; quello delle politiche del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale e infine dei debiti dei paesi in via di sviluppo.
Più in generale, questa proposta solleva il tema di una nuova architettura finanziaria economica e sociale internazionale. Infatti, non si può pensare, come è già stato detto ampiamente, di globalizzare solo il mercato ed i profitti, ma occorre globalizzare, contemporaneamente e soprattutto, i diritti.
Nel '900, tramite l'organizzazione, le lotte dei movimenti operai e la spinta dei ceti popolari, si è realizzato un sistema di Welfare State che ha consentito non solo la coesione sociale ed una maggiore giustizia, ma anche uno sviluppo più forte di sistemi produttivi nazionali.
Oggi, con la mondializzazione, con la crisi dello Stato nazionale, con lo sviluppo impetuoso dei flussi finanziari, di beni, di servizi e di popolazioni esiste un serio rischio di ritorno ad un capitalismo selvaggio, senza regole, che condanna miliardi di uomini, donne e bambini a livelli di vita indegni di una persona umana.
Il compito che abbiamo di fronte è, dunque, molto più complesso che nel passato e si svolge su scala planetaria: è quello di ottenere una più equa distribuzione della ricchezza e di garantire, in maniera universale, i diritti sociali fondamentali di libertà. Questo obiettivo non risponde soltanto ad una esigenza di giustizia elementare, ma corrisponde, come ha ben capito anche uno dei maggiori protagonisti della finanza internazionale, George Soros, anche all'interesse strategico dei paesi più ricchi e sviluppati.
Recentemente - due settimane fa, mi sembra -, gli stessi giovani industriali, riuniti a Santa Margherita Ligure, hanno proposto un'imposta sulle transazioni finanziarie internazionali - se ricordo bene l'hanno chiamata ecotax - che, in realtà, nella sostanza, non è molto dissimile dalla proposta che noi avanziamo con questa mozione.
Se in tanti si muovono, è perché vi è una vera emergenza; una emergenza sia sul versante dei mercati finanziari sia su quello dei paesi poveri.
Dopo lo sganciamento, avvenuto nel 1971, del valore del dollaro USA da quello dell'oro e la liberalizzazione del mercato delle valute, il volume delle transazioni monetarie si è moltiplicato per 83. Nel 1973, ancora l'80 per cento delle transazioni monetarie era collegato al commercio. Dal 1986 al 1999 il volume delle transazioni sul mercato delle valute è passato da una media di 200 miliardi di dollari al giorno ad una di 1.800-2.000 miliardi di dollari al giorno, secondo i dati della Banca per le regolazioni internazionali. Per fare un paragone, il totale degli scambi annuali di beni e servizi è stimato in 4 mila 300 miliardi dollari, in pratica l'equivalente di meno di una settimana di transazioni sul mercato delle valute.
Attualmente, più del 95 per cento delle transazioni finanziarie non ha alcun legame con lo scambio di merci, di servizi o con investimenti e sono puramente speculative. Più del 40 per cento di queste
transazioni corrisponde ad operazioni di acquisto e di rivendita che si esauriscono in un periodo inferiore ai tre giorni, e l'80 per cento del volume globale delle transazioni corrisponde ad operazioni che si svolgono in meno di una settimana.
L'informatica e le telecomunicazioni hanno dato un impulso fortissimo ad una tendenza che solo venti anni fa rappresentava un fenomeno marginale.
Le risorse valutarie che le banche centrali possono movimentare equivalgono appena al volume delle transazioni quotidiane sul mercato mondiale; in virtù del loro carattere imprevedibile - questo è un dato che ha delle immediate conseguenze politiche - questi movimenti di capitale possono in poche ore provocare il crollo di una moneta, la crisi dell'economia di un intero paese e fare sprofondare tutta la sua popolazione nella recessione. Non si tratta di un pericolo astratto: basta avere a mente la crisi messicana del 1995, la crisi del sud-est asiatico nel 1997, la crisi russa del 1998, la crisi brasiliana del 1999; se non vogliamo andare a vedere solo in casa degli altri, basta ricordare il ruolo del Fondo Quorum di Soros nella crisi del Sistema monetario europeo del 1993.
Nel corso della crisi del sud-est asiatico del 1997, il crollo della moneta dell'area si è immediatamente tradotto in una fuga rapida e massiccia dei capitali investiti, che a sua volta ha trascinato la chiusura di migliaia di imprese, un'ondata massiccia di licenziamenti, un calo medio della produzione del 10 per cento ed in alcuni paesi fino al 16 per cento. «Anche una caduta del 10 per cento del prodotto nazionale lordo può non sembrare gran cosa» - sostiene un noto economista come Amaztya Sen nel suo saggio «Lo sviluppo e la libertà» - «se viene dopo una crescita economica del 5-10 per cento annuo durata per decenni; eppure questa diminuzione può decimare la popolazione e gettare milioni di persone nella sofferenza se il suo peso non viene ripartito fra tutti, ma si permette che gravi per intero sulle persone meno capaci di reggerlo, i disoccupati e coloro che sono stati appena trasformati in "esuberi"».
Dopo la crisi asiatica si era sviluppato un dibattito sulla necessità di una profonda riforma del sistema finanziario e sulla necessità di una nuova architettura finanziaria internazionale. Sono passati quattro anni, ma niente è cambiato. Il sistema finanziario internazionale è sempre lo stesso, vulnerabile ed esposto, oggi come allora, agli effetti dei suoi propri eccessi.
Fare delle previsioni, e vengo al punto, sulle risorse che si renderebbero disponibili non è cosa semplice, come è ovvio. La Tobin tax è nata per frenare le transazioni speculative, ed essa avrebbe come effetto la diminuzione del proprio potenziale imponibile di partenza: è quella che gli americani chiamano una sin tax, una «tassa sui peccati», come le accise sui tabacchi o sugli alcolici. Dunque non è facile fare previsioni.
Una stima di alcuni economisti, sulla base degli scambi effettuati nel 1995, prevede, con un'aliquota pari allo 0,05 per cento, un gettito di circa 100 miliardi di dollari. Generalmente sulla base dei dati del 1998 e del 1999 si calcola il gettito della Tobin tax tra i 50 ed i 250 miliardi di dollari.
Per fare dei paragoni, occorre considerare che il programma delle Nazioni unite per lo sviluppo valutava i costi del programma per soddisfare i bisogni nutrizionali e sanitari di base in 13 miliardi di dollari l'anno, e quelli del programma di accesso all'acqua potabile in 9 miliardi di dollari. Il PNUD valutava il costo complessivo delle azioni per eliminare le forme più estreme di povertà, per fornire acqua, energia, strutture sanitarie ed educative ai paesi del terzo mondo, tra i 30 ed i 40 miliardi di dollari l'anno. Ciò per dire quanto si potrebbe fare se questa iniziativa, realmente, prendesse corpo e divenisse effettiva.
Circa la Tobin tax si è sviluppato, nel corso di questi ultimi anni, un vasto movimento internazionale che, fuori dall'Unione europea, ha visto, come importantissima iniziativa, l'approvazione da parte del Parlamento canadese, nel marzo del 1999, con una maggioranza dei due
terzi, di una mozione a favore dell'introduzione di questa imposta. Altre iniziative hanno interessato i parlamenti del Brasile e perfino il Congresso degli Stati Uniti.
Insieme ad altri colleghi italiani ho personalmente sottoscritto un appello, firmato da circa mille parlamentari di tutto il mondo, a favore della Tobin tax.
Nel Parlamento europeo esiste un intergruppo su «Tassazione del capitale, fiscalità, mondializzazione» che ha presentato nel gennaio 2000 una mozione al Parlamento europeo che prevedeva la Tobin tax e che non è stata approvata per soli 6 voti.
Nel frattempo il Governo finlandese si è pronunciato a favore dell'imposta. Dibattiti importanti si sono svolti nella Camera dei comuni; esistono intergruppi parlamentari e sono state presentate mozioni in tal senso in vari parlamenti europei (in Francia, in Belgio ed oggi in Italia).
Nella scorsa legislatura una mozione simile a quella che oggi discutiamo, di cui ero primo firmatario, ha raccolto oltre 60 firme di parlamentari e nei prossimi giorni il mio impegno, insieme ad altri parlamentari, è quello di presentare un vero e proprio disegno di legge.
Dopo Seattle una nuova opinione pubblica mondiale chiede una gestione diversa della mondializzazione dell'economia, che costruisca una nuova solidarietà internazionale sui terreni della lotta alla povertà e per lo sviluppo umanamente sostenibile. Lo stesso movimento per l'introduzione della Tobin tax si sta organizzando internazionalmente ed anche nel nostro paese sta raccogliendo molteplici associazioni di diverso indirizzo culturale, inclusa una larga fetta dell'associazionismo cattolico.
Ho appreso con interesse dai mezzi di informazione - non so se tale notizia verrà confermata in quest'aula - che lo stesso onorevole e ministro Buttiglione dovrebbe presentare nei prossimi giorni un progetto di legge sempre su questo tema. Come vedete, non siamo di fronte ad un'invenzione dell'ultima ora, ma ad un dibattito che viene da molto lontano, che si è svolto in luoghi e sedi di grande cultura scientifica, che ha ottenuto un ampio consenso politico in altri parlamenti internazionali come quello canadese e che ha avuto un esito direi al 50 per cento nel Parlamento europeo. Siamo, quindi, di fronte ad un tema di grande attualità e, se i giovani imprenditori lo hanno assunto come una delle grandi questioni da mettere al centro dell'iniziativa politica, credo che ciò dovrebbe portare il Governo ad un'attenta lettura di questi processi.
Nella nostra mozione invitiamo più semplicemente il Governo a prendere una iniziativa volta all'introduzione della Tobin tax su scala europea ed internazionale. È, infatti, del tutto evidente che una misura di questa natura, che investe i mercati finanziari internazionali, non possa essere adottata unilateralmente da un paese, ma richieda la concordia e il coinvolgimento di altri paesi e più in generale del sistema politico europeo ed internazionale. In questo senso sarebbe di grande importanza il coinvolgimento della stessa Unione europea per far sì che questa ipotesi possa diventare pratica e concreta. Anche su questo decisivo terreno l'appuntamento del G8 di Genova, del quale si è discusso oggi e del quale si discuterà molto presumibilmente anche nei prossimi giorni, può rappresentare un'occasione utile.
Sono convinto - come è stato già affermato dall'onorevole Burlando e da altri - che a Genova si svolgerà una discussione sul debito, sul protezionismo indebito dei paesi sviluppati nei confronti del sud del mondo e sulle malattie che determinano molto spesso la decimazione di intere popolazioni di quell'area. Voglio, però, dire che una misura di questo tipo, ancorché complessa e problematica dal punto di vista tecnico, rappresenterebbe un segnale molto concreto.
Discutiamo, infatti, da alcuni decenni di debito e di cooperazione internazionale, ma è giunto il momento di assumere anche alcune scelte che interagiscano con i processi finanziari ed economici a livello internazionale, anziché adottare soltanto misure laterali che poi si esauriscono in se
stesse e che talvolta - come la storia del nostro paese ci insegna - diventano anche terreno di pascolo di eventi da non indicare come modello.
Misure come queste non sono volte solo ad affrontare le questioni concernenti il debito, la povertà, la miseria, le grandi crisi ambientali, ma hanno anche il pregio di intrecciarsi strettamente con i processi finanziari ed i processi economici internazionali. Per queste ragioni, mi auguro che la Tobin tax che certamente non è un fatto ideologico né un miracolo, ma rappresenta una misura molto concreta, possa oggi essere presa seriamente in esame dal Governo e che domani possa diventare oggetto di discussione nella sede del G8 (Applausi dei deputati dei gruppi di Rifondazione comunista, dei Democratici di sinistra-l'Ulivo e della Margherita, DL-l'Ulivo).
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Alfonso Gianni, che illustrerà anche la sua mozione n. 1-00010. Ne ha facoltà.
ALFONSO GIANNI. Signor Presidente, signori rappresentanti del Governo, onorevoli colleghi, quando James Tobin, ormai trent'anni fa, nel 1972, avanzò la proposta di un'imposta su tutte le transazioni finanziarie non si aspettava, forse, un successo così grande e così duraturo, anche se dilazionato nel tempo rispetto al momento in cui egli pensò quella proposta. D'altro canto quella era una proposta che veniva da lontano. Infatti, contro i rischi di una crescita incontrollata delle operazioni speculative si erano già espressi, nel 1944, sia Keynes sia White, estensori dei piani britannico e statunitense che erano finalizzati a gettare le basi di un nuovo ordine economico internazionale che, infatti, vi fu.
Tobin propose la sua ricetta non per combattere, ma per migliorare il capitalismo. Egli era un uomo di formazione liberale, liberale ma non liberista, distinzione che è scomparsa nelle classi dominanti al giorno d'oggi, ma che era assai viva allora. Egli pensava che elementi correttivi, anche forti, andassero comunque posti allo sviluppo capitalistico giunto ad un punto decisivo della sua evoluzione.
Gli anni in cui Tobin pensa la sua proposta sono quelli della fine della convertibilità del dollaro in oro, del tramonto definitivo del sistema di Bretton Woods, che regolò il capitalismo mondiale per oltre un quarto di secolo, del tempo in cui si affaccia la grande crisi petrolifera, del tempo dell'inizio del passaggio da un sistema produttivo fordista a quello che non siamo riusciti a definire con un termine migliore di post-fordista. Si tratta, insomma, degli anni agli albori della grande globalizzazione. Un grande cambiamento che possiamo tranquillamente definire una rivoluzione, anzi, con un ossimoro, una rivoluzione restauratrice. Essa, infatti, cambia moltissime cose nei modi della produzione e nei modi della vita, ma rende più ricchi e più potenti coloro che già erano ricchi e potenti, più poveri e più oppressi coloro che già erano poveri ed oppressi.
La globalizzazione, di cui oggi stiamo parlando, ha accresciuto enormemente il volume delle transazioni finanziarie ed ha aumentato la loro rapidità. Negli ultimi dieci anni la quantità di transazioni finanziarie è aumentata del 5 per cento, la dimensione finanziaria assorbe risorse 72 volte superiori al commercio mondiale di merci e di servizi che occupano solo il 3 per cento. Per dare un'idea, ogni giorno vengono scambiati - e forse questi dati sono ancora per difetto - qualcosa come 1.800 miliardi di dollari sui mercati valutari per operazioni che, per oltre il 95 per cento, sono puramente di speculazione sulla variazione dei tassi di cambio tra le monete. Non si tratta di un fatto accidentale, al contrario è un dato strutturale. Questo enorme rigonfiamento finanziario, questa bolla speculativa su cui il mondo siede tremante e che può, da un momento all'altro, rivelarsi in una catastrofe, costituisce una forma specifica, nell'epoca della globalizzazione capitalistica e finanziaria, con cui si presenta la grande proprietà. I capitali accumulati per via speculativa si traducono in un reale accaparramento del
valore aggiunto prodotto dal lavoro umano, materiale ed immateriale, nel mondo. Così è cambiata la distribuzione della produttività a vantaggio assoluto ed esclusivo del capitale contro il lavoro umano in tutte le sue forme.
Per queste ragioni la natura della proposta di James Tobin ha cambiato di significato: essa è diventata uno strumento di difesa contro il liberismo, un granello di sabbia che si vuole porre nei suoi ingranaggi.
Ma vi è un'altra caratteristica che la proposta Tobin ha assunto ed è questa che, probabilmente, stupisce il suo stesso inventore: essa è diventata una bandiera, un punto programmatico, un obiettivo condiviso di un movimento mondiale assai vasto ed articolato che dai sem terra brasiliani passa ai movimenti antiglobalizzazione nel continente americano e, in Europa, passa attraverso importanti e rilevanti forze sindacali, coinvolge forze intellettuali non ancora risucchiate nella logica e nella gabbia del pensiero unico, entra nei Parlamenti e diventa mozioni ed atti in alcuni rilevanti paesi europei.
Pochi giorni fa a Bologna è nata ATTAC Italia, l'articolazione di un movimento internazionale che fa della tassa Tobin la sua bandiera principale: sono stati due giorni di intenso dibattito con giovanissimi che di economia magari capiscono poco, ma che sentono che bisogna stare dalla parte dei poveri e degli oppressi. In definitiva, se la politica non incontra questi movimenti, la sua crisi diventerà definitiva!
Per questi motivi noi abbiamo insistito sulla proposta di introdurre una tassa Tobin; lo facciamo non da oggi: nel novembre del 1999 presentammo una mozione il cui testo è analogo a quella che lei, signor ministro, vede oggi sul suo tavolo, raccogliendo anche firme di diversi parlamentari appartenenti ad altri gruppi.
Abbiamo, inoltre, ostinatamente in ogni legge finanziaria proposto un emendamento che a quella tassa si ispirava: finora non siamo stati ascoltati, ma non importa, insisteremo perché non siamo soli. Che cosa chiediamo? Una tassa che abbia delle caratteristiche di universalità, di uniformità, di progressività, nel senso che sia inversamente proporzionale alla rapidità dei movimenti e delle transazioni finanziarie. Tuttavia, se tali elementi sono importanti per definire l'efficacia della tassa Tobin, non importa che concorrano tutti insieme: non possono diventare un alibi per non fare immediatamente qualche cosa, anche da parte di un singolo Governo (anche se è ovvio che una tassa del genere deve avere, per sua necessaria natura, una dimensione di carattere internazionale).
Però questo non può diventare un alibi! Veniva già detto: che cosa fare di una tassa Tobin? Che cosa fare degli introiti? Alcuni economisti dicono, per l'appunto, che con solo lo 0,1 per cento, anzi meno, con lo 0,05 per cento di aliquota sulle transazioni finanziarie, che è più forte su quelle brevi e più debole su quelle a più lungo periodo, il volume di introiti basterebbe per risolvere il problema della povertà a livello mondiale, naturalmente se fosse ben governato.
Allora chiediamo al Governo che si faccia interprete in ogni ambito internazionale perché questa tassa venga istituita e perché si pensi tramite questa via ad un rilancio del ruolo pubblico nell'economia e nei settori innovativi, alla difesa e alla riforma dello Stato sociale, alla cancellazione del debito estero per finanziare politiche sociali nei paesi più poveri, per promuovere una riforma del sistema finanziario globale, per chiudere con ipotesi di accordi come quelli che si erano affacciati del MAI, di una liberalizzazione selvaggia degli investimenti o con la logica dei paradisi fiscali.
Sono consapevole che chiedere ciò in una situazione in cui, secondo una notizia del il Sole 24 ore, i paesi dell'OCSE fanno retromarcia rispetto ad una moderazione dell'estensione dei paradisi fiscali, può sembrare utopistico. So che chiederlo ad un Governo che ha fatto come sua bandiera niente di meno che quella vergognosa proposta di abolizione della tassa di successione può sembrare ingenuo.
Lo so, signori del Governo, che ci vuole molto ottimismo e volontà per superare il pessimismo della ragione, ma a condividere quell'ottimismo ci sono milioni di donne e di uomini nel mondo e centinaia di migliaia di loro ve lo ripeteranno a Genova.
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Volontè, che illustrerà anche la mozione Elio Vito ed altri n.1-00013, di cui è cofirmatario. Ne ha facoltà.
LUCA VOLONTÈ. Signor Presidente, onorevole rappresentante del Governo, onorevoli colleghi, voglio iniziare questa breve illustrazione della mozione presentata dalla Casa delle libertà partendo da un invito con il quale, poi, concluderò anche questa breve esposizione.
Ho ascoltato in quest'aula - nella quale mi spiace di dover rilevare una scarsa partecipazione - una discussione su temi importanti che non riguardano solo il vertice dei G8. Si tratta, infatti, di occasioni per dibattere non esclusivamente l'azione del nostro importante ministro degli esteri, ma un modo di concepire lo sviluppo dell'economia, la solidarietà e la responsabilità del nostro paese e del suo prestigio anche nei confronti di paesi terzi.
L'invito è quello - ed ho ascoltato molti toni in questa direzione - di arrivare, pur partendo da diverse mozioni, ad una risoluzione comune, che raccolga il comune sentire di quest'Assemblea. Mi sembra che tutti abbiamo preoccupazioni simili, identiche in alcuni aspetti, e noi, come Casa delle libertà, abbiamo cercato di raccogliere, soprattutto negli impegni del Governo, alcune preoccupazioni che già erano emerse nei dibattiti della scorsa legislatura. Ricordo, ai colleghi che siedono in quest'aula da qualche anno, il dibattito impegnativo che abbiamo svolto tutti sul provvedimento relativo alla cancellazione del debito dei paesi del terzo mondo durante la scorsa legislatura e che svolgeremo dopo l'impegno assunto dal Presidente Berlusconi nelle sue dichiarazioni rese alla Camera e al Senato; ricordo altresì il dibattito che facemmo, un anno e mezzo fa, sui limiti da porre alla conoscenza attraverso Internet e, quindi, anche su tale elemento della ricchezza economica che fa parte dello sviluppo dei paesi.
A cosa impegniamo il Governo? Lo impegniamo, durante i lavori del vertice del G8, a fare cose importanti: ad inserire nell'agenda del G8 il problema della lotta alla povertà, all'AIDS e alle altre grandi malattie endemiche (come ricordavano alcuni colleghi), a spronare gli altri paesi industrializzati a cancellare il debito e a guardare allo sviluppo dei paesi più poveri e ancora in via di sviluppo come promotori di uno sviluppo sostenibile nei loro confronti.
Abbiamo impegnato e vogliamo impegnare il Governo, nei prossimi vertici, a favorire una più ampia partecipazione a tali importanti vertici dei paesi in via di sviluppo e dei paesi meno avanzati. Abbiamo impegnato e vogliamo impegnare il Governo a promuovere una migliore governabilità dell'interdipendenza economica delle nazioni oggi esistenti nel pianeta ed anche a far partecipare, più attivamente di quanto non sia avvenuto fino ad oggi, le organizzazioni internazionali, l'ONU e le altre organizzazioni. Voglio ricordare, in questa sede, quanto sia importante, insieme all'ONU, non solo il WTO, ma anche l'Organizzazione internazionale del lavoro, che rappresenta un altro elemento fondamentale quando si discute di tali importanti problemi, al fine di evitare che le aziende multinazionali possano, attraverso una maggiore compressione dei diritti, produrre gran parte dei loro prodotti in paesi che non rispettano alcune regole fondamentali a garanzia del lavoratore e dei suoi diritti.
Abbiamo impegnato il Governo, insieme agli altri partners europei, a adottare nelle sedi istituzionali appropriate i principi e le regole universalmente riconosciute per consentire un corretto e più equo gioco del mercato economico.
Abbiamo impegnato il Governo a favorire un più efficace contributo delle organizzazioni non governative nella discussione, nell'approvazione, nella proposta di questi principi e di queste regole e nell'incrementare la considerazione che queste
organizzazioni non governative ricevono da parte dei singoli Governi oltre che nelle sedi internazionali.
Abbiamo impegnato il Governo e chiediamo che il Governo si impegni a garantire la libertà di manifestare, in modo pacifico e non violento, ai cittadini e alle organizzazioni non governative presenti durante il vertice di Genova e abbiamo, anche, impegnato il Governo allo svolgimento di incontri con i Capi di Stato e di Governo del G8 con modalità confacenti all'identità, alla storia e al prestigio nel nostro paese, assicurando l'incolumità fisica dei partecipanti, quella degli abitanti di Genova e tutelando questi ultimi da azioni violente da parte di quanti non si riconoscono nel dialogo democratico.
Abbiamo impegnato il Governo anche sull'altro tema, e qui ho sentito una parola che mi è dispiaciuta: lo «stupro ambientale» che questo Governo starebbe mettendo in atto. Non vedo nei provvedimenti del Governo, nell'azione della Casa delle libertà, nella precedente legislatura nonché in questo inizio di legislatura, alcuno stupro ambientale da parte della maggioranza.
Mi sembra molto importante, invece, l'invito che noi rivolgiamo al Governo a collaborare con gli altri paesi europei per l'approvazione del Protocollo di Kyoto e per la realizzazione degli obiettivi in esso contenuti, nonché per favorire - se ne è parlato prima - la ricerca, insieme agli altri partner europei, di un proficuo dialogo con gli Stati Uniti in vista della ricerca e della realizzazione di una politica ambientale.
Queste sono le considerazioni che faccio, al di là della mozione che ritengo sia positiva e che reputo raccolga la gran parte delle preoccupazioni degli ambientalisti, dei Verdi, di chi è più preoccupato - come tutti, d'altra parte, siamo - per la cancellazione del debito dei paesi poveri, di chi è giustamente attento al problema delle speculazioni finanziarie. Permettetemi di fare una breve nota. Il ministro degli esteri che fa parte dell'attuale Governo ha avuto occasione, mentre guidava il WTO, di seguire da vicino - purtroppo per lui - alcune situazioni di paesi che hanno subito gravemente i danni di speculazioni finanziarie che hanno addirittura piegato quelle nazioni. Io ho avuto la fortuna - come chi di voi faceva parte della Commissione attività produttive durante la precedente legislatura - di ascoltare dalle parole dell'allora Segretario generale del WTO quanta preoccupazione quell'organismo internazionale nutrisse nei confronti delle speculazioni finanziarie e di come esse potessero riportare un paese che stava crescendo dal punto di vista economico, anche nel tenore di vita dei cittadini, ad uno stato di grave povertà.
Ritengo che su molti aspetti che ho cercato di ricordare e che costituiscono il perno della nostra mozione ci siano le condizioni perché il Parlamento dia con grande forza un segnale importante con una risoluzione unitaria, per impegnare e favorire il prestigio e l'azione del nostro Governo nel vertice G8 di Genova. Lo ritengo opportuno per il nostro Parlamento perché gli accordi bipartisan in questo campo, che è il campo della politica estera, del prestigio del paese, della dignità culturale e della storia del nostro paese, fatta di solidarietà, di responsabilità, di intelligenza nel trovare le soluzioni, possono, entro principi saldi, che fanno parte della nostra tradizione e della nostra Costituzione, mettere d'accordo grandi nazioni occidentali.
Ritengo questa sia un'azione che dobbiamo perseguire in tutti i modi e invito non solo il Governo a considerare con la dovuta attenzione la nostra mozione, ma anche gli amici dell'opposizione a ritenere possibile la redazione comune di una risoluzione che abbia in sé i principi che ho richiamato - e che sono stati richiamati nelle altre mozioni - e che permetterebbero al nostro Governo di affrontare al vertice G8 questi temi, che sono cari a tutti i cittadini italiani, a chi manifesta e a chi sta a casa, a chi è andato in missione e a chi, invece, è andato soltanto a Seattle, consentendoci di poter dire con grande
dignità anche dopo il G8: sono italiano (Applausi dei deputati dei gruppi del CCD-CDU Biancofiore, di Forza Italia e di Alleanza nazionale)!
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Falsitta. Ne ha facoltà.
VITTORIO EMANUELE FALSITTA. Signor Presidente, mi riferisco alla mozione che ha ad oggetto la Tobin tax. Sarò sintetico. Tra i problemi tradizionali legati alla comunicazione c'è, anzitutto, l'interpretazione della volontà di quanto si è voluto comunicare. Questa volontà è tanto più difficile da essere individuata quanto più vago è il significato dei termini con cui si esprime. Per questa ragione, la mia opinione su un eventuale impegno del Governo in relazione alla cosiddetta Tobin tax, che appunto comporta comunicazione, credo sia opportuno passi attraverso due specificazioni preliminari, così da non generare fonti di vaghezza: la prima sul tributo in rassegna, la seconda su un aspetto del dibattito nel quale esso si inserisce.
La Tobin tax è un progetto di imposta il quale non sembra ancora perfetto nella formulazione definitiva di tutti i suoi elementi, soprattutto in relazione alla fisionomia dei mercati così come oggi appare. Si può dire che è una forma di imposizione che colpisce le transazioni e/o gli scambi di titoli o valute meramente speculativi, il cui gettito è finalizzato a diminuire la povertà delle popolazioni, a contribuire alla cooperazione, allo sviluppo e così via.
Associati a questi obiettivi alti, vi sarebbero poi anche la regolamentazione e il controllo dei mercati finanziari. Tra gli elementi del tributo, naturalmente, vi sono quelli giuridici, ad esempio il fatto imponibile, ovvero la transazione speculativa in valuta, e quelli economici, che attengono al gettito e rilevano per gli scopi dell'imposta, ad esempio l'adozione della tassa all'interno dell'ordinamento di ciascun paese. Questa considerazione serve a ricordare che il mutamento dei presupposti di un tributo è capace di renderlo inefficace, di trasformarlo e farne cose diverse. Nel caso che ci occupa, è Tobin stesso ad affermare quanto detto alle pagine 165 e 166 del quaderno intitolato «A currency transaction tax. Why and how», presentato alla Conferenza della globalizzazione dei mercati all'Università La Sapienza di Roma il 27 e 28 ottobre 1994.
Ecco la seconda precisazione. Il dibattito sull'imposta in rassegna ha dato luogo ormai ad un fenomeno esteso e importante, dove si profilano orientamenti diversi. In linea generalissima, per alcuni l'accordo dei paesi mondiali sull'adozione della tassa, giusta la difficoltà ad essere raggiunto, la rende di fatto inapplicabile. Per altri, essa non è più adeguata allo stato dei mercati finanziari e perciò inidonea a perseguire lo scopo per il quale è stata pensata: anzi, potrebbe alimentare disfunzioni proprio nel sistema che intende regolamentare. Viceversa, su posizioni opposte, la tassa potrebbe essere introdotta fin da ora. Quanto al caso italiano, ci sono da segnalare tentativi di circoscrivere l'ambito territoriale del tributo, limitandolo al solo ordinamento domestico e facendone salva parte dell'architettura originaria. Questa seconda precisazione serve a ricordare che sul tema c'è difformità di vedute e un po' di confusione e che l'impegno di uno Stato verso il progetto di tributo potrebbe avere contemporaneamente significato diverso: un impegno ad introdurre la Tobin tax, un impegno ad introdurre un'imposta diversa ma che colpisca il medesimo presupposto della prima, un impegno a battersi sul terreno internazionale per perfezionare lo studio della Tobin tax per poi adottarla insieme con tutti gli altri Stati.
Ecco quindi la mia opinione sull'oggetto esibito dalla mozione. Non sono d'accordo che il Governo oggi si impegni ad introdurre un tributo che colpisca le transazioni del tipo che si è visto. Se davvero si vuole un ordinamento positivo che soddisfi i cittadini, occorre introdurre le norme solo dal momento in cui queste possano produrre effetti giuridici, in armonia con gli effetti giuridici delle altre norme del sistema: questo non è ancora il momento, proprio perché è il sistema
tributario in cui quelle norme potrebbero essere inserite che deve essere rivisitato integralmente. Al contrario, avremmo aggiunto solo materia legislativa inerte o inutile.
Né sono d'accordo, per un impegno odierno del Governo, a promuovere sul piano internazionale l'adozione dell'imposta. In aggiunta a quanto anzidetto sullo stato del nostro ordinamento tributario, lo studio della tassa in parola a me pare presenti ancora incertezze di tipo costituzionale e applicativo, e un'iniziativa finalizzata a promuovere l'introduzione, nella migliore delle ipotesi, potrebbe rivelarsi per noi prematura. Credo piuttosto, indipendentemente dalla connotazione internazionale del tributo e dell'impegno politico, che possa essere la Commissione finanze ad essere incaricata di anticipare una valutazione concreta sugli effetti giuridici ed economici di quella imposta o di altra analoga. Ma a prescindere dalle considerazioni tecniche sui mezzi, sia chiara una cosa sui fini: la Tobin tax, o altro tributo che abbia per scopo la riduzione della povertà nel mondo, o quello di essere di aiuto ai più deboli, rappresenta proprio un esempio della fiscalità, così come la intendo, cioè uno strumento per fare giustizia. Ritengo che siamo diventati deputati per essere legislatori del bene comune e così assegnare più onore alla nostra vita e al nostro paese. L'adozione di quest'altra forma di imposizione o di contributo, tutti destinati ad aiutare la gente più debole, deve essere presa in considerazione rapidamente: essa ci renderebbe certamente orgogliosi di noi stessi per esserci comportati al tempo stesso come uomini veri e fratelli (Applausi dei deputati del gruppo di Forza Italia).
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Vigni. Ne ha facoltà.
FABRIZIO VIGNI. Signor Presidente: «il riscaldamento del pianeta non è imputabile a cause naturali e le emissioni di gas serra sono così elevate che è certa una continua accumulazione di gas nell'atmosfera per tutto il XXI secolo». Queste sono parole tratte dal rapporto 2001 degli scienziati appartenenti all'IPCC, l'organismo internazionale che studia i cambiamenti climatici. Nel 1995 le previsioni degli scienziati parlavano di un possibile surriscaldamento del pianeta da qui al 2100 tra 1 e 3,5 gradi centigradi. Le ultime stime parlano di un aumento ancora più preoccupante, tra 1,4 e 5,8 gradi centigradi, con conseguenze molto serie sulla desertificazione dei suoli, sulle produzioni agricole, sul livello dei mari, sulla salute umana.
«Non serve un esperto» ha scritto Tony Blair «per capire che sarà lo sviluppo sostenibile la grande sfida di questo secolo». Intervengo in particolare sulle mozioni che riguardano il protocollo di Kyoto, ma è del tutto evidente il nesso che lega questo tema a quello della globalizzazione che sarà trattato nel vertice dei G8. Siamo di fronte ad una delle minacce più temibili per il futuro del pianeta e per le generazioni che verranno dopo la nostra. Il Protocollo di Kyoto - non i protocolli di Kyoto, ma il Protocollo di Kyoto, onorevole Volontè - deve essere considerato solo come un primo passo per contrastare i cambiamenti climatici, solo una minima parte degli sforzi che dovranno essere sostenuti nel prossimo secolo.
Siamo di fronte ad un problema di lungo periodo che ha però bisogno di scelte urgentissime. Il primo passo è ratificare ed attuare il Protocollo di Kyoto. Ci preoccupa molto la posizione del Presidente degli Stati Uniti - seppure ora lievemente cambiata nei toni, dopo che anche l'Accademia delle scienze degli Stati Uniti ha confermato che il problema esiste e si sta aggravando - che ha rimesso in discussione il Protocollo. Quella del presidente Bush rimane una scelta grave di attacco frontale alle politiche di tutela ambientale. Con gli Stati Uniti dobbiamo confrontarci, non c'è dubbio, ma noi siamo in Europa e con l'Europa, con l'impegno ribadito da tutti i principali leader, da Prodi a Blair, da Schroeder a Jospin. Ci auguriamo che anche il Governo italiano lo sia, come lo erano stati i Governi precedenti. Il Presidente del Consiglio
Berlusconi ha detto: «I patti vanno rispettati»; noi vogliamo prendere sul serio quelle parole. Per la verità ci avevano preoccupato non poco le dichiarazioni precedenti. Il ministro Matteoli ad esempio aveva affermato: «Vogliamo riportare l'Europa con i piedi per terra anziché rincorrere le chimere». Cosa significa? Sono affermazioni fatte lo stesso giorno in cui il Commissario europeo per l'ambiente ribadiva che quegli obiettivi sono raggiungibili per l'Europa.
So bene che lo sforzo di un solo paese o anche di un solo continente nella riduzione delle emissioni non basta; è determinante che tutti facciano la loro parte. È bene però che l'Italia sia in prima fila. So che c'è chi si chiede: «Chi ce lo fa fare»? C'è chi dice: «Facciamo andare avanti gli altri, altrimenti ci giochiamo la nostra competitività». Perché non provare a rovesciare il ragionamento? Per usare una metafora ciclistica, potrebbe essere uno sbaglio andar in fuga da soli, ma nondimeno stare in coda al gruppo; meglio pedalare tra i primi, per due ragioni. Innanzitutto perché molti degli interventi previsti per l'attuazione del protocollo di Kyoto sarebbero comunque necessari per modernizzare il paese. Kyoto o non Kyoto l'Italia avrebbe comunque il problema di rinnovare il sistema dei trasporti, di riorganizzare la mobilità urbana per rendere le città più vivibili, di migliorare le tecnologie nel settore energetico, di avere centrali a più basso impatto ambientale, di produrre motori od elettrodomestici a più alta efficienza, di realizzare abitazioni con un migliore isolamento termico (cose comunque indispensabili per il nostro paese). Inoltre, c'è una seconda ragione: la compatibilità ambientale dei prodotti e dei processi produttivi rappresenta sempre più un elemento di maggiore competitività per un paese e per le stesse imprese.
Si apriranno ad esempio nuovi mercati per chi avrà tecnologie per le energie rinnovabili (non a caso grandi compagnie come la BP o la Shell si stanno attrezzando nel fotovoltaico o nel solare), per chi produrrà per primo auto a più basso consumo e a minori emissioni. Pensiamo inoltre a come il Protocollo di Kyoto apre opportunità per quanto riguarda la cooperazione internazionale. Se saremo capaci di produrre tecnologie, di portarle nella cooperazione internazionale, avremo a disposizione nuovi mercati e al tempo stesso ne deriverà un contributo alla quota di riduzione delle emissioni. Sappiamo bene che l'attuazione del Protocollo di Kyoto non può essere affidata solo ad una logica di comando e di controllo. Bisogna seguire anche la via degli incentivi, della fiscalità ambientale, degli accordi volontari; bisogna cioè sollecitare dinamiche di mercato per indirizzare i comportamenti delle imprese e dei cittadini. Proprio questa è la filosofia degli impegni che già i governi di centrosinistra avevano avviato per attuare il Protocollo di Kyoto.
FABRIZIO VIGNI. Mi riferisco in particolare al «patto per l'energia e l'ambiente», alle misure di fiscalità ecologica introdotte con la carbon tax, al nuovo piano generale dei trasporti, agli accordi volontari con gruppi industriali e associazioni di imprese; mi riferisco soprattutto alla delibera CIPE del 1998. Voglio augurarmi che il nuovo Governo non torni indietro sulla strada intrapresa.
Pensiamo inoltre che il prossimo documento di programmazione economico-finanziaria dovrebbe assumere l'attuazione del Protocollo di Kyoto e, più in generale, la qualità dello sviluppo come principi regolatori. Pensiamo, in particolare, che si dovrebbe, in primo luogo, dare coerente attuazione al nuovo piano generale dei trasporti (il quale indica obiettivi di riduzione delle emissioni e un modello di mobilità sostenibile); in secondo luogo valorizzare il ruolo delle regioni e degli enti locali. Ricordo che il protocollo firmato proprio nelle settimane scorse a Torino da tutte le regioni italiane è molto importante in questo senso perché sono proprio le regioni, gli enti locali a prendere l'iniziativa per ridurre le emissioni. In terzo
luogo si dovrebbe, anche attraverso il fondo per lo sviluppo sostenibile, istituito con l'ultima legge finanziaria e l'utilizzo dei proventi della carbon tax, sviluppare una politica di sgravi fiscali e incentivi per le imprese che investono in tecnologie pulite e in efficienza energetica (in particolare le piccole e medie imprese). In ultimo, dobbiamo investire sulle fonti rinnovabili; il raddoppio della produzione da fonti rinnovabili entro il 2010, così come indicato dalla conferenza nazionale sull'energia, è un obiettivo ambizioso ma raggiungibile. Quella dei cambiamenti climatici, dunque, rappresenta non solo un grande problema ambientale del nostro tempo, è per tutti una sfida: una sfida per il nostro paese; una sfida alla politica: una sfida a sapere orientare lo sviluppo verso la qualità sociale e la sostenibilità ambientale; è una sfida che richiama la politica, troppo spesso affogata nella quotidianità, al respiro lungo, a gettare lo sguardo verso il futuro, verso lo sviluppo sostenibile, verso un'economia che abbia cura della natura e delle sue risorse (Applausi dei deputati del gruppo dei Democratici di sinistra-l'Ulivo).
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Armani. Ne ha facoltà.
PIETRO ARMANI. Signor Presidente, sono completamente d'accordo sulla mozione presentata dai quattro partiti della maggioranza che riguarda, in particolare, i problemi del G8 e del protocollo di Kyoto. Parlerò anche sulle mozioni che riguardano la Tobin tax. Per quanto riguarda il G8, sarà il collega Bornacin a parlare per il mio partito e vorrei soltanto fare una breve chiosa a ciò che è stato detto finora.
Sono d'accordo sulla lotta alla povertà, sullo sforzo per cancellare il debito dei paesi poveri, questione inserita nell'agenda di discussione nell'ambito del G8 di Genova e di tutti i G8 che seguiranno in successione. Il problema non si risolve infatti con un colpo di bacchetta magica ma ovviamente con un impegno globale di tutti i paesi avanzati e, quindi, degli stessi paesi in via di sviluppo per affrontare questi due problemi giganteschi dell'umanità.
Vorrei soltanto fare una riflessione: noi cancelliamo il debito dei paesi poveri - e certamente dobbiamo farlo, l'Italia è in prima linea da questo punto di vista, mi sembra -, tuttavia, l'importante è che questo debito cancellato non consenta ai paesi poveri di importare armi, armi vendute forse da qualche paese ex comunista, che, avendo scorte abbondanti in questo campo, vende di qua e di là, magari a qualche paese povero ma propenso al terrorismo. Per questa ragione, si tratta di un problema che dovremo affrontare il problema cum grano salis, come dicevano i latini, dal momento che, evidentemente, se ridiamo capacità finanziaria ad alcuni di questi paesi, rischiamo di avere poi risultati negativi.
Pertanto, distinguiamo, nell'ambito dei paesi poveri, fra quelli che sono bisognosi effettivamente di sostegno, perché le risorse finanziarie vengano investite nello sviluppo, nel miglioramento del sistema sanitario, nel miglioramento del sistema produttivo, nel miglioramento del livello scolare dei loro abitanti, piuttosto che nell'acquisto di armi, magari di armi chimiche che, successivamente, con missili progettati o venduti dai paesi ex sovietici o ex comunisti o anche tuttora comunisti - per esempio la Corea del nord - si trasformano così in ricattatori nei confronti dei paesi avanzati. È questa l'unica considerazione che formulo con riferimento a tale problema.
Vorrei, per così dire, sposare in pieno le tesi della mozione della maggioranza, e quindi, augurarmi anche che l'opposizione possa trovarsi - in un incontro che certamente, come ha detto il collega Volontè, è molto importante su questi temi, trattandosi di temi di politica estera, di temi di proiezione internazionale dell'immagine del nostro paese - sulle tesi della maggioranza.
Vorrei soprattutto considerare, peraltro, nell'ambito della mozione della maggioranza, i problemi relativi al protocollo di Kyoto. Sono perfettamente d'accordo sull'applicazione di tale protocollo: mi
sembra che anche la mozione Calzolaio ed altri n. 1-00003 e la mozione Giordano ed altri n. 1-00004 sollevino problemi sui quali la maggioranza si ritrova, dal momento che non vogliamo mettere in discussione l'attuazione del suddetto protocollo; semplicemente il nostro Governo, nei suoi esponenti principali, nell'ultimo consesso mondiale di Göteborg ha sostenuto il protocollo di Kyoto insieme agli altri paesi dell'Unione europea in un'ottica di apertura verso le istanze degli USA.
Infatti, ci siamo semplicemente posti - pur non discutendo la necessità di approvare il protocollo di Kyoto - il problema che, dal momento che dagli Stati Uniti d'America deriva una percentuale consistente delle emissioni di gas serra che danneggiano l'ecosistema del nostro pianeta, evidentemente l'accordo con gli USA è fondamentale, specie quando questo paese rimette in discussione il protocollo di Kyoto, ma, come è stato riconosciuto anche dai colleghi dell'opposizione, lo rimette in discussione per proporre, peraltro, soluzioni ulteriori, che molti riconoscono necessarie, concrete e realistiche, tra l'altro perché propongono il coinvolgimento anche dei grandi paesi in via di sviluppo, quali la Cina, l'India e il Brasile, paesi con masse di popolazione molto consistenti; paesi che, essendo in via di sviluppo, rappresentano potenziali produttori di emissioni di gas serra di dimensioni anche consistenti. Vediamo, quindi, di incontrarci con soluzioni concrete che coinvolgano anche gli Stati uniti d'America. Questa è l'unica considerazione che il nostro Governo ha formulato a Göteborg.
Tuttavia siamo perfettamente d'accordo sulla realizzazione degli impegni che riguardavano il nostro paese in merito all'applicazione del protocollo di Kyoto, ma vorrei ricordare ai colleghi dell'opposizione e agli amici - «amici» perché su questo tema dovremmo incontrarci in posizione bipartisan - che l'Italia si era obbligata, nell'ambito dell'impegno globale degli stati membri dell'Unione europea di ridurre entro il 2008-2012 i gas serra dell'8 per cento rispetto al 1990, ad attuare una propria riduzione del 6,5 per cento. Invece, fra il 1990 e il 1998 nel nostro paese è aumentata l'emissione di gas serra del 4,6 per cento. Chi era al Governo in quel periodo? Scusate, guardiamoci «nel bianco degli occhi», chi era al Governo in quel periodo? eravate voi al Governo! Perché non avete rispettato gli impegni?
Ci impegneremo in quanto maggioranza, il Governo si impegnerà sostenuto dalla maggioranza a realizzare gli obiettivi del protocollo di Kyoto nel quale noi crediamo, fermo restando l'accordo anche con gli Stati Uniti. Però, durante il vostro periodo di governo 1990 1998 - non sono mica pochi anni, voi siete stati con responsabilità governative per molto tempo, quanto meno dal 1992 come centro sinistra, direttamente o indirettamente, sostenendo i governi di quel periodo - ebbene, i gas serra sono aumentati del 4,6 per cento. Se dovessimo rispettare i target del 2008-2012, dovremmo recuperare il perduto, da oggi in poi, riducendo i gas serra addirittura del 10,6 per cento, somma tra il -6,5 per cento che avremmo dovuto realizzare entro il 2012 e il +4,6 per cento che, invece, abbiamo ottenuto fra il 1990 e il 1998. Purtroppo queste statistiche sono un po' vecchie (siamo infatti fermi al 1998), ma anche questo dipende dall'efficienza di coloro che devono rilevare questo tipo di statistiche nel periodo considerato.
Questo è il problema: dobbiamo impegnarci ad affrontare seriamente la questione della riduzione dei gas serra, non solo con il piano dei trasporti. Ad esempio, la delibera CIPE del 19 novembre 1998 - mi pare che allora fosse in carica ancora il Governo Prodi, il quale mi pare avesse anche l'appoggio di Rifondazione comunista, che allora era tutta unita e comprendeva anche i Comunisti italiani - prevedeva tutta una serie di impegni per la riduzione delle emissioni dei gas serra nel campo dell'energia e dei trasporti. Nel corso del 1999-2000 sono stati predisposti, e in parte adottati, alcuni provvedimenti previsti dalla delibera CIPE - anche se mi pare che gli effetti in termini di riduzione dei gas serra non si siano verificati - nei
quali venivano individuate sei azioni nazionali finalizzate alla riduzione delle emissioni, fra cui, naturalmente, l'aumento dell'efficienza del parco termoelettrico e la produzione di energia da fonti rinnovabili. Se andaste a vedere le risultanze della Germania come produzione di energia eolica rispetto alle nostre, vedreste che noi, nonostante in alcune regioni di vento ne abbiamo a iosa - addirittura D'Annunzio parlava di «città del vento», citando tra le altre Volterra - ebbene, noi siamo indietro rispetto alla Germania, la quale ha certamente quelle centrali nucleari che noi abolimmo, con una decisione a cui ero contrario (e infatti nel famoso referendum espressi voto negativo). Quella decisione consente oggi all'Electricité de France di entrare con il tappeto rosso nel nostro paese, perché noi importiamo energia nucleare prodotta dalla Francia alla metà del costo di quella prodotta nel nostro paese. Abbiamo, fra l'altro, le centrali nucleari francesi dietro l'angolo (nei pressi di Marsiglia) e qualora vi fosse un incidente in queste centrali, anche il nostro paese verrebbe colpito immediatamente.
Si tratta dunque di impegni molto seri. Il Governo, fra l'altro, con la legge obiettivo, con tutti gli altri provvedimenti che prenderà in questo campo per rilanciare le infrastrutture e le opere pubbliche, con l'impegno a pungolare il nuovo scalatore di Montedison - affinché si crei una struttura a consistente e permanente maggioranza italiana che speriamo possa essere antagonista all'ENEL in modo da poter liberalizzare e privatizzare questo mercato e quindi abbassare fortemente il costo della produzione della nostra energia aumentando l'offerta rispetto all'andamento della crescita della domanda - deve fare in modo che la nostra bolletta energetica sia più basso di quello che attualmente registriamo e consenta al nostro paese, anche attraverso questa strada, di recuperare margini di competitività che, come ha detto il Presidente Berlusconi, sono uno dei problemi che dovremo affrontare nei prossimi anni.
C'è, quindi, una perfetta disponibilità da parte della maggioranza e del mio partito, Alleanza nazionale, a tener conto di tutti gli obiettivi del protocollo di Kyoto, avendo una precisa responsabilità per quanto riguarda l'attuazione di tutte le azioni nazionali già previste e deliberate del CIPE; quindi, per esempio, nell'ambito delle fonti rinnovabili, occorre affrontare il problema della valorizzazione delle biomasse. Bene, il ministro dell'Ambiente Matteoli, pochi giorni fa ha dichiarato che bisogna chiudere la vicenda delle discariche ed avviarsi verso gli inceneritori che possono benissimo captare fumi ed emissioni di gas in modo da essere assolutamente consoni agli impegni di carattere ambientale. Per esempio, la produzione e la cogenerazione di energia nel campo dell'utilizzo delle biomasse è un modo per superare il vincolo delle discariche e, quindi, ad avanzare un programma di realizzazione di inceneritori che utilizzi questo strumento e che consenta anche la riduzione della produzione di rifiuti, lo smaltimento degli stessi e non il turismo di questi rifiuti con le navi fra i vari paesi in modo da trovare finalmente un paese che se li prenda, con i costi che questo turismo di rifiuti comporta. Ecco, su tutto questo siamo d'accordo e quindi vi invitiamo a votare la nostra mozione e ad incontrarci per realizzare il protocollo di Kyoto nel migliore dei modi al fine di recuperare il tempo perduto durante gli anni dei governi di centrosinistra.
Passerò adesso alla Tobin tax. Sulle due mozioni non c'è un impegno della maggioranza, quindi, una volta tanto posso parlare e dire ciò che penso fino in fondo. Scusate, questa è una presa in giro perché se pensate che le crisi internazionali derivino dai movimenti finanziari dei capitali non avete capito nulla! Avete ancora la deformazione marxista secondo cui il capitale finanziario è merce del diavolo perché l'unico capitale sarebbe quello umano come lavoro accumulato; avete ancora la vecchia posizione dei socialisti utopistici del XIX secolo che sostenevano che l'introduzione delle macchine avrebbe ridotto l'occupazione! Siete ancora su quelle basi. La Tobin tax non risolve nulla. La mozione Crucianelli parla di crisi finanziarie
del sud-est asiatico, dell'America latina e della Russia, quelle crisi che, noi ricordiamo fra il 1996 e il 1998 hanno caratterizzato il sistema internazionale degli scambi internazionali. Ebbene, queste crisi non erano all'origine finanziarie, erano crisi delle economie reali cresciute troppo rapidamente e che, ad un certo momento, hanno avuto problemi di sostegno finanziario. La finanza è venuta dopo, prima si è sviluppata l'economia. Questi paesi, sviluppandosi competitivamente, hanno effettuato produzioni a costi più bassi e hanno conquistato quote di mercato.
Qui abbiamo l'ex segretario della World Trade Organization, il quale conosce benissimo queste situazioni: le crisi di carattere reale hanno avuto come conseguenza uno sviluppo della liquidità.
Per molto tempo, il Giappone, che attualmente, come sapete, versa in forte crisi, ha avuto un tale avanzo della bilancia dei pagamenti che ha inondato il sistema finanziario internazionale di liquidità: avendo, evidentemente, forti avanzi, poteva - diciamo così - «invadere» il sistema finanziario internazionale con forti immissioni di liquidità. Seguendo questa linea, il Giappone ha fatto investimenti in Indonesia, in Thailandia, nelle Filippine, a Singapore, in tutti i paesi del sud est asiatico, le famose «tigri» - ricordate? - le «tigri asiatiche». Poi, però, queste «tigri» sono entrate in crisi perché le imprese - potendo disporre di liquidità a basso costo - si sono indebitate troppo: a un certo momento, hanno fatto - come si dice - il passo più lungo della gamba (cosa che avviene anche in molte famiglie).
Quindi, a un certo punto si è determinata l'inversione congiunturale del sistema mondiale. Una volta, questo fenomeno ciclico era limitato ad ogni singolo paese: un paese risentiva di fenomeni circoscritti perché si trattava di economie non dico chiuse, ma certamente condizionate da tutta una serie di vincoli. Oggi, con la globalizzazione, naturalmente l'effetto si è esteso e quindi anche noi - voi del centrosinistra lo ricorderete perché eravate al governo -, anche noi abbiamo patito, tra il '96, '97 e '98, gli effetti di questa crisi, che ha avuto riflessi negativi sulla nostra competitività, sulle esportazioni, sul sistema dei nostri pagamenti internazionali.
Poi, naturalmente, anche l'America latina e la Russia sono stati investiti da fenomeni di quel tipo. La Russia è entrata in crisi, allora, perché non c'era al suo interno un sistema di riscossione delle tasse e delle imposte che funzionasse e che potesse finanziare la spesa pubblica senza deficit! Noi parliamo del nostro sommerso quando in Russia l'evasione fiscale in quel periodo - parlo del periodo della presidenza Eltsin - è stata davvero molto ampia. I russi avevano un oro il cui valore tendeva a diminuire in connessione col calo del prezzo internazionale e un petrolio che in quel periodo era a basso costo; trattandosi delle sue due esportazioni principali, è chiaro che quel paese non poteva non entrare in crisi: da un lato, non poteva riscuotere le imposte in casa; dall'altro aveva esportazioni a ricavi sempre più bassi.
Ecco, vedete: è troppo semplicistico affrontare il problema con un solo strumento. Io mi rendo conto che c'è un eccesso di liquidità nel sistema economico mondiale e che questo problema deve essere affrontato collegialmente. I G8 hanno cominciato a riunirsi proprio quando queste crisi di carattere internazionale hanno iniziato a diventare di dimensioni consistenti.
Poi ci sono i problemi della riforma del Fondo monetario internazionale e il problema della riforma della Banca mondiale. Molte volte abbiamo accusato il Fondo monetario internazionale di intervenire in ritardo, di non essere sufficientemente efficace nel «ripulire» il sistema e nel rilanciare l'economia.
Basti pensare ai condizionamenti che il Fondo ha introdotto nei confronti dell'Argentina: nonostante ciò, l'Argentina è piombata dapprima in una crisi e, adesso, in un'altra perché non vi è stato adattamento delle economie reali, che sono vissute sull'industria di Stato - ricordate Perón e il periodo peronista? - e sul fatto
che l'Argentina partiva da posizioni di grande prosperità durante la seconda guerra mondiale, e così via; e poi, naturalmente, vi è stato il sindacalismo «sbracato» dei peronisti dell'epoca che ha portato un aumento del costo del lavoro, un aumento dell'impiego nel settore pubblico: il settore pubblico si è allargato e l'Argentina, adesso, deve rientrare nei parametri che il Fondo monetario internazionale ha fissato, ma, nonostante gli sforzi del ministro dell'economia, il professor Cavallo, che è persona molto qualificata e conosciuta a livello internazionale, l'Argentina ha difficoltà a ritornare nell'ambito dei limiti posti, appunto, dal Fondo monetario internazionale.
Anche la Turchia è entrata in crisi recentemente.
Questi sono fenomeni che certamente hanno un riflesso globale; mentre una volta erano chiusi nell'ambito delle rispettive economie nazionali, oggi, tanto più quando si tratta di paesi grossi, come il Brasile, come il blocco dei paesi delle ex tigri asiatiche e così via, hanno dei riflessi di carattere generale. Allora, certo, dobbiamo intervenire. Il Fondo monetario internazionale, l'ONU, la Banca mondiale, il WTO dell'ex presidente Ruggiero, devono intervenire con strumenti più adatti e soprattutto più rapidi per condizionare questi fenomeni. Ma non si risolve, amici, con un unico sistema e, soprattutto, con la Tobin tax; non si risolve, perché figuratevi, quella dell'imposta unica sui movimenti speculativi dei capitali, introdotta per risolvere i predetti problemi e finanziare la riduzione delle povertà, è un'illusione che addirittura risale ai fisiocrati (secolo XVIII, prima della rivoluzione francese): essi pensavano che l'imposta sulla terra avrebbe risolto tutto e poi si è scoperto con l'industrializzazione che i fattori della produzione sono più di uno e, quindi, ad un certo momento, l'imposta sulla terra non era più sufficiente. Così, non si può pensare di risolvere le crisi che - come ho detto - partono dall'economia, le crisi internazionali che partono dall'economia reale e poi si trasformano in crisi finanziarie e non viceversa, non si può pensare di risolvere questi problemi con un solo strumento. Uno strumento, la Tobin tax che, tra l'altro, il premio Nobel per l'economia Tobin, propose nel 1972, anni luce ormai rispetto alla situazione economica attuale, e poi rinnegò nel 1994. Quindi, lo stesso autore di questa proposta ormai l'ha rinnegata, perché è un economista, sia pure proiettato verso la sinistra, serio, un economista che conosce bene quanto, ahimè, la scienza economica sia una scienza triste e priva di scorciatoie semplicistiche; ebbene, anche lui ha dovuto riconoscere che quello strumento non è materialmente ed operativamente realizzabile, specialmente se è un solo paese o pochi paesi ad introdurlo (infatti, o è generalizzato o non avrebbe effetto); ma, soprattutto, non è con un solo strumento che si risolvono tutti gli anzidetti problemi. Sarebbe molto comodo, avremmo trovato l'Araba Fenice: con un solo strumento fiscale che colpisce tutti i movimenti speculativi a breve, brevissimo termine, che esistono sul mercato internazionale. Accidenti! Avremmo trovato veramente l'Araba Fenice. Invece, purtroppo, il sistema economico mondiale è più complesso di quanto non si pensi e, quindi, lo strumento unico non è applicabile. Porterebbe ad un'unica soluzione qualora lo si introducesse: aumenterebbe il sistema dei tassi di interesse perché aumenterebbe immediatamente il costo dei capitali. Questo sarebbe il primo effetto: ci sarebbe la fuga dei capitali. Noi oggi introduciamo in Italia l'abolizione dell'imposta di successione per far rientrare i nostri capitali italiani fuggiti all'estero, tra l'altro, per colpa dell'alta tassazione e della bassa quotazione dell'euro rispetto al dollaro - perché evidentemente tutti nostri investitori non hanno scritto «giocondo» in fronte e investono in euro quando il dollaro dà redditività, e soprattutto sicurezza di rapporto di cambio, più alta ed efficiente rispetto all'euro (almeno per ora, speriamo che l'euro diventi una moneta effettiva non più virtuale e che ci consenta grandi soddisfazioni, grande redditività: per ora mi pare che la situazione sia modesta) -, ebbene, noi facciamo lo
sforzo di far rientrare i capitali abolendo l'imposta di successione, e, quindi, combattendo la fuga verso i paradisi fiscali, (molte di queste transazioni, infatti, per evitare l'imposta di successione poi si risolvevano nel deflusso di capitali verso i paradisi fiscali), e voi pensate di risolvere il problema con una imposta che aumenta il costo dei capitali (Commenti del deputato Alfonso Gianni)? Naturalmente, a quel punto, i capitali fuggono, perché i capitali non sono uomini, sono qualcosa di impalpabile. Dovete studiare! Studiate! Abbandonate Marx, studiate i movimenti finanziari di capitali. È finito il periodo in cui il capitale finanziario era merce del diavolo. Dovete prepararvi dall'opposizione (adesso avrete più tempo), dovere prepararvi e studiare per affrontare questi problemi realisticamente e non utopisticamente (Applausi dei deputati dei gruppi di Alleanza nazionale e di Forza Italia).
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Vernetti. Ne ha facoltà.
GIANNI VERNETTI. Signor Presidente, onorevoli colleghi, il nostro pianeta si sta scaldando: due secoli di sviluppo industriale hanno liberato nell'atmosfera una quantità in eccesso di anidride carbonica prodotta in ogni processo energetico e industriale che utilizza combustibili di origine fossile. L'allarme lanciato inizialmente dieci anni fa, era l'inizio degli anni 90, dal primo rapporto dell'Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC - il board tecnico scientifico voluto dalle Nazione Unite che ha radunato duemila tra i maggiori esperti del mondo e che ha lavorato assiduamente con competenza per verificare l'impatto sul clima del pianeta) rischia di diventare realtà in tempi ancora più brevi di quelli ipotizzati allora e in questi anni: innalzamento dei livelli delle acque con scomparsa di milioni di ettari di coste in tutto il mondo e di interi atolli nel Pacifico; metropoli sempre più invivibili con sistemi agricoli in forte mutamento; estensione della desertificazione di vaste aree del pianeta; aumento delle malattie infettive e dei parassiti, come ha ricordato bene l'onorevole Vendola nel suo precedente intervento.
L'ultimo rapporto, sempre della IPCC, indica un peggioramento delle previsioni sui cambiamenti climatici in atto; in particolare, l'aumento massimo di temperatura alla fine del 2100, che nel precedente rapporto era stato stimato in tre gradi, viene portato a sei gradi. In questo contesto diventa sempre più necessario un forte rilancio delle azioni volte a condurre il nostro paese al pieno rispetto degli obiettivi decisi nel vertice mondiale di Kyoto. Tra le azioni che possono consentire di ridurre il livello delle emissioni, un ruolo importante e fondamentale è certamente quello delle fonti energetiche rinnovabili il cui contributo, alla fine del decennio, dovrebbe garantire circa un quinto dello sforzo previsto dal Protocollo di Kyoto, con una riduzione delle emissioni di anidride carbonica pari a 20 milioni di tonnellate annue. Il raddoppio della quota delle fonti rinnovabili entro il 2010, indicato nei libri bianchi dell'Unione Europea e dal Governo dell'Ulivo (penso alla delibera del CIPE del 6 agosto 1999), rappresenta una sfida ambiziosa ma necessaria alla luce dei ben più incisivi e strutturali cambiamenti necessari nei decenni prossimi. Del resto non si tratta solo di una aspirazione ambientalmente motivata, ma la decisione di puntare sulle energie pulite si inserisce in un contesto di forte dinamismo internazionale. Se osserviamo i trend energetici a livello mondiale, registriamo, infatti, una accelerazione dei programmi di impiego delle fonti rinnovabili con tassi annui di crescita di installazione degli impianti solari fotovoltaici ed eolici, nel periodo fra il 1990 e il 2000, rispettivamente del 18 e del 26 per cento, con una potenza che ha raggiunto, nel mondo, i 1.200 megawatt solari e i 17 mila megawatt eolici: tecnologie che, solo fino a pochi anni fa, erano considerate di nicchia e, sovente, anche ridicolizzate.
La necessità di un cambio di marcia è tanto più necessaria se si considera la proposta di direttiva europea sulle fonti rinnovabili dove si propongono obiettivi indicativi paese per paese (l'Italia dovrebbe
incrementare dal 16 al 25 per cento nel 2010 la percentuale di elettricità da fonti rinnovabili, che in termini di produzione elettrica significa passare da 50 TWh/anno a 90 TWh/anno). Si tratta di un obiettivo difficile e ambizioso considerando che, nel nostro paese, l'attuale quota è in larga parte proveniente dalla fonte idroelettrica: una risorsa che potrà dare un contributo aggiuntivo molto limitato nei prossimi decenni.
La promozione delle energie pulite diviene così un'alta priorità della Commissione europea per ragioni ambientali, per ragioni di sicurezza e di coesione economica e sociale.
Il Governo dell'Ulivo, nel quinquennio appena terminato, aveva avviato, con decisione, questo processo. Un importante strumento, lo voglio ricordare, per raggiungere questi obiettivi - cioè il forte incremento delle energie rinnovabili - è stato offerto dal decreto interministeriale industria-ambiente dell'11 novembre 1999 che ha definito, ad esempio, l'obbligo di realizzare il 2 per cento della produzione elettrica con fonti rinnovabili nel 2002, con impianti entrati in funzione dopo il primo aprile del 1999. Ma noi chiediamo di fare ancora di più. Il Governo dell'Ulivo ha tracciato il contesto nel quale avviare una politica innovativa e vorrei, in questo senso, fare alcuni esempi e richiamare il Governo a proseguire azioni intraprese dal precedente Governo e, se possibile, intensificarle.
Pensiamo al settore fotovoltaico. Il solare-fotovoltaico ha bisogno di specifici incentivi economici e di chiari programmi governativi, essendo, purtroppo, una tecnologia ancora lontana dalla competitività, ma con un ruolo fondamentale per fornire sul lungo periodo una risposta strategica alla riduzione delle emissioni di gas climalteranti. Per questo motivo va potenziato il programma sui tetti solari, che prevede già oggi l'inserimento di moduli fotovoltaici per la produzione di energia elettrica in edifici nuovi o esistenti.
Ricordiamo poi il settore del solare-termico a bassa temperatura: si tratta analogamente di un comparto che ha bisogno di una particolare attenzione e che oggi è incredibilmente sottodimensionato; basta pensare che la superficie annua di solare-termico installata è pari ad un quinto di quella austriaca, un paese con condizioni di esposizione al sole e geografiche decisamente meno interessanti di quelle che caratterizzano il nostro paese. In questo comparto c'è lo spazio per una rapida e larga diffusione, in particolare nelle regioni meridionali, con interventi nel campo della formazione e dell'informazione, nonché nel campo dell'edilizia pubblica.
Il Governo dell'Ulivo in passato ha avviato il programma «comuni solarizzati», che prevede la realizzazione in 70 città del centro-sud di oltre 70 mila metri quadrati di impianti solari per la produzione di acqua calda in edifici pubblici, con l'addestramento e la formazione professionale di 400 giovani.
Chiediamo al Governo di proseguire con decisione su questa strada già tracciata dal Governo precedente. Solo nel campo del solare-termico sono stati stanziati 32 miliardi di lire che dovrebbero consentire di realizzare circa 90 mila metri quadrati, a fronte di una superficie oggi installata in Italia che non supera il terzo di questa previsione.
Anche nel campo delle biomasse e dei biocarburanti vi è una grande possibilità di sviluppo, così come in quello delle nuove tecnologie: stamattina, ad esempio, al Politecnico di Milano è stato premiato uno dei primi esperimenti di veicolo circolante a celle combustibili. Numerose sono ancora le azioni possibili nel campo dell'aumento dell'efficienza del sistema elettrico, nel campo della riduzione dei consumi energetici nel settore dei trasporti. In particolare, ricordiamo tutte quelle azioni che vanno a potenziare le linee tramviarie, metropolitane e ferroviarie nelle grandi aree metropolitane, oppure il trasferimento delle merci dalla strada alla ferrovia ed al cabotaggio o, come dicevo poc'anzi, la sperimentazione di veicoli per il trasporto pubblico a celle a combustibile.
Il quadro delle azioni possibili è articolato e rappresenta una sfida importante dal punto di vista tecnologico. Vorrei portare ancora alcune riflessioni, alle quali riteniamo che il Parlamento e il Governo dovranno prestare particolare attenzione se si vuole, in modo corretto, innescare un reale decollo delle energie pulite. La prima riguarda l'inadeguatezza, purtroppo, della realtà produttiva nazionale in questo settore: in importanti comparti tecnologici, come quello eolico e solare, le nostre imprese negli ultimi anni sono state decisamente surclassate dalla concorrenza internazionale. I programmi di incentivazione del Governo e la creazione di una forte domanda di energia verde devono rappresentare per la nostra industria l'occasione per un forte impegno in un settore che sarà decisivo nei prossimi decenni.
Il passato Governo dell'Ulivo ha impostato un'ambiziosa griglia di riferimento strategico per lo sviluppo delle fonti rinnovabili. Sono inoltre disponibili notevoli risorse economiche, dalla carbon tax ai fondi strutturali, per indirizzare lo sviluppo delle diverse tecnologie. È stato ormai definito un contesto normativo innovativo, che definisce obblighi crescenti e lascia al mercato l'ottimizzazione della scelta delle tecnologie e dei siti più appropriati.
Chiediamo al Governo di proseguire con forza su questa strada, cogliendo anche i segnali positivi che emergono autonomamente dal paese. L'onorevole Vigni ha citato, durante la conferenza mondiale per l'ambiente del 5 giugno, ossia la celebrazione della giornata per l'ambiente che si è tenuta a Torino, il protocollo d'intesa tra le regioni e le province autonome, un protocollo che segna e fissa obiettivi importanti per le regioni governate dal centrodestra così come per quelle governate dal centrosinistra. Più di 100 città italiane ed enti locali, nonché quasi tutte le grandi aree metropolitane, hanno aderito ad una campagna internazionale di città per la protezione del clima. Penso ancora alle iniziative volontarie da parte del sistema delle imprese, quale la già citata iniziativa di Legambiente e Politecnico di Milano, che ha visto la partecipazione di gran parte del sistema industriale italiano con la presentazione di prodotti innovativi nel campo dell'ecoefficienza.
Il Governo Berlusconi non faccia l'errore di isolarsi dal contesto europeo ed anche dall'innovazione autonomamente in atto nel paese, ma insieme ai partner europei sostenga la necessità di ratificare il Protocollo di Kyoto prima della conferenza di Johannesburg del settembre 2002. Colga anzi le straordinarie opportunità di sviluppo qualitativo per il nostro paese, per il nostro sistema delle imprese, insite in una scelta decisa verso l'energia pulita e verso uno sviluppo sostenibile (Applausi dei deputati dei gruppi dei Democratici di Sinistra-l'Ulivo e della Margherita, DL-l'Ulivo).
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Guido Giuseppe Rossi. Ne ha facoltà.
GUIDO GIUSEPPE ROSSI. Signor Presidente, inizio il mio intervento leggendo una dichiarazione tratta dal quotidiano La Stampa di oggi: « Marco Ferrando della minoranza interna di Rifondazione comunista insiste sul boicottaggio attivo del vertice e sogna di trasformare l'appuntamento di Genova in un nuovo luglio '60». «Berlusconi come Tambroni?», chiede il giornalista. «Vedo piuttosto una trappola», risponde Ferrando. «Il Genoa Social Forum è tutto soddisfatto che il Governo lo legittimi; addirittura invita Ruggiero al controvertice. Per noi come comunisti nel movimento le manifestazioni dovrebbero, invece, fare da innesco per un'opposizione radicale di massa che porti allo sbocco del 1994, cioè alla cacciata di Berlusconi dal Governo».
Ci chiediamo se questa sia la dichiarazione di un esponente minoritario all'interno di un partito di minoranza dello schieramento di opposizione oppure se sia la posizione, magari non manifesta e occultata, di schieramenti più ampi. Lo scopo di questo dibattito, che è un dibattito utile, interessante e condivisibile, deve anche essere questo. Semmai vi fosse tale
recondito scopo, sicuramente sarebbe non solamente diritto, ma anche dovere della maggioranza opporsi in tutte le istanze democratiche, culturali e politiche a questo disegno. Questo non è solo un diritto, ma un dovere che ci è stato conferito dalla maggioranza dei cittadini italiani che il 13 maggio hanno votato per la Casa delle libertà.
Purtroppo la presenza annunciata di esponenti ex governativi appartenenti all'Ulivo, di uomini di spettacolo, della task force (anch'essa annunciata) di registi progressisti che andranno a Genova per filmare le giornate di Genova, neanche fossero dei moti insurrezionali, non ci tranquillizzano. La presenza della CGIL guidata politicamente da un uomo politico, non più solo sindacalista, come Cofferati, il quale partecipa attivamente al dibattito che si sta svolgendo all'interno dei Democratici di sinistra, sicuramente non ci tranquillizza da questo punto di vista. Temiamo, infatti (anzi non lo temiamo, ma lo constatiamo leggendo le dichiarazioni dei vari esponenti), che una minoranza possa strumentalizzare le ragioni della maggioranza e di coloro i quali legittimamente, ripeto legittimamente, vogliono esprimere la loro opinione sui temi della globalizzazione. Dunque i promotori delle mozioni che sono state presentate oggi devono fornire risposte precise in chiave politica anche all'opinione pubblica. Ci devono assicurare una presa di distanza chiara e netta da posizioni estremistiche e violente. Ci devono assicurare la loro volontà di discutere, tutti insieme, sui temi del G8 e della globalizzazione (dunque, non vi è una pretesa di egemonia ideologica su questi temi). Ci devono soprattutto assicurare - e mi riallaccio alla dichiarazione che ho letto precedentemente - che non vi sia un uso strumentale del G8 di Genova per fini di politica interna. I temi del G8 di Genova non possono essere in nessun modo utilizzati per delegittimare un Governo che è stato eletto democraticamente.
Come Casa delle libertà e, specificamente, come Lega nord Padania non accettiamo lo schemino ideologico e, talvolta, anche giornalistico che ci è stato propinato: quello della sinistra come unico difensore di tutta una serie di temi che, ovviamente, hanno una loro presa sull'opinione pubblica, sui mass media. Tra tali temi: la riduzione del debito pubblico dei paesi più indebitati del mondo, la tutela ambientale del nostro pianeta, la capacità di individuare strumenti che possano controllare o, quanto meno, mediare gli effetti negativi delle speculazioni finanziarie che si attuano nel mercato globale.
Si tratta, dunque, di uno schemino che non accettiamo, che vede - come ripeto - gli uomini della sinistra difensori di tutte queste tematiche, in parte condivisibili (anche se degne ed utili di approfondimento ideologico e tematico) e gli uomini della Casa delle libertà e della Lega dipinti come i portatori sani di inquinamento, accecati dalle logiche del profitto e contenti di inquinare il mondo emettendo quantità sempre maggiori di gas che possano incidere sull'effetto serra. È un'impostazione che noi rifiutiamo chiaramente: non la accettiamo perché non corrisponde alla realtà.
Noi come Lega nord su questi temi negli anni passati, ma anche nel dibattito odierno, siamo intervenuti fortemente con alcune nostre proposte, talvolta originali, poste dal nostro punto di vista delle comunità locali e del territorio. Siamo intervenuti quando abbiamo posto sul tavolo il problema della democrazia, degli organi internazionali di gestione della politica: lo abbiamo posto nel campo dell'Unione europea, ma può essere sicuramente esteso ad organismi mondiali come il G8 ed alle stesse Nazioni Unite, con tutto il dibattito sul diritto di veto o meno delle grandi potenze internazionali. Lo abbiamo fatto quando abbiamo parlato di ambiente, quando abbiamo legato la questione dell'ambiente alle comunità locali, una comunità locale consapevole del proprio ruolo e legata al proprio ambiente. Comunità che, invece, sono costituite da sradicati senza vincoli, senza legami storici, culturali e sociali ovviamente sono comunità antiecologiche, che portano a comportamenti antiecologici. Siamo inter
venuti anche sul tema della Tobin tax o, quantomeno, dei meccanismi che possano non dico regolamentare perché - come ha ricordato prima il collega - è molto difficile, anche dal punto di vista pratico, ingabbiare le forze enormi della speculazione finanziaria, ma almeno possano dare una visione più etica di questi movimenti. Siamo intervenuti sul primato della politica sull'economia, perché ci crediamo fermamente. Dunque, non accettiamo lo schema che ho ricordato prima perché dal punto di vista ideologico abbiamo detto la nostra e non accettiamo tale schema perché è ipocrita: è portato avanti, in questo momento, da esponenti che fino a pochi mesi fa hanno partecipato all'organizzazione di questo evento, che hanno partecipato ad altri vertici G8 e G7. In questo momento vedere l'onorevole Melandri o altri esponenti del precedente Governo a fianco del subcomandante Marcos sicuramente ci provoca qualche scompenso, anche dal punto di vista della comprensione di ciò che sta avvenendo.
Sottoponiamo, dunque, all'Assemblea anche un altro tema: quello dell'immigrazione globale. Sul punto non ho sentito prese di posizione, non fa parte delle mozioni che sono state presentate. Allora, l'immigrazione globale che sposta masse sempre più grandi di diseredati da una parte all'altra del mondo, dalle parti povere alle parti più ricche di questo pianeta, è una soluzione, è una risposta ai problemi della globalizzazione, oppure no? In un continente come l'Europa, in un paese come l'Italia, sovrappopolato e già con problemi ecologici, con 57 milioni di italiani, far venire altri 57 milioni di persone risolve i problemi ecologici, è una risposta alla globalizzazione? Non penso. Su questi temi aspettiamo risposte. La distruzione della diversità culturale italiana, europea, padana è una risposta alla globalizzazione oppure no? Su questi temi, a mio parere, la sinistra e le sinistre sono latitanti.
Sono temi di riflessione importanti, se ci sarà volontà di tutti. Mi sembra che il Governo la manifesti sia assicurando con lo stanziamento di somme a favore degli enti locali, che i manifestanti verranno ricevuti in maniera dignitosa sia soprattutto, nel garantendo uno svolgimento democratico e pacifico della manifestazione ed anche il diritto di tutti quei lavoratori che appartengono alle forze dell'ordine, che si troveranno sicuramente in situazioni non semplici da gestire.
Dunque se esiste questa volontà comune, si potrà arrivare ad una risoluzione comune, che sia utile al bene del paese e che non sia inquinata da motivazioni di politica interna. Ripeto, questo è il dato politico molto importante sul quale le sinistre e l'opposizione devono dare una risposta molto precisa: il G8 - l'opinione pubblica questo lo deve sapere molto chiaramente - non può e non deve essere utilizzato per fini di politica interna.
Se queste condizioni ci saranno, allora si potrà anche arrivare ad una risoluzione comune, una risoluzione bipartisan - come adesso è di moda dire - che possa dare un mandato forte al nostro Governo per presentarsi sulla scena internazionale ed essere un attore di prima fila nella soluzione o nel tentativo di soluzione dei grandi problemi della globalizzazione (Applausi dei deputati dei gruppi della Lega nord Padania e di Forza Italia).
PRESIDENTE. È iscritta a parlare l'onorevole Deiana. Ne ha facoltà.
ELETTRA DEIANA. Signor Presidente, le donne e gli uomini - giovani e giovanissimi in grande numero - che in questi mesi vanno organizzando il «contro G8» di Genova hanno dalla loro parte le grandi ragioni della ragionevolezza, della giustizia, della democrazia e della libertà. Rappresentano la possibilità di un futuro, oltre che una scommessa politica del presente, perché il futuro stesso della nostra specie umana - e del pianeta che ci accoglie e ci fa vivere - dipende in grandissima misura da quanto quelle ragioni diventeranno, nei prossimi anni e decenni, il senso e la cifra delle cose, saranno, cioè, in grado di mobilitare l'immaginario e i desideri collettivi, orienteranno le pratiche sociali delle popolazioni e delle scelte politiche dei governi.
Disastro ambientale a ripetizione su scala planetaria, saccheggio corsaro delle risorse, manipolazioni genetiche, mercificazione della vita fino alle sue ultime radici, privatizzazione di tutto: delle idee, dei desideri, dei sogni delle persone. Un marchio di mercato, un logo pubblicitario: a questo oggi è ridotta la nostra vita, il senso e la materialità della nostra esistenza quotidiana. Non ci stancheremo di ripeterlo!
E la forbice della diseguaglianza sociale che si allarga in maniera esponenziale, soprattutto tra occidente e sud del mondo, ma anche nei paesi ricchi, anche nel nostro paese come tutti gli indici evidenziano.
Questi sono gli effetti della globalizzazione capitalistica che il movimento di Seattle - uso questa espressione giornalistica per indicare una realtà molto più complessa ed articolata, sia sul piano dei soggetti che vi partecipano sia delle culture che vi si mescolano - contesta.
Allora a me sembra che ci sia un punto di giudizio dirimente per affrontare efficacemente il confronto su quanto sta avvenendo a Genova e su quanto, in proposito, questa sede istituzionale, che dovrebbe essere un cuore pulsante della politica quotidiana, deve essere in grado di valutare.
Da che parte sta la ragione, nel conflitto che si è aperto tra il potentissimo G8 e il movimento antiglobalizzazione? Tra il popolo di Seattle e la ristretta élite politica che si è attribuita il potere autocratico di decidere del destino del mondo, qual è la parte violenta e prevaricatrice? Possiamo dimenticare per un solo attimo quando parliamo di G8, soprattutto in una sede come questa, che ha radice di legittimità unica ed esclusiva nella sovranità popolare, che il G8 è un club privato di Governi, che nessuna istanza democraticamente eletta lo ha mai autorizzato a procedere, che nessuna possibilità di controllo sulle sue decisioni si può istituzionalmente esercitare?
E, dunque, a proposito di Genova, vogliamo parlare di un problema di sicurezza poliziesca o vogliamo parlare di un diritto fondamentale di cittadinanza, che è quello di ricostruire uno spazio pubblico che ci è sempre più sottratto dai vertici mondiali, uno spazio pubblico di trasparenza, dibattito, critica e contestazione di questo palese imbroglio della democrazia che è la pratica dei vertici mondiali da parte dei potenti e dei poteri forti?
Sempre a Genova, il 15 e il 16 giugno scorsi, molte centinaia di donne hanno dato vita ad un grande convegno, un vero e proprio «contro G8» femminile e femminista, apertura dei lavori del controvertice di luglio - così l'hanno inteso -, con la partecipazione di importanti esponenti dei movimenti di resistenza femminile alla globalizzazione, di studiose internazionali di economia, di giovanissime donne che guardano con timore al loro futuro, ma non intendono rassegnarsi.
C'era, tra le altre, la signora Muysser Gunes, che qui voglio ricordare e alla quale voglio esprimere tutta la mia solidarietà e la mia gratitudine per la lezione di coraggio e di speranza civile di cui ci ha dato testimonianza attiva. Donna curda di Turchia, presidente e portavoce del movimento delle «Madri per la pace», infaticabile ambasciatrice in Europa del suo popolo negato e dell'idea di una altra possibile Turchia di pace e di convivenza, mentre era in Italia, lei che aveva avuto già un figlio ucciso nella lotta di resistenza curda, ha perso il secondo figlio, un giovanissimo ragazzo caduto in un'imboscata a Bingol il 22 maggio, insieme a decine di altri suoi giovani compagni.
Che dire di fronte a un dramma umano femminile così straziante? La globalizzazione significa anche questo, onorevoli colleghe e colleghi: significa che l'Italia e l'Europa sono sempre più ridotte alla dimensione finanziaria e di mercato, sempre più incapaci di svolgere un ruolo politico-istituzionale attivo, di concorrere a cercare soluzioni di pace, di democrazia, di giustizia, a problemi abnormi come quelli che strangolano i diritti fondamentali dei popoli - cito il popolo curdo e quello palestinese, tanto per fare gli
esempi che più dovrebbero competerci -, che uccidono alla radice il diritto di molte donne di essere madri.
Il «contro G8» femminista ha messo in luce quanto la globalizzazione pesi in maniera drammatica sulla vita delle donne, delle creature, degli strati più indifesi della popolazione e quanto renda più difficili quei complessi e faticosissimi compiti della riproduzione della vita umana e sociale che, ovunque, assicurano le condizioni stesse della sopravvivenza e che continuano, ovunque, a pesare sulle spalle delle donne.
I media hanno dato poco spazio al «contro G8» delle donne, perché anche questo occultare la soggettività, il protagonismo, l'assunzione di responsabilità politiche - di tutti, ma delle donne modo particolare - fa parte del gioco della globalizzazione. Meno soggettività critiche si rendono visibili, meglio vanno le cose.
A Genova le donne hanno elaborato, con passione, una carta di intenti ignorata dal grande circuito mediatico e assai inopportunamente sottovalutata anche dalla Commissione nazionale per le pari opportunità, che qui voglio leggere, affinché uno spicchio di cittadinanza attiva femminile trovi spazio in una sede come questa, che dovrebbe essere garante della cittadinanza: «Noi donne emigranti e native che prendiamo parte all'evento 'Punto G Genere e globalizzazione' e autorganizzato dalla rete della Marcia Mondiale delle donne contro le guerre, le violenze e la povertà a Genova nei giorni 15 e 16 giugno 2001 (...), intendiamo: protestare contro l'occupazione militare della città che il Governo ha predisposto per il summit dei G8; manifestare liberamente il nostro pensiero negli spazi pubblici garantiti dalla Costituzione alle cittadine e ai cittadini di questo paese; protestare contro un potere privato e privo di legittimità democratica, che pretende di decidere della nostra sorte; lottare contro il sessismo ed il razzismo, per la libertà di decisione rispetto le nostre vite nel presente e nel futuro; protestare contro le ingerenze di tutti i fondamentalismi religiosi ovunque si manifestino, contro tutti i fondamentalismi religiosi; garantire che ogni donna possa avere la libera disponibilità di sé e della propria vita, con piena libertà di scelte riproduttive, sessuali e lavorative; lottare in primo luogo in Italia contro le iniziative vaticane e ministeriali che attentano alla legge n. 194 del 1978; protestare contro le manipolazioni genetiche, l'inquinamento del pianeta, il trattamento crudele degli animali in allevamenti di tipo industriale; lottare per un rapporto sobrio e grato verso la natura e la terra; protestare contro le violenze e le molestie sessuali in famiglia, a scuola e sul lavoro contro donne, bambine e bambini; lottare per un rapporto rispettoso e felice tra le persone; protestare contro una politica economica iniqua, contro la distruzione dello Stato sociale, contro l'imposizione dei piani di riaggiustamento strutturale nei paesi del sud che riducono intere popolazioni alla miseria; lottare per un'economia basata sulla soddisfazione dei bisogni e non sul profitto, che riconosca l'intreccio indissolubile tra la sfera produttiva e quella riproduttiva, che garantisca i diritti delle lavoratrici e dei lavoratori, nativi e migranti; protestare contro le guerre dimenticate, le spese militari, il crescente militarismo, le avventure belliche che violano la Costituzione, il diritto internazionale, la ragione e l'umanità, lasciando dietro di sé rovine, malattie, crudeltà e danni all'ambiente, alle persone, alle cose, alle memorie; lottare per una politica di pace, fuori dalle alleanze militari aggressive e per un'Europa neutrale, nella prospettiva di vivere in un mondo che si renda capace di ripudiare effettivamente la guerra; protestare contro tutte le misure che limitano i diritti e la libertà delle immigrate e degli immigrati; lottare per la chiusura dei centri di detenzione temporanea, l'abolizione della tratta delle persone, vera e propria forma di schiavitù, per una cittadinanza europea basata sulla residenza e non sulla nazionalità».
Il movimento anti G8, con la sua disponibilità democratica al confronto, ha offerto a questo Governo una grande opportunità di esercizio democratico nella sua funzione istituzionale. Un'altra occasione
sarà quella che gli è stata offerta di raccogliere e di farsi carico delle istanze che il movimento ha espresso in questi mesi. Staremo, dunque, a vedere in che modo il Governo si rapporterà a tutto questo (Applausi dei deputati del gruppo di Rifondazione comunista).
PRESIDENTE. È iscritta a parlare l'onorevole Maura Cossutta. Ne ha facoltà.
MAURA COSSUTTA. Signor Presidente, la mozione che anche noi Comunisti italiani abbiamo sottoscritto sul G8 intende porre questioni strategiche che devono impegnare la politica, quella dei paesi membri del G8 ma anche quella dei paesi non appartenenti al G8.
L'incontro di Genova, non solo il vertice dei Capi di Stato e di Governo, ma anche, e soprattutto, il Genoa Social Forum, deve essere l'occasione per accelerare l'iniziativa politico- diplomatica, per recuperare anche occasioni come quella dell'aprile 2000 del G77, di quei paesi che raggruppano 133 nazioni e che rappresentano l'80 per cento della popolazione mondiale. Cresce, e deve crescere, una domanda forte di democrazia e di giustizia, di nuove regole, una domanda ineludibile di riforma degli istituti finanziari, del Fondo monetario internazionale, della Banca mondiale e di riforma del Consiglio di sicurezza dell'ONU.
Serve oggi un equilibrio diverso nei fori decisionali dei poteri politici ed economici, allargato ai paesi del sud del mondo; ed è questa una battaglia politica ed una battaglia culturale, che significa riposizionare le scelte, significa definire la globalizzazione cambiando il sistema analitico di riferimento, significa, cioè, definire cosa siano lo sviluppo, gli obiettivi dello sviluppo e, quindi, gli indicatori del benessere. Deve svilupparsi una seria critica, una moderna critica al pensiero dominante che ha assolutizzato l'equazione «liberalizzazione del mercato uguale sviluppo», che ha permeato le politiche di aggiustamento strutturale, con la certezza ideologica (la nuova teologia!) che la crescita economica è la sola condizione fondamentale per lo sviluppo. A distanza di tanti anni da Bretton Wood, dalla caduta del muro di Berlino, dagli accordi sul controllo degli armamenti nucleari, il pianeta è più povero, ci sono più guerre, gli armamenti sono sempre di più e sempre meno sotto controllo. Quando un miliardo e trecento milioni di persone vivono con meno di un dollaro al giorno, vuol dire che quella teologia è blasfema, che la libertà degli affari è incompatibile con la libertà e i diritti dei popoli, con lo sviluppo ed il benessere.
Il libero mercato ha in realtà costruito spinte verso la competizione oligopolistica, con la costruzione di monopoli, multinazionali, corporazioni transnazionali, che controllano persino mercati essenziali come quello alimentare e medicinale. Altro che teoria ugualitaria e democratica dei sistemi commerciali aperti! Le tre maggiori corporazioni controllano l'80 per cento del commercio delle banane, più del 70 per cento di quello dei cereali, l'83 per cento del cacao, l'85 per cento del tè. Inoltre lo stock dell'investimenti diretto estero mondiale, effettuato dalle corporazioni transnazionali, serve soprattutto per le fusioni e le acquisizioni finanziarie: queste sono la parte più sostanziosa dell'aumento nei flussi di investimento stranieri diretti. Significa che ciò che le imprese prendono in prestito sui mercati finanziari non va a finanziare gli investimenti, ma le fusioni. La borsa non è più un mezzo per ottenere denaro, ma per distribuire profitti agli azionisti. Allora, dove sta la legittimità della teoria dominante che propone l'equazione «un ambiente favorevole agli investimenti è un ambiente favorevole allo sviluppo»? Non c'è, non esiste più.
Queste attività finanziarie, in realtà, guidano il mercato verso la competizione oligopolistica deterritorializzando il capitale e distruggendo le reti locali di protezione sociale. Non vale neppure più - e l'ha criticata persino Stiglitz, l'economista della Banca mondiale - la teoria che si basa sul principio dei vantaggi comparati: è ormai dimostrato che non è vero che tutti possano trarre vantaggio dallo scambio;
è la distribuzione dei benefici che resta squilibrata e ineguale. Il tema che si impone allora è quello di nuove regole e quindi della definizione dello sviluppo economico, che non può essere definito solo in termini monetari o macroeconomici, ma deve essere ridefinito rispetto alle condizioni della riproduzione sociale: il pensiero femminile in questo ha rappresentato l'avanguardia di un moderno pensiero critico, anticapitalistico.
È qui che si apre uno spazio vero di conflitto, conflitto ideale, culturale e politico. Non si tratta cioè di relegare queste domande al dibattito - pur presente tra i vari economisti - ma di individuare la priorità del terreno squisitamente politico delle scelte. Infatti, nonostante l'interesse verso i fattori umani e sociali, lo scopo primario delle politiche dei grandi istituti finanziari resta quello di creare le condizioni in cui questo sistema possa funzionare in modo ottimale. È questa la nuova missione: la globalizzazione civilizzatrice, che salvaguarda comunque e sempre le aspettative degli investitori stranieri. Un economista ben accreditato la spiega precisamente così: le nazioni debitrici devono soddisfare due prerequisiti: una cornice macroeconomica stabile e coerente; un sistema finanziario robusto con una buona cornice regolatoria e di supervisione. È facile immaginare, in molte nazioni, che queste condizioni non possano essere soddisfatte da un giorno all'altro. Questo significa che le nazioni creditrici e le istituzioni devono prestare attenzione al riconoscimento e al trattamento dei rischi. Naturalmente, sono gli investitori che hanno la responsabilità primaria nella valutazione del rischio, ma coloro che costruiscono le regole nei paesi industriali devono assicurarsi che le istituzioni finanziarie, le quali partecipano ai mercati finanziari globali, siano soggette a salvaguardie appropriate.
Credo che qui stia la sfida per la politica, per una politica riformatrice, per una politica di sinistra. La vera linea rossa da superare è questa: la possibilità o meno per la politica di rappresentare altro rispetto agli interessi di questo sistema economico, gli interessi cioè collettivi e pubblici. È questa linea rossa che rende la politica o sterile o feconda. E allora, se l'America latina (penso al Cile, all'Argentina, al Brasile) è stata in questi anni un perfetto laboratorio politico, per una certa idea, quella idea della politica, un neoliberismo subalterno a questa economia, se cioè lì quei Governi hanno acconsentito al rafforzamento dei loro sistemi finanziari, resistendo alla crisi asiatica, senza vedere contraddizione con il peggioramento delle condizioni sociali dei loro paesi, è l'Europa, siamo noi in Europa, forze democratiche, forze di sinistra, che abbiamo una diversa responsabilità politica, per i nostri paesi e per il mondo intero. È l'Europa che deve giocare un ruolo diverso, un ruolo politico ed economico, a partire dalla difesa del proprio modello sociale. È questo, d'altra parte, anche il terreno vero, concreto, moderno, di incontro con i paesi del sud del mondo. Vandana Shiva scrive che la produzione, la più forte categoria attraverso la quale il capitalismo si impone globalmente, implica la trasformazione del valore in non valore.
Grazie al sistema contabile attualmente adottato per misurare la crescita, se i produttori consumano ciò che essi stessi producono, non vi è alcuna transazione monetaria e quindi la loro attività rimane esterna alla frontiera della produzione ed ufficialmente essi non producono.
Quello che il sistema contabile non registra è l'insieme delle attività non monetarie che assicurano la riproduzione dell'economia di sussistenza e dell'economia della natura. Il libero commercio è basato sugli indici di crescita che ignorano questa necessità, le necessità riproduttive della società; è per questo che si incoraggia il malsviluppo. Quindi la misura dello sviluppo dev'essere più estesa. Persino economisti della Banca mondiale hanno provato a suggerire di includere la dimensione ambientale nella nozione di «sviluppo sostenibile» ed hanno argomentato a favore della non contabilizzazione dell'utilizzo delle risorse naturali come reddito. Hanno proposto di registrare l'esportazione del capitale naturale sul conto capitale della
bilancia dei pagamenti invece che sul conto corrente, dove attualmente appare come una attività. Hanno suggerito la tassazione di energie e materie prime perché non vengano ignorate come esternalità, ed il costo sociale del loro utilizzo venga internalizzato dalle industrie. Quindi il capitale naturale viene considerato in termini contabili. Si deve andare avanti, la distribuzione del benessere deve acquistare un ruolo primario nella misura dello sviluppo.
Questa è una battaglia che proprio l'Europa deve lanciare; è una battaglia politica e culturale utile ad imporre la prospettiva dei bisogni riproduttivi degli esseri umani e dell'ambiente come sistema analitico principale. Amartya Sen ha già proposto la mortalità come indicatore di successo e fallimento economico e non quindi il miglioramento degli aspetti relativi alla prestazione economica. Egli dice che un aumento di reddito espande l'aspettativa di vita solo se accompagnato da un aumento dei redditi delle persone più povere e da un'espansione dei servizi pubblici che aiutino ad accrescere le opportunità umane. Tutto questo si riferisce ai sistemi sociali di protezione, a quella che è stata la straordinaria costruzione sociale storicamente determinata in Europa e cioè il welfare. Di questo deve continuare a parlare l'Europa, anche a Genova, proprio a Genova. Noi Comunisti Italiani a Genova ci saremo per discutere, per ascoltare, per confrontarci anche con le nostre differenze e per testimoniare un impegno che deve e dovrà cimentare la politica negli anni a venire; dovrà cimentare il progetto e la cultura di riferimento della sinistra. Ci saremo...
GIORGIO BORNACIN. Per fortuna!
MAURA COSSUTTA. ...proprio a partire da una precisa consapevolezza e cioè che i Governi non sono tutti uguali. Un Governo di destra non è la stessa cosa di un Governo di centrosinistra. Oggi, con il Governo dell'onorevole Berlusconi, la voce dell'Europa politica, dei popoli e dei diritti è più fioca. Le battaglie di questo movimento per tale motivo sono certamente più deboli.
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Intini. Ne ha facoltà.
UGO INTINI. Signor Presidente, un vecchio proverbio cinese dice che, quando il saggio mostra il cielo, lo sciocco guarda il dito. Non dobbiamo avere una visione meschina, non dobbiamo vedere la globalizzazione come un piccolo problema: la globalizzazione è il più grande problema che l'umanità si trova di fronte da molto tempo; non può essere visto come un problema di ordine pubblico, che evidentemente c'è, ma non è quello centrale, il problema centrale è ciò che sta dietro. Il mondo ha vissuto altre grandi rivoluzioni: la leva, la ruota, il motore. Quelle rivoluzioni moltiplicavano la forza fisica degli uomini. La rivoluzione - rappresentata dalla globalizzazione indotta dal computer - moltiplica la forza del pensiero e quindi è molto più importante. Forse può essere paragonabile all'invenzione della scrittura. Dobbiamo affrontare la globalizzazione come si affrontano le grandi rivoluzioni dell'umanità, ad esempio come si è affrontata la rivoluzione dell'industrializzazione. I nostri antenati socialisti di fronte all'industrializzazione non gridavano: «Viva la macchina», o «Abbasso la macchina»; vedevano nella macchina una straordinaria occasione di progresso e lottavano affinché attorno alla macchina non lavorassero i bambini per quindici ore al giorno. Penso che dovremmo fare lo stesso.
I borghesi illuminati dell'inizio del '900, i grandi medici, i grandi avvocati, i filantropi, i socialisti ma anche i liberali non erano ossessionati dai cortei, dagli incidenti o dagli scioperi come lo erano i reazionari. Sapevano che, per evitare le violenze, occorreva indicare una via riformista e non una via rivoluzionaria. Bisognava governare politicamente una grande rivoluzione che era in corso, governarla affinché procedesse senza traumi e senza squilibri. Cosi dobbiamo fare noi! La globalizzazione, quindi, è inevitabile. È
probabilmente una grande opportunità, ma si può e si deve criticarla perché questa globalizzazione senza regole comporta delle sfide: una sfida al principio di giustizia, se così si può dire. I duecento personaggi più ricchi del mondo dispongono oggi di un patrimonio pari al reddito del 40 per cento dell'umanità, vale a dire la parte più povera dell'umanità. Un miliardo e 200 milioni di persone vivono con un dollaro al giorno, cinque milioni di persone, ogni anno, muoiono perché non hanno accesso all'acqua pulita. In cinquant'anni, la differenza di reddito tra i paesi poveri e i paesi ricchi è raddoppiata, non si è ridotta.
Vi è una sfida al principio morale, persino al principio di umanità. Il WTO, che Renato Ruggero ha retto splendidamente, il Fondo monetario internazionale ed altre organizzazioni internazionali di questo tipo sono utili e indispensabili, ma non sempre sono neutrali. Spesso esse sono dominate da chi è più potente. La ricerca scientifica, ad esempio, ha certamente bisogno di brevetti e le multinazionali fanno bene a difenderli. È giusto! Talvolta, tuttavia, i brevetti confliggono con interessi più importanti ed in tal caso deve entrare il buon senso e la politica: se infatti farmaci, protetti da brevetto, che curano l'AIDS hanno un prezzo insopportabile per il popolo sudafricano che muore di AIDS e se il Sudafrica è in grado di produrre quei farmaci ad un prezzo ragionevole, in tal caso il brevetto non è un valore assoluto. Chi indirizza la ricerca scientifica, ad esempio, nel campo farmaceutico e medico? Dov'è il timone? Sta soltanto nel profitto? Ma se sta soltanto nel profitto, dobbiamo sapere che questa ricerca combatte le malattie dei ricchi piuttosto che quelle dei poveri, in particolare le malattie dei ricchi più numerosi piuttosto che di quelli poco numerosi perché occorre un mercato che compensi le spese per la ricerca. Nascono così le orphan drugs, cioè le medicine che sono orfane perché curano le malattie dei pochi e non dei tanti; pochi quindi si occupano della ricerca in questi campi.
Nasce da questo tipo di globalizzazione una sfida al mondo del lavoro. L'analfabeta della politica si preoccupa del lavapiatti marocchino e della sua concorrenza ma noi ci dobbiamo preoccupare del fatto che il coltello dalla parte del manico in questo mondo ce l'ha il capitale. Il denaro è infatti diventato come l'acqua; il denaro va dove i profitti sono maggiori perché non ci sono più frontiere - e questo è naturale - ma se un operatore cinese costa un cinquantesimo di quelle europeo si preferisce investire in Cina e non in Europa. Si sono inoltre cancellate le distanze grazie al computer: ormai si lavora on line sulla rete web. Anche il lavoro intellettuale, allora, viene minacciato da una concorrenza straordinaria perché l'ingegnere pakistano può lavorare ad Islamabad on line, fare il software per un'azienda di San Francisco o di Milano ma costa duecento dollari al mese e non duemila dollari al mese. In questo modo si creano due circuiti sul mercato del lavoro: il circuito al top, quello dei grandi manager che sono contesi nel mondo come tennisti, piloti di formula uno, cantanti e che guadagnano somme incredibili (il manager della Disney Corporation guadagna ad esempio 1.400 miliardi l'anno) ed il circuito in basso, quello dei lavoratori al livello esecutivo manuale ma anche intellettuale che vengono spinti verso condizioni di salario e di garanzie di lavoro sempre minori.
Nasce così la categoria, di cui molto si parla negli Stati Uniti d'America in questi tempi, dei working poor, ovvero dei poveri che lavorano, che lavorano sì in maniera fissa e regolare ma che sono poveri perché guadagnano troppo poco per sopravvivere. Questa categoria forse potrebbe appassionare qualcuno della Confindustria italiana; io penso che, se si elaborassero delle statistiche in Italia, si noterebbe che i working poor sono tanti anche nel nostro paese. Non conosciamo con precisione le statistiche, ma sappiamo che in America essi sono il 21 per cento degli uomini che lavorano, il 45 per cento degli ispanici che lavorano, il 34 per cento delle donne.
Questo tipo di globalizzazione porta una sfida anche al principio di equità fiscale: infatti, giustamente il piccolo imprenditore, il professionista, l'artigiano, esasperato dal peso del fisco, non deve guardare la pagliuzza, bensì la trave, che è stata spiegata ed individuata con molta efficacia dalla grande inchiesta commissionata da The Economist dal titolo The disappearing tax payer, ovvero il «pagatore di tasse» che sparisce, dal momento che si creano due circuiti: il primo, quello delle imprese e dei professionisti che lavorano in giro per il mondo, che hanno un mercato mondiale e che quindi piazzano i profitti dove le aliquote sono basse e le perdite dove le aliquote sono alte. In questo modo essi non pagano tasse, spariscono, specialmente nei paradisi fiscali. Il secondo è il circuito di quelli che sono inchiodati sul territorio, dal momento che sono piccoli imprenditori, artigiani, professionisti. Non parliamo poi dei lavoratori dipendenti: è noto dove guadagnino i loro soldi, di conseguenza non sfuggono e pagano ciò che devono pagare e pagano anche per coloro che sono spariti in giro per il mondo.
Questa globalizzazione pone una sfida anche al principio di libertà: infatti, essa fa avanzare quello che potrebbe definirsi un moderno autoritarismo. Non per caso, tra i contestatori, le bandiere rosse si affiancano, da qualche tempo, alle bandiere nere, ovvero quelle dell'anarchia. La ragione è che molti giovani cominciano ad essere esasperati dalla sensazione di non contare, di essere oggetto di scelte fatte sempre e solo da altri.
Questo moderno autoritarismo avanza in modo soft, non certo con le scarpe chiodate di un tempo; prima avanza il qualunquismo, il dipietrismo, la tendenza a dimostrare che la politica è una cosa sporca, una cosa delegittimata. Successivamente, si spiega che la politica non soltanto è una cosa sporca, ma anche una cosa inutile, dal momento che ci sono le leggi del mercato, ripeto, le leggi del mercato. Per questa ragione, chi viola le leggi del mercato è innanzitutto un deviante. Da chi devono essere applicate ed interpretate le leggi del mercato? Evidentemente dai tecnici dell'economia, dai banchieri, dagli imprenditori, dai professori. Cosa fanno allora i politici? Niente! Successivamente, occorrono i tecnici del diritto: i magistrati, i poliziotti che assicurino l'ordine pubblico e il rispetto dei contratti. Non occorre altro!
La politica meno fa, meglio è! Meglio che i politici si occupino di beghe localiste, meglio che si disperdano in risse confuse che li rendono ridicoli. Gli amministratori di condominio devono somigliare ai politici e viceversa.
Ormai i liberisti stanno passando dalla teoria dello Stato minimo a quella della politica minima. La politica meno fa, meglio è!
Questa globalizzazione pone una sfida all'ambiente, alla tutela dell'ambiente: il problema di Kyoto. È molto semplice: se i paesi del terzo mondo consumassero come noi del primo mondo, non vi sarebbe salvezza per l'aria e per l'acqua in futuro. E allora i casi sono tre: o si fa qualcosa - e Kyoto è il primo passo per fare qualcosa - oppure si stabilisce che i paesi del terzo mondo, poiché sono arrivati dopo, non possono svilupparsi secondo il nostro stile di vita, oppure, ancora, si va a fondo tutti insieme, primo e terzo mondo.
Signor Presidente, qualche anno il professor Fukuyama dalla California spiegava che, con il crollo del comunismo e con la fine della terza guerra mondiale tra est ed ovest, era finita la storia della politica.
Si era pensato che la politica fosse morta e che fosse rimasto, come regolatore della nostra vita, soltanto il mercato. No, la politica non era morta, la storia non era morta, la storia si era soltanto addormentata e la politica è stata svegliata da una protesta, anche violenta, dei giovani di tutto il mondo. Si è scoperto che i giovani non erano disinteressati alla politica, erano disinteressati alla nostra politica, a quella grigia dei «ragionieri» della politica, alla quale, per la verità, persino noi cominciamo a disinteressarci.
Nasce una nuova politica, quella del 2000, della globalizzazione, dell'interdipendenza tra i continenti, senza più distanze.
Certo, per la destra è tutto più facile perché la destra non ha bisogno di progetto, ma le basta il pragmatismo perché pensa che le forze del mercato - così ragionano i liberisti - possano e debbano provvedere a tutto. Noi, la sinistra, abbiamo invece bisogno di progetti e non è facile, perché il mondo corre troppo rapidamente. Però alcuni punti fermi possono essere individuati.
La sinistra vince se vince la politica e la politica vince se si globalizza e si internazionalizza anch'essa. Un tempo le frontiere della giustizia sociale e della libertà erano nazionali, oggi sono mondiali. C'è la finanza globale, l'informazione globale, lo spettacolo globale, il crimine globale; purtroppo, c'è la politica provinciale e, quindi, la politica perdente. La sinistra ha una base per la sua globalizzazione ed è l'internazionale socialista. Poi ha il partito socialista europeo, che è ancora più coeso, e di qui dobbiamo partire sapendo che l'ambito minimo per immaginare un progetto è quello europeo.
La sinistra, dunque, ha una base internazionale ed ha un alleato internazionale: la Chiesa cattolica, perché - bisogna dirlo - il Papa ed i cardinali hanno detto ciò che si doveva dire sulla globalizzazione.
La sinistra ha fiducia nel prossimo e nel popolo, specie nei giovani, per antica tradizione, e io penso che debba continuare così. A proposito di giovani, è chiaro che essi spesso vedono il futuro meglio degli altri non fosse altro per il fatto che loro, nel futuro, ci saranno. I giovani sanno che, quando saranno vecchi, i bianchi saranno meno del 10 per cento dell'umanità; sanno che l'alternativa non è quella indicata da coloro che sono terrorizzati dall'immigrazione: l'alternativa è quella tra una società multietnica e una multiculturale. Multietnica come in Francia, tante etnie ma una sola cultura, o multiculturale come in America, tante etnie e tante culture diverse. I giovani sanno che già oggi Berlino è una delle più popolose città «turche» del mondo. Negli anni sessanta il centro culturale più vivace della terra era Parigi. Adesso, probabilmente, è la costa occidentale degli Stati Uniti. Nel 1968 a Parigi è nato qualcosa: un movimento che ha infiammato il mondo in poco tempo, lo ha risvegliato. Forse a Seattle è nato il nuovo '68. Io, allora, ero contrario al '68, perché ero un socialista liberale e riformista e quelli erano comunisti. Però avevo torto, perché il '68 di allora era carico di errori, di degenerazioni e di rischi, però, vedendo le cose a posteriori, dobbiamo dire che ci ha lasciato un mondo occidentale certamente più libero e più moderno.
Allora probabilmente dobbiamo guardare il «popolo di Seattle» - così ormai lo si chiama - e quello di Genova come abbiamo guardato il popolo del '68, con l'augurio che da esso si formi la nuova classe dirigente di una sinistra (e di una politica) globalizzata ed internazionalizzata, con l'augurio che si riempia di contenuti lo slogan di Jospin, che stava con il '68, che adesso sarà a Genova con gli altri sette grandi della terra, ma che usa uno slogan adatto a disegnare il futuro di una sinistra moderna quando dice «noi siamo per un'economia di mercato, ma non per una società di mercato» (Applausi dei deputati dei gruppi Misto-Socialisti democratici italiani, dei Democratici di Sinistra-l'Ulivo e di Rifondazione comunista).
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Rivolta. Ne ha facoltà.
DARIO RIVOLTA. Signor Presidente, ci si rende conto che si tratta un tema ascoltando gli interventi che si sono succeduti o anche soltanto leggendo le varie mozioni presentate che sembra raggruppare in sé tutta la realtà del mondo. Al G8, casualmente oggetto (dico casualmente perché tanti e tali sono gli argomenti affrontati), di questa particolare attenzione, si attribuiscono identità talmente variegate da rendere faticoso il loro accoglimento. Gli si attribuiscono talmente tante identità, non solo negli interventi, non solo nelle mozioni, ma anche nello spirito di molti di coloro che a Genova ci andranno - da una parte o dall'altra, con un ruolo o con un altro -, da far pensare
che questo G8 finisca per diventare il capro espiatorio di tutti i mali del mondo, anzi, il luogo in cui si incontreranno tutti i mali del mondo.
Dall'altra parte, contemporaneamente e parallelamente, dalle stesse persone da cui nascono gli strali che identificano a Genova i mali del mondo, al G8 vengono richiesti interventi ed azioni e ci si aspetta che da li si riparino tutti i mali del mondo: ci si aspetta che il G8 - o almeno lo si chiede - diventi taumaturgico e salvifico, che risolva i problemi enunciati nel corso dei vari interventi relativi a queste mozioni e che sono presenti anche negli spiriti - a volte razionalmente a volte anche inconsciamente - di coloro che a Genova, nei vari ruoli e dalle varie parti, ci andranno.
Ho cercato di porre un'attenzione particolare agli interventi e ho colto alcune evidenti irrazionalità ed anche - devo dirlo con tutta franchezza - tante cose interessanti. Vorrei citare qualche irrazionalità per suffragare ciò che stavo dicendo in merito alle attese o proiezioni, forse un po' troppo esagerate, sulla questione di Genova. Ad esempio, il collega Cento contestava la legittimità del G8 e sosteneva che non vi è legittimità ed altri colleghi lo hanno seguito. Lo stesso collega, però, nel corso dello stesso intervento, pur contestandone la legittimità - e sappiamo che, nel diritto, contestare la legittimità di un ente, di un organo, di una figura giuridica significa ritenere inutili, non validi o come non avvenuti tutti gli atti che, eventualmente, dovessero seguirne - chiede alcune cose - attraverso la stessa mozione presentata - che normalmente non si dovrebbero chiedere a realtà che fossero giudicate illegittime: che il G8 si facesse carico della cancellazione integrale dei debiti (punto primo del dispositivo); che il G8 provveda a garantire, almeno entro i prossimi dieci anni, l'approvvigionamento, a un miliardo di abitanti dei paesi poveri, di energia prodotta da fonti energetiche rinnovabili su piccola scala, quindi un intervento importante; infine, che il G8 garantisca il commercio internazionale e, in modo particolare, che nel commercio internazionale l'apertura dei mercati non comporti effetti negativi sulle economie locali e di sussistenza, sull'ambiente e su diritti sociali dei lavoratori.
Quindi, chiede un qualcosa che va al di là del riconoscere implicitamente una legittimità, anzi, estende la presunta legittimità del G8 chiedendo di intervenire al di là e al di sopra di qualunque altra organizzazione internazionale, addirittura all'interno dei singoli Stati, quindi, soverchiando la sovranità dei singoli Stati. È questo il senso di ciò che si legge nella mozione a prima firma Boato illustrata dal collega Cento. Ma vorrei citare qualche altra irrazionalità perché tutti insieme, con spirito sereno e con armonia, possiamo valutare meglio argomenti che finiscono con l'essere ineludibili (anche se magari non tutti destinati ad essere affrontati in questa sede). Ad esempio, mi è sembrato che anche la collega Cossutta abbia peccato, involontariamente, di una certa irrazionalità o, comunque, di mancanza di coerenza quando - chiedo scusa alla collega Cossutta, lo dico per ragionare insieme - parlava dell'economia di sussistenza e lamentava che la stessa, poiché non muove denaro, non viene contabilizzata nel calcolo della ricchezza mondiale. Benissimo. È una affermazione che di per sé può essere indiscutibile ma, allora o quantitativamente è poco rilevante il risultato dell'economia di sussistenza - allora, in questo caso, può anche avere un senso non contabilizzarla - oppure è quantitativamente rilevabile.
Ma, se fosse quantitativamente misurabile, si arriverebbe a dover dire che i paesi che noi giudichiamo poveri, valutandoli senza tener conto di questo, così poveri forse non sono. Sull'onda dell'emozione, si potrebbe arrivare all'assurdo di chiedere la cancellazione del debito per paesi poveri che, forse, non sono neanche così poveri, stando a quanto affermato dalla collega Cossutta. Evidentemente, è un'ironia involontaria quella della collega, la quale non pensava a questi effetti.
Noi, invece, applichiamo il buon senso e sappiamo che quando diciamo di alcuni paesi che sono poveri, oggettivamente essi
lo sono, anche al di là del fatto che un'economia di sussistenza, in qualche caso, riesca fortunatamente a salvare delle vite e in loco, possa arrivare a celare una particolare povertà, anche se il paese resta povero comunque.
Dico ciò perché ritengo che non dobbiamo incorrere - proprio noi che siamo parlamentari, che vogliamo discutere, giustamente, prima che il vertice abbia luogo - nell'errore di proiettare troppe aspettative o troppe condanne su un evento che, forse, finisce con l'essere - e mi dispiace doverlo ammettere - intrinsecamente meno importante di quello che sembrerebbe sulla base di tutti gli argomenti che abbiamo sentito.
Credo che dobbiamo guardarvi sapendo, anzitutto, che esso è, ovviamente, un evento legittimo; «ovviamente» legittimo perché si incontrano otto paesi che sono i più industrializzati del mondo e che, senza voler prevaricare altre organizzazioni numericamente ed anche politicamente più rappresentative, hanno deciso e decidono di affrontare insieme, saltuariamente, determinati temi, allo scopo di ricercare possibili soluzioni comuni.
C'è da dire, con estrema franchezza, che, purtroppo, ben raramente gli incontri del G8 hanno portato a decisioni, ad atti che rappresentassero, nei fatti, posizioni comuni. Purtroppo, i G8 che hanno preceduto l'incontro di Genova non sono stati di portata tale da far pensare che in quella sede si possano risolvere non dico i grandi mali del mondo, ma anche alcuni piccoli. È giusto, però, che i governi si incontrino, è giusto che questi Governi si incontrino.
Tuttavia, non dobbiamo nemmeno dimenticare - sempre per dirci le cose con estrema pacatezza, con estrema franchezza - che non si tratta di incontri riservati agli otto paesi più industrializzati - i quali, comunque, avrebbero tutto il diritto di incontrarsi - perché i paesi medesimi hanno chiesto di poterli allargare ad altre realtà, per poter ascoltare direttamente la loro voce. Ad esempio, anche il Segretario generale dell'ONU, Kofi Annan, sarà presente al vertice: forse non parteciperà a tutti gli incontri, ma sarà invitato e sarà presente, come i rappresentanti di altri paesi.
Si è detto che il G8 rappresenta soltanto i paesi ricchi e che questi decideranno sulle spalle dei paesi più poveri. Anche qui rilevo un po' di incoerenza: o si riconosce al G8 la legittimità a decidere sulle spalle degli altri - cosa che non è nei suoi proponimenti né nei suoi desideri o nelle sue aspirazioni - oppure, negandogli tale legittimità, non si può, poi, chiedergli di farsi carico, con tutti gli atti che ne conseguono, dei problemi del mondo.
Comunque sia, tutti sappiamo, ed è riconosciuto anche in tutte le mozioni, per quanto diverse esse siano, che tra i temi che saranno discussi in questo prossimo questo vertice figurano, giustamente, i rapporti tra il nord e il sud del mondo, cioè i rapporti tra il mondo che noi definiamo ricco - ce lo permetta la collega Cossutta - ed il mondo che definiamo - chiedo ancora il permesso della collega - povero: c'è un mondo di paesi ricchi e un mondo di paesi poveri. C'è il problema della povertà e i paesi più industrializzati cercheranno di ragionare insieme per vedere se sarà possibile trovare un modo per aiutare quelli meno industrializzati a diventare un po' più ricchi. Almeno questo è negli obiettivi.
Si è detto anche che questo G8 è antidemocratico. Ebbene, bisogna intendersi sul significato della parola democrazia; so che c'erano alcuni paesi che, nella loro stessa definizione, si chiamavano paesi popolari o democratici, ma evidentemente - come tutti sappiamo - avevano un concetto di democrazia ben diverso dal nostro. Infatti, noi intendiamo definire - lo dico pur conscio del fatto che il termine democrazia potrebbe richiedere esso stesso e per esso da solo ore di discussione (ma ora sto semplificando all'estremo) - una istituzione democratica o non democratica se alla sua costituzione ha partecipato liberamente il maggior numero possibile dei cittadini e dei deputati. Ebbene, i Governi del G8 sono rappresentativi di paesi nei quali si sono svolte regolari elezioni, e questi Governi sono naturale,
regolare e democratica espressione di Parlamenti eletti in questi paesi. Le cosiddette controparti, rispetto alle quali si è insistito molto nel chiederne il riconoscimento politico, non mi risulta che provengano da un meccanismo altrettanto democratico. Ora, poiché sono conscio, come tutti, che il termine democrazia è - come dicevo prima - un termine molto vasto, che meriterebbe di essere approfondito molto di più, non arrivo a definire come antidemocratiche le rappresentanze che si trovano, per esempio, nel Genoa Social Forum; non arrivo a definirle tali, ma coloro che non sono passati attraverso regolari e libere elezioni credo che non possano definire antidemocratiche altre realtà.
Comunque, per non divagare troppo a lungo e per non dare l'impressione che io mi voglia limitare a qualche aspetto negativo di ciò che ho sentito, vorrei invece sottolineare quanto sia particolarmente positivo l'incontro di oggi alla Camera e, soprattutto, quello che ne sarà e - lo auguro a me come cittadino e come deputato, e a tutti noi - ne potrà essere il frutto: che veramente si possa approfondire a Genova ciò che noi chiediamo nella mozione comune della Casa delle libertà. In modo particolare, cito due aspetti: che a Genova, i paesi più industrializzati, consci - e qui poi tornerò prima di finire - della necessità assoluta di governare la globalizzazione, si adoperino per promuovere una migliore governabilità, tenendo conto della crescente interdipendenza dell'economia tra gli Stati del mondo, e, soprattutto, per favorire l'adozione, in tutte le sedi istituzionali appropriate, di principi e regole universalmente riconosciuti al fine di consentire che il gioco del mercato sia equo e corretto.
Non leggo tutta la mozione, ma voglio chiudere su due aspetti che, anche se collaterali agli argomenti toccati, sono comunque importanti e rientrano in quelle tematiche che sul G8, anche indipendentemente dalla volontà e dagli scopi istituzionali di questo incontro, sono proiettate. Innanzitutto - lo dico al Governo - non bisogna dimenticare che questo incontro di Genova, anche per tutti gli avvenimenti, le dichiarazioni, gli incontri, le negoziazioni che sono state giustamente fatte con coloro che rappresentano in vario modo la società civile, viene guardato da tutti i cittadini italiani e, in modo particolare - anzi, direi soprattutto - dai cittadini genovesi, come una prova anche per il nuovo Governo. I cittadini italiani vogliono sapere, osservando quello che succederà a Genova, se questo Governo, che ha giustamente dimostrato la volontà di rispettare il diritto di manifestazione, che ha dialogato - giustamente - anche con realtà la cui rappresentatività è ancora dubbia e sarà provata soltanto in seguito (almeno nella sua totalità), a fianco di questa giusta e condivisibile volontà di rispetto della libertà di espressione, saprà anche tutelare quei cittadini italiani che non manifesteranno, quei cittadini italiani che non vogliono essere personalmente coinvolti in questo incontro, né da una parte né dall'altra, che hanno delegato il Governo, attraverso il Parlamento, a tutelare i loro interessi, i loro desideri, i loro progetti anche politici.
Noi tutti vorremo vedere se anche questi ultimi cittadini saranno ugualmente tutelati nel loro diritto di essere cittadini tranquilli, di poter circolare nella città senza essere aggrediti, di poter avere i propri negozi e di poter mantenere i loro beni senza che questi vengano danneggiati da terzi. Ci piaccia o non ci piaccia, sarà un banco di prova di quella capacità di equilibrio e di fermezza che il Governo deve coniugare insieme.
C'è un altro punto, l'ultimo sul quale mi soffermo, che è implicito nel G8 - vorrei qui esprimere un particolare e personale apprezzamento per una parte dell'intervento del collega che mi ha preceduto - ed è legato al discorso della rappresentatività.
Al ministro ed a tutto il Governo non sarà sfuggito come, da parte di alcune forze dell'opposizione, ci sia stata una particolare enfasi nel sottolineare che il Genoa Social Forum doveva avere un riconoscimento politico. Non era casuale. Il primo incontro, a cui si presentò soltanto il capo della polizia, fu disertato dai rap
presentanti del Genoa Social Forum che accettarono di dialogare soltanto con un rappresentante del Governo. In questa sede è stato anche dichiarato che il Genoa Social Forum è soggetto politico e il Governo, discutendoci da pari a pari, lo ha fatto diventare, per motivi pratici - devo dire anche giustamente -, un soggetto politico. Allora non dobbiamo farci sfuggire un altro aspetto: chi siamo noi, chi siete voi? Mi riferisco al Parlamento, al Governo. Qual è la nostra rappresentatività? Noi siamo stati democraticamente eletti per rappresentare alcune delle esigenze di organizzazione della società a nome e in rappresentanza proprio della volontà dei cittadini che ci hanno eletti, maggioranza e opposizione. Chi rappresenta il Genoa Social Forum? Esso ha un riconoscimento politico che noi gli abbiamo dato. Ora non mi sfugge, come non sfugge a nessun collega, quanto la questione sia complicata. In una società moderna, sviluppata, complessa, in cui la comunicazione è così veloce e multiforme, vi sono diverse forme di autorappresentazione, ma la delega, a chiunque venga conferita, non è mai una delega al cento per cento ma è sempre una delega parziale, non solo nel tempo ma anche nell'oggetto. Vi sono alcune deleghe - lo si vede nella vita di tutti giorni - che vengono conferite a persone, associazioni o enti che non necessariamente sono dei soggetti in prima battuta politici, ma sono dei soggetti che, in qualche caso, possono diventarlo.
Ora - qui mi ricollego, e su questo chiudo, all'intervento dell'onorevole Intini - il problema vero, grave ed importante che le società moderne ed il mondo industrializzato andranno ad affrontare è proprio quello della globalizzazione intesa come sempre maggiore diminuzione delle potestà politiche nazionali con un contemporaneo aumento di potestà sovranazionale. In Europa abbiamo un esempio evidente: la rinuncia alla sovranità sulla moneta è un esempio in cui la potestà nazionale è venuta meno. In questo caso il fenomeno è governato addirittura in modo consensuale. Nella globalizzazione questo fenomeno può essere governato o meno: vi sono alcuni aspetti che sono governati, controllati e controllabili e ve ne sono altri che sono incontrollabili; oppure sono controllabili ma non controllati.
La vera sfida della politica per il futuro e, di conseguenza, anche della rappresentatività di chi assurge ad essere il rappresentante principalmente politico, quale noi siamo, è fino a che punto noi, rappresentanti delegati nei vari livelli e nei vari luoghi, riusciremo a comprendere che la proposta politica che faremo non è più quella della grigia politica cui alludeva l'onorevole Intini, ma quella della politica che dà soluzioni o propone idee su come affrontare questo nuovo grande problema che, come ho già accennato all'inizio del mio discorso, coinvolge tutti.
Questo - lo dico al collega Intini - non è un problema di destra o di sinistra; sarà di destra o di sinistra, al limite, il tipo di proposta che ne scaturirà: una proposta, se vogliamo, potrà essere chiamata di sinistra, un'altra, magari, potrebbe essere chiamata di destra.
Il problema stesso, però, consiste nel verificare se saremo in grado di comprendere che la politica avrà come argomento principale quello di come governare qualcosa che potrebbe sfuggire; se riusciremo a capire questo, potremmo continuare ad essere rappresentativi e potremmo anche guardare - mi si consenta, lo dico con umiltà - dall'alto in basso coloro che non hanno la stessa sanzione democratica che noi abbiamo. Se invece non riusciremo a cogliere questo, se non riusciremo a fare di questi temi l'oggetto del nostro schierarci in politica, forse costoro che oggi guardiamo - lo dico sempre con umiltà - dall'alto in basso, potrebbero finire per diventare più rappresentativi di noi (Applausi dei deputati del gruppo di Forza Italia - Congratulazioni).
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Lucà. Ne ha facoltà.
Onorevole Lucà, le ricordo che il suo gruppo ha ancora a disposizione 13 minuti e che dopo di lei è iscritto a parlare anche l'onorevole Benvenuto.
MIMMO LUCÀ. Signor Presidente, cercherò di fare il possibile per rispettare i tempi. Alla vigilia di un così importante appuntamento come il vertice del G8, che offrirà tra l'altro al nostro paese l'occasione di presiedere uno degli eventi internazionali più impegnativi ed attesi dall'opinione pubblica mondiale, occorre riflettere profondamente sulle opportunità da cogliere, nonché sul significato della parallela mobilitazione che la società civile, le ONG, i gruppi di volontariato, le associazioni religiose stanno alimentando.
Lungi dal costituire solo un problema contingente di ordine pubblico, essa rappresenta una ragionata manifestazione di dissenso verso un modello di sviluppo che favorisce solo alcuni e verso un modo di concepire le responsabilità planetarie ad esclusiva pertinenza dei paesi più ricchi. Queste manifestazioni vanno comprese, perché esprimono il bisogno di un'autentica partecipazione democratica alle scelte che riguardano tutta l'umanità, perché sono depositarie di quei messaggi di solidarietà, di democrazia e di diritto che costituiscono ormai l'universale linguaggio del mondo.
Viceversa, dobbiamo constatare che esse sembrano interessare più per ragioni di ordine pubblico che non per i contenuti che promuovono. Questo perché gli episodi di violenza, di guerriglia urbana che purtroppo si sono verificati nel corso di precedenti appuntamenti, hanno avuto una vasta eco sui mezzi di informazione mondiali e suscitano perciò l'apprensione dei governi ospitanti. Signor Presidente, in verità il cosiddetto popolo di Seattle è in larghissima parte composto dai gruppi che si riconoscono nei principi del diritto internazionale dei diritti umani, partecipa costruttivamente alle conferenze mondiali delle Nazioni unite, sostiene l'azione dei tribunali penali internazionali. Il movimento che, in Italia, in vista dell'imminente appuntamento si è responsabilmente dato una struttura rappresentativa unitaria nel Genoa Social Forum, chiama le istituzioni ad un confronto sui contenuti, laddove la contestazione non discende da una mera contrarietà alle riunioni dei paesi più ricchi del mondo, ma dai metodi decisionali da essi adottati, dal loro grado di rappresentatività democratica e dal senso profondo delle scelte che sono chiamati a compiere, che merita una più ampia platea decisionale.
Le ragioni della protesta partono dall'analisi dei fattori di vulnerabilità e di diseguaglianza del pianeta che, ad oggi, impongono alla grande maggioranza della popolazione mondiale evidenti condizioni di miseria, di sfruttamento, di disaggregazione, che sono fonte di ingiustizia, violenza ed inquinamento. Il rischio di un ulteriore aggravamento di tali fattori a livello planetario è alto laddove la frenesia dei mercati finanziari ed i processi di globalizzazione, sottratti del tutto al controllo politico dei governi e guidati dalla sola ricerca del profitto, continuano a provocare disastrose conseguenze sulle economie più fragili del mondo.
La politica, spogliata del suo ruolo, non sembra essere in grado di organizzare risposte adeguate, di veicolare lo sviluppo verso un quadro di maggiore solidarietà e corresponsabilità; a fronte di questo drammatico ed incontrollato andamento dell'economia mondiale, che globalizza i profitti solo in una direzione ed impone i costi a danno dei più poveri senza una precisa assunzione di responsabilità e di obbligazioni da parte di quei paesi, tra cui il nostro, che hanno tratto e continuano a trarre beneficio dal perpetuarsi di questo modello economico globale, non sarà possibile innescare un meccanismo virtuoso che riduca le differenze, che crei opportunità di sviluppo in condizione di sostenibilità ambientale, di benessere e di democrazia nelle aree povere del pianeta.
Non credo si debba discutere della legittimità di uno strumento di lavoro che riunisce gli otto paesi economicamente più importanti del pianeta, laddove esso si presti ad essere interpretato come uno dei possibili strumenti operativi per concertare soluzioni ai diversi problemi in campo, quanto piuttosto del fatto che quel tavolo così ristretto possa essere chiamato a risolvere i problemi dello sviluppo dell'intero pianeta, di un mondo in cui 800
milioni di persone sono quotidianamente a rischio alimentare, 3 miliardi di persone vivono con meno di 2 dollari al giorno e dove il 20 per cento della popolazione mondiale consuma l'80 per cento delle risorse.
Il deficit di legittimità democratica nell'assunzione di scelte decisive per il futuro dell'umanità non può e non deve, dunque, essere ignorato. L'interesse per il futuro del pianeta non è proprio solo di chi già possiede i mezzi per assicurare alla propria gente condizioni di benessere e sicurezza sociale, quanto soprattutto di coloro che da questo benessere e da questa sicurezza sono, ad oggi, esclusi.
L'urgente necessità di costruire un insieme di regole che a livello internazionale prospetti il controllo e la regolamentazione dei mercati finanziari, la difesa ambientale, la lotta alla povertà, l'affinarsi degli strumenti di cooperazione e l'estendersi di un quadro di sicurezza ha bisogno di una sede più idonea e di una partecipazione più ampia di quella offerta dall'angusto quadro privilegiato del vertice del G8 che, viceversa, non può trasformarsi in una sede istituzionale alternativa alle Nazione unite e alle altre organizzazioni internazionali multilaterali. Se il pianeta si mondializza, se l'economia è mondializzata, dobbiamo impegnarci per mondializzare anche la pratica della democrazia per l'iniziativa e con l'esempio dato dai paesi che sono già democratici in casa loro. La complessità delle dinamiche planetarie e l'insufficienza delle risposte fornite dalla comunità internazionale e dal forum del G8 hanno, quindi, coagulato un fronte di opposizione estremamente variegato, la cui parte maggioritaria si dichiara contraria ad ogni forma di manifestazione violenta.
Fra le anime della protesta pacifica, il vasto fronte delle associazioni cattoliche nei giorni scorsi ha fatto sentire la sua voce chiamando i credenti a raccogliere la sfida della globalizzazione, dell'impegno solidale per l'edificazione di un mondo in cui il valore della persona umana sia pienamente affermato. Dalle ACLI all'Azione cattolica, dalla GIOC a Pax Christi, dai Focolarini all'AGESCI, dalla Comunità di Sant' Egidio alla FOCSIV hanno sottoscritto un manifesto in cui viene formulato l'auspicio che il mondo si indirizzi a costruire un sistema di regole che globalizzi la solidarietà e le responsabilità fra le nazioni e che ponga le premesse per migliori condizioni di tutela dell'ambiente e per più autentici spazi di libertà e di democrazia. Anche autorevoli esponenti della Chiesa cattolica hanno dato il loro alto contributo di riflessione, dal cardinal Martini al cardinal Tettamanzi. Allora, come credenti, nonché come politici avvertiamo l'urgenza di dare ai popoli del pianeta tutta la considerazione che meritano, di dare un contributo per eliminare le piaghe della povertà, della malattia, della guerra, dell'ingiustizia e far crescere le responsabilità globali, affinché davvero la globalizzazione, adeguatamente governata, regolata e modulata possa offrire nuove possibilità di sviluppo e di benessere ed evitare disparità e squilibri.
Il centrosinistra nei cinque anni di Governo ha dato un fondamentale contributo in questa direzione. Il nostro paese è stato il primo tra quelli del G8 a cancellare il credito vantato nei confronti di alcuni paesi tra quelli maggiormente indebitati con un provvedimento adottato dal Governo D'Alema.
Per concludere, l'auspicio, compiutamente formulato nella mozione che il centrosinistra ha presentato, è che il Governo prosegua negli sforzi già sostenuti negli scorsi anni in seno al G8 e che si adoperi affinché nel vertice di Genova siano con chiarezza riproposti i temi della globalizzazione e della solidarietà, delle responsabilità e dei diritti, della cancellazione del debito e del pieno sostegno all'entrata in vigore del Protocollo di Kyoto. È poi necessario che il vertice del G8 diventi occasione di autentico confronto con i paesi in via di sviluppo e con la società civile e che non riproponga il clima di anacronistica divisione tra i governanti del mondo chiusi ermeticamente in un palazzo, intenti a prendere le loro decisioni, e le organizzazioni non governative in piazza a manifestare la propria
contrarietà a quelle stesse decisioni (Applausi dei deputati del gruppo dei Democratici di sinistra-l'Ulivo).
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Acquarone. Ne ha facoltà.
LORENZO ACQUARONE. Signor Presidente, onorevoli colleghi, sarebbe veramente errato ritenere che il prossimo G8 non rappresenti un momento importante nella vita della nostra civiltà occidentale. È pur vero, come hanno affermato i vescovi della Liguria in un documento presentato ieri, che gli otto governanti che si autoconvocano rappresentano solo una minoranza dei paesi del mondo e, pertanto, non possono parlare a nome di tutti paesi. Lo stesso documento dei vescovi liguri, però, continua affermando che è altrettanto vero che il loro incontro riveste una particolare rilevanza nei confronti dei grandi problemi planetari.
Interrompo brevemente in attesa che il ministro degli affari esteri presti la sua attenzione.
PRESIDENTE. Mi scusi, onorevole Acquarone, il ministro degli affari esteri stava interloquendo con me. Prosegua pure.
LORENZO ACQUARONE. Dicevo che, se è pur vero quello che autorevolmente i vescovi della Liguria hanno ieri pubblicamente dichiarato, cioè che gli otto governi che si sono autoconvocati rappresentano soltanto una minoranza dei paesi del mondo e non possono parlare a nome di tutti i paesi, è, peraltro, altrettanto vero che il loro incontro riveste una particolare rilevanza nei confronti dei grandi problemi planetari. È, infatti, un incontro che deciderà quali impegni gli otto paesi più ricchi e tecnologicamente più evoluti assumeranno in ordine alla crescita dell'economia delle società meno ricche, decisamente povere e affamate, ed alla salvaguardia di un ambiente che da sempre è patrimonio comune e indiviso.
Quindi, è certamente un incontro importante al quale questi otto paesi si presentano molto criticati, forse anche ingiustamente. Se raccogliamo l'opinione che alita nel nostro paese ma, direi, in larga parte dei paesi del mondo occidentale, sentiamo che è più violenta la contestazione che non l'adesione. Ciò è sbagliato perché ritengo che sia un momento importante e, mi auguro da deputato genovese, che possa svolgersi in tranquillità e serenità.
Detto ciò, peraltro, debbo dire che vi sono alcuni aspetti inquietanti nel modo in cui questo G8 si presenta: alcuni di carattere interno alla struttura dei paesi più industrializzati, altri che riguardano il loro esterno. Per quanto riguarda gli aspetti di carattere interno abbiamo assistito e stiamo assistendo negli ultimi tempi di questa civiltà postindustriale ad un momento in cui gli elementi della produzione sono fortemente soggetti alle manovre economico-finanziarie. La velocità di spostamento dei capitali è tale da aver indotto moltissime industrie ad abbandonare la politica del nocciolo duro di vedere, cioè, che cosa può essere fatto nell'interesse loro, dei loro azionisti, dei loro dipendenti. Guardano, però, il bilancio: il bilancio trimestrale, quello semestrale. Tutto deve essere fatto in funzione di quel certo tipo di bilancio ed allora assistiamo ad alcune forme di cinismo.
Possiamo constatare quanto, nel fenomeno della globalizzazione, l'illusione, ad un certo punto, abbia portato i mercati dell'est asiatico a grandi balzi in avanti e, poi, al crollo. Chi di noi è stato a Kuala Lumpur ad un certo punto ha visto che la smania di grandezza ha portato a volere due grattacieli più alti di quelli di Chicago. Poi è bastato un movimento finanziario sballato per far cadere tutto e ciò si è ripercosso, con la velocità del lampo, in tutto il mondo occidentale: prima sulla borsa di New York e poi, a catena, anche su quella di Londra e su quelle europee tra cui quella poveretta nostra di Milano, che sale alla ribalta solo quando qualche importante famiglia si mette a giocherellare.
Vi è, quindi, il grosso problema di evitare che le questioni di carattere economico-finanziario
siano più forti di quelle relative alla produzione industriale. Vi è, inoltre, un altro aspetto sul quale, forse, non riflettiamo abbastanza: in questi paesi manca molto spesso da parte delle grandi imprese, quelle che noi oramai chiamiamo le multinazionali, il senso di solidarietà.
I cosiddetti paradisi fiscali sono veramente un fenomeno grave. Oramai tutti i grandi paesi industriali che appartengono al G8 hanno il loro piccolo paradiso industriale ( dalle isole Vergini, alla Gran Kayman, alle isole Canarie e via dicendo): solo noi poveretti non siamo neanche riusciti a sfruttare San Marino. In realtà vi è, quindi, una mancanza di solidarietà, anche se con le società off shore (lo sappiamo tutti e lo sa anche il Presidente del Consiglio dei ministri che ce lo ha detto in campagna elettorale) si pagano meno tasse. Mi sia consentito dire che questo è vero, si pagano meno tasse: ma si viene anche meno a quel dovere di solidarietà sociale che è tipico di chi produce reddito e, in qualche modo, deve concorrere al benessere della civiltà nel suo complesso.
Accanto a questi pur rilevanti fattori di ordine interno, molto più rilevanti sono quelli di ordine esterno al gruppo dei G8; noi stiamo assistendo progressivamente ad uno sfruttamento, direi, senza essere marxista, dell'uomo sull'uomo. Pensiamo a certi cosiddetti miracoli, anche italiani, ad esempio quello del nord-est, a quanto di esso è legato allo sfruttamento che si è fatto della manodopera in Slovenia, in Croazia, oggi in Romania; perché se il semilavorato viene prodotto in una determinata società, dove 100-200 dollari al mese sono il massimo del possibile guadagno, e poi il semilavorato, la camicia a cui mancano solo i bottoni, viene importato e venduto in Italia, questo è anche uno sfruttamento che non arriva allo sfruttamento di cui tanto si parla e, cioè, di un dollaro al giorno, ma è, indubbiamente, un fenomeno presente anche nell'economia del nostro paese.
Non vorrei che certe limitazioni che si vogliono oggi imporre all'allargamento ad est dell'Unione europea siano proprio legate al pericolo che questo mercato del lavoro a basso prezzo possa venire ancora maggiore. Accanto a questi problemi che ci toccano da vicino, c'è il grande problema della povertà del mondo e della distruzione delle risorse naturali.
Quando noi parliamo di sviluppo sostenibile intendiamo riferirci al fatto che dobbiamo preoccuparci delle risorse naturali, non solo per noi ma anche per le generazioni che verranno.
Intanto è sostenibile uno sviluppo, in quanto le risorse possono essere riprodotte e, quindi, noi le possiamo lasciare a chi verrà dopo di noi, così come noi le abbiamo prese.
Esiste un fenomeno che gli economisti chiamano di estremizzazioni negative, cioè approfittare di un bene comune - come i latini avrebbero detto res communis omnium - senza pagare nulla: l'uso dell'acqua, l'uso dell'aria, l'uso di molte risorse.
Tutto ciò è legittimo, ma lo è nella misura in cui si proteggano per le generazioni che verranno; altrimenti vengono meno i principi di fondo. In questo periodo noi stiamo, invece, assistendo al trionfo di un liberismo sfrenato: la scuola di Chicago è fallita, già sul piano teorico, ora sta tragicamente fallendo anche sul piano pratico, perché un liberismo senza regole porta soltanto ad avere le cosiddette regole del mercato, e in un momento in cui si assiste al suo fallimento, c'è il fallimento di una intera società e di tutti i possibili obiettivi.
Io sono preoccupato di un mondo nel quale vi siano soltanto le regole del mercato. Dico di più, sono preoccupato anche di quando ci si riunisce per poter imporre volontariamente determinate regole al mercato. Gli studiosi di tali materie sanno che in America si sta parlando, da parecchio tempo, della cosiddetta capture of regulation theory, la teoria della cattura delle regole, perché catturando determinate regole si riesce ad influire addirittura sulle regole del mercato, un mercato che quasi mai è libero e che, in questo modo, viene addirittura governato in maniera da produrre arricchimenti senza giustificazioni.
È sufficiente che otto grandi paesi si mettano d'accordo per imporre una determinata soglia di inquinamento per determinati prodotti, che prevedano soglie di inquinamento per prodotti diversi, per lanciare fuori mercato tutto un settore, magari di un paese in via di sviluppo.
Questi problemi sono indubbiamente veri e preoccupanti. Allora, noi ci auguriamo che nel G8 non si parli soltanto di come disciplinare meglio gli interessi delle grandi società, delle multinazionali, che sono più forti dei governi nazionali, perché - lei, signor ministro, ne sa certamente più di me - io ho l'impressione che una delle grandi banche tesoriere, ad esempio la Morgan Guaranty, tra il venerdì, giorno in cui sono chiusi i mercati musulmani, il sabato, giorno in cui sono chiusi i mercati israeliani, e la domenica, in cui restano chiusi quelli cristiani, in quei tre giorni, possa disporre di una massa di capitali tale da far saltare l'economia di uno qualsiasi dei grandi paesi industrializzati o, quanto meno, delle grandi strutture di tali paesi.
Quindi, di tali aspetti si dovrà pur parlare, ma allo stesso tempo penso che il G8 avrà dignità se saprà occuparsi anche dei grandi problemi della civiltà presenti in questo momento. Anche in questo caso, per me cattolico democratico, è importante l'insegnamento che ci viene dai vescovi liguri, i quali, proprio perché liguri, proprio perché a Genova si svolge il G8, hanno ricordato che viviamo in un mondo in cui i quattro quinti della popolazione vivono per mantenere bene l'altro quinto.
Ricordiamoci, inoltre, che la mancanza di benessere in certe zone del Sudamerica, in Asia, in tutta l'Africa, alla fine si ripercuoterà negativamente sulla stessa economia, oltre che sulla vita civile, in quanto l'Islam potrà essere sempre più alle porte se non gli si offre alcuna speranza.
Penso, dunque, ad un G8 in cui il problema dello sviluppo sostenibile, il problema della difesa delle risorse, quello dell'azzeramento del debito, siano problemi fondamentali, sui quali già i colleghi del centrosinistra che sono intervenuti hanno posto la loro attenzione e sui quali credo che anche l'altra parte politica non debba rimanere indifferente.
Ecco perché, concludendo, chiedo al Governo, anzi, poiché in questo Governo non ho fiducia, chiedo al Parlamento che impegni il Governo, affinché nel G8 non si parli soltanto dell'economia di mercato, ma si parli anche dei grandi problemi che, oggi, travagliano e affliggono la società in cui viviamo (Applausi dei deputati dei gruppi della Margherita, DL-l'Ulivo e dei Democratici di Sinistra-l'Ulivo).
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Dario Galli. Ne ha facoltà.
DARIO GALLI. Signor Presidente, gli argomenti che sono oggi in discussione relativi alle mozioni presentate dai vari gruppi parlamentari sono sicuramente di grande importanza in quanto, per una volta, escono un po' dall'ambito della discussione locale, anche se a livello nazionale, e prestano attenzione ai problemi generali del mondo.
Devo però dire che, ascoltando con molto interesse, con molta attenzione gli interventi dei vari colleghi che si sono succeduti in quest'aula, si coglie come l'ideologia, come il modo che ognuno ha di pensare, di vedere le cose del mondo vengano, comunque, applicate alla fine, in maniera restrittiva - viene quasi da dire localistica - anche a questi avvenimenti.
Io ripartirei dall'inizio e ricorderei che il G8, che oggi, in effetti, assume valenze diverse da quelle della propria origine, in realtà nacque a metà degli anni settanta, nel 1975, in piena crisi petrolifera, per difendere - esprimendosi in maniera molto semplificata - gli interessi puramente commerciali che i paesi più sviluppati del mondo in quel momento avevano in relazione ad una situazione storica ed economica particolare.
Questo modo di affrontare e di svolgere tali incontri si è evoluto ed oggi a questi incontri si dà una valenza probabilmente superiore rispetto all'incidenza reale sulla vita economica e politica di tutti i paesi del mondo.
Un'unica cosa si può, eventualmente, notare: vi è, in effetti, un'anomalia per cui, pur avendo tutti i paesi partecipanti - come gli altri paesi democratici del mondo - proprie rappresentanze democraticamente elette, quando si tengono questi incontri, è un po' come se si incontrassero i potenti del mondo, come se essi, in qualche modo, non rappresentassero più dei popoli ma degli interessi personali, quasi si trattasse si incontri d'altri tempi, quando i governanti, gli imperatori, i re del mondo si incontravano e decidevano le sorti dell'umanità.
In effetti non è esattamente così; anche perché, quando guardiamo ai risultati - che spesso si apprendono più dai giornali che da quanto viene riportato nelle aule parlamentari - ci accorgiamo che di quanto viene detto in questi incontri poco viene discusso nei vari Parlamenti, pochissimo diventa azione politica effettiva, a parte alcuni interventi precisi in talune direzioni. Per cui, anche qui a Genova, sicuramente, assisteremo soprattutto allo spettacolo, che si sta preparando; ma, rispetto alle conclusioni del vertice - che si possono facilmente individuare in anticipo, perché ovviamente verteranno sui grandi principi di cui si discute sempre - sarà interessante vedere quanto (prendo ad esempio il nostro piccolo caso italiano) verrà riportato in quest'aula, che dovrebbe essere preposta a prendere le decisioni importanti per il paese e quanto, probabilmente ancor meno, diventerà successivamente decisione operativa.
Questo secondo me è abbastanza normale perché, in realtà, dubito che ci siano degli organismi, ancor meno delle persone, che possano effettivamente incidere sui grandi avvenimenti del mondo; quando si parla - come è stato detto - di interventi, di giorni-valuta, di situazioni di grandi masse monetarie che si tengono ferme, che si possono usare e così via, è tutto vero, ma poi, alla fine, mi pare che nel mondo le cose vadano, siano andate, probabilmente andranno in futuro, sempre, con un riferimento all'economia reale, alla capacità reale dei popoli di organizzarsi, di produrre qualcosa, in maniera molto più forte di quanto si possa pensare.
Se oggi andiamo a vedere, il mondo in realtà è certamente diviso tra paesi industrializzati e avanzati, paesi in via di sviluppo, paesi poveri e paesi poverissimi; tuttavia, i paesi oggi avanzati, industrializzati - o, comunque, definiamoli ricchi - non sono tali per intervento divino; ogni popolo, ogni nazione, ogni Stato ha alle proprie spalle una storia politica, sociale ma anche economica, che ha dato i risultati che oggi vediamo. Sono stati fatti accenni - per ritornare al tema dei discorsi di grande principio, in cui poi si ritorna al locale - che ritengo abbastanza sbagliati; esempio, il riferimento al nord-est italiano, che andrebbe, peraltro, smitizzato. Non c'è, infatti, solo il nord-est, c'è il nord-ovest, il centro-nord, ci sono tante altre zone italiane che hanno avuto negli anni passati uno sviluppo analogo. Il nord-est non si è sviluppato grazie agli stipendi bassi degli sloveni, dei croati, dei rumeni e via dicendo. Questo è un avvenimento degli ultimissimi anni, quando è caduto il muro e qualche sloveno è venuto a lavorare di qua o qualche azienda è andata di là.
Ma nel 1989 il Veneto era comunque già allora il Veneto di oggi. E tutto ciò, il Veneto di oggi, il nord-est di oggi, l'hanno realizzato i veneti e gli abitanti del nord-est. Si fa in fretta a parlare, ma forse andrebbe fatta un po' di memoria storica, visto che non sono passati dei secoli, ma solo qualche decina d'anni.
Sono una persona di età media però, non tantissimi anni fa, ricordo che mio padre lavorava 12 ore al giorno, 8 ore al sabato e 4 della domenica. Mio nonno faceva lo stesso e lavorava anche la domenica. La mia bisnonna a 12 anni è andata in filanda e lavorava 16 ore al giorno, per sei giorni. Quindi, nella vita, le cose non succedono per caso: se oggi abbiamo quel po' di ricchezza che abbiamo, è perché ci sono generazioni che, prima di noi, si sono impegnate per creare la ricchezza che oggi tutti noi abbiamo e di cui godiamo. Certo avranno anche avuto
le condizioni sociali ed economiche giuste perché questo potesse accadere: sicuramente anche oggi ci sono i bambini, in tante parti del terzo e del quarto mondo, che lavorano come la mia bisnonna in filanda, magari anche di più, che probabilmente non avranno lo stesso ritorno economico (o anche di più è difficile dirlo oggi), forse perché le loro condizioni non sono le stesse che abbiamo avuto nei nostri paesi.
Comunque non dimentichiamo mai quello che siamo e non spariamoci addosso ogni volta come se fossimo gli unici responsabili dei danni che accadono in tutto il mondo. Possiamo vedere che nel terzo e nel quarto mondo, se prendiamo i libri di storia o qualche giornale di qualche decennio fa, non di secoli, paesi che negli anni settanta e ottanta - quindi l'altro ieri - erano indicati come paesi poverissimi, oggi sono sulla via dello sviluppo, ormai veramente a grandissima velocità. Il sud-est asiatico, che negli anni settanta era popolato da gente che moriva di fame, oggi su tanti prodotti ci fa concorrenza. Se andate in vacanza da quelle parti, vedrete certamente le spiagge dedicate agli occidentali, ma anche nei quartieri locali la gente non muore di fame. Ci sono colleghi che, pochi mesi fa con una delegazione la Camera, sono andati in Cina, e nella Cina continentale i ragazzi hanno ormai più cellulari dei nostri ragazzi. Quindi, voglio dire, smitizziamo anche il discorso del mondo diviso esclusivamente tra ricchi e poveri, tra ovest ed est o tra nord e sud, come viene detto di solito, e diamo atto a quello che ogni popolo è riuscito a fare nella propria storia.
Un appunto che vorrei fare, visto che si sta parlando di sviluppo economico ed altro, al di là del fatto che la conoscenza personale e l'incontro hanno la loro importanza, è che sicuramente comunque far vedere le persone in un certo modo può avere la sua importanza, però bisognerebbe valutare se oggi, ormai nel XXI secolo, con tutti i mezzi a disposizione, sia ancora il caso di svolgere queste riunioni, in questa maniera, in città che per uno, due, tre mesi vivono sostanzialmente sotto assedio. Ha veramente ancora senso che 100, 200, 500 persone, con tutto il loro seguito, si spostino fisicamente, con tutte le conseguenze negative che vediamo, solo per fare un incontro? Probabilmente, sarebbe ora - questo potrebbe essere un invito al nostro Governo - di cominciare ad impostare in futuro, per riunioni di questo tipo, un'organizzazione diversa.
Poi richiamerei soprattutto i colleghi della sinistra ad uscire dalla retorica dell'ipocrisia: vediamo un po' di essere finalmente persone responsabili! Si continua a parlare dei bambini poveri, delle persone che vivono con un dollaro al giorno, ma allora se proprio vogliamo essere banali diciamoci come stanno le cose! Con quello che costa materialmente l'organizzazione di un incontro del genere, quanta gente si potrebbe far stare meglio! Con quello che verrà a costare al nostro paese l'incontro del G8, potremmo assicurare l'istruzione fino alle scuole superiori di tutti i bambini almeno di un piccolo paese dell'Africa, se proprio vogliamo essere compagni fino alla fine o cristiani fino alla fine, come veniva detto prima. Però, in effetti, non si dicono queste cose: oggi, continuiamo a fare queste affermazioni, però mi sembra che anche in questa aula, in questo Palazzo, gli sprechi non manchino, se proprio volessimo essere coerenti fino in fondo.
Va benissimo anche il discorso relativo all'utilizzo delle risorse, ma anche noi, per compiere i nostri lavori parlamentari, per fare le cose che facciamo, quanta ricchezza del mondo andiamo ad utilizzare? Sono cose banali, però quando vedo ministri o sottosegretari - spero che qualcosa cambi con il nuovo Governo - che solo per fare 500 metri di strada utilizzano la propria auto blu con la sirena, con una automobile davanti e una dietro, sgommando o facendo 500 metri con un litro di benzina perché bisogna per forza risparmiare i 30 secondi penso che così non cambierà niente.
Intendiamoci: non cambia niente, non vivo sulla luna, però se questo nostro dibattito è dedicato alla moralità, vediamo di pensarci un poco.
Sono stati fatti degli accenni anche al terzo mondo; non credo proprio che, continuando a parlare di società multietniche, multirazziali, multiculturali, si possano risolvere i problemi del mondo. Il terzo o il quarto mondo, come è stato giustamente detto, rappresentano la maggioranza numerica degli essere umani esistenti.
Non si risolve il problema dei paesi poveri spostando quasi forzatamente una piccola parte della loro popolazione nei paesi ricchi. Se veramente il mondo occidentale avesse a cuore il destino dei paesi sottosviluppati farebbe un tipo di politica diversa, andando sul posto a risolvere i problemi, a prendere i bambini e portarli a scuola, a impiantare le industrie di base (non le multinazionali che vanno a fare le scarpe da tennis o roba del genere). È l'industria di base che serve allo sviluppo dell'agricoltura e alla produzione dei beni di consumo minimi ed indispensabili per far vivere in maniera decorosa le persone. Non venitemi a dire che questa cosa è difficile da fare con la potenza finanziaria e mentale che si ha a disposizione. Ormai ci sono organizzazioni che hanno al proprio interno persone sicuramente capaci di fare certe cose, che conoscono il funzionamento del mondo e che se volessero potrebbero risolvere questi problemi in maniera veloce!
Prendiamo atto di ciò che rappresenterà questo incontro, facciamo i migliori auguri al Presidente del Consiglio dei ministri affinché rappresenti nel miglior modo possibile il nostro paese, il quale si preoccuperà di relazionarci su ciò che succederà. Diamo un po' meno enfasi a questa iniziativa e vediamo di essere un pochino più onesti, coerenti e meno ipocriti, almeno con noi stessi.
Parlando di un incontro importante come quello del G8 - che ci indica che il mondo si sta indirizzando verso una situazione globale dal punto di vista non solo finanziario, ma anche economico ed industriale - è doveroso fare un accenno anche agli altri argomenti trattati nelle mozioni. Giustamente si è parlato dell'accordo di Kyoto e di tutto quello che i paesi occidentali dovrebbero fare per cercare in qualche modo di governare la situazione nel mondo. Su questo sono d'accordo con l'impostazione assunta da qualche intervento precedente nel momento in cui si affermava che alla fine l'umanità vive su questa nave, per cui tutto quello che abbiamo ed avremo in futuro è quello che c'è qui. Se lo gestiremo in un certo modo, lo avremo per un certo periodo, se invece lo gestiremo in maniera meno intelligente, è chiaro che le riserve finiranno prima.
Anche in questo caso dobbiamo uscire un attimo dalla retorica; alla fine mi pare che a Kyoto gli unici paesi che si impegnano a prendere delle decisioni che siano portate effettivamente a termine, sono i soliti vituperati, condannati ed indicati alla gogna, paesi occidentali. È indicativo il fatto che, poiché il presidente Bush per qualche mese ha tentennato - cambiando successivamente un pochino idea -, si sia subito sparato addosso agli Stati Uniti. Voglio ricordare che questo paese, in fatto di ambiente si trova avanti di trent'anni anni rispetto al resto del mondo occidentale, non dico al resto del mondo. Quello che abbiamo fatto nel campo della catalizzazione delle automobili gli USA lo hanno fatto venti anni prima. In certe cose sono sicuramente molto più attenti, se poi sono coerenti e da persone serie non prendono impegni che sanno di non poter portare avanti, è un altro discorso. Prima di scaricare su di loro colpe che in realtà ricadrebbero anche su di noi, vediamo di essere un pochino più coerenti.
Negli interventi dei colleghi della sinistra non ho sentito alcuna indicazione nei confronti dei paesi più inquinanti del mondo. Questi paesi non sono i paesi occidentali, bensì l'ex Unione Sovietica, la Cina ed in parte l'India e i paesi del sud-est asiatico. Alcuni di voi - che per proprie frequentazioni conoscono meglio quei territori - sanno benissimo che l'Unione Sovietica ha il Mar Caspio ridotto ad un acquitrino avvelenato, che tutti i grandi fiumi siberiani sono superinquinati, che la Cina per decenni ha affermato di interessarsi allo sviluppo qualunque costo potesse avere, compreso quindi quello ambientale. Siccome in questo caso parliamo
di miliardi di persone, cerchiamo di dare una quantificazione al problema. Intendiamoci: in questo non c'è niente di ideologico, anch'io abito su questa terra e sarei ben contento che le cose andassero meglio per tutti.
Se veramente si vuole risolvere il problema, perlomeno andiamo a vedere dove è il problema! L'Unione Sovietica, senza andare troppo lontani, visto che si parlava di produzione ed energia, ha prodotto il disastro di Chernobyl e quindi tante potrebbe essere le conferenze di Kyoto in merito ma, se accadessero 10 disastri di Chernobyl, il mondo avrebbe chiuso bottega.
La stessa Italia ulivista, quella degli ultimi cinque anni, che avrebbe dovuto essere particolarmente attenta a questi discorsi, in realtà, negli stessi documenti risulta non essere stata capace, per esempio, di rispettare i limiti delle emissioni atmosferiche. Facciamo, pertanto, i primi della classe, i maestri e poi non siamo capaci di ottenere un risultato. È chiaro quindi che si tratta di un problema importante, ma credo che solo con coerenza, affrontando in modo intellettualmente corretto questi problemi, si possa giungere effettivamente ad un risultato.
Vorrei fare un ultimo cenno su un argomento molto importante della giornata, quello definito come Tobin tax (che implica altre argomentazioni e concetti più profondi), relativo alle operazioni speculative. In merito a ciò, dal punto di vista numerico i dati possono essere impressionanti. Se diamo, tuttavia, un inquadramento più corretto al sistema, risulta che i paesi forti sono comunque quelli forti industrialmente, non finanziariamente perché la finanza discende dalla potenza industriale.
DARIO GALLI. In questo momento solo gli Stati Uniti, per questioni militari e non finanziarie, dispongono di una quantità di ricchezza superiore a quella che producono: essendo l'unica vera potenza militare rimasta nel mondo, hanno una moneta sopravvalutata per una serie di questioni ovvie di cui è inutile parlare. Tutti gli altri paesi, ad esempio l'Europa, che sicuramente, nel mondo occidentale è la macroregione più equilibrata dal punto di vista economico, vive della ricchezza che produce. Non venitemi a dire che l'Europa vive bene perché sfrutta il terzo mondo! Certamente, vi sono delle opportunità che il terzo mondo sfrutterebbe come esattamente facciamo noi, se potesse farlo. Tuttavia, se ognuno di noi va a vedere ciò che la propria organizzazione civile ed economica riesce a fornire, si renderebbe conto che i paesi occidentali vivono in gran parte con ciò che producono. Ciò non vuol dire che non si debba prestare attenzione alle speculazioni finanziarie perché - giustamente - non si deve vivere di speculazione.
È giusto intervenire su questo fenomeno - non so se con la Tobin tax o con qualche altro strumento di legge - per ridurlo ai minimi termini. Questa è sicuramente una questione sicuramente condivisibile. Stiamo però attenti: non è così facile colpire certi fenomeni, come è stato detto in quest'Assemblea, perché vi è sempre qualcuno più furbo degli altri che riesce ad evitare i controlli e alla fine a pagare sono sempre gli stessi. Anche se si riuscisse a fare ciò, anche se si riuscisse a portare a casa una quantità di denaro sotto forma di tassazione sulla speculazione, siamo proprio sicuri che gli organismi oggi al mondo esistenti riuscirebbero con più soldi a risolvere i problemi? Può darsi di sì! Forse il problema non è solo questo. Anche oggi la potenza finanziaria di questi organismi non è certo piccola, eppure, se andiamo a vedere, i risultati sono comunque modesti.
Riteniamo che, pur condividendo la necessità di intervenire in una certa direzione e dell'importanza di certi strumenti, solo offrendo ad ogni popolo la possibilità di essere se stesso, di svilupparsi secondo le proprie capacità e tradizioni culturali, storiche ed economiche, effettivamente si arrivi ad una situazione nel mondo di
economia reale, di economia tale per cui ogni popolo possa vivere di quello che produce, andando ad aiutare solo i popoli veramente più sfortunati.
È chiaro che, se una tribù vive in un deserto dove non piove da cinquant'anni, c'è poco da fare. Bisogna solo prestare aiuto e basta! Però, la stragrande maggioranza dei popoli del mondo non si trova in questa situazione. Vi è chi, in qualche modo, è riuscito a trovare la propria strada e chi non c'è riuscito ma probabilmente, aiutato nella maniera giusta, potrebbe essere in grado di farlo.
Allora, se arrivassimo veramente in una situazione di questo tipo dove ogni popolo riesca ad essere - lo ripeto - se stesso, e vivere contento di quello che fa, senza inseguire modelli che non hanno nulla a che fare con la propria vita e che spesso appartengono a culture completamente diverse dalla loro, solo in questo modo eviteremo di avere un mondo di popolazioni affamate, frustrate che inseguono chimere e sogni che non possono raggiungere. Bisogna però essere più onesti ed avere il coraggio di chiamare e vedere le cose con il proprio nome.
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Benvenuto. Ne ha facoltà.
GIORGIO BENVENUTO. Signor Presidente, signor ministro, gli ultimi decenni hanno visto una gigantesca modifica dell'economia mondiale. L'irrompere sulla scena dell'economia finanziaria, sempre più sganciata dall'economia reale, ha portato a mobilitare risorse settantadue volte superiori al commercio mondiale di merci e di servizi. Oggi, nell'arco della giornata, vengono scambiati 1,8 trilioni di dollari sui mercati valutari. Attualmente la speculazione giornaliera sui cambi delle monete supera del 50 per cento il PIL dell'Italia nel 1998.
Questa trasformazione, lungi dal creare nuove opportunità e nuove occasioni di uguaglianza tra le diverse economie, sta determinando condizioni di instabilità negli equilibri sociali ed economici del mondo. Lo spostamento di ingenti flussi di capitale da un paese ad un altro, nell'affannosa ricerca degli investimenti e di successivi rapidi reinvestimenti, nella sola logica di conseguire i massimi risultati, è la causa principale dell'aumento della povertà e del degrado ambientale. In molti paesi del pianeta si deve assistere, a seguito di questi processi, privi di ogni forma di controllo e di regola, alla crisi degli apparati produttivi, a disoccupazione, a fenomeni di recessione, portatori spesso di crisi politiche e sociali fortemente destabilizzanti.
Perché è avvenuto tutto ciò? Perché è diminuita la capacità di controllo in molti paesi occidentali sui capitali, così come si sono attenuati ogni controllo ed ogni limitazione dell'attività del sistema bancario; perché gli organismi internazionali, quali ad esempio il Fondo monetario internazionale e la Banca mondiale, si sono dimostrati impotenti a svolgere delle politiche capaci di introdurre delle nuove regole. Le stesse banche centrali si sono trovate impotenti ad intervenire data la evidente sproporzione tra le proprie riserve finanziarie e l'entità dei flussi finanziari che spesso sono all'origine delle crisi economiche.
Insomma, uno scenario, ove una male intesa e incontrollata liberalizzazione dei cambi trasforma il mercato in una giungla senza regole e senza principi. Ecco perché è necessario che, a livello internazionale e non solo a livello nazionale, si individuino regole proposte che consentano di governare la necessaria trasformazione dell'economia mondiale, avviata ad una generale globalizzazione!
Particolarmente interessante, a questo riguardo, è la proposta di Tobin, premio Nobel per l'economia nel 1981. Tobin è stato un consigliere economico di Kennedy, tenace avversario delle teorie monetaristiche e ha sempre accompagnato le sue ricerche teoriche con il giudizio sulla gestione della politica economica, dando capitale importanza alla lotta contro la povertà ed alla difesa dei gruppi più svantaggiati.
Molti dicono che Tobin non sia più di moda o che si sia pentito. Non è così:
Tobin non è certamente un bolscevico. Tobin ha pensato che possa essere necessario - i fatti oggi lo dimostrano - tassare gli speculatori per riportare stabilità nei mercati finanziari. Tassare tutte le operazioni sui cambi con un'aliquota sufficientemente elevata, affinché l'imposizione produca l'effetto aspettato, ma anche sufficientemente bassa per non seminare panico e per scoraggiare l'evasione. Se su ogni operazione si imponesse, ad esempio, una tassa con un'aliquota bassa, per esempio dello 0,1 per cento, ovvero dell'uno per mille, la tassazione sarebbe altissima per le attività di chi compie centinaia o migliaia di operazioni in un anno, mentre gli investimenti produttivi e le transazioni commerciali, che comportano pochissime transazioni finanziarie, non sarebbero affatto ostacolate, dal momento che la tassazione resterebbe comunque molto bassa.
Con la Tobin tax si otterrebbe innanzitutto la stabilizzazione dei cambi, si opererebbe un'inversione delle politiche governative verso il potere regolatore degli Stati in economia; infine la tassa farebbe ottenere ingenti fondi, almeno 160 miliardi di dollari, che potrebbero essere destinati a progetti di sviluppo nei paesi poveri e finanziare le politiche sull'occupazione nei paesi più ricchi.
Chiediamo al Governo, perché siamo convinti che questi problemi non possano essere risolti a livello nazionale, ma debbano trovare una loro soluzione nell'ambito di una politica di concertazione internazionale, ovvero di una politica che riaffermi il dato della politica sulle potenze economiche e finanziarie, chiediamo al Governo e al ministro Ruggiero, sulla base di una continuità con l'azione dei precedenti Governi della XIII legislatura, di rafforzare le iniziative a livello europeo ed internazionale per introdurre la Tobin tax o soluzioni analoghe al fine di regolare le transazioni finanziarie. Chiediamo inoltre di continuare a attuare quelle misure di trasparenza e di dissuasione contro la criminalità finanziaria e di continuare in quell'azione di contrasto dell'utilizzo a fini elusivi dei cosiddetti paradisi fiscali. (Applausi dei deputati dei gruppi dei Democratici di Sinistra-L'Ulivo e della Margherita, DL-L'Ulivo).
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Lupi. Ne ha facoltà.
MAURIZIO ENZO LUPI. Signor Presidente, signori ministri, onorevoli colleghi, gli interventi dell'onorevole Falsitta e dell'onorevole Rivolta, i quali sono entrati maggiormente nel dettaglio e nel merito delle mozioni presentate, mi permettono di svolgere alcune riflessioni con questo intervento conclusivo da parte del nostro gruppo a proposito delle motivazioni più prettamente politiche e culturali che emergono attorno ai temi presentati nella discussione di oggi.
Il Governo ha fatto bene, ovviamente, a cercare il dialogo, a garantire la libertà di manifestazione, ma, contemporaneamente - come è stato più volte ribadito in quest'aula - ad usare tolleranza zero con chi pone la violenza a servizio delle proprie idee. Vi sono però alcune riflessioni che emergono sia dalle mozioni presentate che dai contenuti ascoltati in questo dibattito, che richiedono una riflessione ben più ampia e più generale di tipo politico e culturale.
Innanzitutto, vi è un passaggio della mozione presentata dal collega Boato e da altri che va assolutamente confutato e che è pericoloso, se non si entra nel merito preciso dei contenuti di questo passaggio e se non si dà una risposta chiara e non equivoca. Ad un certo punto, nella mozione si legge infatti: «si è diffuso un consistente allarmismo in relazione ad eventuali azioni dimostrative violente ed incontrollate o altri rischi per l'ordine pubblico». Il mio pensiero va ai fatti recenti di Birmingham del maggio 1998, di Seattle nel novembre 1999, di Göteborg nel giugno scorso.
Ancora di più la conclusione di un articolo di Giampaolo Pansa, sul settimanale l'Espresso del 28 giugno 2001, dice quanto poco esatto sia questo passaggio contenuto nella mozione dell'onorevole Boato e quanto invece sia necessario stare
molto attenti a quanto sta accadendo. Dice Pansa: « È una storia che conosciamo bene. L'abbiamo già vista negli anni Settanta - riferendosi al movimento di Seattle, al movimento antiglobalizzazione - l'epoca della sbornia estremistica della sinistra, per non parlare di quella della destra. (...) Diciamolo senza ipocrisie: lo Stato imperialista delle multinazionali, il nemico che allora si doveva abbattere, era il gemello dell'avversario di oggi, l'impero della globalizzazione. Ma in quegli anni, a morire assassinati dalle P38 o dalle bombe sui treni e in stazione, vittime di opposti fanatismi, furono italiani qualunque, incolpevoli, per bene. Le conclusioni tiratele voi. E attenti a chi scherza col fuoco. A Göteborg come a Genova».
Mi sembra che il commento di Pansa non sia - ovviamente - un commento di parte (o almeno di una certa parte) e che l'Espresso sia un settimanale che sicuramente non si schiera con il Governo. Allora la domanda che deve nascere con forza e attenzione rispetto a quanto sta sviluppandosi attorno al tema della globalizzazione, ai movimenti, al popolo di Seattle, ai movimenti antiglobalizzazione è: qual è il contenuto ideologico e culturale che viene proposto, dietro che cosa ci si nasconde e quali motivazioni si possono confutare rispetto ad una proposta politica e culturale ben precisa?
Quello a cui si sta assistendo - a mio modesto parere - è il ritorno di una sorta di rischio del dogmatismo del pensiero unico, una sorta di recupero di un pensiero che sa di un filone tardomarxista, dove la forte componente ideologica marxista ha la prevalenza. Torniamo ad assistere ad antinomie e a dicotomie tra termini: sviluppo, capitalismo, liberismo contrapposti ad assistenza e povertà; l'odio ideologico verso l'occidente capitalistico e il libero mercato; lo sviluppo e la tecnologia che si oppongono invece alla possibilità di sviluppo dei paesi del terzo mondo; l'americanizzazione del mondo; un generico terzomondismo. Da un lato, se si leggono attentamente i documenti pubblicati in questi giorni, se si ascolta attentamente il dibattito, si vedrà che questi sono temi all'attenzione dei commentatori e alla nostra; dall'altro, vi è un ecologismo che io definisco «radicale» che sta avanzando.
Da cattolico - questo è un paese strano, si cita sempre quello che ognuno di noi pensa, sono citati i documenti dei vescovi di Genova, la posizione di qualche cardinale eccetera -, da cattolico dico: attenzione a ciò che può esser un ecologisno radicale, attenzione ad una visione panteistica connessa alla difesa dell'ambiente; l'ambiente è sempre in funzione dell'uomo e mai viceversa e, se rendiamo ideologica questa funzione, possiamo creare dei movimenti ideologici che poi diventano mostri nella storia e nella società.
D'altra parte, nel dibattito a cui si assiste in questi mesi, sia a livello nazionale sia internazionale, vengono comprese all'interno di questo fenomeno anche posizioni diverse, accomunate tutte dal nome della antiglobalizzazione, della difesa dell'ambiente, della lotta alle povertà dietro cui, però, si nascondono, per esempio, i difensori del protezionismo, il movimento anarchico o coloro che sono ostili al libero scambio commerciale nei paesi.
In sintesi, credo che ciò si debba definire la punta estrema di un movimento di povertà culturale che vede il rischio di una spinta alla violenza proprio come viene definita de popolo di Seattle. Allora che fare? Qual è la questione di fondo, come rispondere con forza, non solo in termini di azione politica economica, ma anche di politica culturale, di proposta culturale forte?
Cito alcuni dati da cui si può partire, perché sicuramente questo dibattito nasconde problemi seri che interrogano la coscienza di ognuno di noi e i Governi di tutti i paesi. Nel 1960, nei paesi del nord si viveva in media 19 anni di lungo rispetto al sud del mondo. Nel 1997 è cresciuta la durata della vita complessivamente su tutto il pianeta ovviamente in entrambi i poli (quello del nord e del sud del mondo) e la durata media della vita si è ridotta di 13 anni. Questo potrebbe voler dire sicuramente che uno sviluppo nel nostro pianeta
si sia avuto ed è stata data una risposta, seppur ancora non equilibrata, ad uno dei problemi più importanti.
Certamente rimane la questione di fondo: più di 400 milioni di persone hanno una speranza di vita che non supera i quarant'anni. Contemporaneamente, nel 1990 - è stato più volte citato questo dato e ritengo che questo dato debba interrogare assolutamente le coscienze - un miliardo e 300 milioni di persone, su una popolazione di 5 miliardi e 300 milioni di persone, vive con un dollaro al giorno. Nel 1998 si è scesi a un miliardo e 200 milioni di persone su una popolazione di 5 miliardi e 800 milioni. Ciò, da una parte vuol dire che è statisticamente ed economicamente dimostrato che crescono più velocemente e più rapidamente quei paesi inseriti in uno sviluppo globale rispetto a quei paesi che vivono in un sistema di protezionismo. Questo è un dato oggettivo, un dato di fatto. Tutti gli economisti lo riconoscono. Quindi la globalizzazione del mondo non è, se vista secondo un certo accento e una certa accezione, una negatività ma può essere una grande risorsa per tutti i paesi del nostro pianeta. Certamente rimane la domanda di fondo che interroga, comunque, le nostre coscienze. La nostra coscienza non può sentirsi a posto, laddove ancora un miliardo e 200 milioni di poveri si trovano sotto il livello della sussistenza. Questa è un'offesa alla nostra coscienza e a tutta l'umanità.
Non a caso il Papa Giovanni Paolo II (cito solo due interventi fatti in tutti questi anni) nella Centesimus annus auspica una concertazione mondiale per lo sviluppo che implica anche il sacrificio delle posizioni di rendita e di potere, di cui le economie più sviluppate si avvantaggiano. Credo non sia un caso che al tema del G8 siano state messe al centro della discussione tali questioni. Oppure, quando il 27 aprile di quest'anno, davanti alla Pontificia Accademia di Scienze Sociali, sua Santità Giovanni Paolo II dice «La Chiesa continuerà ad operare con tutte le persone di buona volontà per garantire che in questo processo vinca l'umanità tutta» e non solo una élite prospera che si afferma oltre e sopra tutti.
Allora, qual è il nocciolo della questione di fondo, culturale da affermare e su cui lavorare? Il nocciolo della questione non è quello di opporsi alla globalizzazione ma di attuare la globalizzazione nel pieno rispetto della dignità umana, operando affinché i protagonisti della modernizzazione non siano solo alcuni soggetti ma tutti i diretti interessati attraverso gli strumenti che la capacità dei Governi si può dare. Riprendiamo la grande funzione degli organismi internazionali troppo volte svuotata e non a caso svuotata.
Quindi, che cosa dobbiamo fare? Dobbiamo riuscire a combinare i fattori di sviluppo con la solidarietà. Non è il tanto demonizzato sviluppo che crea fame o inquinamento, ma è il sottosviluppo che crea l'inquinamento, la mancanza di difesa dell'ambiente e la fame. La ricchezza può essere un grande strumento, ma per essere distribuita deve essere prima di tutto prodotta. Questo è un altro principio fondamentale: non si può distribuire la ricchezza, non si può essere attenti al bisogno dell'altro, sia esso vicino a noi piuttosto che nel più lontano paese del mondo, se la ricchezza non la si genera, cioè se non si creano le condizioni affinché la ricchezza possa essere prodotta nel nostro sistema.
Che fare, allora? Quali sono le condizioni che possono essere recuperate e riprese da un'azione di Governo, da una parte e, dall'altra, da un'azione di tutti i movimenti presenti all'interno della società e da quella personale di ognuno di noi? Anche qui l'insegnamento della Chiesa può venire in aiuto, proprio come metodo per ricercare una modalità di espressione e di ripensamento delle proprie responsabilità di governo. L'insegnamento è quello di condividere una situazione concreta, anche se piccola: la condivisione dei bisogni vince sempre sulla mancanza di responsabilità, perché è la mancanza di responsabilità il figlio più grande, il prodotto più grande della povertà.
Da questo punto di vista, le associazioni, laiche o cattoliche, sicuramente danno una testimonianza, indicano un metodo di presenza al di là dei grandi problemi e sono attente ai bisogni particolari; peraltro, esse si propongono, poi, come metodo, in alcuni grandi paesi, per affrontare anche i problemi più grandi e per trovare a questi una soluzione: penso alla presenza del volontariato delle ONG nel Kosovo, a Salvador da Bahia, a Rio de Janeiro o in tante altre parti del mondo.
Guardo, invece, con preoccupazione al fatto che in questi anni, contemporaneamente alla crescita di questa coscienza, sia diminuito, invece, da parte dei governi che ci hanno preceduto, l'impegno volto a valorizzare questo grande settore del volontariato e delle ONG. Quali sono le risorse che sono state messe a disposizione di questo settore negli ultimi anni? Come mai l'Italia, che è uno dei paesi più attenti a nazioni come l'Africa, non solo dal punto di vista degli interventi di volontariato, ma anche dal punto di vista dello sviluppo della presenza imprenditoriale delle nostre imprese in tali paesi - penso alle grandi opere infrastrutturali che sono state realizzate, le quali rappresentavano una risposta concreta alla possibilità di sviluppare un certo tipo di paese -, ha fatto cessare la sua presenza? Di sicuro c'è una risposta chiara e precisa, ma questo è quello che è avvenuto. Come mai l'Africa oggi è diventata sempre più una terra di nessuno?
Le tragedie del Ruanda e dell'Uganda diventano domande che toccano, quando i telegiornali ne parlano, la coscienza di ognuno di noi, ma poi non diventano modalità efficace e concreta di risposta al bisogno di quelle nazioni.
Credo di poter concludere permettendomi di citare il professor Quario Curzi, un'economista importante, e in particolare un suo articolo recentemente apparso su il Sole 24 Ore. Credo che questa sia la linea sulla quale questo Governo vuole muoversi - le mozioni vanno in questa direzione e l'intervento del Ministro degli esteri va sicuramente in questa direzione -, credo che la soluzione possa certamente essere quella di una combinazione di ideali e di programmi, di solidarietà e di sussidiarietà, di istituzioni e di mercati. Questa è la sfida per lo sviluppo globale del XXI secolo. Concludo citando anche qui un'opinionista sicuramente non di parte - quindi concludo come ho iniziato -, Pansa, la cui grande preoccupazione deve essere un monito per tutti noi perché gli anni '70 sono stati anni che ognuno di noi ha vissuto, che ognuno di noi ha vissuto sulla propria pelle, quindi, non bisogna mai lasciar perdere queste domande, questi interrogativi che emergono dalla storia della società. D'altra parte, mi auguro, invece, che non sia vero quanto sul New York Times Thomas Friedman ha scritto commentando del popolo di Seattle. Thomas Friedman descriveva il popolo di Seattle come la coalizione che vuole mantenere poveri più poveri. Io mi auguro che questo non sia vero e che, invece, quanto noi stiamo qui facendo nella discussione in Parlamento e nell'azione dei Governi sia, invece, perché i poveri non rimangano poveri ma diventino veramente, abbiano l'occasione, la grande occasione di poter seguire uno sviluppo per tutti.
PRESIDENTE. È iscritta a parlare l'onorevole Pistone. Ne ha facoltà.
GABRIELLA PISTONE. Signor Presidente, signori ministri del Governo, parlerò del problema della Tobin tax, ma esso credo che attenga ed investa anche le altre mozioni, per esempio quella sulla globalizzazione; i temi sono strettamente attinenti. Credo anche che, probabilmente, non ci siano delle ricette precostituite, ma che sia nostro dovere prestare attenzione a questa grande problematica, probabilmente la problematica del millennio.
Lo sviluppo recente della finanza internazionale ha conosciuto, grazie all'innovazione tecnologica che ha consentito l'interazione in tempo reale attraverso le reti telematiche e che, sostanzialmente, ha fatto del mercato finanziario l'unico mercato veramente globale, una straordinaria diffusione, una crescita quantitativa di strumenti e prodotti sempre più sofisticati.
Le nuove forme di speculazione sui mercati globali amplificano notevolmente i flussi di capitale, che tendono ad aggirare anche i vincoli delle regolamentazioni nazionali, favorendo movimenti volatili ad alto rischio. Attraverso operazioni finanziarie speculative, specie sui livelli dei cambi e dei saggi di interesse, il mercato finanziario consente agli operatori di conseguire elevati profitti, anche se si accresce fortemente l'instabilità dei cambi e dei tassi di interesse, con gli immensi rischi che questa instabilità rappresenta per una economia mondiale interdipendente ed istantanea nelle sue reazioni.
Il carattere minaccioso con cui la globalizzazione finanziaria o speculativa si presenta risiede quindi in buona misura proprio nel rischio che operazioni su titoli, su valute, su saggi d'interesse seguano, almeno in determinate circostanze, logiche autonome di carattere speculativo, difficilmente governabili anche da parte delle autorità di controllo a livello internazionale. Basti pensare ai flussi di speculazione valutaria pronti a muoversi non appena si colgano segni di debolezza da parte dei Governi nazionali.
Le dinamiche speculative appaiono quindi governate da un insieme frammentato di soggetti capaci di esercitare una pressione consistente anche nei confronti delle stesse istituzioni politiche nazionali. In questo modo, la dimensione finanziario-speculativa ha finito, anche sotto l'influenza di fattori politico-ideologici, per essere spesso interpretata come una minaccia di esplosione, in grado di mettere a repentaglio lo sviluppo economico e sociale di alcuni paesi. Si pensi al disastro delle casse di risparmio americane, al salvataggio del peso messicano, alle crisi finanziarie del sud-est asiatico, russo, eccetera.
Gli effetti di un consistente movimento speculativo possono risultare negativi per l'assetto economico-produttivo, specie nella misura in cui la ridondante disponibilità di capitali può dare luogo a sviluppi economici assai discutibili e rischiosi sotto il profilo dell'efficienza produttiva. Questo è quanto si è verificato nel sud-est asiatico, dove il coinvolgimento delle banche dei paesi industrializzati, attraverso l'impiego di assai rilevanti risorse finanziarie a titolo di prestito o anche, in qualche caso, di equity ha finito per indebolire e non per rafforzare la struttura produttiva, favorendo andamenti che via via si sono dimostrati non in grado di assicurare un equilibrato sviluppo economico.
In definitiva, mi sembra non del tutto ingiustificata, anche se si devono evitare posizioni estreme, l'immagine di una finanza internazionale non in grado di rinvenire al suo interno alcune efficaci forme di autoregolazione tali da contenere pericoli di squilibri per gli assetti socio-economici dell'economia globale. Occorre quindi sottolineare che è sempre più viva la preoccupazione di mettere a punto iniziative che siano in grado di attuare forme di regolazione dei movimenti finanziari. È evidente che, data la dimensione e la portata dei flussi dei capitali in gioco su scala globale, sia necessario assolutamente avviare processi tesi a ricercare forme nuove e più efficaci di regolazione dei mercati finanziari, partendo anche da ogni singolo paese, fino ad estenderli ovviamente ad una rete e ad una maglia più allargata.
Di fronte ai gravi inconvenienti che la globalizzazione finanziario-speculativa è in grado di produrre, sembra non esista una reale alternativa alla regolazione delle operazioni di trasferimento internazionale dei capitali. Una prima linea di intervento concerne le iniziative attuabili a livello internazionale. È auspicabile che si avviino processi di controllo dei sistemi finanziari nazionali anche attraverso interventi di sostegno del Fondo Monetario Internazionale a fronte di provvedimenti dei Governi locali volti a correggere fenomeni di instabilità non accettabili sotto il profilo economico e sociale. In questa prospettiva penso sia corretto aprire, in sede politica e scientifica, un dibattito, che sicuramente sarà straordinariamente complesso, in merito alla possibilità di costituire autorità di governo sovranazionali dei movimenti finanziari,
capaci cioè di definire regole di condotta e strumenti di regolamentazione diffusi a livello globale.
Con la mozione riguardante la Tobin tax, presentiamo al Governo la richiesta di impegnarsi a prendere un'iniziativa volta all'introduzione di una imposta sulle transazioni finanziarie. Sostanzialmente consideriamo la Tobin tax - che prende il nome dal premio Nobel Tobin e il cui fine è quello di tassare le transazioni monetarie ad un tasso molto basso dallo 0,1 allo 0,25 per cento - come un tentativo di infilare un granello di sabbia nei meccanismi della speculazione senza penalizzare le attività dell'economia reale: importazioni, esportazioni, investimenti. Fondamentalmente si tratta di tassare le rendite finanziarie per combattere l'entrata di capitali puramente speculativi i quali, quando vengono brutalmente ritirati, dalla sera alla mattina, provocano il crollo del tasso di cambio.
Se vogliamo attuare una politica seria contro la speculazione, è indispensabile cercare di operare, innanzitutto, la soppressione dei flussi finanziari provenienti da, o diretti verso, i paradisi fiscali. La Tobin tax, in una situazione normale, con una tassazione molto bassa, dello 0,1 per cento su ogni transazione attuata sui mercati dei cambi permetterebbe di incassare, ogni anno, moltissimi milioni. Voglio dire una cifra, ma non so neanche se sia attendibile: 228 milioni di dollari (tale cifra è calcolata sulla base di 1507 milioni di dollari che, secondo i calcoli della Banca dei regolamenti internazionali - il dato si riferisce, peraltro, al 1998 -, rappresenterebbe il volume quotidiano di questo tipo di transazioni). I rapporti e anche la nostra conoscenza diretta ci dicono che un miliardo e 700 milioni di esseri umani vive con meno di un dollaro al giorno!
Joseph Stiglitz, un economista che è stato anche vicepresidente della Banca mondiale, ha pronunciato una dura requisitoria contro il Fondo monetario internazionale e le sue modalità di gestione delle crisi finanziarie degli ultimi anni, in particolare su quella asiatica. Il problema è distinguere tra flussi di capitale a breve termine e investimenti diretti all'estero a medio e lungo termine: i primi disturbano il quadro macroeconomico, creano instabilità e producono effetti destabilizzanti non solo sul sistema creditizio ma anche sulle imprese e sul lavoro; i secondi stimolano la crescita economica, fanno affluire risorse finanziarie e know-how, conoscenze e benessere. Si dovrebbe attuare, quindi, un diverso trattamento delle due categorie di flussi finanziari: incoraggiare i secondi, quelli a medio e lungo termine e stabilizzare i primi, quelli a breve termine e dunque non arrestare, bensì regolarizzare i flussi. Questa regola non so se sia la regola perfetta ma, come appunto diceva Stiglitz, l'importante è che sia una regola efficace.
Si tratta di un dibattito molto importante che non si è aperto adesso.
Sono ormai molti anni che associazioni, economisti mondiali, si cimentano nella ricerca della giusta strada da imboccare. Ritengo questo sia un tema, un problema, che deve preoccupare tutti quanti, nell'ambito di una globalizzazione che va considerata come un fatto assolutamente positivo se vista sotto il profilo - diciamo - dell'umanità, delle persone, del mondo, dell'incontro tra esseri umani, e che però va giudicata in termini assolutamente negativi quando essa significa sfruttamento di chi ha rispetto a chi non ha.
Questo è un punto fondamentale che dovrebbe stare a cuore a tutti e che penso costituisca il tema centrale non di oggi, non di domani, ma dei prossimi decenni. Esso rappresenta forse la nuova sfida, la nuova rivoluzione industriale, una rivoluzione alla quale, probabilmente, nessuno di noi sa dare ancora una risposta compiuta. Penso, anzi, che ci vorrà molto tempo per cercare di darla.
PRESIDENTE. Onorevole Pistone, la invito a concludere.
GABRIELLA PISTONE. In ogni caso ritengo sia giusto, doveroso domandarsi, da parte nostra, quali siano i mezzi più idonei - e la Tobin tax potrebbe essere
uno di questi - per cercare di evidenziare un problema e dare ad esso una risposta efficace.
PRESIDENTE. Constato l'assenza del deputato Luciano Dussin, iscritto a parlare: si intende che vi abbia rinunziato.
È iscritto a parlare l'onorevole Santagata. Ne ha facoltà.
GIULIO SANTAGATA. Signor Presidente, tra i tanti meriti ascrivibili alle associazioni che si accingono a contestare il G8 vi è indubbiamente quello di aver riportato al centro dell'attenzione di tutti il tema della povertà, un tema che potremmo declinare in vari modi e che rimanda, comunque, alla distribuzione iniqua del reddito tra paesi ed all'interno di paesi, a processi di esclusione sociale di interi gruppi e di intere popolazioni, al sorgere di nuove disuguaglianze nell'accesso alla tecnologia.
È indubbio che queste diverse povertà si tengono l'un l'altra e rimandano all'esigenza di una revisione profonda di un modello di sviluppo che sembra incapace di generare la propria sostenibilità nel tempo. Emerge tuttavia, all'interno di queste diverse povertà, in tutta la sua gravità un'emergenza non più rinviabile: gli oltre 600 milioni di uomini e donne che vivono nei paesi cosiddetti LDC, cioè i paesi con un PIL pro capite inferiore ai 900 dollari. Se è vero che i processi di globalizzazione dell'economia ed il progressivo sviluppo degli scambi commerciali mondiali hanno contribuito a far uscire dalla povertà assoluta un consistente nucleo di arie che si sono avviate verso processi di sviluppo, certo non privi di problemi sociali ed ambientali ma comunque sufficienti ad innescare un percorso irreversibile di affrancamento dalla povertà, è altrettanto vero che questi processi non hanno minimamente toccato il 10 per 100 della popolazione mondiale. Nei 49 LDC si misura, evidente, il fallimento di una governance mondiale insufficiente e di strumenti incapaci di immaginare modelli e percorsi flessibili e rispettosi delle diversità.
Noi europei stiamo sperimentando un modello di governance che si basa proprio sul rispetto e sulla valorizzazione delle diversità. L'Unione europea è sicuramente un esempio di successo di come produrre sviluppo a partire dalla diversità e di come sia possibile includere via via nuove nazioni del modello europeo. La sfida dell'allargamento è essenzialmente questo. L'Europa, inoltre, sta sperimentando tutta una gamma di strumenti tesi a diffondere sviluppo, salvaguardando le specificità dei singoli e, al contempo, promuovendo un modello di democrazia economica e sociale basato sui diritti fondamentali (ricordo i processi di cooperazione con i paesi balcanici e con la sponda sud del mediterraneo).
Ci chiediamo allora se non sia giunto il tempo che l'Europa si metta in testa al corteo e si proponga di prendere la leadership nella difficile battaglia contro la povertà. L'Unione europea possiede le condizioni politico-culturali per farlo e crediamo possa fare affidamento su alcune leve decisive. Ne citerò solamente due.
Anzitutto l'Unione europea può, anche in forza del mandato negoziale ricevuto dai singoli Stati membri, aprire unilateralmente un percorso di totale liberalizzazione delle importazioni dai LDC. Questi paesi costituiscono - come è già stato detto - il 10 per cento della popolazione, lo 0,6 per cento del reddito e meno dello 0,5 per cento delle esportazioni mondiali. Per la nostra economia aprire totalmente a loro il nostro mercato ha un impatto negativo pressoché nullo, mentre potrebbe significare molto per avviare in questi paesi un processo di sviluppo e per attrarre investimenti e internazionali.
La Commissione europea ha già predisposto un provvedimento in questo senso che attende una sollecita approvazione da parte del Parlamento europeo: penso che il nostro paese potrebbe adoperarsi per accelerare questo processo.
Certo non basta il motore del commercio per attivare la ricchezza. Dobbiamo offrire a questi paesi assistenza e finanziamenti, evitando tuttavia che questi si traducano in un'arma di ricatto politico o - peggio - nel principale mezzo di sostentamento di dittature corrotte.
Ecco, allora, ancora una volta intervenire il modello di cooperazione europeo. Pensiamo ad un fondo che finanzi progetti concordati e che letteralmente compri il rispetto di alcuni diritti fondamentali quali la salute, l'educazione, i diritti associativi, il lavoro minorile da parte dei paesi in cui si interviene.
La creazione di questo fondo può essere anche una grande occasione di avvicinamento delle istituzioni europee ai cittadini.
A fronte di un obiettivo che gode senza dubbio dell'appoggio della stragrande maggioranza degli europei si può, a mio avviso, ipotizzare che i cittadini siano chiamati a partecipare direttamente al finanziamento. In altri termini, si può pensare di istituire una vera e propria tassa europea contro la povertà. Una imposta sul reddito addizionale e finalizzata, con aliquote basse ma fortemente progressive, potrebbe contemporaneamente assolvere a diversi compiti. Anzitutto consentirebbe di dotare la Commissione europea di uno strumento finanziario assolutamente rilevante rispetto alla dimensione economica dei LDC. In secondo luogo, accrescerebbe enormemente la trasparenza e la ricerca di efficacia nell'uso di un fondo direttamente generato da una imposta sul reddito degli europei. Da ultimo, costituirebbe un importante precedente nel percorso di creazione di una Europa non solo delle nazioni, ma anche dei popoli.
In conclusione, chiedo che il Governo italiano si adoperi in sede di G8 e nei confronti della Commissione europea, del Consiglio e del Parlamento perché questo tipo di proposta venga messo all'ordine del giorno (Applausi dei deputati del gruppo della Margherita, DL-l'Ulivo).
PRESIDENTE. Constato l'assenza dell'onorevole Bornacin, iscritto a parlare: si intende che vi abbia rinunziato.
È iscritto a parlare l'onorevole Burtone. Ne ha facoltà.
GIOVANNI MARIO SALVINO BURTONE. Signor Presidente, onorevoli ministri, la maggioranza dei mezzi di comunicazione ha dato un'immagine parziale, spesso negativa, del G8. Il G8 è stato identificato come un luogo in cui potranno avvenire contestazioni violente. La discussione, quindi, è stata maggiormente incentrata sui temi della sicurezza e sui limiti della contestazione, seppure si sia mantenuto anche il dibattito sul diritto di manifestazione e di dissenso.
Pur ribadendo, per la mia parte politica, un «no» agli eccessi della violenza e pur affermando chiaramente che l'impegno del Governo deve essere quello di garantire la sicurezza nella città e, nel contempo, difendere i diritti democratici, credo che questo dibattito debba superare - così come è avvenuto in tanti interventi - l'approccio superficiale e a volte epidermico che si è avuto e debba evidenziare il significato istituzionale profondo dell'incontro e gli obiettivi che si devono raggiungere. Tutto ciò per avere anche un ulteriore impegno, per avere la capacità di ascoltare, riprendere e sottolineare le motivazioni dei tanti contestatori, di coloro i quali, sbagliando, useranno violenza, ma anche per dare voce alla gente comune, a coloro i quali discutono e si interrogano su questo appuntamento.
Si deve dare ascolto alle tante associazioni di volontariato, alle associazioni cattoliche che in questo momento hanno un confronto aperto sugli obiettivi importanti che l'appuntamento del G8 deve centrare.
È stata una decisione giusta quella di unificare la discussione sulle mozioni. Infatti, l'agenda dei lavori del G8 non potrà non affrontare, con i temi della globalizzazione, anche le questioni ambientali, già previste nel protocollo di Kyoto, ed insieme anche le regole di controllo per le transazioni finanziarie a breve termine che, sappiamo tutti, spesso hanno un carattere speculativo e negativo per le economie più deboli.
Detto questo, aggiungo ancora in premessa che, in verità, c'è chi contesta alla base il G8. Vi è una motivazione di fondo: si dice che i problemi del sottosviluppo non si risolvono parlando solo tra i rappresentanti del primo mondo, quasi sempre
responsabili delle ingiustizie che si commettono nelle aree più deboli, ma, ragionevolmente, là dove si possono confrontare tutti paesi. Non trovo tale considerazione totalmente sbagliata e ingiustificata, ma non è questo il momento per approfondire l'argomento.
Sappiamo tutti, per la pressione che c'è dell'opinione pubblica, che il vertice dei Capi di Stato e di Governo dei paesi membri del G8 può rappresentare un'occasione positiva. Si possono cogliere risultati concreti e, comunque, si può orientare verso una prima finalizzazione sociale e solidale della globalizzazione. Proprio la globalizzazione è il tema centrale. Escludo i giudizi degli estremisti: di coloro i quali danno solo apprezzamenti positivi o di coloro i quali denigrano questo fenomeno ormai attuale. Condivido, invece, l'opinione di tanti politici, uomini della cultura e dell'economia, che dicono che la globalizzazione ha determinato una dualità di effetti: un grande avanzamento tecnologico, l'apertura di mercati, la libera circolazione di merci, persone, capitali e servizi.
Se, però, questi sono gli aspetti positivi, bisogna rimarcare anche i tanti negativi. Con la globalizzazione vi è stato un accentuato ruolo centrale dell'economia che è stata guidata da un principio: guardare ad una crescita illimitata, gestita da minoranze sempre più ridotte, sempre più potenti e sempre meno controllabili. Questa condizione ha portato conseguenze molto gravi. Vi è stato un allargamento delle diseguaglianze ed un deprezzamento dei diritti dei lavoratori, con uno sviluppo notevole di lavoro nero, di lavoro sottopagato e di lavoro minorile, soprattutto nelle aree più deboli. Tutto ciò è stato accompagnato anche da una ridotta tutela del bene ambientale. Innanzitutto il profitto.
Di fronte a tutto ciò non è ammissibile la passività politica e dare, quindi, un diritto automatico a procedere della globalizzazione. Non è possibile neppure demonizzare il fenomeno con una nuova stagione di neoluddismo. Non è neanche condivisibile la velleità autarchica di razionalizzare le economie e di imporre un dirigismo statale. In fondo si può dire che non è possibile un ritorno al passato, anche perché non bisogna dimenticare che nel passato ci sono stati fenomeni di alienazione, di sfruttamento, di colonialismo e di barriere doganali. Bisogna, invece, tentare una risposta ancora più moderna che guardi al diritto ed alla politica. Riguardo al diritto esprimo brevemente tre linee.
La prima: bisogna apprestare una rete di difese giuridiche internazionali dei lavoratori, una nuova stagione di diritti internazionali che guardino alla sicurezza, che blocchino il lavoro minorile e che puntino sui controlli e, quindi, sulla penalizzazione degli Stati inadempienti.
La seconda linea è quella delle clausole sociali nel commercio internazionale ed, infine, un codice di comportamento per le imprese multinazionali che metta al centro la tutela dell'ambiente.
Anche per quanto riguarda la politica va tentato un processo democratico, che sappiamo difficile ma necessario, degli organismi internazionali (il Fondo monetario internazionale, la Banca mondiale, l'Organizzazione mondiale del commercio), così come va ribadito il ruolo dei Parlamenti democratici. Le istituzioni economiche sovranazionali non possono spingersi sino all'esproprio totale delle politiche parlamentari: in tal senso - è stato anche riferito durante il dibattito - un ruolo sempre più significativo stanno assumendo le istituzioni parlamentari sovranazionali e, a nostro avviso, in maniera estremamente positiva, il Parlamento europeo.
Si tratta di istituzioni che agiscono su un'area dalle dimensioni significative per estensioni geografiche, per volume finanziario, per la platea di cittadini e sono strumenti che hanno la capacità di ponderare gli sviluppi economici ed, eventualmente, di portare avanti con efficacia interventi correttivi.
Infine, parlando delle linee politiche da portare avanti, va sostenuto un potenziamento dei poteri locali: pensare globale ed agire locale non può essere uno slogan.
Sappiamo che oggi il cittadino ha come riferimento le nostre città, in cui si deve dispiegare la sfera dei diritti e dei doveri delle nostre comunità: se nelle città si realizzano servizi essenziali, se le politiche urbanistiche sono a misura d'uomo, se si tenta una politica di tutela dell'ambiente, è possibile portare avanti un intervento di sviluppo sostenibile.
Per tornare concretamente al G8, onorevoli colleghi, condivido la mozione che ha visto come firmatari numerosi parlamentari dell'Ulivo, che impegna il Governo a perseguire alcuni obiettivi prioritari. Il primo: concludere un nuovo accordo sul debito, in modo che si possa giungere al più presto alla cancellazione integrale dei crediti della Banca mondiale e del Fondo monetario internazionale nei confronti dei paesi più poveri.
Il secondo: elaborare un sistema di tassazione e regole per controllare le transazioni finanziarie, che tutti nel dibattito abbiamo considerato spesso di carattere speculativo e, comunque, negative nei confronti delle economie dei paesi più deboli.
Infine, riconfermare gli impegni presi nel protocollo di Kyoto e permettere che l'entrata in vigore dello stesso si abbia entro il vertice dell'ONU del 2002 (Applausi dei deputati del gruppo della Margherita, DL-l'Ulivo).
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Marcora e, nel dargli la parola, vorrei dire che ciò mi fa piacere perché qui, in tanti, ricordiamo suo padre, che è stato un grande protagonista nella politica e nel paese. Ne ha facoltà.
LUCA MARCORA. La ringrazio, signor Presidente. Signor ministro, onorevoli colleghi, i temi discussi nelle mozioni concernenti il vertice dei capi di Stato del G8 riguardano i problemi della povertà nel mondo che, in molti paesi, si associano al flagello della fame e che rimandano, quindi, anche al tema dell'approvvigionamento alimentare e, in ultima istanza, all'agricoltura.
È singolare, quindi, che nel dibattito odierno, ma più in generale nell'agenda del G8, il tema dell'agricoltura non sia trattato. L'agricoltura, invece, rappresenta un punto centrale per i paesi più poveri del mondo, sia come settore che può garantire una fonte di reddito e di sviluppo e, quindi, quell'accumulazione originaria che può essere il primo passaggio verso la crescita economica, sia appunto per garantire l'autosufficienza alimentare o comunque l'approvvigionamento alimentare in paesi dove la fame, purtroppo, è una realtà quotidiana.
Bisogna allora fare un passo indietro per comprendere, brevemente, come è impostata la politica agricola dell'Unione europea e per capire che abbiamo bisogno di porre mano a questa politica, al fine di garantire condizioni per un più equo commercio nel mondo, in grado di assicurare prospettive di crescita anche ai paesi meno sviluppati.
La politica agricola comunitaria è fondata sul sostegno dei prezzi, che viene garantito attraverso l'imposizione di dazi, attraverso l'aiuto all'export, attraverso la fissazione di prezzi di intervento rispetto ai quali l'Unione europea è disposta a ritirare il prodotto dal mercato, con la conseguenza che al di sotto di tali prezzi non si può andare.
Questa è una politica che nasceva negli anni sessanta, al momento della costituzione della Comunità europea, al fine di garantire l'autosufficienza alimentare in alcuni settori agricoli nei quali l'Europa non era ancora autosufficiente; questa era una politica che spingeva sulla produttività, sul continuo aumento della stessa e sulla continua riduzione dei costi; questa era una politica che non era sostenibile e che, anzi, conteneva in se stessa il germe del suo superamento.
Questo continuo aumento di produzione, questo continuo aumento di produttività portò, infine, all'insostenibilità di tale politica. Innanzitutto, dal punto di vista economico (all'inizio degli anni novanta, l'82 per cento del bilancio dell'Unione europea era destinato al settore agricolo, dunque, tale impostazione non era più sopportabile); inoltre, per il problema dell'ingestibilità fisica dei magazzini,
che ormai non erano più in grado di contenere tutte le merci che, appunto, ai prezzi d'intervento l'Unione europea era disposta a ritirare dal mercato e che, dunque, venivano ammassati. Infine, vi era un problema sociale, un problema di patto sociale tra agricoltura e società. A fronte di prezzi alti che venivano pagati dai consumatori europei (i prezzi di intervento erano, infatti, mediamente superiori ai prezzi del mercato internazionale), si garantiva non la qualità ma quantità, si abbandonavano le zone meno vocate alla produzione agricola, in quanto se l'input era produrre dove era più produttivo farlo, evidentemente si dovevano abbandonare le zone marginali, le zone montane, le zone meno vocate. Era una politica che spingeva verso pratiche agronomiche non sempre rispettose dell'ambiente e che, alla fine, come i recenti casi di BSE hanno dimostrato, non garantiva la sicurezza alimentare. Questa politica spingendo, quindi, sempre più sulla quantità e sulla produttività, aveva in se stessa le cause del suo superamento.
Ma un altro problema, dal punto di vista sociale, si poneva e si pone, in quanto, comunque, questa è ancora la politica dominante all'interno dell'Unione europea: a fronte di gente che moriva e muore di fame, non solo si distruggevano i prodotti ritirati dal mercato per garantire i prezzi, ma si impediva che questi paesi potessero sviluppare la loro agricoltura attraverso esportazioni verso l'Unione europea, fissando dazi e barriere all'entrata insormontabili per gli stessi paesi.
La nuova politica agricola sta cercando di mettere riparo a queste distorsioni: con la tutela e la promozione dei prodotti DOP e GP, con gli aiuti alle zone marginali (obiettivi 5B, leader, oggi piano di sviluppo rurale e leader plus), con gli aiuti all'agricoltura ecocompatibile (agricoltura biologica, agricoltura integrata). Ma non si è ancora messo riparo all'ultima delle contraddizioni, in termini sociali, che questa politica agricola portava: far cadere le barriere doganali per quei paesi - mi riferisco, in primo luogo, agli LDC - che, oggi, non possono esportare verso l'Unione europea, in quanto penalizzati da dazi insormontabili.
Mi associo, quindi, alla richiesta dell'onorevole Santagata, affinché il Governo faccia propria la mozione presentata dalla Commissione al Parlamento europeo per l'eliminazione totale delle barriere doganali nei confronti dei paesi LDC.
Ma, di più: dobbiamo pensare che anche i paesi che non versano in condizioni così drammatiche devono poter avere più libero accesso, per le loro esportazioni agricole, ai nostri mercati. È un dovere morale cui dobbiamo rispondere per poter permettere che anche in questi paesi l'agricoltura svolga quella funzione di accumulazione originaria che nel mondo occidentale ha garantito la nascita del capitalismo.
Ma c'è di più: dobbiamo anche pensare di difendere i nostri marchi. Questa potrebbe essere la contropartita che noi poniamo ad una caduta delle barriere doganali estesa anche ai paesi non LDC. La difesa dei marchi di qualità dei prodotti DOP e IGP è necessaria per garantire la possibilità dei nostri prodotti di competere e vincere all'estero, in particolare nei paesi ricchi - e quindi non arrecando danno ai paesi in via di sviluppo -; tale difesa è necessaria perché forse non tutti sanno che, per esempio, in Canada noi non possiamo esportare il nostro prosciutto di Parma perché qualcuno, in quello Stato, ha registrato il marchio «prosciutto di Parma»; di conseguenza, noi, legittimi proprietari del marchio della produzione DOP, non possiamo esportare con il marchio prosciutto di Parma, perché esso è di proprietà di qualcun altro.
Rivolgo, quindi, un invito al Governo a riprendere uno dei punti che erano nell'agenda di Seattle, e cioè di verificare la possibilità di diminuire le barriere doganali verso i paesi che possano esportare nell'Unione europea prodotti agricoli, in cambio di una garanzia di tutela dei nostri marchi DOP e IGP nel mondo intero (Applausi dei deputati del gruppo della Margherita, DL-l'Ulivo).
PRESIDENTE. Non vi sono altri iscritti a parlare e pertanto dichiaro chiusa la discussione congiunta sulle linee generali delle mozioni.
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