XVIII Legislatura

III Commissione

Resoconto stenografico



Seduta n. 12 di Mercoledì 27 novembre 2019

INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:
Formentini Paolo , Presidente ... 2 

INDAGINE CONOSCITIVA SULLA POLITICA ESTERA DELL'ITALIA PER LA PACE E LA STABILITÀ NEL MEDITERRANEO
Formentini Paolo , Presidente ... 2 
Cabras Pino (M5S)  ... 2 
Formentini Paolo , Presidente ... 2 
Romano Gerardo , presidente dell'Osservatorio sul Mediterraneo dell'EURISPES ... 2 
Sansoni Alessandro , componente dell'Osservatorio sul Mediterraneo dell'EURISPES ... 3 
Formentini Paolo , Presidente ... 6 
Ehm Yana Chiara (M5S)  ... 6 
Comencini Vito (LEGA)  ... 7 
Formentini Paolo , Presidente ... 8 
Romano Gerardo , Presidente dell'Osservatorio sul Mediterraneo dell'EURISPES ... 8 
Sansoni Alessandro , componente dell'Osservatorio sul Mediterraneo dell'EURISPES ... 10 
Formentini Paolo , Presidente ... 12

Sigle dei gruppi parlamentari:
MoVimento 5 Stelle: M5S;
Lega - Salvini Premier: Lega;
Forza Italia - Berlusconi Presidente: FI;
Partito Democratico: PD;
Fratelli d'Italia: FdI;
Italia Viva: IV;
Liberi e Uguali: LeU;
Misto: Misto;
Misto-Cambiamo!-10 Volte Meglio: Misto-C10VM;
Misto-Minoranze Linguistiche: Misto-Min.Ling.;
Misto-Noi con l'Italia-USEI: Misto-NcI-USEI;
Misto-Centro Democratico-Radicali Italiani-+Europa: Misto-CD-RI-+E;
Misto-MAIE - Movimento Associativo Italiani all'Estero: Misto-MAIE.

Testo del resoconto stenografico
Pag. 2

PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE
PAOLO FORMENTINI

  La seduta comincia alle 14.35.

Sulla pubblicità dei lavori.

  PRESIDENTE. Avverto che la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso la trasmissione sul canale della web-tv della Camera dei deputati.

Audizione di rappresentanti dell'Osservatorio permanente sul Mediterraneo dell'Istituto di Studi Politici, Economici e Sociali (EURISPES).

  PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sulla politica estera dell'Italia per la pace e la stabilità nel Mediterraneo, l'audizione di rappresentanti dell'Osservatorio permanente sul Mediterraneo dell'Istituto di Studi politici, Economici e Sociali (EURISPES).
  Saluto e ringrazio per la loro disponibilità a prendere parte ai nostri lavori il dottor Gerardo Romano e il dottor Alessandro Sansoni, rispettivamente Presidente e membro dell'Osservatorio sul Mediterraneo dell'EURISPES.
  Segnalo che l'ISPES, Istituto di Studi Politici, Economici e Sociali, fondato e presieduto da Gian Maria Fara, è un ente privato e opera dal 1982 nel campo della ricerca politica, economica e sociale; dal 1986 l'Istituto è iscritto all'anagrafe nazionale degli enti di ricerca del Ministero dell'Istruzione e della ricerca scientifica. Il primo gennaio 1993, con l'entrata in vigore del mercato unico europeo, l'Istituto ha modificato il proprio nome in EURISPES e ha proiettato la propria attività in ambito europeo e internazionale. Ricordo che l'Osservatorio sul Mediterraneo dell'EURISPES figura tra i promotori, nell'ambito del Festival della diplomazia 2019, del convegno «Buon compleanno canale di Suez», organizzato il 23 ottobre scorso per celebrare i centocinquant'anni della costruzione del canale.
  Lascio adesso la parola al collega Cabras.

  PINO CABRAS. Grazie, presidente. Intervengo solo per ribadire che l'indagine conoscitiva sul Mediterraneo è una delle questioni centrali della Commissione Affari esteri. Il Mediterraneo ci pervade in ogni aspetto della nostra vita, eppure richiede aggiornamento e conoscenza, perché nella politica italiana ci sono elementi che non fanno sufficientemente i conti con la dimensione geografica del nostro Paese.
  Mi scuso sin da ora perché dovrò andare via in anticipo, per la concomitanza del question time, nel quale figuro tra gli interroganti. Sono molto curioso di sentire gli sviluppi dell'audizione.

  PRESIDENTE. Sono lieto di dare la parola ai nostri ospiti affinché svolgano i loro interventi.

  GERARDO ROMANO, presidente dell'Osservatorio sul Mediterraneo dell'EURISPES. Grazie, presidente. Il nostro Osservatorio è nato all'interno dell'EURISPES, che ha deciso di istituirlo partendo da un'analisi di quello che stava succedendo nel Mediterraneo.
  Come veniva ricordato, il Mediterraneo ha assunto e continua ad assumere un ruolo sempre più strategico negli equilibri mondiali, ma soprattutto per quello che Pag. 3riguarda le aree che vi insistono. L'idea dell'Osservatorio è nata da una considerazione. L'EURISPES segue con attenzione tutte una serie di fenomeni che riguardano le politiche estere e i flussi; avevamo studiato con attenzione il comportamento dei cosiddetti Paesi BRICS (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica), abbiamo notato come essi abbiano individuato delle vere e proprie strategie intorno all'area del Mediterraneo, e ci siamo interrogati sulle ragioni che li hanno spinti a farlo. Per parte nostra, come Osservatorio, abbiamo iniziato a prendere contatto e avere nel nostro parterre persone di riferimento in Italia, esperti di politiche sul Mediterraneo e abbiamo cercato di avere delle presenze di tutti i Paesi che insistono sul Mediterraneo, in modo da poter creare un momento di discussione, di scambio che partisse da un presupposto che ci sembrava mancasse nel dibattito: che l'Italia è uno dei grandi Paesi, una grande potenza dell'area mediterranea, quindi sarebbe importante che anche le azioni dell'Italia fossero, a nostro avviso, coerenti con una dimensione essenziale dell'Italia dentro l'area del Mediterraneo. Sebbene questa operazione non possa che essere coordinata nel nostro Governo nel contesto delle strategie europee, dobbiamo tuttavia immaginare che l'Italia possa sviluppare anche delle proprie strategie autonome all'interno di quest'area.
  Da un lato, abbiamo constatato che una delle strade significative percorse dai BRICS, ma anche dalle cosiddette «Primavere arabe», fosse lo strumento economico e che, quindi, la comunicazione da un lato e l'intervento economico dall'altro, oltre all'intervento militare, caratterizzasse in maniera importante l'evoluzione politica dentro i Paesi che affacciano, soprattutto quelli arabi, sul bacino del Mediterraneo; dall'altro, abbiamo compreso anche che gli interessi dell'Italia in quest'area sono, da un punto di vista economico, assolutamente importanti sia per quanto riguarda una presenza storica per l'approvvigionamento di risorse, sia per gli scambi commerciali rispetto alla nostra capacità produttiva e all'esportazione del nostro know how.
  Per questo abbiamo sviluppato una serie di rapporti, ad esempio un accordo tra l'Osservatorio e un consorzio di università egiziane per promuovere questo scambio di conoscenze, cercando di far dialogare, attraverso meccanismi rispettosi delle culture di tutti, ma anche della possibilità di muoversi in un sistema equilibrato e pacifico, che rivendica per l'Italia un ruolo centrale. Noi nel Mediterraneo occupiamo un punto strategico e su questo, anche sulle aree di crisi che pure interessano il Mediterraneo, vogliamo essere momento di stimolo per il mondo politico, per il Governo, con delle indicazioni che provengono soprattutto da questi scambi che stiamo instaurando, dove vorremmo che i rapporti tra il nostro mondo economico e quello dei vari Paesi dell'area possano accrescere la presenza italiana. Ripeto, stiamo cercando di impostare un lavoro finalizzato ad aiutare il nostro Paese a instaurare rapporti di collaborazione, con la coscienza di dover e poter svolgere un ruolo importante nell'equilibrio all'interno del bacino del Mediterraneo.

  ALESSANDRO SANSONI, componente dell'Osservatorio sul Mediterraneo dell'EURISPES. Ringrazio voi tutti per l'attenzione che state dando all'Osservatorio sul Mediterraneo dell'EURISPES.
  Come avete sentito, il nostro Istituto ha messo in campo uno strumento per corroborare una serie di strategie che riteniamo possano essere utili in questa fase, in cui lo scacchiere mediterraneo acquisisce un'importanza sempre più strategica. Per un po’ di tempo, dopo la fine della guerra fredda, il nostro Paese ha avuto un ruolo minore dal punto di vista geopolitico rispetto a quello centrale che aveva ricoperto nei primi quarant'anni del dopoguerra; sembrava quasi che dovesse divenire marginale rispetto alle direttrici della grande politica del mondo occidentale. Oggi invece ci accorgiamo che il Mediterraneo è ritornato ad essere attraversato non soltanto dai barconi dei migranti, ma da tutta una serie di questioni che è opportuno affrontare e, possibilmente, Pag. 4 proporre all'opinione pubblica. Se – come diceva prima il presidente Romano – l'Italia è una grande potenza regionale del Mediterraneo, non ci si può esimere, per coltivare gli interessi del Paese, da un'attiva azione pedagogica anche nei confronti dell'opinione pubblica, che deve capire come sia fondamentale andare al di là dell'individuazione dei buoni e dei cattivi nelle varie crisi, ma piuttosto cominciare ad avere una prospettiva: quella del nostro Paese.
  Il Mediterraneo è importante, ma purtroppo, da almeno nove anni, è attraversato da crisi destabilizzanti. È la regione dove più di ogni altra al mondo regna una situazione di caos, il che non è un fatto positivo per la nostra dinamica geopolitica. Magari per altri Paesi che vi si affacciano il rimescolamento delle carte può essere anche positivo; altri Paesi ancora, che non si affacciano sul Mediterraneo, possono vedere la confusione come un'opportunità: per noi italiani non è assolutamente così. Il nostro deve essere un ruolo di stabilizzazione del quadro dello scenario mediterraneo. In questo senso le «Primavere arabe» è evidente che hanno giocato un ruolo oggettivamente anti-italiano. Al di là del giudizio politico, morale, anche ideologico che si può dare dei regimi che mantenevano lo status quo fino alle «Primavere arabe», quello che è accaduto successivamente, la destabilizzazione che si è avuta prima in Tunisia, poi in Egitto, in Siria e, soprattutto, in Libia, ha nuociuto agli interessi del nostro Paese. Quantomeno agli interessi migliori del nostro Paese. Su questo l'Italia si è trovata, di fatto, sulla linea del fronte, che ci ha imposto una serie di interrogativi. Un interrogativo per esempio legato alla situazione in Libia: la fine del regime di Gheddafi che tipo di Libia poteva portare a risorgere? Le varianti sono tre. La prima è quella a cui assistiamo, un Paese nel caos totale; la seconda è un nuovo regime unitario, più o meno democratico; la terza è invece quella di scindere lo Stato libico in due aree – Tripolitania e Cirenaica – più il Fezzan, che è il retroterra strategico della crisi libica, che assieme al caos generalizzato è, per molti aspetti, lo stato dell'arte attuale con il quale ci andiamo a confrontare.
  Questa ipotesi di riconfigurazione dello scenario libico fa il paio con la riconfigurazione del Medio Oriente, quindi con lo scenario che ha interessato la guerra civile siriana. Parliamo sempre di una rimessa in discussione, per ragioni storiche anche valide, dei confini tracciati in queste aree dopo la Prima guerra mondiale, quindi dopo la fine dell'Impero ottomano, al fine di renderle magari più coerenti con la dinamica tribale o religiosa effettivamente vissuta dalle popolazioni sul territorio. Anche lì, nel vicino Oriente noi abbiamo assistito a un conflitto che, per esempio, tendeva a superare il confine siriano-iracheno, non soltanto in una logica di terrorismo ma in una logica veramente geopolitica. Il famoso Daesh, costituendosi come Stato transnazionale, dava vita a quella che taluni hanno definito come un possibile «Sunnistan»: una compagine politica in grado di riunire i sunniti di tutta quell'area, rimasti scoperti dopo la deflagrazione dell'Iraq di Saddam Hussein e che vedevano come un'opportunità la fine del regime siriano di Assad. In tutto questo, lo scenario vede presenti comunità cristiane, soprattutto nel Vicino Oriente, ma anche nel Nord Africa, in particolar modo nell'Egitto destabilizzato. C'è chi ha concepito una strategia di questo tipo. C'è una parte del mondo musulmano, che fa capo alla corrente dei «Fratelli musulmani», che vedeva nella riconfigurazione dello scenario del Vicino Oriente e del Nord Africa un'opportunità per disegnare dei confini meno dipendenti dalla costruzione geopolitica approntata dalle potenze europee dopo la fine dell'Impero ottomano. Questo aveva un riverbero proprio nella Libia, perché questa tripartizione dello scenario libico era stato teorizzato da quell'area politico-culturale dell'islam sunnita.
  Ora un punto sulla Libia, poi torniamo alla Siria e chiudiamo sui cristiani. Cercherò di essere il più breve possibile, in modo da lasciare la parola ai commissari Pag. 5per qualche domanda. Il punto è: all'Italia conviene una Libia tripartita? È coerente con i nostri interessi? Di fatto oggi ce l'abbiamo, perché abbiamo la Tripolitania, governata dal Governo legittimo che abbiamo sostenuto e continuiamo a sostenere, riconosciuto a livello internazionale, amico di Paesi come la Turchia e il Qatar, per molti aspetti anche collegato ad ambienti della Fratellanza musulmana, nello stesso tempo però attento anche alle esigenze di approvvigionamento energetico del nostro Paese, perché sappiamo che in Tripolitania ci sono gli stabilimenti più importanti gestiti dall'ENI. Però abbiamo anche una Cirenaica nella quale, siccome godiamo di apparati di sicurezza molto competenti che conoscono bene lo scenario, sul piano ufficiale siamo completamente assenti, ma non lo siamo di fatto. Sono state messe anche in campo delle iniziative tra enti locali: tra Bengasi, per esempio, e il nostro Paese; qualche mese fa ci fu un'iniziativa anche della Federpesca – peraltro poi sconfessata – per facilitare l'attività dei nostri pescherecci siciliani nelle acque antistanti la Cirenaica, senza correre il rischio di essere sequestrati dalla Capitaneria di porto libica. Comunque dei contatti sono continuati, un'attività italiana è rimasta. Però oggettivamente la Cirenaica sparisce dal nostro raggio d'azione più immediato, è di fatto sotto il controllo del generale Haftar, che è tecnicamente un avversario nel momento in cui noi siamo tra coloro che hanno riconosciuto il Governo di al-Sarraj. Inoltre, c'è tutto il grande dramma del Sahel e del Fezzan, che è interessato ai grandi flussi migratori, con le tragedie umane che conosciamo e con l'impatto che questo determina sull'Europa.
  Sulla questione libica l'Italia forse avrebbe potuto svolgere un'attività di maggiore protagonismo, diplomatico naturalmente e non di altra natura, e avrebbe anche potuto – e dovuto – immaginare un'articolata politica estera che – lo ricordiamo – non può essere condizionata esclusivamente dal nostro approvvigionamento energetico. Questo è un dato fondamentale della nostra politica estera: l'importanza delle risorse energetiche. Ma una grande potenza regionale si occupa anche di altro: si occupa anche della crisi dei migranti, delle presenze cristiane nello scenario – perché nel nostro Paese c'è la Città del Vaticano e per la nostra storia è un elemento molto importante – però si occupa anche, in generale, del prestigio che un Paese deve avere in uno scenario per continuare a contare. Non sempre crisi diplomatiche, conflitti, attività di cooperazione o di altra natura sono dovute all'interesse economico. Spesso l'interesse può essere più sfaccettato e può essere anche una questione di prestigio nazionale, come per esempio accade nel Sud America quando gli Stati Uniti mostrano una maggiore attenzione verso determinate crisi che si vengono a creare.
  La necessità, quindi, di andare oltre l'approvvigionamento energetico spinge anche il nostro Paese a considerare una sua attività significativa nello scenario del Vicino Oriente. Questo anche in ragione delle nostre forti caratterizzazioni e nel ruolo centrale che noi giochiamo per quello che riguarda il cristianesimo nel mondo. Noi abbiamo assistito a otto anni di guerra civile in Siria; abbiamo visto gli ultimi strascichi negli ultimi mesi, quando c'è stata l'avanzata di Erdoğan nel nord della Siria; l'opinione pubblica ha abbracciato indistintamente e indiscriminatamente la causa curda in quel momento, sia per una simpatia nei confronti del popolo curdo sia per la generale insoddisfazione che l'esercizio delle armi e della forza genera nell'opinione pubblica occidentale; però, il punto è: che ruolo può giocare effettivamente il nostro Paese, anche a livello diplomatico, in uno scenario come quello, dove tra i più colpiti dalle tragedie umanitarie prodotte dalla guerra civile figurano proprio i cristiani d'Oriente, che infatti sono fortemente diminuiti e sono tra i principali profughi e soprattutto hanno scelto spesso strade che non sono quelle irregolari per esempio della rotta balcanica, ma quelle dei canali umanitari attraverso la Giordania, con tutta una serie di problemi che questo ha comportato? L'interesse dell'Italia sarebbe stato quello di favorire una stabilizzazione dello scenario, Pag. 6 costruire rapporti di vicinanza alle comunità cristiane locali, ascoltare anche le indicazioni che venivano date nella definizione di una posizione politica in quell'ambito.
  In Siria si è avviato un processo di normalizzazione del Paese dopo tanti anni di guerra civile. È un dato di fatto che il Governo legittimo siriano, riconosciuto dalla Comunità internazionale, ha normalizzato quasi il 90 per cento del Paese, lo ha messo in equilibrio. Chi è stato lì sa che la guerra civile attorno a Damasco e su fino ad Aleppo oramai è terminata. Rimane il nord della Siria interessato dall'offensiva turca, che giustamente il nostro Governo ha condannato, ma che l'opinione pubblica, per certi aspetti, ha frainteso nel momento in cui addirittura c'è stato chi ha parlato di costruire un Kurdistan indipendente. La domanda è: costruire un Kurdistan indipendente significa che vogliamo smantellare quattro Stati sovrani e farne uno nuovo – perché oltre alla Siria parliamo dell'Iran, della Turchia e dell'Iraq – e scompaginare definitivamente il quadro e il mosaico del Medio Oriente già così travagliato? Su questo l'opinione pubblica deve essere informata nel modo migliore, bisogna cercare di non sollecitare suggestioni che potrebbero portare a fare pressioni assolutamente inapplicabili sui Governi, a meno che non si voglia scatenare una guerra.
  Noi dobbiamo – ritengo – elaborare come Paese delle strategie che portino finalmente a una pacificazione del quadro mediterraneo; trovare il modo migliore anche per normalizzare i nostri rapporti con l'Egitto, che era un nostro partner fondamentale, mentre negli ultimi anni, per una serie di crisi, a cominciare da quella legata alla tragica vicenda del ricercatore Giulio Regeni, i nostri rapporti bilaterali sono stati compromessi. Come Osservatorio noi riteniamo che il filone rappresentato dalla presenza, purtroppo sempre più residuale e sempre più messa sotto scacco dalla pressione della maggioranza musulmana, dei cristiani in quelle aree possa essere un veicolo di intervento mediante il soft power, quindi andando a dialogare con parti di quelle società che possono essere a noi più vicini, ascoltando le loro esigenze, le loro richieste, ma senza solleticare l'identità religiosa in un senso aggressivo. Questo è un altro rischio che si corre: quello di costituire forme di «jihadismo cristiano» – messo tra dieci virgolette – che non è né nell'interesse delle comunità cristiane né nell'interesse dell'Europa, e dell'Italia in particolare, che però meritano, nello stesso tempo, di avere tutta l'attenzione necessaria da un Paese che è la culla della cristianità. Ripeto, sono comunità che hanno vissuto in toto la crisi rappresentata dalle «Primavere arabe», che hanno, più di altre, sofferto la marginalizzazione e che guardano al nostro Paese come un punto di riferimento che può indirizzare anche gli sforzi diplomatici della comunità occidentale.

  PRESIDENTE. Non posso esimermi, nella duplice veste di relatore dell'indagine conoscitiva e vicepresidente, di farvi presente che nella Legge di bilancio dello scorso anno, proprio su iniziativa di questa Commissione, attraverso l'approvazione di un emendamento a mia prima firma, è stato istituito un fondo per i cristiani perseguitati. L'Italia diventa così uno degli unici due Paesi al mondo, assieme all'Ungheria, ad avere questo fondo che è proprio volto ad aiutare i cristiani a rimanere in quelle terre dove risiedono da millenni o a reinsediarsi dopo i conflitti. Quindi è un tema ben presente a questa Commissione e con un largo consenso bipartisan.
  A questo proposito vi chiederei come prima domanda – e poi raccogliamo anche quelle dei colleghi – quale sia secondo voi l'approccio migliore che deve seguire l'Italia per tutelare queste comunità. Ovviamente è nostro interesse precipuo che il Mediterraneo si stabilizzi, perché le aree di caos sono evidenti, alcune in miglioramento, altre stabili o in peggioramento. Quindi, davvero, questo può essere il nostro spazio economico, il nostro spazio di commercio e rientra tra gli interessi nazionali che si possano esprimere al massimo le nostre potenzialità in quest'area.

  YANA CHIARA EHM. Ringrazio i rappresentanti di EURISPES per questa panoramica. Pag. 7 Mi permetto di dire che ho punti di vista diversi su alcune questioni, proverò ad elencarli brevemente e magari riuscire a creare anche uno spazio di discussione su queste tematiche.
  Mi sono segnata alcuni punti. La prima cosa che vorrei dire è sulla questione «Primavere arabe», sul fatto che hanno creato dei danni agli interessi italiani. Su questo ovviamente non c'è dubbio, si è creata una instabilità enorme in tutto il bacino del Nord Africa e del Medio Oriente; ciò che però mi preme dire è che mentre a livello politico questa instabilità è perdurata perché, a parte la Tunisia, le difficoltà politiche in alcuni Paesi si sono protratte fino ad oggi, a livello economico è stato sorprendente vedere che soltanto nel 2011-2012 si sono registrate disparità a livello economico, mentre poi le performances sono migliorate in maniera abbastanza omogenea, senza provocare dunque grandi dissesti. A livello politico concordo che l'instabilità è stata notevole e il tentativo di ricostruire i rapporti con alcuni Paesi è stato piuttosto faticoso.
  La Libia è uno dei punti caldi, di cui noi discutiamo molto frequentemente anche in Commissione. Abbiamo provato a fare un lavoro ampio, ovviamente con la Conferenza di Palermo. Attualmente stiamo collaborando in vista della Conferenza di Berlino, ho parlato della questione con i nostri omologhi in altri Paesi e registriamo dei passi in avanti. Se conviene all'Italia una Libia tripartita? Certamente no, non conviene. Non conviene secondo me a nessuno. Abbiamo di fronte a noi un Paese in guerra, che ha un conflitto tuttora in corso, che quindi ha delle ripercussioni economiche, migratorie, eccetera, però questa non è una tematica che riguarda solo l'Italia ma tutto il bacino mediterraneo, inclusi i partner nordafricani che ne soffrono.
  Sulla questione curda ritengo che quello che è successo con l'intervento militare della Turchia abbia visto una reazione omogenea e, a mio parere, apprezzabile. Parliamo di una situazione segnata da anni e anni di guerra, e un altro intervento militare – tra l'altro strumentale – non era visto bene, era da condannare, ed è stato condannato. I curdi hanno contribuito notevolmente a contrastare Daesh, credo anche che questo continuo confrontare il PKK con l'YPG non sia corretto, anche perché parliamo effettivamente di due organizzazioni molto differenti. Parliamo di un PKK che è nato negli anni Settanta, che ha cambiato la sua fisionomia in diversi momenti, mentre l'YPG nasce proprio, anche su impulso degli americani – se proprio vogliamo dirlo – durante la guerra siriana, quindi ha tutta un'altra impostazione. Farei attenzione ad affermare che chi ci ha rimesso sono proprio i cristiani. I cristiani ci hanno rimesso tantissimo, specialmente gli iracheni e i siriani ad Aleppo e a Idlib, ma ricordiamoci che parliamo di un mezzo milione di morti e cinque milioni di sfollati, principalmente siriani. Quindi piuttosto che parlare di cristiani, parlerei di catastrofe umanitaria che comprende tutti.
  Il processo di normalizzazione credo sia in atto, ma non direi che siamo vicini a una stabilizzazione. Parliamo di un Paese forse parzialmente stabilizzato nell'area di Damasco, ma appena ci spostiamo a est o a sud, dobbiamo registrare ancora bombardamenti, pressoché giornalieri, che colpiscono anche obiettivi civili, come le scuole o i mezzi delle Agenzie ONU. È una situazione ancora molto precaria e non siamo nemmeno arrivati allo step di superare l'emergenza umanitaria. Purtroppo siamo ancora molto lontani. Mi preme ribadirlo, perché a volte si parla di una situazione post bellica, quando siamo ancora ben lontani, specialmente se consideriamo la ricostituzione di alcune sacche terroristiche.
  Ultimissimo punto, questione egiziana. Certamente la vicenda Regeni ha influito. Devo dire, peraltro, che in Egitto si registra annualmente la sparizione di circa quattrocento persone. Regeni era un nostro concittadino, quindi per noi la sua vicenda è molto importante, ma purtroppo è solo uno dei tantissimi.

  VITO COMENCINI. Vorrei fare alcune riflessioni su quello che è stato detto e poi porre un paio di domande.
  Condivido la critica, seppur con un obiettivo positivo, nei confronti delle «Primavere arabe» e dell'instabilità che hanno Pag. 8creato in tutta la regione, anche se vorrei aggiungere che non va dimenticato che, se da una parte ci sono state queste rivoluzioni che hanno portato instabilità, dall'altra c'è stata una guerra in Libia dove ci sono stati degli attori internazionali che sono intervenuti pesantemente e hanno creato questa situazione di instabilità, che difficilmente si sarebbe creata semplicemente con le rivolte popolari o quant'altro.
  Lo stesso vale per la Siria. Voi avete parlato di guerra civile, ed è corretto, nel senso che è evidente che si tratta di un Paese con diverse peculiarità, quindi è normale che vi siano forti tensioni, però anche lì gli attori internazionali sono intervenuti pesantemente. L'abbiamo visto recentemente con la Turchia. La questione è molto delicata, ma sappiamo benissimo che, se a un certo punto da una parte non fosse intervenuta la Russia, e dall'altra non fossero intervenuti gli Stati Uniti in supporto dei curdi e di Assad, Daesh non sarebbe stata sconfitta. Daesh che – sappiamo –, per quanto possa essere nata da un fondamentalismo islamico radicale che purtroppo spesso è presente in alcune regioni, ha avuto dei sostegni forti da parte di qualche potenza che li ha tollerati, e poi sappiamo com'è andata a finire.
  Condivido il ragionamento sulla necessità di un ruolo da protagonista dell'Italia nella regione del Mediterraneo per garantire la stabilità, anche perché per noi vuol dire anche garantire o comunque migliorare l'efficacia nel contrasto al traffico di esseri umani, quindi all'immigrazione clandestina, al traffico di sostanze stupefacenti, a tutte quelle attività criminali che le situazioni di instabilità vanno inevitabilmente a favorire. Lo abbiamo visto in passato, quando, seppur in presenza di regimi, in Libia e in Tunisia c'era una stabilità e si riusciva, attraverso degli accordi, a intervenire, mentre ora diventa molto più difficile farlo.
  Quello che vorrei chiedere è in merito alle regioni dove c'è un processo di stabilizzazione dopo le «Primavere arabe». La Tunisia stessa viene utilizzata spesso come esempio di Paese che va verso la democrazia o che comunque più si avvicina, fra tutti i Paesi del Nord Africa, a questa forma di governo, però al suo interno ha anche il gravissimo problema dei foreign fighters. Se non sbaglio, gran parte dei foreign fighters che hanno combattuto per Daesh venivano proprio dalla Tunisia, qualcuno è rientrato e costituisce in questo momento un grave pericolo. Poi c'è il Marocco, dove c'è una monarchia che ha fatto un percorso molto importante, nel tentativo di creare stabilità all'interno del Paese, di contrastare il fondamentalismo. Però anche lì le minacce, i tentativi di queste forze di creare instabilità sono sicuramente forti. Poi c'è la questione dell'Egitto. Qualche settimana abbiamo avuto un'audizione con degli attivisti per i diritti civili, che hanno portato la loro visione critica nei confronti del regime di al-Sisi. È vero che, prima che arrivasse al-Sisi, c'era un clima di fondamentalismo islamico sempre più forte in Egitto, ancora adesso c'è una grave persecuzione nei confronti dei cristiani, non da parte sicuramente del Governo ma da parte di questi fondamentalisti. Credo che come cristiani sarebbe doveroso che ce ne occupassimo e approfondissimo la cosa. Gli ultimi dati dicono che con il regime di al-Sisi gli attacchi ai cristiani sono diminuiti fortemente, e questo è un dato molto importante. Vorrei capire se effettivamente – sebbene sia evidente che si tratta di un regime e non certo di una democrazia moderna – riesce a garantire questa tutela nei confronti della nostra minoranza cristiana copta.

  PRESIDENTE. Do ora la parola ai nostri ospiti per le repliche.

  GERARDO ROMANO, Presidente dell'Osservatorio sul Mediterraneo dell'EURISPES. Grazie, presidente. Naturalmente è una discussione, ha ragione, nessuno possiede delle verità incontrovertibili. Si tratta di tentare delle analisi, ci sono alcuni dati che però dovrebbero aiutarci a comprendere quello che avviene.
  Cercando di semplificare, alcuni sviluppi sono stati stimolati dal mondo anglosassone, che ha caratterizzato una serie di iniziative. Se posso essere un po’ tranchant, Pag. 9mi riferisco al mondo anglosassone, e penso non solo agli Stati Uniti ma soprattutto al Regno Unito, dove il rapporto con gli islamici ha spesso dei connotati complessi. Non riusciamo nemmeno a comprendere, in termini di analisi, fino a che punto sono o meno coerenti rispetto alle posizioni dichiarate. Faccio questo ragionamento, senza l'ambizione di dare una risposta, perché è chiaro che stiamo parlando di un fenomeno, ma sulla «Primavera araba» ricordo una bella lezione del giovane Galbraith che ci spiegava, dal punto di vista degli Stati Uniti, che era una sorta di sperimentazione di un nuovo metodo di approccio su alcuni territori in luogo delle armi. Tale sperimentazione si dispiegava attraverso i sistemi della comunicazione, che per la prima volta sono utilizzati in modo così massiccio in quel mondo, e un approccio di stimolo economico, di promessa economica e di libertà.
  Mi premono due riflessioni. Noi come Osservatorio – vorrei anche qui essere chiaro – riteniamo che sia nostro compito accompagnare questa Commissione con un'analisi sulle fenomenologie delle forze in campo. Ci permettiamo soltanto di dire che abbiamo potuto constatare alcuni elementi. Senz'altro nella questione libica, se possiamo tutti essere d'accordo che è interesse comune avere un solo interlocutore, sappiamo che in questo Paese insistono vari e diversi interessi di Italia, Francia e Regno Unito. Così come in questa partita si è affacciato, in maniera prepotente, un altro Paese che sul bacino del Mediterraneo sta svolgendo un ruolo importante, che è la Turchia, attraverso un rapporto finanziario essenziale con il Qatar.
  Mi rifaccio a una battuta del dottor Sansoni di qualche minuto fa: al di là di quella che può essere una valutazione basata su simpatie, è un problema di fotografare quali sono gli interessi in campo. Anche quando si dice che sono tutti d'accordo che in Libia ci sia un solo Stato: ho fatto prima cenno a tre Paesi, io su qualche Paese ho seri dubbi, ma questo vale per il nostro pensiero da Osservatorio appena nato, ma che ha seguito con attenzione queste tematiche. Sotto questo aspetto non crediamo che tutti stiano remando per la soluzione, anche perché, per quello che possiamo aver compreso, delle ipotesi di unificazione sono state probabilmente sabotate attraverso dei meccanismi – a cui si faceva riferimento – quali la formazione o riformazione in chiave islamica di grandi potenze europee. Quindi su questo tipo di ragionamento è chiaro che ci possono essere delle situazioni particolari. Pertanto occorre capire, rispetto all'analisi che siamo abituati a fare, quale ruolo la Turchia sta svolgendo nel bacino del Mediterraneo, perché anche qui credo che sia necessaria una riflessione attenta sulle dinamiche politiche ed economiche che riguardano questo Paese. Anche alla luce di una capacità, indubbia, di chi guida quel Paese di prendere da tutti per rafforzare la posizione della Turchia. Questo è il dato.
  Per quello che riguarda la Libia è una situazione complessa. Ricordo che noi abbiamo interessi importanti, che sono distribuiti in un territorio per gran parte controllato da Haftar, e bisognerà fare una sintesi, anche qui, tra coerenze di azioni politiche internazionali dichiarate e gli interessi sul campo. È chiaro, se abbiamo compreso bene, che probabilmente è entrato in Libia un nuovo attore che fino a qualche tempo fa era molto più marginale, che è la Russia. In questo il fatto di non esserci o di essere particolarmente prudenti lascia degli spazi vuoti, che sappiamo – è una legge fisica – vengono riempiti.
  Dobbiamo anche soffermarci su due elementi, perché un altro grande Paese del mondo arabo che affaccia sul Mediterraneo è senz'altro l'Egitto. Siccome è corretto porsi delle domande con chi interloquiamo, anche rispetto alla violazione di interessi nazionali o di diritti di nostri concittadini. Credo comunque che sia bene analizzare con precisione i fenomeni, perché penso che le sedi istituzionali debbano compiere le analisi avendo chiaro il panorama rispetto agli interessi di chi era lì a rappresentarli, perché altrimenti anche qui diventa un problema un po’ complesso. Ma su questo noi ci auguriamo che ci possa essere massima chiarezza nei rapporti tra le autorità italiane e le autorità egiziane, Pag. 10fermo restando che poi bisognerà pure avere un chiarimento da chi non spiega perché ha mandato quel ragazzo lì. Lo dico perché, se ci avviciniamo ai problemi con il «giusto o sbagliato», come se ci fossero i buoni e i cattivi, credo che andiamo poco lontano. Bisogna capire che nei grandi Paesi ci sono situazioni complesse, con tutta una serie di interessi che sono garantiti anche rispetto a interessi esterni. Bisogna capire se la presenza dell'Italia possa accompagnare l'Egitto – un Paese che fa l'8 per cento di PIL di crescita e che può essere un modello di sviluppo in quell'area – analogamente a quello che sta facendo, in maniera importante, la Germania. Si parlava prima del canale di Suez: i due più grandi investitori sono i cinesi e i tedeschi. Quindi su questo bisognerà sviluppare, a nostro avviso, un'attenta analisi per comprendere quali sono i nostri interessi. I nostri interessi, in un clima di stabilizzazione, sono aprirci a nuovi mercati e cambiare le abitudini. Noi siamo convinti che anche un commercio garantito, che trovi delle regole coerenti con un modello di sviluppo di una democrazia occidentale, vada accettato, anche nel rispetto dei diritti di tutti (è essenziale). Ricordo che problemi analoghi, se ricordo bene, li abbiamo avuti all'inizio anche con la Turchia.
  Termino con un solo dato, che vuole essere un contributo rispetto a un'osservazione corretta che è stata fatta: indubbiamente in alcuni Paesi, come l'Egitto ad esempio, con questo tipo di sistema, in un momento in cui le conflittualità all'interno del mondo musulmano sono talmente ampie e con un retaggio ancora fortemente ideologico e religioso, la comunità cristiana copta è diventata un punto di riferimento. In qualche modo già lo era, avendo una tradizione economica importante, ma è diventata una realtà che può avere la sua visibilità anche istituzionale.
  Questo è il percorso che noi stiamo proponendo: quello di aprirsi a questi mondi soprattutto attraverso progetti di cooperazione economica che consentano alle nostre imprese di operare su quei territori. Che vuol dire operare anche in termini di legalità, di presidio del territorio, dando occupazione là dove serve ed esportando il nostro know how, che non è fatto soltanto di elementi tecnici, ma anche di tanta cultura, soprattutto della piccola e media impresa, che, quando si sposta, porta un modello di lavoro che crediamo possa arricchire e stabilizzare il processo di pace nel contesto del Mediterraneo.

  ALESSANDRO SANSONI, componente dell'Osservatorio sul Mediterraneo dell'EURISPES. Sarò brevissimo, corroborando quello che ha detto il presidente Romano: per esempio, ricordo che in Egitto, nella zona franca attorno al canale di Suez ancora non c'è una presenza significativa italiana, mentre invece c'è la presenza di tanti altri Paesi importanti dell'Occidente, e questo è un po’ un paradosso laddove ci sono delle opportunità, anche e soprattutto, per le nostre piccole e medie imprese.
  Invece riprendendo il discorso sulla pacificazione della Siria, che veniva posta prima dall'onorevole Ehm, segnalo che non è ancora completata, come hanno dimostrato anche i bombardamenti che ci sono stati nelle ultime settimane, alcuni dei quali condotti da aerei israeliani, come è stato sottolineato dal quotidiano israeliano «Haaretz» e anche dalla presa di posizione della Russia, che sostiene di non voler più accettare violazioni dello spazio aereo siriano. Come EURISPES riteniamo che questo processo di pacificazione, che ovviamente non è completo e che però ha portato negli ultimi due/tre anni un riordino del territorio – sicuramente non ci sono più i drammi e la conflittualità che abbiamo conosciuto in periodi ben più gravi – è stato ottenuto, in generale, grazie all'offensiva anti-Daesh e, in particolare, al costituirsi di questa alleanza Assad-Russia-Iran e milizie filoiraniane, a cominciare da Hezbollah; per poter essere completato, al di là del risultato sul campo, tale processo ha bisogno adesso di un ruolo attivo dal punto di vista diplomatico dei Paesi occidentali. Penso agli americani, ma penso soprattutto ai Paesi europei, e probabilmente dovremmo riferirci anche ai Parlamenti Pag. 11dell'Unione europea. Mi spiego meglio. L'Italia sta riaprendo finalmente la propria Ambasciata a Damasco, in questi ultimi mesi si è lavorato in questo senso, però c'è bisogno di riavviare forme di riconoscimento politico del Governo legittimo siriano, perché altrimenti in quell'area coloro che hanno aiutato il regime di Assad a mantenersi in vita e a riconquistare terreno avranno comunque la possibilità di dire la propria con una certa forza. Il che, soprattutto se si tratta dell'Iran, certamente non può destare la soddisfazione di un vicino come Israele. In questo senso l'Italia e gli altri Paesi europei giocano un ruolo cruciale per riequilibrare anche la percezione che si ha di come è andata a concludersi questa guerra, che tra l'altro il Governo siriano non ritiene civile, ma considera una vera e propria aggressione. Con la capacità di mediazione e di equilibrio che può avere la diplomazia europea, avviare forme di riconoscimento della situazione di fatto presente sul territorio aiuta a non far percepire più il Governo legittimo come ostile a Israele, e magari a coloro che nella regione sono avversari della Repubblica islamica sciita dell'Iran. Noi, come europei, prima ancora che italiani in questo caso, dobbiamo essere portatori dei nostri interessi e assumere le parti dell'uno o dell'altro, ragionare sulla situazione presente sul territorio e provare a «metterci il cappello». Questa può essere una soluzione utile ad avviare un percorso di pacificazione progressiva, effettiva e che soprattutto possa produrre una diminuzione delle notevoli forme di diffidenza, che coloro che hanno vinto sul campo generano nei vicini, e non solo.
  Aggiungo che il ruolo dell'Italia nello scenario Mediterraneo mediorientale, come nordafricano, per vedere un maggiore protagonismo del nostro Paese oltre alle presenze economiche e diplomatiche, qualche volta militari, oltre alla nostra capacità di proiezione nella cooperazione internazionale, ha bisogno anche – si diceva prima – di una presenza culturale. Noi queste cose le facciamo, abbiamo i nostri archeologi in Libia, in Egitto ma anche in Siria, a Palmira, e tuttavia c'è un problema di rendere percepibile il nostro punto di vista in questi Paesi. Mi spiego meglio. Si è parlato prima dell'America, dei Paesi anglofoni, di come giocano una partita, che spesso ha anche contribuito a determinare forme di confusione particolarmente violenta; noi riusciamo a veicolare il nostro punto di vista in questi Paesi in maniera sistematica, quotidiana? I Paesi anglofoni lo fanno innanzitutto con la potenza dei loro grandi network televisivi, che spesso sono in lingua araba, o anche con le principali agenzie di stampa (l’Associated Press, la Reuters) che sono – lo fa anche la Russia, naturalmente, con la TASS – strumenti che vengono utilizzati a corroborare l'azione politica, diplomatica, economica e militare. L'Italia ha un notiziario in lingua araba, che magari rende disponibile alle opinioni pubbliche e alle opinioni politiche di questi Paesi? Mette in campo azioni di questo tipo? Questa è una domanda credo cruciale, quando un Paese vuole essere protagonista in un'area. Io vi do anche una risposta. Ce l'ha, ma è poco conosciuto. Lo fa una delle agenzie di stampa che sicuramente voi come Commissione Affari esteri seguite di più: l'agenzia di stampa «Nova». Ho fatto questo esempio, ma sarebbe ancora meglio se la RAI avesse un notiziario e una capacità di proiezione in lingua araba, chiaramente parliamo di ben altre risorse e di uno strumento di ben altra corposità, ma pensarsi come Paese, che è grande potenza in uno scacchiere regionale, significa anche questo. Soprattutto oggi, quando il confronto, il dialogo e il conflitto avvengono anche attraverso l'informazione.
  Il soft power. Questo è probabilmente uno degli elementi che possono essere attenzionati dal Parlamento italiano, da chi si occupa di delineare le strategie di politica estera, e fa il paio con le possibilità che un Fondo, come quello di cui parlava il presidente, può offrirci di interloquire con gli attori presenti sul territorio, sia quelli istituzionali sia quelli non istituzionali, tenendo sempre presente, per esempio nel caso siriano, che è Pag. 12importante passare per i canali ufficiali e non puntare soltanto all'organizzazione presente sul territorio, che magari corrisponde ed è coerente con gli scopi del Fondo. Altrimenti questo, in un contesto come quello siriano che ha un assetto mosaicale di presenze differenti (alauiti, drusi, musulmani sunniti, musulmani sciiti, eccetera), può determinare un effetto contrario a quello che è perseguito da questa Commissione: un processo di pacificazione.

  PRESIDENTE. Non ci sono ulteriori interventi, ringrazio gli ospiti e dichiaro conclusa l'audizione.

  La seduta termina alle 15,40.