XVIII Legislatura

Commissione parlamentare di inchiesta sulla morte di Giulio Regeni

Resoconto stenografico



Seduta n. 10 di Martedì 19 maggio 2020

INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:
Palazzotto Erasmo , Presidente ... 3 

Audizione di Martina Buscemi e Federica Violi, esperte di diritto internazionale:
Palazzotto Erasmo , Presidente ... 3 
Buscemi Martina  ... 3 
Palazzotto Erasmo , Presidente ... 4 
Violi Federica  ... 4 
Palazzotto Erasmo , Presidente ... 7 
Buscemi Martina  ... 7 
Palazzotto Erasmo , Presidente ... 11 
Pettarin Guido Germano (FI)  ... 11 
Palazzotto Erasmo , Presidente ... 11 
Ungaro Massimo (IV)  ... 11 
Palazzotto Erasmo , Presidente ... 12 
Violi Federica  ... 12 
Palazzotto Erasmo , Presidente ... 13 
Buscemi Martina  ... 13 
Palazzotto Erasmo , Presidente ... 14

Testo del resoconto stenografico

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE
ERASMO PALAZZOTTO

  La seduta comincia alle 14.40.

Sulla pubblicità dei lavori.

  PRESIDENTE. Avverto che se non vi sono obiezioni, la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche tramite impianto audiovisivo a circuito chiuso, nonché via streaming sulla web-tv della Camera, come convenuto in sede di ufficio di presidenza integrato dai rappresentanti dei gruppi, anche al fine di consentire di seguire l'audizione ai colleghi non presenti in sede.

Audizione di Martina Buscemi e Federica Violi, esperte di diritto internazionale.

  PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca l'audizione di Martina Buscemi e Federica Violi, rispettivamente dell'Università di Milano e dell'Università di Rotterdam, che sono presenti in videoconferenza.
  La presente audizione è stata proposta dal collega Massimo Ungaro, prendendo spunto da uno studio dedicato dalle audite all'inquadramento della morte di Giulio Regeni dal punto di vista del diritto internazionale. Segnalo che la seduta odierna si svolge nelle forme dell'audizione libera e che eventuali contributi, per cui si rendesse necessaria la forma segreta, potranno essere resi in un'altra seduta ovvero per iscritto.
  Invito la dottoressa Buscemi a introdurre il tema dell'audizione.

  MARTINA BUSCEMI. Grazie presidente, buongiorno a lei e a tutti i componenti della Commissione. Come prima cosa desidero rivolgere un sentito ringraziamento a nome mio e a nome della mia collega, Federica Violi, per l'opportunità di questa audizione che verterà sui profili di diritto internazionale sollevati dal caso Regeni e sulle azioni che il Governo italiano potrebbe valutare di intraprendere sul piano internazionale. La nostra relazione è il frutto di uno studio congiunto che abbiamo avuto modo di presentare e discutere in diversi contesti accademici, in diversi atenei in Italia e anche in alcuni centri di ricerca all'estero, tra cui il Max Planck Institute di Heidelberg, dove circa quattro anni fa abbiamo iniziato a occuparci della vicenda durante un periodo di ricerca comune. Siamo onorati di poter oggi condividere con voi, in questa sede, le nostre riflessioni in merito e confidiamo che una ricostruzione giuridica, anche dal punto di vista del diritto internazionale, possa contribuire ad arricchire il quadro, già molto articolato e complesso di elementi che la Commissione ha raccolto fino ad oggi.
  Permetteteci di dire che, in quanto giovani ricercatrici della stessa generazione di Giulio Regeni, siamo particolarmente liete di poter contribuire, nei limiti delle nostre competenze giuridiche di diritto internazionale, ai lavori di questa Commissione, che abbiamo seguito fin dall'inizio con grande attenzione e interesse, ma soprattutto con grande fiducia in relazione al compito che questa Commissione si è posta, per fare luce sui fatti e sulle responsabilità del caso.
  Il nostro intervento si articolerà in due parti. Nella prima parte, Federica Violi traccerà il quadro normativo di riferimento, soffermandosi in particolare sulle condotte tenute dallo Stato egiziano e sulla loro compatibilità con gli obblighi internazionaliPag. 4 in tema di diritti umani e di trattamento dello straniero. Nella seconda parte, io procederò a illustrare le azioni che il Governo italiano potrebbe in concreto promuovere nei confronti dell'Egitto, con particolare riguardo ai mezzi di ricorso giurisdizionali che il diritto internazionale offre per dirimere eventuali controversie tra gli Stati. Vi ringrazio fin da ora per l'attenzione.

  PRESIDENTE. Do la parola alla dottoressa Violi.

  FEDERICA VIOLI. Mi unisco ai ringraziamenti della collega per il graditissimo invito a rivolgerci a questa Commissione oggi. Passo subito alla prima parte del nostro intervento. Esporrò in primo luogo, e brevemente, qual è il quadro giuridico rilevante sotto il profilo del diritto internazionale rispetto alla vicenda Regeni. In secondo luogo, prospetterò quali sono le possibili condotte egiziane che riteniamo, almeno prima facie, pertinenti nel caso in specie. Rilevo preliminarmente che le considerazioni che faremo oggi nell'audizione si basano sulla conoscenza dei fatti a nostra disposizione, sul quadro probatorio delineato dalla Procura di Roma, anche nelle passate audizioni, e sui lavori di questa Commissione. Le ipotesi che avanzeremo oggi, andranno corroborate da un accertamento puntuale dei fatti, al quale – ci auguriamo – si pervenga nell'immediato futuro grazie anche allo sforzo istituzionale.
  I regimi di diritto internazionale rilevanti nella vicenda sono essenzialmente due. Il primo è un corpus di norme molto antico e tradizionale del diritto internazionale, ovvero le norme in materia di trattamento degli stranieri. Senza entrare troppo nei tecnicismi, si tratta di norme che impongono allo Stato nel quale si trova un cittadino straniero di non sottoporlo a maltrattamenti sia rispetto all'integrità psico-fisica sia rispetto ai suoi beni, e generalmente a non opporgli diniego di giustizia. Queste norme hanno a corollario un istituto altrettanto tradizionale del diritto internazionale, la protezione diplomatica, su cui riferirà la collega. In breve, si tratta dell'azione dello Stato di nazionalità a tutela del proprio cittadino nei confronti dello Stato territoriale, con mezzi diplomatici o giurisdizionali. Di estrema rilevanza sono le norme consuetudinarie in materia di divieto di tortura e atti disumani e degradanti, contenute nella Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura del 1984 – sottolineo – ratificata sia dall'Italia nel 1989 sia dall'Egitto nel 1986. L'Egitto ha ratificato altri strumenti pattizi internazionali, universali e regionali, che contengono il divieto di tortura, inclusa la «Carta africana dei diritti dell'uomo e dei popoli», a chiara indicazione del fatto che lo Stato si sente vincolato al rispetto di queste norme.
  Senza entrare troppo nei dettagli, segnalo due aspetti particolarmente rilevanti rispetto alle norme in materia di divieto di tortura. Il primo è che l'inadempimento degli obblighi, che derivano da queste norme, può essere invocato da tutti gli Stati della comunità internazionale. Questo significa che non si tratta di norme comuni, ma di prescrizioni che esprimono un valore collettivo particolarmente pregnante per tutti gli Stati. In secondo luogo, vista la loro natura, esigenze di sicurezza nazionale non ne possono mai giustificare la violazione. Questo è un profilo che vale la pena ricordare rispetto alla vicenda di Giulio Regeni. Ho detto inizialmente che sono due i regimi rilevanti di diritto internazionale, ma in effetti c'è una sovrapposizione dal punto di vista materiale e quindi li tratteremo in maniera unitaria ai fini di questa audizione. Aggiungo in ultimo che questi obblighi non si sostanziano solo nel dovere di non commettere alcuno di questi atti, ma anche in quello di prevenirli e reprimerli, aspetti che, come vedremo a breve, sono certamente di interesse per la vicenda Regeni.
  Muovendoci verso la seconda parte del mio intervento, anticipo che sono essenzialmente quattro le condotte dell'Egitto che potrebbero (qualora il quadro probatorio lo confermasse) presentare profili di incompatibilità rispetto alle norme che ho delineato. In primo luogo, se fosse dimostrato che gli atti di tortura sofferti da Pag. 5Giulio fossero stati commessi dagli apparati militari, di polizia o di sicurezza egiziani, questo implicherebbe la responsabilità diretta dello Stato egiziano, per via dell'esistenza di un rapporto organico con lo Stato: queste autorità sono organi statali. Ciò è valido tanto se gli atti fossero stati commessi su istruzioni precise, quanto se fossero stati commessi ultra vires, cioè commessi dalle autorità in violazione o al di fuori di un ordine preciso; in altri termini, se le autorità si siano mosse in coerenza o meno con ordini superiori, non ha importanza. Ora, guardando alle evidenze a nostra disposizione, sembra ancora difficile sostenere, almeno in maniera definitiva, che un illecito di questo tipo si sia verificato. D'altro canto, però, non si tratta neanche di un'ipotesi da escludere. Dalle prove emerse finora, sembra infatti che la tortura e l'omicidio di Giulio Regeni si collochino in un contesto generalizzato di repressione politica ed eliminazione del dissenso, oggetto peraltro di numerose risoluzioni da parte di organizzazioni regionali e internazionali. Ad esempio, cito il gruppo di lavoro ONU sulle sparizioni forzate, che hanno a più riprese denunciato il modus operandi delle autorità egiziane in materia di arresti, esecuzioni arbitrarie, nonché atti di tortura. Tra il 2014 e il 2015, sarebbero state circa 789 le sparizioni forzate in Egitto. Le circostanze accertate non consentono ancora di giungere a una conclusione rispetto a questa ipotesi, ma è certamente un'ipotesi da non scartare. In secondo luogo, qualora gli atti di tortura non fossero direttamente attribuibili alle autorità egiziane, ma – come si è anche detto – a squad, gang criminali o soggetti privati, l'Egitto avrebbe avuto l'obbligo di prevenire la violazione di questi divieti. L'obbligo di prevenzione prevede che lo Stato abbia un apparato legislativo e amministrativo funzionante ed effettivo, che gli consenta di adottare tutte le misure di prevenzione necessarie per impedire e anche scoraggiare certe condotte da parte dei privati. In Egitto sembrerebbe essersi creato un clima di sospetto generalizzato, ed è a quanto pare aumentato il numero delle spie spontanee, poi cooptate dalle autorità. Di nuovo, ancora non è chiaro cosa sia successo a Giulio Regeni, ma sembra che anche nel suo caso si possa ravvisare qualcosa di simile. Come ricostruito, e riferito di fronte a questa Commissione dalla Procura di Roma, Giulio è come si trovasse in una sorta di ragnatela, in un cerchio stretto di controllo da parte degli agenti della National Security, che lo seguivano e osservavano attentamente, peraltro anche proprio rispetto a ciò che avrebbe fatto il giorno 25 gennaio, giorno della sua sparizione. Le forze dell'ordine egiziane erano perfettamente in grado di sapere, o perlomeno avevano tutti i mezzi per venire a conoscenza e dunque prevenire che Giulio potesse subire violenze. Come segnalato dal sostituto procuratore Colaiocco, sembra difficile poter sostenere che le forze dell'ordine egiziane non si siano accorte di eventuali atti criminosi subiti da Regeni.
  La terza condotta di interesse, ai nostri fini, è l'obbligo dello Stato di reprimere ed evidentemente di perseguire atti di tortura o maltrattamenti verificatisi sul proprio territorio. L'articolo 12 della Convenzione contro la tortura, è molto chiaro sul punto: «Ogni Stato Parte provvede affinché le autorità competenti procedano immediatamente a un'inchiesta imparziale, ogni qualvolta vi siano ragionevoli motivi di credere che un atto di tortura sia stato commesso in un territorio sotto la sua giurisdizione.» Il che significa che l'Egitto ha un obbligo giuridico di adottare tutte le misure necessarie per fare chiarezza sul caso. Non devono esservi opacità o lacune nelle attività di investigazione, atteggiamenti di inerzia: l'attività istruttoria deve essere eseguita con precisione, e così via. In altri termini, lo Stato ha un chiaro obbligo procedurale di investigare prontamente, tramite il proprio apparato di polizia e giudiziario, per pervenire alla scoperta e alla cattura dei responsabili.
  Mi sembra utile soffermarmi su due aspetti di questo obbligo, ossia che l'inchiesta sia imparziale e che sia effettiva. In merito all'imparzialità, segnalo che in via generale l'Egitto è stato – come detto – oggetto di rapporti di organismi internazionali (fra gli altri, l'Alto Commissariato Pag. 6per i diritti umani), che hanno riportato a più riprese l'assenza generalizzata d'indipendenza del potere giudiziario e l'impunità spesso accordata a componenti delle autorità militari e di sicurezza, che si rendono autori di questi crimini. Nel caso di specie è sufficiente ricordare (come è emerso dalla ricostruzione della Procura), che il team investigativo egiziano, perlomeno nella prima fase della cooperazione, comprendeva membri della National Security che hanno attivamente contribuito a depistare le indagini e che avevano un collegamento diretto con coloro che tenevano sotto osservazione Giulio nei periodi antecedenti alla sua sparizione. Da rilevare che finora nessun componente della National Security coinvolto nella vicenda, risulta direttamente indagato dalla Procura del Cairo, che ritiene che non sussistano ancora sufficienti elementi indiziari. In merito all'effettività dell'inchiesta si può perlomeno dubitare che l'Egitto abbia esperito ogni sforzo nell'indagine. In questo senso militano di nuovo i depistaggi e i comportamenti ostruttivi, almeno nella prima fase delle indagini, che peraltro, in un caso che ha fatto molto scalpore, sono costati la vita ad altri individui, risultati poi del tutto estranei alla vicenda. Lo stesso può dirsi dell'attività non esattamente tempestiva di raccolta prove.
  Un ultimo obbligo di grande rilievo nella vicenda, anch'esso contenuto nella Convenzione contro la tortura all'articolo 9, impone agli Stati di prestare la più ampia cooperazione e assistenza giudiziaria, compresa la comunicazione di tutti gli elementi di prova dei quali dispongono. Sappiamo che questo è un aspetto cruciale nella vicenda Regeni e la Procura ha ricostruito in maniera estremamente lucida il rapporto con la controparte egiziana. Dare una valutazione complessiva e definitiva della condotta egiziana in merito a questo obbligo, è difficile in questo momento, però si può dire che la cooperazione ha visto sicuramente fasi alterne, e molta caparbietà da parte delle autorità italiane. Al di là dei depistaggi che rilevano anche ai fini dell'inadempimento dell'obbligo di cooperazione, vi sono stati altri episodi (ad esempio la questione del video della metropolitana), che lasciano dubitare della qualità, e soprattutto dell'ampiezza della cooperazione egiziana. Gli ultimi sviluppi riguardano una rogatoria, inoltrata dalla nostra Procura, alla quale pare che le autorità egiziane abbiano intenzione di adempiere – speriamo che sia così. In merito a questo obbligo di cooperazione, ritengo sia utile evidenziare due elementi. Il primo è che la più ampia collaborazione deve essere accordata anche in assenza di accordo bilaterale tra gli Stati. Sappiamo bene che l'Italia e l'Egitto non sono legati da un simile accordo, ma il fatto che un accordo in materia di cooperazione non esista tra i due Stati, non ha alcuna rilevanza dal punto di vista giuridico. L'obbligo sussiste ai sensi dell'articolo 9 della Convenzione contro la tortura, che un accordo bilaterale esista o meno. Dal punto di vista pratico e pragmatico, un accordo di cooperazione facilita i rapporti tra le autorità giurisdizionali e li rende di più facile attuazione. Ciò non toglie, però, che la cooperazione possa essere pretesa dall'Italia sulla sola base della Convenzione contro la tortura. Aggiungo un elemento interessante: dagli archivi del Ministero degli affari esteri e della cooperazione internazionale risulta che Italia ed Egitto non siano estranei a questo tipo di attività. Esiste ad esempio un accordo di cooperazione di polizia, in materia di criminalità organizzata e terrorismo del 2000, che prevede addirittura l'istituzione di un organo bilaterale che supervisioni le attività di cooperazione e scambio di prove. I due Paesi hanno già sperimentato o perlomeno trovato un terreno comune su attività simili.
  C'è poi un aspetto del quale forse è prematuro parlare, ma che è bene tenere a mente nella vicenda. Si tratta dell'obbligo aut dedere aut iudicare che riguarda il dovere dello Stato, nel quale si trova il presunto autore di un reato, o di estradarlo allo Stato richiedente o di sottoporlo alle proprie autorità giurisdizionali competenti per l'esercizio dell'azione penale. Lo Stato non può quindi astenersi dal fare l'una o l'altra cosa: lo segnalo perché quest'obbligo è stato al centro di un caso relativo a Pag. 7divieto di tortura di fronte alla Corte internazionale di giustizia, al quale farà riferimento la collega, ed è un caso che ha avuto peraltro esito positivo, nel senso che la vicenda si è conclusa in sede di giudizio nazionale con la condanna del reo. È importante segnalarlo anche perché indica che la Convenzione contro la tortura e l'insieme degli strumenti sostanziali e procedurali del diritto internazionale creano una rete giuridica solida per evitare che gli autori di atti di tortura trovino porto franco, e che quindi questi atti restino impuniti.
  In conclusione, sono quattro le potenziali condotte egiziane di rilievo, a nostro avviso, e che ricordo dovrebbero essere accertate in punto di fatto. La prima è la possibile attribuzione diretta all'Egitto degli atti di tortura commessi a danno di Giulio Regeni da parte di organi egiziani. La seconda è il mancato obbligo di prevenire che atti criminosi si verificassero a suo danno. In terzo luogo, il mancato obbligo di repressione per perseguire e assicurare alla giustizia gli autori dei medesimi fatti. Infine, una ancora non chiara attitudine rispetto all'obbligo di cooperazione con le autorità egiziane. Con il permesso del Presidente, lascerei la parola alla dottoressa Buscemi per esporre quali sono le azioni a disposizione dello Stato italiano ai sensi del diritto internazionale. Grazie.

  PRESIDENTE. Grazie a lei. Do la parola alla dottoressa Buscemi.

  MARTINA BUSCEMI. Ringrazio la mia collega per aver ricostruito il quadro normativo del caso, alla luce del quale occorre chiedersi quali siano i mezzi a disposizione del Governo italiano per far valere la responsabilità dell'Egitto, qualora ritenesse, anche sulla base delle evidenze emerse dai lavori di questa Commissione così come dalle inchieste giudiziarie in corso, che si siano perfezionate una o più delle quattro fattispecie di illecito internazionale, delineate dalla mia collega.
  Non c'è dubbio che lo Stato italiano, sia che faccia valere la violazione delle norme sul trattamento dello straniero sia che faccia valere le violazioni degli obblighi puntuali contenuti nella Convenzione contro la tortura, sarebbe legittimato ad avanzare le proprie pretese nei confronti dell'Egitto e ad appianare gli eventuali interessi contrapposti, tramite i tradizionali mezzi pacifici di risoluzione delle controversie internazionali, indicati dall'articolo 33, paragrafo 1 della Carta delle Nazioni Unite, e che includono sia il procedimento a carattere diplomatico sia i procedimenti a carattere giudiziario, se esistenti. Se questo vale in linea generale, nel caso in esame esiste un particolare procedimento di soluzione delle controversie, previsto dall'articolo 30 della Convenzione contro la tortura ed è su questo specifico procedimento di composizione delle controversie che vorrei soffermarmi. Ora, l'articolo 30 contiene una clausola che viene definita «compromissoria». È una clausola che, previo espletamento di certe condizioni procedurali, attribuisce la giurisdizione alla Corte internazionale di giustizia, il principale organo giurisdizionale delle Nazioni Unite, per dirimere le controversie sorte tra le parti della Convenzione, controversie che possono riguardare l'interpretazione o l'applicazione della Convenzione stessa e quindi possibili ed eventuali inadempimenti degli obblighi sanciti nella Convenzione. Il dato interessante è che sia l'Italia sia l'Egitto sono vincolati da questa specifica clausola, poiché nessuno dei due Stati, nel momento della firma e della ratifica del trattato, ha voluto apporre una riserva, cioè ha voluto escludere l'operatività di questa clausola. È una circostanza che non è scontata, perché l'Egitto ha invece esercitato questo diritto di riserva in relazione a clausole compromissorie contenute in altri trattati sui diritti dell'uomo, sottraendosi così alla giurisdizione, eventuale, della Corte internazionale di giustizia così come alla giurisdizione di organi quasi-giurisdizionali, istituiti dai trattati sui diritti dell'uomo. Nel caso in esame l'articolo 30 è invece perfettamente applicabile e non c'è dubbio che vincoli sia l'Egitto sia l'Italia. Pertanto, qualora l'Italia ritenesse l'Egitto formalmente inadempiente rispetto a uno o più obblighi previsti dalla Convenzione contro la tortura e ne volesse contestare formalmente la violazione,Pag. 8 l'articolo 30 offrirebbe all'Italia un percorso tracciato che potrebbe portare a una soluzione anche a carattere giudiziale della controversia con l'Egitto. La strada indicata dall'articolo 30 non è solo precostituita ma è anche articolata perché si snoda in tre distinte parti. Come ho detto all'inizio, la possibilità per gli Stati di adire i giudici della Corte internazionale di giustizia dell'Aia è subordinata all'espletamento di alcuni passaggi procedurali, il che è qualcosa di comune alla stragrande maggioranza delle clausole compromissorie contenute nei trattati sui diritti umani che attribuiscono giurisdizione alla Corte.
  I passaggi delineati sono tre. Il primo passaggio procedurale è il tentativo di negoziazione con lo Stato interessato: significa che la parte che intende attivare il meccanismo di cui all'articolo 30, supponiamo l'Italia, tenti di avviare delle discussioni con l'altra parte, supponiamo l'Egitto, al fine di risolvere la controversia relativa all'applicazione della Convenzione contro la tortura. L'avvio delle negoziazioni potrebbe portare, se ci fosse il consenso di entrambe le parti, all'istituzione di una commissione d'inchiesta internazionale ad hoc per accertare i fatti, così come all'istituzione di una commissione di conciliazione, che valuterebbe anche elementi in diritto. Trattandosi di procedure diplomatiche, i rapporti con cui si concluderebbero queste ipotetiche procedure avrebbero in linea di principio una natura non vincolante, ma raccomandatoria. Qualora il tentativo di avviare delle discussioni con la controparte non ricevesse riscontri oppure i negoziati una volta avviati si bloccassero divenendo inutili, perché non si raggiunge un accordo, le parti potrebbero entrare nella seconda fase, nel secondo snodo delineato dall'articolo 30, cioè sottoporre la controversia a una procedura arbitrale. Supponendo che il Governo italiano decidesse di agire seguendo il tracciato delineato dall'articolo 30, dopo aver esperito con esito negativo il tentativo di negoziazione con l'Egitto, potrebbe avanzare nei confronti dello Stato egiziano una richiesta unilaterale di arbitrato. Se la richiesta fosse accolta, la composizione della lite a quel punto sarebbe deferita a un collegio di arbitri scelti dalle parti e che sarebbero chiamati a risolvere la controversia in contraddittorio tra le parti, pronunciandosi con una sentenza, che in termini tecnici si chiama lodo arbitrale, che invece avrebbe efficacia vincolante, rispetto alle procedure diplomatiche delineate precedentemente. Tuttavia, come capirete, anche l'arbitrato necessita della collaborazione della controparte, anche solo per organizzarlo o per stabilire quali siano le regole procedurali applicabili. Se questa cooperazione, se questo accordo non dovesse esserci, a quel punto, trascorsi sei mesi dalla data di richiesta dell'arbitrato, si entrerebbe nell'ultima e terza fase prevista dall'articolo 30, che consente alle parti di deferire la controversia alla Corte internazionale di giustizia.
  Ricapitolando, i passaggi sono tre: tentativo di negoziazione, richiesta di arbitrato, Corte internazionale di giustizia. Mi soffermo brevemente sulla giurisdizione eventualmente esercitabile dalla Corte, che avrebbe natura obbligatoria e sarebbe ad attivazione unilaterale, nel senso che basterebbe la volontà politica dello Stato italiano, e lo Stato convenuto (in questo caso l'Egitto), sarebbe obbligato a sottoporsi alla procedura che vi ho appena descritto, senza ulteriori manifestazioni di consenso, senza necessità di trovare un successivo accordo. Preciso che la Corte internazionale di giustizia sarebbe eventualmente chiamata ad accertare, con una sentenza dotata di efficacia vincolante tra le parti, la violazione di un obbligo della Convenzione contro la tortura, imputabile allo Stato. Quindi, la responsabilità sarebbe dello Stato in quanto tale, e non ci sarebbe un accertamento delle responsabilità penali e quindi personali dei singoli autori delle condotte criminose. Perdonatemi la digressione a carattere tecnico, ma l'azione dello Stato italiano volta a difendere gli interessi della vittima, in questo caso di Giulio Regeni, in quanto cittadino, non sarebbe ostacolata da un'ipotetica obiezione procedurale che la controparte potrebbe sollevare circa il mancato esaurimento dei ricorsi interni, cioè di quella regola che il diritto internazionalePag. 9 pone e per la quale l'azione degli Stati a tutela dei propri cittadini viene subordinata all'effettivo esaurimento di tutti i gradi di giudizio presenti nell'ordinamento territoriale, quindi in questo caso nell'ordinamento egiziano. A nostro avviso, la regola del previo esaurimento dei ricorsi interni non troverebbe applicazione nel caso in esame, perché i rimedi presenti nell'ordinamento egiziano si sono dimostrati ad oggi scarsamente effettivi e comunque i tempi dell'espletamento di tutti i gradi di giudizio non appaiono ragionevoli: basti pensare a come fino ad ora si è svolto il procedimento e al fatto che a distanza di quattro anni non vi è ancora alcuna iscrizione nel registro degli indagati. In ogni caso, la questione procedurale del previo esaurimento dei ricorsi interni non troverebbe applicazione per l'invocazione della responsabilità dell'Egitto, in relazione all'obbligo di assistenza e cooperazione giudiziaria, perché questo delinea un obbligo interstatale dovuto da e tra gli Stati, secondo l'articolo 9 della Convenzione contro la tortura cui faceva riferimento la mia collega.
  Un'ultima considerazione in questa digressione sull'eventuale giurisdizione della Corte internazionale di giustizia. La prassi della Corte è ricca di precedenti riguardanti azioni degli Stati, promosse a tutela dei propri cittadini o delle proprie imprese, fin dai suoi primissimi anni di attività. Recentemente si assiste a un uso particolarmente frequente, o comunque più frequente rispetto al passato, di clausole compromissorie, contenute nei trattati sui diritti dell'uomo, simili a quella dell'articolo 30. In ragione del tempo limitato che ci è stato assegnato, mi limito a citare solo un caso, che però potrebbe fungere da precedente interessante per questa Commissione e resto ovviamente a disposizione in fase di domande per ulteriori riferimenti ad altri casi. Nel 2009, il Belgio ha usato proprio la clausola compromissoria, contenuta nell'articolo 30 della Convenzione contro la tortura, e l'ha utilizzata con successo per presentare un ricorso nei confronti del Senegal, in relazione ad alcuni aspetti dell'obbligo di processare o estradare il dittatore del Ciad, Hissène Habré, in virtù dell'obbligo aut dedere aut iudicare cui faceva riferimento la mia collega.
  Passo all'ultima questione, e cioè se lo Stato italiano non solo possa ma anche debba agire a protezione di un proprio cittadino maltrattato all'estero, al punto da invocare formalmente la responsabilità dello Stato estero, chiedendo una riparazione anche attraverso le vie giudiziarie che ho indicato. Parto dalla considerazione, ancorché scontata, che la protezione dei nostri connazionali all'estero è da sempre oggetto di vanto e di tradizione da parte del nostro Governo e del nostro servizio diplomatico. Abbiamo sentito ribadire proprio recentemente, qualche giorno fa, che la difesa dei nostri connazionali all'estero è una priorità per il Governo, al di là di ogni altra eventuale considerazione o interesse confliggente. È sufficiente questo per dire che esiste un obbligo dello Stato ad agire in protezione diplomatica nei confronti del proprio cittadino maltrattato all'estero? Sicuramente, se si apre qualsiasi libro di diritto internazionale, circa l'istituto della protezione diplomatica, nella sua concezione tradizionale – ovvero l'azione con cui lo Stato tutela i propri cittadini maltrattati all'estero – lo Stato di cittadinanza ha sempre avuto un margine di discrezionalità. È sempre stato riconosciuto allo Stato di cittadinanza un margine di discrezionalità nel decidere se e come proteggere e tutelare i propri cittadini e questo ha una spiegazione evidentemente storica. Molto, però, si potrebbe dire su come l'istituto si sia evoluto nel diritto internazionale contemporaneo e molto è stato scritto in merito e, in parallelo, su come sia in corso una progressiva erosione di quella tradizionale discrezionalità esercitata dagli Stati in questo ambito. Prova ne è il fatto che, in diversi ordinamenti giuridici, è frequentemente riconosciuto all'individuo, perlomeno in diritto procedurale, di sapere le ragioni per le quali il proprio Stato di cittadinanza non intende agire e tutelarlo sul piano dei rapporti interstatali. Non voglio addentrarmi nel dibattito molto ampio e articolato in dottrina sull'esistenza di quest'obbligo, ma troviamo sia importante Pag. 10evidenziare – e portarvi a conoscenza – la posizione adottata dall'Italia su questo punto. In particolare, vorremmo portare alla vostra conoscenza uno spunto aneddotico, ma crediamo non trascurabile, ricavabile da quanto è avvenuto durante i lavori che hanno portato all'adozione, nel 2006, del progetto di articoli sulla protezione diplomatica da parte della Commissione del diritto internazionale, l'organo sussidiario dell'Assemblea generale delle Nazioni Unite. Tale progetto incorpora, secondo un punto di vista estremamente autorevole, quello della Commissione del diritto internazionale, lo stato dell'arte delle regole consuetudinarie in materia di protezione diplomatica. Nella fase di redazione di questo progetto, il Governo italiano nel 2006 inviò i propri commenti al testo in corso di elaborazione e patrocinò una proposta significativa, che poi fu esclusa dal testo, ma è molto interessante per il nostro quesito iniziale. Il Governo italiano sostenne l'esistenza di un vero e proprio obbligo giuridico di agire a tutela dei propri connazionali maltrattati all'estero, in presenza di due condizioni. La prima, quando l'offesa subita dal cittadino risulti da una grave violazione di un obbligo di importanza fondamentale, quale ad esempio un atto di tortura o un atto di privazione arbitraria della vita (fece esattamente questi esempi: atto di tortura o privazione arbitraria della vita). La seconda condizione, quando alla vittima non sia garantito l'accesso a un rimedio effettivo davanti a una corte nazionale o internazionale. È evidente che entrambe le due condizioni siano presenti nel caso in esame: sulla prima non ci sono dubbi, sulla seconda condizione – a nostro avviso – la possibilità per i familiari della vittima di ottenere un rimedio effettivo sembra ad oggi preclusa sul piano internazionale. La maggior parte degli organismi quasi-giurisdizionali istituiti da trattati sui diritti dell'uomo, che potrebbero in principio ricevere ed esaminare un ricorso promosso dai familiari contro lo Stato egiziano, non hanno la competenza per farlo, in quanto l'Egitto non ha riconosciuto appunto la competenza necessaria a ricevere questi ricorsi individuali. Davanti alle corti nazionali, per motivi diversi, sia davanti a quelle egiziane sia davanti a quelle italiane, riteniamo che i familiari incontrerebbero diverse difficoltà di ordine pratico e processuale per ottenere un ristoro effettivo, perlomeno in sede civile.
  Nel caso Regeni si verrebbero dunque a verificare quelle due condizioni che imporrebbero (ad avviso proprio del Governo italiano nel 2006) un obbligo giuridico di agire. Questa considerazione, secondo noi, dovrebbe essere debitamente tenuta in conto nel valutare le azioni future che il nostro Governo intenderà intraprendere. Rispetto alle azioni intraprese in passato, è senz'altro vero che lo Stato italiano ha adottato qualche misura in risposta all'accaduto. Penso al richiamo per consultazioni dell'ambasciatore, al cosiddetto «emendamento Regeni», al fatto che, com'è stato riportato dalla Segretaria generale del Ministero degli affari esteri, Elisabetta Belloni, la qualità del rapporto tra Egitto e Italia sia cambiata. È anche vero che sotto altri punti di vista, per esempio nel settore della difesa militare, il rapporto non pare significativamente mutato. In questa fase molto delicata, la possibilità di adottare ulteriori misure sul piano diplomatico va valutata secondo noi in stretto coordinamento con la parallela e importantissima inchiesta giudiziaria in corso in Italia, in modo tale che l'inchiesta non venga in nessun modo pregiudicata, anzi, venga agevolata e aiutata da possibili azioni da intraprendere sul piano diplomatico. La nostra Procura – come abbiamo sentito nelle precedenti audizioni – sta facendo il possibile e l'impossibile per far emergere una verità processuale sulla vicenda. Questo necessita di un canale di dialogo, di un canale di rapporto con le autorità egiziane, se non altro per acquisire mezzi di prova. La possibilità di promuovere ulteriori interventi a livello diplomatico andrebbe valutata proprio al fine di motivare maggiormente l'autorità giudiziaria egiziana a collaborare con quella italiana, ad esempio sollecitando formalmente l'Egitto a onorare e rispettare gli obblighi di diritto internazionale di assistenza giudiziaria che Pag. 11derivano dall'articolo 9 della Convenzione contro la tortura. Qualora queste formali sollecitazioni e richiami non dovessero indurre la controparte egiziana a instaurare un dialogo in maniera effettiva, un dialogo soddisfacente perlomeno, e qualora la nostra Procura non riuscisse ad arrivare a un risultato sperato a causa della mancanza di collaborazione e cooperazione, a nostro avviso a quel punto si renderebbe necessaria una soluzione della controversia a livello interstatale: una strada da seguire potrebbe essere il ricorso ai mezzi indicati precedentemente dall'articolo 30 della Convenzione contro la tortura e, in extrema ratio, si potrebbe valutare anche il ricorso ai mezzi di autotutela attraverso l'adozione di contromisure, anche a carattere economico, nei confronti dell'Egitto.
  In conclusione, l'adozione di misure più incisive da parte del Governo italiano sarebbe auspicabile, ma sarebbe soprattutto coerente con la stessa opinione avanzata dal Governo durante i lavori che hanno portato all'elaborazione del progetto di articoli sulla protezione diplomatica nel 2006 e sarebbe altresì in linea e coerente anche con quell'articolo 19 contenuto nel progetto sulla protezione diplomatica che, in qualche modo, riecheggia la proposta italiana, perché è un articolo che invita e incoraggia gli Stati a considerare di agire a difesa dei propri cittadini, in particolare in caso di gravi violazioni di diritti umani, come nel caso della commissione di atti di tortura, esattamente l'offesa subita da Giulio, un evento che, purtroppo, si inserisce in un contesto più generalizzato di abusi simili, come è stato ricordato nell'audizione di Amnesty International Italia.
  Vi ringrazio molto per l'attenzione. Siamo a vostra disposizione per eventuali domande e chiarimenti.

  PRESIDENTE. Grazie, dottoressa Buscemi. Grazie anche alla dottoressa Violi per questa importante audizione. Chiedo ai colleghi se ci sono domande. Do la parola al collega Pettarin.

  GUIDO GERMANO PETTARIN. Desidero ringraziare le dottoresse per l'illustrazione interessante e coerente. Alcune puntualizzazioni, solamente per poter verificare se ciò che ho capito sia proprio il quadro che è stato proposto. Primo dato: il fatto che non esista agli atti una convenzione bilaterale per l'assistenza giudiziaria in questo contesto c'entra poco, perché comunque esiste un quadro giuridico comune tra Egitto e Italia che è costituito dalla Convenzione contro la tortura. In riferimento a questo, la vincolatività della Convenzione ONU contro la tortura vale per quanto riguarda tutti gli aspetti, sia le fattispecie sia le procedure e i procedimenti necessari per potervi dare attuazione. Presupposto dell'utilizzo del meccanismo è la costituzione dell'oggetto del contenzioso, ma quello che manca in questo momento è probabilmente proprio l'oggetto del contenzioso, perché non si è esaurita la fase di collaborazione tra le due Procure e non siamo arrivati ancora al momento in cui ci sia stata una richiesta di estradizione da parte della nostra magistratura di Tizio, Caio e Sempronio, individuati come responsabili. Se a questo si arrivasse, e la richiesta di estradizione non venisse soddisfatta, ciò sarebbe la scintilla che farebbe scattare il contenzioso, a fronte del quale si potrebbe mettere in piedi la procedura di cui all'articolo 30. Se la fase preliminare dell'articolo 30 non arrivasse al suo completamento, si potrebbe presentare il ricorso alla Corte di giustizia internazionale dell'Aia. Questo sunto – che mi rendo conto essere eccessivamente sintetico – corrisponde alla realtà che avete descritto e in riferimento a questo, il precedente molto interessante del Belgio sul 2009, ha caratteristiche consimili non solamente per la procedura, ma anche per il quadro che si era venuto a delineare di mancata collaborazione tra due autorità giudiziarie?

  PRESIDENTE. Do la parola al collega Ungaro.

  MASSIMO UNGARO. Presidente, grazie. Grazie a entrambe per la relazione. È dunque già successo in passato che Pag. 12Stati sovrani abbiano fatto ricorso per casi simili alla Corte di giustizia internazionale. In quanto studiose di questi casi, quali sono stati secondo voi gli effetti sui rapporti bilaterali? In particolare, avete citato il caso della controversia del Belgio con il Senegal: quali sono state le conseguenze, a seguito di questo ricorso alla Corte internazionale di giustizia? Ci sono stati casi in cui gli Stati hanno fatto ricorso a mezzi di pressione, in particolare a restrizioni di natura economica? Ciò anche per comprendere meglio le raccomandazioni che proponete alla Commissione.

  PRESIDENTE. Se nessun altro collega intende intervenire, provo a integrare il quadro per poi darvi la parola per le risposte. La prima questione, in relazione a quanto ci diceva la dottoressa Violi, riguarda l'accertamento. Qual è il livello di accertamento che è richiesto rispetto alle quattro questioni? Sulla cooperazione giudiziaria c'è un organismo che lo deve accertare o c'è un giudizio autonomo dello Stato, che accerta che manca quella cooperazione giudiziaria? Per quanto attiene alla responsabilità delle autorità, è da intendersi relativamente all'accertamento della nostra autorità giudiziaria, quindi alla fine dell'inchiesta, o anche qui bastano gli elementi probatori che sono a base di quell'inchiesta per poterlo considerare un accertamento sufficiente a intraprendere l'azione sul piano internazionale?
  La seconda domanda è relativa all'articolo 30 della Convenzione sulla tortura che prevede la possibilità per uno Stato che aderisce alla Convenzione di esprimere una riserva. La domanda è se l'Italia o l'Egitto abbiano espresso quella riserva. Immagino che la risposta sia negativa, ma lo faccio perché rimanga agli atti.
  L'ultima domanda è più un giudizio che vi chiedo di esprimere rispetto all'azione giudiziaria in sede internazionale, ovvero se l'esperimento di questa azione non pregiudichi la cooperazione giudiziaria e se la tempistica di questa azione non debba attendere comunque la conclusione dell'azione giudiziaria, perché potrebbe in tal caso pregiudicarla.
  Seguirei anche per le risposte l'ordine iniziale. Do la parola alla professoressa Violi.

  FEDERICA VIOLI. Grazie mille per le domande.
  L'onorevole Pettarin, che ringrazio, ha fatto una ricostruzione coerente con quello che abbiamo detto. Ci tengo solamente a puntualizzare un aspetto. L'obbligo aut dedere aut iudicare è un obbligo separato rispetto all'obbligo di cooperazione. Ciò significa che se si sono già materializzati gli elementi per l'obbligo aut dedere aut iudicare evidentemente un imputato è già stato individuato. Non siamo ancora a questo punto, ma se l'Egitto dovesse essere reticente rispetto alla cooperazione giudiziaria e addirittura arrivare a impedire di individuare un eventuale responsabile, anche solo l'articolo 9 della Convenzione contro la tortura sull'obbligo di cooperazione potrebbe essere attivato dall'Italia.
  Rispetto all'azione del Belgio contro il Senegal, lascio l'elaborazione alla dottoressa Buscemi. Mi limito a dire che la vicenda si è conclusa con un giudizio in Senegal del dittatore Habré, con un ergastolo, se ricordo correttamente, e riguardava l'obbligo aut dedere aut iudicare. A questo utilizzo dell'articolo 30 da parte del Belgio si è arrivati dopo tutta una serie di tentativi diplomatici, politici e di cooperazione giudiziaria per ottenere prima la cooperazione e poi l'estradizione del soggetto; cosa alla quale poi non si giunti, e quindi il Belgio ha deciso di adire la Corte internazionale di giustizia proprio sulla base dell'articolo 30 e questo ha spinto il Senegal ad agire. Ricordiamo che le sentenze della Corte internazionale di giustizia sono assolutamente vincolanti.
  Rispetto all'articolo 9, abbiamo contezza di procedure quasi-giurisdizionali che si sono svolte di fronte al Comitato contro la tortura, che supervisiona l'applicazione e l'interpretazione della Convenzione. Purtroppo però il Comitato contro la tortura non ha competenza nel caso di specie, nel caso della vicenda Regeni, Pag. 13perché l'Egitto, come ricordava prima la dottoressa Buscemi, non riconosce la competenza di questo Comitato, però esiste della prassi anche rispetto all'articolo 9.
  Se agire in maniera repentina possa pregiudicare la cooperazione, e anche l'esercizio dell'azione penale in Italia, questa è una valutazione di opportunità che riteniamo debbano fare in coordinamento sia le autorità giurisdizionali sia il nostro servizio diplomatico. Agire troppo repentinamente in un momento in cui, come si ricordava, forse ancora c'è qualche spiraglio per la cooperazione giudiziaria tra Italia e Egitto potrebbe essere prematuro. Noi però riteniamo fondamentale sottolineare come in realtà i mezzi esistano.
  Dal punto di vista probatorio, per un giudizio internazionale di fronte alla Corte internazionale di giustizia, è questa stessa che deve ricostruire il quadro probatorio, ma lo farà sulla base degli elementi che ha a disposizione, che includono anche la vicenda giurisdizionale sia italiana sia egiziana. Quindi più elementi si ha a disposizione, più è possibile per la Corte internazionale di giustizia procedere alla propria ricostruzione dei fatti.

  PRESIDENTE. Do la parola alla dottoressa Buscemi.

  MARTINA BUSCEMI. Concordo con tutti i rilievi della dottoressa Violi. Mi permetto di aggiungere qualcosa in più sui precedenti, su altri casi davanti alla Corte internazionale di giustizia. Come ho detto nel mio intervento, si assiste oggi a un uso piuttosto frequente delle clausole compromissorie contenute nei trattati sui diritti dell'uomo. Giusto per dare qualche altro elemento di contesto, la clausola compromissoria contenuta nell'articolo 22 della Convenzione contro ogni forma di discriminazione razziale che, in maniera leggermente diversa, ricalca a grandi linee lo schema dell'articolo 30 della Convenzione contro la tortura è stata recentemente utilizzata, e mi riferisco alla prassi degli ultimi dieci anni, in tre procedimenti da parte di Georgia, Ucraina e Qatar, rispettivamente contro Federazione Russa ed Emirati Arabi Uniti; nel 2006, fu invocata senza successo anche dal Congo nei confronti del Ruanda e, ancora, nel luglio 2019, la Corte si è pronunciata su un caso che riguardava la mancata assistenza consolare offerta dal Pakistan a un cittadino indiano e, ancora più recentemente, il Gambia ha promosso un ricorso contro il Myanmar sulla base di una clausola compromissoria contenuta in un altro trattato sui diritti dell'uomo, cioè quello che vieta la commissione di atti di genocidio.
  Sul caso del Senegal, credo che abbia già risposto la mia collega. Confermo che il 30 maggio del 2016, il tribunale senegalese ha condannato Habré all'ergastolo e questo dimostra come la vicenda si sia conclusa in senso positivo.
  Concordo anche con i rilevi fatti dal presidente della Commissione sull'eventuale pregiudizio che potrebbe arrecare l'attivazione in questo momento dell'articolo 30. Come ho cercato di illustrare nella mia relazione, la possibilità di promuovere ulteriori interventi sul piano diplomatico, e anche di attivare la clausola dell'articolo 30, dovrebbe essere valutata in coordinamento con l'inchiesta giudiziaria in corso e dovrebbe servire ad agevolarla e non a precluderla. La nostra ipotesi è che, se questa cooperazione dovesse tardare ancora e non sarà efficace, l'articolo 30 indica una strada da seguire. In questo momento la valutazione è molto complessa e molto delicata. Riteniamo che qualsiasi azione il Governo italiano debba intraprendere debba farlo con il solo scopo di agevolare e coadiuvare l'inchiesta giudiziaria in corso e non ovviamente di precluderla. Ci sono misure che potrebbe attivare per sollecitare questa cooperazione, che ci sembra stiano tardando ad arrivare; potrebbe motivarle maggiormente, anche solo ricordando l'Egitto di adempiere all'obbligo di cui all'articolo 9 della Convenzione contro la tortura, che, come ha sottolineato la mia collega, non riguarda l'obbligo aut dedere aut iudicare, che si porrebbe in una fase successiva, ma riguarda l'obbligo di cooperazione e di assistenza giudiziaria, in riferimento ad atti di tortura.

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  PRESIDENTE. Vi ringrazio per questo importante contributo di cui sicuramente la nostra Commissione terrà conto. Nel caso avessimo bisogno di ulteriori specificazioni, vi contatteremo. Dichiaro conclusa l'audizione.

  La seduta termina alle 15.35.