XVIII Legislatura

Commissione parlamentare per l'attuazione del federalismo fiscale

Resoconto stenografico



Seduta n. 14 di Mercoledì 12 giugno 2019

INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:
Invernizzi Cristian , Presidente ... 3 

Audizione del Prof. Alessandro Petretto, Professore emerito di economia pubblica presso l'Università degli Studi di Firenze, del Prof. Alberto Lucarelli, Professore di diritto costituzionale presso l'Università degli Studi di Napoli «Federico II» e del Prof. Enzo Balboni, Professore emerito di istituzioni di diritto pubblico presso l'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, su attuazione e prospettive del federalismo fiscale e sulle procedure in atto per la definizione delle intese ai sensi dell'articolo 116, terzo comma, della Costituzione:
Invernizzi Cristian , Presidente ... 3 
Petretto Alessandro , Professore emerito di economia pubblica presso l'Università degli Studi di Firenze ... 3 
Invernizzi Cristian , Presidente ... 7 
Balboni Enzo , Professore emerito di istituzioni di diritto pubblico presso l'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano ... 7 
Invernizzi Cristian , Presidente ... 10 
Lucarelli Alberto , Professore di diritto costituzionale presso l'Università degli Studi di Napoli «Federico II» ... 10 
Invernizzi Cristian , Presidente ... 12 
Russo Paolo (FI)  ... 12 
De Menech Roger (PD)  ... 12 
Fragomeli Gian Mario (PD)  ... 13 
Invernizzi Cristian , Presidente ... 13 
Petretto Alessandro , Professore emerito di economia pubblica presso l'Università degli Studi di Firenze ... 13 
Invernizzi Cristian , Presidente ... 14 
Russo Paolo (FI)  ... 14 
Balboni Enzo , Professore emerito di istituzioni di diritto pubblico presso l'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano ... 14 
Lucarelli Alberto , Professore di diritto costituzionale presso l'Università degli Studi di Napoli «Federico II» ... 15 
Invernizzi Cristian , Presidente ... 17 

ALLEGATO: Documentazione consegnata dagli auditi ... 18

Testo del resoconto stenografico

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE
CRISTIAN INVERNIZZI

  La seduta comincia alle 8.30.

Sulla pubblicità dei lavori.

  PRESIDENTE. Avverto che la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso la trasmissione televisiva sul canale satellitare della Camera dei deputati e la trasmissione diretta sulla web-TV della Camera dei deputati.

Audizione del Prof. Alessandro Petretto, Professore emerito di economia pubblica presso l'Università degli Studi di Firenze, del Prof. Alberto Lucarelli, Professore di diritto costituzionale presso l'Università degli Studi di Napoli «Federico II» e del Prof. Enzo Balboni, Professore emerito di istituzioni di diritto pubblico presso l'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, su attuazione e prospettive del federalismo fiscale e sulle procedure in atto per la definizione delle intese ai sensi dell'articolo 116, terzo comma, della Costituzione.

  PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, ai sensi dell'articolo 5, comma 5, del Regolamento della Commissione parlamentare per l'attuazione del federalismo fiscale, l'audizione del professor Alessandro Petretto, Professore emerito di economia pubblica presso l'Università degli Studi di Firenze, del professor Alberto Lucarelli, Professore di diritto costituzionale presso l'Università degli Studi di Napoli «Federico II» e del professor Enzo Balboni, Professore emerito di istituzioni di diritto pubblico presso l'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, su attuazione e prospettive del federalismo fiscale e sulle procedure in atto per la definizione delle intese, ai sensi dell'articolo 116, terzo comma, della Costituzione.
  L'occasione è particolarmente significativa in ragione del lavoro che la Commissione sta svolgendo in tema di attuazione dei princìpi di autonomia degli enti territoriali e locali, relativo al regime finanziario sui temi dell'iniziativa in atto, relativa all'attuazione articolo 116, terzo comma della Costituzione.
  Nel ringraziarvi per la disponibilità dimostrata, cedo la parola al professor Petretto.

  ALESSANDRO PETRETTO, Professore emerito di economia pubblica presso l'Università degli Studi di Firenze. Buongiorno a tutti e grazie per l'invito a questa importante occasione di esprimere la nostra posizione su un tema così rilevante.
  Mi concentrerò quasi esclusivamente sulle tematiche relative al finanziamento del federalismo differenziato, dell'autonomia differenziata, cercando di sancire un principio che poi svolgerò con più dettaglio. Il finanziamento dell'autonomia differenziata non può costituire un elemento specifico, non può costituire l'occasione per attribuire una sorta di specialità nel finanziamento delle regioni che hanno richiesto l'autonomia differenziata, ma deve essere inserito all'interno di un quadro di riferimento generale di finanziamento delle regioni a Statuto ordinario.
  La Costituzione non cerca di dare luogo a mio parere ad una serie di specialità, per cui le regioni a Statuto speciale via via crescono di numero a seconda che venga concessa l'autonomia rafforzata, ma dà la possibilità di avere un di più, un qualcosa Pag. 4di supplementare a margine di competenze, quindi di attività, che devono essere finanziate.
  Le competenze per le quali si richiede l'autonomia sono fondamentalmente relative a trasporti, viabilità, interventi in campo sociale, sanità, cultura, formazione, istruzione e ambiente. Alcune di queste attività sono già regionalizzate in termini finanziari; la sanità è quasi integralmente già regionalizzata, molto meno lo è l'istruzione, solo alcune componenti di questo comparto sono a livello di competenza regionale, così vale per gli interventi in campo sociale ed altri, mentre la cultura e la formazione sono quasi integralmente centralizzate.
  Siamo di fronte a due modelli: la richiesta che proviene dalla Lombardia e dal Veneto punta a massimizzare l'autonomia, vengono richieste 23 materie di trasferimento, mentre l'Emilia svolge un modello tendente ad adeguare alcuni settori alle necessità territoriali e a valorizzare l'efficacia e l'efficienza di alcuni servizi.
  Per essere campanilistico, anche la mia regione, la Toscana, ha proposto una riforma che ha caratteristiche di questo tipo, valorizzare alcuni aspetti sui quali la regione già da tempo ha una sua specificità, senza spalmare su tutte le competenze previste dall'articolo 117.
  Il problema del finanziamento è che questa tematica di finanziamento dell'autonomia differenziata vive in una sorta di limbo istituzionale, perché la riforma della finanza delle regioni a Statuto ordinario non è stata completata. A cascata, questa deriva dall'articolo 119 della Costituzione, dalla legge delega n. 42 del 2009, che tendeva ad applicare l'articolo 119 della Costituzione e il decreto legislativo n. 68 del 2011, che è solo parzialmente applicato, è applicato solo per la parte relativa alla sanità, mentre la parte relativa al complesso delle funzioni delle regioni e al complesso del sistema tributario regionale è rimasta in sospeso.
  Peraltro, nelle successive leggi di bilancio, quelle 2017 e 2018, si fa automaticamente un rinvio all'anno successivo per attuare questa riforma e addirittura adesso, secondo la Legge di bilancio 2018, dovrebbe avvenire nel 2020. Non si hanno notizie peraltro che si vada in questa direzione e peraltro segnalo che nelle intese delle tre regioni e nella postilla del Ministero dell'economia e delle finanze, che detta alcune indicazioni sul meccanismo di finanziamento, non vi è cenno né alla legge delega n. 42 del 2009, né al decreto legislativo n. 68 del 2011, anche se l'articolo 116 stabilisce che le forme e condizioni particolari di autonomia devono attenersi alle norme specificate nell'articolo 119 della Costituzione, quindi a cascata della legge delega del 2009 e del decreto legislativo n. 68 del 2011.
  Delle due l'una, o viene applicata questa struttura di finanziamento o viene abolita, ma ne deve essere inserita un'altra, coerente con l'articolo 119. Merita quindi vedere esattamente cosa indicava questa struttura di finanziamento.
  Ci sono due elementi principali, il primo è quello della distinzione delle spese delle regioni in due grandi categorie, quelle che sono associate al finanziamento delle funzioni per il soddisfacimento dei diritti sociali e civili, cioè l'articolo 117, secondo comma, lettera m), dentro i quali ci sono la sanità, l'assistenza, parte dell'istruzione, trasporti a livello regionale e infrastrutturali, e le altre spese che vanno oltre queste categorie. La ripartizione è sostanzialmente da 75-80 per cento e 20 per cento, ripartizione che a livello di comuni è stata già effettuata tra funzioni fondamentali e funzioni non fondamentali, che è stata presa in considerazione nel meccanismo di riparto del Fondo per i comuni.
  La legge stabilisce che per la prima categoria, quella rilevante sulla quale si misura l'impegno dello Stato al soddisfacimento dei diritti sociali, pur delegandone l'attività alle regioni, quindi l'obbligo del finanziamento di queste funzioni è dello Stato, naturalmente su livelli di spesa oggettivi, quindi standardizzati, queste spese debbano essere finanziate da tributi propri derivati, istituiti e regolati da leggi statali, con gettito attribuito localmente, l'IRAP, imposta che peraltro è stata modificata nel tempo e che costituisce un problema se Pag. 5debba essere mantenuta con queste caratteristiche o riformata, per adesso costituisce una fonte rilevante, l'addizionale IRPEF e la compartecipazione all'IVA.
  Attenzione, la compartecipazione all'IVA deve avere la caratteristica stabilita nell'articolo 119 di essere una compartecipazione al gettito localmente riferito, cioè deve essere un gettito che corrisponde a quanto le regioni riescono ad avere di base imponibile territorialmente. Segnalo come la compartecipazione all'IVA utilizzata attualmente per il finanziamento della sanità non abbia questa caratteristica, ma sia semplicemente un modo di ottenere il fondo sanitario e poi ripartirlo.
  La caratteristica del finanziamento è che è previsto un trasferimento integrativo verticale, laddove per una regione il valore standardizzato delle funzioni non è corrispondentemente finanziato da questi tributi ad aliquote uniformi, quindi una sorta di standardizzazione anche della componente dell'entrata, c'è un trasferimento perequativo a pareggio.
  Questo per tutte le regioni tranne una, quella che, avendo la maggiore capacità fiscale, è sostanzialmente fuori dal meccanismo perequativo, e sulla base del suo bilancio si definiscono le aliquote di equilibrio.
  Naturalmente sull'autonomia tributaria la legge 42 del 2009 era molto più generosa di quella che attualmente abbiamo. Credo che, se si vuole andare verso questa sperimentazione, questa riforma istituzionale di grande rilievo com'è l'autonomia differenziata, si debba anche ritornare ad un'autonomia tributaria un pochino più esplicita, perché adesso sostanzialmente è un simulacro di federalismo quello che abbiamo.
  In che modo fondamentalmente si innesterebbe in questo quadro il finanziamento delle competenze richieste successivamente, quelle che costituiscono l'autonomia? Semplicemente aggiungendosi nella parte sinistra di questa eguaglianza, alle spese standardizzate relative alle funzioni già svolte le funzioni nuove, delle quali si richiede il decentramento, quindi sostanzialmente si riproduce lo stesso calcolo, che si svolge per le funzioni attualmente svolte, per le nuove, un calcolo relativo al fabbisogno corrispondente.
  A destra, per coprire questo di più di spesa sempre standardizzata che viene assegnata, si potrebbe immaginare di avere una compartecipazione modificata dell'IVA, quindi un'aliquota di compartecipazione questa volta specifica, cioè relativa alla regione che ha fatto la richiesta di autonomia, che si aggiunge a quella uniforme per tutti gli altri, e forse anche una nuova compartecipazione all'IRPEF.
  Sono sufficientemente contrario a mettere in gioco l'IRPEF, perché l'IRPEF è già gravata dall'addizionale regionale, dall'addizionale super che può essere messa con l'autonomia tributaria, ci si mette una compartecipazione ulteriore, c'è l'addizionale comunale, tra l'altro è un tributo progressivo in via di riforma, da tutte le parti evocata, che si vada verso la Flat Tax o si vada verso una ricomposizione delle aliquote, è un tributo già di per sé piuttosto vestito da Arlecchino, quindi andrei molto cauto anche perché una differenziazione sul territorio di un'imposta sul reddito determina fenomeni di competizione fiscale.
  La compartecipazione all'IVA è molto più chiara e più semplice, naturalmente le regioni richiedenti non si fidano dell'IVA, perché l'IVA, come sapete, è il tributo più fragile dal punto di vista del pagamento, quindi dell'evasione.
  Mi avvio all'analisi critica di ciò che nelle intese è previsto in termini di finanziamento. Nelle disposizioni generali si fa riferimento a un meccanismo di regionalizzazione della spesa, a cui attingere l'ammontare che deve essere trasferito alle regioni, cominciando dal modo più semplice, che è quello del costo storico.
  La spesa che attualmente sostiene lo Stato viene quindi totalmente trasferita alle regioni, corrispondentemente questo viene finanziato con una compartecipazione all'IVA o un misto tra compartecipazione all'IVA e all'IRPEF, la distribuzione regionale non viene alterata in questo modo, è semplicemente una differenziazione dei livelli di Governo che sostengono questa spesa, quindi in questo modo – almeno in teoria Pag. 6– non si intacca nessuna delle condizioni di distribuzione sul territorio.
  Per di più, non se ne fa riferimento nelle disposizioni generali, ma se si adotta il suggerimento di innestare il tutto all'interno della riforma delle regioni a Statuto ordinario, tutti i meccanismi perequativi, corrispondenti a quelli verticali e a quelli semi-orizzontali sulla capacità fiscale sono mantenuti inalterati, quindi non c'è grossa problematica.
  L'idea è quella di arrivare alla determinazione dei fabbisogni standard e c'è una postilla, nel senso che se entro un anno non verranno individuati i meccanismi dei fabbisogni standard, si andrà verso una soluzione di trasferimento della spesa media pro capite.
  Questo è un elemento su cui riflettere, perché i differenziali sono molto forti, specialmente nell'ambito dell'istruzione sono differenziali su valori medi molto pronunciati fra regione e regione, quindi secondo me nella fase di passaggio verso i fabbisogni standard è certamente meglio rimanere al costo storico, il quale riflette il costo dei servizi territorialmente. Come sapete, la regionalizzazione, dal punto di vista statistico, è soggetta a discussioni notevolissime. Ci sono varie interpretazioni. Un articolo di ieri su Lavoce.info dice che i valori regionalizzati del MEF sono sottostimati, quelli delle spese che vanno direttamente al nord. Però, è una questione da statistici e la potremmo risolvere.
  Ovviamente, in futuro c'è il meccanismo dei costi standard. Qui si può andare in diverse direzioni e abbiamo delle esperienze che possono essere acquisite; c'è l'esperienza dei comuni che, pur con tutte le difficoltà e criticità che ha il meccanismo, almeno dal punto di vista analitico è una strada percorribile, quella di andare a verificare le caratteristiche attraverso delle funzioni stimate. Da econometrico vi dico che regressioni su 18 o 16 regioni non funzionano mai, che quelle dei comuni hanno funzionato perché, avendo un numero di osservazioni molto elevato, hanno potuto mettere diverse variabili, su 16 non si può fare tutta quella costruzione.
  Abbiamo l'esperienza della sanità, in cui prendono tre regioni benchmark, sulla base di queste tre regioni fanno un valore del costo medio delle tre regioni, lo applicano alle altre regioni tenendo conto delle caratteristiche di distribuzione per età della popolazione, quindi del maggior costo della popolazione anziana. Un meccanismo simile potrebbe essere immaginato per le funzioni per le quali si chiede l'autonomia differenziata, soprattutto per quanto riguarda l'istruzione.
  La questione cruciale di tutta questa riforma è l'istruzione, il resto sono spiccioli, sono importanti interventi in campo sociale e welfare, però l'istruzione dal punto di vista della legittimità di trasferimenti di tutte le attività e del perseguimento dell'uguaglianza delle opportunità sul territorio è l'elemento più delicato. Qui si deve provare a fare un meccanismo di standardizzazione, ci sono delle Commissioni in atto già su questo meccanismo, faremo in fretta. Nel frattempo io rimarrei al costo storico, che non determina complicazioni o controindicazioni macroscopiche.
  Due questioni delicate con le quali concludo. La prima è la dinamica di questo modello. Qui secondo me c'è uno degli elementi più delicati dell'indicazione del MEF. Si dice che se nel passare del tempo, ferma rimanendo la componente che sta a sinistra di questa uguaglianza, cioè i fabbisogni, la parte di destra, che è relativa al gettito di tributi riferiti localmente, quindi la compartecipazione all'IVA e all'IRPEF, dovesse crescere (e Dio voglia che cresca, perché significa che allora le regioni che hanno fatto la richiesta dell'autonomia sono quelle che effettivamente trainano l'economia italiana), si forma uno squilibrio, cioè riescono ad avere più soldi di quelli che corrispondono al valore dei fabbisogni.
  Qui c'è scritto che sia «di competenza delle regioni l'eventuale variazione di gettito maturato nel territorio regionale dai tributi compartecipati o oggetto d'aliquota riservata», nel senso che questo di più dovrebbe essere totalmente incassato dalle regioni che ne godono il vantaggio. Molto più dubbia è la cosa inversa, cioè se nel tempo la componente di destra, invece di Pag. 7essere superiore a quella sinistra, fosse inferiore, nell'indicazione qui prevista non è chiaro se si voglia pretendere un'altra integrazione dello Stato oppure debba rimanere così.
  A mio parere, se si rimane fedeli alla legge delega del 2009, il problema non esiste, perché c'è sempre il trasferimento perequativo a differenza, che, nel caso in cui aumentano le entrate corrispondenti ai tributi che sono standardizzati, diminuisce il trasferimento perequativo. A mio parere, il principio del pareggio dei valori standardizzati di spesa e dei valori standardizzati di entrata più il trasferimento perequativo deve essere valido costantemente, perché quella è roba non delle regioni, ma dello Stato, che ha delegato le regioni a svolgerle, perché lo fa attraverso un meccanismo di decentramento, ma lo Stato ne ha la responsabilità sui livelli essenziali delle prestazioni e quindi quella è roba sua. Naturalmente le regioni possono con un'autonomia tributaria conseguire dei risultati e produrre di più.
  Concludo semplicemente con una segnalazione. Nelle note che ho suggerito mi sono soffermato su questo aspetto: tutte e tre le regioni che hanno chiesto autonomia differenziata hanno chiesto anche il coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario a livello regionale. Questo apre delle opportunità secondo me positive, ma anche delle complicazioni non banali, perché in un certo senso si vorrebbe ritornare alla versione originaria di interpretazione della legge delega, quella che prevedeva un federalismo sufficientemente spinto; poi diranno i colleghi molto meglio di me che i successivi pronunciamenti della Consulta hanno moderato questa capacità di coordinamento delle regioni in senso di federalismo fiscale.
  Non è del tutto negativo il fatto che alcune regioni possano assumersi il ruolo di regia degli enti locali di riferimento ed estendere quello che attualmente nelle tre regioni richiedenti l'autonomia è avvenuto, cioè i patti orizzontali e verticali dei meccanismi di decentramento e di definizione dell'indebitamento per il finanziamento degli investimenti. Questa è una via che la legge prevede, è compatibile con gli equilibri di bilancio, perché è la regione in capo a sé in termini consolidati che si assume l'onere di equilibrare i conti della regione.
  Forse un po’ di autonomia legislativa tributaria su tributi residuali, quindi su basi imponibili che non sono utilizzate dallo Stato, potrebbe essere campo di intervento della regione. Penso ai tributi di scopo, ai tributi ambientali. Ricordo la fatica enorme che è stata fatta per avere la tassa di soggiorno, perché necessitava di una legge nazionale, quindi era complicato, è materia molto delicata e deve essere molto discussa.
  Concludo con il mio principio fondamentale: l'autonomia rafforzata è un'opportunità per rilanciare l'istituto regionale, secondo me piuttosto invecchiato e non soddisfacente. Se il finanziamento dell'autonomia rafforzata non sarà inserito in un contesto generale di riforma della finanza regionale, non potrà assumere l'indispensabile carattere di variazione al margine che la Costituzione intende assegnarle e diverrà un regime speciale rivolto alle regioni richiedenti.
  Invece di abolire le regioni a statuto speciale, se ne creeranno di nuove e forse numerose. Ritengo che questo sia sufficientemente pericoloso. Grazie.

  PRESIDENTE. Grazie a lei, professore.
  Ricordo agli altri auditi che l'Aula del Senato è convocata per le 9.30. Quindi, se riusciste a contenere l'intervento, sarebbe opportuno, anche per dare la possibilità ai commissari di porre le domande e a voi di replicare.
  Do la parola al professor Balboni.

  ENZO BALBONI, Professore emerito di istituzioni di diritto pubblico presso l'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Io sono parecchio in linea con quanto ci ha appena detto il professor Petretto ed è stato opportuno cominciare con le parti più complicate, più difficili, che sono quelle riguardanti la dimensione fiscale e finanziaria.
  Vado proprio per flash, ma ho lasciato agli atti una memoria scritta che potrete vedere, in cui le cose sono più articolate, quindi non mi occupo della parte finanziaria, Pag. 8 però vorrei richiamare quanto detto in quest'Aula la settimana scorsa dal professor Arachi e che mi trova assolutamente d'accordo. Una frase chiave che lui aveva utilizzato, essendo anche il presidente della Commissione tecnica per i fabbisogni standard: «le intese prevedono innanzitutto che nel momento dell'assegnazione delle funzioni siano attribuite alle regioni risorse pari alla spesa precedentemente sostenuta dallo Stato per quelle stesse funzioni».
  Non c'è più quello spauracchio che è stato portato avanti per mesi, anche con toni eccessivi, quello del residuo fiscale, che ormai è scomparso dal dibattito politico. Mi interesso di più, invece, in questi pochi minuti, delle materie che possono essere trasferite alle regioni che chiedono un plus di autonomia. Su queste materie vorrei fare un discorso metodologico, prendendo per le corna il toro più difficile da domare in questa materia, che è l'istruzione e la sua sorella, che non è una sorella minore, almeno nella mia idea, che è la formazione professionale.
  Dico questo perché l'istruzione è sempre stata considerata una funzione esclusivamente statale, invece una lettura sine glossa della Costituzione all'articolo 33 non da questa come lettura univoca; se apriamo la Costituzione all'articolo 33 dice: «la Repubblica detta le norme generali sull'istruzione e istituisce scuole statali per tutti gli ordini e i gradi». La Repubblica, non lo Stato, detta le norme generali dell'istruzione, e la Repubblica è composta dagli altri enti autonomi territoriali, ma non solo da loro, anche da tutto quell'insieme di poteri pubblici e arrivo a dire anche privati che, nella misura in cui spingono per svolgere funzioni pubbliche, sono la Repubblica, non sono lo Stato, la Costituzione non è stata scritta da persone che transitavano per caso nell'Assemblea costituente e in questo articolo c'è una lettura possibile diversa, perché dice che la Repubblica detta le norme generali dell'istruzione e istituisce scuole statali per ogni ordine e grado.
  Se fosse stato lo Stato ad avere il monopolio dell'istruzione, avrebbe detto «lo Stato detta le norme generali per l'istruzione ed è obbligato a istituire scuole statali di ogni ordine e grado». A dimostrazione ulteriore c'è il fatto che non è l'unica volta che si parla dell'istruzione, ma all'articolo 30 il compito/dovere di istruire, educare e mantenere i figli è dato ai genitori, e i genitori non sono lo Stato.
  Questo mi serve per dire che più di cento anni di amministrazione centralizzata impostata su un modello ministro, provveditore, insegnante, circolari ministeriali, che hanno gestito interamente il comparto istruzione, era una delle modalità possibili gerarchico-burocratiche e statalistiche impostate su quella dell'esercito piemontese, ma non è l'unica. Ci sono Paesi nei quali la funzione istruzione non è una funzione dello Stato, in Inghilterra e negli Stati Uniti non si sognano nemmeno di pensarlo.
  Dico questo in modo volutamente provocatorio ed eccessivo per dire che tutte le volte che si ragiona su queste dimensioni bisognerebbe riportarsi anche a dimensioni più vere, almeno quelle che, se avessimo un'istruzione perfetta – dalle materne all'università – dello Stato non starei a dire queste cose, ma non abbiamo una funzione dell'istruzione nella Repubblica italiana perfetta, che non abbia bisogno di una rimodulazione.
  So che 150 anni dietro le spalle non consentono e c'è un sistema nazionale dell'istruzione che non disconosco affatto, ci sono alcune cose che debbono essere tenute presenti, ma mi serve per dire che la sorella dell'istruzione, che si chiama formazione professionale e che da noi è un'orfanella, non è destinata da nessun fato negativo a stare così com'è e potrebbe benissimo essere assegnata in toto alle regioni.
  Su questo punto la bozza dell'Emilia-Romagna è dal mio punto di vista perfetta, l'Emilia chiede la realizzazione di un sistema unitario e integrato di istruzione e formazione professionale. Facciamo finalmente girare gli esempi e i numeri: le province autonome di Bolzano e di Trento, specialmente la provincia autonoma di Bolzano, da più di vent'anni adottano il sistema tedesco, il sistema duale, che è quello della vera alternanza tra scuola e lavoro. Pag. 9Noi abbiamo fatto con le nostre riforme della scuola delle scimmiottature del sistema, lo ha fatto sia la riforma Gelmini, sia la «Buona scuola» di Renzi, adesso il Governo in atto ha addirittura diminuito della metà le ore destinate all'alternanza scuola-lavoro, ma queste sono tutte cose di modestissimo rilievo.
  Cerchiamo la prova di questo in due dati, il primo è che la Germania con il livello intermedio che garantisce nelle sue scuole di formazione professionale costruisce i diplomati engineer, che sono quella fascia intermedia tra un più rispetto a quello che si ottiene nei nostri istituti professionali di Stato per dire se stiamo a dimensione statale e università. I nostri ingegneri che escono dai Politecnici di Milano e di Torino sono dieci volte più bravi degli ingegneri tedeschi e certamente molto superiori ai diplomati ingegneri, che però sono nella Volkswagen, nella Mercedes.
  Quali sono i livelli di occupazione e disoccupazione di questa, che è la prima nazione manifatturiera d'Europa? Sono superiori a noi. Gli ultimi dati ANPAL (Agenzia Nazionale Politiche Attive Lavoro) sui NEET (Not in education, employment or training), sigla che voi conoscete, ovvero coloro che non sono impegnati né in attività di education né in attività di employment, sono per Bolzano il 12,3, per Trento il 16,2, la media italiana è 24,1, Crotone e Caltanissetta hanno 45. Non sarà certo tutto merito di Bolzano e di Trento avere il sistema duale di formazione professionale, che li porta ad avere molti più occupati, con un'alternanza scuola-lavoro seria, perché fanno una settimana due giorni in fabbrica e tre a scuola, la settimana dopo tre e due.
  Questo sistema della formazione professionale, se riuscissimo a spostarlo totalmente nelle regioni, anche in via sperimentale... Diamo alle regioni la possibilità di far vedere cosa sono capaci di fare.
  Sono d'accordo con Petretto sul fatto che c'è grande terrore che lo Stato perda pezzi della sua capacità direttiva. Lo Stato ha i livelli essenziali delle prestazioni (LEP), sui quali può intervenire liberamente, ha i poteri sostitutivi ex articolo 120. Il Governo li adoperi i poteri sostitutivi nei casi in cui c'è bisogno di loro. C'è il controllo di costituzionalità da parte della Corte, ma anche la Corte – mi permetto di dirlo – deve cambiare impostazione su questi settori, perché non si può sempre soltanto dire «siccome le regioni non funzionano e invece lo Stato bene o male funziona, nel dubbio do sempre la competenza allo Stato»; e, come è stato già ricordato, la funzione di coordinamento statale della finanza pubblica e del sistema tributario e in più i trasferimenti perequativi statali a favore dei territori con minore capacità fiscale potrebbero essere utili.
  Se dovessi sintetizzare in un unico slogan che cosa si deve fare – da quello che ho detto voi avete capito che sono a favore di un regionalismo differenziato se si mantiene dentro determinati paletti e dentro determinati confini – direi: non nova sed nove, non cose nuove, ma fatte in modo nuovo, con modalità diverse da quelle a cui siamo sempre stati abituati.
  Concludo – poi potrete leggere di più nel testo scritto – cercando di vedere quali sono le ragioni per le quali questa sperimentazione, che dura dieci anni e che poi ha la possibilità di essere rivista, potrebbe valere. Prendo spunto da un acuminato contrastatore del regionalismo differenziato, il professor Viesti, che audirete domani, che con onestà intellettuale ha scritto un pamphlet contro il regionalismo differenziato, secondo il quale avrebbe favorito la secessione dei ricchi. È un'ipotesi che ci può stare, ma ci può anche non stare. Potremo finalmente avere una stagione di regionalismo differenziato e poi di migliore amministrazione locale, perché non dimentichiamo mai che quello che si portano a casa le regioni lo devono far amministrare e gestire dai comuni e dagli enti intermedi. Non esiste la possibilità di un centralismo regionalizzato, di un regionalismo centralizzato, altrimenti la cosa non sta più in piedi.
  Quello che i critici dicono che verrebbe a mancare invece può essere ribaltato in positivo secondo queste modalità, e sono parole di Viesti: avvicinare il Governo ai cittadini, facendo la responsabilizzazione Pag. 10del primo e il controllo da parte dei secondi; produrre un migliore allineamento tra responsabilità di spesa e finanziamento; consentire una maggiore differenziazione di scelte politiche e, infine, sarà un'utopia – vengo da una scuola autonomistica regionalista, che ha sempre creduto nelle autonomie locali, siamo stati disillusi sempre, poi gli uomini sbagliano, ma le istituzioni dovrebbero restare – consentire forme di competizione virtuosa fra le regioni e in tal modo raggiungere una maggiore efficienza nell'azione pubblica.
  Come diceva il collega Petretto, questa è un'ulteriore, ennesima (siamo stati presi a schiaffi tante volte) occasione per ridare una modulazione nuova alla nostra amministrazione, metterci in mente che non c'è un destino per cui l'unica amministrazione è un'amministrazione statale, l'amministrazione è un tutt'uno con compiti dello Stato, compiti delle regioni e compiti dei comuni, e questa è la modulazione che dovrebbe essere fatta, con una partecipazione che più è vicina ai cittadini e meglio è. Direi che, con tutte le garanzie e i paletti che possiamo metterci, questa è un'opportunità da cogliere.
  Grazie.

  PRESIDENTE. Grazie a lei, professore. Do ora la parola al professor Lucarelli.

  ALBERTO LUCARELLI, Professore di diritto costituzionale presso l'Università degli Studi di Napoli «Federico II». Grazie, presidente, buongiorno a tutti, grazie per l'invito.
  Ho ascoltato con grande interesse le due relazioni che mi hanno preceduto, da costituzionalista vorrei cercare brevemente di collocare questa disposizione, cioè l'articolo 116, comma 3, nel quadro costituzionale, perché non è che questa disposizione nasce nel 2001 all'improvviso e tutto il ragionamento può iniziare e terminare nell'articolo 116, comma 3.
  L'articolo 116, comma 3, il regionalismo differenziato, va comparato e reso quanto più consonante e conforme ai princìpi fondativi della nostra Repubblica. Penso ovviamente al principio di solidarietà e al principio di uguaglianza, ma in maniera ancora più esemplare al principio di unità e indivisibilità, di cui all'articolo 5 della Costituzione.
  Come nasce questo articolo 116, comma 3? In realtà, questo articolo 116, comma 3 non nasce con un ragionamento teso al trasferimento di materia, ma si ragiona intorno alle funzioni e si fa un ragionamento di natura più propriamente amministrativistica piuttosto che legislativa, perché parliamo di funzioni amministrative. Il regime delle competenze, cioè quello che disciplina l'esercizio della potestà legislativa tra Stato e regioni ha un suo Statuto, che si articola tra l'articolo 117, comma 2, l'articolo 117, comma 3, e l'articolo 117, comma 4.
  Questa disposizione si inserisce quindi con una vocazione tendenzialmente amministrativa, che dovrebbe completare tra l'altro il quadro di natura amministrativa e di decentramento amministrativo, quindi non tanto di materie, né di questioni legislative, che dovrebbe completare un discorso di decentramento che è partito, ma purtroppo si è arenato in buona parte del nostro territorio, che è quello delle città metropolitane.
  Abbiamo un numero ampissimo di città metropolitane che dovrebbero svolgere un ruolo da protagoniste per quanto riguarda l'efficienza della governance (in particolare penso al territorio, ai servizi sociali e ai servizi pubblici), quindi il rischio è che questo 116, comma 3, entrando a gamba tesa nel sistema costituzionale, sia asimmetrico e dissonante rispetto al quadro costituzionale complessivo.
  Incide sul regime delle competenze attraverso un artifizio. Gli artifizi della decostituzionalizzazione, gli artifizi utilizzati nella delegificazione da costituzionalista non mi hanno mai entusiasmato, ma qual è l'artifizio? Quello di dire e prevedere – la stessa norma costituzionale, lo stesso articolo 116, comma 3 – che una legge ordinaria, a resistenza passiva, rinforzata (poi vedremo come si arriva a questo) possa derogare il regime delle competenze. Questo è un punto centrale. Pag. 11
  Parlo di deroga, quindi già di per sé il tema della decostituzionalizzazione e il tema della deroga è un tema non armonico (non voglio dire eversivo, termine che qualcuno ha utilizzato) rispetto all'impianto costituzionale, anche perché le deroghe hanno un carattere di provvisorietà, il procedimento legislativo a valle dell'articolo 116, comma 3 (lo dico in maniera molto chiara) è un procedimento formalmente reversibile, ma sostanzialmente è un procedimento irreversibile. Parte attraverso delle consultazioni fatte da parte degli enti locali, passa attraverso delle intese, sulle quali poi mi soffermerò, tra gli Esecutivi, e poi si trasferisce tutto in sede parlamentare, dove al Parlamento, per garantire un grado di pluralismo più ampio, è assegnato il ruolo di approvare o meno il testo con un provvedimento legislativo a maggioranza assoluta.
  Parliamo però di deroga, ma questo impianto, così come consegnatoci dalle intese del febbraio 2019, a me non sembra assolutamente un impianto derogatorio, ma sembra un impianto che va a configurare un altro modello, perché non è tanto di differenziazione quanto di devoluzione, perché c'è una volontà di trasferire il complesso delle materie non amministrative, ma legislative alla competenza legislativa delle regioni, quindi, più che di differenziazione, si parla di processo devolutivo, che è tipico di un'altra forma di Stato.
  Qui il collegamento è forte con l'articolo 1, l'articolo 2, l'articolo 3 e l'articolo 5 della nostra Costituzione, ma anche con gli articoli 138 e 139; il 138 che misura il procedimento di revisione costituzionale, il 139 che pone dei paletti di immodificabilità. Qua si va a toccare la forma di Stato, cioè si va a toccare l'impianto che è coperto e protetto dall'articolo 139, cioè di immodificabilità, che in alcune parti è possibile modificare, ma con l'articolo 138.
  Stiamo quindi al di fuori del campo della decostituzionalizzazione, che già di per sé a mio avviso presenta delle criticità, stiamo al di fuori del campo della differenziazione, stiamo in un ambito di vera e propria devoluzione, che va a toccare anche in materie di cui all'articolo 117, comma 2, quali l'istruzione, che hanno rappresentato quel grado di unità che ci ha consentito di definirci cittadini italiani, né cittadini veneti, né cittadini lombardi, né cittadini dell'Emilia-Romagna.
  Se tutto questo ha un senso, misuriamolo e caliamolo con il dato concreto, cioè con quello con cui il giurista positivo si deve misurare, perché ci dobbiamo misurare con gli elementi che al momento risultano, cioè con le bozze, che sono delle bozze di devoluzione.
  La norma di cui al 116, comma 3 dice che la legge rinforzata, la legge del Parlamento dovrà attenersi ai princìpi di riequilibrio perequativi di solidarietà e di coesione di cui all'articolo 119, ma al momento non vi è traccia nelle bozze e nelle intese tra Stato e regioni, non vi è assolutamente traccia di tutto ciò, anche perché la procedura messa in campo sembrerebbe una procedura a due fasi, bifasica, il che crea un grande imbarazzo nel costituzionalista, ma credo anche da parte vostra e in particolare nel ruolo del Parlamento.
  Perché bifasica? Perché sembrerebbe o meglio è, così come predisposto dalle bozze, una fase che si svolge tra l'Esecutivo statale e l'Esecutivo regionale, dove al momento non vi è traccia di aspetti di natura economico-finanziaria riconducibili all'articolo 119, cioè non c'è traccia di livelli essenziali, non c'è traccia di profili perequativi, non c'è traccia dei fabbisogni e dei costi standard, è un'intesa quindi di natura politica, che andrebbe in approvazione al Parlamento.
  Questo è un altro punto cruciale, perché una parte della dottrina ritiene che il Parlamento su queste materie dovrebbe svolgere lo stesso ruolo che svolge ai sensi dell'articolo 8 della Costituzione, cioè agli accordi tra confessioni acattoliche dove lo Stato qui è tutt'altra cosa. Se dobbiamo rifarci a qualche precedente, dobbiamo rifarci al vecchio regime, di cui all'articolo 123 della Costituzione, cioè la prima stagione di approvazione degli Statuti regionali, quando il Parlamento svolse un ruolo decisivo per quanto riguarda la determinazione di quegli Statuti.
  È importante che il Parlamento rivendichi un ruolo decisivo, perché altrimenti Pag. 12(qui torniamo sulla forma di Stato) c'è uno svuotamento totale del ruolo del Parlamento, una violazione dell'articolo 70, l'indirizzo politico del nostro Paese si sposterebbe tutto nei Consigli regionali, l'unico organo costituzionale a investitura politica diretta da parte dei cittadini finirebbe per poter governare solo quelle materie che normalmente sono tipiche di uno Stato neanche federale, ma addirittura confederale. Questo è il quadro.
  La violazione sarebbe una violazione anche rispetto agli organi di garanzia costituzionale, perché se nella fase successiva il testo, come è previsto dall'intesa, fosse approvato con un DPCM, questo non sarebbe sottoposto a controllo né da parte del Presidente della Repubblica, né da parte della Corte Costituzionale, quindi ci sarebbe una violazione delle funzioni primarie che gli organi costituzionali svolgono in ordine alla garanzia del rispetto innanzitutto a tutela dei diritti fondamentali.
  È quindi un processo che maschera una privatizzazione forzata, perché le regioni del sud non avranno più la capacità ovviamente di gestire beni e servizi pubblici e questo sarà un processo di dismissione forzata, e probabilmente si realizzerà, in violazione dei princìpi fondativi della nostra Carta Costituzionale, una vera e propria regionalizzazione dello Stato sociale. Grazie.

  PRESIDENTE. Grazie anche a lei, professore.
  Do la parola ai colleghi che intendano intervenire per porre quesiti o formulare osservazioni.

  PAOLO RUSSO. Mi riferisco al primo intervento, quello che ci ha sollecitati ad una riflessione sulle questioni di finanziamento. Abbiamo audito qui il Ministro Tria, che in buona sostanza ha rilevato come sia in questa fase difficile, oserei dire impossibile, qualunque valutazione di impatto sulla finanza pubblica di questa riforma.
  Se ho capito bene, lei ci dice che non vi è alcun impatto, perché per le funzioni che vengono trasferite vi è un'attrazione delle risorse che già lo Stato investe. Ci può aiutare a capire meglio come viceversa potrebbe accadere una condizione per la quale l'impatto potrebbe essere positivo e significativo?

  ROGER DE MENECH. Ringrazio i relatori e sono molto contento e soddisfatto, perché finalmente con delle relazioni tecniche, che si spogliano della propaganda, come spesso ho detto in questa Commissione, iniziamo a entrare nel merito delle questioni, che credo sia la cosa più interessante rispetto a una riforma che può cambiare – si spera in meglio – l'assetto funzionale degli apparati dello Stato.
  Le prime due relazioni rispetto all'accenno economico hanno per l'ennesima volta smontato teorie ventennali di questo Paese. Dico questo perché anche in questa Commissione, anche nel dibattito parlamentare, anche nel dibattito sulla stampa siamo ancora vittime di quella stagione, e oggi avere qui tre tecnici di grandissimo livello, che ringraziamo, ci consente anche di continuare in questo percorso culturale, nello smontare teorie che hanno deviato il dibattito politico e pubblico rispetto alla vera essenza del federalismo regionale.
  Su questo è importante rilevare (lo dico al presidente della Commissione, quindi a chi ha responsabilità di Governo) che è questa la strada che dobbiamo percorrere oggi se vogliamo portare a casa un risultato che avvicina il servizio ai cittadini e lo rende più efficiente (questa è la sintesi).
  Do per scontato che gli impatti siano... Infatti, mi hanno stupito i punti di domanda del Ministro Tria, che hanno contribuito alla confusione (ce lo possiamo dire), perché se mettiamo un paletto dentro le intese, dentro ai rapporti che i saldi sia nei confronti dello Stato che nei confronti delle altre regioni restano invariati, dobbiamo chiedere che questo venga costruito con gli elementi tecnici necessari perché il tutto funzioni a regime.
  Sulla parte della funzionalità, e quindi mi riferisco all'ultimo intervento, perché è così drastico nel definire irreversibile un procedimento che comunque ha i cardini dentro un'intesa? Uno Stato autorevole dentro l'intesa mette gli strumenti di controllo e anche di revisione rispetto all'efficienza. Pag. 13
  Se l'obiettivo di tutti noi non è aumentare il potere e la capacità di esercitarlo di questa o di quella regione, ma è efficientare il sistema e quindi prendere i servizi e avvicinarli al cittadino, perché vengano gestiti meglio e riusciamo a dare più servizi a quel cittadino, uno Stato serio e delle regioni serie costruiscono un meccanismo per cui si fa una procedura e poi si fa anche la revisione della procedura in base all'efficienza del sistema.
  Su questo le intese possono lasciare aperto uno spiraglio di controllo e di revisione, possiamo darci dei target e quindi verificare dopo un certo numero di anni se il grado di efficienza di una funzione regionalizzata sia migliore di una funzione nazionale. Se non mettiamo a fattor comune queste considerazioni da un punto di vista tecnico e ovviamente politico, non prendiamo dal verso giusto il federalismo e l'autonomia, che ha come principio di ispirazione questo e non quello che è stato costruito in questi anni da alcune parti politiche. Grazie.

  GIAN MARIO FRAGOMELI. Velocissimamente, una questione da diritto amministrativo, ma molto semplificata, nel senso che a cavallo dei vostri tre interventi qualche dubbio mi è emerso. Come diceva anche il collega De Menech c'è qualcosa che non mi quadra, perché siamo passati da quasi forme di trasferimento oppure di attribuzione oppure di delega a cavallo di quelli che sono i poteri che vengono trasferiti da diversi enti, fino all'ultimo, che invece ci ha ricondotto alla funzionalità prettamente amministrativa, quindi molto più confinata e meno importante da un punto di vista legislativo.
  Vorrei quindi capire da voi quale sia, al netto delle vostre differenze d'opinione, lo scenario migliore per costruire un'autonomia differenziata, se quello in cui lo Stato mantiene una regia forte in termini di attribuzioni, di risorse, di mancanza di un sostanziale passaggio di competenze di natura tributaria e fiscale dallo Stato alle regioni, oppure un secondo intervento, in cui evocando questo termine importante che non c'è solo all'articolo 33, ma c'è anche all'articolo 5, questo tema della Repubblica che di per sé non è fatto in modo che lo Stato si spogliasse del suo potere, perché ha sempre promosso forme di autonomia, ma poi il tema è sempre rimasto chiaramente in capo statuale, fino ad arrivare all'ultimo intervento, dove si parla addirittura di devoluzione, quindi di un ritorno.
  Vorrei capire secondo voi quale sia la soluzione migliore, al netto della procedura; non entro nel merito e non mi interessa neanche approfondire le complicazioni che ha creato il 116, perché magari non è perfettamente in sintonia con tutto il tessuto costituzionale. Però, se non vogliamo portarci ad altre 16 regioni a Statuto speciale, ma vogliamo un'attribuzione di competenze differenziate, con correlate delle risorse finanziarie come prevede il 119, qual è la reale funzione che lo Stato deve mantenere e non dismettere per fare in modo che non sia una devolution, ma sia anche un processo di efficientamento del sistema, che consenta alla regione di essere realmente incisiva?
  Se siamo troppo deboli nell'operazione legata anche all'aspetto tributario e finanziario di dare competenza alle regioni che si responsabilizzino su questo processo, sappiamo che rischia di diventare poca roba, dall'altra parte siamo altrettanto consapevoli che uno Stato non deve ammainare la bandiera e non tenere un coordinamento specialmente sulla materia fiscale, tributaria e perequativa.
  Mi manca quindi questo pezzo: alla fine qual è la vera soluzione per consentire che ci sia un'autonomia differenziata reale, che renda efficiente questo Paese, ma allo stesso tempo rimanga in un alveo di riconoscimento di uno Stato che ha dei compiti importanti?

  PRESIDENTE. Do la parola ai nostri ospiti per la replica.

  ALESSANDRO PETRETTO, Professore emerito di economia pubblica presso l'Università degli Studi di Firenze. Il fatto che il Ministro Tria abbia fatto la dichiarazione che è stata richiamata un po’ mi preoccupa, perché significa che non ha nessuna Pag. 14intenzione di mettere in atto la riforma della finanza delle regioni a Statuto ordinario, quindi di applicare la legge n. 42 del 2009, che ha tutti i pesi e contrappesi al suo interno, cioè è proprio congegnata in modo che non si possa avere un impatto negativo sulla finanza dello Stato, perché è regolata attraverso passaggi che prevedono meccanismi perequativi, pareggio di bilancio a livello consolidato, addirittura prevede una pressione fiscale contenuta, norme che sono indicate.
  Ribadisco quanto ho detto all'inizio, cioè è francamente sorprendente che nelle disposizioni generali, nel dispositivo indicato dal MEF non si faccia mai riferimento a questa necessità, all'applicazione della seconda parte del decreto legislativo n. 68 del 2011, e, se non va bene questo, a qualcosa che possa sostituirlo in coerenza con il 119. Se si rimane nel limbo, come io l'ho chiamato, cioè se si ragiona solo sul modo con cui finanziare queste richieste specifiche delle tre regioni, si va verso un possibile impatto negativo sulla finanza nazionale.
  Il ministro non può dire una cosa del genere, deve dire «andremo, contemporaneamente all'attuazione del federalismo differenziato, anche all'applicazione di una riforma generale della finanza delle regioni a Statuto ordinario», è lì, è tutta scritta, quindi si tratta di lavorarci sopra.
  Un accenno all'ultima domanda, che richiama anche lo scienziato delle finanze. Io non guarderei con sospetto e preoccupazione alla possibilità che vi sia una differenziazione anche dal punto di vista fiscale e tributario nel nostro Paese, se si vuole un federalismo, bisogna che l'autonomia tributaria abbia la possibilità di essere esplicata in aumento e in diminuzione, con un sufficiente grado di libertà, altrimenti tanto vale rimanere su una situazione di centralizzazione, cui la Corte Costituzionale negli ultimi anni ci ha fondamentalmente portato.
  Per quanto riguarda il modello a cui tendere, vi faccio presente che l'autonomia differenziata è già in atto, ci sono delle regioni che hanno già acquisito competenze sulle materie per cui adesso Emilia-Romagna, Lombardia e Veneto la chiedono. La Toscana per esempio si occupa quasi integralmente di formazione professionale, ha una serie di competenze in materia di lavoro e in materia di attività di formazione e di ricerca del lavoro ormai sviluppate da tempo, quindi si tratta di integrare questo processo di acquisizione di competenze laddove questo sia possibile.
  Quello che mi ha sorpreso in tutta questa storia è che lo Stato non si sia voluto dotare inizialmente di un meccanismo di benchmark e di valutazione ex ante, per dire se alcune di queste richieste di autonomia possano o non possano essere accettate. Vi sono delle indicazioni che possono sconsigliare, perché non tutti hanno la possibilità di fare una richiesta di questo tipo, quindi secondo me lo Stato dovrebbe avere un meccanismo quasi automatico di rigetto di alcune domande se non vi sono le condizioni base, e procedere con le altre.

  PRESIDENTE. L'onorevole Russo vorrebbe integrare la sua domanda.

  PAOLO RUSSO. Una domanda al professor Lucarelli, che ci ha parlato di decostituzionalizzazione della procedura facendo riferimento alle pre-intese che sono state siglate. Ci aiuta a capire meglio in che modo?

  ENZO BALBONI, Professore emerito di istituzioni di diritto pubblico presso l'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Avendo poco tempo a disposizione, già sapevo che bisognava concentrarsi su una o due cose e quindi mi sono concentrato su quelle.
  Quella sulla quale mi voglio riconcentrare nella replica è semplicemente questo: prendere la Costituzione sul serio, ma fino in fondo, nel senso che le cose che sono scritte lì, nonostante ci siano decine di anni di modalità differenziata di gestione amministrativa, sono quelle che valgono. Nella prima parte della Costituzione si usa sempre il termine Repubblica, salvo un'unica volta in cui si parla di Stato, i rapporti tra lo Stato e la Chiesa e non poteva essere se non lo Stato che dialoga con la Chiesa, e Pag. 15ugualmente nell'articolo 11 sono gli Stati internazionali, tutto il resto è Repubblica.
  Noi siamo nati, ci piaccia o non ci piaccia, sulla spinta fondamentalmente anche da una parte della cultura di Sturzo e del cattolicesimo democratico all'Assemblea Costituente, come una dimensione pluralistico autonomistica. Articolo 5: «la Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali, attua nei servizi che dipendono dallo Stato (che non è la Repubblica) il più ampio decentramento amministrativo». A me sembra che in moltissimo del dibattito che c'è stato non si abbia ancora l'idea della distinzione tra decentramento amministrativo, dal ministro della pubblica istruzione fino al provveditore agli studi, fino al preside, e le autonomie.
  Le autonomie vuol dire riconoscimento di uno spazio autonomo di scelta libera, che può essere anche a volte erronea, ma lasciamoli fare, lasciamoli migliorare da soli, che spetta a delle entità che sono sia territoriali come le regioni, i comuni e le province, ma anche le imprese sono Repubblica, sono una attività che agisce. Purtroppo non si è attuato, non si è mai attuata la revisione del Titolo V nel 2001, ma si è scritto l'articolo 118 in questo modo: «le funzioni amministrative spettano ai comuni», una cosa inimmaginabile «salvo che...».
  Su quel «salvo che» ho fatto fare una tesi di laurea, perché voleva dire che questo era il cambio di paradigma rispetto alla dimensione pubblica dello Stato, perché le funzioni amministrative non spettano allo Stato, ma sono di spettanza, sono congeniali ai comuni, salvo che per ragioni di necessità, di unitarietà della funzione, secondo il principio di sussidiarietà del quale tutti ci riempiamo la bocca e nessuno lo applica, debbano essere meglio svolte a livello territorialmente più avanzato, quindi nelle province, nelle regioni o eventualmente per alcune cose nello Stato.
  C'è qualcuno che va a contestare la politica estera dello Stato o la politica religiosa dello Stato o la politica di difesa dello Stato, la politica tributaria nazionale in capo allo Stato? No, restano delle funzioni dello Stato, ma ci sono tutte le funzioni territoriali e sociali che possono essere meglio svolte da entità diverse dallo Stato, minori e più vicine.
  Questa è l'ennesima occasione che abbiamo e temo che butteremo via anche questa dal modo un po’ sfilacciato con il quale il dibattito nell'opinione pubblica avviene, invece questa potrebbe essere l'occasione per rimodulare la funzione amministrativa. Alcune cose spettano allo Stato, che avrà naturalmente gran parte delle responsabilità tributarie e fiscali, altre spettano alle regioni, e sono d'accordo con Petretto sul fatto che una qualche autonomia tributaria andrà data alle regioni e anche ai comuni. Che un sindaco venga eletto a seconda delle imposte che mette sul suo comune e non si possa sempre nascondere dietro al fatto che sono tutte sovraimposte comunali dovrà pur cessare, che si pigli la responsabilità del suo comune.
  Paradossalmente l'imposta di famiglia che c'era negli anni ’40 e ’50, era una cosa dolorosa perché il Consiglio comunale doveva stabilire (naturalmente i mezzi erano rozzissimi) quali erano le entità patrimoniali o reddituali delle famiglie, però era collegata al fatto che c'era una responsabilità tributaria individuale; attualmente tutti, dai comuni salendo verso l'alto, si sono tolti ogni responsabilità di tipo tributario, dopodiché piangono se non hanno le risorse necessarie.
  Naturalmente non si cambia tutto in una settimana o in un anno, ma una rimodulazione anche di questa parte sarebbe necessaria. Se questa occasione viene presa per far partire una molla virtuosa nella competizione nel modo migliore di fornire servizi ai nostri cittadini, a me sembra una buona cosa. Non entriamo in altri dettagli, perché tutte le volte che mi capita di andare nel sud (vado tutti gli anni a fare la lezione inaugurale del master sanitario in Calabria) trovo la gente che ancora si dispera per il cosiddetto «turismo sanitario ospedaliero», però lì le responsabilità sono tante ed eventualmente le affronteremo in un'altra audizione parlamentare.

  ALBERTO LUCARELLI, Professore di diritto costituzionale presso l'Università degli Pag. 16Studi di Napoli «Federico II». Ovviamente sono state prospettate anche delle analisi de iure condendo, cioè cosa si potrebbe fare, però vorrei restare su alcuni aspetti molto concreti.
  Le bozze del febbraio 2019 sono delle bozze d'intesa tra gli Esecutivi, quindi tra il Governo statale e l'Esecutivo regionale, che delineano una procedura di approvazione delle stesse e, delineando una procedura di approvazione delle stesse, la delineano secondo una dimensione bifasica. Parlo dell'ultima, di quella di febbraio 2019, che è l'ultimo dato sul quale dobbiamo lavorare, quindi le pre-intese del 22-23 febbraio 2019.
  Quelle pre-intese prevedono una procedura bifasica, nel senso che questa prima fase è una fase di natura sostanzialmente politica, cioè ha ad oggetto il trasferimento non delle funzioni, ma delle materie di cui all'articolo 117, comma 3 completamente alle regioni, quindi esautorando il ruolo dello Stato nella determinazione dei princìpi fondamentali, portandoli sostanzialmente nel 117, comma quarto, quindi nelle materie di competenza legislativa residuale.
  Non dice nulla rispetto ai profili di natura economico-finanziaria, cioè sui livelli essenziali, sugli aspetti perequativi, sui costi standard, quindi il Parlamento, se si dovesse seguire questo iter, andrebbe sostanzialmente ad approvare, ai sensi del 116, comma 3, una specie di scatola vuota, una firma in bianco, per cui accetta il progetto politico, ma è un progetto politico parziale, perché poi queste intese o pre-intese o bozze di pre-intese del febbraio 2019 prevedono una fase successiva, dove il Parlamento è completamente esautorato e dove queste intese successive, che poi saranno le intese sostanziali, che entreranno nel merito delle questioni (livelli essenziali, aspetti perequativi, costi standard) non saranno più approvate con il voto del Parlamento, ma saranno approvate con un decreto del presidente del Consiglio dei ministri, quindi sostanzialmente con un atto amministrativo.
  Qui si determina uno svilimento del ruolo del Parlamento e uno svilimento contestuale sia da parte del Presidente della Repubblica, perché è un DPCM e non un DPR, quindi non può esercitare quei poteri che la Costituzione gli assegna, e uno svilimento da parte della Corte Costituzionale, che, come sappiamo, non ha il controllo di legittimità costituzionale sugli atti amministrativi, stante che questo è un decreto del presidente del Consiglio dei ministri.
  Ritengo che questa sia una cosa gravissima, ed è non soltanto grave, ma è assolutamente al di fuori ed estranea alla nostra Costituzione, è come se il Parlamento approvasse il proprio svuotamento senza però sapere concretamente quello che avviene nelle intese.
  Sul concetto della irreversibilità sono stato evidentemente tranchant, ma guardando anche il passato e quindi facendo un'analisi di precedenti costituzionali, le fonti atipiche rinforzate, cioè quelle che seguono una procedura particolarmente aggravata attraverso una reiterazione, quindi prima le consultazioni comunali, poi le intese che sembrerebbero addirittura due intese, una prima fase e una fase successiva, poi una legge del Parlamento approvata a maggioranza assoluta, obiettivamente rappresenta uno scoglio forte.
  Laddove si dovesse trovare una volontà politica tale da ripercorrere tutto l’iter, è chiaro che formalmente potrebbe essere modificata, si chiamano fonti a resistenza passiva, fonti atipiche, cioè delle fonti del diritto che poi difficilmente riesci a derogare. Ovviamente è una fonte che non è assolutamente sottoponibile ad alcuna forma di referendum abrogativo, quindi il popolo e i cittadini non possono poi esercitare un potere che abbia quale obiettivo l'abrogazione del testo stesso, quindi ha una sua oggettiva complessità.
  Io sono fortemente convinto che il concetto di autonomia non debba necessariamente passare attraverso la democrazia della rappresentanza, anzi il concetto di autonomia dovrebbe passare attraverso il concetto della democrazia locale, della democrazia di prossimità, della democrazia partecipativa, perché non è che la democrazia della rappresentanza monopolizza tutti i modelli democratici, ma ci sono tante altre forme di autonomia. Pag. 17
  In particolare voi parlavate di efficientamento o, con il termine che si usa adesso, della governance, una volta parlavamo di imparzialità e buon andamento, oggi parliamo di governance, di efficacia, di efficienza, di economicità, in particolare legate ad aspetti che riguardano i servizi sociali, la gestione del territorio, i servizi pubblici, perché sono queste le cose che maggiormente percepisce il cittadino; tutti questi aspetti passano (chiaramente sto lavorando sul de iure condendo in una chiave prospettica) attraverso un concetto autonomistico, che non necessariamente deve essere ingolfato e monopolizzato dalla rappresentanza e quindi dal trasferimento delle materie, ma da un trasferimento di natura amministrativa.

  PRESIDENTE. Ringrazio gli auditi per gli interventi e per la documentazione prodotta, che dispongo venga allegata al resoconto stenografico della seduta odierna.
  Dichiaro conclusa l'audizione.

  La seduta termina alle 9.50.

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