XVIII Legislatura

Commissione parlamentare per l'attuazione del federalismo fiscale

Resoconto stenografico



Seduta n. 18 di Mercoledì 3 luglio 2019

INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:
Russo Paolo , Presidente ... 3 

Audizione della Professoressa Maria Cecilia Guerra, Professoressa di Scienza delle Finanze presso l'Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia, su attuazione e prospettive del federalismo fiscale e sulle procedure in atto per la definizione delle intese ai sensi dell'articolo 116, terzo comma, della Costituzione:
Russo Paolo , Presidente ... 3 
Guerra Maria Cecilia , professoressa di Scienza delle Finanze presso l'Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia ... 3 
Russo Paolo , Presidente ... 9 
Presutto Vincenzo  ... 9 
De Menech Roger (PD)  ... 9 
Russo Paolo , Presidente ... 10 
Guerra Maria Cecilia , professoressa di Scienza delle Finanze presso l'Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia ... 10 
Russo Paolo , Presidente ... 15 

ALLEGATO: documentazione prodotta dalla professoressa Guerra ... 16

Testo del resoconto stenografico

PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE
PAOLO RUSSO

  La seduta comincia alle 8.30.

Sulla pubblicità dei lavori.

  PRESIDENTE. Avverto che la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso la trasmissione televisiva sul canale satellitare della Camera dei deputati e la trasmissione diretta sulla web-TV della Camera dei deputati.

Audizione della Professoressa Maria Cecilia Guerra, Professoressa di Scienza delle Finanze presso l'Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia, su attuazione e prospettive del federalismo fiscale e sulle procedure in atto per la definizione delle intese ai sensi dell'articolo 116, terzo comma, della Costituzione.

  PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca l'audizione, ai sensi dell'articolo 5, comma 5, del Regolamento della Commissione parlamentare per l'attuazione del federalismo fiscale, della professoressa Maria Cecilia Guerra, Professoressa di Scienza delle Finanze presso l'Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia, su attuazione e prospettive del federalismo fiscale e sulle procedure in atto per la definizione delle intese ai sensi dell'articolo 116, terzo comma, della Costituzione.
  L'occasione è particolarmente significativa in ragione del lavoro che la Commissione sta svolgendo in tema di attuazione dei princìpi di autonomia degli enti territoriali e locali e del relativo regime finanziario e sui temi delle iniziative in atto relative all'attuazione dell'articolo 116, terzo comma, della Costituzione.
  Cedo la parola alla professoressa Guerra.

  MARIA CECILIA GUERRA, professoressa di Scienza delle Finanze presso l'Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia. Siccome sono qua in qualità di docente di scienza delle finanze, vorrei dedicare quest'audizione esattamente al tema delle problematiche relative al finanziamento dell'autonomia regionale, che considero peraltro un aspetto cruciale di questa discussione e anche uno degli aspetti su cui credo sarebbe necessaria un'ulteriore riflessione rispetto a quella attualmente in corso.
  Ovviamente, ci sono altri temi molto rilevanti che voi avete affrontato nelle vostre audizioni, a cui farò di volta in volta riferimento, per quanto in via tangenziale.
  Considero il tema del finanziamento assolutamente cruciale. Avrete poi una mia memoria scritta. Nel parlare, non seguirò esattamente lo stesso ordine, ma i temi sono quelli.
  Dicevo che considero cruciale questo tema del finanziamento, in quanto è evidente che la «devoluzione» di una funzione, sia essa legislativa o amministrativa, non accompagnata da adeguate forme di finanziamento sarebbe sostanzialmente una finta. Nello stesso tempo, un finanziamento non adeguato, non ben disegnato, potrebbe creare problemi rilevanti sia di finanza pubblica sia di distribuzione interregionale. Questi sono i due aspetti da tenere particolarmente presenti.
  L'altro aspetto assolutamente cruciale è che, quando si prospetta un disegno di finanziamento, bisognerebbe avere sempre presente non quello che succede nel momento x, cioè il momento in cui avviene l'eventuale devoluzione di funzioni, ma quello che succede nel tempo. Ed è probabilmente Pag. 4 proprio sull'evoluzione temporale del finanziamento prospettato che ho più dubbi da evidenziare.
  Sappiamo che sul tema del finanziamento c'è un dibattito e c'è tensione da parte di regioni più deboli che temono di essere in una situazione di difficoltà successiva a questa devoluzione, soprattutto in settori molto sensibili, come sanità e istruzione. Nello stesso tempo, abbiamo la rivendicazione da parte di regioni «più forti», che hanno la volontà di far valere la propria maggiore efficienza a vantaggio dei propri cittadini.
  Ora, la Costituzione su questo tema è piuttosto chiara. Nell'articolo 119 e nella legge di attuazione, la legge n. 42, e nel decreto attuativo del 2011, il quadro che si delinea cerca appunto di tenere insieme questi due fattori, l'autonomia dei territori e la «solidarietà» tra i territori intesa come possibilità per tutti di offrire ai propri cittadini quelli che chiamiamo livelli essenziali delle prestazioni, che praticamente garantiscono l'accesso ai diritti civili e sociali in modo omogeneo sul territorio.
  Questo quadro, però, in cui dovrebbe inserirsi la nuova disposizione di realizzazione dell'articolo 116, comma terzo, e cioè il quadro del 119 nella sua attuazione, legge n. 42, è come sapete meglio di me un quadro tutt'altro che assestato, e questo è un problema molto grosso.
  La norma costituzionale 116-ter chiede esplicitamente, quindi non è un'opzione, che il regionalismo differenziato sia realizzato nel rispetto dei princìpi del 119, cosa che a mio avviso non sta avvenendo secondo i testi che conosciamo. Sapete meglio di me, perché questa Commissione ha sollevato più volte questo problema, che il processo di attuazione del regionalismo differenziato, molto discusso in termini generali, non è possibile affrontarlo però in termini molto precisi, perché i testi non sono conosciuti, e quindi ci si trova anche come studiosi in difficoltà. Quando si fa una critica, si dice: no, quello non è il testo. Vorrei sapere qual è il testo giusto.
  Siccome, d'altra parte, abbiamo capito che si può attraverso questo processo di regionalismo differenziato arrivare a una modifica radicale dell'assetto istituzionale del nostro Paese, e molto probabilmente anche a un assetto irreversibile, in qualche modo, o comunque reversibile a costi piuttosto sostenuti, sarebbe molto bene avere la possibilità di discutere nel merito con calma, perché appunto i temi sono tanti.
  Dicevo, in particolare, che il tema principale è che il quadro del 119 non è affatto assestato. Non è assestato, ma è molto chiaro in un principio base, e cioè che deve esserci una corrispondenza tra scelte di tipologia di finanziamento e di perequazione e tipo di funzioni. Questo sistema, 119 e sua attuazione, assegna quindi ai LEP un trattamento diverso in termini di finanziamento e di perequazione rispetto a quello che riserva alle altre spese.
  Nel caso dei LEP, e solo nel caso dei LEP, sono garantiti costituzionalmente – quando dico costituzionalmente, ripeto, intendo anche nel processo attuativo – il finanziamento integrale e una perequazione secondo un sistema dei fabbisogni che possono essere anche differenziati territorialmente per garantire l'omogeneità. A soggetti diversi, infatti, si possono riconoscere fabbisogni diversi.
  Per le altre spese, invece, quelle che non sono LEP e che vengono chiamate normalmente spese autonome, il finanziamento avviene in altri termini, cioè sono contributi decentrati, ma la perequazione avviene con riferimento alla capacità fiscale, e non è neppure una perequazione integrale.
  Perché richiamo queste cose che voi sapete molto bene? A tutt'oggi questa distinzione non è stata di fatto operata. I LEP, a parte i LEA, non sono ancora stati definiti; le modalità di perequazione non sono ancora state differenziate; tutto l'impianto del decreto n. 68 non è in vigore, tant'è che il Parlamento ha rimandato l'attuazione al 2020, chiedendo anche che sia costituita una commissione per rivedere se quei princìpi sono ancora validi.
  Allora, il quadro è questo, e inserire in questo quadro una nuova tipologia di regioni, quindi una nuova tipologia di finanziamento che deve essere coerente con quel quadro, è un'operazione sicuramente molto Pag. 5rilevante, molto difficile, in un contesto in cui sono successe delle cose importanti che ci devono far riflettere. Due cose sono legate alla crisi finanziaria.
  Alcuni settori che riguardano anche i LEP sono stati soggetti a tagli rilevanti, e quindi si è posto in relazione a questo un problema di coordinamento della finanza pubblica, coordinamento che è stato assunto come materia trasversale anche della Corte costituzionale e interpretato dal potere centrale in un modo piuttosto invasivo, con dettagli rispetto all'operato degli enti decentrati.
  In questo quadro, è molto importante capire come anche le regioni differenziate, per semplificare, vengano eventualmente coinvolte da futuri eventuali tagli, future eventuali necessità di coordinamento.
  Quello che sappiamo al momento del finanziamento del regionalismo differenziato, lo sappiamo dal Titolo 1 delle bozze d'intesa del 25 febbraio 2019, l'unico atto che ha un qualche livello di ufficialità ed è pubblicato sul sito del ministero. In particolare, questo Titolo 1 si occupa delle disposizioni generali. Non sappiamo, quindi, il dettaglio delle funzioni. All'articolo 5, si disciplinano i problemi finanziari.
  Velocemente, la dimensione del problema è abbastanza ignota, perché non conosciamo le funzioni. Ci sono delle stime. Sicuramente, il punto più rilevante dal punto di vista finanziario è quello dell'istruzione. Nel testo assegnato che verrà distribuito ho messo anche un po’ di numeri sulle stime che sono state fatte.
  Sull'istruzione possiamo passare dai 4,5 miliardi della Lombardia ai 2 dell'Emilia-Romagna, anche se sappiamo che le richieste sono presumibilmente diverse. Per la Lombardia, si parlava complessivamente di un possibile trasferimento di risorse per circa 10-11 miliardi, cioè un quarto dell'attuale bilancio di quella regione.
  Il punto cruciale, però, è che, per quanto riguarda la quantificazione, il Parlamento, che deve decidere, non avrà la possibilità di sapere di quante risorse si parla, nel senso che la quantificazione è rimandata esplicitamente ai famosi DPCM con cui verrà definito il processo vero di devoluzione, che sono in quanto tali sottratti al vaglio di qualsiasi altro soggetto che non sia, appunto, la Presidenza del Consiglio. Non c'è un vaglio del Presidente della Repubblica, non c'è un vaglio della Corte costituzionale e non c'è nessun intervento da parte del Parlamento. Dal punto di vista del finanziamento, quindi, abbiamo secondo me una palese violazione delle previsioni della legge n. 42 del 2009, che all'articolo 14 dispone esplicitamente che l'assegnazione delle risorse finanziarie necessarie avvenga con la legge rafforzata, quella con cui si attribuiscono, ai sensi dell'articolo 116, terzo comma, forme e condizioni particolari di autonomia. Questo è un primo problema di grande attenzione.
  Poi ci sono degli aspetti generali. Il più rilevante è quello esplicito che dicevo: le bozze d'intesa non fanno alcun riferimento ai princìpi dell'articolo 119, se non su un punto particolare, su cui se ho tempo tornerò, e quindi non operano nessuna distinzione tra le spese che riguardano i LEP e quelle che non li riguardano. Non possiamo capire, così, come i temi di tutela dei LEP in termini di garanzia di finanziamento e di perequazione sono assolti nell'ambito di quel contesto rispetto alle altre spese.
  Ci sono due vincoli che vengono esplicitati: non devono derivare dall'operazione nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica; non ci deve essere nessun costo aggiuntivo per i cittadini delle regioni verso cui avviene la devoluzione. E, come dicevo, sono molto scarsi e problematici i riferimenti alla dinamica del finanziamento.
  Chi deciderà tutte queste cose? Le deciderà una commissione paritetica composta da soggetti nominati dagli esecutivi, e quindi questo tema delicatissimo del quanto, ma anche del come, è affidato esclusivamente a un accordo bilaterale tra esecutivi, da cui sono assolutamente esclusi, non solo le altre regioni interessate, siccome siamo in un ambito di risorse date, e quindi ovviamente c'è un problema di distribuzione tra regioni, ma anche il Parlamento e gli altri soggetti che potrebbero avere qualcosa da dire.
  È difficile capire come questo possa avvenire in un contesto in cui il coordinamento Pag. 6 della finanza pubblica, che è ovviamente coinvolto da questo tipo di scelte, è attualmente dalla Corte costituzionale riconosciuto come materia di carattere trasversale.
  In base a quali criteri? Un primo criterio indicato è quello della spesa storica: al momento dell'attribuzione delle risorse, dovremmo avere un trasferimento di risorse sulla base di quanto l'amministrazione statale spende adesso su quel territorio. È un criterio che sembrerebbe, sembra al momento in cui avviene la devoluzione, e sicuramente lo è, neutrale sotto i due profili che ricordavo: quello della distribuzione interregionale e quello della sostenibilità finanziaria.
  Ovviamente, è un criterio facile da enunciare, ma molto difficile da applicare, perché ricordo che al momento non abbiamo un dato su quanto lo Stato spende, non dico per le materie aggregate, ma per le 113 funzioni disaggregate che alcune regioni hanno chiesto, 113 l'una, 120 l'altra. Non conosco neanche i numeri, non lo sappiamo. E questa valutazione, la valutazione del quantum di questa spesa storica, ancora una volta è affidata al puro confronto tra gli esecutivi della regione interessata e del Governo. Ancora una volta, quindi, è tutto affidato ai DPCM di cui ho già detto.
  Un problema cruciale è che questo è un aspetto temporaneo, poi si dovrebbe passare ai famosi fabbisogni standard, che dovrebbero essere definiti per ogni materia, dice la norma, fatti salvi i livelli essenziali delle prestazioni. Ovviamente, questo a me pone un problema di comprensione proprio in lingua italiana.
  Dal momento che i fabbisogni standard sono la quantificazione finanziaria di quanto è necessario per l'erogazione dei LEP, io non posso scrivere che li definisco fatti salvi i livelli essenziali delle prestazioni. Sono la quantificazione finanziaria dei livelli essenziali delle prestazioni, e quindi un fabbisogno finanziario può essere definito solo con riferimento a funzioni precisamente indicate.
  Ora, siccome queste funzioni non sono indicate – come abbiamo già detto e come sapete meglio di me, i LEP ancora non sono stati definiti – siamo di fronte a un busillis non da poco.
  D'altra parte, è molto importante ricordare che la legge n. 42 definisce una precisa riserva di legge per la definizione dei livelli essenziali delle prestazioni. È vero, quindi, che le bozze d'intesa di cui parliamo affidano a una commissione in cui saranno rappresentate tutte le regioni la funzione di definire i fabbisogni, ma non può essere delegata la funzione di definire i livelli essenziali delle prestazioni, perché c'è una riserva di legge. Dal momento che, però, i livelli essenziali delle prestazioni non sono definiti, la definizione dei fabbisogni risulta alquanto oscura e problematica.
  In altri contesti questo problema è stato risolto perché si parte da un finanziamento aggregato dato, come per i comuni. In quel caso, il problema è esattamente la distribuzione tra soggetti di una risorsa aggregata data.
  Se la vogliamo impostare in questo modo, si può farlo, ma allora è evidente che il regionalismo differenziato è un problema di distribuzione interregionale tra le risorse, e quindi le preoccupazioni che le regioni più deboli stanno manifestando avrebbero in questo un fondamento molto rilevante.
  Non si scappa, non c'è un'altra possibilità. O definiamo dei livelli del tipo bottom-up, e quindi ci mettiamo anche le risorse adeguate, adesso palesemente insufficienti, e quindi abbiamo un problema di finanza pubblica; o manteniamo un finanziamento aggregato e abbiamo un problema, che si deve affrontare, non dico che non si possa affrontarlo. Non si può dire, però, come dicono i nostri governatori, tutti quelli che sono passati qua, che non porteranno via neanche un euro. Non esiste in natura, è una cosa che non ammette quel tipo di soluzione.
  Questi temi non vengono affrontati. Posso avere le mie idee, ce le ho in modo molto esplicito e chiaro, ma il problema non è quello che penso io. Il problema è che questo tema va affrontato in modo assolutamente esplicito. Soprattutto, bisognerebbe chiarire che molte delle funzioni di Pag. 7cui si parla per la devoluzione non sono LEP, e quindi parlare di fabbisogni finanziari con riferimento a funzioni che non rientrano nei LEP significa andare per princìpi che non hanno niente a che vedere con la legge n. 42. Quelli, infatti, sono governati da altri princìpi, non dal principio del fabbisogno, ma semmai dal principio delle capacità fiscali.
  Il problema che più preoccupa, però, e lo dico velocemente perché so che l'avete già ampiamente trattato, riguarda il tema di che cosa succede se nel giro di tre anni, dopo l'emanazione dei DPCM di affidamento delle nuove risorse, questi LEP non sono stati definiti.
  In quel caso, sempre le bozze d'intesa ci dicono che le risorse da attribuire alle regioni non possono essere inferiori al valore medio nazionale pro capite della spesa statale per l'esercizio delle stesse.
  Allora, il valore medio pro capite non può essere preso come punto di riferimento per una distribuzione legata a un principio del fabbisogno, perché presupporrebbe omogeneità totale nei fabbisogni, cosa che è assolutamente e palesemente sbagliata. L'unico esempio che abbiamo davanti, plastico, è quello della sanità: nessuno distribuisce la sanità su un pro capite netto. C'è quantomeno un aggiustamento significativo per quanto riguarda l'anzianità della popolazione. Mi sembra banale, dal momento che la spesa per le persone anziane è molto più elevata.
  Applicare questo criterio, ad esempio nell'istruzione, senza prevedere la differenziazione per età, quanti bimbi ci sono in una regione rispetto all'altra, la necessità di fare classi più piccole perché ci sono zone montane, la mancanza di altri servizi ausiliari offerti dai soggetti locali, l'anzianità di servizio del personale occupato e temi di questo tipo, significherebbe, come si dice, fare parti uguali tra disuguali. È, quindi, un tema, questo, assolutamente sensibile.
  Perché sottolineo questo tema? Come ha spiegato in modo molto evidente il Ministro Tria in audizione presso questa Commissione, è chiaro che prevedere che si risolva entro tre anni il tema dei fabbisogni, tra l'altro su materie che non sono, come dicevo, LEP, è praticamente illusorio, e quindi questo diventa il criterio determinante.
  Attenzione, però: da come è scritto, alle regioni non dovrebbe essere attribuito meno della media. Se, quindi, hanno già preso di più, non restituiscono. Allora, siccome c'è un vincolo di finanza aggregata, se hanno preso di meno, prendono dalle altre regioni; se hanno preso di più, non restituiscono, e quindi i due problemi emergono da tutte e due le parti, sia che facciamo un'ipotesi sia l'altra. Bisogna affrontare questi temi, non dire che non c'è un danno o un vantaggio per l'una o l'altra regione. Semplicemente, non è vero.
  L'altro tema riguarda le fonti di finanziamento. Le fonti di finanziamento sono indicate in maniera anche abbastanza standard in aliquote di riserva o compartecipazione al gettito maturato sul territorio, e sono scelte, anche queste, dalla famosa commissione dei nove più nove.
  Attenzione, anche questo è un problema molto delicato. Ovviamente, la scelta di compartecipazioni o di aliquote di riserva è centrale per le politiche di coordinamento della finanza pubblica e non può essere delegata a una commissione composta dai rappresentanti di soli due esecutivi.
  A parte questo, il tema fondamentale è che scegliere questo tipo di finanziamento per i livelli essenziali delle prestazioni significa mettere insieme due dinamiche completamente diverse: quella della compartecipazione affidata e quella dei bisogni che devono essere integralmente finanziati secondo l'articolo 119 della Costituzione.
  Questo mi porta al punto cruciale, e anche finale, di che cosa succede nel tempo. Quest'aspetto è effettivamente quello su cui ci sono più perplessità, perché non vengono affrontati temi cruciali.
  Il tema cruciale numero uno è cosa succede nel caso in cui si ponga un problema di compatibilità macroeconomica. L'abbiamo visto, quindi non parliamo di cose fantasiose, pochi anni fa. Nel campo dell'istruzione, ad esempio, tra il 2009 e il 2012, la spesa centrale dell'amministrazione in questo campo è passata da circa 72 a 65 miliardi, quindi si è ridotta di 7 Pag. 8miliardi. Questo taglio è stato distribuito tra le regioni secondo i criteri della legge statale, della modalità di azione dell'amministrazione statale.
  Un domani che questa funzione sia stata devoluta, questi eventuali tagli, che, se sono stati fatti, potrebbero essere ripetuti, come coinvolgono anche le regioni che sono state oggetto di devoluzione? Questo è un tema assolutamente fondamentale, trattato in un modo molto a salvaguardia delle regioni destinatarie della devoluzione, come vi dirò tra un secondo, e poi mi avvierò anche a concludere.
  Sulle altre spese la cosa sarebbe anche più normale. Sulle spese che non sono LEP io non avrei nessuna preoccupazione a dire che si può definire una compartecipazione e poi vada come va. Se ti va male, nel senso che le tue esigenze crescono di più, la tua autonomia ti richiederà di trovare uno sforzo fiscale dai tuoi cittadini; viceversa, se ti va bene, perché sei stato più efficiente, perché le cose vanno bene, da questo punto di vista non mi preoccupa tanto, è più coerente col 119.
  Quello che mi preoccupa, invece, in modo fondamentale è quello che avviene sui LEP. Su questo le bozze d'intesa sono diverse, ma non sotto i profili che ho richiamato. Si differenziano per alcune cose che io considero dal punto di vista del finanziamento assolutamente rilevanti. Nel nucleo sono tutte e tre uguali, si preoccupano di garantire praticamente che tutti i vantaggi che possono derivare dalla dinamica del gettito siano goduti dalle regioni ad autonomia differenziata e tutti i rischi restino, invece, a carico delle altre regioni. Perché lo dico?
  Due commi, il 4 e il 6, dell'articolo 5 sono molto espliciti. Il comma 4 stabilisce che l'eventuale aumento di gettito maturato nel territorio della regione dei tributi compartecipati e così via, successivamente rispetto a quanto venga riconosciuto in applicazione dei fabbisogni standard, è di competenza della regione: ti ho attributo un gettito; se prende di più, ti resta. Il comma 6 dispone, invece, che ogni due anni ci sia una valutazione dell'adeguatezza delle risorse che hai avuto: se ti ho dato meno, integro. È praticamente un criterio totalmente a garanzia e tutela delle regioni oggetto della devoluzione.
  Potremmo trovarci, quindi, nella situazione in cui abbiamo, come vi è stato detto anche da altri, un'evoluzione positiva del gettito, e questa viene mantenuta. È esattamente quello che sarebbe successo se si fosse finanziata l'istruzione in questo modo negli anni passati. L'IVA, infatti, che è sostanzialmente l'imposta che molto probabilmente verrebbe compartecipata, ha avuto una dinamica superiore rispetto a quella avuta dalla spesa statale per l'istruzione. In questo caso, ci sarebbe stata un'appropriazione di risorse. Se si fosse verificato il caso opposto, ci sarebbe stato un rimedio.
  Attenzione, noi abbiamo un unico esempio di finanziamento di LEP, che sono i LEA sanitari, decentrati, ma lì la logica è diversa. È vero, infatti, che c'è una compartecipazione IVA, ma viene utilizzata per definire il finanziamento dei LEA che poi vengono gestiti, organizzati, offerti, in modo anche diverso, dalle regioni sui loro territori, sfruttando anche una diversità di efficienza, però il finanziamento è definito in modo aggregato e ripartito secondo criteri più o meno condivisi. C'è discussione, ma sono condivisi e definiti comunque insieme.
  Non c'è, quindi, un'attribuzione alle regioni A, B e C del gettito maturato sul loro territorio. Questo è il problema, per il finanziamento dei LEP, ripeto, non per il finanziamento delle funzioni che LEP non sono, ma purtroppo questa distinzione non è operata e sembra che non ce ne sia consapevolezza. Si tratta della differenza che c'è rispetto al prospetto che vediamo dalle bozze d'intesa.
  Il punto fondamentale è che, se vuoi finanziare dei livelli essenziali, devi garantire un finanziamento totale, uguale, omogeneo, secondo criteri che possono essere anche differenziati per tener conto dei diversi bisogni, a tutte le regioni. Quest'aspetto non c'è. Ci sono elementi di tutela che vanno in un'unica direzione, e cioè a tutela delle tre regioni oggetto di devoluzione.
  Ovviamente, se volessimo estendere questo stesso progetto, non solo alle tre regioni, Pag. 9 ma anche alle altre undici che hanno fatto richiesta di differenziazione, ci troveremmo in un'evidente situazione in cui la finanza pubblica esplode. Questi temi devono essere portati con forza alla discussione e, io credo, risolti anche per dare piede a un'ipotesi di differenziazione, a cui non sono assolutamente contraria.
  Ci sono altri due aspetti che non tratto, perché penso di avere più che esaurito il tema, ma che troverete in questa breve memoria, che sono molto importanti. Uno riguarda il finanziamento degli investimenti, anche lì, una tutela molto seria che dovrebbe essere data a tutte le regioni, ma che, se data solo a tre, va per forza a scapito delle altre. L'altro è il tema ignorato, e non capisco perché, di che cosa succede se andiamo avanti con il regionalismo differenziato ai comuni che sono dentro queste regioni.
  È vero, infatti, che si garantisce che verranno adeguatamente finanziati per le risorse a esse devoluti, ma tutto il tema della perequazione, e soprattutto della partecipazione di questi comuni alla perequazione complessiva dei comuni delle regioni ordinarie, non è affrontato, in un Paese in cui, come sappiamo, i comuni delle regioni ad autonomia speciale sono al momento fuori dalla perequazione. Non è sicuramente questa la via in cui si può andare. Il tema va affrontato, e va affrontato tecnicamente. Ripeto che andrebbe affrontato prima, perché gli strumenti che stiamo mettendo in atto sono privi di un controllo degli organismi che generalmente dovrebbero esercitarlo, in primo luogo del Parlamento, e sono in larga parte irreversibili.

  PRESIDENTE. Molte grazie, professoressa.
  Do ora la parola agli onorevoli colleghi che intendano intervenire per porre quesiti o formulare osservazioni.

  VINCENZO PRESUTTO. Buongiorno, professoressa. La domanda è apparentemente banale, ma forse credo una delle più critiche in assoluto.
  Lei viene anche da una precedente esperienza in questa Bicamerale, se ben ricordo. Oggi, ci sarà un importante incontro in Presidenza del Consiglio proprio per valutare il tema del federalismo. Sulla base della sua esperienza, sia professionale sia politica, quali sono stati gli elementi che hanno causato un rallentamento così evidente e drastico, portando a un'accelerazione attuale dettata anche da esigenze finanziarie del Paese, che si sono poi aggravate, soprattutto relativamente alle tre regioni (Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna), in assoluto le tre più ricche rispetto al resto del Paese? Questo ha portato i tre governatori a rispondere a delle esigenze territoriali legittime. Mettendosi dal punto di vista dei cittadini di quei territori, effettivamente viene voglia di dare un'accelerata.
  La domanda è questa: secondo il suo punto di vista sia politico sia professionale, quali sono state le ragioni che hanno rallentato in maniera così macroscopica la procedura del federalismo sia da un punto di vista sia costituzionale, previsto nel 2001, sia rispetto alla stessa legge Calderoli, quella del 2009, laddove le condizioni finanziarie del Paese erano nettamente migliori rispetto a quelle attuali?

  ROGER DE MENECH. Se posso permettermi, bentornata in Commissione, e grazie per la disponibilità. Provo a dare una mia interpretazione sul lavoro degli ultimi cinque anni.
  L'applicazione del 116 è rimasta sullo sfondo della politica, pur venendo dai territori spinte molto forti, che non sono di questi ultimi giorni, ma sono spinte storiche, credo anche e soprattutto per molti dei motivi che ha elencato nella sua relazione, proprio perché la complessità della materia, che di fatto non è la semplice applicazione di una norma costituzionale, ma una completa rimodulazione dell'articolazione dello Stato, ha sempre spaventato.
  Il nocciolo è questo. Più volte, lei ha citato la necessità di avere contezza preventiva di quello che succederà dopo. Io credo, invece, e questa è la questione, che dobbiamo costruire una norma all'interno delle intese, un castello di norme che regolino e inseriscano delle clausole di salvaguardia in entrambi i lati, verso le regioni Pag. 10 che chiedono l'autonomia e verso lo Stato, per garantire gli equilibri della finanza pubblica, che consentano tranquillamente poi di «esplodere» l'autonomia in un tempo medio-lungo.
  Mi pare obiettivamente complicato, oggi, addivenire a un'intesa esaustiva al 100 per cento di tutte le funzioni e le materie. Mi pare che, se andiamo verso questa strada, sarà una strada che probabilmente spaventa il legislatore, esattamente come ha rallentato il processo dal 2001 a oggi.
  Secondo lei, è possibile costruire seriamente un castello di norme che consentano di garantire l'equilibrio della finanza pubblica e il finanziamento dei livelli delle regioni che chiedono l'autonomia? Vale anche per il resto delle regioni, se l'obiettivo è quello di mantenere la finanza pubblica.
  Ho sentito, poi, ciò che ha accennato al termine della sua relazione, e che io ritengo importante quanto la prima osservazione: come riusciamo a costruire dentro le intese anche un giusto rapporto tra le nuove regioni differenziate e le autonomie locali, quindi a valle? Un altro dei grandi temi, infatti, è la regolazione dei rapporti tra le regioni che hanno una potenza di funzione maggiorata nel futuro e gli enti locali, province e comuni, che sono all'interno di queste tre regioni. Anche qui c'è un grosso rischio. Se non scriviamo nulla nelle intese, ci possono essere regioni che accentrano e concentrano tutto nel livello regionale, e le lasciamo nella libertà.
  Lei ha citato il valore medio pro capite, che è vero, può creare – è un tema enorme su cui dovremmo riflettere tutti, e trovare una soluzione tecnica a quella clausola del che cosa succede dopo i tre anni se non riusciamo a costruire le norme di riferimento per costi e fabbisogni standard e livelli essenziali delle prestazioni – delle sperequazioni tra regioni, ma anche all'interno dei territori. Lo ha detto bene lei. Non viene preso mai a riferimento semplicemente perché gestire una scuola di montagna, con classi che ovviamente vedono una presenza minore di studenti, ha però un costo medio per studente molto più alto. Mi pare banale. E vale per le strade e per tutti i servizi nelle zone diverse del nostro Paese.
  Il nocciolo è: secondo lei, è possibile costruire seriamente delle intese che possono garantire e dare il la, sullo stile di quello che è stato fatto nel passato, quando si è messo in campo delle riforme? Già nel passato, abbiamo devoluto funzioni, materie e immobili agli enti locali, e lo abbiamo fatto creando un castello di norme e poi esplodendole nel corso del tempo. Diversamente, la vedo dura riuscire a portare a termine delle intese esaustive.

  PRESIDENTE. Aggiungo anch'io qualcosa. Professoressa, c'è un tema che lei ha posto, che è quello della partecipazione delle altre regioni ai processi finanziari.
  Nel caso del riparto del fondo sanitario, lei sa e ha riferito che sostanzialmente un'intesa, per quanto particolarmente delicata e talvolta anche contestata, più o meno c'è. Mi pare, viceversa, che in quest'azione di devoluzione l'intesa non sia nemmeno prevista, non sia nemmeno ipotizzata.
  Pensa che, viceversa, debba essere strutturata anche dal punto di vista normativo?
  Vengo ad altre due questioni. Una riguarda la modificabilità dell'intesa. Anche in ragione di quanto il collega De Menech ci suggeriva, lei pensa che debba essere definita una condizione di modificabilità che consenta anche una sorta di valutazione in progress di ciò che accade, soprattutto dal punto di vista dei rilievi che ha fatto sul fronte finanziario?
  Infine, obbligare al valore medio dopo i tre anni non può essere esso un elemento induttivo a non raggiungere mai l'ipotesi dei fabbisogni standard e dei LEP proprio per quelle regioni che sono al di sotto di quel valore medio e che, ovviamente, riceverebbero maggiori risorse nel caso in cui nei tre anni non si addivenisse a una sostanziale definizione di fabbisogni e LEP?
  Do la parola alla professoressa Guerra per la replica.

  MARIA CECILIA GUERRA, professoressa di Scienza delle Finanze presso l'Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia. Grazie, sono tutte domande molto impegnative. Sono anche molto collegate tra loro, quindi magari l'ordine non sarà perfetto. Pag. 11
  Partirei dalla prima domanda, perché da lì poi si capiscono altri ragionamenti e anche la mia posizione.
  Quello che mi ha stupito nella mia partecipazione a questa Commissione in qualità di senatrice nella Legislatura precedente è il fatto che ci fosse sempre in questa Commissione praticamente un'unanimità sui temi che abbiamo affrontato, perché c'era una consapevolezza di problemi reali che non hanno ancora trovato nel corso degli anni, paradossalmente, delle risposte. Chi si occupa soprattutto di comuni – in quel caso, i temi che abbiamo affrontato erano soprattutto legati a quello – vede dei paradossi e si dice: ma come mai non li aggrediamo nei termini dovuti?
  Probabilmente per un bias che deriva dal fatto che sono un professore di scienza delle finanze, penso che quello del finanziamento sia un elemento cruciale. Che cosa è successo, secondo me, ma non solo secondo me?
  Noi avevamo quest'impianto partito con molto ritardo, anche perché è sempre difficile che un Governo che non ha sponsorizzato una riforma e che viene dopo se ne faccia carico. C'è anche un po’ di contraddizioni in questo, non c'è continuità di orientamento politico, e quindi ci possono essere anche problematiche di questo tipo.
  Una volta che si era partiti, però, con la legge del 2009, legge molto discussa in questa Commissione, che all'epoca diede un grande contributo, che cos'è successo? I decreti attuativi – siamo nel 2010-2011 – sono in vigore, non tutti, come sappiamo, in un momento in cui però era ormai esplosa la crisi economica. E i due processi non sono compatibili. Non puoi mettere in piedi un ordinato finanziamento degli enti decentrati in un momento in cui hai uno straordinario intervento di consolidamento dei conti pubblici. E questo secondo ha prevalso assolutamente sul primo. È giusta, quindi, la proposta che il Parlamento fa di rivedere anche i princìpi col nuovo assestamento, che non è veramente un assestamento.
  Se fossi un costituzionalista, direi che dal punto di vista del disegno delle competenze c'è anche questo problema, che ovviamente non ho esaminato. Anche l'articolo 117, però, ha posto un enorme problema di interpretazione. La Corte costituzionale è intervenuta in via di supplenza con questa definizione delle materie trasversali, interpretando i princìpi che nelle materie concorrenti avrebbe dovuto enucleare la legge dello Stato. Questo è un altro problema molto serio, la mancanza di questi princìpi di riferimento.
  Quello che è successo, sostanzialmente, è che ci si è incontrati, e lo vediamo benissimo se guardiamo al tema dei fabbisogni standard per i comuni, che sono stati costruiti anche con un lavoro assolutamente apprezzabile in termini di miglioramento delle nostre conoscenze, ma dovendo affrontare un tema che non è di vera definizione di fabbisogni standard, nel senso che dobbiamo avere il 30 per cento dei bimbi che vanno agli asili nido, costa tanto, ti do tanto. Non viene fatto così, sarebbe troppo facile. Viene fatto dicendo: ho questi piccoli soldi, li devo distribuire, e quindi uso i fabbisogni come criteri di riparto di un finanziamento aggregato dato insufficiente.
  Quando sono dentro questa scatola, allora il tema diventa inevitabilmente di redistribuzione tra soggetti, cosa che ovviamente in termini di perequazione andrebbe anche bene. Siccome, però, noi siamo anche un Paese caratterizzato da un dualismo territoriale molto marcato, non è andata così. Ovviamente, alle regioni più avanti, ai comuni delle regioni più avanzate, non è che si possa imporre di chiudere degli asili nido per permettere anche agli altri di averne. Allo stesso tempo, alle altre non si può dire: siccome già non ce li hai, non ti do i soldi per metterli su. Questo è successo.
  È successo che il disegno dei fabbisogni è andato sempre più a conferma della spesa storica, anche sulla base della contrattazione con le rappresentanze dei comuni. L'ANCI ha fatto un lavoro costante per evitare che da un anno all'altro ci fossero sbalzi troppo forti nel finanziamento degli enti locali, ma è un lavoro sindacale comprensibile, perché effettivamente in un contesto in cui le risorse sono Pag. 12così strette è molto difficile da gestire qualcosa di diverso. Il tema che vedo, quindi, come inibente di quel processo è proprio il nodo della redistribuzione tra territori.
  Come si può affrontarlo? Non certo affidandolo a un meccanismo di perequazione ordinario. Noi abbiamo anche il comma quinto dell'articolo 119, che ci permette di utilizzare dei finanziamenti extra per ridurre il divario di base, che è a mio avviso di tipo infrastrutturale. Potrei anche darvi i soldi per gli asili nido, ma bisogna avere anche le strutture per poterli erogare.
  Dovremmo affrontare, come fanno altrove – ho studiato un po’ di federalismo, anche per esempio in Australia, dove le chiamano disabilities – le «disabilità territoriali». Su quelle ci sono dei finanziamenti appositi che non entrano nella perequazione ordinaria, che può assestare delle differenze minime, ma non può capovolgere un sistema di dualismo così forte come quello che noi abbiamo, perché semplicemente non lo si regge politicamente.
  Questo nodo, secondo me, va affrontato. E non mi sembra che lo abbiamo fatto. Questo è il motivo per cui secondo me siamo così indietro.
  Ed è il motivo che per altri versi, anche se non è la stessa cosa parlare di comuni e di regioni, stiamo incontrando adesso. È, quindi, un tema che va trattato con cautela, sennò effettivamente potremmo arrivare a uno sgretolamento del nostro sistema istituzionale. Io sono molto preoccupata da questo punto di vista.
  Per quanto riguarda la domanda di De Menech, credo che la questione dell'autonomia sia molto seria. Non sono contro a priori. Credo che il tipo di richiesta così ampia, per quello che se ne sa, delle 113, 120 funzioni, sia un modo sbagliato di interpretare il 116-ter, non in linea con quello che la norma dice. Evidentemente, la norma è finalizzata ad andare incontro a specificità territoriali, che non possono coinvolgere un numero così rilevante di materie.
  Credo che molto del lavoro si potrebbe fare, si dovrebbe fare secondo me più seriamente utilizzando, non il 116-ter, in questo momento, ma il 118.
  Se andate a vedere, larghissima parte di quelle funzioni per le quali si richiede una maggiore autonomia sono di tipo amministrativo, e già oggi il 118, ispirato non solo al criterio della sussidiarietà, ma anche a quello della differenziazione, permette di attribuire con legge statale, e quindi non con una roba che poi non si può più toccare per la vita, a regioni diverse funzioni amministrative diverse. È assolutamente compatibile con il quadro costituzionale. Lo dicono costituzionalisti di fama o amministrativisti di fama, come Cammelli, come Bin, non è che me lo sia inventato io.
  In quel modo, che cosa avremmo?
  Ci sono delle regioni, e parlo per l'Emilia-Romagna, che hanno fatto già anche delle sperimentazioni in alcuni settori, anche in quello delicatissimo dell'istruzione, che chiedono di poter gestire degli elementi di organizzazione e di gestione, come in larga parte è quello che viene richiesto. Puoi affidargliele per un periodo di tempo, poi verifichi, monitori, stai dentro una regolazione che tiene insieme tutto il Paese, non c'è niente di male. Le risorse, ovviamente, sono quelle che comunque daresti a quella regione in altra forma.
  Il conflitto interregionale, secondo me assolutamente da evitare, potrebbe essere evitato, e in più avresti la possibilità di sfruttare quel tipo di esperienza davvero come un laboratorio di applicazione, di buona pratica che può essere estesa anche ad altre regioni. Puoi arrivare anche a delle devoluzioni del tipo 116-ter, ma a quel punto devi avere un quadro anche costituzionale assestato delle materie.
  Attenzione, quello che succede è che, se anche si volesse procedere con una specie di forzatura, non voglio dire golpe, non è che abbiamo risolto il problema anche lì solo con un conflitto enorme di tipo distributivo. Se la Corte costituzionale procede come ha sempre proceduto, ha degli strumenti per inficiare, per mettere in mora le leggi regionali che venissero poi attuate sulla base di quella devoluzione richiamandoci ai princìpi di trasversalità di materie Pag. 13fondamentali, come i LEP, come il coordinamento della finanza pubblica. Quelli sono trasversali, intervengono anche sulle leggi regionali che vengono fatte in attuazione di un'eventuale devoluzione, quindi possono benissimo bloccare l'attività.
  In secondo luogo, siccome i princìpi che regolano le materie concorrenti non sono ancora stati elaborati e in questo la Corte costituzionale ha svolto un ruolo di supplenza, continuerà a svolgerlo, quindi potrà dire «sono in contrasto con». Rischiamo di avere un meccanismo che, anche dal punto di vista di chi ne è il paladino, non porta al risultato che lui vuole, ma a un risultato di ulteriore crescita enorme di un contenzioso costituzionale in un momento in cui un po’ di luce si cominciava a vedere. Lo dimostra il dibattito che c'è stato nella proposta di riforma costituzionale 2016, che entrava in temi che erano veri allora e sono veri anche adesso, non sono stati risolti.
  Io credo che ci sarebbero altre strade più coi piedi per terra, praticabili da domani, non da tra cent'anni, che riguardano l'articolo 118. Nella fase in cui si sperimenta questo tipo di differenziazione, che può riguardare un insieme anche significativo di funzioni amministrative, ovviamente si deve operare per cominciare a sistemare le altre cose, che sono secondo me invece necessarie, a partire dal completamento dell'articolo 119.
  Valutiamo se la strada della legge n. 42 e decreti attuativi è ancora valida, sennò mettiamo un po’ in regola quella cosa. Ho sentito nell'audizione fatta qua il presidente della mia regione, Bonaccini, dire con forza una cosa che io sottoscriverei immediatamente, e cioè che abbiamo bisogno di risorse certe per gli investimenti, perché abbiamo un'esigenza di programmazione. Questa, però, non è un'esigenza dell'Emilia-Romagna. È un'esigenza di tutte le regioni.
  Nella stessa audizione, c'era di fianco a lui Caparini, che ha fatto un esempio illuminante del problema e delle svariate soluzioni. Ha detto che avevano avuto 200-300 milioni per il TPL, per il trasporto pubblico locale, che a loro servivano per far uscire gli autobus, per esempio, per il trasporto alunni. Successivamente minacciavano di tagliarli con l'assestamento, poi sembra, se ho capito bene, che la somma sia stata salvata, ma nel possibile assestamento i famosi 2 miliardi accantonati per vedere come andavano intanto i conti pubblici avevano dentro anche questi milioni. E diceva: non è che adesso me li tagliate?
  Capite, però, che quel problema, che è giustissimo – hai programmato delle cose, e poi ti tagliano le risorse – non può riguardare solo la sua regione. Questo è il punto fondamentale. Quelle cose, dobbiamo metterle in fila. Bisogna che ci sia tra Stato e regioni un rapporto di leale collaborazione – uso quest'espressione, anche se impropriamente – anche sul finanziamento, e che quindi non si vada a fondi spot per gli investimenti.
  Nella consapevolezza che abbiamo dei vincoli di finanza pubblica, si stabilisca un percorso, in modo che saranno pochi, ma saranno pochi, maledetti e subito, cioè so quali sono, posso programmarli. Questa, però, deve essere portata avanti come esigenza collettiva, non come esigenza individuale.
  Si sommano nelle istanze delle regioni delle cose giuste con delle risposte sbagliate, delle istanze giuste che potrebbero essere risolte con strumenti già disponibili meno drastici, più praticabili e che mettono tutto dentro una cornice di regolazione collettiva.
  Il tema fondamentale, ripeto, è ancora distinguere tra LEP e non LEP. Nel caso dei LEP, il finanziamento proposto non va comunque bene, perché non puoi avere una dinamica che non riesci a seguire. Io non vorrei avere la definizione alla virgola, non è possibile. È ovvio che non intendo questo. Non vanno bene, però, neanche il vuoto più assoluto e regole che mi portino in un'unica direzione, cioè di garanzia e tutela solo per alcuni soggetti e non per altri, sennò rientro nella logica del residuo fiscale, per cui tu mi dai una compartecipazione al gettito che maturo nel mio territorio, io so che sono una regione più dinamica, tra pochi anni avrò un gettito in eccedenza e potrò dare di più ai miei cittadini. Pag. 14
  Questo è il rischio della logica che c'è dietro adesso, ed è una logica che la Corte costituzionale ha già dichiarato incostituzionale. Sui residui fiscali, infatti, la Corte costituzionale si è pronunciata. Ha detto esplicitamente che i residui fiscali non possono essere un principio in linea con il 119, quindi non dobbiamo seguire quella linea.
  Io credo che la partecipazione di tutte le regioni alla discussione debba riguardare soprattutto i livelli essenziali delle prestazioni. In quel caso, se si arriverà mai a un qualche tipo di devoluzione, io spero più amministrativa che legislativa, che praticamente non è possibile, perché c'è la riserva di legge statale, si possa seguire il modello sanità, che, come ho già detto prima, prevede sì una compartecipazione, ma di tipo aggregato, e una ripartizione condivisa.
  Poi c'è la battaglia tra regioni e Stato per sapere se quel finanziamento è adeguato, se deve essere migliorato. Questa è una battaglia che rimarrà in termini probabilmente diversi, ma rimarrà sempre, però non c'è il rischio di fughe, di differenziazioni ulteriori, cosa di cui non abbiamo bisogno, perché già oggi a finanziamento guidato dai LEA i differenziali tra regioni, pur essendosi ridotti, sono ancora molto elevati.
  Voi tutti sapete, poi, che i LEA non sono stati introdotti in sanità tanto come meccanismo per la garanzia dei livelli essenziali delle prestazioni, ma come meccanismo di regolazione del finanziamento. I due temi sono da sempre strettamente collegati. Io vedrei bene un finanziamento di quel tipo: lascia la possibilità di monitoraggio, l'intervento ex art. 120 che io sponsorizzo, l'intervento sostitutivo in caso di inadempienza delle regioni, che non è mai stato utilizzato, ma che invece è uno strumento che c'è, e non lega invece al territorio, che è più nella logica del residuo fiscale. Io non lo metterei mai come finanziamento dei livelli essenziali.
  Diverso, ripeto, è il discorso di una moderata devoluzione di funzioni, moderata nel senso di monitorata e costruita nel tempo sulla base di motivate ragioni, di esigenze o competenze diverse, cosa che adesso manca assolutamente. Non c'è, infatti, se non in un'enunciazione generale di maggiore efficienza o cose analoghe, una dimostrata maggiore competenza o efficienza nelle singole materie oggetto di richiesta.
  L'altro elemento della sua domanda riguardava le autonomie locali. Credo che sia un elemento fondamentale. Rischiamo veramente molto in quel campo. I comuni, che sappiamo come il soggetto più vicino ai cittadini, sono già in una situazione di grande sofferenza e difficoltà nella gestione delle proprie risorse. Io credo che la sofferenza in questo momento sia maggiore a livello comunale che non a livello regionale.
  Credo che non basti risolvere questo tema dicendo che verranno date comunque le risorse finanziarie sufficienti. Occorre inquadrarlo proprio strettamente nella considerazione che questi comuni sono soggetti che hanno un legame diretto anche con lo Stato, non solo con la regione. Noi non siamo un sistema che abbia spinto il regionalismo fino al punto di considerare gli enti locali come nell'orbita esclusivamente della regione, c'è una relazione diretta che i nostri comuni difendono con forza, ed è una peculiarità del sistema istituzionale italiano, con lo Stato.
  Avere due padroni, che ovviamente non è il termine corretto, ma per intenderci, e poi dover andare capire qual è il riflesso sulle proprie risorse finanziarie – la prendo sempre da quel punto di vista, che ovviamente non è l'unico – è un tema su cui bisogna fare qualche riflessione. A me sembra che proprio questo sia un tema assolutamente ignorato.
  Per quanto riguarda la modificabilità dell'intesa, di fatto ho risposto implicitamente rispondendo all'onorevole De Menech. Io penso che, appunto, ci siano strumenti, come l'attuazione del 118, che permettono di affrontare questo termine con più serenità.
  Ho parlato solo di devoluzione di risorse come fossero risorse finanziarie, ma dietro ci sono anche risorse umane, strumentali. Questi passaggi vanno gestiti con molta attenzione e hanno in sé qualcosa di irreversibile. Da questo punto di vista, si possono usare strumenti meno drastici. Credo, Pag. 15però, anche che il tema della modificabilità o meno dell'intesa debba essere esplicitato.
  Nel preaccordo dell'anno precedente c'era questa durata di dieci anni. Qui non è indicato. Io credo che, andando in un territorio così ignoto e con tutte queste difficoltà, quantomeno la garanzia di una verifica, di un monitoraggio secondo certi parametri, debba essere assolutamente prevista. Diversamente, ci mettiamo nella situazione in cui creiamo davvero un tertium genus di regioni, che sono in una posizione anche diversa, tendono e aspirano a essere regioni a statuto speciale, perché il tipo di richiesta è questo. Ed è grave che sia così, perché allora sarebbe una modifica del 117, che viene presentata come utilizzo del 116-ter, rilievo fatto ad esempio dal DAGL, non da me.
  Avremmo, appunto, una trasformazione di questo tipo senza avere neanche quel po’ di potere che comunque abbiamo per intervenire sulle regioni a statuto speciale, perché di fatto non c'è lo strumento che non sia un'intesa.
  Vengo così all'ultimo punto che toccava lei, presidente. Io sono talmente d'accordo con lei che ho anche scritto le cose che lei ha detto in un articolo che verrà pubblicato tra poco. Ho proprio detto: attenzione a questo riferimento al valore medio nel caso in cui non vengano attuati i fabbisogni standard, in un contesto in cui è evidente che il «bottino», cioè l'elemento di risorse più rilevanti, è nell'istruzione, dove le tre regioni richiedenti hanno un valore medio pro capite più basso; quindi passare a quel criterio comporterebbe per loro un passaggio significativo di risorse, e nei fatti, al di là delle intenzioni, costituisce un incentivo a non essere collaborativi nella definizione delle intese.
  Anche questo, quindi, è un tema che andrebbe assolutamente posto, ma credo che il tema del valore medio sia proprio sbagliato concettualmente, non ha nessun fondamento scientifico. Tanto vale rimanere sulla spesa storica, che comunque, soprattutto nel caso dei LEP e nel caso dell'istruzione, ha un fondamento in più, perché dei criteri di omogeneità si sono comunque andati definendo.
  Non dico che la spesa per l'istruzione adesso sia distribuita nel territorio regionale in un modo assolutamente inaccettabile. Preferirei, suggerirei più la spesa storica, che è un criterio di spesa media, che non è assolutamente legato a niente.

  PRESIDENTE. Grazie, professoressa, per il suo intervento.
  Dispongo che la documentazione prodotta sia allegata al resoconto stenografico della seduta odierna e dichiaro conclusa l'audizione.

  La seduta termina alle 9.30.

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