XVIII Legislatura

III Commissione

Resoconto stenografico



Seduta n. 8 di Mercoledì 15 maggio 2019

INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:
Grande Marta , Presidente ... 3 

INDAGINE CONOSCITIVA SULLA POLITICA ESTERA DELL'ITALIA PER LA PACE E LA STABILITÀ NEL MEDITERRANEO

Audizione di Arturo Varvelli, Senior Research Fellow e condirettore del Centro Medio Oriente e Nord Africa dell'Istituto per gli studi di politica internazionale (ISPI).
Grande Marta , Presidente ... 3 
Varvelli Arturo  ... 4 
Grande Marta , Presidente ... 8 
Formentini Paolo (LEGA)  ... 8 
Valentini Valentino (FI)  ... 9 
Cabras Pino (M5S)  ... 10 
Quartapelle Procopio Lia (PD)  ... 10 
Carelli Emilio (M5S)  ... 11 
Billi Simone (LEGA)  ... 12 
Grande Marta , Presidente ... 12 
Varvelli Arturo  ... 12 
Grande Marta , Presidente ... 16

Sigle dei gruppi parlamentari:
MoVimento 5 Stelle: M5S;
Lega - Salvini Premier: Lega;
Partito Democratico: PD;
Forza Italia - Berlusconi Presidente: FI;
Fratelli d'Italia: FdI;
Liberi e Uguali: LeU;
Misto: Misto;
Misto-Civica Popolare-AP-PSI-Area Civica: Misto-CP-A-PS-A;
Misto-Minoranze Linguistiche: Misto-Min.Ling.;
Misto-Noi con l'Italia-USEI: Misto-NcI-USEI;
Misto-+Europa-Centro Democratico: Misto-+E-CD;
Misto-MAIE - Movimento Associativo Italiani all'Estero: Misto-MAIE;
Misto-Sogno Italia - 10 Volte Meglio: Misto-SI-10VM.

Testo del resoconto stenografico

PRESIDENZA DELLA PRESIDENTE
MARTA GRANDE

  La seduta comincia alle 10.35.

Sulla pubblicità dei lavori.

  PRESIDENTE. Avverto che la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata attraverso l'attivazione di impianti audiovisivi a circuito chiuso, nonché la trasmissione sul canale della web-tv della Camera dei deputati.

Audizione di Arturo Varvelli, Senior Research Fellow e condirettore del Centro Medio Oriente e Nord Africa dell'Istituto per gli studi di politica internazionale (ISPI).

  PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sulla politica estera dell'Italia per la pace e la stabilità nel Mediterraneo, l'audizione di Arturo Varvelli, Senior Research Fellow e condirettore del Centro Medio Oriente e Nord Africa dell'Istituto per gli studi di politica internazionale (ISPI).
  Saluto e ringrazio il dottor Varvelli per la sua disponibilità a prendere parte ai nostri lavori. Il dottor Varvelli è notoriamente considerato tra gli analisti più esperti a livello internazionale sulla Libia. Nell'esigenza unanimemente condivisa di dedicare un capitolo dell'indagine conoscitiva all'approfondimento del contesto libico, il dottor Varvelli è stato immediatamente indicato dai Gruppi come il miglior riferimento scientifico per inquadrare la tematica, alla luce delle più recenti evoluzioni.
  Al riguardo, segnalo che lunedì 13 maggio il Consiglio dei Ministri dell'Unione europea ha discusso di Libia insieme al Rappresentante Speciale del Segretario Generale delle Nazioni Unite per la Libia, Ghassan Salameh, per uno scambio di opinioni sulle eventuali, prossime tappe, al fine di evitare un'ulteriore escalation del conflitto.
  Ad esito del dibattito, i Ministri degli esteri dell'Unione europea hanno approvato una dichiarazione, nella quale, tra le altre cose, si ribadisce l'impegno a favore della sovranità, dell'indipendenza, dell'integrità territoriale e dell'unità nazionale della Libia, e si invitano tutte le parti ad attuare immediatamente il cessate il fuoco e a dialogare con le Nazioni Unite per garantire la piena e completa cessazione delle ostilità.
  Nella dichiarazione si sottolinea altresì che tutte le parti devono proteggere i civili, migranti e rifugiati compresi, consentendo e facilitando la fornitura sicura, rapida e senza impedimenti di aiuti e servizi umanitari a tutte le persone colpite, come sancito dal diritto internazionale umanitario e dal diritto internazionale dei diritti umani.
  Infine, i Ministri degli esteri hanno ribadito che non esiste una soluzione militare della crisi in Libia ed esortato tutte le parti a impegnarsi nuovamente nel dialogo politico, facilitato dalle Nazioni Unite, e ad adoperarsi a favore di una soluzione politica globale alla crisi in Libia, come convenuto a Parigi nel maggio 2018, a Palermo nel novembre 2018 e ad Abu Dhabi nel febbraio 2019, per aprire la strada allo svolgimento di elezioni nazionali.
  In questo quadro l'Unione europea ribadisce il pieno sostegno ai lavori del Rappresentante Speciale del Segretario Generale e alla la missione di sostegno delle Nazioni Unite in Libia.
  Do quindi la parola al dottor Varvelli.

Pag. 4

  ARTURO VARVELLI, Senior Research Fellow e condirettore del Centro Medio Oriente e Nord Africa dell'Istituto per gli studi di politica internazionale (ISPI). Grazie, presidente, innanzitutto per questa opportunità. Cercherò di essere molto breve, perché immagino che possa essere più proficuo uno scambio tra noi, in modo che questa mia presenza si focalizzi su alcuni punti importanti.
  Ciò che mi preme sottolineare è una prospettiva italiana di questa crisi. Cosa l'Italia può fare, come si deve comportare penso che sia la questione più rilevante. L'Italia sconta sempre un po’ la convinzione altrui di avere una posizione ambigua, inaffidabile, e scarsa credibilità in politica estera, e bisognerebbe tener sempre presente questo limite che ha la politica estera italiana agli occhi altrui.
  Penso che sia essenziale, anche in questa circostanza libica, non fare una sorta di bandwagoning, di salto sul carro di quello che si pensa sia il vincitore, ma che forse non lo è. Errore che probabilmente commettemmo nel 2011, quando per diverse ragioni l'Italia non fu capace di prendere una posizione diversa sulla crisi libica e sul regime di Gheddafi. Fare la storia con i «se» e con i «ma» è molto difficile e non è questo il caso, ma sicuramente possiamo dire, con una valutazione a posteriori, che quell'intervento, fatto con quelle tempistiche e con quel risultato, non era nel nostro interesse.
  L'Italia rinunciò ad avere allora una funzione di indirizzo e di guida di quella crisi, nonostante avesse individuato e messo un alert sulle eventuali conseguenze. Sostanzialmente l'Italia aveva ragione manifestando dubbi su quell'intervento, ma non ebbe la forza.
  Le conseguenze sono state quella sorta di caos libico, che si protrae dal 2011 e che ha portato ad una serie di conseguenze non secondarie, tra le quali annoveriamo anche una crescita dei flussi migratori, che sono solo in parte dovuti a quel caos libico che si creò a seguito della caduta del regime di Gheddafi, ma anche un'altalenante capacità di far fronte ai propri flussi energetici provenienti da quel Paese.
  Il petrolio libico, prima della crisi del 2011, rispondeva a un quarto del nostro fabbisogno energetico complessivo, ma poi le conseguenze sono state altre, una conseguenza di destabilizzazione di parte del Nord Africa, certamente della fascia del Sahel e del Mali.
  Questo ci riporta alle decisioni che il Governo italiano deve prendere in queste settimane e in questi giorni, cioè ci conviene fare un nuovo bandwagoning e passare al carro di quello che si pensa sia il vincitore? Io penso di no, cioè non è conveniente per i nostri interessi spostarsi troppo sul fronte di Haftar, e non lo è per evidenti ragioni.
  La prima è perché riapre una partita con chi controlla parte delle aree che sono di nostro prioritario interesse: la Tripolitania innanzitutto, da cui partono i flussi migratori, dove c'è un gasdotto dell'ENI, il Greenstream che da Mellitah, sulla costa libica, arriva a Gela, in Sicilia, e soprattutto – questa è la prima motivazione – un'alterazione di equilibri di quell'area, che non sarebbe a nostro vantaggio.
  Il secondo punto è che un salto sul fronte di Haftar ci metterebbe in concorrenza con altre potenze sponsor di Haftar stesso. Queste potenze sono la Russia, l'Egitto, gli Emirati Arabi Uniti, l'Arabia Saudita e anche, con una certa ambiguità, gli amici francesi. Cosa avrebbe l'Italia da offrire in più di quanto non già sia stato offerto da queste potenze al generale Haftar? È indubbio che le economie del Golfo dispongano di finanziamenti di cui noi non disponiamo, metterci in concorrenza con loro sarebbe ridicolizzarci da questo punto di vista.
  L'Egitto è sempre stato il primo sponsor di Haftar, poi probabilmente ha perso la mano a favore di queste potenze del Golfo, ma offre una frontiera porosa, dalla quale possono arrivare supporti di ogni tipo verso il generale. Francia e Russia dispongono, oltre che di una capacità militare superiore alla nostra e di una intelligence che si è prestata anche al servizio del generale, anche di un seggio alle Nazioni Unite, con il quale bloccare qualsiasi voto, che possa in qualche maniera ostacolare l'ascesa di Haftar; Pag. 5 e lo abbiamo visto, perché nelle dichiarazioni congiunte nominare il fatto che Haftar sia la parte che sta attaccando, al quale si deve questa crisi, è già un elemento di grande difficoltà.
  Da questo punto di vista, saltare su un carro sul quale vi sono già quattro o cinque guidatori è perlomeno inopportuno, ci metteremmo in una condizione di concorrenza e saremmo comunque l'ultima potenza che arriva a supporto. È meglio partire da un'analisi che sia più realistica della situazione in campo; e questa deve tenere conto che l'offensiva di Haftar non è stata adeguata a prendere la capitale; probabilmente Haftar pensava di entrare a Tripoli come salvatore della patria: è indubbio che la popolazione libica lo avesse guardato di buon occhio fino all'inizio dell'aprile scorso, perché con la sua capacità stabilizzante all'interno di un contesto caotico come quello libico, nel quale i servizi principali, le funzioni di uno Stato non esistono o sono quasi del tutto deragliate, Haftar offriva una soluzione di sensatezza da parte della popolazione libica.
  Penso che però il gesto di entrare nella capitale in maniera violenta lo abbia in buona parte screditato anche presso la popolazione libica della Tripolitania e di Tripoli stessa, della capitale, che in qualche maniera poteva guardarlo di buon occhio.
  Ora le milizie di Tripoli si sono riorganizzate, la città di Misurata, che riveste un'importanza particolare per l'Italia – vi è presente un nostro ospedale militare da campo, ma anche per una serie di relazioni bilaterali che abbiamo con la città stessa – dispone di milizie che, oltre che ben armate, sono anche dotate di uno spirito da città-Stato, sono le milizie più pronte a sorreggere una guerra contro il generale Haftar; l'hanno fatto nel 2016 contro Daesh, contro lo Stato Islamico nella città di Sirte, si sono sacrificate certo per i libici, ma anche per la comunità internazionale, sono entrate nella capitale e sono state un argine all'arrivo di Haftar.
  Haftar non si è dimostrato un generale capace dal punto di vista militare, perché la sua catena di comando e di supporto all'azione militare è molto lunga e molto lontana. L'operazione, dal punto di vista militare, non è stata affatto saggia. Ci troviamo in una situazione di stallo, nella quale l'ipotesi più probabile è che il conflitto sia di più lunga durata di quanto auspicasse il generale stesso e auspicassero i supporter internazionali, a cominciare dai Paesi del Golfo, Arabia Saudita ed Emirati Arabi.
  Questo ci porta in una situazione molto diversa, che guarda alla comunità internazionale, perché penso che la risposta internazionale a questa azione militare di Haftar sia stata molto debole. Quando parliamo di comunità internazionale parliamo di Nazioni Unite, ma sappiamo benissimo che le Nazioni Unite non possono operare se al loro seguito non c'è un supporto molto forte della comunità internazionale, che parla con una voce sola.
  La comunità internazionale non parla con una voce sola in Libia, parla con voci diverse, con una serie di ambiguità; se Haftar continuerà a percepire questa ambiguità e questa debolezza da parte della comunità internazionale, penserà che la sua azione sia ancora legittimata, e stessa cosa faranno gli sponsor esterni, in particolare i Paesi del Golfo, che potrebbero insistere in questo tentativo militare.
  Dall'altra parte sappiamo che ad una sorta di pressione che arriva da Emirati Arabi e Arabia Saudita corrisponde una che cerca di compensare questa pressione da parte di altre potenze, in particolare il Qatar e la Turchia. Quindi sappiamo che quando arrivano in mano ad Haftar dei droni dall'altra parte è molto facile che dal punto di vista militare si tenderà a pareggiare i conti, e questo non fa altro che creare una sorta di gioco a somma zero.
  Ritardiamo in continuazione il momento di svolta e di pacificazione della Libia, e mentre continuiamo a procrastinare questo periodo di svolta reiteriamo la possibilità di violenze all'interno dello scenario libico. L'interesse italiano è naturalmente quello di non avere questo scenario di violenza e di instabilità, sappiamo bene cosa ha comportato la Libia in questi anni.
  Per questo penso che bisogna abbandonare false narrative, delle quali l'Italia non Pag. 6può essere complice, come quella di Haftar che ci racconta ogni giorno che sta combattendo i terroristi. Alcune delle milizie che governano la capitale sono bande di criminali, non possiamo negarci questa realtà, dall'altra parte non possiamo neanche descriverle come terroristi. Tra gli obiettivi dei bombardamenti che ha effettuato Haftar ci sono milizie come quella di Misurata 166, che ha combattuto contro Daesh a Sirte: quindi sta bombardando chi ha combattuto ed è morto per combattere Daesh a Sirte.
  Non cadiamo quindi nella narrativa di Haftar, cerchiamo di decostruire questa narrativa, che viene sposata talvolta anche dai nostri partner. Il Ministro degli esteri francese Le Drian ha sposato questa visione in una recente intervista a Le Figaro, probabilmente per uscire da una situazione di imbarazzo, perché i francesi hanno investito molto sul generale Haftar, cercando di trasformarlo da attore militare in attore politico, e questo passo gli è riuscito a metà. Haftar ogni volta che ha stretto le mani nei vertici a Palermo, a Parigi, a Roma o ad Abu Dhabi, poi quando è tornato in patria ha continuato ad agire da war lord, non ha mai pensato in termini politici, e un conto è per la Francia e per Parigi accettare di essere il supporter di una parte politica, cosa diversa essere supporter di un signore della guerra.
  Da questo punto di vista penso che i francesi dovranno risolvere le loro ambiguità e potrebbe essere il momento opportuno per l'Italia di riallacciare una relazione più proficua e di mutua convenienza con gli amici francesi.
  Peraltro all'interno delle compagini di Haftar – è giusto ricordarlo, come vi sono da una parte, vi sono anche dall'altra – ci sono alcune milizie salafite. Rabi’ al-Madkhali era un predicatore saudita che ha avuto un certo successo all'interno di alcune milizie in Libia; queste milizie salafite combattono al fianco di Haftar ed è di qualche giorno fa la notizia che Haftar, mentre lancia proclami di combattere il terrorismo all'interno della Libia, veicola alle proprie milizie dei video, in arabo, nei quali inneggia al jihad.
  Questa è un'ambivalenza che ci fa capire quanto poco di ideologico ci sia nel conflitto libico. Non ci sono i buoni contro i cattivi, non ci sono gli estremisti contro i laici o i liberali, questa è una falsa narrativa: ci sono una serie di interessi in gioco e soprattutto alcuni attori interni che si sono prestati ad essere i federatori degli interessi di potenze esterne.
  Il maggior merito di Haftar – ha avuto una straordinaria abilità che gli va riconosciuta – è quello di aver messo in fila una serie di sponsor e di essersi manifestato in grado di farsi artefice di interessi esterni, perché annoverare tra i propri sponsor in parte la Francia – anche se la posizione ufficiale, come sappiamo, non è quella – ma certamente la Russia, l'Egitto, gli Emirati Arabi e l'Arabia Saudita è un grande vantaggio, è un grande merito ed è stata la sua maggiore capacità.
  Haftar però ha settantacinque anni, è un militare, e, anche se prendesse la capitale nel giro di due mesi o due settimane – ipotesi altamente improbabile al momento – come possiamo pensare che una stabilità duratura si crei su una sorta di dittatura di un settantacinquenne? C'è una serie di elementi su cui l'Italia dovrebbe fare presa.
  L'Italia ha un'Ambasciata a Tripoli, unica tra le potenze occidentali; sull'Ambasciatore Buccino non si possono che spendere buone parole quanto alla sua capacità e conoscenza del Paese, quindi ha la possibilità di dialogare sia con una parte sia con l'altra. È giusto dialogare con Haftar – sarebbe ipocrita pensare che non lo si debba fare – si deve fare però tenendo la barra dritta, non facendoci percepire come ambigui, impegnati nei nostri soliti giri – oserei dire – di valzer . Si deve soprattutto continuare a garantire una relazione che è stata importante fino adesso, quella con la città di Misurata e con alcuni elementi della Tripolitania, perché se facciamo percepire che li stiamo mollando, tutto potrebbe andare rapidamente molto male e potremmo perdere la nostra leva da una parte, ma non guadagnarla dall'altra. Anche nel caso di una preponderanza di Haftar, quindi, sarebbe bene «fargliela trovare Pag. 7un po’ dura», in maniera che Haftar debba mediare i suoi interessi con i nostri.
  Bisogna tener presenti due obiettivi. Uno, di breve periodo, è lavorare a un cessate il fuoco, che sarebbe un obiettivo prioritario. So che la nostra diplomazia ci sta lavorando, l'ambito giusto nel quale lavorarci è il tentativo di ricompattare su questa questione i nostri partner europei, ad esempio nel «P3+1», la formula di consultazioni individuata sulla Libia, che vuol dire Italia, Francia e Gran Bretagna più gli Stati Uniti.
  Se si riuscisse a lavorare ad una linea comune, presentarsi ai nostri amici e partner del Golfo, di una parte e dell'altra, e anche ai russi, sarebbe più facile; quindi prima lavoriamo in casa nostra, nell'area di nostra naturale proiezione, cerchiamo di riportare gli USA all'interno della crisi. Non penso che la posizione di Trump, detta in una telefonata agli amici emiratini o sauditi e poi ad Haftar stesso, sia ragionata, è probabilmente la posizione di una presidenza che guarda molto da lontano la crisi libica. Il Dipartimento di Stato e il Dipartimento della Difesa americana stanno lavorando con prospettive diverse e hanno cercato di compensare quella famosa telefonata di Haftar con Trump, però bisogna tenere presente quanto l'Amministrazione Trump sia sensibile a un asse privilegiato con le potenze del Golfo, in particolare l'Arabia Saudita.
  Da questo punto di vista c'è da lavorare molto a livello diplomatico e anche politico, ai più alti vertici possibili. Questo è il primo obiettivo, il secondo è un obiettivo di più lungo corso: tornare a lavorare a una stabilità libica. Se pensiamo che il conflitto si risolva in una sfida tra Haftar e al-Sarraj, siamo dalla parte sbagliata, la questione è decisamente più complessa. Probabilmente tra un paio di anni saranno entrambi usciti di scena, non immagino una Libia in mano a queste due persone tra cinque anni, data la debolezza di al-Sarraj, l'anzianità di Haftar e l'insuccesso di questa azione militare.
  Bisogna lavorare in una prospettiva di più lungo corso, pensare a una stabilizzazione che sia più profonda e metta insieme le varie componenti che supportano da una parte il Governo di unità nazionale, dall'altra il Parlamento di Tobruk.
  Ci sono due questioni fondamentali sulla Libia: una è l'integrazione delle milizie, lo smantellamento delle milizie, anche se può essere un'ipotesi utopistica fare uno Stato senza tener conto delle esigenze delle milizie. Le milizie hanno acquisito una legittimità, quando parliamo di milizie non parliamo semplicemente di ragazzini che sono al fronte, ma di ragazzini talvolta supportati dalle comunità locali; quindi bisogna coinvolgere queste milizie nella creazione dello Stato, e in alcune parti del mondo – in Libano e in Kosovo – è avvenuto con successo. Bisogna trasformare questi miliziani, o almeno parte di essi, in forze politiche, passaggio importante sulla lunga durata.
  Dall'altra parte, cos'è il gioco libico se non una corsa alle risorse? Quindi bisogna parlare, all'interno di un processo di stabilizzazione libico e di una negoziazione, anche della redistribuzione della rendita. Le Nazioni Unite, sia sul primo punto, quello di integrare le milizie, sia sul secondo, la redistribuzione della rendita, hanno sempre, in maniera ipocrita, evitato di intervenire, quindi bisogna rimettere all'interno della negoziazione questi due punti. Parliamo della rendita petrolifera, di come ridistribuirla al proprio interno, di cosa vogliono le milizie e della loro possibilità di trasformarsi da attori militari in attori politici.
  Il problema è lo scenario internazionale, come vi dicevo prima. Il rischio è un'estensione della conflittualità dal Golfo nell'area nordafricana. Mi pare che in questo momento Arabia Saudita ed Emirati Arabi guardino alle relazioni internazionali con due ottiche che sono sostanzialmente quelle della guerra fredda: il tentativo di isolamento dell'Iran e il tentativo di isolamento del Qatar. Lo fanno perché percepiscono come minacce esistenziali le forme politiche dei due Governi, quello dell'Iran, sciismo e sunnismo, e dall'altra parte quello della Fratellanza musulmana.
  Il Qatar si è fatto sponsor della Fratellanza musulmana almeno dal 2011 in maniera molto convinta. La Fratellanza musulmana Pag. 8 mette in dubbio la legittimità delle tipiche monarchie del Golfo, nelle quali la legittimità viene dall'alto, da un investimento di Allah attraverso il monarca. Vi è un ribaltamento concettuale da parte della Fratellanza Musulmana, per cui la legittimità viene dal popolo, viene dalla umma. Quindi le monarchie percepiscono la Fratellanza come elemento essenzialmente divisivo e come una minaccia esistenziale.
  Il tentativo dovrebbe essere quindi quello di rassicurarli, però non mi pare che la comunità internazionale ci stia riuscendo e anche la Libia viene coinvolta in questa narrativa. Penso che la Fratellanza Musulmana in Libia si sia dimostrata molto responsabile e abbia tenuto posizioni tutt'altro che estremiste; non ritengo che la Fratellanza Musulmana possa costituire una minaccia reale in Libia, perché è sempre stata storicamente debole e non ha avuto grande consenso, perché il lavoro di patronato che svolge la Fratellanza Musulmana l'ha sempre fatto il regime di Gheddafi.
  La Fratellanza Musulmana arriva dove non arriva lo Stato, ti dà una paghetta, una mancia, ti coinvolge, è capace di subentrare dove non c'è efficienza dello Stato, ma la Libia era uno Stato rentier, Gheddafi faceva esattamente questo, quindi lo spazio di manovra della Fratellanza Musulmana è sempre stato abbastanza limitato. Guardare alla Libia come a una minaccia di insorgenza di Fratellanza Musulmana indicata come terroristica è sposare la causa dei Paesi del Golfo, è una narrativa piuttosto falsa.
  Il rischio reale è che la comunità internazionale non sia compatta nel tenere insieme le istituzioni libiche, soprattutto le istituzioni economico-finanziarie. La Libia è un rentier State, uno Stato che basa le proprie rendite quasi esclusivamente sulla vendita di idrocarburi all'estero: nel momento in cui si decidesse che la parte della Banca centrale all'est o la Noc (National Oil Corporation), la compagnia nazionale petrolifera, può vendere il petrolio autonomamente, ci troveremmo non con una, ma con due Libie.
  Alla lunga, se la situazione di stallo si confermasse, qualche potenza straniera potrebbe essere tentata dal trovare questa facile soluzione e ci troveremmo con un Paese spaccato, de facto diviso in due, ancor più di quanto non sia oggi, quindi la comunità internazionale deve tenere la barra dritta e tentare di non dividere le istituzioni economico-finanziarie del Paese.
  L'Italia è una media potenza, abbiamo la capacità di fare delle scelte importanti in Libia; non abbiamo la capacità di risolvere la crisi libica da soli, non dobbiamo illuderci, non abbiamo un seggio alle Nazioni Unite, non abbiamo una forza nucleare, abbiamo una capacità ridotta di agire sul piano bilaterale; l'ambito d'azione italiano dovrebbe essere quello multilaterale, quindi ricompattare l'Europa, ricompattare gli attori i nostri partner europei su una posizione di ragionevolezza, parlare ad Haftar e a al-Sarraj, che sono in questo momento molto polarizzati, per un primo obiettivo, che è quello di un cessate il fuoco; poi convincere gli USA a tornare a supportarci, e anche guardare alla Russia, perché la posizione russa è stata tutt'altro che estremista sul caso libico.
  Penso che l'obiettivo russo sia quello di diventare il mentore di una trasformazione dell'area, sostituire gli Stati Uniti, e in questo momento gli interessi russi in Libia sono presenti, ma non sono paragonabili a quelli siriani. Quello a cui tiene la Russia è che per parlare con Haftar si debba passare da lei, per parlare di una stabilizzazione della Libia si tengano presenti anche le sue esigenze, quindi forse potrebbe essere utilizzata come strategia calmierante di Haftar. Questi naturalmente sono tutti auspici, l'importante è che l'Italia torni ad avere una forte credibilità sul piano internazionale e nelle relazioni con i nostri partner. Grazie.

  PRESIDENTE. Grazie. Lascio la parola ai colleghi che intendano intervenire per porre quesiti o formulare osservazioni.

  PAOLO FORMENTINI. Grazie, presidente. Ringrazio innanzitutto per la schiettezza e chiarezza assoluta. Come Lega, ma direi come Governo, abbiamo sempre ribadito il supporto al Governo legittimo di Pag. 9al-Sarraj; non per nulla è anche il Governo riconosciuto – va ribadito con forza in questa sede – dalle Nazioni Unite, un Governo che ha subìto un tentativo di colpo di Stato in questo ultimo periodo, con la motivazione addotta, come è stato ricordato, della lotta al terrorismo, cosa che evidentemente non è.
  Avrei voluto chiedere del ruolo di Francia e Stati Uniti nello scenario libico; già molto è stato detto, ma vorrei approfondire il tema delle dichiarazioni del Ministro degli Esteri francese Le Drian a Le Figaro, soprattutto laddove afferma che Haftar è parte della soluzione, non è la soluzione. È davvero sfuggito al controllo per l'attacco a Tripoli? Che evoluzione c'è stata? Perché l'attacco a Tripoli è stato addotto da Le Drian come motivazione di questo cambio di linea.
  Sugli Stati Uniti è già stato detto del doppio ruolo, della dichiarazione di Trump e della posizione del Dipartimento di Stato. Cosa fare come Italia per coinvolgere maggiormente gli Stati Uniti?

  VALENTINO VALENTINI. Ringrazio anch'io il nostro esperto, di cui seguo sempre le pubblicazioni e quindi mi sono trovato a rendermi conto di come gran parte della nostra riflessione sia già orientata dal pensiero che ha espresso. Alcune domande e alcune osservazioni. Le domande sono le seguenti.
  Quali sono a suo avviso i motivi del timing della scelta dell'offensiva in questo momento? Mi sono molto interrogato, ho fatto varie congetture, quindi vorrei sapere cosa a suo avviso abbia spinto in questo momento preciso il generale Haftar a sferrare questa offensiva.
  Condivido gran parte di quanto è stato affermato, non condivido o condivido in parte la narrativa sulle origini del conflitto del 2011, ma questo richiederebbe un colloquio molto più lungo e magari non si può ancora fare, perché siamo pienamente coinvolti in questa vicenda. Vorrei chiedere quali sarebbero le conseguenze di una spaccatura della Libia. Da «media impotenza», così come ci siamo configurati ultimamente, non abbiamo nulla a che fare e continuiamo a ripetere come l'Unione europea, ancora divisa da posizioni contrapposte, dica che non esiste una soluzione militare alla vicenda libica, ma a me pare tutto il contrario.
  Se in questa ipotesi si giungesse a una stretta, quali sarebbero le conseguenze? Sarebbe ipotizzabile quello che ci ha presentato alla fine, vale a dire la scissione della Noc, la scissione della rendita della Banca centrale, la creazione di due Stati, il ritorno a una situazione pre-intervento italiano in era coloniale, Tripolitania, Fezzan, Cirenaica che a noi abbiamo unito in questo quadrato che tutti vediamo dal punto di vista geografico, ma che in realtà ha delle forze tra di loro contrapposte?
  Avrei altre indicazioni, ma sono tutte sfumature o sottolineature di alcune posizioni che Lei ha assunto. Sicuramente la Fratellanza Musulmana non rappresenta un problema per noi, rappresenta un problema per il fatto che ormai il conflitto libico è diventato parte di questa nuova guerra fredda, che mi pare caldissima, che si sovrappone in parte allo scontro in atto nel mondo sunnita, dove vediamo la lotta tra salafiti e Fratelli Musulmani, che hanno purtroppo cooptato al loro interno gli Stati Uniti d'America.
  Credo che le parole del nostro esperto fossero rivolte in parte anche al nostro Governo nell'incitare alla barra dritta, laddove leggiamo delle dichiarazioni che ci fanno pensare che gli italiani siano pronti a saltare sul carro dei vincitori. Temo che invece della cabina di regia vi siano altri sviluppi, quali voler indicare i Fratelli Musulmani, dopo gli sciti e le milizie, come terroristi, legittimando una guerra come guerra al terrorismo.
  Stiamo aspettando un bellissimo piano di pace, che dovrebbe risolvere la questione tra i palestinesi e gli israeliani, piano di pace che passa da Riad. Qui abbiamo fatto un dibattito nel quale pare che Haftar sia una pedina dei francesi, ma a me pare che sia una pedina di signori che gli hanno dato i soldi in tasca, che vengono dal Golfo e che non vorrei avessero dato soldi in tasca anche a stretti collaboratori di persone che si trovano dall'altra parte dell'Atlantico.

Pag. 10

  PINO CABRAS. Nel ritratto che il dottor Varvelli ha fatto della situazione libica ci sono tutti gli elementi di un'enorme confusione strutturale che si è creata a seguito della guerra del 2011.
  Contrariamente al precedente intervento del collega Valentini, vorrei affrontare questa questione, perché è stata un disastro geopolitico di cui paghiamo le conseguenze. Le classi dirigenti dell'Europa dovranno fare prima o poi una grande autocritica su quella operazione, per i calcoli sbagliati che hanno fatto e, se non erano sbagliati, erano criminali perché creavano caos.
  Se oggi abbiamo una situazione in cui dominano i signori della guerra, questo è dovuto anche al fatto che fu sterminata una classe dirigente, e l'Europa ebbe purtroppo un ruolo in questo, perché veniva segnalata sul campo, ad esempio, la casa del dirigente delle poste di un villaggio libico, che era un elemento dell'ossatura di quello strano stato che era la Giamahiria, e quella persona veniva uccisa con tutta la sua famiglia. Con questo sterminio sistematico di decine di migliaia di persone si è distrutta l'ossatura di uno Stato, e questo ha creato il caos che conosciamo oggi.
  Ora, dopo aver distrutto tutto questo, è difficile ricostruire. Non lo può fare, e concordo moltissimo con l'analisi del dottor Varvelli, un solo soggetto che pretenda di essere l'unificatore, il federatore, non si sa di che cosa, attraverso un'imposizione semplicemente militare. Se Haftar conquistasse il milione e 200 mila abitanti di Tripoli, si troverebbe un milione e 200 mila oppositori, anche molto agguerriti e molto determinati. Non ha le basi per imporre una sua signoria sull'insieme della Libia, se non in forme estremamente violente, che lascerebbero la latenza di un conflitto molto grave.
  Allo stesso modo, noi giustamente appoggiamo la continuità di Governo, la legittimità internazionale, perché queste cose, ogni volta che sono state sacrificate, hanno creato guai peggiori di quelli che si voleva risolvere. È giusto che abbiamo un'interlocuzione fondamentale con al-Sarraj. Bisognerà pensare al futuro con soggetti anche legati alla tradizione libica, probabilmente, trovare degli interlocutori non dico nella famiglia reale di un tempo, ma con un ragionamento di quel tipo, interlocutori un po’ fuori dai giochi per ristabilizzare la Libia.
  E credo che sia fondamentale un approccio multilaterale. Nessuno sta rinunciando all'approccio multilaterale in questo momento, neanche la Francia, che su certi scenari si scontra con la Russia. In Libia, sostanzialmente è alleata della Russia, ad esempio. La Russia su certi scenari si scontra con i sauditi, ma fa accordi con i sauditi nella governance delle situazioni militari della Libia.
  Su tutto, credo che bisognerebbe far rispettare l'embargo, fare delle azioni internazionali. Questo è un appello che faccio ai colleghi per strutturare una risoluzione che non voglia mettere le braghe al mondo, ma che cerchi di ragionare su come far rispettare l'embargo per la Libia. Ci sono tanti soggetti che non lo rispettano, che stanno alimentando via via la guerra, soggetti deboli, che altrimenti non avrebbero nessun ruolo internazionale, ma che si trovano in mano armi molto potenti. Credo che questo potrebbe trovare orecchie attente anche in alcune grandi potenze con cui dialoghiamo. Su questo dovremmo perseguire, credo, un'azione costante nel tempo.

  LIA QUARTAPELLE PROCOPIO. Ringrazio molto per la relazione, che dà conto della complessità storica, geografica e geopolitica della situazione in Libia. Porrò due questioni.
  Se ne parla sempre poco, ma credo che sia di altrettanto interesse la vicenda del sud del Paese. La relazione ci invitava a non pensare a tutto come a un derby al-Sarraj-Haftar. Abbiamo sempre visto che, almeno nella strategia italiana, c'era la volontà di coinvolgere il sud del Paese. Se ne parla molto poco. Se ci potesse dare un riscontro sulla situazione, se, quanto e con chi sono coinvolte le cosiddette tribù nel sud del Paese, credo che potrebbe aiutare moltissimo.
  La seconda è una questione più di ordine generale. Oggi, la strategia italiana è Pag. 11sostanzialmente fallita. Era la strategia di un riconoscimento internazionale appoggiandosi all'ONU e agli Stati Uniti, cercando di costruire un consenso ampio intorno alla figura di un Governo riconosciuto internazionalmente. C'è stato uno spostamento di forze. Il fatto che l'attacco sia avvenuto nel giorno in cui il Segretario Generale delle Nazioni Unite era presente a Tripoli non è un caso. Gli Stati Uniti si sono spostati. Come diceva Lei, ricondurre tutto a un derby al-Sarraj-Haftar non può che essere molto difficile per il nostro Paese, per le tante ragioni che sono state elencate.
  Qual è lo spazio per aprire un dialogo di tipo diverso? Haftar, come dice Lei e come dicono anche tanti altri osservatori, non riuscirà a conquistare Tripoli, se non a prezzi molto alti di una guerra protratta. Forse, non ne ha neanche la forza militare. Al tempo stesso, si è consolidato molto in questi mesi, politicamente più che militarmente e territorialmente. In questo c'è la possibilità di un'altra iniziativa? In che senso? Da dove si può cominciare a ripartire?
  Abbiamo avuto in audizione, venerdì scorso, il Ministro degli affari esteri, che diceva che l'Italia è impegnata in un dialogo costruttivo. La valutazione che noi abbiamo dato è che in realtà l'etichetta «dialogo costruttivo» riguardi più che altro iniziative diplomatiche di stampo un po’ burocratico, per dire che si sta facendo qualcosa. C'è una strada politica alternativa o per il momento dobbiamo accettare che la strategia italiana sia arrivata alla fine?
  L'ultima questione riguarda la Russia, molto esposta su tanti teatri del Mediterraneo, a partire dalla Siria, con un costo alto in un momento in cui il Paese sta faticando. È vero, le elezioni in Ucraina hanno aperto una possibilità di dialogo e anche di alleggerimento sul fronte ucraino, che però è stata subito rigettata da Putin, quindi la Russia resterà impegnata in Ucraina e in Siria con un peso economico rilevante. Abbiamo visto che è più attiva sul fronte libico.
  Io vorrei sapere se, a suo giudizio, questo è un attivismo su cui è stata portata in modo riluttante. O la Russia ha interesse a esserci? E perché? Alcuni osservatori dicono che l'esposizione sul fronte ucraino, e sul fronte siriano in particolare, è già troppo onerosa, e quindi la Russia è stata un po’ tirata da Haftar. Altri osservatori, invece, fanno riflettere sul fatto che la Libia è la porta verso l'Europa, una porta strategica dal punto di vista del governo dei flussi migratori e del governo dei flussi energetici.
  Ci sarebbe, quindi, un elemento di strategicità nell'aprire un terzo fronte, che può mettere in crisi l'Unione europea, dopo le elezioni europee, che rischia ancora di essere più esposta e più sensibile ad azioni di destabilizzazione che possono partire dalla Libia, in modo deliberato o casuale, nel senso che la guerra coinvolgerebbe così tanto i due fronti che non ci sarebbe più il governo né sul fronte migratorio né su quello energetico. Per la Russia, quindi, sarebbe assolutamente interessante essere lì a creare un altro fronte di destabilizzazione per l'Unione europea. Credo che questo sia un punto da tenere molto in considerazione anche quando parliamo di Italia e Libia.

  EMILIO CARELLI. Ringrazio anch'io per l'illustrazione e l'analisi della crisi, molto esaurienti.
  La mia domanda è questa: a suo parere, c'è un'azione concreta, un gesto eclatante e immediato che l'Italia potrebbe intraprendere per uscire da quell'atteggiamento di debolezza che secondo la sua analisi ha un po’ caratterizzato tutta la politica estera italiana nei confronti della Libia a partire dal 2011?
  Qui è stata sollevata anche la questione di un'analisi di quanto accadde all'inizio di questa crisi. L'hanno sollevato i colleghi Valentini e Cabras. Siamo ancora vicini, di solito l'analisi storica richiede che passi un po’ di tempo, e qui sono passati solamente otto anni, ma sicuramente bisognerebbe analizzare bene che cosa è successo nel 2011. Ricordo molto bene che l'Italia – il collega Valentini, il più stretto consulente di politica estera dell'allora Presidente del Consiglio, potrebbe confermarlo – sicuramente non era d'accordo sulla posizione Pag. 12della Francia e di altre potenze di aggressione al regime di Gheddafi. Da lì bisognerebbe capire come mai è nata questa posizione poi di debolezza e come mai è perdurata nel tempo. Come uscire da questa posizione di debolezza e tornare a giocare un ruolo da protagonisti?
  Inoltre, Lei ha detto di evitare l'errore di saltare sul carro del presunto vincitore. Lei, quindi, ipotizza che Haftar sarà comunque il vincitore di questo duello, nonostante le difficoltà nell'assedio di Tripoli di queste settimane?

  SIMONE BILLI. Anch'io La ringrazio per la sua presenza qui oggi. Considerando la situazione estremamente frammentata che tutti noi conosciamo in Libia, gli interessi tribali, i signori della guerra, la definizione – che mi è piaciuta – della confusione strutturale che ha utilizzato il nostro collega Cabras per definire la situazione in Libia; considerando che tenere unite tutte queste forze estremamente centrifughe in un unico Paese e in un unico Governo a oggi non sembra una soluzione semplice o troppo realistica; a suo parere, invece che tenere unito il Paese, si potrebbe forse ipotizzare un Paese diviso politicamente per cercare di realizzare in modo concreto innanzitutto il rispetto delle esigenze di tutte le parti in causa e poi garantire molto meglio la pace e la prosperità della Libia? Che cosa pensa di una soluzione di questo tipo?

  PRESIDENTE. Ringrazio i colleghi.
  Darei ora la parola al nostro ospite per intervenire in sede di replica.

  ARTURO VARVELLI, Senior Research Fellow e condirettore del Centro Medio Oriente e Nord Africa dell'Istituto per gli studi di politica internazionale (ISPI). Grazie molte delle vostre suggestioni. Tutte sono centrate, ma è altrettanto difficile dare una risposta esauriente da questo punto di vista. Cercherò di fare del mio meglio.
  Quanto al Ministro Le Drian, egli ha sostenuto nell'intervista che Haftar è parte della soluzione. Le Drian, manifesta ancora, sostanzialmente, l'idea di trasformare Haftar in un attore politico.
  Naturalmente, la Francia non è che possa capovolgere completamente la propria posizione. Deve tenere essa stessa la barra dritta, e i suoi interessi sono sempre quelli, rimangono importanti. Rimane un contenimento del terrorismo, soprattutto dopo gli attacchi di Parigi del novembre 2015. La Francia si è manifestata molto sensibile, molto più di quanto lo siamo noi. Per nostra fortuna, non ci sono stati attacchi di quel tenore in Italia. Soprattutto, ha interessi importanti in Cirenaica, e Haftar si è fatto paladino di quegli interessi. Naturalmente, non è pensabile un capovolgimento a 180 gradi della politica estera francese.
  Da questo punto di vista, però, mi sembra che stia un po’ subentrando l'idea che questo cavallo non sia così vincente. Sta nei fatti. La posizione francese dovrebbe, quindi, in qualche maniera stemperarsi da questo punto di vista.
  Allo stesso tempo, però, nella stessa intervista si sposa la causa della narrativa di Haftar, sostanzialmente. Si dice che Haftar ha contrastato il terrorismo. Poi bisogna anche capire bene che cos'è il contrasto al terrorismo di Haftar. Basta pensare a quello che è successo a Derna, dove c'è stato un quarto della popolazione uccisa o sfollata. Sì, controterrorismo, devastazione totale... Non so se state guardando – permettetemi una battuta – Game of Thrones, ma anche la regina dei draghi ha fatto controterrorismo l'altra sera, cioè ha distrutto un'intera città. Non è quello il controterrorismo vero.
  Da questo punto di vista, certo i francesi devono continuare a sposare questa linea, ma io penso che siano pronti anche a rivedere delle scelte, come tutto sommato lo siamo stati noi, che abbiamo deciso, soprattutto con Palermo, di dare una visibilità maggiore all'apertura ad Haftar.
  Trump: che fare? È una domanda molto difficile. Abbiamo poco leverage su Trump, naturalmente. Penso che non fosse sbagliata l'idea del Presidente del Consiglio Conte l'anno scorso, quando si è recato a luglio in visita a Washington. Come Italia non è che possiamo chiedere molte cose. Pag. 13Possiamo chiedere una cosa. E la cosa era stata chiesta nella maniera corretta, ossia una sorta di carta bianca, un mandato sul Mediterraneo, e sulla Libia in particolare. Bisogna, però, poi avere anche la capacità di supportarlo. Forse, lì siamo venuti meno dopo. Le monarchie del Golfo hanno una leva maggiore della nostra. In realtà, probabilmente avremmo dovuto supportare in maniera diversa l'azione di questa cabina di regia dentro il quadro mediterraneo.
  Una cosa che poteva essere fatta, ma probabilmente ci sono ragioni che non conosco, era l'apertura del consolato a Bengasi. Ci abbiamo messo forse un po’ troppo tempo. Aprirlo adesso sarebbe un input politico. Verrebbe percepito come un passo politico forse inopportuno. Certamente, però, ci avrebbe messo in una condizione diversa rispetto a quello che è successo se fosse stato aperto a gennaio o a febbraio. Ormai è andata da questo punto di vista.
  Quanto al timing, mi pare che fosse l'onorevole Valentini a chiedere come mai Haftar sia intervenuto proprio ora. Io mi sono fatto un'idea.
  Haftar stava per andare a Ghadames. C'era la Conferenza di Ghadames da lì a qualche giorno, sostanzialmente la settimana successiva. Come ne sarebbe uscito Haftar? Probabilmente, come Capo di Stato maggiore dell'esercito libico, cioè il più importante uomo dal punto di vista militare, ma non era la sua ambizione. Lui ha pensato, con il supporto internazionale e con il grado di consenso nella popolazione che aveva in quel preciso momento, di prendersi tutta la torta.
  Da Ghadames sarebbe uscito con le mani legate. Sarebbe stato il capo militare, ma sotto un'autorità civile all'interno del Governo di unità nazionale. Ed è per questo, temo, che ha voluto fare quest'accelerazione, entrando nella capitale. Questo lo avrebbe posto in una condizione molto diversa. Sostanzialmente, le Nazioni Unite avrebbero dovuto sancire la sua vittoria. Ha cercato, quindi, e ha dato quell'impulso militare alla vicenda libica per non farsi imbrigliare nella Conferenza delle Nazioni Unite.
  Questo ha manifestato anche come vi fosse una debolezza nel dialogo che le Nazioni Unite avevano messo in piedi e anche una duplicità di Haftar stesso, che certamente si diceva disposto a mediare, stringeva le mani, ma poi, tornato in patria, ha fatto ciò che più desiderava, che era cercare di prendersi il Paese.
  Quello della spaccatura della Libia è un tema che è uscito da diversi interventi.
  I libici avrebbero bisogno di un momento di riflessione. Secondo me, l'errore più grande della comunità internazionale è stato non offrire ai libici questo momento tra la fine del 2011 e il 2012. Era esattamente quello il momento giusto, nel quale cadeva il regime di Gheddafi e insieme ad esso non cadeva solamente un leader, un dittatore, ma cadeva uno Stato. Lo Stato libico, la Giamahiria, esisteva solamente attorno alla figura di Mu'ammar Gheddafi. Quando cade Gheddafi, cadono tutte le strutture. Gheddafi governava a livello informale, non a livello formale. Non c'erano istituzioni a cui aggrapparsi.
  I libici hanno un'identità nazionale molto debole. La Libia è una creazione italiana. Tutto sommato, però, uno spirito nazionale probabilmente esiste, che deve essere mediato con lo spirito regionalistico, un'identità regionalistica e un'identità locale-tribale.
  I libici avrebbero avuto bisogno realmente di un periodo nel quale fare una riflessione: che cosa vogliamo essere? vogliamo essere tre Stati? vogliamo essere uno Stato federato? vogliamo essere uno Stato con un'ampia autonomia alle autorità locali e alle città? Una città-Stato come Misurata, ad esempio, deve essere tenuta sempre in considerazione.
  Questo momento non c'è mai stato.
  Sostanzialmente, per me è molto pericolosa una divisione del Paese. È pericolosa perché in un momento di conflittualità creerebbe queste nuove identità prevalentemente in antitesi all'altra identità. Quello che ci troveremmo ad avere sarebbe una perenne conflittualità tra queste entità, con un grosso problema, che è quello della spartizione delle risorse energetiche. Pag. 14
  Se accettiamo questo, accettiamo anche il fatto di avere delle rivendicazioni continue sulla distribuzione di queste risorse, sullo sfruttamento di queste risorse. E il pericolo da un punto di vista prettamente di interesse nazionale è di avere una Cirenaica nemica. Il rischio è quello. Mentre magari ci troveremmo una Tripolitania amica, ci troveremmo una Cirenaica, che comunque sta alle porte di casa, che ci guarda perlomeno con molto scetticismo. Questo penso che sia il rischio.
  Se volete, apriamo il capitolo del 2011. Di origine sono uno storico, ed è molto difficile fare lo storico non avendo le fonti a disposizioni, ma avendo le attuali fonti ... Io non sono mai stato un detrattore dell'accordo italo-libico del 2008. Penso che fosse un accordo che andava nell'interesse italiano, che fosse un accordo intelligente, che chiudeva un capitolo e rilanciava una cooperazione economica per noi essenziale, e la rilanciava in una maniera corretta e intelligente, tra l'altro coinvolgendo aziende italiane sul territorio libico.
  Penso che l'errore alla base di quell'accordo fosse il fatto poi di non essere riusciti a sorreggerlo sul piano multilaterale. Quell'accordo esclusivo, bilaterale tra Roma e Tripoli è stato percepito, in parte, come una minaccia dagli altri nostri attori concorrenti, che sono gli attori europei, in particolare la Francia e la Gran Bretagna, a cui poi si deve quell'intervento.
  Se fossimo stati capaci di fare un po’ la famosa «politica del ponte», che ci veniva bene negli anni settanta-ottanta, di far percepire quello come un accordo di mutuo interesse anche per i nostri partner europei, probabilmente Francia e Gran Bretagna nel marzo del 2011 non avrebbero deciso di intervenire militarmente – e loro sì in maniera unilaterale – come fecero.
  Potevamo tenere un'altra posizione? È difficile dirlo. Quando hai la pressione degli Stati Uniti, dei tuoi alleati che intervengono, è molto difficile pensare di poter avere una posizione diversa. Probabilmente, l'unica altra posizione che sul piano teorico sarebbe stata possibile sarebbe stata quella di neutralismo. Questo ci avrebbe messo, probabilmente, in una condizione migliore nelle fasi successive post caduta del regime di Gheddafi, ma naturalmente anche qua siamo nelle ipotesi di «se» e «ma».
  Certo, fu percepito da parte italiana l'ennesimo giro di valzer: siamo pronti in ogni caso a tradire le nostre linee politiche.
  Cabras diceva che l'embargo sarebbe un elemento essenziale. Continuano ad arrivare in Libia armamenti da una parte e dall'altra. Arrivano, probabilmente, dal Golfo, da entrambe le parti del Golfo, e tutto sommato tendono a compensarsi. Se arrivano i droni da una parte, vediamo la settimana successiva che anche il Governo di unità nazionale si è dotato di droni. Non li costruiscono, non hanno le fabbriche di droni, quindi queste armi arrivano da fuori.
  Questo fa sì che vi sia un’escalation militare, ma anche uno stallo politico ancora maggiore, e il rischio è di recrudescenze ulteriori sul piano delle vittime civili e via dicendo. Sarebbe assolutamente essenziale sensibilizzare, per quanto può farlo l'Italia, la comunità internazionale da questo punto di vista. Tutto sommato, però, la comunità internazionale è composta dalle stesse forze che forniscono queste armi a entrambe le parti.
  Trovare qualcuno fuori dai giochi nel prossimo futuro sarebbe essenziale. Purtroppo, la Libia si è un po’ bruciata tutti i padri della patria. Da questo punto di vista, non bisogna illuderci che vi sia una scorciatoia. Il lavoro è molto lungo, e arrivo anche alla domanda di Carelli, che chiedeva se abbiamo un asso nella manica, un jolly o qualcosa di simile da giocarci.
  Penso che la strada, da questo punto di vista, sia tutta in salita. Mettiamoci il cuore in pace, bisogna lavorare duramente per far percepire alla comunità internazionale che le scorciatoie non funzionano. Abbiamo già provato tante volte in Libia le scorciatoie. L'intervento armato del 2011 era una scorciatoia, questo intervento di Haftar è un'altra scorciatoia. Fomentare le varie parti che ci piacciono di più all'interno del Paese è una scorciatoia.
  Le scorciatoie continuano a procrastinare il punto di svolta della crisi libica. E non è nel nostro interesse. In realtà, forse Pag. 15noi siamo l'unica vera potenza che non ha interesse o la potenza che, più delle altre, raccoglie direttamente le conseguenze di quest'insicurezza, di quest'instabilità.
  Da questo punto di vista, il nostro è un naturale ruolo di mediazione, di potenziale mediatore. Bisogna essere capaci di parlare.
  Nell'ottica di equilibri libici locali, bisogna tener presente che una parte importante dovrebbe essere assegnata a Misurata, più di quanto non sia stato. Misurata è forse attualmente la vincitrice di questo scontro sul piano militare: ha impedito a Haftar di entrare a Tripoli. La sua visibilità politica nel corso delle lunghe trattative delle Nazioni Unite è stata sottostimata; con questo gesto ribadisce sostanzialmente che ci sono anche loro a che devono essere tenuti presenti.
  Ad Abu Dhabi, per esempio, si stava pensando a un meccanismo nel quale ci sarebbe stato un nuovo Consiglio presidenziale con cinque membri, con al-Sarraj e Haftar e con un potere di veto all'interno. Questo escludeva Misurata.
  In realtà, il sistema è più complesso. Al-Sarraj avrà un debito di riconoscenza nei confronti di Misurata, a questo punto. Questo rende gli equilibri libici non a due, come dicevo prima, ma almeno a tre, se non a quattro o a cinque, tenendo presente che Haftar, sì, rappresenta l'est, ma forse non lo riesce a rappresentare tutto, e che il sud rimane non rappresentato.
  Secondo me, venendo alla domanda dell'onorevole Quartapelle Procopio, il sud avrebbe bisogno di essere in qualche maniera rappresentato maggiormente, ma è molto difficile, data la frammentazione, per certi versi anche etnica, del sud.
  Haftar ha giocato molto sulle rivalità del sud. Prima, si è fatto sponsorizzare dai Tebu, la popolazione nera autoctona, e poi li ha abbandonati quando ha capito che il Ciad gli poteva offrire di più e si è preso i mercenari ciadiani, che sono avversari dei Tebu, che lo hanno abbandonato dall'altra parte.
  Tutto quanto è veramente un gioco di opportunismo. Talvolta, è più difficile ricostruire una situazione come questa che una di scontro ideologico.
  Secondo me, aveva fatto bene il precedente Governo a lavorare sul sud, e i risultati si sono visti. Secondo me, qualcosa nel sud potrebbe essere fatto nuovamente per stabilizzare quell'area, che per noi è importante per diverse motivazioni, lo sappiamo bene.
  Penso di aver toccato quasi tutti i temi.
  Una domanda centrale era da dove ripartire, era la domanda essenziale e più difficile di tutte.
  Io torno a quei due punti che avevo accennato: come integrare le milizie, come trasformare le milizie da attori negativi in attori positivi; la distribuzione delle risorse, della rendita.
  Se vogliamo ripartire, partiamo senza ipocrisie da ciò che conta. Le Nazioni Unite, da Skhirat in poi, hanno preso una strada un po’ di fiction. Parliamo con i referenti politici, quando in realtà i referenti politici contano poco. Vengono convocati a Parigi, firmano un accordo con Macron, che sostanzialmente cerca di obbligarli, ed è tutto un po’ improvvisato. Loro firmano perché non si possono tirare indietro davanti alle telecamere. Quando, però, tornano in Libia, hanno i miliziani che chiedono: scusate, ma che cosa avete firmato? La debolezza è quella.
  È vero che sono tutti delle canaglie, però dobbiamo in qualche maniera coinvolgere queste canaglie nelle trattative, che si fanno con chi fa la guerra, non con chi non la fa. Parlare per interposta persona rende molto più complesso lo scenario. Bisognerebbe scendere a un livello di mediazione diverso, forse più difficile, ma che può essere più produttivo; parlare di ciò che conta, la redistribuzione delle risorse. Tutto sommato, è una gara alle risorse, quindi la città di Misurata vorrà sapere quante risorse vengono destinate ad essa; Tripoli vorrà avere delle garanzie che Haftar non si stacca con tutta la Sirtica e vende il petrolio per i cavoli suoi; probabilmente, anche elementi della Cirenaica, che adesso hanno trovato un federatore in Haftar, sono però disposte a scendere a un accordo e a dire che la Cirenaica è sempre stata la parte Pag. 16sottovalutata durante il regime di Gheddafi da ogni punto di vista, politico ed economico, e che vogliono la loro fetta, pronti a mediare per decidere quale parte di fetta avere.
  Bisogna mettere in gioco gli unici assi che abbiamo. Questo deriva da una lettura più chiara e meno superficiale della crisi libica. È molto più complesso farlo capire ai nostri partner, che siano quelli del Golfo, che sia la Russia, che siano gli Stati Uniti. L'altra strada ci ha portato sostanzialmente a continuare ad avere una crisi costante con dei picchi e con delle fasi di stabilità maggiore, ma non l'abbiamo mai risolta. È dal 2011 che andiamo avanti così.
  Le elezioni potrebbero essere una svolta, ma funzionano solamente quando si è stabilito il campo della contesa. Quando non si è stabilito il campo della contesa, com'è successo nel 2014, ci sono state le elezioni e c'è stata una nuova fase di polarizzazione. Nessuno ha riconosciuto come legittima l'altra parte. Chi ha vinto non ha riconosciuto come legittima la parte perdente; chi ha perso non ha riconosciuto come legittima la parte vincente. Il Paese si è, quindi, spaccato in due, con i due Governi.
  Fare le elezioni, sì, ma bisogna arrivarci dopo una fase in cui si è stabilito il terreno della contesa. In questo momento, è molto difficile pensare che ci possa essere una possibilità di elezioni nel prossimo futuro, è molto difficile pensare a obiettivi che vadano al di là del cessate il fuoco. Per me, si dovrebbe cominciare a portare a casa un cessate il fuoco. A quel punto, la palla passerebbe sul campo della mediazione politica più che di quella militare, e questo sarebbe già un successo.

  PRESIDENTE. Non essendoci altri interventi da parte dei colleghi, concluderei qui quest'audizione di oggi, ringraziando nuovamente il dottor Varvelli per la sua disponibilità.
  Dichiaro conclusa l'audizione.

  La seduta termina alle 11.45.